LO SCUDO DELLA FEDE (234)

LO SCUDO DELLA FEDE (234)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (5)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO III

ART. III.

Le Campane.

Solo la Chiesa Cattolica poteva, e doveva inventare le campane, od almeno introdurle al grande uso, per cui sono destinate. Abbiamo detto: almeno introdurle al grand’uso; perché troviamo antiche memorie de’ campanelli; ma le campane propriamente dette, come ora le abbiamo, pare s’introducessero sol dopo cessate le persecuzioni. Quando la Chiesa di Dio vivente non era altrove sicura che nell’oblio, possiam esser certi che non si convocavano i fedeli a suon di campane o di crotali. Dice taluno, che usassero di quella vece le raganelle; e potrebbe esserne un indizio il vederle anche fra noi adoperate nella settimana santa: pei quali giorni si conservarono ancora in uso i riti più antichi. Ma anche questo non si poteva fare, se non dopo ottenuta la pace. Nel tempo delle persecuzioni bisognava che si avvertissero i fedeli, di casa in casa, con rapidità, con modi che non gli scoprissero. – Troviamo presso i Romani fatta menzione di segni, che si davano con bronzi sonanti, e presso i Cristiani di segni, con cui si raccoglieva il popolo in Chiesa: e dagli storici di Venezia abbiamo, che il Doge Orso Partecipazio nell’anno 865 mandò le prime campane all’Imperatore Michele da mettere a Santa Sofia. Non se ne conosce però l’inventore. Il nome poi di campana pare venisse loro dato dalle fonderie, che si stabilirono nella Campania, celebre per l’eccellente bronzo, o forse anche perché là furono prima adoperate. Questo indicherebbe il nome loro dato indi aes Nolanum o Nolæ, cioè bronzo di Nola, da Nola città di Campania, a dodici miglia da Napoli (Cantù: Storia Universale). Certo è però che la Chiesa, questa società dei fedeli, sposata a Dio, quando uscì alla luce e poté respirare in libertà, e spiegare nei maestosi suoi riti i disegni della carità di Dio, da cui è informata, non poteva trovare strumento meglio adatto per comunicare continuamente, come in famiglia ai figliuoli sparsi d’intorno, i suoi pensieri. E in vero quanto sublime è questo concetto! Questa sposa del Signore, e ne diffonde il suo spirito per tutto 1° universo, dove trova un gruppo d’abitazioni, alcuni uomini raccolti in società, li lega in famiglia, e vi colloca in mezzo il centro dei suoi affetti, ponendovi da adorare nella loro chiesuola Gesù Cristo, amante nascosto sotto i veli del Sacramento nella misteriosa celletta del sacro ciborio. Quivi col cuore suo nel suo Tesoro, è dove propriamente vive d’amore. Ora, come il cuore dell’uomo diffonde coi suoi battiti per le membra quel calore di vita, di cui è focolare, così dalle chiese colle ripetute scosse delle campane si spandono intorno con rapida onda sonora in tutti i medesimi pensieri, i medesimi affetti; e si trasfonde sull’istante, come elettrica un’aura di carità. Oh si, la carità sa pure inventare i belli ingegni e più industriosi e delicati! Ella in mille arcane maniere infonde la vita anche nelle più morte cose, e, informandole, le travolge nei suoi movimenti, come il vortice della vita animale assorbe le molecole dei corpi inanimati, e se le incorpora alla vitalità, assimilandole. Ecco che qui obbliga sino il metallo, a dire parole, a cantare, a sospirare con essa; anzi costringe fino a pigliare sopra le loro ali a portare intorno a tutti i fedeli, colle soavi emozioni, ì cenni della Madre Chiesa. Dalla parte dell’arte poi (Chateaubriand.) non vi è più sublime cosa di questo suono di maestosa armonia. Un flauto ti molce l’animo, e lo riempie di soavità: un violino pare che assottigli un fil di voce delicatissimo per sposarsi al tuo pensiero e corrergli flessibile come esso, agile e presto; ma il suono di molte campane ti scuote potentemente, e ti rapisce in più sublime atmosfera, e ti fa sentire nella persona una vibrazione, che cerca inquieta d’intonarsi con un’armonia, la quale indovini dovere esistere, ma più in su, fuori della sfera di attrazione di questa bassa terra. – Hanno alcuni fatto prova d’introdurre la campana sulle scene dei teatri; ebbene, anche là, in mezzo agli svariati concerti, che ti rubano l’animo obbligato a correre dietro ed una scherzevole melodia; se si sente il rintocco d’una campana, l’animo ne resta sorpreso, è tarpato il volo ai fugaci pensieri; l’uomo è richiamato in se stesso da un’armonia più possente, che manda a nullo ogni altra impressione. Che se, nel silenzio di quel sublime incanto, l’uomo interrogasse sé stesso: anche là sul teatro, in mezzo a que’ spettacoli il cuor suo gli risponderebbe di grandi verità. E per vero quali segrete relazioni non ha il suono delle campane col nostro cuore? Quante volte in un’ora di mesta quiete, ti rimbombano intorno i rintocchi di un’agonia rassomiglianti alle lente pulsazioni di un cuor, che si spegne, e ti portano il pensiero agli aneliti di un boccheggiante morente! Tu ti segni di Croce, e corri colla tua preghiera a dare la mano al tuo fratello, che, sfinito di forze, sta nell’abbrivo dal tempo all’eternità! Hai pregato; ma la campana sospira ancora, e ti ripete all’orecchio: « dunque si more… si more… e dopo la morte?… Suono di terrore! eppure misto di tenerezza, anche quando senti l’intronar a stormo, con che la trepida campana grida ululando: « accorrete! » Allora ti pare in essa di udir la madre che grida: « coraggio, coraggio, o figliuoli; accorriamo, portiamo aiuto ai fratelli, in chi sa qual terribil frangente. » Ma poi, all’alba d’un di solenne, per cui l’aurora pare mandi una luce più gaia ad ornare di rose a festa il firmamento; mentre gli Angeli forse discenderanno in terra in devoto pellegrinaggio a visitare i benedetti luoghi consacrati dai divini misteri, e vedranno la luce rapida come il baleno inondar via via paesetti e campagne e città; le campane destano col suono di festa i fedeli a salutare con vergini pensieri insieme cogli angeli Maria. Maria, (la più bella idea di Dio incarnata in donna) ti sorride dinanzi come una visione di paradiso. Oltre a ciò non hai provato mai a trovarti sopra la vetta di un monticello sotto limpido cielo, quando tutti gli oesetti risplendono d’una cotal luce color di rosa, dalla quale pare che il sole accarezzi la terra per consolarla del suo partire? In quell’ora solenne e soave, da tutti quei paesetti, che incoronano i colli d’intorno, le campane in un istante, come se le inspirasse un comun pensiero, gareggian fra loro a salutar Maria. Allora l’anima tua con un casto affetto stende la mano a Maria, chiamandola soavemente come la bambina chiama di sera la mamma, perché la metta a riposo in seno a Dio. Sì, nella quiete dei campi, quando senti quell’argenteo tintinnio dalla torre della chiesuola, ti par che la religione ti spedisca l’Angelo della misericordia a quei popolani affaticati, per dir con essi: « Ave Maria; o Maria, il Figliuol di Dio è nato Bambino, ed abita qui tra noi poverini; » o mandi l’Angelo della giustizia a tuonar nel rintocco sul tumulto della città. » Sciagurati! voi correte a perdervi, se non date la mano alla Madre, che vi meni a salvarvi in seno a Gesù, che non curate d’avere con voi ». Ah! finalmente, se hai fede ancora, quando il suon di molte campane all’improvviso proclama nelle regioni delle nubi il trionfo del Dio delle battaglie; e quando in terra intuona gloria; o acclama tre volte santo il Dio fatto uomo, che abbiam tra le mani, od invita ad accogliere le benedizioni della sua bontà; allora colla potenza delle sacre onde sonore ti rapisce in cielo quell’armonia divina. – Ah! i protestanti quando non vollero più invocare per madre Maria, quando infransero il vincolo della carità, staccandosi dalla Madre Chiesa, allora abolirono le campane. Per loro 1’individuo basta a se stesso: e’ si foggia la religione che gli piace, e i figli della stessa famiglia possono aver diversa credenza: non hanno comunione, né società di spirituali interessi, non più relazioni cogli antichi amici in cielo, non più la comunione dei Santi: non più Gesù Cristo nel Sacramento. È spento tra essi il cuore della Chiesa; e non suona più la campana, che ne esprimeva il palpito. Vogliam dire che un avanzo di religione ammiserita, e spoglia di così care credenze, dovette rifiutare alla campana che le esprimeva sì bene. Ah! son forse i figli, che non vogliono più ascoltare la madre coloro, che fan guerra al suon delle campane nel nostro paese cattolico, in questa… miseria di tempi.

Dominus vobiscum.

Cessato il cantico della gloria di Dio, il Sacerdote si volta al popolo, e lo saluta, dicendo: Dominus vobiscum, » cioè: « il Signore sia con voi; » e il popolo gli risponde: « Et cum spiritu tuo; » ed anche collo spirito vostro. – Solo chi ha sortito dalla natura un cuor ben fatto, e chi è ritornato all’evangelica semplicità, è capace di gustare tutta la poesia d’un così caro saluto. Ella è questa una preghiera quanto più usitata e in bocca di tutti, altrettanto non curata e meno compresa. Perché col mal costume di esercitar le opere di Religione come pratiche esterne, senza che il cuor vi abbia parte, si mandano a male le istituzioni più sante. Noi ci fermeremo su questo saluto: e 1° ne daremo la storia; 2° studieremo le cerimonie che lo accompagnano, ed i suoi significati, per poterlo praticare collo spirito della Chiesa, che l’ha sempre in bocca. « Dominus tecum: il Signore sia con voi, o benedetta tra le donne; » disse anche 1’Angelo a Maria Santissima, quando entrò ad annunziarle, che ella era eletta da Dio all’altissima dignità di essere Madre del Figliuol suo. La grazia di Dio, la carità di Gesù Cristo, la comunicazione dello Spirito Santo sia con voi; questi e simili saluti usavano gli Apostoli, quando mandavano ai fedeli quelle loro lettere inspirate da Dio. Di qui adunque la pratica della Chiesa, che fa i suoi figliuoli salutare dal Sacerdote con questa bella orazione: « Dominus vobiscum. » Questo saluto fu già usato dai Patriarchi dell’antico testamento, uomini santi, che, camminando continuamente innanzi a Dio, pieni di Dio la mente e il cuore, col nome di Lui su tutto invocavano la benedizione celeste (Ruth II, 4; Judic. VI, 12.). Fino dai più antichi secoli fu in uso nella Chiesa. – I Vescovi nondimeno, ancora al tempo presente, invece di dire: « il Signore sia con voi, »- dicono: « Pax vobis, la pace sia con voi. » Questa differenza vuol essere derivata da ciò, che il Gloria în excelsis era nei tempi antichi riserbato da poterlo cantare nel Sacrificio, quando celebravano i Vescovi, i quali, finito il cantico, pregavano appunto sul popolo quella pace, che erasi dagli Angioli annunziata. Forse gli antichi Vescovi si ricordavano del beato Giovanni, apostolo della carità, quando, cadente di vecchiezza e stremo di vita, barcollando fra le braccia dei suoi discepoli e tremante di tenerezza si faceva portare in mezzo alla chiesa. Egli là non potendo predicare più a lungo; « 0 figliuoli miei, diceva, amatevi l’un l’altro, » e taceva; tornava ancora l’altro di a dire per tutta istruzione: « figliuoli miei, amatevi l’un l’altro; » e pensava aver detto tutto, che bastasse a farli buoni: quando i suoi discepoli, forse alquanto annoiati della solita predica: Maestro, dissero, diteci altre cose sublimi, voi che tante ne avete gustato, dormendo sul petto del Salvatore! No, risponde da uomo inspirato l’Apostolo d’amore, voglio dirvi solo questo, perché, se lo praticherete, vi basterà a tutto (S. Hier., De script. Eccl.). E voleva dire che la pace nelle famiglie, e la carità del prossimo, è l’anima di tutte le virtù. Osserviamo che il saluto, che fa qui il Sacerdote al popolo, e questo d’invocar Dio sopra di lui col « Dominus vobiscum » si prepone dal Sacerdote in tutte le pratiche di religione, e tutte le orazioni che deve recitare. Come una volta non pure i fedeli, ma anche i pagani non si vergognavano di pregare l’assistenza divina in tutte le pratiche della vita, e fino all’incontrarsi si salutavano, invocando un Dio, che li proteggesse; così la Chiesa ancora tiene vivo questo costume piissimo; e, quando il Sacerdote ha da innalzare in suo nome una preghiera, ella vuole che si ricordi essere egli costituito quale ambasciatore tra Dio e gli uomini, interprete dei voti suoi, ed incaricato di portar innanzi a Dio i bisogni di tutti i suoi figliuoli. Mentre adunque anche in privato recita le sue orazioni, il Sacerdote, rivestito dell’augusto carattere di ministro di Dio, si solleva tra il cielo e la terra, e prima di trattare con Dio, si rivolge al popolo, che in Dio vede tutto presente; abbraccia, per dir così, in unione di spirito colla Madre Chiesa in seno a lei i suoi fratelli, e dice loro tratto tratto: « Dominus vobiscum, » il Signore sia con voi, senza di cui voi non altro avrete che miserie, osserva qui s. Agostino; adunque non vi affannate dietro l’ombra dei beni, che vi lusingano i sensi; vi ricordi, o fratelli, che la vostra felicità voi troverete in Dio solo, innanzi a cui porto i voti, effondo i gemiti per me e per voi: « Dominus vobiscum, » il Signore sia nei vostri pensieri, e vi faccia a sé dirigere tutte le operazioni della vostra vita « Dominus vobiscum, » il Signore sia nel vostro cuore, e questo amore riscaldato dal santo amor suo arda dinanzi alla Divinità, ovunque presente, come il braciere dell’incenso davanti all’altare: « Dominus vobiscum; » il Signore sia nei vostri travagli della povera vita, e, quando sarete stanchi delle schiave fatiche della terra d’esilio, levate gli occhi alla Gerusalemme celeste, ché la redenzione vostra si avvicina: « Dominus vobiscum: » il Signore vi accompagni nelle vostre tribolazioni, e, mentre vi strascinate sulle spalle il peso delle vostre croci, confortatevi guardando il gran capo Gesù, che vi precede colla croce sul Calvario: « Dominus vobiscum » sia con voi il Signore, o fratelli, e, pensando sempre alla divina presenza, apritegli i vostri pensieri; comunicategli le vostre intenzioni; versategli in seno il vostro cuore: e mentre anche il peccatore vive spensierato alla divina presenza, e commette fra le braccia di Dio stesso le sue iniquità, voi nelle vostre case, di mezzo ai vostri sollievi, in mezzo alle vostre fatiche, nelle prospere e nelle avverse cose, in tutte le più minute azioni abbiate di mira la gloria di Dio, la salute dell’anima; così camminando voi sempre con gran rispetto dinanzi a Dio, vi accompagni dovunque la sua grazia. – Ora cercheremo di spiegare le cerimonie, che accompagnano il Dominus vobiscum, che sono queste:

1. Giunge le mani sul petto innanzi al Crocefisso; 2. Si ferma in mezzo all’altare, e s’inchina alla Croce; 3. Bacia l’altare; 4. Si volge al popolo; 5. Allarga le braccia; e le stende verso di lui; 6. Stringe ancora le mani sul petto, e colle braccia strette così, torna all’altare.

1. Giunge adunque le mani sul petto innanzi al Crocefisso; il che significa che egli col popolo si guarda innanzi a Dio come tutta cosa di Lui, e come vittima legata dalla luce divina e morta alla propria volontà, si dà tutta in mano al voler divino, in unione della gran vittima, che va col popolo ad offrire.

2. Si ferma in mezzo all’altare, e s’inchina. L’altare, che rappresenta Gesù Cristo, è come la gran coppa ripiena dell’abbondanza delle divine misericordie da diffondere sopra del popolo. In mezzo adunque all’altare, donde scaturiscono tutte le grazie, il Sacerdote s’inchina; e vuol significare, che da un luogo così santo, così sublime, mentre dev’egli benedire il popolo, prima di tutto ha bisogno di chiamare sopra se stesso colla sua Umiltà le celesti benedizioni.

3. Bacia l’altare: è un trasporto d’amore, con cui bacia di cuore le piaghe di Gesù Cristo, e, quasi mettendo il labbro al santo Costato, attinge a quella fonte del Salvatore quell’acqua, che, mista al santissimo Sangue, sale sino a vita eterna.

4. Si rivolge al popolo. Da quell’altare ci pare di vedere l’uomo del Signore circondato da una aureola di Divinità, che lo rende venerando al popolo prostrato ai piè. Si legge di Mosè, che scendendo dal monte, coronato aveva il capo di raggi fulgenti, così che il popolo non poteva fissarlo in volto. Il Sacerdote invece rappresentante di Gesù Cristo, più che della maestà di Dio, rende immagine della mite dolcezza del Salvatore; e dimostra la carità di Lui, che colle mani aperte sulla Croce, con grida potenti e lagrime per noi al Padre, meritò di essere esaudito (Hebr. V, 7); e si volge ai redenti per consolarsi con essi.

5. Stende le mani allargate verso il popolo. Con questo rivolgersi al popolo, gli fa invito a ricevere Gesù Cristo, che gli porta i doni (Mansi, Del vero ecc. v. 2, lib. 4. Dove osserva che si replica sette volte nella Messa il Dominus vobiscum, per esprimerei sette doni dello Spirito Santo.) dello Spirito Santo. Ah! non ci pare egli di vedere qui Gesù desideroso di effondere nelle anime nostre i tesori della sua misericordia nel Sacerdote, che con Gesù sulla Croce allarga le braccia, le sue mani quasi adattando sulle mani piene di sangue dell’Amor Crocefisso in quella forma disteso? Ecco il Sacerdote dinanzi a Dio: anche Egli venerato pel suo carattere in Cielo sotto le sue braccia protegge il popolo fedele. Avendo Egli questi figliuoli generati alla Chiesa colla virtù del sangue di Gesù Cristo, con Gesù divide i diritti e le tenerezze di padre; e come tale nel salutarli li vuole accogliere in braccio per dar loro la sua santa benedizione, e dice: Dominus vobiscum.

6. Poi serra le braccia al seno, dando vedere con quell’atto, come egli col cuor largo in carità, con Gesù Cristo, tutti teneramente ci abbraccia e con tutti i nostri bisogni ci porta in petto sull’altare innanzi a Dio. Deh! vi può essere pratica più mdevota, più tenera di questo saluto comunissimo della Chiesa? – Il popolo risponde al Sacerdote: « Et cum spiritu tuo: e sia collo spirito tuo. » Questa risposta è l’espressione naturale d’un sentimento di gratitudine, ed è una preghiera che fa il popolo pel Sacerdote, che ne ha gran bisogno in quel momento in mezzo a quei tremendi misteri (S. Jo. Crys. Hom. 18, in 2 Cor.). Qual risposta è più all’uopo di questa, con cui il popolo risponde al gran saluto del Sacerdote, pregando che lo Spirito del Signore l’assista, e lo accompagni? Santa unione nel Signore! Il Sacerdote allarga le braccia al popolo per eccitarlo ad aprire le anime a ricevere i doni di Dio; il popolo gli corre fra le braccia, e prega Dio d’investir l anima del sacerdote col suo Santo Spirito. Ah! sì diciamo anche noi: « il Signore sia collo spirito tuo! » Lavori la perfezione dell’anima tua, ché la perfezione del Sacerdote è un tesoro pel popolo fedele. Egli ti doni tal santità, quale è conveniente al più che angelico tuo ministero. Et cum spiritu tuo. Il suo spirito ti spiri sul labbro la parola di vita, che ha da pascolar l’anima nostra: Egli t’investa lo spirito, e sii tu l’operator di miracoli di carità, col dare la vita alle anime infracidite nel vizio. Et cum Spiritu tuo: o uomo del Signore, sull’altar del Dio vivente rinnoverai il prodigio della verginal purità di Maria Santissima; nelle tue mani discenderà il Verbo eterno per l’onnipotenza della parola divina, che ti ha comunicata. Scambiatesi così tra Sacerdote e popolo le benedizioni, il Sacerdote si mette da un lato dell’altare, ai piedi della Croce, in atto di presentare coi suoi i voti raccolti da tutto il popolo. Prega come Mosè colle braccia alzate; ma più di Mosè fortunato, perché nel suo pregare ripara a sicurtà sotto l’ombra della Croce di Gesù, e non ha più paura di cadere morto sfolgorato dalla presenza della Divinità; e dice con confidenza:

Oremus.

Innalza le mani nel dire « Oremus, » come il condottiere del popolo del Signore sul monte Raphidim, esortando anche s. Paolo di pregare in ogni luogo con alzare le mani pure (I Tim. II). Il sacerdote colle mani levate a capo di tutti presenta coi suoi i voti di tutti i fedeli, i quali pure colle mani giunte, pregano il Padre della bontà, con confidente abbandono attaccatisi alla Croce, disposti a lasciarvi la vita; e qui egli s’inchina per eccitare tutti ad appoggiarsi al Crocefisso, e come vittime anch’essi mettersi colle mani legate nelle mani della giustizia divina sotto di essa. – Ecco l’uomo chiamato da Dio sul monte Santo, che nel momento di entrare in colloquio col Signore, prova il peso della sua infermità, e prega il popolo di tenerlo sollevato fra le braccia della preghiera comune, e dice ad alta voce, perché  loda « Oremus: preghiamo, » invitandolo così a pregare con lui. Egli adunque, come Mosè, si sente mancare la lena in tenere sul santo monte alzate al cielo le mani; poiché uomo infermo anch’esso, in quell’atto, tra i fedeli e il Crocefisso, gli tremano le braccia nell’invocare la benedizione e le vittorie sopra il popolo, nella fiera battaglia intorno allo stendardo di Gesù Cristo. Teme non forse la sua indegnità frapponga ostacolo alle grazie di Dio, e si raccomanda alla carità di tutti, perché lo confortino con le loro supplicazioni. In certo qual modo, dicendo « Oremus, » par voglia dire: « sì io pregherò; ma promettetemi di accompagnarmi voi pure colle vostre suppliche, mentre vado a rappresentare innanzi a Dio ì comuni nostri bisogni. » Quindi recita orazioni volgarmente dette gli « Oremus, » che nella Liturgia sono chiamate collette. – Santa carità di Gesù Cristo! Il Sacerdote per essa comprende i bisogni di ciascuno dei fedeli. Anzi lo stesso Spirito di Gesù Cristo si fa interprete di tutti i cuori, e formola quelle suppliche, che rispondono ai bisogni di tutti. Negli antichi tempi il Sacerdote recitava pubblicamente quella preghiera, che gli suggeriva la sua pietà. Tutta piena la sua mente dei misteri della santa Fede, che si celebravano, rapito in ispirito nell’ammirazione delle virtù di Maria SS. e dei Santi, commosso dalle pubbliche e private necessità gli fluivano bene sul labbro le più devote preghiere, piene di unzione e di carità. Accadeva una disgrazia? I nemici minacciavano di devastare l’Impero? La mano del Signore scuoteva il flagello sulle teste del popolo, coi suoi castighi già lo colpiva? Una sventura anche particolare opprimeva in modo un fedele da far rumore? Ecco i gemiti dell’uomo di Dio esprimevano coi sentimenti i voti del popolo, di cui era l’umile e dignitoso rappresentante (Microlog. De Eccles. obsecr.). – Quando il popolo si sente interpretare i suoi bisogni per bene così, e pubblicamente trattare col Signore i suoi più cari interessi dal ministro della Chiesa, quando sente a chiamare sopra l’anima propria, sopra la sua famiglia, e fino sopra le sue sostanze terrene le benedizioni celesti, ed interporre per lui i meriti dei Santi, della Regina del Cielo; e a tutte queste suppliche, non che altro, aggiungere ì meriti e il sangue di Gesù Cristo, quasi sigillo, che le rende autorevoli ed efficaci; il popolo risponde in armonia d’affetto; « Amen: così sia. » Avete ben detto quello che ciascun di noi voleva. La Chiesa formulò poi e compose, e ora mette innanzi già preparate per tutte queste brevi orazioni o collette od oremus che dir vogliamo. – Quelli, che hanno spirito di orazione, troveranno un gran pascolo in meditarle. Oltre ad essere le più belle forme di preghiera, piene di spirituale unzione e soavità, sono pure le espressioni più genuine e sincere dei sentimenti e della credenza della santa Chiesa Cattolica. Anche da queste ben si comprende come con Dio non è da andare in molte parole, poiché i gemiti, in che si sfoga un’anima compenetrata dai santi misteri, sono le preghiere migliori. Di fatto per lo più la Chiesa presso a poco prega così: « Padre celeste, vedete ciò che ha operato il Figliuol vostro qui sulla terra, e la vostra beatissima Sposa e nostra Madre Maria bagnata di sangue sotto la Croce! Ecco le virtù dei vostri servi: per i loro meriti, e tutto sempre per i meriti di Gesù Cristo, concedeteci che, nell’imitare così sante azioni, giungiamo con essi alla gran mercede, che siete Voi in paradiso. » Ecco ciò che ben dicono insomma gli Oremus. –  Queste collette e benedizioni, o sommarii, come si chiamarono talvolta, perché contenenti i voti di tutti (Bened. XIV, lib. 2, cap. 5, n. 1, De sac. Miss.), erano in uso fino dai primi secoli. A queste preghiere s. Pietro deve la liberazione miracolosa dal carcere (Act. X1.). Insieme pregando si confortavano i fedeli perseguitati. S. Giustino martire nell’Apologia presentata all imperator Adriano diceva: (Apol. I) « noi preghiamo (prima dell’offerta) fervidamente in comune così per voi, come per tutti quelli, che sono dei vostri, sparsi per le varie parti del mondo, affinché, venuti in conoscimento della verità, possiamo tutti per mezzo dell’opera e dell’osservanza dei Comandamenti conseguire l’eterna salute. » – Tertulliano nel suo Apologetico a diversi magistrati dell’impero Romano: « Noi Cristiani, diceva, noi Cristiani alzando gli occhi al cielo, colle braccia aperte, perché innocenti, col capo scoperto, perché non abbiamo di che arrossire; senza bisogno di rammentatore, perché l’orazione nostra la facciamo di cuore; preghiamo sempre lunga vita a’ Cesari tutti, impero sicuro, casa senza disgrazia, eserciti forti, senato fedele, popolo costumato, l’universo intero in pace. Laonde, gli uncini di ferro ci sbranino pure, così a Dio rivolti ci tengan sospesi ed inchiodati le croci, ci scannino le spade, le fiere ci assalgano… il Cristiano sta orando. Via, voi fate questo da bravi, o presidenti, cacciateci di corpo l’anima, che supplica Dio per l’imperatore; sarà questo il nostro delitto. » Poi dice ancora: « Dio ci ha posto il comando di pregar per tutti, anche per i nostri persecutori: massimamente pei re e per le podestà. » Scena commovente! Popoli intieri di perseguitati alla morte, appiattavansi nelle caverne: spiati che erano, venivano strascinati sui patiboli.. Lì piegavano il collo sotto la mannaia; morivano senza una parola, se non per dire al manigoldo, che tagliava la testa: « taglia pure, o fratello, ché io continuerò in cielo a pregare Gesù, che salvi l’anima tua! » Codardi i Romani! colla spada che aveva vinto il mondo, tagliavano la gola a femminette, a fanciulli, che nel morire pregando vincevano i vincitori del mondo. Oh, se Dio accettava quel priego suo/… Sì, abbiamo detto suo, perché gli uomini non avrebbero mai pregato pei loro nemici così, senza la grazia dell’Uomo-Dio, che moriva pregando per chi l’aveva inchiodato in croce… Ecco il carattere più evidente dei veri Cristiani. Intanto rovinavano i tempii delle disoneste divinità, si piantava la Croce sulle rovine dell’idolatria. L’impero pagano diventava cristiano. Sì; questi prodigi operavano forse più che altro i voti, e le suppliche di coloro, che andavano il di vegnente a morire condannati da quelli, per cui avevano così pietosamente pregato la notte passata. – Ora noi dobbiamo ben essere vilissimi, se ci lasciamo mancare dinanzi tanta eredità di fede, e di virtù; se nel pericolo non facciam violenza al cuore della divina bontà, perché ci salvi per sua misericordia. Santi Sacerdoti, infervorate il popolo a pregare con voi. Della Chiesa le necessità sono estreme: e noi in tanta pressura staremo tranquilli, freddi, vuoti di desideri? senza sentire un bisogno? senza una grazia da chiedere intorno all’altare? Già le nazioni si agitano, si arrovellano, sì battono, rivolgono già le armi parricide contro il Cristo di Dio in terra; e noi?… Noi soffriamo, perdoniamo: ed accusandoci i primi per peccatori, popoli e Sacerdoti preghiamo insieme. Viva Dio! Il Signore regna ancora nei cieli, e tiene in mano il cuor delle nazioni e dei re: e il braccio della sua onnipotenza non è per niente accorciato. Egli ha fatto sanabili le cristiane nazioni, che col progredire senza religione si getterebbero nell’abisso della distruzione. Preghiamo che le ristori tutte nel seno della Chiesa Cattolica, intorno al medesimo altare, fra le braccia dell’istesso Padre comune, del sommo Pontefice. Chi non prega renderà forse conto un dì di tanti mali sofferti, di tante anime perdute per mancanza di quelle grazie, che erano promesse alle sante preghiere nel Sacrifizio. – Avvertiamo ancora che queste collette nei giorni di penitenza, o di maggior compunzione, sono più abbondanti. Anche nei giorni di maggior dolore il diacono invitava, come ancor adesso, il popolo a prostrarsi in ginocchio. « Flectamus genua, buttiamoci in ginocchio. » Il popolo sì gettava in ginocchio sul pavimento delle basiliche, ed in quella umiliazione supplicava il Signore che esaudisse il Sacerdote. Il suddiacono poi dava avviso di levarsi, dicendo: « Levate. » Nei giorni poi solenni si dice una sola orazione, perché troppo preme alla Chiesa che noi stiamo raccolti, e coll’anima tutta nei santi misteri, cui ella celebra con solennità. Perciò ella desidera in certo qual modo che ci dimentichiamo di tutto, perché le potenze del nostro spirito si concentrino in meditare, e gustare il santo mistero, che assorbir deve, per dir così tutti i nostri pensieri, come occupa di sé tutta la Chiesa a celebrarlo. – Noi abbiamo accennato, come il Sacerdote conchiude l’orazione o colletta colle parole, che mettono innanzi i meriti di Gesù Cristo, e come il popolo le ratifica, e quasi sottoscrive, dicendo: Amen, e così conferma la preghiera fatta a nome suo dal Sacerdote. Ma questa conclusione, questa conferma, essendo preghiere, le quali la Chiesa ha quasi ad ogni momento in bocca, vogliam dirne pure qualche cosa, per entrar meglio nello spirito di questa piissima madre; affinché queste parole che ella ci mette, come a bimbi sul labbro, valgano ad ottenerci tutto il bene che ella desidera. Termina adunque gli Oremus colle parole: Per Dominum nostrum Jesum Christum etc. – Quando il Sacerdote mortale porge a Dio le supplicazioni dei congregati fedeli che assistono all’altare, non è più l’uomo solo che prega; ma con lui è il Pontefice invisibile ed eterno, che intercede per noi, santo, innocente, immacolato, dai peccatori diviso, e più sublime dei cieli, unico mediatore tra Dio e gli uomini (Heb. V, 1.) Gesù, il quale aggiunge il suo merito ai sospiri della nostra povertà. Ma noi non comprendiamo l’ordine della divina provvidenza ed i disegni della misericordia, con cui il Signore da tutti i mali della terra cava il bene de’ suoi eletti. Perché noi uomini siamo proprio, come miopi; e non vediam più lungi d’una spanna nell’avvenire. Perciò, quando noi preghiamo, non si può far meglio per noi, che gettarci ai piedi di Gesù Cristo, e rimettere nelle sue mani tutti i nostri interessi, raccomandandoci ai meriti suoi; affinché per esso ponga Iddio quel che per noi sia il migliore: certi che ciò che cercheremo dal Padre in nome suo con queste disposizioni, per lo migliore ci sarà concesso (Jo. XVI, 26.). Quindi nel dire « per Dominum nostrum Jesum Christum etc., » veniamo a dire che Gesù Cristo ci ama infinitamente più che noi non amiam noi stessi, che sa, e conosce e porta scritto nel suo Cuore il nome nostro e tutte le cose nostre, e perciò ci rimettiamo a Lui, che Egli faccia secondo la nostra preghiera, se è bene quello che noi chiediamo: o che la corregga, come Egli è nostro avvocato, e raddrizzi i nostri desiderii, ed interpreti le nostre domande. Perché altro finalmente noi non desideriamo, che la nostra eterna felicità, a cui speriamo di giungere per i meriti di Gesù Cristo. Così pregare è pregare nella maniera più utile e santa, e vuol dire: ABBRACCIARCI A GESU’ NEL SS. SACRAMENTO QUI CON NOI, E GRIDARE: « PADRE; QUESTO CUORE DI GESU’ SQUARCIATO VI DICE TUTTI I NOSTRI BISOGNI. » Allora confidiamo, che ne abbiam ragione. Egli promise, che qualunque cosa chiederemo al Padre in Nome suo, ci sarà data. Le parole adunque « Per Dominum nostrum Jesum ChristumPer Christum Dominum nostrum etc., » cioè per li meriti di nostro Signor Gesù Cristo, che vive, e regna con voi, o Divin Padre, in unità dello Spirito Santo, con cui si terminano tutte le orazioni della Chiesa, sono come una certa quale autentica, o come una sottoscrizione apposta alle nostre suppliche, fatta col sangue di Gesù Cristo; e vogliamo dire: « il suo cuore qui in mezzo di noi vi dice tutto quello che noi non sappiamo dire. »

