SACRO CUORE DI GESÙ (28): IL Sacro CUORE di GESÙ e la sua CHIESA.

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ. TORINO, S. E. I. – 1920]

DISCORSO XXIX

Il Sacro Cuore di Gesù e il Papa.

(1) Di questo discorso stampatosi a parte nel 1892, per mezzo dell’Eminentissimo

Card. Rampolla Segretario di Stato, fu umiliata copia dall’autore

a S. S. LeoneXIII; e n’ebbe in risposta questa consolante lettera:

Bev. mo Signore,

Con molto piacere ho rassegnato al S. Padre uno dei recontissimi

esemplari del discorso, al quale si riferisce la lettera da Lei indirizzatami

l i 2 del corrente mese.

Sua Santità si è degnata accoglierlo con espressioni di particolare

gradimento e nel commettermi di ringraziarla nell’Augusto Suo nome Le

ha con affetto impartita l’Apostolica Benedizione.

Mentre mi affretto ad eseguire i l venerato incarico, L a ringrazio ben

di cuore anche in mio nome dell’esemplare, che gentilmente mi ha E l la

favorito, di esso discorso, e con sensi di distinta stima mi dichiaro

Di V. S.

Soma, 7 Luglio 1892.

Bev. D. ALBINO CARMAGNOLA                Aff. mo nel Signore M. Card.                         Sacerdote Salesiano

Boma.

                                                                                RAMPOLLA.

Aff. mo nel Signore

M. Card.

Nel corso di questo mese gettando lo sguardo sopra le opere del Cuore Sacratissimo di Gesù, non ne trovammo certamente alcuna, che non si mostrasse ammirabile, non ci parlasse della sua bontà e della sua misericordia infinita per noi. Ammirabile Vedemmo la sua Chiesa, ammirabili i suoi Sacramenti, ammirabile la sua dottrina, ammirabili i suoi esempi, ammirabili le sue promesse e le sue grazie, e tutto, grazie, promesse, esempi, dottrina, Sacramenti e Chiesa ci hanno fatto esclamare con gratitudine: Oh quanto è buono il Cuore di Gesù con noi! quanto è grande il suo amore, la sua misericordia! Eppure o miei cari, fra tante opere ammirabili del Cuore di Gesù Cristo io ne scorgo ancor una non meno ammirabile delle altre, che anzi più ancor dì ogni altra mi manifesta la sua bontà e la sua misericordia; e voglio dire il Papa. Sì, il Papa! e per poco che consideriate anche voi quest’opera, non penerete a convincervi della verità di questa mia asserzione. Ed invero, donde mai la Chiesa ritrae la essenza di sua unità, la beneficenza dei suoi Sacramenti, l’integrità di sua dottrina, la sicurezza della parola e degli esempi di G. Cristo? … Dal Papa. È il Papa, che in un cuor solo ed in un’anima sola unisce tutti i popoli a Cristo. È il Papa, che ci comunica la grazia per mezzo dei Vescovi e dei Sacerdoti. È il Papa, che custodisce inviolato il deposito del Santo Vangelo. È il Papa, che ci assicura degli insegnamenti di Gesù Cristo. È il Papa insomma quella fonte prodigiosa, che lo stesso Gesù Cristo ha stabilito nella Chiesa per farci gustare perpetuo il benefizio della sua redenzione, per tramandare in eterno l’abbondanza della sua misericordia. Ben ho ragione di asserire che il Papa è un’opera delle più ammirabili uscite dal Cuore ferito di Gesù Cristo, e che con quest’opera il Cuore di Gesù ha fatto alla sua Chiesa uno dei più segnalati benefizi. Ben ho ragione, additandovi il Papa, d’invitarvi con tutte le forze dell’animo mio a benedire questo Cuore Santissimo ed a confessare il suo amore e la sua bontà infinita per noi! Questo per l’appunto è lo scopo del discorso di oggi, questo giorno in cui celebriamo la festa del primo Papa, di S. Pietro, mettervi in qualche luce questo sì grande benefizio, affinché da tale considerazione se ne tragga la natural conseguenza di ricambiare il Cuore di Gesù della conveniente gratitudine.

I . — Ogni famiglia, ogni Stato, ogni società abbisognano di un capo. L’anarchia a cui tanti evviva s’innalzano ai giorni nostri non è che il più stupido degli assurdi: imperciocché anche gli anarchici costituiti in partito, come sono oggidì, obbediscono essi pure agli ordini di un capo o per lo meno si lasciano spingere da’ suoi iniqui incitamenti. Se pertanto a non sovvertire l’idea istessa di famiglia, di stato e di società assolutamente si appalesa la necessità di un rispettivo capo, ognuno vede a primo aspetto, che a porre ben salde le fondamenta di quell’ammirabile società, che il Cuore amoroso di Cristo venne a stabilire in sulla terra, era affatto necessario che le donasse un capo; un capo che con rettitudine la governasse, un capo che l’ammaestrasse con sapienza; un capo che per ogni verso la guidasse con sicurezza alla meta sublime, che