Amen.

« Il popolo, (diceva sino dal fine del secondo secolo s. Giustino martire) (Ap. I), il popolo conferma l’orazione e il rendimento di grazie coll’Amen, che è una parola della lingua ebraica, e significa: « così va bene, così è: approviamo ciò che si dice: accettiamo per noi ciò che si è detto, e proposto or ora: così sia: Sì, sì che noi abbiamo in somma per Gesù Cristo il paradiso! S. Giovanni (nell’Apocalisse) sentì, che, quando i ventiquattro misteriosi seniori e misteriosi animali, la Chiesa, gli Angeli ed i mille e mille segnati, tutte le legioni di Dio, caddero in ginocchio innanzi all’Eterno, chiusero il Cantico celeste, che orecchio e cuor di uomo mortale non può comprendere, coll’Amen. Anche quando Mosè innanzi all’altare di Dio, chiamando testimonio il Cielo e la terra, scongiurava il popolo di dire schietto, se voleva essere di Dio o degli idoli, e così scegliere tra la morte e la vita, e pregava da Dio benedizioni ai fedeli, e imprecava le più terribili maledizioni a chi non volesse alla legge obbedire; il popolo cosperso del sangue della vittima, accettava colla legge le benedizioni, e si sottometteva, in caso d’infedeltà, ai tremendi anatemi, ed a tutte le maledizioni, col dire: Amen. Che facciamo noi, quando rispondiamo « Amen ?» Noi, ai piè dell’altare, da cui sgorga sulle anime nostre niente meno che il Sangue di Gesù Cristo, accettiamo per detto da noi quel che dice il Sacerdote. Il Sacerdote chiede lagrime di contrizione, chiede aiuto e forza di cessare il peccato e rompere le catene per cui il demonio ci trascina a perdizione: ciascuno di noi risponde: « Amen. » Con ciò vuol dire: così mi aiuti Iddio, che v’impegno la mia parola, che darò mano a far tutto con la sua grazia. E una virtù, che egli presenta a Dio come un fiore germogliato sulla terra innaffiata dal Sangue divino, e chiede grazia a riprodurlo in ciascuno di noi? E noi col risponder « Amen » promettiamo a Dio di regolare i nostri costumi in ordine a quelle virtù, e di coltivarle con tutto l’impegno. Talora poi il Sacerdote ricorda un mistero, e professa di crederlo e ne chiede merito per noi di vita eterna, o si solleva coll’anima al paradiso, e di là confessa, che tutte le cose della terra cadono a nulla dinanzi a quelle del Cielo. Allora noi diciamo « Amen » cioè lo crediamo anche noi, e da quest’esilio alla beata patria andiamo sospirando. Così coll’Amen diamo parola di dare gloria a Dio coll’operare, come esigono le verità, che gli professiamo di credere. (S. August. ad Prosp. et Ilar. de Don Pers. Orig. in Ep. ad Rom. lib. 10. — S. Just. Apocal. 2. — S. Jeron. in Jerem.). –  Ora nel ripetere così facilmente col labbro questa protesta, è forse il cuore lontano, lontano da Dio? Ipocriti! L’Amen, allora sarebbe una solenne bugia, quando alle tante proteste fosse in contraddizione il costume! Qual menzogna sarebbe nel confessare coll’Amen, che Dio è tutto per noi; e poi con tutta l’anima a razzolare nella terra un po’ di polvere? Promettere coll’Amen di voler seguire Gesù, al mondo ed alla carne con Lui crocifissi; e poi ai sozzi vituperi della carne sacrificare l’anima e Dio: gridare coll’Amen, si, o Signore, Voi siete tutto il nostro bene, che sospiriamo di possedere in paradiso; ed intanto, abbietti in vita bestiale, quasi quasi desiderare, che non vi fosse né paradiso, né Dio, perché piace il goder sempre sulla terra? Santo Iddio! noi vogliamo forse accettar per nostre, le maledizioni scagliate contro coloro, che pur conoscendo il bene, fanno vista di approvarlo; ma poi corrono al male? Ah! diciamo dunque « Amen » con cuor sincero ed umiliato, e se non possiamo altro, almeno sia il nostro Amen l’espressione dei desideri di un’anima, che chiede aiuto: almeno una confessione della nostra miseria; volendo dire confidenti con questa parola: « Ah! Signore ispirateci la buona volontà, benedite ai nostri proponimenti, e colla vostra grazia adempite ciò, che non possiamo noi colle nostre forze così meschine. » Così gli Amen dal cuor compunto ci fluiranno sul labbro come gemiti di confusione salutare.

SANTO NATALE (2022) – MESSA ALL’AURORA

SANTO NATALE – (2022) SECONDA MESSA ALL’AURORA

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Anastasia.

La Messa Dell’Aurora si celebrava a Roma nell’antichissima chiesa di S. Anastasia. La sua posizione ai piedi del Palatino, dov’era la residenza dei Cesari, ne faceva la Chiesa degli alti funzionari della Corte. Il nome di S. Anastasia è inserito al Canone della Messa. Santa Anastasia, di cui oggi si fa memoria, è la celebre martire di Sirmio. – La liturgia della Messa ci fa salutare « con gioia il santo Re che viene » (Com.) « il Signore che è nato per noi » (Intr.), « il Bambino adagiato nella mangiatoia » (Vang.). Ci dice che « colui che è nato uomo in questo giorno, si è rivelato anche ai nostri occhi come Dio » (Secr.). Perchè Egli è « il Verbo fatto carne (Or.) si chiama Dio (Intr.) ed « esiste sino dall’eternità » (Off.). E, se Egli viene, è per salvarci (Ep. Com.) e « per farci eredi della vita eterna » (Ep.) della quale noi godremo nel cielo, quando questo Principe della pace, tornerà alla fine del mondo rivestito di forza» (V. dell’ Intr., Alleluia) e in tutto lo splendore della sua Maestà. Allora « il Re dei cieli, che s’è degnato nascere per noi da una Vergine per richiamare al Regno celeste l’uomo che ne era decaduto» (1° resp.)» regnerà per sempre «(Intr.)sugli uomini di buona volontà (Gloria) che lo avranno accolto con fede e amore al tempo della sua prima venuta. Le feste di Natale hanno dunque lo scopo di prepararci al 2° Avvento « giustificandoci per la grazia di Gesù Cristo » (Ep.) « distruggendo in noi il vecchio uomo » (Postcom.) « conferendoci ciò che è divino » (Secr.) e aiutandoci « a fare risplendere nelle nostre opere ciò che per la fede brilla nelle nostre anime » (Or.). – Con i pastori, ai quali il Signore manifesta l’Incarnazione del Suo Figlio, « affrettiamoci di andare» (Vang.) ad adorare all’Altare, che è il vero presepe, il Verbo, nato nell’eternità dal Suo Padre celeste, nato da Maria sopra la terra, e che deve nascere sempre più colla grazia nelle nostre anime, in attesa che ci faccia nascere alla vita gloriosa nel cielo.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Is IX:2 et 6.
Lux fulgébit hódie super nos: quia natus est nobis Dóminus: et vocábitur Admirábilis, Deus, Princeps pacis, Pater futúri sǽculi: cujus regni non erit finis.

La luce splenderà oggi su di noi: poiché ci è nato il Signore: e si chiamerà Ammirabile, Dio, Principe della pace, Padre per sempre: e il suo regno non avrà fine.]

Ps XCII:1
Dominus regnávit, decorem indutus est: indutus est Dominus fortitudinem, et præcínxit se.

[Il Signore regna, si ammanta di maestà: Il Signore si ammanta di fortezza, e si cinge di potenza.]

Lux fulgébit hódie super nos: quia natus est nobis Dóminus: et vocábitur Admirábilis, Deus, Princeps pacis, Pater futúri sǽculi: cujus regni non erit finis.

[La luce splenderà oggi su di noi: poiché ci è nato il Signore: e si chiamerà Ammirabile, Dio, Principe della pace, Padre per sempre: e il suo regno non avrà fine.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Da nobis, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui nova incarnáti Verbi tui luce perfúndimur; hoc in nostro respléndeat ópere, quod per fidem fulget in mente.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente: che, essendo inondati dalla nuova luce del Tuo Verbo incarnato, risplenda nelle nostre opere ciò che per virtù della fede brilla nella nostra mente.]

Orémus.
Pro S. Anastasiæ Mart:
Da, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui beátæ Anastásiæ Mártyris tuæ sollémnia cólimus; ejus apud te patrocínia sentiámus.

[ Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente: che, celebrando la solennità della Tua Martire Anastasia, possiamo godere presso di Te il beneficio del suo patrocinio.]

Lectio

Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Titum.
Tit III: 4-7
Caríssime: Appáruit benígnitas et humánitas Salvatóris nostri Dei: non ex opéribus justítiæ, quæ fécimus nos, sed secúndum suam misericórdiam salvos nos fecit per lavácrum regeneratiónis et renovatiónis Spíritus Sancti, quem effúdit in nos abúnde per Jesum Christum, Salvatorem nostrum: ut, justificáti grátia ipsíus, herédes simus secúndum spem vitæ ætérnæ: in Christo Jesu, Dómino nostro.

[Carissimo: Apparsa la bontà e l’umanità del Salvatore, nostro Dio: Egli ci salvò non già in ragione delle opere di giustizia fatte da noi, ma per la Sua misericordia: col lavacro di rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo, diffuso largamente su di noi per i meriti di Gesù Cristo, nostro Salvatore: affinché, giustificati per la Sua grazia, divenissimo eredi, in speranza, della vita eterna: in Cristo Gesù, Signore nostro.]

Graduale

Ps CXVII: 26; 27; 23
Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: Deus Dóminus, et illúxit nobis.

[Benedetto Colui che viene nel nome del Signore: Il Signore è Dio e ci ha illuminati.]

V. A Dómino factum est istud: et est mirábile in óculis nostris. Allelúja, allelúja

V. Questa è opera del signore: ed è mirabile ai nostri occhi. Allelúia, allelúia

Ps XCII: 1
V. Dóminus regnávit, decórem índuit: índuit Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se virtúte. Allelúja.

[V. Il Signore regna, si ammanta di maestà: Il Signore si ammanta di fortezza, e si cinge di potenza. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
S. Luc II:15-20
In illo témpore: Pastóres loquebántur ad ínvicem: Transeámus usque Béthlehem, et videámus hoc verbum, quod factum est, quod Dóminus osténdit nobis. Et venérunt festinántes: et invenérunt Maríam et Joseph. et Infántem pósitum in præsépio. Vidéntes autem cognovérunt de verbo, quod dictum erat illis de Púero hoc. Et omnes, qui audiérunt, miráti sunt: et de his, quæ dicta erant a pastóribus ad ipsos. María autem conservábat ómnia verba hæc, cónferens in corde suo. Et revérsi sunt pastóres, glorificántes et laudántes Deum in ómnibus, quæ audíerant et víderant, sicut dictum est ad illos.

[In quel tempo: I pastori presero a dire tra loro: Andiamo sino a Betlemme a vedere quello che è accaduto, come il Signore ci ha reso noto. E andati con prontezza, trovarono Maria, e Giuseppe, e il bambino giacente nella mangiatoia. Dopo aver visto, raccontarono quanto era stato detto loro di quel bambino. Coloro che li udirono rimasero meravigliati di ciò che i pastori avevano detto. Intanto Maria riteneva tutte queste cose, meditandole in cuor suo. E i pastori se ne ritornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e veduto, come era stato loro detto.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

IL MISTERO DEL SANTO NATALE

La notte tenebrosa gravava come una lunga maledizione sul mondo assopito nel sonno. Tutti dormivano: si dormiva a Roma, si dormiva a Gerusalemme, si dormiva a Betlem, dove una moltitudine era accorsa da ogni villaggio per dare il nome al censimento di Cesare Augusto. Solo qualche pastore vegliava nei dintorni, accanto a fuochi morenti, mentre custodiva il gregge. – Ed ecco squarciarsi l’oscurità e sfociare giù dall’alto fiumi di luce e tutto il cielo ardere come una fiamma e sopra i paesi assonnati passare cori invisibili, cantando parole non mai udite sopra la terra: « Gloria a Dio nei cieli più alti; pace agli uomini di buona volontà ». Balzarono attoniti i pastori vigili presso il loro branco di pecore ed una luce li investì. Nella luce videro l’Angelo fulgidissimo del Signore. Si spaventarono; ma l’Angelo disse loro: « Non temete: è una gioia grande per voi e per tutti, che noi portiamo: è nato il Salvatore ». Dunque, il tempo di piangere era finito, la maledizione era passata, la schiavitù del demonio era infranta. – « Gioia grande!» diceva l’Angelo ai pastori prostrati nella luce celeste. « Gioia grande: è nato nella città di Davide Cristo Signore. Vi dò un segno per trovarlo: vedrete un bambino involto in pochi panni, adagiato in una greppia ». Come gli Angeli sparirono, i pastori si guardarono l’un l’altro muti, poi dissero: « Andiamo a Betlem, e vedremo ». Transeamus usque in Betlehem et videamus. Lasciarono le pecore a ruminare sotto la rugiada presso i fuochi ormai spenti,e corsero.Lasciamo ogni altra cura anche noi e corriamo dietro a loro col cuore pienodi fede, col cuore pieno di gioia.Giungono, ansimanti. Et venerunt festinantes. Trovano Maria, trovano Giuseppee, in una greppia, un Bambino. Gioia grande! Dio si è fatto bambino. La divinitàofferta e l’umanità peccatrice si sono abbracciate nel corpicino di Gesù Cristo. Gaudium magnum.Adoriamo anche noi il Bambino e pensiamo:Il padrone del mondo s’è fatto povero, senza casa, senza culla.Il forte, il Dio delle armate, s’è fatto debole e infermo.L’infinito, per il quale son troppo piccoli i cieli, è raccolto in una greppia.Chi ha dato alla terra la virtù di produrre il pane, e alle piante la virtù di produrrefrutti, patisce la fame.Il regolatore delle stagioni e del freddo nasce d’inverno, intirizzito dall’ariarigida.  Quelle piccole mani arrossate dalla gelida notte hanno sollevato nei cieli il sole, la luna e tutte le stelle. Ed è per noi, sapete che Dio s’è reso così; per noi Propter nos egenus factus est, cum esset dives (II Cor., VIII, 9). S’è reso così perché noi gli volessimo bene: è il pensiero di S. Pier Crisologo: « sic nasci voluit qui voluit amari ». S’è reso così perché l’imitatissimo: è il pensiero di Tertulliano: « ut homo divine agere doceretur ».Allora diciamogli, con le lacrime agli occhi: « Bambino Gesù! noi ti ameremo,noi ti imiteremo ».NOI TI AMEREMOElena imperatrice, la madre di Costantino il grande, aveva avuto da Dio labella missione di ritornare al culto dei fedeli i luoghi santificati dalla vita e dallamorte di Nostro Signore.Quando arrivò a Betlem ed entrò nella grotta della santa nascita, emise ungrido d’indignazione. Quel luogo santo era stata profanato: al posto della greppialà dove Cristo aveva vagito per la nostra salvezza s’ergeva la statua infamedi Adone.L’imperatore Adriano, acre nemico di nostra fede, con un gusto diabolico l’avevaeretta là, perché il demonio ridesse dove Cristo aveva pianto.La pia regina, con le lacrime, comandò che abbattessero quel diabolico simulacro;ed ella stessa, con le sue mani, godeva di frantumarlo. Poi vi fè edificareun sontuosissimo tempio, che custodisse quell’umile posto, scelto da Dio per venireal mondo. –  È Natale: Dio nasce nei cuori. E c’è forse qualcuno che nel suo cuore, nelluogo dove Cristo deve nascere tien eretto il simulacro del demonio, il peccato?Alessandro il Macedone per conquistarsi l’animo dei Persiani, ha voluto vestirsicome loro, imitare in tutto quelle barbare costumanze; Dio per conquistare ilnostro cuore, per farsi amare dagli uomini si è fatto uomo in tutto come noi: habitu inventus ut homo; ha voluto patire come noi e più di noi, e noi non gli vogliamobene? Noi daremo il nostro cuore al demonio, ma non a lui?Nessuno sarà così pazzo e crudele da far questo. Come Elena regina frantumiamoil peccato dentro di noi, ed una bella confessione purifichi l’anima nostra,e la nascita di Cristo segni il principio di una nuova vita d’amore, di preghiera,di purezza.« Bambino Gesù! » diciamogli sinceramente « io t’amo ».Se la nostra vita passata ci dicesse che queste parole sono una bugia, perchénon siamo capaci d’amarlo con le opere, diciamogli così: « Bambino Gesù, se nonti amo, desidero però d’amarti assai ». E se anche questo non fosse vero, perché  il nostro cuore è più attaccato alla roba di questo mondo che al Signore, diciamoglialmeno: « Bambino Gesù! mi piacerebbe tanto desiderare d’amarti ».NOI TI IMITEREMO.A Giovanni II, re di Portogallo, annunciarono che stava male un servo, a luitanto caro.Il re si turbò, poi volle egli stesso scendere dal suo palazzo nella casa del servo.Nel varcare la soglia dell’ammalato, chiese, come si suole, dello stato dell’infermo.Gli risposero che il male era gravissimo, ma il peggio era che l’ammalato non silasciava indurre a prendere medicine.Quel mattino stesso i medici gli avevano imposto una medicina amara ma tanto salutare. La prese nelle sue mani, e senza indugio, egli stesso ne bevve parecchi lunghisorsi. Poi, accostandola alla bocca del malato gli disse: «Io il re, sanissimo, ho preso quest’amara bevanda solo per tuo amore, e tu, il servo, ammalato, non prenderai questo poco che resta per amor mio e per tua salute? ».  Il vassallo tese di slancio le mani verso la medicina, e disse: « Datemele: ora la berrei d’un fiato, foss’anche tossico ». Noi siamo servi ammalati: ammalati di superbia perché ci crediamo un gran che e siamo niente; ammalati di collera perché non vogliamo dimenticare e perdonare le offese; ammalati d’avarizia perché non pensiamo che a roba e a danaro; ammalati nella mente, nel cuore di pensieri e di desideri cattivi. È necessaria la medicina amara dell’umiliazione, della povertà, della mortificazione. Il nostro re, il Bambino Gesù, oggi è venuto a trovarci in casa nostra e ce ne dà l’esempio. Egli santissimo Dio, s’è fatto umile nel presepio, povero in una stalla, mortificato dal freddo. E noi non vorremmo portare la nostra croce? Ci lamenteremo ancora della Provvidenza? – Simone Maccabeo, una notte che conduceva l’armata contro i nemici, si trovò la strada tagliata da un torrente gonfio per le piogge recenti. I soldati s’arrestarono, poiché nessuno osava guardare in quel posto. Simone non fece parola, slanciò il cavallo nell’acqua e passò per il primo: transfretavit primus (I Macc., XVI, 6). Tutti allora gli andarono dietro. Ebbene: il nostro capitano Gesù oggi, per il primo, si slancia attraverso il torrente del dolore, della povertà, della mortificazione: a noi non resta che andargli dietro. Bambino Gesù! noi ti imiteremo. Disse l’Angelo ai pastori: « Evangelizo vobis gaudium magnum ». Vi porto una gioia grande. Lungi da noi, dunque, ogni pensiero di tristezza. Che cosa possiamo temere se il Verbo si è fatto carne, se Dio s’è fatto bambino? Quando Dio è con noi, chi può essere contro di noi? Gioia grande! – Il capitano Alfonso d’Albuquerque fu sorpreso da una procella furiosa, in mezzo al mare. La povera nave flagellata dalle onde rabbiose, squassata dal vento, cigolava in ogni connessura quasi volesse sfasciarsi. Le nubi basse e cupe avevano fatto l’oscurità sull’acque; i lampi guizzavano in quella tenebra con un bagliore di sangue. Le donne urlavano; perfino i vecchi marinai piangevano di paura. Il capitano, pazzo dal terrore, strappò dal seno d’una madre un bambino di pochi mesi, salì sulla tolda in alto, e protese verso la rabbia delle nubi quella fragile creaturina: «E se, — diceva — siam tutti peccatori, questo bimbo, o Dio, risparmialo perché è senza peccati ». Subito tacque il vento, si chetò l’acqua, s’aperse il cielo: e attraverso lo squarcio d’una nube discese l’arcobaleno. – Nelle disgrazie della vita, nelle tentazioni, nell’ora della morte e nel giorno del giudizio, quando intorno alla navicella della nostra anima sarà come una fragorosa burrasca, ricordiamoci di questo Bambino che oggi c’è dato, che oggi per noi è nato; innalziamolo a Dio e si farà la pace e la gioia intorno a noi. Tra pochi istanti, quando la Messa sarà all’elevazione, io stesso tra le mie mani prenderò Gesù Bambino ed elevandolo verso il cielo, mi ricorderò delle parole di Alfonso d’Albuquerque: « Se tutti noi siamo peccatori, o Dio, questo Bambino risparmialo perché è senza peccati! ». Per la sua innocenza noi tutti saremo salvati. – – Da Nazareth, dove avevano messo su casa, il censimento di Cesare Augusto obbligò Giuseppe e Maria a recarsi fino a Betlemme città dei loro antenati. Per tal modo mentre il padrone dell’Impero col suo decreto metteva in moto umili persone, inconsapevolmente dava compimento alla profezia che annunciava Betlemme come luogo di nascita per il Messia. « Che fate voi principe del mondo! Credeste d’agire secondo le vostre voglie e finite per eseguire i disegni di Uno che è sopra di voi » (BOSSUET). – Quattro giorni viaggiarono i due pellegrini: e si era nella stagione delle piogge e le condizioni della Vergine estremamente delicate. A Betlem, gremita di forestieri accorsi per farsi iscrivere, non trovarono alloggio conveniente; neppure all’albergo. Sicché, quando fredda fredda discese la sera, Giuseppe e Maria andarono a ripararsi in una grotta dove gli uomini del paese cacciavano il bestiame e qualche volta essi pure pernottavano. Unico arnese vi era una mangiatoia per i foraggi e biadumi degli animali. In questa stalla, nel cuor della notte, nacque il Figlio di Dio, Salvatore del mondo. Sua Madre, la sempre Vergine, lo prese nelle sue mani, lo ravvolse in pannicelli, e lo accomodò nella mangiatoia. Di lì, come da un trono prescelto, cominciò a regnare il Signore dei potenti, il Re dei re. E vagiva, con un filo di fiato. E non seppe ch’Egli era nato, Erode il feroce Iduneo che abitava in una fortezza non lontano dalla grotta, e che forse in quell’ora adagiato fra gli ori e la porpora accoglieva gli omaggi de’ suoi cortigiani o si assideva al banchetto sontuose di un festino notturno. E non lo seppe neanche Cesare Augusto: eppure il Dio dei Cieli era nato suddito del suo impero. Invece lo seppero alcuni poveri e buoni pastori che vegliavano a custodia della greggia. Un’improvvisa luce sbocciò davanti ad essi sbalorditi ed un Angelo disse loro: « Non temete, che vi annunzio una gran gioia: è nato il Salvatore. Eccovi il segno per riconoscerlo: troverete un bambino avvolto in panni e posto in una mangiatoia ». In quel momento sulla terra oscura ed ignara, i cieli parvero spalancarsi; stormi innumerevoli d’Angeli trasvolarono lasciando indietro un canto di speranza: « Gloria a Dio! Pace agli uomini! ». Quando disparvero e la notte si ricompose nel silenzio e nelle tenebre, i pastori rinvenuti un poco dalla stupefazione dissero: « Corriamo a Betlemme, e vedremo ciò che il Signore ci ha fatto conoscere ». Vi giunsero in fretta, verificarono il segno preannunciato dall’Angelo, e adorarono Dio in quella creaturina di carne, messa è in un greppia, come un oggetto di rifiuto. Cristiani! l’eco del canto angelico ripassa ancora sulle nostre anime, sulle nostre case, sulle nostre chiese: «A Dio gloria, agli uomini pace ». È vero che il fatto della nascita di Gesù dal seno verginale di Maria, avvenuto una volta per sempre venti secoli or sono, più non si ripete. Ma gli effetti di quella nascita, i suoi frutti di grazia e di vita, come un fiume celeste, ancora inondano la terra: oggi specialmente passano accanto a noi. Apriamo i cuori ad accoglierli! Quelli che come Erode si ostinano nelle loro passioni di egoismo e nelle abitudini sensuali, quelli che come Augusto si abbandonano a sogni d’orgoglio e a bremosie di possedere, non sentiranno nel loro animo che è nato il Salvatore. Beati quelli che, come i pastori dalla semplice vita, deposta ogni ingombrante preoccupazione terrena, accorreranno alla culla divina e gusteranno i frutti del santo Natale. Tre sono i principali frutti del ministero che celebriamo:

1) comprendere il sentimento che faceva palpitare il cuore al celeste Bambino: l’Amore;

2) raccogliere dal suo esempio l’insegnamento che illumina ogni uomo che viene al mondo: la Verità;

3) attingere alla sorgente che nascendo ha dischiuso per noi: la Vita divina della Grazia.