Cristo le assegnava. Senza di un capo, supremo nella sua autorità, infallibile nel suo magistero, la Chiesa, quest’opera divina uscita dal Cuore squarciato di Cristo, sarebbe andata priva del principio di sua unità e di sua perfezione ed in breve divisa e moltiplicata nel governo, varia e confusa nella dottrina, sarebbe riuscita a quello scompiglio, di cui in ogni tempo l’eresia ha dato al mondo sì triste spettacolo. Ma grazie, infinite grazie sieno rese al Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo! Ripieno per la sua Chiesa di un amore infinito e divino, Egli allontana da Lei un tale pericolo, e pur rimanendo Egli stesso a suo capo invisibile sino alla consumazione dei secoli, le dona un capo visibile nel Romano Pontefice, il cui supremo potere, corrisposto dall’universale sommessione, costituirà sino alla fine del mondo il principio della vita, dello sviluppo e del perfezionamento della Chiesa istessa. Ecco il Divin Redentore a Cesarea di Filippo. Circondato da’ suoi discepoli, a questo modo li interroga: « Chi dicono gli uomini che io sia? » E i discepoli rispondono: « Gli uni dicono che voi siete Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti. » — « Ma voi, soggiunse il Salvatore, voi chi dite ch’io sia? » A questa domanda Simon Pietro, pigliando la parola a nome suo e degli altri Apostoli, esclama: « Tu sei il Cristo, Figliuolo di Dio vivo. » Allora il Salvatore ripiglia: « Beato te, o Simone, figliuolo di Giovanni, perché non è né la carne, né il sangue che ti ha rivelato ciò che tu dici, ma il Padre mio, che è ne’ cieli. Ed io dico a te che tu sei Pietro, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa e le potenze d’inferno non prevarranno contro di essa giammai. A te io darò le chiavi dei regno de’ cieli e tutto ciò che avrai legato sopra la terra sarà legato anche ne’ cieli, e tutto ciò che in sulla terra avrai sciolto, sarà sciolto anche nei cieli. » Udiste? Con parole del tutto esplicite Gesù Cristo promette a Pietro di lasciare in lui un capo alla sua Chiesa con autorità suprema di comando. Ed invero, dopo di averlo detto beato per aver parlato conforme l’illustrazione avuta dal Padre celeste, gli cambia il nome di Simone in quello di Pietro o Pietra e soggiunge: « Sopra di questa pietra fonderò la mia Chiesa; » come dicesse: Tu, o Pietro, sei destinato a far nella mia Chiesa quello, che fa il fondamento in una casa. Il fondamento è la parte principale e indispensabile in un edilizio. E tu sarai nella mia Chiesa l’autorità affatto necessaria. E come nella casa le parti che non posano sul fondamento cadono e vanno in rovina, così nella mia Chiesa chiunque si dividerà da te, non ubbidirà a te, non seguirà te, fondamento della mia Chiesa, non apparterrà alla medesima e cadrà nell’eterna rovina. Inoltre Gesù Cristo disse ancora a Pietro: « A te darò le chiavi del regno de’ cieli. » Ma le chiavi non sono per eccellenza il simbolo della padronanza e del potere? Quando il venditore di una casa porge le chiavi al compratore di essa, non intende forse con questo atto mostrargli che gliene dà pieno ed assoluto possesso? Parimenti quando ad un re sono presentate le chiavi di una città, non si vuole forse con tal omaggio significare che quella città lo riconosce per sovrano? Per simile guisa le chiavi spirituali del regno dei cieli, cioè della Chiesa, che Gesù Cristo promette a Pietro, indicano chiaramente che Egli è destinato ad essere signore, principe e reggitore della nuova Chiesa. Laonde Gesù soggiunge allo stesso: « Tutto quello che legherai sulla terra, sarà altresì legato in cielo e tutto quello che scioglierai in terra, sarà pure sciolto in cielo; » vale a dire: Tu avrai l’autorità suprema di obbligare e sciogliere la coscienza degli uomini con decreti e con leggi riguardanti il loro bene spirituale ed eterno. — Né si dica che anche gli altri Apostoli sono stati fatti capi della Chiesa, perché anche a loro Gesù Cristo diede la facoltà di sciogliere e di legare, che tale facoltà Gesù Cristo la diede loro in comune e dopoché già erano state rivolte a Pietro le parole soppradette, affinché capissero che la loro autorità doveva essere sotto ordinata a quella di S. Pietro, divenuto loro capo e principe, incaricato di conservare l’unità del governo e della dottrina. Ma alla promessa tien dietro il fatto. Dopo la risurrezione Gesù Cristo, avendo mangiato co’ suo discepoli per assicurarli vie meglio della realtà del suo risorgimento, si rivolge a Simon Pietro e gli domanda per tre volte: « Simone, mi ami tu più di questi? » Pietro che dopo il fallo della negazione di Cristo è divenuto più modesto, si contenta di rispondere: « Signore, voi sapete che io vi amo. » E due volte il Signore gli dice: « Pasci i miei agnelli. » Ed una terza volta: « Pasci le mie pecorelle. » Per siffatta guisa il Cuore amoroso di Cristo costituiva S. Pietro Principe degli Apostoli, Pastore universale di tutta la Chiesa; conferendogli di fatto il primato di onore e di giurisdizione, ossia quel potere supremo che dapprima avevagli promesso, e non sola sopra i semplici fedeli raffigurati negli agnelli, ma eziandio sopra i sacerdoti e sopra gli stessi vescovi raffigurati nelle pecorelle. Ma il Divin Redentore promettendo e donando a Pietro il supremo potere su tutta la Chiesa, cogli stessi termini gli prometteva egli donava l’infallibilità di magistero. Difatti era possibile che egli dicesse a Pietro: « Tu sei Pietro e sopra di questa Pietra innalzerò la mia Chiesa, e le potenze dell’inferno non prevarranno giammai contro di Essa; — Io ti darò le chiavi del regno de’ cieli: tutto ciò che avrai legato o sciolto su questa terra, sarà legato o sciolto in cielo; — Pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle; » — e poi permettesse che Pietro avesse a sbagliare, e tutt’altro che essere agli altri fondamento della Fede, crollasse egli stesso nella medesima; tutt’altro che aprire agli uomini le porte del cielo colle chiavi di esso, li trascinasse alle porte dell’inferno; tutt’altro che pascere della verità e i pastori e gli agnelli, li avesse talora a pascere dell’errore? Ciò non era assolutamente possibile. D’altronde anche per questo riguardo Gesù Cristo ha parlato nei termini più chiari e precisi. Imperocché nell’ultima Cena, rivolto a Pietro, gli dice : « Simone, io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli. » (Luc. XXII) Ora, o bisogna dire che la preghiera di Gesù Cristo non fu esaudita, il che sarebbe una bestemmia, o fa d’uopo ammettere che il suo Cuore amoroso, mediante la sua preghiera, assicurò a Pietro una particolare assistenza, affinché come Maestro universale non avesse mai a venir meno nella fede, epperò con labbro infallibile insegnasse mai sempre la verità in tutto ciò riguarda la fede e la morale cristiana. – Ma qui, o miei cari, procuriamo di farci una idea esatta di questa infallibilità che Gesù Cristo prometteva e donava a