Insomma, ciò che provarono e videro allora i pastori, noi dobbiamo provarlo e vederlo ora: l’Amore, la Verità, Dio che si fece carne e s’attendò tra noi. – È APPARSO L’AMORE. Dopo il peccato una profonda separazione distaccò l’uomo da Dio. Se Dio parlava, la sua voce faceva tramortire di spavento. « Udii la tua voce — balbettava Adamo — e per la paura mi sono nascosto » (Gen., III, 10). Se Dio s’avvicinava alle punte della terra, i tuoni e le folgori lo avvolgevano. Il popolo atterrito alle falde dei Sinai, supplicava Mosè: « Parla tu a noi; ma non ci parli il Signore, perché morremmo » (Es., XX, 19). Gli uomini sentivano d’essere sotto una maledizione e di non poter pensare a Dio se non con terrore. « Le nubi e le tempeste gli stanno intorno; l’incendio lo precede ad abbruciare i suoi nemici. S’egli guarda, la terra sussulta; s’egli guarda, i monti si struggono come fossero di cera » (Ps., XCVI, 2-5). – E sarebbe stato sempre così, perché l’uomo solo doveva riparare, e l’uomo da solo non poteva. Infatti « qual mai tra i nati all’odio, qual era mai persona che al Santo inaccessibile potesse dire: « perdona? » (MANZONI). – Ma un amore infinito, incomprensibile, spinse il Figlio di Dio a prendere la nostra carne umana, che era condannata e che trascinava a morte. Eppure alla morte Egli innocente non doveva nulla. Egli onnipotente avrebbe potuto sottrarsi. Ma non l’ha fatto. E nasce un bambino appunto per morire d’amore e liberarci dal terrore. Perciò dissero gli Angeli ai pastori: « Non temete più… È nato il Salvatore e lo troverete bambino in fasce ». – Sentite. Un antico capitano di nome Temistocle, fuggiasco e sfinito, fu costretto ad approdare alla terra d’un re che aveva un giorno offeso e da cui era ricercato a morte. Folle di spavento entrò nella reggia e corse a nascondersi in una sala. Ecco un rumore dietro a lui: si voltò disperato e deciso a lasciarsi uccidere. Vide un bambino, incerto sui suoi passi, che lo guardava, e gli sorrideva e gli tendeva le manine bianche…: era il figlio del re. Temistocle non seppe resistere allo spettacolo inatteso di quella innocenza: lo prese tra le sue braccia e cominciò a tremare e a piangere. Così, in quest’atteggiamento lo sorprese il re. Come l’ira del re avrebbe potuto colpire, se tra la punta della spada e il nemico c’era di mezzo il suo bambino? Il monarca adunque ripose la spada, e corse ad abbracciare il suo piccolo: ma stretto a lui, fatto quasi una sol cosa con lui, era il colpevole. Non poté disgiungerlo, e se li strinse entrambi al suo cuore confondendoli in un unico amore. O uomo, — grida S. Bernardo, — perché paventi? Perché temi davanti al Signore che viene? Non disperarti, non fuggire! Rivolgiti e guarda: è un Bambino che ancora non sa parlare, che ancora, non sa camminare, solo già sa piangere d’amore (Migne, P. L., «In Nativ. Dom. », Sermo I, 3). Detestando sinceramente le nostre colpe, abbracciamo il piccolo Gesù che nasce per noi; con la fede aderiamo a Lui fino a far con Lui una cosa sola. Se Dio vorrà poi giudicarci a morte, noi gli diremo: « Signore fra me e il tuo giudizio, io metto in mezzo quest’innocente creaturina, che è tuo Figlio ». – È APPARSA LA VERITÀ. Pochi anni prima che nascesse Gesù, Ottaviano il futuro padrone del mondo che avrebbe ordinato il censimento, prima di salir sulle navi e muovere a battaglia incontrò un asinaio col suo somaro; la bestia si chiamava Vittorioso. Dopo la battaglia l’imperatore fece innalzare nel tempio una statua di bronzo a quell’asino perché fosse adorato in ricordo della sua vittoria. Quanta superstizione e quanta immersione nella materia vi era negli uomini anche tra le persone più cospicue e civili, perfino nello stesso Imperatore. Il demonio che si faceva adorare negli idoli, traviava l’umanità proponendole come supremo bene il piacere dei sensi, gli onori umani, il possesso del danaro e della roba. – Ma la divina Sapienza si fece carne, e pose la cattedra in una mangiatoia: di lì la Verità illumina ogni uomo che viene al mondo. Alla sensualità il Bambino Gesù oppone l’esempio delle sue sofferenze. Soffre nel corpo il rigore della notte, l’ispidità di quella strana cuna; soffre nell’anima per i nostri peccati, i quali già cominciano a strappargli dagli occhi le lacrime e poi gli strapperanno dalle vene tutto il sangue. – All’orgoglio il Bambino Gesù oppone l’esempio della sua umiliazione. L’uomo vuol sempre apparire da più di quello che è fino a ribellarsi a Dio, e anteporre il suo capriccio al comandamento dell’Eterno. Gesù, vero Dio, si nascose nella natura umana, si annientò facendosi come uno di noi. Gesù, immenso, Dio, che i cieli non possono contenere si restrinse in piccole membra ad avvolgere le quali bastarono pochi decimetri di fasce. Gesù, eterno Dio, che vive nei secoli apparve fragile creatura di poche ore. Gesù l’onnipotente Dio che guida gli astri, sostiene l’universo, giudica i vivi ed i morti, s’abbandonò incapace di reggersi nelle mani di Giuseppe e di Maria, si lasciò prendere e portare dovunque desiderassero, sempre a loro sottomesso. – All’avarizia il Bambino Gesù oppone l’esempio della sua povertà. La bramosia di possedere muove quaggiù individui e popoli, ma il Figlio di Dio nascendo ci ha disillusi, insegnandoci che ogni cosa terrena è una fugace bagatella. Il re dei secoli infatti non volle un palazzo, neppure una camera affittata nell’albergo, neppure una cuna: gli è bastato una mangiatoia e pochi pannicelli. È apparsa dunque la Verità in forma visibile per entusiasmarci dei beni invisibili. I poveri e gli umili non devono più lagnarsi del loro stato che tanto somiglia al suo; i ricchi e i fortunati devono preoccuparsi di aiutare i bisognosi, altrimenti non assomiglieranno mai a Lui, che «da ricco che era, si è fatto per noi povero » (II Cor., VIII, 9). – È APPARSO DIO. Che mirabile scambio è mai avvenuto tra la divinità e l’umanità nel Santo Natale! 1) Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto uomo. Noi gli abbiamo prestata la nostra natura. Contemplate il celeste Bambino, ci sono in Lui due vite: quella di Dio e quella d’uomo. Come uomo giace sul fieno, come Dio regna nei cieli e giudica le anime che compariscono davanti a lui. Jacet in præsepio, et in cælis regnat. Badiamo bene di non macchiare coi peccati quella natura umana che Egli s’è degnato di prendere in prestito da noi. 2) Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio. Nascendo Egli ci ha fatto partecipare alla sua natura divina. Considerate, Cristiani, la nostra realtà: ci sono in noi due vite. L’una naturale che ci fu data attraverso l’opera dei nostri genitori; l’altra soprannaturale, divina, che ci fu comunicata nelle acque del battesimo. Non siamo appena figli d’uomini, ma siamo anche figli di Dio, fratelli di Gesù Bambino, degni di godere in paradiso la sua stessa beatitudine e la sua stessa gloria. Di queste due vite, è quella divina che deve dominare in noi, benché noi non la vediamo. Anche in Gesù Bambino la sua vita divina era nascosta, sembrava soltanto un fanciullo come tutti gli altri. Ma un giorno Cristo apparirà nella sua gloria, e noi appariremo con Lui nella nostra realtà divina se non l’avremo soffocata nei peccati. Bisogna finirla una buona volta con tutto ciò che distrugge e intisichisce la vita divina in noi: cioè coi peccati, cogli affetti illeciti alle creature, con le preoccupazioni sregolate per le cose che passano, coi meschini desideri del nostro orgoglio! – Nell’anno 135 l’imperatore Adriano, con empio proposito, profanò la grotta della santa nascita collocandovi la statua di Adone, l’impudico idolo dei pagani. Dove Cristo infante aveva vagito per la salvezza nostra, ivi era tornata a dominare l’immagine della perdizione. Ma più vergognosa profanazione avviene nel cuore di molti Cristiani, nei quali Dio s’è degnato di nascere colla sua grazia, e dai quali è poi discacciato orrendamente e sostituito dalle più basse passioni. –  Sarebbe ingratitudine concludere senza un pensiero amoroso a Colei che fu degna di donarci il Bambino Redentore. Tra i ricordi che della sua infanzia S. Bernardo raccontava, il più dolce era questo. Era giunta la vigilia del Natale, attesa con quel fascino che solo sanno i fanciulli dall’anima bianca. Egli volle ad ogni costo che i suoi lo prendessero seco alla Messa di mezzanotte. Ma quando fu nella chiesa, cullato dal mormorio delle preghiere, avvolto nel tepore della folla, tardando la Messa ad uscire, vinto dal sonno s’addormentò. «Nel sonno vide attraversare i cieli la Vergine Maria che teneva stretto al seno il bellissimo Bambino, appena nato. Con materna mossa curvata su di lui, diceva: « Guarda fra quella gente il mio piccolo Bernardo! ». Il Bambino aprì le palpebre, girò gli occhi, e lo vide. Si sorrisero scambievolmente. O dolce, o santa Madre, quella parola che un giorno dicesti per S. Bernardo, ripetila al tuo Bambino, oggi, anche per noi! Digli che ci guardi. Digli che tu lo rivestisti di poveri panni, perché Egli rivestisse noi con la gloria dell’immortalità. Digli che lo ponesti nell’angusta mangiatoia, perché Egli collocasse noi nella reggia dei cieli immensa. Digli che tu lo adagiasti fra il fiato di due animali, perché Egli sollevasse noi tra il canto degli Angeli.

Se così gli dici, così sarà.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XCII:1-2
Deus firmávit orbem terræ, qui non commovébitur: paráta sedes tua, Deus, ex tunc, a sǽculo tu es.

[Iddio ha consolidato la terra, che non vacillerà: il Tuo trono, o Dio, è stabile, fin dal principio, fin dall’eternità Tu sei.]

Secreta

Múnera nostra, quǽsumus, Dómine, Nativitátis hodiérnæ mystériis apta provéniant, et pacem nobis semper infúndant: ut, sicut homo génitus idem refúlsit et Deus, sic nobis hæc terréna substántia cónferat, quod divínum est.

[Le nostre offerte, o Signore, riescano atte ai misteri dell’odierna Natività e ci infondano pace duratura: affinché, come il Tuo Figlio nascendo uomo rifulse quale Dio, così queste offerte terrene conferiscano a noi ciò che è divino.]

Pro S. Anastasia.

Acipe, quǽsumus, Dómine, múnera dignánter obláta: et, beátæ Anastásiæ Mártyris tuæ suffragántibus méritis, ad nostræ salútis auxílium proveníre concéde.
[O Signore, Te ne preghiamo, accogli favorevolmente i doni offerti: e concedi che, per i meriti della beata Anastasia, Martire Tua, giovino a soccorso della nostra salvezza.]

Prefatio

de Nativitate Domini


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Quia per incarnáti Verbi mystérium nova mentis nostræ óculis lux tuæ claritátis infúlsit: ut, dum visibíliter Deum cognóscimus, per hunc in invisibílium amorem rapiámur. Et ideo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: Sanctus …

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Poiché mediante il mistero del Verbo incarnato rifulse alla nostra mente un nuovo raggio del tuo splendore, cosí che mentre visibilmente conosciamo Dio, per esso veniamo rapiti all’amore delle cose invisibili. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Zach IX:9
Exsúlta, fília Sion, lauda, fília Jerúsalem: ecce, Rex tuus venit sanctus et Salvátor mundi

[Esulta, o figlia di Sion, giubila, o figlia di Gerusalemme: ecco che viene il tuo Re santo, il Salvatore del mondo.]

Postcommunio

Orémus.
Hujus nos, Dómine, sacraménti semper nóvitas natális instáuret: cujus Natívitas singuláris humánam réppulit vetustátem.

[Ci restauri sempre, o Signore, la rinnovata celebrazione del Natale di Colui la cui nascita singolare scacciò l’umana decrepitezza.]

Orémus.
Pro S. Anastasia.
Satiásti, Dómine, famíliam tuam munéribus sacris: ejus, quǽsumus, semper interventióne nos réfove, cujus sollémnia celebrámus.

[Hai saziato, o Signore, la tua famiglia con i sacri doni: confortaci sempre, Te ne preghiamo, mediante l’intercessione della Santa di cui celebriamo la festa.]

PREGHIERE LEONINE

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (233)

LO SCUDO DELLA FEDE (233)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (5)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO III

ART. III.

La Preghiera.

E che cosa è la preghiera? Pregare vuol dire, creati che siamo da Dio, circondati da tutti suoi benefici, con tutti ì nostri bisogni, gettarci in braccio al padre di tutti i beni, e gridargli in seno: « Gran Dio! provvedetecì Voi nella vostra bontà ». Pregare vuol dire, creati che siamo pel paradiso, e caduti in terra in queste miserie, guardare il cielo esclamando: « Signore! non ci possiamo arrivare! » pregare vuol dire con tante colpe sull’anima, sopra l’abisso di una eternità Spaventosa, e lì lì per precipitarvi, mettere un grido atterriti; « buon Dio della. misericorda! Salvateci Voi; o che noi siamo dannati! » pregare vuol dire: con tante piaghe, che ci straziano il cuore, (e tristo chi non le sente; egli sta mal di morte!) gettarsi ai piedi del gran medico delle anime, e gridar con gemiti: « Caro Gesù! pioveteci dalle vostre piaghe sulle piaghe nostre il balsamo del vostro Sangue, o che noi moriamo di mala morte! » – Sì, sì, l’intendiamo! Pregare vuol dire, gettarci ai piedi del Crocefisso, (e guardiamo bene che dai piedi al cuore la distanza è poca cosa: e vogliamo dire che quando ci gettiamo ai piedi di Gesù, Gesù ci accoglie in cuore); e noi possiamo dal seno di Gesù gridar forte: « O Signore della pietà! Il Cuore squarciato di Gesù Cristo vi dice tutti ì nostri bisogni. » In somma tutti i beni vengono da Dio: e noi dobbiamo tutto domandar a Dio e rendergli omaggio di tutto: così la preghiera è il cantico della creazione. Dio creava le stelle, la terra, le piante, gli animali. Erano queste le grandi e belle cose; ma non lo benedicevano: creò noi uomini, che partecipiamo di tutto. Noi siamo di terra colla terra, vegetanti colle piante, animati cogli animali; a capo di tutte queste cose create, se l’universo è come un grande edificio, noi uomini siamo come la statua che lo coroniamo, e dobbiamo le palme levare al cielo: se l’universo è come una piramide, noi uomini siamo come la fiammella in cima, che si slancia verso del Cielo: noi dobbiamo dunque nel visibilio di tutte le cose lodare Dio a nome di tutte, unire i nostri voti ai profumi dei fiori, i nostri cantici ai canti degli augelletti, i nostri gemiti al grido degli animali, accordare le nostre voci all’armonia dell’universo, che è l’inno sublime che tutte le creature intonano al Padre e Signore del tutto. – Noi poi che collocati in cima alle creature del mondo della materia, con quest’anima nostra apparteniamo anche al mondo degli spiriti, candidati del cielo, di qui dalla terra dobbiamo far eco al cantico degl’immortali al paradiso (Illi canentes iungimuralmæ Sionis æmuli. L’inno della Chiesa). Siamo dunque noi l’anello che unisce il Cielo colla terra: e così l’uomo che non prega rompe quest’armonia dell’universo, turba l’ordine della creazione, è un fuor d’opera, ed è come un mostro disordinato. – Gli uomini di tutte le nazioni sparse sull’orbe hanno sempre sentita questa necessità di pregare. Girisi pur la terra, diceva Plutarco storico, filosofo pagano antico, (e lo possiamo ripetere noi moderni, che con tanta facilità facciamo il giro del mondo), girisi pure la terra; ci è dato trovar gente d’ogni colore, nazioni senza codici, senza città, senza case; ma dove troviamo un gruppo di uomini, là troviamo in mezzo di loro un altare; un segno della preghiera. pigliamo scandalo dalla apparente incredulità dei nostri di: non è questo stato normale della società; è come uno stato morboso, di cui è cagione il veleno del razionalismo, che tradotto in pratica, getta le nazioni in uno stato d’orgasmo, nel vortice delle rivoluzioni; e questi che si dan del fiero di non curarsi di Dio, non sono poi il genere umano, no! ne sono la minima porzione. Poiché anche ai dì nostri la donna, il fanciullo, il popolo, ed in certe ore!… fino gli empi solidari; l’umanità insomma lascia cinguettare gl’increduli, ma prega pur sempre! – A farla intendere alla filosofia beffarda, Dio faceva dare la lezione da un fanciullo. Il filosofo Sintennis, quando nel secolo passato la filosofia bugiarda asseriva che il popolo prega Dio, perché il prete ne ha inventata l’idea, pigliò a farne prova un bimbo appena divezzato dal latte. Bisogna dire che quel bimbo non avesse la mamma, perché la mamma anche turca parla col bambino di Dio; la madre, quando bacia il bambino stretto al seno con quel bacio calcato vuol dire: « vita mia, ti voglio tutto il bene per sempre! » lo vuol beato col Sommo Bane! Così il bacio della madre è come il primo sacramento nell’ordine naturale, poiché è un segno sensibile del desiderio di aver il bimbo felice in Dio. Sintennis portò quel bambino in una sua villeggiatura; prese ad educarlo da solo, e guardò ben che non parlasse con altri, né gli cadesse mai sott’occhi il nome di Dio. Il fanciullo veniva su svegliatello, e Sintennis diceva forse in cuor già: « a momenti io presento all’Accademia di Parigi un giovane uomo, che non ha mai sognato che Dio vi sia. » Un bel dì passeggiava il filosofo nel boschetto, quando scorge il giovinetto a scendere giù nel giardino, e gir sulla vetta di un monticello, che s’innalzava sulla riva di un piccolo lago, nel cui quieto cristallo sì specchiava il cielo color di rosa. Era l’ora quando gli augelletti salutano col canto il sule che nasce; era l’ora quando i fiorellini aprono le loro boccucce ridenti di rugiada, e mandano profumi al cielo; ed il sole sorgeva incoronato di raggi nello splendore dell’aurora. Il giovinetto si volge al sole d’oriente: O Sole, esclama, oh quanto sei tu bello! quanto ti ha fatto grande e splendido il Creatore del tutto, a cui obbedisci nella tua carriera! 0 sole, lo vedi, lo conosci tu il creator del tutto? Se tu lo vedi, digli, che vorrei conoscerlo anch’io; digli che gli voglio bene: se tu lo vedi, stampagli sull’eterna fronte a mio nome un bacio. » Così espandendosi quel cuor ingenuo sì baciava la mano, e mandava al sole i baci da dare a Dio…. Sintennis, come da sonno riscosso, corre sul monte, ed abbraccia il giovinetto, e tutto tremante gli dice: « e chi ti ha detto che vi sia il Creatore?… Chi me l’ha detto? risponde il giovine; me l’ha detto questo sole; ché non siete voi che lo gettaste lassù nel cielo; siete troppo piccino!… Chi me l’ha detto? queste erbe; ché non siete voi sotto terra, che col vostro dito le fate spuntare! Chi me l’ha detto? questo cuore me lo dice, che batte; e non siete voi, né io, che lo facciamo battere! » Sì, sì, esclama allor ricreduto Sintennis, la preghiera a Dio è un bisogno del cuore umano. Cade qui una osservazione mortificante pei meschini, che vantansi intrepidi di non aver questo bisogno: ed è quel fanciullo, benché disgraziato di non aver avuto la madre, né il prete che gli parlasse di Dio, fu fortunato almeno di non aver avuto un corrotto, che gli guastasse il cuore: perché quando il cuor è corrotto, n’esce una nebbia fetente, che oscura la mente da non pensar più a Dio! – Se la preghiera è un bisogno per tutti, per noi Cristiani, raccolti sotto l’ali della misericordia di Dio, l’orazione è il grido dei figliuoli al gran Padre della bontà, è il gemito dei nostri cuori sconsolati di averlo offeso, è il sospiro dell’anime innamorate dello Sposo celeste, è uno slancio delle nostre persone al sommo nostro bene, che è Dio. Poi in mezzo a tanti pericoli è l’arma a poterci difendere (S. Ambr. In obitu Valen). Formiamo in terra il regno di Dio, e la città dei Santi? La preghiera è il muro che ci mette al sicuro (Io. Gr. De orand. Deum. L. l). Al Cielo in Dio è il nostro destino? La preghiera è la scala (S. August. Sermon. 22 al frat. eremit.) a poterci elevare, è l’ala a volarvi speditamente (S. Greg. Naz. De Orat. S. Alfons., s. Joan. Gris.). Diremo tutto in breve che per noi pregare vuol dire UNIRCI COL CUORE IN GESU’, E GRIDARE: O PADRE, IL CUORE SQUARCIATO DI GESU’ VI DICE TUTTI I NOSTRI BISOGNI.

La Preghiera in comune.

Per questo da buona madre la Chiesa ci vorrebbe sempre intorno a sé con Gesù a dirgli tutti i nostri bisogni e le tenerezze nostre, e cogli omaggi delle nostre preghiere ad immagine in terra del beato regno dell’eternità. Poiché che cosa fanno i beati in paradiso? Assistono, risponde s. Ambrogio indivisibilmente alla presenza di Dio: e Dio, irraggiandoli coi celesti fulgori dell’esser suo divino, li comprende, gli assorbe, gli accende di carità: ed essi in quell’incendio ardono di prezioso timiama spirituale, adorando, e pregando sempre. E che facciamo noi pure quando preghiamo nella chiesa? Associati all’immortal adunanza di quei beati, e già col cuore cittadini della celeste Gerusalemme, illuminati per la fede della verità, ch’è la luce del cielo, mentre lo Spirito del Signore spira gli inenarrabili gemiti della preghiera in noi; poi con essa, sull’ali del Divino Amore, tra le braccia della madre nel Cuor di Gesù, con confidente abbandono versiamo il cuor nostro nel cuore di Dio. Dunque l’orazione è l’accompagnamento necessario del Sacrifizio, culto accettevole, che santifica le anime, e, poco men che non diciamo, le india. Così elevati in seno a Dio possiamo tutto ottenere; tale è la potenza della preghiera.

La potenza della Preghiera.

Ci assicura Gesù che potremo coll’orazione tutto il bene ottenere. Domandate, e riceverete; cercate, e troverete; battete alla porta, e vi sarà aperta: e in tanti luoghi dell’Evangelio pare che ci dica: « pigliate coraggio, o miei figliuoli, lassù nel Cielo abbiamo il Padre della bontà, ch’è nostro: ed oh se vi ama! Egli è, che mi ha mandato per salvare le vostre persone! e questo quando ancor gli eravate nemici; pensate: che vi potrà mai negare il Padre di tutti i beni ora che gli siete figli? Io son qui, non vi abbandono, prego Io con voi, faccio con voi causa comune. È da piangere di consolazione nel sentire come l’ha studiata bene nel suo amore per confortarci a tutto aspettare dal Padre celeste. Ecché? dice Gesù; se venisse pur in sulla mezzanotte alcuno a bussare, e sotto la finestra gridasse: amico! mi giunge or ora da lunga via un amico: ed io non ho un pane da mettergli innanzi; deh imprestamene qualcheduno da apporgli! Voi gli direste: ma la mala creanza di disturbarmi a quest’ora! Vedi: io, i figli, i servi, siam già coricati….. Ma egli batte ancora alla porta: amico, non negarmi un po’ di pane per carità! Se non fosse per altro, almen per togliervi quell’importuno, voi vi levereste da letto, e non pur del poco pane, ma lo vorreste fornir di tutto. E voi non siete poi tanto buoni! Pensate, che non vorrà fare il Padre nostro divino! » Ah! Stiamo alla parola di Gesù; che Gesù sel conosce bene il Padre suo. Tra Padre e Figlio se l’intendono divinamente, e dispongono salvarci, se noi vogliamo pregare. Egli è Dio, che ha dato alla preghiera tale potenza, fino sopra di noi, che siamo cattivi (S, Luc. XI), da non resistere contro i più deboli. Difatti pensiamo, se un povero insettuccio per terra, nell’atto che poi stiamo per schiacciarlo col piede, ci potesse pregare, è dirci: abbiate compassione di me, per carità, lasciatemi la vita, è questo tutto il mio bene… vivere qualche giorno qui…, poiché io non aspetto altra vita; mettete il piede da un’altra parte; a voi non vien alcun vantaggio dallo schiacciarmi: e chi di noi non risparmierebbe l’insetto? Ebbene, noi siamo come poveri insettucci nella polvere innanzi a Dio, e se grideremo, piangeremo pregando sempre, noi faremo sforzo al suo cuore paterno. – Non ci resta adunque, che pigliarci sul cuore Gesù e star sempre con Gesù sulle braccia. Quando una poverina di madre, nella miseria di ogni cosa, vede il bambino, che le muore di fame; ella piglia il bambino delle viscere sue, e se lo reca alla porta del ricco, che conosce di cuor buono, e sta fuori in una brezza fredda, che le taglia la vita, il bambino le piange sul petto. L’uom del buon cuore sente un bambino che piange alla porta, apre subito l’uscio, e vede il meschinello, che si consuma: le braccioline che cadono giù, gli occhietti annebbiati, quelle povere ossicine in quei cenci; non pure egli di buon cuore: ma qualunque avesse un boccone di pane, se lo torrebbe di bocca per darlo al meschinello. Pensiamo adesso che non vuol fare con noi il buon Dio, quando sente noi, o meglio il Figliuol suo tra le braccia di noi, gemere in basso in questa povera terra tra le fasce o le miserie della nostra umanità, e battere alla porta, o meglio battere colla sua parola al suo cuore paterno! Oh Padre, oh Padre! il Figliuolo gli grida di fuori…. Oh se la conosce il Padre la voce! è il gemito della parola, che gli è uscita dal seno eterno!…. Sì, v’ha da ascoltare, vorremmo dire, per forza! – Non ci resta adunque altro che pigliar sul cuore nostro Gesù qui nel Sacramento sulla porta del cielo, e mostrarlo Bambino, che vagisce tra le fasce, che sono le angustie della povera umanità; o presentarlo tutto bagnato di sangue con affannoso lamento in passione con le sue piaghe e le nostre miserie; o colle braccia elevate additarlo in Cielo e in gloria col cuor, che palpita qui sul nostro cuore! Grande Iddio! noi vogliamo giurare che possiamo con Gesù tutto ottenere. Comprendiamo adesso un mistero! Quando Gesù tutto bagnato di sudore di sangue, col tremito dell’agonia, tirossi gli Apostoli appresso, stampava loro sul cuore sopra morte, diremmo, il suo avviso più caro, diceva: « pregate, pregate sempre, » e subito allora si avviava a morire: voleva dire, che andava sulla Croce a tutto ottenerci! – Bene dunque mentre il Sacerdote si accinge a rinnovare il sacrifizio di Gesù Cristo, rapito nel pensiero della bontà di Dio, in mezzo all’altare, in sulle prime non sa far altro che esclamare: « Kyrie! Kyrie! Signore! Signore!… » ed assorto nel Signore della misericordia, sentendo il peso delle umane miserie, grida subito: « abbiate pietà, eleison! eleison! » – Poi tutto giubilo per l’ottenuta pietà: « Gloria in excelsis, gloria a Dio, esclama, negli altissimi Cieli. » Quindi pare che dal seno di Dio corra in seno al popolo a comunicargli le sue grazie, esclamando: « Dominus vobiscum.- » Poi ancora abbracciato col popolo, o meglio coi figliuoli suoi e figliuoli di Dio, grida: « preghiamo confidenti insieme con Gesù: Oremus…. per Dominum nostrum Jesum Christum. » I quali devotissimi slanci del cuore della Chiesa noi ci faremo ad esporre.

Kyrie eleison.

Il Sacerdote, quando tutti sono all’ordine, portando sempre sul cuore il peso de’ peccati propri e di quelli del popolo, venuto in mezzo all’altare, colle mani giunte innanzi al Crocefisso, par che voglia dire: figliuoli, ecco l’opera dei nostri peccati; il Figliuol di Dio ha dovuto morire per salvarci!!! Grande Iddio, poi esclama, abbiate pietà di noi: Kyrie eleison: » Gesù Cristo tocca a voi coprire colle vostre piaghe le nostre miserie e guarire le nostre infermità! Christe eleison. » Il popolo risponde: Signore, pietà e misericordia! Le parole Kyrie eleison sono voci greche. La Chiesa conserva (Ben. XIV, lib. 2, cap. 4, n. 7 De sac. Miss.) ne’ suoi riti alcune parole ebraiche, Amen, Alleluia, ecc. ed alcune greche, come questa Kyrie eleison; e questa pratica significa, che è sempre una e la medesima Chiesa quella, che fu radunata prima dai Giudei, dai Greci e dai Latini, finalmente da tutti i popoli della grande umana famiglia. Si cantano queste preghiere nove volte da questo coro terrestre, per corrispondere in qualche modo ai nove ordini o cori degli Angeli in Paradiso. Si grida in esse tre volte al Padre, tre volte al Figlio, tre volte allo Spirito Santo per confessare l’augusto mistero delle tre Persone divine in un solo Dio. S. Tommaso (In 3, p. q. 85, a. 4) osserva, che, invochiamo le Persone della SS. Trinità tre volte per ogni Persona, per indicare, che una Persona è colle due altre indivisibile: e per invocare un rimedio alla triplice nostra miseria, la miseria della ignoranza, la miseria della colpa, e la miseria della pena; tre volte al Padre, adorando nel divin Padre il Figliuolo, e lo Spirito Santo; tre volte al Figlio, adorando nel Figliuolo il Padre e lo Spirito Santo; tre volte allo Spirito Santo, adorando nello Spirito Santo il Padre ed il Figliuolo. Così mentre il Cristiano s’innalza a contemplare colla fede nell’augusto Mistero ì segreti della vita interiore di Dio, e beve, dirò così, un saggio della Divinità, mentre porta seco in quell’altezza di contemplazione l’immagine di Dio stesso nell’anima sua, e la mostra colle piaghe, che noi le abbiamo fatto, grida confidente: Kyrie, Kyrie eleison. » Grande Iddio, abbiate pietà! « ristorate questa povera immagine vostra, figlia del tro amore. » Notiamo ancora, che, invocando il Padre, ed invocando lo Spirito santo, li chiamiamo Kyrie cioè Signore. Ma parlando col Figlio lasciamo questo sublime titolo, e lo chiamiamo nostro Re e nostro Pontefice. Quasi si dicesse, secondo l’osservazione di S. Tommaso: » con Voi, o divin Figliuolo, parleremo con maggior confidenza, perché in seno alla vostra divinità noi scorgiamo qualche cosa del nostro. Voi siete, è vero, grande, Consostanziale Verbo divino: ma siete pur nostro fratello, e Sopra di Voi, che siete nostro, noi appoggiamo tutte le nostre speranze; ah! vedete in questa povera umana natura consorella della vostra in paradiso, quante miserie! Deh! finché non ci ristoriate col vostro sangue, noi grideremo sempre: pietà, o Signore, Kyrie, Christe, eleison. – Ora che conosciamo il perché si replichi tante volte questa preghiera, anche noi prostrati a piedi della Croce intorno al Sacerdote dobbiamo, a sfogo di compunzione del cuore, gemere in unione di spirito con quegli antichi padri nostri, da cui abbiamo questo tenerissimo rito ereditato, i quali prolungavano (Marteny De aut. Voelles rit. lib. 1, cap. 4, a. 3) questo grido di pietà, finché il sacerdote non lo faceva cessare. – A quei tempi, quando il Sacerdote cominciava sull’altare ad esclamare: « Kyrie eleison, Signore pietà; » a quel grido da una parte del coro si rispondeva gemendo: « Ah! sì, o Signore, pietà, » dall’altra si ripeteva, misericordia, o Signore! » Quei buoni dovevano l’un l’altro guardarsi a quel lamento, che faceva sentire più vive a ciascuno le proprie e le comuni necessità; e, tocchi tutti i più vivamente, gridavano ancor più forte: « Misericordia, o Signore, misericordia! » – A noi par di assistere alla Messa ancor nei sotterranei delle catacombe con quei cari fratelli destinati alla morte; quando il fondo della grotta, in cui mettevano cento viottoli della città dei morti per Dio, il Sacerdote dai piè della Croce metteva il gemito: « Kyrie eleison, gran Dio, misericordia! » e i fedeli più vicini s’udivano ripetere gemendo: « misericordia » e gli altri più discosti dispersi in quegli antri gridare anch’essi: « Signore! misericordia, misericordia! » In tutti quegli anditi e buchi, diffondendosi in quel labirinto di mille sepolcri, tra quei morti e vivi santi, quel gemito pareva andasse morendo e confondersi nell’abisso dell’eternità. Più che pregare era un gemere di tutti, che si volgeva in acute strida d’inconsolabile dolore di quei compunti, che contemplavano sulla croce l’opera dei loro peccati! –  Ecco il perché nel sacro rito ancor oggi, quando si canta il Kyrie dall’una e dall’altra parte del coro si ripete Kyrie; quasi con una coral gara di farsi sentire di più; ed ecco il perché ancor adesso, cantandosi l’ultimo Kyrie, s’alza più forte la voce; ed il canto allora volge allo strido, per significare quel gemito universale cresciuto fuor di misura, in che si sfogava quel popolo santo compenetrato dalle cattoliche verità, che dinnanzi alla Croce colle proprie colpe ricordava la meraviglia della bontà di Dio. Erano le strida di poveri figli, che colla coscienza dei meritati castighi, abbracciati alla croce, mostravano sopra di essa chi per loro pagò! – Anche noi gridiamo: « Kyrie, Padre Santo, misericordia; Voi, che ci avete dato il Figliuol vostro per salvatore; Christe, misericordia, Voi, Gesù Cristo, Figliuol di Dio fatto uomo, che siete morto in croce per noi: Kyrie, Spirito Santo, misericordia, Voi, che operaste il mistero dall’Amore divino, coronate l’opera della misericordia vostra; » e, benché lontani dal fervore dei santi, allarghiamo il cuore a tutto sperare da Dio con noi. Gridiamo, gridiamo arditamente fino all’importunità; e possiamo dirgli: « Signore, anche il povero cieco (S. Luc. XVIII) gridava forte, quando Voi passavate a lui davanti, il perché la gente della turba lo garriva di quel suo noioso strillare; ma ei gridava più forte, seduto là sulla terra: e Voi a quelle grida importune rispondeste col dargli la vista. » Abbiamo inteso: noi non cesseremo di gridare, finché non ci abbiate esauditi: noi ci rammentiamo pur anche di quella, che la gente del mondo avrebbe detto imprudente Cananea (S. Matt. XV, 22), che gettatasi in ginocchio, vi tendeva le mani: e, « Signore esclamava, mi dovete guarir la figliuola: » e Voi faceste mostra di ributtare la preghiera, tirando innanzi, quasi negaste far grazia. Ma si! ella vi tenne dietro con insistenza a tutte prove. « Me la dovete guarire, gridava forte, me la dovete guarire! » Voi foste allora dal vostro cuore obbligato ad esaudirla. La Chiesa ha imparato da lei; prega; scongiura; piange nel Kyrie, ed in mezzo a questi accenti di compunzione, tra le grida ed il pianto universale il Sacerdote nell’altare accenna al Crocefisso; e par che dica: « Su via, calmatevi, pigliate cuore, vedete qui il Figliuol di Dio in croce colle braccia larghe per voi! E che poteva fare di più per mostrarci che ci vuole salvi? » Qui con un confidente abbandono allarga le braccia, stende le mani, come se volesse accogliere l’abbondanza della misericordia di Dio, per la quale guadagniamo di più, che non abbiamo per la colpa perduto. Anzi fra i trasporti della vivissima gratitudine, dai gemiti del dolore pare, che trapassi in tale eccesso di giubilo, che giunga sino ad esclamare con la Chiesa (Vedi la benedizione del Cereo Pasq. nel Sabbato Santo): « Oh fortunate anche le colpe nostre, che tale si meritarono e così gran Redentore! » – Nel bisogno di esilarare lo spirito esterrefatto, che vorrebbe, e non sa dire, perché non trova parola umana per ringraziare il Signore, egli prende in prestito il cantico degli angioli, ed esclama con essi: « Gloria a Dio nell’eccelso de’ Cieli. »

Gloria in excelsis Deo.

Noi su cantiamo redenti appiè della Croce questo inno, che gli Angeli cantarono nella notte più avventurata per questa povera terra, nella stalletta di Betlemme intorno al Bambino Gesù appena nato: e che i fedeli solleva, e rincora colla speranza del paradiso. « Gloria » (dicevano essi; e con essi ripete il Sacerdote, alzando gli occhi, le mani e il cuore), « Gloria a Dio nel più alto de’ Cieli, e pace in terra agli uomini di buon volere. Noi vi lodiamo e benediciamo, noi vi adoriamo, e vi rendiamo gloria, o Signore, ecc. ecc. » Questi sono accenti, che scoppiano interrotti da troppo gran piena di affetti. – Somigliante ai profeti d’Israello il Sacerdote rapito in santo entusiasmo d’amore, compreso da un fuoco divino consuma gli spazi del tempo, vola dell’animo dall’altare al presepio, dal presepio al cielo, e tra il cielo e la terra elevato, intuona « Gloria » cogli Angeli in cielo, a cui fan eco gli uomini in terra; e canta insieme sì veramente il cantico nuovo! Ben il profeta Ezecchiello udì esterrefatto in paradiso le legioni degli Angeli, che cantavano: « Gloria a Dio, all’Eterno, al Santissimo, al Signore degli eserciti; » ma quando essi videro l’Eterno Iddio fatto Bambino, in quella greppia, in sulla paglia, e lo adoravano; allora tremanti di tenerezza si dovettero abbracciare fra loro quei beati, ed accennandolo lì in basso, nato per noi, all’immortal cantico della gloria di Dio in cielo dovettero aggiungere l’inno di pace agli uomini sulla terra. Scendevano in fatto gli Angeli a cantare « pace in terra agli uomini di buona volontà! » –  Prosegue poi il cantico, che noi qui cerchiamo di spiegare. Continua adunque: « Ah! Signore, rendiam grazie a Voi per la vostra gloria ecc. ecc. » Voi grande Iddio, Signor dell’universo, re dei Cieli! Ah! Voi, Dio onnipotente, Voi ci siete Padre? Santa Fede! Vi abbiamo conosciuto per tale dall’ora, che ci vedemmo innanzi il vostro Figlio, fattosi per noi nostro fratello. Vi rendiamo grazie adunque per la grande gloria, che per noi sì volge in infinita misericordia (Ben. XIV. De sac. Miss. lib. 2, cap. IV, n. 17). « Ah! Divin Figliuolo unigenito, Gesù Cristo, Signore nostro, Agnello di Dio, Figliuolo del Padre, che togliete i peccati degli uomini, abbiate di noi pietà. Voi che togliete i peccati del mondo accogliete le nostre suppliche ecc. ecc. » Voi ci avete comprati col vostro Sangue, o grande Iddio, che state qui sulla Croce agnello sacrificato innanzi al Padre vostro. Ora intendiamo che avremo pace col Cielo, poiché abbiamo di che pagare i debiti nostri col sacrifizio vostro. Compite adunque l’opera della vostra misericordia, togliete i peccati del mondo. –  « Voi che sedete alla destra del Padre, abbiate di noi pietà ecc. ecc. » Verbo eterno, alla destra del Padre con Voi avete pure sollevato in seno al Padre la vostra umanità, avete portato in Voi quelle piaghe, che gridano per noi pietà! Aprite le viscere della vostra misericordia divina con noi che tutto osiamo aspettarci da Voi, c il solo Santo, il solo Padrone di tutto, il solo Altissimo Gesù Cristo, col Santo Spirito nella gloria Dio Padre. Amen. È così, o Signore, e noi siamo già di tutto lo speranze in voi confortati. – Ma la Chiesa ha i suoi giorni di rammarico, e di dolore, che ella consacra a piangere sugli infelici, che, abbandonato Dio, fonte solo di vera felicità, si dànno in braccio al peccato, e trovano la miseria, e poi la disperazione e la morte eterna. Povera madre! invano per alcuni de’ suoi figliuoli ancora sospira la pace annunciata dagli Angiolì; invano la prega per tutti gli uomini, perché non tutti sono di buona volontà! I peccati, adunque tolgono quel beato accordo tra il cielo e la terra che Gesù ristabiliva col suo nascere al mondo, e fanno della terra un luogo d’esilio e di maledizione. Allorché gli Israeliti prigionieri in Babilonia, stanchi delle schiave fatiche, sedevano desolati la sera sulle rive dell’Eufrate, e cogli occhi al cielo contemplavano muti la luna, e la invidiavano, ché di là ella almeno potesse riflettere un mesto raggio sulle rovine della cara Gerusalemme; quando i loro padroni andavano ad essi dicendo: « Su via rallegrateci con uno di quei cantici di Sion, che voi dovete cantare così bene: fateci sentire i belli inni delle vostre solennità; » essi accorati di cupa tristezza in quella misera schiavitù, mentre invece del canto usciva loro di gola un angoscioso sospiro, chinando lo sguardo sulla terra straniera, la bagnavan di lacrime! (Canon. Hi duc. de consecrat. Dist. 1). Così pure la Chiesa in queI giorni, in cui ella piange in modo particolare i peccati degli uomini, nega ai suoi figli di cantare in giocondità l’inno degli Angioli, per far intendere che mal s’addice alla terra, finché è insozzata di peccati, il cantico del paradiso. Per questa ragione non si canta il Gloria dalla domenica di Settuagesima fino alla Pasqua, e nel tempo dell’Avvento, (tranne nelle feste particolari, che corrono in questi tempi); come pure non si canta nella Messa pei defunti, perché ancora non hanno pace quelle anime benedette, e sospirano nell’esilio la gloria, che le aspetta. – Crediamo bene anche di avvertire che il Gloria in excelsis si cantava dai catecumeni, perché intendesserola grande loro ventura di rinascere figliuolidi Dio con Gesù Cristo nel santo Battesimo.Essi uscivano dal Battesimo vestiti di bianco, coigigli sulla fronte, colla candela accesa in mano,e cantavano la gloria di Dio e la consolazione diessere rinati a vita eterna. Pigliamo animo noi,e col Sacerdote innalziamo gli occhi al cielo, confortandocicol pensiero che là abbiamo un Padrein Dio, che ci ama come figliuoli, un Redentoreche ci salva, uno Spirito santificatore, amor sostanzialedel Padre e del Figlio, che ci vuole beatiin seno a Dio. E coll’anima così elevata « è là,diciamo, la patria nostra! » Apriamo i nostri cuoridavanti al Padre delle misericordie, acciocché Eglici piova di cielo lacrime di contrizione; diamocitutti in mano al Signore nostro, offrendo la vitanostra temporale tutta sacra a sua gloria per l’acquistodell’eterna. Oh sì, dai pié della croce, mostrandoGesù quasi agnello sacrificato sopra di essa,possiamo bene guardare lassù, pieni di speranzadel paradiso! Sarà questa la disposizione più conveniente,con cui da questa terra sì bassa potremocantare l’inno cogli Angioli in cielo. – Nelle Messe dei sabati avanti le domeniche diPasqua e di Pentecoste si amministravasolennemente il Battesimo, uscendo dal sacro fonte i novelli rigenerati, intonavano il cantico « Gloria. » Allora suonavansi le campane a giubilo, come ancora adesso si pratica per festeggiare la loro mistica risurrezione dalla morte alla vita eterna; anche per proclamare la gloria del trionfatore della morte, e la discesa dello Spirito Santo, che infuse la vita alla Chiesa novella.

LA GRAZIA E LA GLORIA (60)

LA GRAZIA E LA GLORIA (60)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO XI

IL CARATTERE SOPRANNATURALE E GRATUITO DEI DONI FATTI DA DIO AI SUOI FIGLI. – UN’ULTIMA PAROLA SULL’ECCELLENZA DELLA GRAZIA E DELLA GLORIA.

CAPITOLO IV

Una parola finale sulla grandezza soprannaturale della Grazia e della Gloria.

1. – Abbiamo detto abbastanza per concepire, almeno imperfettamente, a quali altezze al di sopra della natura, delle sue perfezioni e delle sue legittime pretese, Dio si è compiaciuto di elevarci, quando ci ha adottati come suoi figli, da schiavi che eravamo per la nostra origine e ancor più per il nostro peccato. Un testo di San Paolo ce lo mostrerà forse in modo ancora più eclatante. « È per grazia di Dio – dice questo grande Apostolo – che sono quel che sono: Gratia Dei sum id quod sum » (1 Cor. XV, 10). Studiamo e meditiamo su tutto il significato contenuto in una frase così profonda. « Io sono colui che è – rispose Dio a Mosè che gli chiedeva il suo nome. E questo è ciò che dirai ai figli d’Israele: “Colui che è”, mi ha mandato a voi » (Esodo III, 15). Dio è Colui che è, perché è l’Essere stesso; « perché Egli stesso è per Sé stesso e per tutte le cose, e perché è in un certo modo l’unico Essere, essendo il suo Essere e l’essere di tutti » (San Bernardo de Consid., L. V. c. 6, n. 13: Ipse sibi, ipse omnibus est, ac per hoc quodammodo ipse solus est, qui suum ipsius est et omnium esse »). – Egli è Colui che è; tutti gli altri esseri, le sue creature, rispetto a Lui sono come se non fossero. « Tutta la mia sostanza – grida Davide – è come un nulla davanti a Voi » (Sal. XXXVIII, 6). « Alla Sua presenza – dice Isaia – le nazioni sono come una goccia d’acqua nel fondo di un vaso, come un granello di sabbia in una bilancia e le isole come una polvere leggera. Non basta dire: « Tutti i popoli sono davanti ai suoi occhi come se non lo fossero; sono per Lui come un vuoto nulla » (Is. XL, 17). Chi siete dunque Voi, o mio Signore e mio Dio? L’Essere per eccellenza, l’Essere. E cosa sono se mi misuro con Voi? Un’ombra dell’Essere, un nulla. E ora chiedo al vostro Apostolo: quali sono tutti i beni naturali che posso trovare in me stesso, per quanto grandi e preziosi possano essere per gli uomini ciechi, in confronto alla grazia consumata, anche quella che è ancora allo sbocciare? Un nulla. Perché? Perché questi doni mi costituiscono o mi perfezionano tutt’al più, al massimo nel mio essere umano, mentre la vostra grazia, la più alta ed incomprensibile partecipazione della vostra natura, mi conferisce un essere divino. Dio, dunque, dicendo: Io sono colui che è, ha proclamato l’infinita eccellenza della sua natura; e San Paolo, dicendo con quasi uguale enfasi: È per grazia di Dio che sono ciò che sono, ha dato la vera formula in cui si riassumono gli splendori della vostra grazia e della vostra gloria. – San Paolo era di famiglia onorata; era di condizione libera; era cittadino di Roma; si distingueva per l’eccellenza del suo ingegno. Diciamo di più: San Paolo era potente in opere e taumaturgo; era l’Apostolo delle genti e la loro luce; egli veniva favorito con le più sublimi rivelazioni dal cielo. Tutti questi « Egli ERA », che tuttavia lo innalzano così tanto, rispetto all’essere donatogli dalla grazia santificante e vivificante, non contano: perché è grazie ad essa che egli è e vuole essere ciò che è. – Che cosa sono dunque gli sventurati che non hanno ancora la grazia, o che l’hanno deplorevolmente persa, in confronto ai giusti, arricchiti del tesoro della grazia? Dal modo in cui la Sacra Scrittura ne parla, sembrerebbe che il rapporto tra i due tipi di uomini sia simile a quello delle creature con l’Essere increato. Il Re-profeta, dopo aver glorificato Colui che cammina senza macchia ed opera la giustizia, aggiunge « il malvagio è ridotto a nulla davanti a Lui » (« Ad nihilum deductus est in conspectu ejus malignus », Salmo XIV, 4). Questo è anche il pensiero del Savio: « Quando – egli dice a Dio – un uomo vorrebbe essere una meraviglia tra i figli degli uomini, se la tua sapienza ne è assente, deve essere considerato un nulla » (Sap. IX, 6). In altra parte, i nostri Libri sacri riportano questa ardente invocazione della santa regina Ester al suo Dio: « O Signore, non consegnare il tuo scettro a coloro che non sono », cioè agli empi (Esth. XIV, 11). È ancora Abdia che profetizza delle nazioni, nemiche di Dio, « che saranno come se non fossero » (Abd., 16). Su ciò San Girolamo fa questa osservazione: « Dell’uomo che muore nei confronti di Colui che disse a Mosè: “Colui che è mi ha mandato a voi”, è scritto che egli non è, secondo l’uso della Scrittura ». – Ma perché non dovremmo tornare a San Paolo? Non ha forse scritto di sé questa sentenza per sempre memorabile: « Anche se parlo il linguaggio degli Angeli e degli uomini… anche se penetro tutti i misteri e le scienze, anche se ho una fede che può spostare le montagne, se non ho la carità (in altre parole, se non ho la grazia di Dio grazie alla quale sono ciò che sono), non sono nulla, nihil Sum » (I Cor., XIII, 1, 2). Io ho letto nella Scrittura che gli occhi del Signore si posano con compiacenza sui giusti: e questo perché sono uno spettacolo bello, una cosa grande davanti a Lui, poiché vede in loro l’immagine della sua natura, il santuario della Trinità, altri Se stesso. I peccatori, soprattutto quelli che sono eternamente vuoti di quell’essere che solo la grazia può dare, sono come cancellati dal libro dei pensieri divini. Dio non li conosce più (Mt. XXV, 12), tanto che sono per Lui una cosa senza realtà. – Qual è, dunque, la disgrazia e la follia di coloro che, per amore di miseri beni terreni, per il godimento di un giorno, o forse di un momento, non temono di rinunciare a questa grazia! Dovremmo dire che sono omicidi di se stessi, perché uccidono nelle loro anime il principio della loro vita per eccellenza, la loro vita soprannaturale? La Sacra Scrittura ci autorizza a farlo: « Chi non ama, rimane nella morte », dice l’Apostolo dell’amore (I Joan III, 14). E San Paolo: « La vedova che si abbandona ai piaceri è già morta » (I Tim. V, 6). Questo Vescovo di Sardi, di cui parla l’Apocalisse, « aveva il nome di vivente; ma poiché era infedele, era un uomo morto » (Apoc. III, 1). « Ah – dice San Girolamo – quanti sono oggi coloro che, sotto l’apparenza della vita, portano in sé i loro funerali e, simili a sepolcri imbiancati, sono pieni delle ossa dei morti! » (S. Ierome, ep. 43; Simeone, Jun, Divin amor, c. 31, P. G. t. 120,). – Di certo si può dire che ogni peccatore è l’assassino di se stesso. Lungi dall’essere un’esagerazione, questo è un rimanere al di sotto della verità: perché egli si annienta in un certo senso, quando distrugge il suo essere per eccellenza, l’essere divino. « Questo popolo stolto non mi ha conosciuto; sono figli stupidi e senza cuore, abili nel male e non più capaci di fare il bene. Ed io ho considerato la terra, ed ecco che essa era vuota e come nulla… ho riguardato e non c’erano più uomini » (Geremia, IV, 22, 23, 25). È un’immagine troppo viva di un mondo in cui Dio non regna nei cuori. Contraddire queste affermazioni significherebbe accusare di menzogna i Profeti, gli Apostoli e lo stesso Spirito Santo che le ha dettate nei nostri Libri Santi; e pretendere di vedervi uno di quei giri poetici che la fredda ragione deve riportare nella giusta misura, significherebbe chiaramente solo ingannare se stessi. (San Tommaso, in diversi punti delle sue opere, tratta una questione che tocca da vicino il nostro argomento. Si può odiare se stessi? « No – egli dice – nessuno, propriamente parlando, può odiare se stesso: perché ogni essere desidera così naturalmente il proprio bene, che non può desiderare il male in quanto male. Pertanto, poiché amare è volere il bene, è necessario amare se stessi. Tuttavia, capita per accidente di odiare noi stessi, e questo in due modi. In primo luogo, in relazione al bene che vogliamo per noi stessi: a volte, in effetti, il bene ricercato, essendo un bene relativo, è semplicemente cattivo in sé. Ora, cercare per sé ciò che è assolutamente un male, è un non amarsi, un odiarsi, poiché odiare qualcuno significa volergli del male. – In secondo luogo, in relazione a se stessi, a cui si vuole del bene. Ogni cosa è innanzitutto ciò che vi è di migliore e di più importante in sé. Pertanto, le nazioni dovrebbero fare ciò che il loro re fa in questa qualità, come se il re fosse l’intera nazione. È evidente che l’uomo è principalmente spirito e ragione. Eppure, ci sono uomini che stimano al di sopra di tutto in se stessi ciò che sono per la loro natura corporea e sensibile. Pertanto, amando se stessi in base a ciò che ritengono di essere, odiano ciò che essi sono realmente, quando perseguono ciò che sia contrario alla ragione. Ed è in entrambi i modi che chi ama l’iniquità non solo odia la propria anima, ma odia anche se stesso. » – 1. 2, q. 29, a. 4; col. 2, q. 25, a. 7. Di contro, nessuno ama se stesso come coloro che, nel conflitto dei beni e delle tendenze, preferiscono l’uomo interiore all’uomo esteriore, cosicché non c’è per loro alcuna deviazione nel giudizio che danno del loro essere, né alcuna deviazione nell’amore. Per questo il Salvatore ha detto: « Chi ama la propria vita la perderà, ma chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna » (Giovan. XII, 25). Non ci saranno mai espressioni abbastanza forti per esprimere le eccellenze dello stato di grazia e per farci sentire ciò che perdiamo perdendola. Il peccatore rimane senza dubbio un uomo, poiché conserva la sua natura umana; ma è un “dio decaduto”, poiché non partecipa più alla natura divina. Immaginate un re potente, rispettato, vittorioso, arbitro del mondo. Improvvisamente le avversità si abbattono su di lui: sconfitto, schiacciato da un avversario spietato, viene cacciato dal suo palazzo, espulso dal suo impero, senza corona, senza seguito, senza risorse, ridotto all’estrema angoscia: un nuovo Giobbe su un altro letamaio. Chi dirà che non abbia perso tutto, benché gli resti ancora qualche brandello per nascondere la sua vergogna e coprire la sua miseria? Ma la perdita della grazia è infinitamente più disastrosa, perché la distanza dal possesso dell’Essere divino allo stato di natura decaduta è incomparabilmente più grande che il cadere dallo splendore più regale all’estrema povertà. Questo perché, secondo le forti parole di San Tommaso: « il bene di una singola grazia supera il bene naturale di tutto l’universo » (S. Thom., 1. 2. Q. 113, a. 9, ad 2).