Pietro. Perciocché vi hanno di coloro che non possono credere che, per quanto si tratti di un uomo posto alla testa di tutta la cristianità, non possa peccare come tutti gli altri uomini, non possono credere che bisogna aggiustar fede ad ogni parola, ad ogni giudizio che egli esprima, e su qualsiasi soggetto; non possono credere che Gesù Cristo abbia posto nella Chiesa un privilegio tirannico che inceppa la libertà dello spirito umano nelle sue ricerche scientifiche. Ma stolti ed ignoranti che sono! Se fosse questo l’infallibilità! … Ma è così forse? No, assolutamente. L’infallibilità non è affatto l’impeccabilità, perché Pietro in quanto è nomo potrà anch’egli peccare e dovrà perciò anch’egli gettarsi ai piedi di un altro ministro del Signore per implorare il perdono delle sue colpe. L’infallibilità non è legata ad ogni sua parola e ad ogni suo giudizio, che anch’egli come persona privata esprimendo il suo parere o sopra la storia, o sopra la scienza, o sopra la filosofia, o sopra la teologia potrà fallire. L’infallibilità non è un potere tirannico che inceppi la libertà della mente, è anzi un privilegio che l’affranca e la protegge dall’errore. L’infallibilità è quella prerogativa per cui Pietro, come Capo della Chiesa, in virtù della promessa di Gesù Cristo, giudicando e definendo dall’alto della sua suprema cattedra cose riguardanti la fede ed i costumi, non può cadere in errore, né quindi ingannare se stesso o gli altri. Ecco, o miei cari, che cosa è l’infallibilità. Ed una tale infallibilità non era del tutto necessaria alla Chiesa per raggiungere quaggiù il suo fine, la salvezza delle anime, mercé l’insegnamento della dottrina e della pura dottrina insegnata da Gesù Cristo? – Il divin Redentore adunque ha dato a S. Pietro quel potere supremo e quell’infallibile magistero, che come a Principe degli Apostoli e capo di tutta la Chiesa gli erano necessari. E S. Pietro riconobbe d’aver ricevuto tali prerogative, e senz’altro in lui le ammisero e le riverirono gli altri Apostoli e i primitivi fedeli. Difatti, appena salito al Cielo Gesù Cristo, Pietro nel cenacolo piglia il primo posto, parla pel primo e propone egli l’elezione di un altro apostolo in luogo di Giuda, il traditore. Nel dì della Pentecoste è egli che pel primo predica la fede di Gesù Cristo e la conferma coi miracoli. In seguito è ancor egli che pel primo avendo convertiti i Giudei, va pel primo a battezzare i Gentili. Così è egli, Pietro, che stabilisce i primi punti di disciplina e compone qualsiasi dissidio che insorga, tanto che tutta la Chiesa, pastori e fedeli a lui si affidano, lui seguono, lui obbediscono; e lo stesso grande S. Paolo, benché fatto apostolo direttamente da Gesù Cristo non è pago fino a che non ha fatto confermare da Pietro il suo ministero. – Se non che, o miei cari, quelle prerogative che Gesù Cristo donava a Pietro, erano a lui donate come a privato individuo, sicché colla sua morte avessero a perire? No assolutamente. E come poteva ancora sussistere la Chiesa, se per la morte di Pietro veniva a mancarle il fondamento? Come poteva rimanere unito e ordinato il gregge di Gesù Cristo, se per la morte di Pietro perdeva il pastore supremo? Come potevano i Vescovi e i fedeli essere ancora confermati nella fede se per la morte di Pietro veniva a mancare il Maestro infallibile di tutta la Chiesa? Il primato di Pietro adunque non è un privilegio personale, che abbia a perire colla sua morte; è un privilegio che raccoglierà ogni suo successore, un privilegio che rimarrà in tutti quelli che continueranno il suo pontificato sino alla consumazione dei secoli, ascendendo quella stessa cattedra romana, sulla quale per divina ispirazione egli andò ad assidersi e ad esercitare il suo supremo potere ed infallibile magistero; poiché Gesù Cristo colla durata perpetua della Chiesa volendo sino alla consumazione dei secoli trasmettere agli uomini il beneficio della sua redenzione, vuole altresì che sino alla consumazione dei secoli abbia a durare il primato di Pietro. Oh! consumi pur dunque il principe degli Apostoli in un sacrificio di amore il suo governo e magistero glorioso, cada pure ancor esso sotto i colpi di quella morte, che tutti miete implacabile senza eccezioni di sorta; non per questo andrà priva la Chiesa di un capo che la governi, di un dottore che l’ammaestri; le chiavi di S. Pietro passeranno nelle mani di S. Lino in quelle di San Cleto e per una trasmissione non. mai interrotta nel corso di diciannove secoli arriveranno alle mani del glorioso Pontefice regnante, dinnanzi al quale tutto il popolo cristiano prostrato, come dinnanzi a Pietro primo capo visibile della Chiesa, col cuore riboccante di amore e di entusiasmo ripeterà le parole di Cristo: Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebunt adversus eam. – Così da diciannove secoli ha sempre creduto la Chiesa, e così ha sempre riconosciuto col fatto. Tutti i Padri, tutti i Dottori, tutti i Santi, tutti i Concili furono sempre di accordo nel credere e proclamare altamente che il Papa, il pontefice romano è il vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro e il reggitore della Chiesa universale e il suo infallibile Maestro. Ed ogni qualvolta i reggitori e maestri delle Chiese particolari, i Vescovi, si trovarono nel dubbio o nell’incertezza, o nel timore, o nella controversia per riguardo a qualche pratica religiosa, o a qualche punto di dottrina, fu sempre al Papa che si rivolsero siccome all’autorità suprema e al supremo maestro, per essere da lui consigliati, illuminati, rassicurati, e fu sempre alla sua decisione, al suo giudizio, alla sua sentenza, che si affidarono come all’oracolo divino; tanto che quando S. Ambrogio asseriva che dove è Pietro, ossia il Papa, ivi è la Chiesa con tutti i suoi poteri e tutte le sue prerogative; quando S. Agostino tagliava netto sentenziando: Roma ha parlato, la causa è finita; quando S. Girolamo volgendosi a S. Damaso Papa del suo tempo dicevagli: Ohi non è con voi, è contro Gesù Cristo: chi con voi non raccoglie, disperde; non erano altro che la voce di tutta la Chiesa, la quale in tutti i secoli, e negli anteriori a loro e nei posteriori, ha sempre creduto che Pietro rimane e vive in quelli che continuano nel suo pontificato: Perseverat Petrus et vivit in sucessoribus suis. (S. LEO. Serm. II). Sia adunque benedetto Gesù Cristo, che a mantenere incrollabile l’edifizio della sua Chiesa ci ha dato il Papa; quel Papa, che nella persona di Pietro fu stabilito della Chiesa medesima il saldo fondamento, che nella persona di Pietro ricevette le chiavi del supremo potere, che nella persona di Pietro ricevette l’incarico di addottrinare nella fede e pastori e fedeli, che nella persona di Pietro fu dichiarato infallibile nel supremo esercizio del suo ministero, quel Papa insomma che nella persona di Pietro fu costituito Luogotenente di Dio nel governo spirituale del mondo.