2. – Perciò, di tutte le opere di Dio, la più nobile, la più eccellente, è la produzione della grazia e della gloria. Un bambino che esce giustificato dalle acque del Battesimo è una testimonianza più eclatante della virtù divina di migliaia di mondi prodotti per ordine di Dio. Dal punto di vista del modo di agire, è vero che la creazione prevale sulla giustificazione del peccatore, poiché parte dal puro nulla; ma, se guardiamo alla grandezza del termine, è la giustificazione ad avere una singolare preminenza (S. Thom., 1, 2, q. 113, a.9). – È secondo questa idea che Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni, interpreta le parole del Signore: « In verità vi dico: chi crede in me farà le opere che io faccio; ne farà anche di più grandi ». « Ascoltate dunque e comprendete: chi crede in me farà le opere che Io faccio; Io faccio per primo e lui dopo di me, perché Io lo faccio fare. E di quali opere parla, se non di quelle che trasformano l’empio in giusto? E ne farà di più grandi. E quali, ve ne prego? Fa dunque qualcosa di più grande di tutte le opere di Cristo, colui che opera la salvezza con timore e tremore? È vero, è Cristo che opera in lui, ma non Cristo senza di lui. Sì, dico, c’è un’opera più grande del cielo e della terra, e di tutto ciò che ammiriamo in cielo ed in terra. Il cielo e la terra passeranno, ma la salvezza e la giustificazione dei predestinati rimarranno in eterno. Lì vedo l’opera della mano di Dio; qui contemplo, inoltre, l’immagine di Dio » (S. August., in Joan Tract. 112, n. 3). Se la grazia iniziale, quella che fa in noi « l’inizio della sostanza di Cristo, initium Snbstiantiæ ejus” (Ebr. III, 14); quella che è solo il seme di Dio nelle anime (I Joan., III, 9), e l’alba ancora velata del giorno radioso dell’eternità; se, dico, questa grazia è di tale prezzo e di tale eccellenza, quale sarà allora la grazia consumata nella gloria? Invano cerco di immaginarlo: essendo essenzialmente al di sopra della mia natura, è immensamente al di là di ogni mia concezione. E sento i figli di Dio, che sono venuti alla casa del Padre, gridarmi dai loro troni: Non consumarti in sforzi vani, ma piuttosto: « Vieni e vedi, veni et vide » (Gv. I, 46). « E lo Spirito e la sposa che li hanno generati dicono: “Vieni” » (Ap. XXII, 17). Dovrei esitare a rispondere con San Giovanni: « Sì, io sto per venire”. Amen. Venite, Signore Gesù » (Ibid. 20). – « Grazie a Dio per il suo dono ineffabile. – Gratias Deo super inenarrabili dono ejus »  (II Cor. IX, 15): questo è il canto eterno dei figli adottivi nel loro trionfo. Facciano il cuore ed il sangue di Gesù che siano un giorno il nostro!

F I N E

LA GRAZIA E LA GLORIA (59)

 LA GRAZIA E LA GLORIA (59)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO XI

IL CARATTERE SOPRANNATURALE E GRATUITO DEI DONI FATTI DA DIO AI SUOI FIGLI. – UN’ULTIMA PAROLA SULL’ECCELLENZA DELLA GRAZIA E DELLA GLORIA.

CAPITOLO III

I principali errori riguardanti il carattere del nostro destino soprannaturale e i doni ad esso collegati. Lo stato di pura natura.

1. – Mi è sembrato che queste considerazioni sul carattere soprannaturale dei doni divini richiedessero, come loro naturale complemento, una rapida esposizione dei principali errori che vi si sono opposti. Questo sarà l’argomento del presente capitolo. La dottrina dei Pelagiani sosteneva che i doni della grazia e della gloria appartengono alla costituzione stessa della natura umana; o, per meglio dire, che tutto è naturale nell’uomo, poiché l’uomo ha bisogno solo delle sue forze native per vivere la vita di giustizia ed arrivare alla beatitudine nel seno di Dio. Lutero e i suoi primi seguaci rinnovarono questo errore, anche se sembrano esserne lontani. Da entrambe le parti, vige lo stesso principio fondamentale: la natura umana è sufficiente, indipendentemente da qualsiasi dono soprannaturale sopraggiunto gratuitamente. Ciò che tra essi dissente è che i Pelagiani non riconoscevano il peccato originale mentre Lutero, ammettendolo, lo esagerava fino all’assurdità nelle sue conseguenze. Secondo lui, infatti, la natura umana ha irrimediabilmente perso nella sua caduta la parte migliore di sé, cioè il suo potere di fare il bene: da qui, per l’uomo decaduto, la necessità di una grazia che ripari le rovine della natura. Verso la fine del XVI secolo, Bajo, un novatore la cui avventatezza sulla grazia era strettamente legata all’eresia del Protestantesimo, meritò che la sua dottrina venisse stroncata dalla Chiesa. Egli pretendeva, per vero, di separare la sua causa da quella di Lutero. Infatti, sebbene secondo lui la destinazione dell’uomo alla visione divina e gli atti con cui dobbiamo meritarla e apprenderla siano naturali; sebbene non riconosca alcuna differenza tra l’amore moralmente buono e l’amore soprannaturale meritorio, non arriva a dire, almeno chiaramente, con l’eresiarca, che il principio delle opere sante sia puramente e semplicemente una proprietà della natura. Nelle sue idee, un elemento necessario della salvezza è una certa assistenza dello Spirito Santo, “adjutorium Spiritus sancti“. Ma questa assistenza Dio la deve alla natura; perché la natura non potrebbe, indipendentemente da Dio, arrivare alla sua destinazione naturale, cioè alla visione di Dio. Ecco, dunque, nei suoi principi fondamentali, l’errore di Bajo: per l’uomo, e in generale per tutta la natura intelligente, non esiste altro fine ultimo che la contemplazione faccia a faccia e l’amore beatifico che ne consegue. Qualsiasi altro fine sarebbe indegno dell’immagine naturale di Dio; al di fuori di questo, solo indigenza e miseria. – Pertanto, non esiste più un Soprannaturale assoluto, poiché il destino supremo ed i mezzi per raggiungerlo rientrano nelle esigenze della natura. L’immortalità del primo uomo, la perfetta sottomissione dei sensi allo spirito, la facilità di evitare l’errore, tutti i privilegi che furono così liberalmente concessi al primo padre degli uomini, erano la condizione naturale dell’umanità. Non c’è da meravigliarsi che Bajo, con tali idee, sembri aver considerato un nulla questa grazia infusa dell’adozione, questa partecipazione alla natura divina che ci rinnova nell’uomo interiore e ci eleva al di sopra di tutto l’ordine della natura (Cfr. specialmente tra le 79 proposizioni di Bajo, successivamente condannate in blocco da S. Pio V, Gregorio XIII e Urbano VIII, le prop. 1-7, 12, 17, 21, 23, 24, 38, 62 e 63). Bajo concorda sul fatto che, nello stato attuale della natura riparata, questi stessi doni sono per noi una grazia non in sé stessi, poiché erano dovuti alla natura prima della sua caduta, ma per il modo in cui Dio ce li ha dati. Essi sono, io dico, una grazia, come la vista, miracolosamente restituita a qualche cieco, è gratuita. – Giansenio, nel XVII secolo, ebbe Bajo come ispiratore e maestro. Ma il timore di cadere, come la sua guida, sotto le censure della Chiesa, lo rese più riservato nel suo linguaggio. Non ci risulta che egli abbia mai messo in discussione la grazia abituale o le virtù infuse. D’altra parte, egli insegna espressamente di questa stessa grazia che essa non sia naturale come le proprietà e le potenze che emanano dalla natura, e che si possa darle il nome di grazia. (Se l’opera di Giansenio non fu condannata per questa parte della sua dottrina, ciò è forse dovuto a queste capziose precauzioni. Cf. Jansen., de Statu naturæ puræ, L. I, c. 15 et 20; item, de Statu naturæ innocentis, passim. Si vedrà dagli stessi testi che Giansenio diede il nome di grazia ai doni soprannaturali di cui il nostro primo padre fu arricchito, per la sola ragione che essi non erano dovuti a meriti antecedenti, erano cioè “grazia” allo stesso modo in cui la natura stessa è una grazia). Infatti, per lui come per Bajo, e aggiungiamo noi, come per Lutero e Pelagio, non c’è altro fine ultimo possibile per l’uomo che la felicità soprannaturale dei figli di Dio. Era una necessità dell’ordine che Dio, il Creatore dell’uomo, avesse destinato la creatura a questa beatitudine suprema; una necessità che gli fornisce gli aiuti indispensabili per meritarla: infatti, data la creazione della natura umana, l’ordine delle cose la richiede per essa e quest’ultimo fine e questi mezzi: tanto che Dio non poteva rifiutarla, fintanto che non fosse degradata, senza andare contro l’ordine essenziale. Così Giansenio, come il suo maestro, rovescia da cima a fondo la vera nozione di soprannaturale. – Il veleno della sua dottrina è messo a nudo negli scritti di coloro che furono i suoi discepoli più fedeli. A riprova di ciò, citerò la condanna dottrinale inflitta prima all’oratoriano Quesnel, poi ai teologi dello pseudo-sinodo di Pistoia. In effetti, Clemente XI e poi Pio VI hanno riprovato l’uno dopo l’altro, il primo in Quesnel, il secondo nei giansenisti di Pistoia, questa proposizione ricevuta dal loro comune maestro: « La grazia, come fu nello stato di innocenza, cioè di integrità, di giustizia interiore e di santità primitiva, non era un beneficio gratuito di Dio, ma una conseguenza della creazione, un privilegio dovuto alle esigenze ed alla condizione stessa della natura umana » (Constit. Unigenitus prop. 35: Constit. Auctorem ſidei, prop. 16). Medesima censura nei confronti di un’altra proposizione di Pistoia che negava all’immortalità di Adamo il carattere di beneficio puramente gratuito, per farne la condizione naturale dell’uomo (Cost. Anctorem fidei, prop. 17). – Aggiungo che nel corso del XVII e XVIII secolo si è rinnovata un’opinione che per certi aspetti presenta una spiacevole analogia con gli errori di Bajo e di Gansenio. Essa si ritrova tra alcuni agostiniani, ed il loro capostipite fu proprio un Agostiniano, Gregorio da Rimini, un genio troppo avventuroso, che volle riformare la Scolastica, tornando alla dottrina dei Padri della Chiesa ed in particolare di Sant’Agostino (Cfr. Berti, de Theol. discipl. Addit, ad L. XII, c. 3; Apol, D 2, c. 2, etc; item, 2, II D. 2 c. 1, § 1, n. 12 ss; Belelli, passim). – Secondo questi teologi, l’unico fine in grado di soddisfare i desideri naturali dell’uomo, l’unico adatto alla creatura ragionevole, in quanto ad immagine di Dio, suo Autore, è la visione di Dio. Al di fuori di questo, non c’è felicità possibile, ma solo inquietudine, imperfezione e miseria. Dunque, Dio doveva a se stesso il destinare la sua creatura a questa beatitudine ed il fornirgli i mezzi per raggiungerla. (Alla domanda posta loro: « Può Dio creare l’uomo senza destinarlo alla beatitudine soprannaturale e senza fornirgli al tempo stesso l’aiuto della grazia, indispensabile per ottenerla, gli Agostiniani avevano l’abitudine di rispondere con un distinguo. Poteva farlo di potere assoluto; non poteva farlo di potere ordinato. Per essi il potere assoluto è il potere considerato solo come tale, a prescindere dalle altre perfezioni divine. Il potere ordinato è lo stesso potere, ma agisce sotto la direzione della sapienza, della giustizia e della bontà. Così essi definivano un doppio Potere; non vedendo o non volendo vedere che, secondo queste definizioni, l’unico Potere adatto a Dio è il Potere ordinato. « In noi – dice il Dottore Angelico a questo proposito – la potenza e l’essenza non sostengono né la volontà né l’intelligenza; allo stesso modo l’intelligenza è diversa dalla Sapienza, e la volontà è altro che la giustizia: ecco perché può esserci nella nostra potenza qualcosa che non sia né nella volontà giusta né nell’intelligenza saggia. Ma in Dio tutto è uno, potenza, essenza, volontà, intelligenza, sapienza e giustizia. Perciò nulla può essere nel potere di Dio che non sia nella sua giusta volontà e nella sua intelligenza infinitamente saggia » (1 P., q. 25, a. 5, ad 1). Pertanto, ciò che Dio non può essere di potenza ordinata – in senso agostiniano -, è pure impossibile per Lui”). – Accusati di bajanismo, risposero che la loro dottrina non poteva senza calunnia, essere confusa con questo errore. Una cosa è dire che la grazia abituale o, secondo loro, la carità infusa e le altre virtù, siano rivendicate dalla natura come sue proprietà, come sue conseguenze o come sue spettanze; un’altra cosa è semplicemente sostenere che Dio debba, non alla natura, ma alla sua bontà, ma alla sua provvidenza (debito decentiæ Creatoris, debito providentiæ), l’aiuto alla creatura ragionevole, impotente da sola a conquistare quei beni che la sorpassano: la grazia e la gloria. Ora, essi aggiungevano, questa dottrina è nostra, ed è la prima che la Chiesa ha condannato in Bajo. – Questo lo ammettono prontamente: c’è una differenza tra gli errori di Bajo e l’opinione agostiniana. Infatti, sebbene quest’ultima non sembri aver ritenuto i doni della grazia proprietà derivanti dalla natura, essi li consideravano francamente come naturali. Ma è meno chiaro in che modo la loro causa differisca da quella di Giansenio; ed è anche difficile vedere come ciò che la provvidenza di un Dio saggio e buono non gli permetta di concedere all’uomo, ciò che senza il quale l’uomo non caduto rimarrebbe in uno stato di miseria, privato come sarebbe dell’unica beatitudine in relazione alle sue necessarie aspirazioni, sia tuttavia una grazia pura, al di fuori delle esigenze della natura (non ignoro che questa distinzione tra i due poteri fosse ammessa dai maestri della Scolastica. Ma il senso in cui lo intendevano essi, non ha nulla a che vedere con le idee degli Agostiniani. Perché cosa può fare Dio, secondo gli Scolastici, con il suo potere assoluto? Tutto ciò che non ripugna al suo Essere o alle sue perfezioni. E cosa può fare con il potere ordinato? Ciò che ha liberamente preordinato nella sua infinita saggezza; in altre parole, ciò che ha deciso di fare. – Cfr. Alex. Halens, 1 p., q. 20, m. 5; q. 21, m. 2; S. Thom, in III, D. 1, q. 2 a. 3. Se dunque gli Agostiniani avessero preso la distinzione in questo significato veramente scolastico, avrebbero potuto dire in tutta verità che Dio non poteva per potere ordinato negare all’uomo sia la grazia che la gloria, anche se lo poteva per potere assoluto. Ma questo equivarrebbe a dire che Dio deve fare ciò che ha deciso nei suoi consigli eterni, anche se avesse potuto decretare un altro ordine di provvidenza con la sua volontà sempre saggia). A dire il vero, tali scappatoie sembrano difficilmente ammissibili, e sono poco sorpreso che queste idee agostiniane esistano ormai nelle scuole teologiche solo come ricordo.

2. – Ne consegue che non si può, senza mettere in pericolo la dottrina cattolica del soprannaturale e della grazia, rifiutare quello che viene chiamato lo stato di pura natura. In altre parole, possiamo, anzi dobbiamo, considerare possibile ed assolutamente fattibile uno stato in cui la creatura ragionevole sarebbe uscita dalle mani del suo Autore con i soli doni naturali e senza la destinazione attuale della visione beatifica; in una parola, al di fuori di ogni ordine di grazia e della gloria a noi promessa. – Comprendiamo bene quale sarebbe il caso dell’uomo in quest’ordine della provvidenza, poiché la dottrina che lo afferma è stata singolarmente sfigurata per renderlo inaccettabile o addirittura odioso. Diciamo quindi che l’assoluta gratuità della visione beatifica presuppone evidentemente che per la creatura ragionevole si possa concepire uno stato di perfezione di ordine inferiore, una felicità puramente naturale: perché è assolutamente necessario che ci sia una felicità come fine supremo di questa creatura. Pertanto, poiché ogni ordine, da quel momento in poi, ha la sua ragione d’essere nella visione beatifica, la creatura ragionevole potrebbe, in questa ipotesi, arrivare al suo destino naturale con le sue forze native, indipendentemente dai mezzi soprannaturali che le sono concessi nello stato di elevazione, dove Dio ci ha liberamente stabiliti e restaurati. Pertanto, Dio poteva anche negare alla sua opera quei doni preternaturali di immoralità, integrità e rettitudine intellettuale, di cui aveva arricchito l’uomo nel giorno della sua creazione: questi privilegi erano una grazia e si riferivano al destino soprannaturale dell’uomo. – Da quanto detto sopra è abbastanza chiaro quale sarebbe lo stato di natura pura nelle sue linee generali. Non sorprende che la rivelazione non insegni direttamente nulla di preciso su questo ordine della provvidenza, e che i Padri non abbiano trattato la questione in modo dettagliato: è perché i Padri e la rivelazione dovevano piuttosto insegnarci esplicitamente la nostra reale dignità più che un destino che, di fatto, non era e non sarà mai nostro.  Tuttavia, questo tipo di astensione non è un silenzio assoluto; infatti, presentandoci i beni presenti come pura grazia, essi ci facevano al tempo stesso capire a sufficienza che poteva esserci per la creatura intelligente un destino naturale, al di fuori di questi incomparabili privilegi, cioè il destino dei servi e non più quello dei figli. Inoltre, quando si presentava l’occasione di toccare questi argomenti, i nostri santi Dottori sapevano come mostrare quale fosse il loro pensiero; ne è testimonianza questo testo di Sant’Agostino, così spesso richiamato nelle polemiche contro Bajo e contro il Giansenismo: « Anche se l’ignoranza e la difficoltà (che sperimentiamo dal lato della concupiscenza), fossero state la condizione primordiale della nostra natura, non sarebbe necessario accusare Dio, ma lodarlo e benedirlo » (S. August, Retract., L. I, c. 9, n. 6. Cfr. S. Thom, D. 31, q. 1, a. 2. Cfr. T. I, L. III. c. 2). Il grande Dottore, è vero, parla qui solo dell’assenza dei doni preternaturali concessi al primo uomo: ma ciò che dice va certamente ad autorizzare lo stesso giudizio per tutti i doni dell’ordine soprannaturale. – Quale sarebbe per il termine e per il cammino, questo stato di pura natura, né la filosofia né la teologia possono determinarlo se non per tratti generali. Sarebbe, per il termine, una piena fioritura delle forze che sono nella natura dello spirito: di conseguenza, la più alta e perfetta contemplazione di Dio a cui l’intelligenza possa arrivare, quando lo guarda nello specchio delle creature; un amore della bontà sovrana proporzionato alla conoscenza, cioè l’amore di un servo amato, ma non di un figlio o di un amico. E questa conoscenza e questo amore parteciperebbero alla beata immobilità dell’amore e della visione beatifica: perché è il destino naturale della creazione ragionata non rimanere sempre in uno stato di movimento. – La maggior parte dei teologi esita ad affermare che questa consumazione finale e questa perfezione comportino necessariamente una certa generazione dell’intero essere umano, cioè un’unione d’ora in poi indissolubile dell’anima e del corpo. Per quanto conforme alle aspirazioni dell’anima spirituale, e persino all’ordine generale delle cose, la ricostruzione di ogni uomo richiederebbe una trasfigurazione miracolosa, la cui necessità non sembra dimostrata: perché, dopo tutto, la beatitudine sostanziale può essere compresa indipendentemente dalla presenza e dal concorso degli organi. Eppure, nulla ci impedisce di pensare che Dio, ricco di misericordia, lo conceda con un favore singolare. – Per quanto riguarda la condizione del cammino, cioè lo stato di tendenza verso la perfezione finale, sarebbe sbagliato concepirla ad immagine della nostra condizione attuale, spogliata di tutti i doni e degli aiuti soprannaturali di cui è gratuitamente arricchita. Dio, creando l’uomo perché possa orientare la sua libera attività verso la gloria del suo Autore e la propria beatitudine, deve dargli l’assistenza positiva necessaria per perseguire il suo destino. Ma poiché può intervenire in molti modi, senza superare l’ordine della natura o fondare un nuovo ordine, sarebbe avventato cercare di definire il modo preciso della provvidenza che, in questa economia naturale, condurrebbe gli uomini alla salvezza finale. Ci sarebbero rivelazioni positive, Dio si accontenterebbe di un aiuto esterno o di tocchi più o meno frequenti alle intelligenze e alle volontà umane, tanti segreti che non spetta a noi penetrare. Un giorno, alla luce di Dio, vedremo chiaramente cosa potremmo essere in questo ordine naturale e la nostra gratitudine, per la bontà che ci ha innalzato così tanto nell’ordine della grazia, non conoscerà limiti.

LA GRAZIA E LA GLORIA (60)

CREMAZIONE = DANNAZIONE

CREMAZIONE = DANNAZIONE

“Figliuolo, spargi lacrime sopra il morto, e come per duro avvenimento, comincia a sospirare e secondo il rito, ricopri il suo corpo, e non trascurare la sua sepoltura”. (Sir. XXXVIII, 16)

[da: Enciclopedia Cattolica, vol IV, voce: Cremazione, C. d. V. 1951].

Trattiamo, su richiesta di alcuni lettori, del tema di grande attualità e di grande importanza per la nostra anima e per l’eterna salvezza: intendiamo parlare della pratica neo-pagana, o se preferite, gnostico-massonica, della cremazione. Secondo una simbologia piuttosto convenzionale, l’incenerimento dei defunti sembra voler significare che i corpi sono per sempre risoluti e dispersi, secondo il concetto gnostico del “tutto universale” nel quale ogni cosa si dissolverebbe alla sua morte, come ogni altra cosa priva di anima immortale, come le piante o le bestie; il rito cristiano, invece, dell’inumazione accompagna l’idea della morte equiparata al sonno, ed esprime con più aderenza la fede cristiana della finale resurrezione, ciò come espressione simbolica, non come realtà. In via assoluta, infatti, la cremazione non è contraria a nessuna verità naturale o rivelata; molto meno è tale da costituire un ostacolo all’onnipotenza di Dio per la resurrezione dei corpi. E neppure può dirsi che leda in qualche modo i diritti della persona umana: il cadavere non è più persona e quindi non è più per sé ed in sé essenzialmente inviolabile. Di fatto però la cremazione è ripugnante alla disciplina della Chiesa fin dai suoi primi inizi, contraria agli squisiti sensi di pietà cristiana verso i defunti; mentre il rito contrario, l’inumazione, per unanime, ininterrotto, tradizionale insegnamento, è assurto ad una aderente significazione dell’immortalità dell’anima, della fede nella resurrezione della carne; ad un richiamo palese di avvenimenti ed insegnamenti biblici, già operanti nella tradizione giudaica (si pensi alla figura del vecchio Tobia che rischiava la propria vita per custodire nella sua casa i morti che di notte poi segretamente seppelliva), come dell’idea del corpo-seme (I Cor. XV, 36-44), della terra-madre (Gen. III, 19; Giob. I, 21, Eccli. XL, 1.) della morte-riposo e sonno (Dan. XII, 2; Jo. XI, 11-39). – Tale pratica essenzialmente pagana fu ridotta man mano che si diffondeva il Cristianesimo. Con la vittoria della Chiesa tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, cessa la cremazione nell’Impero romano. Poi cessò fino a dissolversi pure in ogni paese ove era penetrato il Cristianesimo. Dopo l’anno mille, prese piede una strana usanza funebre in Europa, quella di cuocere bollendoli i cadaveri per scarnificarli artificialmente, perché più facilmente le ossa ripulite potessero essere trasportate da un luogo ad un altro. Una decretale di Bonifacio VIII (1299), colpisce di scomunica “latae sententiae” riservata alla santa Sede, i mandanti e gli esecutori di tale operazione, privando il corpo, così trattato di sepoltura ecclesiastica (c. I, De sepulturis, III, 6 in “Extravag. Comm.”). La decretale nel suo testo e contesto è anche una condanna implicita della cremazione, condanna che ebbe i suoi effetti perché la pratica della cottura e dell’incenerimento dei corpi fu interrotta per secoli. – Le origini del moderno movimento per la cremazione si vogliono ricollegare con la rivoluzione del XVIII secolo. Un primo progetto del Consiglio dei Cinquecento in Francia del 1797, per rendere facoltativa la cremazione, fu respinto, ma più tardi in diversi paesi europei ebbero successo altri tentativi. La massoneria ha molte responsabilità al riguardo. Pur non potendosi, per insufficienza di prove, imputarle la genesi di tale movimento, è vero che lo ha favorito in tutti i modi per spirito soprattutto anticlericale, curando di dargli quel carattere di indipendenza e di spirito di libertà di pensiero, di svincolamento da tradizioni religiose, che è stata la causa principale della condanna della Chiesa. Mentre la Chiesa diede prova di tolleranza in materia con i neofiti dell’India per non porre ostacoli alla loro conversione, intransigente invece si mostrò per opposte ragioni al fronte dei cremazionisti dei paesi cattolici, nei quali era evidente il proposito di scristianizzare. Nel 1° documento che è della S. Congregazione del S. Ufficio in data 19 maggio 1886 (Approvato dal Sommo Pontefice Leone XIII), la Chiesa condanna la cremazione come un detestabile abuso, proibisce di destinare per testamento o convenzione con le società di cremazione, o comunque, il proprio cadavere alla cremazione, o di far cremare quello degli altri; proibisce di appartenere a società cremazioniste, che, se affiliate alla massoneria, soggiacciono alle pene ecclesiastiche comminate contro quest’ultima, cioè le numerose scomuniche dei Papi dell’epoca, collezionate in pochi anni (Acta Sanctæ Sedis 19, 1886, p. 46.). Il 15 dicembre dello stesso anno usciva un altro decreto della medesima Congregazione, che interdiceva ai sacerdoti l’accesso al forno crematoio per compiervi i sacri riti, pur permettendoli nella casa dei fedeli o in Chiesa, qualora la cremazione avesse luogo per volontà dei superstiti. Ché se la cremazione avviene per destinazione del defunto, mantenuta fino alla morte, egli è privato della sepoltura ecclesiastica, come gli eretici e gli apostati scomunicati. Altri decreti in tale direzione, proibenti con l’interdizione dei sacramenti anche per i non massoni, furono sempre emessi dalla Congregazione dell’Indice il 27 luglio 1892, il 3 agosto del 1897 (in Acta Sanctæ Sedis, 30 del 1897, p. 630). Il 25 febbraio 1926 (AAS, 18 – 1926 – p. 282), ancora una volta il S. Ufficio ribadiva la condanna della Chiesa verso la pratica abominevole della cremazione come pure nel giugno del 1926. Il Codice Canonico (quello vero, pio-benedettino del 1917, che fa parte del Magistero infallibile ed irreformabile della Chiesa) è ancor più esplicito: La pena per chi, in qualunque modo, abbia dato disposizione che venga cremato il proprio cadavere, e non l’abbia ritrattata, è a norma del can. 2291 n. 5 e 1240 §1 n. 5, la privazione della sepoltura ecclesiastica e quindi, a norma del can. 1204, dell’accompagnamento alla Chiesa, delle esequie e della deposizione in luogo sacro. Conseguentemente il defunto sarà privato di qualunque messa esequiale, anche anniversaria (can. 1241). Alla luce di questi documenti ufficiali della vera Chiesa Cattolica, sottoscritti da Pontefici canonicamente validamente eletti, e quindi non modificabili in alcun modo da nessun vero successore alla Cattedra di S. Pietro (solo dei burattini massonici hanno potuto riformare riti, dottrina e canoni, ovviamente in modo truffaldino ed invalido), colui che decide di farsi cremare, o chi per lui decida, specie se appartenente alle conventicole di perdizione, è candidato all’eterna dannazione, ed in pratica anticipa di poco, con il fuoco materiale, lo stato di “fuoco eterno dell’inferno” promesso ai reprobi dal decreto evangelico del Signore Nostro Gesù Cristo. La cremazione, in altre parole, è l’anticamera del fuoco eterno nel quale verrà gettato ogni tralcio secco e sterile staccatosi dalla vite piantata dal Cristo, cioè la sua unica Chiesa, stabile, incorruttibile, immarcescibile, irreformabile nella dottrina e nella morale.  

Credo …. unam sanctam cathólicam et apostólicam Ecclésiam!

LO SCUDO DELLA FEDE (232)

LO SCUDO DELLA FEDE (232)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (5)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO III

ART. I.

Il Sacerdote, ed il Popolo si presentano all’altare,

Accompagniamo il Sacerdote, che si avanza nell’interno del santuario sino ai piedi dell’altare a compiere la tremenda missione. Mentre procede a grave passo, col corteggio di tutti i ministri, questo principe della Chiesa, l’accompagnano i cuori di tutti i fedeli, che con varia espressione di sentimenti mandano al trono delle misericordie i voti delle anime bisognose. L’organo, complesso ed insieme di tante voci distinte e diverse, rende immagine dell’unione di tutti gli animi, la vita dei quali sta nel movimento e nella espressione degli affetti. Mentre si suona il preludio, il quale è una successione d’accordi, vagante incerto di dissonanze in consonanze senza ritmica misura e tendente alla sospirata meta della cadenza, si associa perfettamente alle menti dei fedeli. All’udire questi suoi accordi dissonanti pei quali passa come inquieto, e si getta a riposo nell’accordo consonante, tu diresti che voglia esprimere i vari movimenti degli animi, che passano irrequieti pel tempo presente, per gittarsi a riposo nell’eternità.

Genuflessione innanzi all’altare e segno di croce.

Egli s’inchina, o s’inginocchia; e con questo prostrarsi a terra significa, che l’uomo deve cadere a nulla innanzi a Dio, e per render omaggio alla Divinità, deve prostrarsi nella polvere sua primiera per confessare il proprio nulla a Lui, cui tutto dobbiamo, e per adorarlo a nome di tutte le creature (Bona, Trac. ant. 1 cit.). Sorge; si segna della croce dal capo al petto, dall’una all’altra spalla. Questo segno adorabile, che spaventa i demoni, fu usato fin dai primi secoli dai fervorosi Cristiani, che di croce segnavano sé stessi, e le loro azioni (Tertul De Coron. I. cap. 3). Esso chiama la benedizione di Dio sopra di noi, sulle cose nostre, e sulle nostre azioni per i meriti di Gesù Cristo (Mansi, Il vero Eccl. vol. 2, lib. 5, cap. 1). Con esso rammentiamo a Dio Padre, Figliuolo e Spirito Santo il maggior prodigio dell’amor divino. Nel momento, in cui noi vogliamo partecipare alla più grande sua misericordia, e rendergli maggior gloria, col segno della croce, armiamo dirò così, un diritto di aspettare tutte le grazie da  quel Dio, che morì sulla croce per noi; e vogliamo dire col segnarci: « Se abbiamo l’ardimento di alzare la fronte, e presentarci all’altare del Santissimo Iddio, questo avviene, perché siamo coperti della croce di Gesù Cristo. » Gran mistero! Col Sangue di Gesù Cristo, per lo Spirito Santo rimpastala l’umana natura, noi siamo rinati alle speranze eterne, figliuoli divenuti di Dio medesimo. E contenendo questo segno di croce, come insegna s. Tommaso e la Chiesa, i principali misteri di nostra santa fede, noi nel segnarci nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, press’a poco vogliamo dire così: nel nome del Padre, grande Iddio! sì, voi con noi non siete più il terribile Ieova, che agli ebrei non bastava l’animo di pur nominare; ma anche in mezzo alla vostra gloria vi riconosciamo in volto, siete nostro Padre. Eh! Vi siete lasciato conoscere… Sì, vi abbiamo conosciuto proprio per nostro Padre, quando ci avete dato vostro Figlio ad essere nostro fratello, ed a partecipare a noi eziandio il suo Sangue Divino. Deh! E qual degli uomini avrebbe mai avuto ardimento di chiamar Dio col nome di Padre?… Nessuno, nessuno, fosse pur degli angioli. Ma la Madre Chiesa, palpitando sul Cuor di Gesù, che si tiene in seno nel Sacramento, e ne conosce ben tutti i segreti, «su, su, ci dice, chiamate pur Dio col nome di Padre. » Nel nome del Figlio, o Gesù benedetto, li su nel cielo tra i fulgori della vostra gloria avete qualche cosa del nostro, avete della nostra carne, del nostro sangue, siete Voi della nostra famiglia… vita nostra, Gesù! Nel nome dello Spirito Santo; Spirito Santo, Amor eterno del Padre e del Figlio, spirate da Gesù qui con noi in seno al Padre, e travolgeteci nel vortice della beatitudine eterna: coronate l’opera del Padre, che crea, del Figlio, che salva: santificateci voi; alimentateci dell’eterna felicità in seno a Dio. – Quando siamo per pregare, ed anche in tutte le altre occasioni, temendo troppo di comparire innanzi a Dio, e trattare con Lui, colle brutture sull’anima dell’uomo peccatore, affrettiamoci di metterci sotto la croce dì Gesù Cristo, di coprirci colle sue piaghe, di mettere innanzi i suoi meriti, confortandoci con questi pensieri. Per questo la Chiesa prima di tutte le preghiere, in tutte le benedizioni, usa sempre fare il segno della Croce. Noi non lavoriamo pel mondo, nè pel tempo presente; il nostro cuore ha il suo tesoro, a cui Sospira incessante, lassù in Cielo. Giacché essendo noi concittadini del paradiso lavoriamo a conto del nostro Re e Padrone, cui serviamo sulla terra. Segniamo adunque come il Sacerdote sovente il capo, il petto, le membra, anche le nostre azioni colla Croce (S. Hieron. Ep. Ad Eustoc.. S. Ambr. Lib. De Isaac et anima, can. 8), perché al mondo e a’ suoi desideri siam crocifissi, Poiché deve venire il dì della grande giustizia, e l’Angelo di Dio con una spada di fuoco caccerà tutti i reprobi alla sinistra. Benedetto allora chi in quel di sarà in sulla fronte crocesignato, giacché sarà questo il segno dei predestinati pel paradiso. Come in quella notte, in cui l’Angelo vendicatore scorreva per l Egitto a dar la morte a tutti i primogeniti degli Egiziani, passando egli innanzi alla casa degli Israeliti, veduto il sangue dell’agnello, di che erano bagnate le imposte, abbassava il capo in venerazione della figura del sangue di Gesù Cristo, e tirava innanzi senza offendere persona, così alla vista di questo segno di Croce rosso del Sangue di Gesù Cristo, di che saranno bagnate e segnate le nostre teste. s’inchinerà riverente il terribil Angiolo del giudizio, e ci lascerà alla destra, perché per Cristo e con Cristo e in Cristo, tutto abbiam fatto per Dio in ispirito di adorazione e di penitenza.

Art. II.

Salmo: Judica me Deus.

Avvertiam qui per più facile intelligenza di ciò che diremo, che il popolo anticamente accompagnava nella Messa il sacerdote (Ben. XIV loc. cit. cap. X, n. l, cit. op.), cosicché egli rispondeva alle parole, e alle preghiere del Sacerdote, frammischiandovi le sue. Era dunque allora un confortarsi a vicenda, un implorare a vicenda la divina bontà, un eccitarsi a fervore tra il Sacerdote e quelli che erano ammessi ad aver parte con lui al santo Sacrificio. – Presso alcuni popoli d’America, quando un povero supplicante si presenta alle porte di un grande, tocca ad un fanciullo introdurlo alla presenza (Chaleaub). Ora per lo più la Chiesa fa rispondere a nome del popolo da un fanciullo. Bene sta: un’anima Vergine, come un fanciullo pieno di vita e di speranze, è la meglio fatta per entrare con confidenza a parlare con Dio, ed esprimergli il giubilo delle anime ringiovanite alla vita eterna.

Il Salmo Judica me Deus, che si recita a pié dell’altare, è un monumento della severa disciplina ecclesiastica degli antichi tempi. In esso esprimesi in sul principio, come si discernevano i santi dai peccatori con rigore di giudizio. Non tutti i Cristiani venivano ammessi al gran Sacrificio senza riguardo e discrezione. Nei popoli si faceva la cerna colle regole della più rigorosa disciplina: i soli giusti, che avevan conservata l’anima innocente, quale uscì dal battesimo, e i penitenti, che già avevan lavati i loro peccati nel Sangue dell’Agnello, potevano accompagnare il Sacerdote colle parole del santo Profeta. Gli altri intanto si mettevano a gemere alla porta per la disgrazia d’essere esclusi. Ci gi stringe il cuore di compunzione nel ricordare i pubblici penitenti, i quali, non essendo ammessi ai santi Misteri, si fermavano nel portico innanzi alla porta della chiesa. Quivi Vestiti di sacco, cospersi di cenere, con una corda al collo, colle mani giunte sul petto, stavano prostrati per terra quei fervorosi umiliati, ed abbracciavan le ginocchia, cogli occhi pieni di pianto raccomandandosi a quelli che andavano a partecipare al Sacrifizio, più fortunati di loro, cui non era dato entrare! Gran lezione per noi, che portiamo arditamente sino nel più interno del Santuario anime cariche di peccati, senza il più piccolo indizio di penitenza, quasi che la moltitudine dei peccatori autorizzi qualcuno di noi, a profanare il luogo santo colle irriverenze, ed oltraggiare la gran Vittima divina col nostro induramento! – Invitiamo coloro, che han desiderio di entrare nello spirito della Chiesa, che è lo Spirito del Signore, a meditar questo salmo, e a far proprie quelle espressioni, che risvegliano nel nostro cuore le disposizioni colle quali la Chiesa desidera preparare i suoi figliuoli. Sono questi come gemiti inspirati dallo Spirito Santo. Ci voleva Proprio sol questo Santo Divino Spirito, che comprende nella Sua eternità, come tutti i tempi, così tutti gli individui e i loro bisogni, che si facesse interprete delle povere anime nostre. Perciocché quant’è tenero e sublime questo dialogo tra il Sacerdote e il popolo! Il Sacerdote: questo nome rappresenta un uomo incanutito nella tradizione, Un uomo, che visitò i regni della verità, e scorse le rive dell’errore, e fece raccolta a pro degli nomini di saggezza più sublime, che non è quella del tempo. Quest’uomo, nel cui sguardo traggono i popoli a consultarsi, per leggervi pensieri venerandi, porta all’altare per la sua esperienza la cognizione delle miserie della povera umanità: depositario dei secreti di tutti, va per tutti ad offrire il gran Sacrificio. – Quest’uomo ai piè dell’altare è tutto compunto, e mentre con soave malinconia anima se stesso a gettarsi in braccio a Dio, lascia che i suoi figliuoli a Lui si confidino nel presentarsi seco al gran Padre delle misericordie. E questi rinati alla grazia, come un popolo di allegra gioventù, a cui ridono innanzi le più liete speranze, gli dicono le loro contentezze: ma egli da buon padre, sfogando la sua compassione, induce i suoi figli a piangere seco le proprie colpe. E qui un misto di compunzione e di speranze, che l’uomo sollevano alla bontà di Dio! – Noi procureremo d’interpretare questi santi pensieri nella seguente esposizione.

Il Sacerdote. « Io mi accosterò all’altare di Dio, e voi, o Dio della bontà, attiratemi tutto a voi affinché senza perturbazione di spirito, col fervore di un’anima ricreata, venga ad esercitare il ministero mio santo » (Bona in exposition. hui. Ps. Tract. ant. de san. Missæ) cap. 5 § 6.).

Il popolo risponde. « Sì, andiamo a Dio, egli letifica la nostra giovinezza. »  Il popolo del Signore è sempre pieno di gioventù, e di care speranze nella bontà di Dio.

Il Sacerdote. « Giudicatemi, o Signore, e la mia causa discernete dalla gente non santa, e dall’iniquo uomo ed ingannatore liberatemi. » Giudicatemi non col rigore della vostra giustizia; ché qual dei viventi resterebbe così a voi dinanzi giustificato? ma secondo la vostra grande misericordia. Noi non vogliamo più mai aver parte in peccato con quei poveri nostri fratelli, che si perdono nel mondo, commettendo l’iniquità. Deh! o Signore, non confondeteci con loro nel rigor del vostro giudizio; affinché non abbiam parte agli anatemi ed ai castighi contro loro fulminati. Separateci da loro, e tirateci a Voi per pietà, salvandoci dalle loro ingiustizie e da’ loro inganni.

Il popolo. « Oh sì, perché siete Voi, o Signore, la nostra fortezza. Ah! Voi la creatura vostra ributtereste Voi forse? Anima mia, perché te ne vai così trista, se i tuoi nemici cercano affligerti ? »

Il Sacerdote. « Mandateci, o Signore, dal cielo un raggio di quella fede, che ci fa comprendere nella sua grandezza la vostra verità, e questa luce di verità ci scorga, e ci accompagni sin sulla santa montagna, nel tabernacolo santo, dove voi abitate, o Signore. E qual sarà questo monte se non l’altare, il mistico Calvario, in cui Dio cogli uomini sì riconcilia, e poi resta ad abitare con essi (Car. Bona Trac. ant. de Miss. cap. 5, § 4.)?

Il popolo. « Ah sì, noi entreremo all’altare di Dio che letifica la nostra giovinezza! »

Il Sacerdote. « Io canterò sull’arpa le vostre lodi in questa adunanza, e confesserò la vostra misericordia. Grande Iddio, io ho paura per la mia miseria!… Anima mia, perché sei triste così, perché mi conturbi tu!?… » È sorpreso da un sacro orrore; ma gli risponde:

Il popolo. « Spera in Dio, che ha compassione di un’anima, che ne’suoi terrori gli si getta in braccio: Egli sol ci degni di uno sguardo, e ci farà salvi. Egli è il Signor nostro. »

Il Sacerdote. « O Dio! Chi ci fa degni di render merito al Signore di tante misericordie? Sia gloria adunque al Padre, al Figliuolo ed allo Spirito Santo; » e col più ardente fervore piega il capo in compunzione, e si porge pronto ad incontrar tutto per Dio, anche la morte (Card. Bona loc. cit.).

Il popolo. « Sia gloria e lode eterna, com’era da principio, ed è ora, e sarà sempre per tutti i secoli dei secoli. »

Il Sacerdote. « Mi accosterò adunque all’altare di Dio. »

Il popolo. « Sì, del Dio, che letifica la mia giovinezza. »

Il Sacerdote. » Il nostro soccorso è nel nome del Signore. » E si fa in così dire il segno di Croce; perché sui meriti del Redentore crocifisso appoggia tutte le sue speranze.

Il popolo. « Bene sta: Egli ha fatto il cielo e la terra. » Quasi dicesse: « sì, andiam con coraggio a Dio che letifica la nostra giovinezza; e, se è Dio la nostra speranza, la letizia della nostra gioventù, l’appoggio della nostra debolezza, di che temiamo? » Il Sacerdote rassicurato alquanto, s’accorda col popolo in confidare in Dio, e tutto si ripromette dalla sua bontà. Non gli rimane altro che gittarsegli a’ piedi per confessare i suoi peccati, togliere così gli ostacoli, che si frappongono tra Dio e i suoi figliuoli, e lì fanno indegni d’avvicinarsi a Lui.

La Confessione e l’Assoluzione

Confiteor, Misereatur, Indulgentiam.

Il Confiteor è un’umile confessione dei peccati, che fanno a vicenda il sacerdote e il popolo innanzi a Dio, alla presenza della Chiesa. La confessione del proprio peccato Dio aveva ordinato doversi far precedere fino agli antichi sacrifizi, in cui si offrivano agnelli e tori. Il sommo sacerdote, gli altri ministri della legge antica, tutti gli Israeliti, quando portavano la loro offerta, erano obbligati a confessarsi per peccatori con questa parola « Io ho peccato, ho commesso ingiustizia, » La prima disposizione a ricevere i doni di Dio è il cuor vuoto di noi stessi ed il riconoscere che da noi non abbiam niente, che buono sia; perché in verità quello che veramente è tutto nostro, è solo il peccato. Perciò per meritarci compassione e perdono da Dio, quel tutto che possiamo fare è presentarci in umiltà, e pregarlo di rinnovare tutto che vede in noi corrotto per terrena fragilità, o violato per opera del demonio. Il giusto, dice lo Spirito Santo, prima di tutto s’affretta ad accusar  di accusare se stesso e le opere sue (Proverb. XIII,17). Ora il Sacerdote, che, sollevato in mezzo del santuario, deve rendere immagine dell’uomo giusto, ed anzi rappresenta il Capo dei giusti il quale prese sopra di Sé i peccati di tutti, e si presentò in somiglianza d’uom peccatore (ad Rom. VIII, 9); deve precedere agli altri col buon esempio nel sentiero della giustizia. Perciò per praticare la giustizia, rinnovato il segno di croce, protesta solennemente innanzi a Dio, innanzi alla Regina del Cielo, al gran Principe delle Potenze celesti, Michele Arcangelo, a s. Giovanni Battista, innanzi ai santi Apostoli, a tutta la Corte celeste, in faccia a tutta la Chiesa in terra, che egli è troppo gran peccatore, e, picchiandosi il petto in segno della sua gran confusione, si chiama in colpa, e si ripete grande e grandissimo peccatore, e piange il più terribile dei mali, l’offesa di Dio. Il perché non dovrebbe ardire di andare più avanti; ma confida nella misericordia di Lui, della cui bontà abbiamo prove così certe: si mette sotto la protezione di Maria s del beato Arcangelo, degli Apostoli e di tutti i Santi; ed appoggiandosi ai loro meriti ed alle preghiere, si raccomanda ai suoi fratelli di accompagnarlo dinanzi a Dio colle loro suppliche, per Ottenergli il perdono delle colpe, che con dolore confessa di avere commesse coi pensieri, colle parole e coll’opere, per sua gravissima colpa.

Il popolo risponde. « Il Dio nostro è onnipotente, e noi lo preghiamo, che colla sua misericordia rimetta i tuoi peccati, e ti conduca all’eterna vita. »

Quindi è, che la necessità di avvicinarsi alla santa Mensa con un cuor puro rese tanto sovente praticato il precetto della confessione. Poiché il peccatore pentito sente uno stimolo a compiere questo dovere, per molti rispetti così penoso, per la letizia promessa del banchetto divino. Di modo che la pratica della confessione e della penitenza è strettamente legata alla fede della Comunione di Gesù Cristo (Wiseman, Conferenze sulle dottrine e pratiche più importanti della Chiesa catt. Conf. 16.). Non è quindi da far meraviglia, se i protestanti, quando spensero il fuoco del sacrifizio coll’abolire la santa Messa, abolissero anche la sacramentale confessione, e togliessero agli uomini il conforto di sentirsi riconciliati colla virtù del Sangue di Gesù Cristo. Essi non hanno più bisogno di prepararsi a comunicare con Dio! – Questa confessione al principio della santa Messa ricorda la confessione dei peccati, che per ricevere il perdono si usava altre volte fare pubblicamente. Tempi fortunati eran quelli, in cui la vera fede veniva provata nel crogiuolo delle tribolazioni, dal fuoco delle persecuzioni. Allora ascriversi al numero dei fedeli seguaci di Gesù Cristo» importava avere il coraggio di dare il nome alla proscrizione, ed aspettarsi intrepidamente la morte in premio delle più grandi virtù e dei maggiori sacrifici che essi facevano, rinunciando alle speranze di un secolo, largo promettitore. – Figuriamoci quegli uomini traditi dai loro congiunti, rifuggiti nelle caverne, quasi belve feroci, quivi pur cerchi a morte, quando era loro concessa la sorte di potersi trovare insieme a celebrare la santa Messa nei sotterranei col loro Vescovo, che era la prima testa designata al patibolo, e che mostrava Sovente le onorande ferite e le membra mutilate, per essersi confessato Cristiano. Quando il Vescovo cominciava in mezzo a loro a confessarsi pel gran peccatore, doveva essere uno scoppio di pianto universale la risposta di quei santi confessori, i quali gareggiavano con lui a confessarsi pur essi per peccatori; come con lui gareggiavano nel dichiararsi Cristiani, e durar fermi in mezzo a quelle terribili prove delle persecuzioni. Picchiandosi tutti il petto, gridava ciascuno essere sua la grandissima colpa, e chiedevan a calde lagrime misericordia a Dio, aiuto ai Santi del Paradiso, e perdono al Vescovo padre: come il padre chiedeva perdono ai suoi figli: e tutti insieme perdono a Dio, per correre poi tutti insieme, come figliuoli perdonati, in seno al Padre eterno, al celestiale convito. – Deh! in qual miseria siamo venuti noi! Con una disinvoltura che fa spavento, si passa dalle baie del secolo, dalle tresche, dai peccati tranquillamente ad assistere nella Chiesa ai più tremendi misteri! Qui tutta la Preparazione sta in un’occhiata di leggerezza e di curiosità intorno, intorno, per divagarsi da una noia mortale, che già si sente prima di averla provata. Chi è di noi che si raccoglie a compunzione? Chi sente il terror dell’uomo peccatore nel luogo santo? Chi geme sprofondato nelle proprie miserie in faccia ai santi altari, e picchiandosi il petto in umiltà col buon Pubblicano (Luc. XVIII, 13), si fa coscienza di dire, gemendo: « Ah! Signore, dove mi trovo io miserabile, come sono, in questo momento tremendo! dove mi nascondo così gran peccatore, ora che il cielo si deve abbassare alla terra » e sta per comparire l’Uomo-Dio in mezzo di noi! O Dio della misericordia, siate propizio a noi peccatori! » Noi no, non ci commoviamo più che tanto. Oh! siam noi adunque i farisei superbi cui pareva aver già fatto troppo per Dio, se lo degnavano d’una svogliata e sprezzante presenza? Ma ecco: allora partivano ì nostri padri santificati dai sacrifizi; e noi ripartiamo peccatori col soprassello delle nostre villanie orgogliose e delle irriverenze sacrileghe. Allora il Sacerdote si sentiva in obbligo di rispondere consolanti parole a quelli, che lo intenerivano colla confessione delle proprie colpe; adesso dovrebbe sollevare gli occhi al Crocifisso, e sclamare nell’amarezza di un santo zelo: O Signore, alcuni di questi non sono più vostri adoratori! piegarono, (bisogna dirlo), il ginocchio a Baal, al mondo, ed al demonio, ché par disdegnino di piegarlo innanzi a Voi, né si curan punto di supplicarvi del vostro perdono! Ah! pesa così poco in questi poveri tempi, o gran Dio, pesa così poco sul cuore umano l’essere in vostra disgrazia! » – Però, se molti più non pensano di confessarsi per peccatori e giudicarsi adesso, cioè fare nel mondo i proprii conti colla misericordia di Dio, per iscampar dal rigore della giustizia sua nell’eternità; la Chiesa perdura sempre nei suoi gemiti, e nel suo dolore, e vuole che il chierico a nome del popolo faccia la santa confessione. Ma deh! mentre il fanciulletto con aria da spensieratello chiama Dio in testimonio dei nostri peccati ed insieme del dolor nostro, e la Vergine, che fu sì bene preparata alla santa destinazione di portar Gesù Cristo, e l’angelo, che fulminò il capo degli empi, che alzarono la testa in peccato contro Dio, e cacciatili dal paradiso li confinò nell’inferno, e s. Giovanni, il miglior degli uomini, perché esser doveva l’amico dello Sposo; e Pietro e Paolo, che piansero tanto, e tanto fecero di bene per soddisfare le colpe commesse, e tutta la Chiesa, che è in Cielo gloriosa, e fondata in terra sulla distruzione del peccato, noi colla coscienza carica e forse fetente di freschi peccati, noi duriamo lì insensibili, impenitenti? Noi così facciam insulto colla nostra presenza alla santità del Dio vivente, noi offendiamo tutta la Corte celeste, noi oltraggiamo l’eterna giustizia; e stiamo a vedere, che noi ci ridiamo della collera di Dio stesso? Deh! Tremiamo, almeno, quando recitiamo il Confiteor col Sacerdote, perché in quel momento Iddio penetra l’anima nostra col suo sguardo divino, e ci scruta le reni, e conta fino i pensieri ignoti pure a noi stessi. Eh! se Egli entra adesso con noi in giudizio, noi siam perduti, e già c’ingoia l’inferno! Affrettiamoci di buttarci ai piedi di Dio per confessarci colpevoli, ed implorare mercé. Diciamo: Confiteor: « Io mi confesso, » cioè io m’accuso a Voi, grande Iddio; voi avete creato ad immagine vostra quest’anima mia, figlia del vostro amore; ella deve esser felice in seno a Voi; io la buttai a sollazzo nelle creature; m’ingolfai nel peccato: ecco la povera anima mia, la vostra immagine insozzata di tante brutture. È mia colpa! Voi mi avete ricreato nello Spirito Santo col vostro Sangue ch’io profanai, ed oh quale tristo abuso io n’abbia fatto, Voi lo sapete! Ah mia grande colpa! Non basta: meravigliate, o cieli! Voi, o Signore, volete ancora sacrificarvi sull’altare, Voi darvi tutto a noi stessi; ed io qui senza fede, senza dolore, senza compunzione, noiato del vostro dono, non ho per Voi neppure un sol pensiero! Oh mia grandissima colpa! – Sacerdote e popolo piangiamo a gara i nostri peccati: ed allora, oh quale armonia di gemiti, che spettacolo commovente qui! Un popolo compunto, che apre l’anima, e mostra piangendo le piaghe dei cuori, e sfoga l’amarezza del suo dolore in seno a Dio ed ai Beati! Intanto il paradiso è aperto sopra di noi, e Gesù Cristo, e Maria, e gli Angeli, e i Santi, e la Chiesa in cielo cara a Dio pei suoi trionfi, e la Chiesa in terra cara a Dio pei suoi travagli, e il Sacerdote ai piè dell’altare, che coperto della croce di Gesù Cristo, fatto degno di farla da mediatore tra Dio e gli uomini, mette innanzi i meriti di Gesù Cristo! Intenerito dalla preghiera con cui il popolo per lui implora la divina misericordia, prima per sentimento di gratitudine fa pel popolo la stessa orazione, che il popolo ha fatto per lui: poi per compiere la sua funzione di pacificatore e di riconciliatore degli uomini con Dio, per la ragione del perdono che vuol concedere, mette innanzi l’onnipotenza e misericordia di Dio, cioè confessa, che per perdonare i peccati, e ricreare nell’innocenza un’anima, ci vuol tutta l’onnipotenza e misericordia di Dio. Omnipotens et misericors Deus!… Questa è una gran verità. Egli è più grande miracolo della divina potenza perdonare un peccato come insegna s. Tommaso, che creare l’universo. Perché per creare l’universo bastò una parola di Dio onnipotente; e per perdonare il peccato si vuole il miracolo di tutti i miracoli il più grande, il miracolo di Dio, che paghi il debito infinito col morire pel peccato. –  Quindi fuori della Religione cristiana il peccato commesso deve essere incancellabile; perché il male fatto non si può mai fare, che fatto non sia, ed il rimorso dovrebbe gettarci nella disperazione. Anche i protestanti, che pur ammettono Dio perdonare il peccato, ma però solo col coprirci dei meriti del Salvatore, tengono che sotto l’applicazione della giustificazione rimanga ancora incancellabile la colpa. Così, secondo essi, al disgraziato, che fu peccatore, può bene non essere imputato il peccato; ma egli porterebbe la piaga scolpita nell’animo sempre, e, fosse pure in paradiso, là pure sentirebbe la colpa anche in seno a Dio. Sconsolante dottrina! Quanto invece è veramente dottrina di grazia questa della fede cattolica, la quale insegna, che il Verbo divino colla più grande opera della sua onnipotente misericordia ricrea l’anima del peccatore, rimpasta, per dir così secondo l’energica espressione di Tertulliano (Lib. De pudicit.),  l’umana natura nel suo Sangue imbevuto di virtù creatrice divina, e così la rinnovella a vita eterna; onde frutto della passione di Gesù Cristo e sua morte di croce è la ristorazione e il ritorno dell’umanità all’innocenza e santità. L’uomo adunque, perché ha peccato, è in potere della morte, la quale è il salario e la vendetta del peccato; ma i fedeli, che colla faccia a terra confessaronsi d’essere decaduti dinanzi a Dio; alla benedizione del Sacerdote fattosi il segno della croce, terminata l’orazione della remissione dei peccati si raddrizzano sulla persona per significare, che per la grazia e virtù di Gesù Cristo ridonati alla vita, sì avviano al Padre di tutti i beni. – Preposte queste riflessioni, speriamo s’intenderà meglio il senso di quell’orazione, che accompagna l’assoluzione, detta il Misereatur e l’Indulgentiam. Dice adunque il sacerdote:

Misereatur.

« L’onnipotente Iddio usi con voi tutta la sua misericordia; e con essa, perdonandovi i vostri peccati, vi conduca a vita eterna. »

Indulgentiam.

« Sì, l’indulgenza, l’assoluzione, e la rimessione dei peccati nostri ci conceda l’onnipotente e misericordiosissimo Iddio. »

Qui rialzandosi alquanto il Sacerdote pare dica al popolo: « fate coraggio, coperti della croce di Gesù Cristo, leviamoci su, gettiamoci abbandonati tra le braccia della bontà di Dio, troveremo all’altare un Dio un Padre, che ci vuol dare tutto il bene. » Poi si rivolge a Dio con tale una confidenza, come chi sa d’aver tutto ottenuto dalla sua bontà. e dice:

Il Sacerdote. « O Signore, basta solo che vi degniate di volgerci uno sguardo, e ci farete rivivere sicuramente. »

Il popolo risponde. « Si veramente il popolo vostro ne andrà lietissimo, se vi degnerete.

Il Sacerdote. « Mostrate a noi dunque la vostra misericordia. »

Il popolo. « Donatela come il pegno più sicuro di nostra salute. »

Il sacerdote. « Signore, io vengo, ascoltate la mia preghiera. »

Il popolo. « Signore, il nostro grido giunga a Voi in questo santo momento. »

Il Sacerdote. « Fratelli, îl Signore sia con voi, »

e prega lo spirito di orazione a preparare il popolo a trattare con Dio.

Il popolo. « Ed accompagni anima tua, che ha tanto bisogno, lo Spirito del Signore, in questo officio di tanta pietà » (o. Chrys. hom. 14. in ep. ad Rom. et hom. 36 in 1 ad Cor.).

Il Sacerdote. « Via adunque preghiamo. »

Il sacerdote stende le palme, e S’avvia su pei gradini, che significano la via della perfezione, che conduce al cielo, e tutto raccolto in se stesso, camminando su quella mistica scala, sente tutto il peso della propria infermità, e un santo terrore lo ributta dall’altare del Dio vivente. Colla coscienza più che colla voce gemendo sulle sue miserie, protende tremanti le braccia verso la croce, e sale dicendo in secreto: « Per pietà togliete, o Signore, da noi le nostre iniquità, onde possiamo con un’anima tutta piena di casti pensieri entrare al Santo dei Santi. Deh! fatelo per pietà, per li meriti di Gesù Cristo nostro Signore. »

Bacio all’Altare.