II. — Ma l’empietà, o miei cari, riconoscendo al par di noi che il Papa è veramente la base della Chiesa Cattolica, il centro di sua unità e la sorgente della sua vita e delle sue grandezze, contro il Papa mosse ognora i suoi più furiosi assalti, follemente sperando di abbattere il suo trono, e col trono del Papa la Chiesa istessa. Ma qui per l’appunto è dove che il Cuore amoroso di Gesù Cristo ci dà un’altra prova luminosa del suo infinito amore per noi, nel conservare cioè il Papa in tutto il corso dei secoli contro tutti gli assalti che gli furon mossi. Gettate uno sguardo sulle pagine della storia. Nel corso di diciannove secoli le più nobili e potenti dinastie dei regnanti si cangiarono e morirono; ma la dinastia del Papa persistette e persiste tuttora invariabile ed immortale. – La Chiesa, questa figlia di Dio, vagiva ancora in fasce, e i tiranni di Roma si armarono per ispegnerla. La rabbia dei persecutori si scatena più furente contro di coloro che i cristiani riconoscono e venerano per loro augustissimi capi. S. Pietro da Nerone, ventinove altri Pontefici in seguito da altri imperatori son fatti morire e della morte più spietata; gli uni son crocifissi, gli altri sono lapidati, gli altri precipitati nei fiumi, gettati altri in pasto alle fiere. « E si è mai veduto, domanda qui l’illustre Bougaud, una dinastia che cominci con trenta condannati a morte? » E si è mai veduta, soggiungo io, una dinastia che abbia resistito per lo spazio di tre secoli ad un assalto così formidabile? Eppure vi ha resistito il Papato. All’indomani di quel giorno, in cui credevasi di avere spenta colla vita del Papa la cristiana religione, nell’oscurità delle catacombe sorgeva un Papa novello, nelle cui braccia gettavasi fidente la Chiesa perseguitata a sangue. [Da allora nulla è cambiato, come allora anche oggi gli empi usurpanti servi di lucifero, hanno creduto di abbattere la Chiesa impedendone il Papato, ma esattamente come allora, nella Chiesa –  tra l’oscurità delle catacombe, dell’eclissi prodotta dalla sinagoga di satana, e tra la persecuzione delle anime a forza di malefiche eresie e culti diabolici – è sorto il Papa novello a guidare la navicella di Pietro – n.d.r.]. Ed intanto, che più restava delle famiglie di Nerone, di Massimiano, di Diocleziano, di Giuliano l’Apostata? Colla ignominiosa lor morte avrebbesi voluto por fine, non che alla loro discendenza, alla loro stessa memoria. Dopo i persecutori vennero gli Eretici. Il loro assalto contro del Romano Pontefice fu tanto più accanito quanto più astuto e fraudolento. Nel quinto secolo dapprima, e dopo più di mille anni nel secolo decimo quinto e decimo sesto quegli uomini infernali suscitati dall’odio diabolico contro di quella pietra che Gesù Cristo poneva a base della sua Chiesa, lanciaronsi contro di lei con un furore frenetico. E tanto fu l’apparato della forza, tanti gli artifici dell’inganno, tanto il fervore delle passioni, che come dapprima il mondo cristiano pareva essersi staccato dal Romano Pontefice per gettarsi nelle braccia di Ario, così dappoi parve staccarsi dal Romano Pontefice per gettarsi nelle braccia di Lutero, di quel Lutero che nell’ebbrezza del suo immaginario trionfo osava gridare: Pestis eram vivus, mortuus tua mors ero, Papa. Ma gli eretici non furono più forti contro del Papa di quello che furono i tiranni, e mentre Ario e Lutero con tutta la loro sequela finivano di orribile morte la loro vita, il Papato vincitore dell’eresia restava fermo sul suo trono fatto rutilante di luce più viva. Dopo l’eresia e di conserva alla stessa, a combattere il Romano Pontefice sorgono i governanti della terra. Dapprima gli imperatori del basso impero di Costantinopoli, dappoi quelli di Germania con una prepotenza incredibile pretendere di adunare concilii, di dettar articoli di fede, di manipolar i preti a lor capriccio, di conferire essi stessi ai vescovi l’autorità e nel dare loro in mano il pastorale e l’anello, che giurino di dipendere da loro e di servire ciecamente alle loro voglie, e soprattutto che il Papa, il Vicario di Cristo, il successore di Pietro ceda a queste loro pretese, acconsenta alle lor matte proposte, soscriva alle erronee lor formole e ai loro patti iniqui. Oh chi sa dire a che dure prove, a che aspri cimenti, a che gravosi patimenti furono assoggettati i Pontefici nell’una e nell’altra epoca ? Nella prima un Giovanni è gettato in carcere dove soccombe per i cattivi trattamenti; un Agapito è mandato in esilio; un Silverio, spogliato de’ suoi abiti pontificali e raso il capo, vien deportato i n un’isola ov’è lasciato morir di fame; un Vigilio, preso pei capelli e per la barba, è strappato dall’altare che aveva abbracciato ed è fatto perire in esilio; un Martino è tolto da Roma e carico di catene è gettato a languire nel Chersoneso. Nell’altra epoca, sotto gli imperatori di Germania, altri fra i Pontefici sono assediati in Roma, altri rinchiusi in prigione e fatti morir di fame e di miseria, altri avvelenati, altri cacciati in bando dove muoiono esclamando: « Ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio. » E chi mai nell’imperversare di sì furiose tempeste non avrebbe creduto che il Romano Pontificato avesse a perire? Eppure no! Perirono l’un dopo l’altro tutti i suoi assalitori, trascinando nel sepolcro la lor discendenza, ma i Papi restarono ed alla morte dell’uno un altro sempre ne successe a governare, ad ammaestrare quella Chiesa, di cui Iddio lo eleggeva a capo. E ai tempi dei nostri avi e dei nostri padri l’empietà lasciava forse alcun che d’intentato contro dei Romani Pontefici? La rivoluzione, al cui apparecchio avevano lavorato orgogliosi filosofi, dopo aver bandita la croce al Cristianesimo, scannati a decine e a centinaia i Vescovi più venerandi e i sacerdoti più eletti, abbattute nelle chiese le sacre immagini e surrogatavi in lor vece la sozzura vivente della Dea Ragione, finì per gettare le mani sulla veneranda canizie del sesto Pio, strapparlo violentemente dalla sede di Pietro e trascinarlo nella terra d’esilio ed ivi con serie infinita di vessazioni e di dolori procurargli la morte. Più tardi un soldato felice insuperbito dei suoi trionfi, rinnovava le stesse sevizie su Pio settimo, gettandolo a gemere diviso dai suoi più cari in penosissima cattività, dove oltre al privarlo del pane necessario al sostentamento, negavagli persino il conforto della penna. Oh mio Dio! Tutto è pianto per la Sposa di Cristo; più non regna che la ragion del più forte, e quanti non hanno fede credono che a Savona debba alfin morire l’ultimo dei Papi. Ma viva Dio! Un bel giorno, mentre il rombo delle empie e sconsigliate guerre odesi ancora echeggiare per tutta Europa, gli eserciti dell’irrequieto conquistatore sono rotti e dispersi, lo snaturato tiranno vinto e soggiogato è mandato a languire sopra un arido scoglio dell’oceano, mentre il mite e travagliato Pontefice liberato dalla sua prigione e come portato sugli omeri di tutto il popolo cristiano ritorna trionfante nella santa città. Ma l’empietà, o miei cari, si ostina a non profittare delle toccate sconfitte ed anche ai dì nostri ritenta la prova e si getta rabbiosa a cozzare col Papato. Né si è ristretta a dimostrazioni di lingua e di penna. Armi si sono impugnate, atroci violenze si sono commesse, e il Capo Venerabile della Chiesa. Io qui mi arresto…. I fatti ai quali accenno sono accaduti ed accadono tuttora davanti ai vostri occhi, né avete bisogno che io ve li esponga. Vi chiederò piuttosto: Vi ha da temerne? …. Potrà temere colui che non crede o non conosce l’amore di Gesù Cristo per la sua Chiesa. Ma chi getta lo sguardo su quel Cuore tutto i n fiamme, chi porge ascolto ai suoi rinfrancanti detti: Ecce vobiscum sum usque ad consummationem sæculi; allo sforzo degli empi sorride, perché si assicura che, come il Cuore amoroso di Cristo non abbandonò mai il Papa, nel corso dei passati secoli, così non l’abbandonerà neppure nei secoli venturi e conservandolo in mezzo ad ogni sorta di assalti, lo circonderà di universale amore e gli preparerà uno splendido trionfo. Viva, viva adunque il Cuore Santissimo di Gesù che ci ha dato il Papa e lo conserva con tanta cura, ed affetto!