Giunto sull’altare il Sacerdote stende le mani come in atto di abbracciarlo, e lo bacia dicendo: « noi vi preghiamo, o Signore, per i meriti dei Santi vostri, di cui son qui le reliquie, e di tutti i Santi a degnarvi d’usare indulgenza a tutti i nostri peccati. » – Questo bacio, che dà il sacerdote all’altare, a cui si tiene abbracciato, è uno dei riti, che inteneriscono alle lacrime chi bene l’intende. Esso significa la carità, che in Gesù Cristo abbraccia tutti i fedeli, e ricorda ancora quei tempi d’ingenua semplicità e di fervore, in cui i fedeli con un’anima bella d’innocenza battesimale trovatisi nel luogo santo si baciavano l’un l’altro in carità, e vuol dire, che ci dobbiamo amare come fratelli qui, e poi formare una sola famiglia col Padre nostro in cielo. Questo bacio significa anche il baciar, che facevano essi le tombe dei martiri, come noi le sante reliquie. – Significa poi finalmente un atto di ossequio e di umiltà, con cui il Sacerdote bacia quel sasso, su cui deve posare Gesù Cristo, baciando coll’anima le vestigie della santa sua umanità, come la peccatrice gli baciava i santi piedi, bagnandoli di caldo pianto (poiché l’altare cristiano è la mistica pietra, che rappresenta Gesù) (S. Thom., 3 par., qu. 83, art. 3, ad 5); come usano anche gli orientali, quando debbono essere introdotti innanzi ad un sovrano, o ad un grande, baciare la soglia nel presentarsi alla porta: come si baciavano dai fedeli anche le soglie delle chiese (S. Paul. in Nat. 6, s. Felic.). – Pertanto il sacerdote portando sull’altare nel suo cuore il cuore dei fedeli, bacia coll’anima in fronte tutti, e le reliquie dei Santi insieme con essi; e nell’atto che si prostra sull’altare, che è la porta del cielo, per cui s’introduce innanzi al trono dell’Eterno, allarga le braccia con questo bacio sopra l’altare, in atto di stringere al cuore Gesù ed unire questi suoi fratelli tribolati in terra con quelli già felici in patria, per averli insieme a beatitudine in seno a Dio. Oh! come il Sacerdote qui rappresenta bene l’amabilissimo Redentore divino in quel bacio di riconciliazione, che il divin Figliuolo dà all’umana natura, a quella povera carne segnata dal marchio di dannazione, in quell’atto, in cui allargando sulla croce le braccia, colle mani piene di sangue, purifica tutti, e gli raccoglie nel suo tenero cuore; e abbassa in sul morire il santo capo sul petto per dire agli uomini questa benedetta parola: « Coraggio, vi ho redenti!!! » Pare anche che qui si rinnovi invisibilmente la commovente Scena, che con caratteri così toccanti descrisse Gesù, del ritorno del figliuol prodigo: e che Dio appunto in questo istante accolga fra le braccia della sua misericordia i figliuoli ravveduti, ché gli corrono a piangere in seno: e che risponda loro, consolandoli col bacio del suo perdono, per introdurli poi al gran convito divino. – Conchiuderemo col devoto cardinal Bona (loc. cit.) proponendo che ogni volta, ch’imprimeremo sull’altare un bacio, per noi sarà accompagnato da un tenero atto d’amore verso Gesù Cristo Signor nostro e Padre, con un intenso desiderio di stare come membra a Lui uniti per sempre, come gli sono già i Santi, dei quali qui veneriamo le reliquie (Pouget apud Ben. XIV, loc. cit.).

Introito

Dopo il bacio di pace i fedeli si recavano ciascuno al proprio posto nelle chiese antiche, e i cantori in questo frattempo, finché tutti all’ordine fossero disposti, cantavano brevi salmi; e questo canto chiamavano Introito; perché in questo mentre ciascuno entrava nel proprio luogo. Nell introito si annunzia la funzione, e si dà principio alla solennità in quel canto, in cui il popolo esilara il suo cuore, e respira nella soave emozione della pietà. È per lo più ora un estratto dei Salmi, esprimente uno sfogo d’affetti; ora è uno slancio di esultanza: ora un gemito di contrizione, oppure un ricordo del mistero, che si va celebrando, ed un invito a goder santamente nel Signore coi Beati, di cui celebra la festa. Termina col Gloria Patri: così additando che tutto deve terminare a gloria della SS. Trinità, essendo essa principio e fine d’ogni cosa. Poi gode ripetere la soave espressione, con cui ha cominciato a giubilare. Ciò ben ci ricorda, che così lavorando a gloria di Dio, raccoglieremo consolazioni, che dureranno eterne, quando assorti in Dio ricominceremo un gaudio, che non avrà fine mai più. – Il sommo Pontefice Innocenzo II dice, che l’introito, essendo per lo più un estratto dai libri dell’antico Testamento, esprime i voti ed i desideri, con cui gli antichi Padri sospiravano il Messia (Ben. XXIV, loc. cit.). E intanto noi siamo freddi e vuoti di cuore senza che ci spiri mai dentro un’aura d’affetti a darci un po’ di vita. Però, se noi ci sentiamo abbandonati in tanta aridezza, e non è mai che una stilla ci piovi di Cielo, a rinfrescarci l’anima di qualche consolazione, lo dobbiamo attribuire al viver nostro spensierato di Dio, a questo nostro intervenir che facciamo alle sante funzioni, senza che il cuor nostro vi prenda parte, e senza richiamarvi tutti i pensieri, affine di accompagnare l’offerta del Sacrificio. Noi piangeremo col Profeta la cagione della mancanza di devozione ai nostri di, e diremo: La terra tutta è desolata, perché ormai non v’ha più nessuno, che raccolga i pensieri a meditar Dio, l’eternità, l’importanza di salvar l’anima, la vanità del mondo, che passa via colla rapidità del baleno, ed i santi misteri che celebriamo. Ora a noi consolati del perdono di Dio, bisognosi di tutto, non resta altro che ricorrere a Dio colla preghiera.

LA GRAZIA E LA GLORIA (58)

LA GRAZIA E LA GLORIA (58)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO XI

IL CARATTERE SOPRANNATURALE E GRATUITO DEI DONI FATTI DA DIO AI SUOI FIGLI. – UN’ULTIMA PAROLA SULL’ECCELLENZA DELLA GRAZIA E DELLA GLORIA.

CAPITOLO II

Come i doni di grazia e di gloria, ricevuti nell’anima, realizzino pienamente la nozione del soprannaturale. Qual è il soprannaturale per i corpi glorificati degli eletti?

1. – Con l’aiuto delle nozioni generali stabilite nel capitolo precedente, sarà facile mostrare quanto i doni dati da Dio ai suoi figli adottivi siano soprannaturali e liberi, non solo come modalità, ma anche come sostanza. Mi dispiace passare oltre la rassegna della magnifica raccolta di testimonianze che provano questo doppio carattere dei benefici che Dio ci concede per i meriti di Gesù Cristo, suo Figlio e nostro Salvatore. Si trovano ad ogni passo di questo lavoro e presto avremo occasione di segnalarne alcuni di grande importanza. È meglio studiare questi doni in sé, per far emergere fino a che punto si realizzi in essi la vera idea di soprannaturale e di gratuità. – « La visione beatifica, nel genere della causalità finale, è come la radice primaria di tutto l’ordine della grazia e di tutti i doni soprannaturali (« Visio beatifica in genere finis est quasi prima radix totius ordinis gratiæ omniumque supernaturalium donorum ». Suarez, de Deo, Tract. L. II, c. 9, n. 1 ». Questa è l’osservazione di Suarez; e questo grande teologo conclude giustamente che, se il carattere assolutamente soprannaturale di questa visione sia stato dimostrato una volta, si è provato allo stesso modo che tutti gli altri doni che essa presuppone e rivendica come sue proprietà siano anch’essi un prodotto non della natura ma della grazia. Ecco perché i teologi scolastici si sono impegnati così tanto per mettere in evidenza questo dogma. Essi sapevano che il principio fondamentale della dottrina cattolica sul destino soprannaturale della creatura ragionevole e sulle qualità o i mezzi che ci preparano a questo destino è la natura stessa del termine ultimo verso cui tutte le cose convergono, da cui tutte le cose sono determinate, a cui tutte le cose devono essere proporzionate. Se, dunque, la visione beata è totalmente al di là dei poteri, delle capacità e delle esigenze della natura, la grazia santificante, le virtù infuse e le operazioni che costituiscono i nostri diritti al possesso di questo fine ultimo, l’intero ordine della grazia e della gloria debba essere ritenuto soprannaturale e gratuito nella sua essenza, senza la necessità di provare ciascuna di questi benefici in particolare. – Questa dimostrazione, necessaria e fruttuosa, è già stata fatta. Non abbiamo forse stabilito che la visione beatifica è un’operazione il cui principio non si trova in nessuna intelligenza creata, se non tanto che non partecipi alla natura stessa di Dio? (Cf. T. I. Lib. II, c. 2.) Non abbiamo forse già dimostrato che questa stessa visione, oltre alla grazia santificante che ci rende partecipi dell’essere divino, esiga una luce superiore, « la luce della gloria » e l’unione più intima della forma ideale che è unicamente di Dio, poiché è la sua essenza (Cf. T. II, Lib. IX, c. 3.)? In vero, ciò che è difficile da dimostrare non è tanto la soprannaturalità assoluta, quanto la possibilità stessa della visione intuitiva. La ragione, finché è illuminata solo dai suoi principii, è totalmente impotente a stabilire questa possibilità; tutto ciò che può fare, purché non sia traviata da false luci, è convincere della sua debolezza qualsiasi ragionamento che tenda a dimostrare l’impossibilità del dogma cattolico. – Ora, poiché non solo per la natura umana, ma anche per ogni natura che non sia quella di Dio, esiste una radicale impotenza a vedere Dio faccia a faccia, è evidente che la visione beatifica sia soprannaturale nella pienezza che si addice a questa parola, cioè per quanto riguarda la sostanza. Come potrebbe, infatti, la natura richiedere una percezione della vita così assolutamente superiore a quella che risponde alle sue stesse operazioni? Si potrebbe allora anche dire che la pianta possa aspirare agli atti della vita sensibile e l’animale all’esercizio della ragione. – Direte che, se la creatura ragionante non possa arrivare con le sue forze native alla contemplazione dell’essenza divina, abbia essa diritto alla luce supplementare che è indispensabile per raggiungerla? Si tratterebbe di uno strano fraintendimento della nozione di natura, perché i requisiti o, se volete, i diritti della natura non vanno oltre le condizioni necessarie perché essa raggiunga il pieno sviluppo della propria attività. Un’integrazione della forza vitale che la porti in un ordine di attività incomparabilmente superiore alla sua sfera, diciamo nell’ordine dell’attività divina, non può mai essere chiamata naturale, a meno che non si intenda con questa parola una qualsiasi perfezione della natura. Ma, non dimentichiamolo, in quest’ultima accezione il naturale al suo apice non è altro che il soprannaturale. – La visione beatifica è dunque essenzialmente soprannaturale; e di conseguenza soprannaturali devono essere anche la grazia santificante, le virtù infuse, i doni dello Spirito, la luce della gloria ed i meriti dei giusti: perché tutti questi favori della munificenza divina sono tenuti insieme e legati a formare un unico e medesimo ordine, di cui l’intuizione beata è la ragion d’essere ed il vertice.

2. – Ma non è solo l’anima ad essere chiamata ed a godere della beatitudine. L’uomo esteriore, l’uomo corporeo, ha la sua parte nell’eredità del cielo, e quanto è ricca e magnifica questa parte! I doni che costituiscono questa beatitudine devono essere chiamati soprannaturali; e se lo sono, a quale idea di soprannaturale devono essere collegati? Si tratta di un problema complicato, sul quale è abbastanza facile trovare soluzioni divergenti, almeno per quanto riguarda il modo in cui vengono espresse. – Cominciamo col dare una soluzione assolutamente inoppugnabile. Tutti i privilegi che abbiamo ammirato nella parte corporea e sensibile degli eletti di Dio sono soprannaturali, non solo per quanto riguarda il modo di produzione, ma anche in sé e nella loro sostanza. Sono, dico io, soprannaturali; per quanto riguarda il modo, non è necessario dimostrare la cosa. Infatti, il principio di tali doni gloriosi non è nella natura, poiché è Dio che li produce da sé, e non c’è nessuna disposizione positiva nella natura umana che richieda la sua azione. Inoltre, il fine a cui sono ordinati è anch’esso soprannaturale: è in vista dell’anima glorificata che Dio li dona. Soprannaturali come modalità, sono anche soprannaturali come sostanza nella loro stessa realtà, poiché superano sia le forze che le pretese della natura. Anche se si vedesse nella natura umana un certo diritto alla riunione dei suoi elementi sostanziali, separati dalla morte, ci sarebbe comunque un abisso tra la semplice ricostituzione, anche permanente, della natura umana e la glorificazione corporale degli eletti. Infatti, non è nei principi naturali del nostro essere che dobbiamo cercare il requisito di tali meravigliose qualità, ma solo nello splendore soprannaturale dell’anima ammessa alla visione di Dio. – Le sentenze dogmatiche della Chiesa ci danno una prova dimostrativa del carattere soprannaturale dei privilegi che Dio riserva ai corpi dei suoi eletti. Non è questa la sede per intraprendere uno studio dettagliato dello stato della giustizia originale, e nemmeno dei doni peculiari che tale stato comportava per il corpo, se l’uomo fosse rimasto stabile nella sua fedeltà. Ci basti sapere che questi doni fossero, in fondo, solo una pallida immagine delle proprietà della gloria. Infatti, per parlare qui solo di immortalità, quella del nostro primo padre gli dava il potere di non morire; e la beata immortalità omette persino la possibilità di morire. Ora, la Santa Chiesa, tra gli altri errori, ha condannato in Bajo una proposizione che faceva dell’immortalità di Adamo non un beneficio della grazia, ma la normale condizione della natura (« Immortalitas primi hominis non erat gratiæ beneficium, sed naturalis conditio ». Prop. 78). Più in generale, essa ha riprovato quell’altra proposizione in cui il novatore affermava che « Dio non avrebbe potuto, in principio, creare l’uomo così come nasce ora » (Prop. 55), cioè passibile, mortale e soggetto alle rivolte della carne contro lo spirito. Ora, vi chiedo, se questi doni primordiali, dati alla nostra natura, sono di ordine soprannaturale e delle grazie propriamente dette, quali saranno allora i privilegi incomparabilmente superiori dell’uomo restaurato in Cristo e consumato su questo modello divino? – Ma si presenta un nuovo problema da risolvere. Se le perfezioni corporee dei beati sono assolutamente ed in ogni modo soprannaturali, come possono i teologi collocarle, da questo punto di vista, così al di sotto della visione beatifica e della grazia santificante, tanto da usare parole diverse per esprimere il carattere soprannaturale delle une e delle altre? Senza addentrarci in considerazioni che ci porterebbero troppo lontano dal nostro tema, diciamo innanzitutto che nessuno di questi teologi contesta il doppio elemento che costituisce il soprannaturale perfetto, poiché lo ritengono soprannaturale nella sua causa e nel suo termine, cioè nella sua realtà fisica. – Tuttavia, è proprio perché, anche dal punto di vista soprannaturale, essi li distinguono dalla grazia e dalla gloria, privilegio proprio dell’anima. Poiché la grazia e la gloria elevano la natura all’essere divino; attraverso di esse la creatura ragionevole diventa partecipe della vita stessa di Dio: ciò che Egli vede, essa lo vede; ciò che Egli ama, essa lo ama; essa lo vede, io dico, e lo ama, come Egli si vede ed ama se stesso. Non è così che il corpo partecipa alle perfezioni di Dio. Il movimento della vita divina non vi discende per riprodurlo nel suo essere o nelle sue operazioni. Per quanto possa essere elevato al di sopra dei limiti assegnati dalla natura agli esseri corporei, il corpo glorificato non si perde, come l’anima, nelle profondità di Dio. È vero che la sua vita riceve un grado di perfezione superiore a tutto ciò che la natura possa dare; ma questo non lo fa assurgere al possesso di una vita superiore a quella sensibile. È quindi giusto e doveroso negargli il soprannaturalismo specifico che si addice all’anima. – Per questo motivo i teologi hanno cercato di dare nomi diversi a questi due aspetti del soprannaturale propriamente detto. Per gli uni, il soprannaturale che risplende sia nella visione di Dio, sia nei doni celesti ordinati dalla loro natura a questa visione beatifica, è il soprannaturale per eccellenza; per altri, quello che non ordina direttamente la creatura alla vita divina, sia che si tratti di una perfezione dell’anima sia dell’elemento organico e materiale del nostro essere, è il preternaturale. – Al posto di questa terminologia recente, altri usano una formula che non lo è di meno. La prima forma di soprannaturale sarebbe il soprannaturale assoluto; la seconda, quella che risponde al preternaturale, cioè il soprannaturale relativo. Il motivo dell’uso di questi due nomi opposti è che l’ordine soprannaturale, la cui chiave di volta è la visione di Dio, supera assolutamente i poteri nativi e le esigenze non solo della natura umana o angelica, ma di qualsiasi altra natura che non sia quella di Dio. Al contrario, i doni così liberalmente elargiti al primo uomo, oltre alla grazia santificante, l’esenzione dalla morte, dal dolore, dalla concupiscenza e dall’errore; allo stesso modo, i privilegi ancora più magnifici che noi speriamo per i nostri corpi risorti, per quanto gratuiti in sé per la natura umana, non la elevano al di sopra di tutta la natura creata. In effetti, li troviamo nella natura angelica, anche se li possiede in un’altra forma ed in un grado sovreminente. Di là questa applicazione fatta all’uomo, ancora innocente, delle parole del Salmo ottavo: « Lo hai posto un po’ più in basso degli Angeli e lo hai coronato di onore e di gloria » (Sal. VIII, 6). E quest’altro, che riguarda gli uomini glorificati: « Saranno come gli Angeli di Dio nel cielo » (Mt XXII, 30). – C’è ancora una terza formula di cui dobbiamo dire almeno qualche parola. L’elevazione dell’anima all’ordine della grazia e della gloria sarebbe il soprannaturale semplicemente detto; la trasfigurazione del corpo che l’accompagna sarebbe anch’esso il soprannaturale, ma con una restrizione secundum quid (è importante capire la distinzione tra il soprannaturale propriamente detto ed il miracoloso. Tralasciando ogni altro punto di vista, considereremo solo quello del soprannaturale. Nel Soprannaturale propriamente detto, la natura non ne è né la causa né l’effetto. Ad esempio, nella giustificazione di un peccatore, la causa che produce la grazia e la grazia prodotta sono ugualmente soprannaturali. Prendiamo, al contrario, un fatto miracoloso, come la guarigione improvvisa di un cieco nato. L’effetto è di per sé naturale, perché la vista è una perfezione propria della natura umana. Ciò che è soprannaturale è solo l’azione che ripristina o guarisce l’organo, poiché le leggi della natura non richiedono che l’organismo sia ripristinato nella sua integrità con questo mezzo. San Tommaso diceva in questo senso: « Tra i movimenti o le azioni di cui la natura è il soggetto, ve ne sono alcuni di cui la natura non è né il principio né il termine…; in altri, il principio e il termine sono nella natura…; in altri ancora, la natura è il termine ma non il principio. » – S. Thom, Supplem. q. 75, a 3). – Ma, quali che siano le formule utilizzate per caratterizzare i doni soprannaturali dei corpi glorificati, guardiamoci bene dal considerare questi doni come separati da quelli più elevati che sono prerogativa esclusiva dell’anima. Anche quando essi parlano delle prerogative dello stato primitivo, i teologi e i Padri le collegano in gran parte all’influsso dell’anima spirituale: sono per loro il risultato di una virtù soprannaturale di cui è stata investita dal suo Autore divino. (« Incorruptio et immortalitas corporis Adæ principaliter veniebat ab anima, sicut à continente et influente; à corporis bona et æquali complexione, sicut à disponente et suscipiente; à ligno autem vitæ sicut a vegetante et admininiculante; a regimine vero divinæ providentiæ sicut interius conservante et exterius protegente. » – S. Bonav, Breviloq., L. ll, c. 10; coll. S. Thom. de Malo, q. 5, a. 5, ad 9 et 11; S. August, de Gen. ad litt. L. XI, c. 31 ecc.). È soprattutto la glorificazione finale del corpo che essi collegano alla beatitudine dell’anima, consumata nella visione. « Dio –  dice Sant’Agostino – ha fatto l’anima di una natura così potente, che dalla piena beatitudine promessa ai Santi, fluisce sulla natura inferiore che è il corpo, non la beatitudine propria dell’intelligenza, ma la pienezza della salute e il vigore dell’incorruzione » (S. August. Ep. 118, ad Dioscor., n. 14). – Così le perfezioni del corpo glorificato non hanno solo l’anima beata come causa finale, ma anche, in una certa misura, come radice e fonte. La proprietà della grazia consummata è quella di perfezionare nel seno dell’anima la dimora dello Spirito Santo, iniziata nella vita presente. Ora, questo Spirito divino non si ferma al vertice dell’anima. La natura umana in tutte le sue parti è il tempio, di cui lo Spirito è il santuario (1 Cor. VI, 19). È necessario che lo Spirito di Dio, prima unito alla sostanza dell’anima per grazia, dopo aver fatto un palazzo degno della Maestà che vi abita, porti la sua operazione onnipotente sulle nostre membra, quest’altra parte del tempio, per appropriarsene trasfigurandole. « Se dunque – scrive san Paolo – lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti vivificherà anche i nostri corpi mortali a causa del suo Spirito che abita in voi » (Rm VIII, 11). – Lo Spirito Santo abita nei beati per la grazia e trasfigura i corpi dopo aver glorificato le anime; l’anima, trasformata dalla gloria, riceve dallo Spirito Santo una Virtù che trasfigura il corpo e lo spiritualizza a sua immagine. Come conciliare queste due affermazioni, entrambe basate sull’autorità dei Padri e dei Dottori? Diciamo, senza entrare in ulteriori dettagli, che in questa trasfigurazione del corpo e questa glorificazione del tempio materiale, lo Spirito Santo è l’unica causa principale e l’anima il suo strumento ed il suo organo. Ma, ammiriamo innanzitutto quanto siano stretti i legami che uniscono tra loro i doni soprannaturali concessi alla natura glorificata; poiché la gloria del corpo è il riflesso ed il flusso della gloria che risplende sulla sommità dello spirito, illuminata dagli splendori di Dio (cfr. T. II, L. X, c. 3.).

LA GRAZIA E LA GLORIA (59)

LA GRAZIA E LA GLORIA (57)

LA GRAZIA E LA GLORIA (57)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO XI

IL CARATTERE SOPRANNATURALE E GRATUITO DEI DONI FATTI DA DIO AI SUOI FIGLI. – UN’ULTIMA PAROLA SULL’ECCELLENZA DELLA GRAZIA E DELLA GLORIA.

CAPITOLO PRIMO

La vera nozione del soprannaturale e del gratuito.

1. – Se vogliamo avere una nozione chiara e certa del soprannaturale, è importante studiare innanzitutto i principali significati che vengono attribuiti alle parole naturale e natura; così, essendo questi termini correlativi, è attraverso il secondo che possiamo risalire al significato preciso del primo. Nella terminologia scientifica spesso si chiama natura, o meglio, esseri e cose della natura, le sostanze materiali, e soprattutto quelle che fanno parte del mondo organico. Da qui le espressioni usate di scienza naturale, di storia naturale, di spettacolo della natura. Da qui proviene, tra i nostri studiosi più o meno intaccati dal materialismo, l’uso abusivo della parola “soprannaturale” per caratterizzare tutto ciò che si eleva al di sopra delle cose e dei fenomeni materiali, Dio, l’anima e gli spiriti. Per la filosofia tradizionale, la natura, in senso stretto, designa la sostanza di ogni essere o, se vogliamo parlare più precisamente, ciò che in ogni essere sostanziale è il principio fondamentale delle operazioni che esso compie e delle modifiche che può subire sotto l’azione di agenti esterni. È in questo senso che noi parliamo della natura umana e della natura angelica. – Di conseguenza, il termine « naturale » sarà usato per riferirsi a tutto ciò che è connesso alla natura, presa in quest’ultima accezione; agli elementi che la costituiscono; alle proprietà che ne derivano; ai movimenti di cui essa è causa; alle perfezioni che tendono a completarla, o perché la natura le trae dal suo stesso fondamento, o perché ne porta solo il germe, che si svilupperà sotto l’influenza dell’esterno; al destino finale che risponde alla sua essenza; ai mezzi necessari per operare e muoversi verso questo fine ultimo. Così il corpo e l’anima sono i principi naturali dell’uomo; la proprietà naturale dello spirito è l’immortalità; il pensare, il volere sono operazioni naturali della creatura ragionevole; naturale è ancora la mozione divina o il concorso senza il quale nessuna attività creata potrebbe entrare in azione (Il naturale ha anche come controparte l’innaturale e l’antinaturale: ma non dobbiamo occuparci di questi ultimi, poiché il nostro scopo è solo quello di portare alla luce il soprannaturale). – E poiché la parola natura può significare non solo una sostanza particolare, ma l’intero corpo degli esseri creati e delle sostanze finite, sia che appartengano al mondo dei corpi sia che costituiscano il mondo degli spiriti, possiamo ancora classificare tra le cose che hanno il carattere di naturale tutto ciò che una creatura può operare per virtù propria in un’altra creatura, e ciò che essa stessa ne riceve: poiché, in entrambi i casi, il principio dell’effetto sarà incluso tra i confini estremi della natura. – Chiameremo quindi soprannaturale qualsiasi realtà, di qualunque tipo, che non rientri in una di queste categorie del naturale. Tale è la nozione di soprannaturale nel senso più rigoroso del termine. È una perfezione che non appartiene alla costituzione della loro natura; che non emana né può emanare da questa stessa natura come sua proprietà, sua risultante o suo effetto; che non può essere prodotta in essa da alcuna causa principale (se qualche agente creato, spirito o corpo, potesse produrla come causa principale, cesserebbe di essere soprannaturale, poiché questo agente apparterrebbe esso stesso all’ordine della natura). Il soprannaturale stesso non esclude l’azione di uno strumento creato, perché l’azione dello strumento, considerato come strumento, è l’azione della causa principale che lo impiega per la sua opera. Così Dio, causa principale della grazia, la produce in noi non solo con Se stesso, ma anche con i Sacramenti, come mediante cause strumentali. Diciamo ancora di più: esso non esclude, almeno quando si tratta di operazioni, la principale causalità della creatura; tanto meno i nostri atti meritori, di cui siamo certamente la causa principale. Ma allora non è questa la natura che opera con le sue forze native; è la natura elevata, potenziata, soprannaturalizzata dalla grazia e dalle virtù infuse. È una perfezione, infine, che Dio stesso produce senza presupporre nella natura alcuna disposizione positiva, alcun titolo, alcuna esigenza legittima che la rivendichi. Se si elimina l’una o l’altra di queste condizioni, si può avere forse un soprannaturale ridotto, ma non si conserva certo il soprannaturale propriamente detto, quello che i teologi hanno chiamato il soprannaturale rispetto alla sostanza, Supernaturale quoad substantiam. – Diamo alcuni esempi a sostegno di questa tesi. Un Angelo trasporta un corpo solido senza l’aiuto di alcuna forza materiale, e persino contro la resistenza che le sue forze oppongono. Questo è solo un fatto soprannaturale molto incompleto, perché, oltre al fatto che questo spirito angelico fa parte delle nature create, non c’è assolutamente nulla che impedisca alle forze decuplicate, o centuplicate se necessario, di una causa visibile di produrre un effetto simile. Che Gesù Cristo, con la sua onnipotenza, richiami Lazzaro dal sepolcro, nessuna energia creata potrebbe farlo; ma la vita che Egli restituisce a Lazzaro è quella che egli aveva ricevuto un tempo nel grembo di sua madre; e di conseguenza, se c’è qualcosa di soprannaturale nel modo di produrla, c’è solo qualcosa di naturale nel termine prodotto. È Dio, e solo Dio, che crea l’anima umana e la unisce al corpo che anima: ma vedo nella natura non so quale organizzazione rudimentale che richieda l’anima, e non avrebbe ragione di esistere, se la materia così disposta non fosse animata da un principio di vita. Ecco perché questa produzione, per quanto divina, appartiene ancora all’ordine della natura. – Mi si permetta di spingere queste applicazioni ancora più in là, perché esse gettano luce su nozioni astratte e sono meravigliosamente adatte a eliminare la confusione di idee, così pregiudizievole in una questione che tocca l’essenza stessa dell’ordine della grazia. È una dottrina indiscutibile che ogni causa creata abbia bisogno dell’assistenza concreta di Dio per poter compiere la minima delle sue operazioni. Diremmo che questi atti in cui la causa suprema ha la parte principale siano atti soprannaturali? In nessun modo: perché Dio deve alla natura, o meglio all’Autore della natura deve a Se stesso, darle tutto ciò che è necessario per lo sviluppo della propria attività; ed è per questo che il moto divino stesso è, in questo ordine, un moto puramente naturale (ciò che la natura non richiederebbe sarebbe un’azione di Dio che la facesse passare in un ordine di attività superiore alle sue potenze native). Supponiamo che a Dio piaccia, come ha fatto, si dice, con illustri teologi (Alberto Magno, per esempio, e Francesco di Suarez, secondo una rispettabile tradizione), trasformare una mente mediocre in un genio che ci stupisca per la sua profondità; questo vigore dell’intelligenza sarà altrettanto naturale che gli occhi miracolosamente restituiti ai ciechi da Gesù Cristo: poiché, in fondo, non è che un più pieno dispiegamento delle forze latenti nella natura ragionevole. Supponiamo ancora che Dio, per un singolare privilegio, riveli a questo stesso uomo i segreti più nascosti della scienza, intendo quelli in cui rientri lo studio delle opere divine (« Per ea quæ facta sunt », Rom., 20.); questa scienza infusa sarà naturale nella sua essenza, anche se il modo in cui viene acquisita supera i poteri della natura. – Pertanto, come abbiamo giustamente detto, per avere il soprannaturale totale e completo, dobbiamo abbracciare tutti i caratteri precedentemente enumerati. Dove non si trovano insieme, si avrà, a seconda delle diverse ipotesi, solo il naturale semplicemente detto, o il soprannaturalemescolato al naturale, cioè il soprannaturale quanto al modo, il soprannaturale incompleto, il soprannaturale per accidente (quod modum, secundum quid, per accidens).

2. – Aggiungiamo una triplice osservazione. La prima è che la parola naturale ha dei sensi che non la oppongono al soprannaturale. Lo abbiamo già visto per due termini che sono abbastanza ben compresi, anche se la nostra lingua non ne ha ammesso l’uso: il non naturale e l’innaturale. La stessa mancanza di opposizione si riscontra quando si vuole designare con naturale solo ciò che sia conforme alla natura, ciò che la perfeziona. Da questo punto di vista, nulla è più naturale dei doni soprannaturali; in altre parole, beni che non hanno la loro ragion d’essere né nei principi, né nelle proprietà, né nella dignità, né nelle esigenze della natura, poiché il loro compito è quello di elevare la natura al di sopra di se stessa. – Era abitudine di Sant’Agostino, nelle sue controversie con il pelagianesimo, considerare la natura umana tale com’è non per i suoi principi costitutivi, ma come è uscita dalle mani del suo Autore rivestita di giustizia originale e tutta splendente di grazia. È evidente che, secondo questo modo di vedere le cose, i doni più soprannaturali appartengono di per sé all’integrità della natura così intesa, e che privati degli stessi doni dalla colpa originale, la natura viene denaturata, corrotta, viziata. Questa nuova osservazione è di grande importanza per una corretta comprensione del pensiero del santo Dottore; ed è proprio perché ne hanno frainteso la portata che i nemici della grazia più o meno mascherati hanno preteso di trovare nelle sue opere un sostegno alle loro teorie errate.  – Possiamo quindi, usando la terminologia di Agostino, dire in tutta verità che per Adamo la grazia era naturale, poiché era il suo privilegio primordiale. Sarebbe ancora così per noi, se il peccato non avesse invertito l’ordine divinamente stabilito; infatti, nascendo all’esistenza, noi riceveremmo la natura umana come il padre degli uomini l’ha ricevuta all’origine, non solo perfetta nei suoi principi, ma arricchita di tutti i doni soprannaturali della giustizia e della grazia. Per noi, invece, la santità non è più naturale, perché non ci deriva dalla nostra origine; piuttosto, ciò che è naturale per noi è l’essere figli dell’ira, « natura filii iræ », poiché, in virtù della nostra discendenza, riceviamo la natura umana spogliata della bellezza soprannaturale che doveva renderla gradita al suo Autore. – La terza ed altrettanto importante osservazione riguarda l’espressione « esigenze della natura ». Il soprannaturale, abbiamo detto, supera le esigenze della natura. Le “esigenze” non sono la semplice capacità di ricevere. Quante cose, nell’ordine ordinario della vita, possiamo ricevere, senza avere un titolo per esigerle! L’esigenza aggiunge all’idea di capacità come un certo diritto a ricevere. Tutta la natura è un principio di attività; quindi, in virtù di ciò che è, esige le condizioni necessarie per il dispiegamento delle forze di cui è dotata. Può darsi che cause particolari ostacolino il normale esercizio delle facoltà native di questo o quel rappresentante della natura; ma una legge che negasse universalmente alla natura i mezzi per agire e di perfezionarsi nella propria sfera, non sarebbe più nell’ordine della sapienza. – Tutta la natura, e in particolare la natura ragionevole, ha la sua destinazione finale, in relazione alle attitudini che trova in se stessa e alle sue perfezioni innate; essa può dunque solo legittimamente rivendicare i mezzi per muoversi verso questo destino supremo e raggiungerlo attraverso l’uso che fa di questi mezzi. Fondamentalmente, queste due cose, il perseguimento del proprio destino naturale e lo svolgimento ordinato della propria attività naturale, non sono distinte. Per la natura è la stessa cosa raggiungere il suo fine ultimo e arrivare al perfetto sviluppo delle operazioni superiori di cui porta il germe ed il seme. Pertanto, tutto ciò che andrà solo verso questo fine e che, di conseguenza, non eleverà la creatura ragionevole ad un ordine superiore di operazioni, cioè non la renderà capace di produrre atti sproporzionati alle sue facoltà native, rientrerà nel dominio e nelle esigenze della natura. Al di sopra di questo c’è il soprannaturale in tutta la sua indipendenza e in tutta la sua gloria. – Potremmo riassumere il tutto dicendo che il soprannaturale è tutta la perfezione della natura, al di fuori e al di sopra delle sue esigenze: escluderemmo così ciascuno degli elementi che abbiamo visto rientrare nel naturale. La natura, infatti, esige i principi che la costituiscono, le proprietà e le facoltà che derivano dagli stessi principi e la libera perfezione che trova nelle sue operazioni, e di conseguenza tutte le condizioni ed i complementi necessari all’esercizio della sua attività fisica, intellettuale e morale.

3. – È facile capire che il soprannaturale e la grazia, intesi secondo il significato principale del nome, esprimano una stessa cosa, da due punti di vista diversi. Non è necessario ritornare sui molteplici significati che l’uso ha dato alla parola « grazia »: si possono ritrovare nel secondo libro di quest’opera (cfr. T. I, L. II, c. 4.). Prendiamo dunque la grazia come un dono che Dio fa alla creatura ragionevole, e vedremo che essa si fonde con il suprannaturale, come al contrario il gratuito, cioè il debito o il dovuto, riconduce al naturale. – A questo proposito, ascoltiamo la bella dottrina di San Tommaso d’Aquino: « La grazia, per il fatto stesso che è un dono gratuito, esclude un doppio dovuto (debitum). Esclude ciò che sia dovuto alla persona, cioè ciò che deriva dal merito: infatti, dice l’Apostolo, “a chi lavora, la ricompensa non è imputata come grazia, ma come debito” » (Rom. IV, 4; coll. de verit. Q. 6, a.2; q. 26, a. 6; Rom. IV, 4). Essa esclude il dovuto alla natura, come sarebbe per l’uomo avere l’intelligenza e altre proprietà che derivino dalla sua essenza. « Tuttavia – aggiunge – se in un senso o nell’altro si parla di debito o di un dovuto, non è che Dio stesso sia obbligato nei confronti della sua creatura: piuttosto, è che la creatura debba essere così sottomessa a Dio che l’ordinazione divina si compia in lei: l’ordinazione della Sapienza infinita che, per una tale natura, ha definito tali proprietà e tali condizioni, e per tali opere, tale ricompensa.  Ora – conclude l’Angelo della Scuola – i doni naturali non appartengono al primo dovuto, ma rientrano nel secondo; quanto ai doni soprannaturali, né l’uno né l’altro si addicono ad essi; ed è per questo che portano in modo speciale il nome di grazia » (S. Thom. 1.2, q. 111, a. 1, ad 2; col. de Verit, q. 6, a. 2; q. 26, a. 6. È vero che ci sono doni soprannaturali che sono dovuti al merito, per esempio l’aumento della grazia e della gloria; ma questo merito non è il merito della natura, escluso dal santo Dottore; è un merito fondato sulla grazia e che la presuppone. Da qui la formula di Sant’Agostino già citata: Deus coronando merita nostra coronat dona sua). – A suo tempo, e conformemente agli stessi principi, aveva risolto una controversia che, a quanto pare, divideva alcuni teologi del suo tempo. Alcuni sostenevano che tutto ciò che Dio fa, lo produca per puro e semplice piacere; altri, al contrario, che in tutte le sue opere interviene qualche debito (debitum) che determina la sua Operazione. « Ora, entrambe le opinioni sono palesemente false: la prima è falsa perché annienta l’ordine necessario che deve legare insieme gli effetti della potenza divina; la seconda è falsa perché suppone che tutto proceda da Dio per necessità di natura. La verità si trova tra questi due estremi. Ciò che Dio ha voluto dal principio, cioè le nature sussistenti, procede da Lui per semplice volontà: su che cosa si potrebbe fondare il debito che ne motiverebbe la creazione? Ma su questi primi effetti della semplice liberalità di Dio si innesta un debito. E quale? Che cos’è questo debito? Quello che fa donar loro tutto ciò che è necessario per il normale complemento del loro essere e della loro attività. Che un re crei un cavaliere tra i più umili dei suoi sudditi è pura liberalità; ma, una volta supposta questa elevazione volontaria, egli deve fornire al nuovo cavaliere il cavallo e l’equipaggiamento adatto al servizio del principe. Tuttavia, se Dio può essere debitore, lo è a rigore solo verso la propria sapienza e volontà, ma non verso la sua creatura » (De Verit., q. 6, a 2; col. 23, a. 6 ad 3). – Aggiungo un altro testo del Dottore Angelico, non tanto per chiarire nozioni già sufficientemente chiare, quanto per mostrare con quale ingiustizia i teologi del Medioevo sarebbero stati accusati di non aver distinto con sufficiente chiarezza il soprannaturale dal naturale, o la grazia dalla natura. Si chiede se ci sia giustizia in Dio. Un’obiezione che tenderebbe a negarla è che l’atto di giustizia consiste nel rendere ciò che è dovuto. E poiché Dio non deve nulla a nessuno, sembra che non possa avere in Sé la perfezione della giustizia. La risposta a questa difficoltà ci riporterà, in altra forma, alle stesse idee che abbiamo già incontrato nelle opere del grande teologo. – « Ciò che è dovuto a qualcuno è ciò che è suo. Ora, una persona ha il diritto di considerare come proprio ciò che sia ordinato per essa e verso di essa… Quindi la parola “dovuto” porta nel suo concetto una certa esigenza, basata sull’ordinazione di una cosa per un’altra. Così, i frutti di un giardino sono dovuti al proprietario, perché l’ordine gli dà il diritto di rivendicarli come propri. Ora ci sono due ordini da considerare nelle cose. In primo luogo, l’ordine in virtù del quale il creato è ordinato al creato, ad esempio le parti al tutto, gli accidenti alle sostanze e le sostanze stesse al loro fine; in secondo luogo, l’ordine superiore in virtù del quale ogni creatura è ordinata a Dio. Di conseguenza, il dovuto può essere coinvolto in due modi nelle operazioni divine: o come dovuto a Dio, o come dovuto alla creatura. – Dio rende il dovuto in entrambe le forme. Ciò che è dovuto a Dio è che le cose create rispondono ai decreti della sapienza divina e dimostrano la sua bontà: di conseguenza, quando Dio le dispone in quest’ordine, rende a Se stesso ciò che gli spetta. Ciò che è dovuto alla creatura è che essa abbia tutto ciò che le è attribuito dall’ordine delle cose, in altre parole, tutto ciò che è richiesto per la perfezione naturale; per esempio, è dovuto all’uomo che abbia le mani e che gli animali esistano per il suo servizio. E Dio esercita ancora la giustizia, quando dà ad ogni cosa ciò che le è dovuto secondo la sua natura e la sua condizione particolare. Ma, tutto sommato, il secondo debito dipende dal primo: perché non c’è nulla di dovuto ad un essere creato se non le perfezioni determinate dall’ordine della Sapienza divina. Inoltre, sebbene Dio renda così il dovuto alla sua creatura, non ne è il debitore; perché non spetta a Lui essere ordinato verso di essa e per essa, ma ad ogni creatura essere ordinata verso Dio » (S. Thom., I p., q,21, a. 1 ad 3. Cfr. c. Gent., L II, c. 28 e 29). – Il soprannaturale e il gratuito sono dunque la stessa cosa; affermare l’uno è riconoscere l’altro. Hanno una misura comune, tanto che diminuiscono o crescono insieme e nello stesso grado. Si potrebbe dire, per contrasto, che il nome di grazia è spesso applicato dai Padri ai beni naturali, come l’esistenza, l’anima con le sue facoltà, il corpo con i suoi organi; e che, di conseguenza, le due parole non possano essere equivalenti. Questa difficoltà svanisce grazie ad una semplice osservazione, praticamente contenuta nei testi di San Tommaso che ho appena tradotto. Quando parliamo di soprannaturale e di grazia, abbiamo in vista ciò che può essere per la natura sostanziale già costituita. Da questo punto di vista, l’unico che può essere discusso in un trattato sulla grazia, tutto ciò che è completamente grazia, in altre parole, tutto ciò che non possa essere rivendicato dalla natura, una volta presupposto, come dovuto o ai suoi meriti o alle sue esigenze native, tutto questo, dico, è soprannaturale. Questo è evidente dalle definizioni date alle parole « soprannaturale e gratuito ». È vero che la nostra stessa natura è essa stessa una grazia: chi ha obbligato la potenza e la bontà divina a crearla? Ma questa natura non si presuppone da se stessa. Ora, ancora una volta, il naturale ed il gratuito, quando li confrontiamo, sono giudicati in base al loro rapporto con la natura che li riceve e che essi perfezionano.

LA GRAZIA E LA GLORIA (58)

LA GRAZIA E LA GLORIA (56)

LA GRAZIA E LA GLORIA (56)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO X

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO

CAPITOLO VI

Conclusioni. Come la vita beata sia il complemento perfetto dell’adozione e come, nella gloria, il figlio di Dio sia l’uomo spirituale per eccellenza.

.1. – Basta dare un rapido sguardo al contenuto degli ultimi due libri per capire come la vita beata sia, in tutta verità, la perfezione finale e il coronamento dell’adozione. Infatti, tutto ciò che costituisce la nostra filiazione è portato al limite estremo. Non è senza ragione, quindi, che diversi Padri abbiano rappresentato il pieno ingresso degli eletti nella gloria non solo come il compimento della loro nascita divina, ma anche come il momento della loro vera adozione: tanto lo stato del termine sorpassa in modo eccellente la nostra condizione nella via. – Qual è il fondamento ed il principio della figliolanza adottiva in noi? La grazia, cioè la partecipazione formale alla natura divina. Ora, vedete quanto la partecipazione del cielo prevalga sulla partecipazione presente. Essa prevale in quanto ci mostra nel suo totale compimento ciò che quest’ultima aveva solo in germe: non è più solo il principio primo dell’atto essenzialmente proprio di Dio, ma il principio successivo, intendo la luce della gloria, ma l’operazione stessa, la visione faccia a faccia. Da qui le parole di Sant’Ireneo: « La partecipazione a Dio è vedere Dio e godere della sua bontà. Participatio Dei est videre Deum et frui benignitate ejus » (S. Ireneo, c. Hær. L. IV, c. 20, n. 5, P. Gr. t. 7, p. 1036). Prevale perché questa partecipazione formale è ormai così radicata nell’anima, così identificata, per così dire, con essa, che nulla potrà mai separarla da essa, né distruggerla. – Che cos’altro fa ancora la filiazione adottiva? L’inabitazione della Trinità nelle anime e la misteriosa unione che lo Spirito Santo contrae con esse. Confrontate l’unione attuale con quella della patria eterna, non solo dal punto di vista della stabilità, ma anche e soprattutto dal punto di vista dell’intimità; che differenze ci sono tra l’una e l’altra! Vedete Dio che penetra con la sua essenza fino alle profondità degli spiriti beati per farsi loro forma intelligibile, e li inonda con la sua luce, come li infiammerà con il suo amore « In lumine tuo videbimus lumen »! – Che cosa rende possibile la filiazione adottiva? La somiglianza e l’immagine di Dio. È allora che il ritratto divino, ora abbozzato, riceverà la sua perfezione finale dal cuore e dalla mano dell’Artista onnipotente. Saremo come Lui, perché lo vedremo così com’è. « Lo Spirito ci renderà simili a Lui per volontà del Padre, perché completerà l’uomo ad immagine e somiglianza di Dio » (Id. ibid. L. V, c. 8, n.1. P. Gr. p. 1142). Così parla sant’Ireneo. Sant’Agostino dirà più tardi: « In questa immagine di Dio (che noi siamo), la somiglianza di Dio sarà perfetta, quando la visione di Dio sarà perfetta » (Sant’Agostino, De Trinit…, L XIV, n. 23, ss.). – Cos’altro richiede la grazia dell’adozione? Che i figli non abbiano altra volontà che quella del Padre e che evitino tutto ciò che potrebbe essere un’offesa nei suoi confronti. Il privilegio del cielo è la realizzazione immutabile di questo oracolo dei nostri Libri santi: « Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché il seme di Dio abita in lui, e non può peccare, perché è nato da Dio » (1 Joan. VI, 9); è anche una conformità così perfetta tra la volontà dei figli e quella del loro Padre, che non solo non vogliono nulla contro la regola della volontà divina, ma anche che in Dio e ovunque vogliono identicamente solo ciò che Dio vuole, e nella misura in cui Egli lo vuole (« In statu gloriæ omnes videbunt in singulis quæ volent ordinem eorum ad id quod Deus circa hoc vult; et ideo non solum formaliter sed materialiter in omnibus suam voluntatem Deo conformabunt » – S. Thom, 1. 2, q. 19, a. 10, ad 1; col. de Verit., q. 23. 8). – Lascio al lettore la consolazione di seguire da solo il parallelo tra l’adozione dei figli che sono ancora lontani dalla casa del Padre e quella dei Santi che sono entrati in possesso della sua eredità. Riempito di questi pensieri elevati e salutari, sentirà crescere nel suo cuore la santa ambizione di entrare nella Gerusalemme celeste o, per usare un’espressione di Sant’Agostino, di far parte « di quel tempio di Dio che è costruito da dei, fatti da quel Dio non fatto Templum Dei quod ædificatur ex diis quos fecit non factus Deus ».

2. – Prima di concludere queste considerazioni sulla perfezione finale dei figli di Dio, vediamole riassunte in un nome frequentemente usato dagli autori ascetici: è il nome di uomo spirituale. Presa nella pienezza del suo significato scritturale, questa parola esprime mirabilmente i privilegi della natura glorificata. Sì, l’eletto di Dio, una volta raggiunta la sua beatitudine, è veramente l’uomo spirituale per eccellenza. Non parlo della spiritualità che gli si addice, come ad ogni altro uomo, a causa della sua anima immateriale, ma di una spiritualità superiore, che spiegheremo alla luce delle Scritture. – Le epistole di San Paolo, in particolare, oppongono in ogni momento la carne allo spirito. La carne è la parte inferiore dell’uomo, considerata non solo come l’elemento più materiale del nostro essere, ma come la sede, il fulcro, il principio delle tendenze e degli affetti disordinati (Rm VII, 5; VIII, 1-15). Al contrario, lo spirito sarà la parte superiore dell’uomo che, sotto l’influenza della grazia che lo eleva e dello Spirito Santo che lo inabita, è diventato un principio delle operazioni divine. Perciò le opere della carne, secondo San Paolo, sono l’impurità, l’idolatria, gli avvelenamenti e altri crimini; ed i frutti dello spirito, la carità, la pazienza e tutte le virtù (Gal. V, 19-24). Da qui la lotta, di cui parla lo stesso Apostolo, tra i desideri della carne e quelli dello spirito; perché lo spirito e la carne sono in contraddizione tra loro (Ibid. V, 17). Cosa sarà dunque l’uomo carnale? Chi vive secondo la carne e cerca le cose della carne! – E cosa sarà l’uomo spirituale? L’antitesi dell’uomo carnale, cioè colui che cammina secondo lo spirito, che mortifica con lo spirito le passioni della carne e si abbandona all’azione dello spirito (Rm VIII, 3, 9, 13, 14). L’uomo spirituale non è solo l’opposto dell’uomo carnale; è anche l’opposto dell’uomo animale. San Paolo non dà alla parola anima (animus, ψυχὴ = psuke) il cattivo significato che spesso attribuisce a quella di carne. L’anima è per lui, secondo i diversi testi, a volte il principio vivificante del corpo o la vita che essa gli dà, a volte il principio della vita sensibile e ragionevole (At. XXII, 10; Rom., XI, 3; XIII, 1; Ebr., XII, 3, ecc.); ma in nessun luogo esprime con questa parola i doni soprannaturali racchiusi in quella di spirito. Pertanto, l‘uomo animale, nel senso inteso dall’Apostolo, è colui che non ha altra vita, altra luce, altro principio di pensare, volere e agire, se non quello che gli deriva dalla sua natura vivente e ragionevole, cioè dall’anima; l’uomo, quindi, è puramente umano, per il quale le cose dello spirito sono scandalo e follia (I Cor. I e II); l’uomo che parla in modo superbo e ripudia Gesù Cristo, l’unico dominatore, con le sue leggi e i suoi misteri (Giud. 19, 7, 4). Dall’altra parte, l’uomo spirituale è il fedele che, sottomettendo umilmente la propria mente, accetta le lezioni della Sapienza divina, e possiede lo Spirito che è di Dio e rivela i doni di Dio (I Cor., XII, 10, 12, 15). – L’antagonismo tra i due uomini si ripresenta sotto un terzo punto di vista. « La carne ed il sangue non possono entrare nel possesso del regno di Dio », cioè – come spiega lo stesso San Paolo – la natura umana con la sua attuale corruttibilità (I Cor. XV, 50). È dunque essere ancora un uomo carnale, indossare un corpo terreno, quella pesante dimora sotto la quale l’Apostolo delle genti gemeva (1 Cor., V, 1 segg.); e, poiché questo corpo è allo stesso tempo un corpo animale, corpus animale, che non è ancora liberato da esso, rimane sempre per questo motivo l’uomo animale, di cui ci parla la Scrittura. Perciò l’uomo, per essere veramente spirituale, deve rivestirsi di una carne spirituale e celeste, corpus spirituale (I Cor. XV, 44), partecipe dello spirito e totalmente dominata dallo spirito – Dopo questa descrizione molto apostolica, è facile capire che l’uomo spirituale, nel senso assoluto del termine, è il figlio di Dio che regna in cielo, e non può che essere lui. A qualsiasi grado di spiritualità un uomo venga elevato nel tempo della prova, rimane sempre animale e carnale in qualche punto (II Cor., V, 1-4; 1 Cor., XV passim). Senza parlare del peso della corruzione che dobbiamo portare in questa carne infelice, quali rivolte in essa contro l’impero dello spirito; quali tenebre e veli sulla nostra intelligenza; quali minacce di instabilità anche in coloro che più certamente possiedono lo Spirito di Dio! Non sono solo i piccoli figli in Cristo che San Paolo può chiamare carnali (I Cor., I, 1-3); lui stesso, quell’uomo che è stato rapito al terzo cielo, si lamenta di esserlo ancora (Rom. VII, 14-20). L’uomo carnale e l’uomo vecchio vanno di pari passo; e come l’uno rimane sotto la novità stessa, così l’altro non è mai completamente estirpato né dal corpo né dall’anima dalla virtù vivificante e santificante dello Spirito. – Ma in cielo, dopo la gloriosa risurrezione, ci sarà la vittoria piena e stabile dell’uomo spirituale sull’uomo animale e carnale; una vittoria così radicale che tutto ciò che è carnale e animale in noi sarà annientato per sempre. Nella carne, niente più cupidigia, niente più debolezze, niente più malattie, niente più mortalità; perché essa è eternamente soggetta allo spirito come lo spirito lo è a Dio. Nella ragione non c’è più ignoranza, non c’è più oscurità, non c’è più possibilità di ribellione alla conoscenza di Dio, perché l’intelligenza è perennemente annegata nella luce ed i misteri sono messi a nudo davanti ad essa. Nella volontà c’è l’attualità sempre presente e la rettitudine inamovibile dell’amore divino, il cui regno è assoluto su tutti gli affetti e tutti i movimenti dell’anima.

3. – Insistiamo ancora di più sulla considerazione della stessa verità. Ciò che rende l’uomo, dal punto di vista filosofico, un essere spirituale è che, per il principio superiore della sua natura, partecipa all’immaterialità divina, cioè alla spiritualità di Dio. Ora, che cos’è la gloria, considerata nel suo elemento più essenziale, se non la partecipazione più alta e più perfetta di questo attributo divino? Dio, infatti, conosce e ama se stesso solo perché è immateriale, e la misura, per così dire la radice, della sua conoscenza e del suo amore è questa immaterialità per cui è infinitamente Spirito: « Deus spiritus est ». Poiché, dunque, i conoscitori del cielo prevalgono incomparabilmente nella conoscenza e nell’amore su tutte le creature diverse da loro, si deve necessariamente concludere che essi abbiano raggiunto il più alto grado della vita spirituale e che ciascuno di loro sia quindi l’uomo spirituale nel suo punto più alto. – Ciò che rende ancora l’uomo spirituale è, secondo la testimonianza dei Padri, la sua singolare ed intima unione con lo Spirito Santo. Ricordiamo i testi già citati di San Basilio e di Sant’Ireneo, che mettono in piena luce questo pensiero. « Come la superficie levigata di un corpo, quando viene colpita da un raggio di sole, diventa brillante… così le anime che portano in sé lo Spirito divino diventano splendenti e spirituali » (San Basilio, L. de Spir. S., c. 9, P. Gr., t. 32, p. 110). Pertanto, « che questo Spirito divino si unisca all’anima e l’anima alla carne, questa effusione dello Spirito Santo renderà l’uomo spirituale e perfetto… ». Ma se l’anima è separata dallo Spirito, l’uomo che avrete non sarà altro che un uomo animale, imperfetto e carnale » (S. Iren, de Hæres, L. V, c. 6, n. 1. P. Gr., t. 7, p. 1137). Quanto è stretta l’unione dello Spirito con l’anima dei Santi durante i giorni di questa vita mortale. Ma quanto più intimo, quanto più indissolubile, quanto più attivo diventerà nella beata eternità, quando Dio, prendendo possesso di tutto il nostro essere, sarà come la forma luminosa della nostra intelligenza, l’oggetto immediato e sempre presente della nostra conoscenza e del nostro amore, l’Ospite divino che glorifica il nostro corpo, il suo santuario più puro e incorruttibile! – Alcuni degli antichi scrittori ecclesiastici, per esprimere con maggior forza l’incomprensibile immaterialità di Dio, lo proclamarono l’unico immateriale. Certamente erano lontani dal pensare che tutte le creature, sia gli spiriti angelici che le anime umane, siano materia o dipendano intrinsecamente dalla materia, sia nel loro essere che nel loro operare. Sostenevano che la spiritualità divina, che supera infinitamente tutte le spiritualità delle nature create, non possa essere contrapposta all’altra senza che la seconda venga eclissata dalla prima. È nello stesso senso che l’essere della creatura, per quanto perfetto possa essere, diventa come un nulla per chi lo confronta con l’Essere infinito di Dio. Così, tutto considerato, si può dire dei figli di Dio, che hanno raggiunto il pieno sviluppo della loro adozione, che essi soli, dopo Dio, sono uomini spirituali, tanto che ciò che rende l’uomo carnale e animale è distrutto in loro in modo più assoluto di quanto possa esserlo nello stato di prova e di mortalità. « Ciò che nasce dalla carne è carne, ma ciò che nasce dallo Spirito è spirito », diceva il Salvatore al fariseo Nicodemo. Questo è un grande detto, che il cielo ci riserva come chiara dimostrazione, se, vivendo della vita dello spirito, conserviamo e sviluppiamo in noi l’essere spirituale di cui l’adozione divina ci ha liberalmente dotati.

LA GRAZIA E LA GLORIA (57)