III. — Ma altra prova di amore, non meno splendida delle antecedenti, ci ha dato il Cuore Sacratissimo di Gesù nel glorificare il Papa. Conoscendo Egli a perfezione il cuore umano, che tanto facilmente sì lascia attrarre dalle cose sensibili, volle eziandio per la via delle cose sensibili trarre gli uomini all’amore ed alla venerazione del Papa; epperò non pago di conferirgli un’autorità spirituale, in tutto il corso dei secoli, lo circonda ognora di fulgidissima gloria ispirandogli ed aiutandolo a compiere opere, che niun’altra dinastia del mondo potrà mai vantare sì numerose e sì perfette. Ed in vero, o miei cari, a chi la gloria di atterrare i delubri del paganesimo, di raddolcire i costumi, di spezzare le catene della schiavitù, di far risplendere il sole della cristiana civiltà? Al papa! O santi pontefici de’ tre primi secoli, io mi prostro riverente dinanzi alla vostra veneranda persona. La vostra vita non passò che nell’oscurità delle catacombe, ma dal fondo di quei sotterranei il suono della vostra voce uscì per tutta la terra a portare dovunque la serenità e la pace! — A chi la gloria di evangelizzare il inondo, di spargere dappertutto il regno di Cristo, di inalberare per ogni dove lo stendardo della croce, di radunare i popoli in un sol cuore, in un’anima sola? Al Papa! Io vi saluto, o Gregorio Magno, o Nicolò I, o Zaccaria, o Gregorio II e III, o Giovanni XIII, o Gregorio IV; è per opera vostra, pel vostro soffio che sono successivamente evangelizzate l’Italia non solo, ma le Gallie, la Spagna, la gran Bretagna, la Svezia, l’Olanda, la Germania, la Polonia, la Russia, le immense contrade del nord. È per opera vostra, pel vostro soffio, o Sommi Pontefici, che a tutti i popoli del settentrione e del mezzodì, dell’oriente e dell’occidente, dell’antico e del nuovo mondo la fede rifulge, il vero Dio si adora, Cristo è amato. — A chi la gloria di liberarci dalla dominazione dei barbari e dei mussulmani, d’impedire che ricadessimo nella primiera barbarie? Al Papa! O magno Leone! io vi veggo, rivestito del vostro papale ammanto, in trepido, farvi innanzi a chi si noma flagello di Dio, ammansar quella belva e allontanarla d’Italia. Io vi veggo, o S. Leone IV, respingere ad Ostia colle vostre milizie i Saraceni, che vi sbarcarono già sicuri della vittoria. Io vi veggo, o S. Leone IX, combattere, a Civitella per l’indipendenza delle terre italiane e cadendo prigioniero restar tuttavia vincitore. Io veggo voi, o grande Ildebrando, farvi l’energico difensore dell’Italia contro l’influenza straniera ed umiliare a Canossa la prepotenza di un imperatore Germanico. Io veggo voi, o Alessandro III, farvi capo di una lega per allontanare dalle nostre terre il Barbarossa e felicemente riuscirvi, e voi, o Gregorio IX, tentare risolutamente la stessa cosa contro Federico II. Io vi veggo o grande Pio V, destare l’Europa col suono della vostra voce, radunarne i principi, benedire i loro eserciti, spedirli contro le falangi musulmane, e colle vostre preghiere ottener loro la più splendida vittoria. — Ancora. A chi la gloria di vedere suoi figliuoli gli stessi re ed imperatori del mondo, di essere il consigliere nelle loro imprese, l’arbitro nelle loro questioni, il pacificatore nelle loro contese? A chi la gloria di intimare ai prepotenti il dovere e la giustizia, di resistere ai loro capricci, di difendere l’innocenza ed il diritto contro il loro despotismo? Al Papa. Siete voi, o Innocenzo III, che obbligate Filippo Augusto di Francia a ripigliare la sua legittima sposa; voi, o Pio VI, e Pio VII, che forti per coscienza resistete alla volontà degli iniqui; voi, o Gregorio XVI, e Pio IX, che agli imperatori delle Russie ordinate di trattar meglio i Cattolici, — E finalmente, a chi la gloria d’aver protetto le lettere, le scienze, le arti? A chi?. Al Papa, sempre al Papa. È il Papa che nel buio del medio evo, apre scuole a spargervi la luce delle lettere e delle scienze: il Papa, che favorisce e promuove le università, il Papa che raccoglie biblioteche, il Papa che si circonda di dotti, il Papa che chiama ed accoglie onorevolmente nella sua Roma i più celebri artisti. È Giulio II, è Paolo III, èSisto V, è Leone X, èPio VI, èPio VII, è  Pio IX, è il glorioso Leone XIII, la cui splendida munificenza verso le scienze, le lettere e le arti va del pari colla sua altissima sapienza. E dinanzi a tanto splendore, dovrebbesi ancora far conto di quel po’ di nebbia che parvero gettare sul Papato alcuni pochi Pontefici? Io non nego che vi sia stato fra di loro qualcuno di ua vita non dicevole alla sublime dignità. Ma che per questo? Se come persone private fallirono, come Pontefici vennero forse meno al loro gravissimo ufficio? Lo stesso Alessandro VI, di cui tanti scrittori farisaici inorridiscono, dato pure che l a sua vita privata non sia stata sempre buona, non compié in qualità di Pontefice delle grandi cose? Non fu egli, come scrive lo stesso Boterò, che allo scoprimento di tante terre fatte dagli Spagnuoli e dai Portoghesi si adoperò presso i loro re, perché in quelle terre si attendesse anzitutto alla conversione dei popoli? Non fu egli che chiamato arbitro da questi due sovrani nella questione dei confini dell’America pose fine ai loro litigi, con la famosa linea di partizione da lui tracciata sulla carta geografica e che accolta di buon animo prova manifestamente che come Papa era avuto in altissima stima dai principi e dai popoli? E per non dire più di altro, non attese forse come Papa col massimo zelo al bene della Chiesa? Chi vuole adunque giudicare dirittamente dei Papi, distingua bene ciò che in essi vi è di umano e di persona privata, ed allora vedrà, se non vuole esser cieco, che come non vi ha dinastia di una potenza intima più grande, così non vi ha dinastia alcuna di una gloria più splendida e più pura. D’altronde, pur riconoscendo che sulla cattedra di Pietro insieme col supremo potere e col magistero infallibile si è assiso qualche Papa malvagio, il vero Cristiano non rinnoverà mai il delitto di Cham, ma chiudendo gli occhi come Sem e Jafet, si farà invece a coprire le colpe di questi padri col manto della pietà filiale. Benedizione adunque, benedizione eterna al Cuore di Gesù, che non solo ci ha dato il Papa e lo conserva con tanta cura ed affetto, ma lo circonda ancora di tanta gloria a radicare ognor più nei cuori nostri la venerazione e l’amore per lui, a costringere alla sua ammirazione tutti gli uomini del mondo. Ma se il Cuore Sacratissimo di Gesù nel darci il Papa, nel conservarlo e glorificarlo ci ha fatto il più segnalato benefizio e ci ha data una gran prova di amore, nostro dovere per conseguenza è quello di corrispondere a tanto benefizio colla più sincera gratitudine. E il modo migliore di manifestare al Cuore di Gesù la nostra gratitudine in questo caso è quello per l’appunto di obbedire, rispettare ed amare il Papa. Allor quando nel battesimo di Cristo lo Spirito Santo erasi posato sopra il suo capo nella sembianza di colomba, dalle altezze dei cieli era pur scesa la voce dell’Eterno Padre dicendo: « Questo è il mio Figliuolo prediletto, nel quale ho riposto le mie compiacenze; lui ascoltate.» Ebbene, o miei cari, qui avviene un fatto somigliante. Il Cuore Santissimo di Gesù posandosi sulla persona del Papa rivolge a tutti i suoi figli la sua voce e grida: Questi è il mio Vicario: ascoltatelo, rispettatelo, amatelo. Chi ascolta lui, ascolta me: chi disprezza lui, disprezza ine; chi non ama il Papa, non ama neppure me stesso. E vi sarà tra di noi chi si rifiuti a questo comando di Gesù ? Ahimè! se io getto lo sguardo nel mondo, vedo pur troppo di coloro che non ascoltano il Papa, che non lo rispettano, che l’odiano anzi e sino al furore; che vorrebbero, se loro fosse possibile, schiantarne l’ultimo vestigio dalla faccia della terra, e in fondo in fondo non per altra ragione, se non perché il Papa a nome di Dio impone loro una legge, ch’essi non vogliono praticare; perché il Papa svela le loro nequizie e le loro ipocrisie, condanna la loro superbia e la loro corruzione; perché il Papa mette in guardia il mondo dalle loro diaboliche arti; perché infine il Papa pel libero esercizio di quella autorità che ha ricevuto da Dio reclama quel temporale dominio, che la Divina Provvidenza gli ha a tal fine accordato. Sì, per questo, per questo solo tante bocche impure si aprono a bestemmiarlo, tante penne sataniche schizzano veleno a maledirlo, tante sozze caricature s’inventano a coprirlo di fango. Oh infelice Pontefice! Curvo sotto il peso di una responsabilità così grande, qual è quella che emana dalla sua autorità, egli deve per soprappiù gemere sotto il peso della moderna empietà e corruzione, che gli muove una guerra cotanto aspra. Ah deh! per quella gratitudine che ci lega al Cuore Sacratissimo di Gesù, che i suoi gemiti trovino un’eco pietosa nel cuore de’ suoi veri figli. Che noi almeno col rispetto e coll’obbedienza alla sua autorità, in tutto quello che egli ci prescrive per il vero nostro bene ci studiamo di porgere un po’ di conforto alle sue afflizioni. Che da noi almeno non mai si sparli del Papa, non mai si censurino i suoi pensamenti e le sue operazioni, non mai anche solo per rispetto umano si sorrida a chi lo deride: che da noi, da noi almeno si porti sempre alta la bandiera su cui sta scritto: Cattolici e Cattolici col Papa. E quando il Papa nella piena del suo dolore a noi si volge additandoci il cuore che gli sanguina, sempre abbia da noi tale una risposta… Miei cari amici! Allorché nel secolo passato, una grande imperatrice d’Austria, Maria Teresa, viste invase dalle potenze straniere le sue terre, confidata nell’amore dei suoi popoli, ancor sofferente di fresca malattia, presentossi alla dieta e svelate le sue pene chiese protezione per se e pel suo bambino, udì tosto con entusiasmo ripetere: Moriamur prò rege nostro Maria Theresia! Ealle parole s’aggiunsero i fatti: gli abili alle armi si fecero soldati e formossene un numeroso esercito: non mai dalla fertile Ungheria uscirono tante provvigioni: non mai con la violenza si riscossero tanti tributi, quanti allora spontanei, e l’ardore non fe’ mai sì belle prove. Ecco la risposta che dobbiamo dar noi all’appello del Papa: balzare risoluti al cospetto delle sue sofferenze, gettarci ginocchioni a’ suoi piedi, protestando di amarlo e di difenderlo; brandire coraggiosi le armi dell’azione e della preghiera, cooperare per quanto sta in noi e colle parole, e cogli scritti e colla stampa e coll’obolo della nostra carità, a mantenergli la gloria e lo splendore che gli si addice; con gemiti incessanti supplicare il Cuore di Gesù che lo renda libero, che lo conservi, lo vivifichi; lo faccia beato in terra e non lo lasci cadere nelle mani de’ suoi nemici; e piuttosto che vili cedere quest’armi in faccia ai nemici del Papa: Moriamur prò Papa nostro Leone! siamo pronti a soffrir qualsiasi iattura, anche la morte istessa se .le circostante lo richiedessero. Morir per il Papa saria lo stesso che morir per Cristo: perché il Papa è il Vicario di Cristo: e di miglior gratitudine non potremmo ripagare il Cuore di Cristo, né miglior testimonianza potremmo rendere alla sua bontà e misericordia nell’averci dato il Papa. E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che con l’istituzione del Papa avete dato alla vostra Chiesa il più saldo fondamento, fate che adesso noi siamo mai sempre uniti di mente e di cuore, sicché coll’amore, col rispetto, coll’obbedienza al Papa, Capo visibile della vostra Chiesa, noi siamo pur sempre muti a Voi, che ne siete il Capo invisibile, adesso e nell’eternità. [Oggi più che mai rinnoviamo questo grido di gioia e di fedeltà: Moriamur prò Papa nostro Gregorio!

DISCORSO XXVIII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua Chiesa.

Nella grand’opera della creazione del mondo cosa senza dubbio assai degna di ammirazione si è che Iddio avendo creato gli animali maschio e femmina per mezzo della stessa parola e nel medesimo tempo, non fece così riguardo alla creazione dell’uomo e della donna. Perciocché prima creò l’uomo e poscia addormentatolo in un sonno misterioso, trattagli una costa dal suo fianco ne formò la donna. E quale poté mai essere la ragione di una creazione cotanto singolare? S. Tommaso, quel gran genio che si è certi sempre d’incontrare sulla via, quando si ricerca la ragione di qualche mistero del Cristianesimo, ha detto che l’uomo fu creato prima della donna e la donna fu tratta dall’uomo, perché fosse conservata la dignità dell’uomo coll’essere egli il principio dell’universo. In secondo luogo, che la donna non venne creata dalla testa dell’uomo, perché si conosca che essa non deve essere al di sopra dell’uomo né fargli da padrona; che neppure fu creata dai piedi dell’uomo, perché si sappia non dover essere dall’uomo disprezzata come una misera schiava, ma che venne tratta dal fianco dell’uomo, vale a dire da vicino al suo cuore, perché apparisse manifesto che l’uomo deve amarla, siccome l’oggetto che più gli appartiene, siccome una parte la più intima di se stesso. – Ma oltre a queste ragioni di ordine storico e naturale, lo stesso dottore, seguendo S. Paolo e S. Agostino, asserisce esservene un’altra di ordine profetico e sacramentale. Il primo Adamo era la figura del secondo Adamo, che è Gesù Cristo. Epperò il suo sonno appiè di un albero e la formazione dal suo fianco della donna doveva essere una stupenda figura del sonno di morte, a cui sarebbesi dato Gesù Cristo sull’albero della croce e della formazione della vera Eva, la Chiesa, che sarebbe uscita dal suo Sacratissimo Cuore trafitto. Sì, o miei cari, come Eva fu tratta dal fianco di Adamo, così la Chiesa, mistica sposa, ma pur vera sposa di Gesù Cristo, nacque dall’apertura del suo divin Cuore: Ex Corde scisso Ecclesia Christo iugata nascitur. Il che vuol dire in altri termini che la Chiesa fu anche essa per eccellenza un’opera del Cuore di Gesù Cristo, una delle più grandi prove del suo amore per noi. Ed invero. Gesù Cristo volendo applicare davvero agli uomini di ogni tempo e di ogni luogo l’efficacia della redenzione, affine di operare sempre e dappertutto la loro salute, ha propriamente nella sua carità infinita creata la sua Chiesa. Ed ecco la bella e grande verità che considereremo oggi.

I . — Gesù Cristo era venuto in questa terra per compiere la grand’opera della redenzione degli uomini e realmente l’aveva compiuta, soprattutto con la sua amarissima passione e morte di croce. Per i meriti infiniti che Egli vi aveva acquistato, Egli aveva guadagnato altresì infinite grazie per gli uomini e il diritto a ciascuno di essi di poter conseguire l’eterna beatitudine. Ma perché tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo potessero godere di sì gran benefizio era assolutamente necessario che la grazia guadagnata da Gesù Cristo fosse di mano in mano a .ciascuno degli uomini in particolare applicata. Inoltre Gesù Cristo venuto pure su questa terra per illuminare ogni uomo sulle verità, che si devono conoscere e credere e sulle opere che si hanno a praticare per salvarsi, aveva predicato la sua celeste dottrina pel corso di tre anni nei paesi della Giudea. Ma poiché la luce di questa dottrina doveva spandersi sopra gli uomini di tutti i secoli e di tutte le nazioni, bisognava perciò che anche dopo il ritorno di Gesù Cristo al suo Eterno Padre, fosse predicata a tutte le creature. Gesù Cristo ancora aveva istituito per gli uomini i Sacramenti come altrettanti fonti visibili della sua grazia invisibile, ma perché questi sacramenti ridondassero di vantaggio a tutti gli uomini per sempre, si conveniva che a tutti gli uomini per sempre potessero essere amministrati. E finalmente durante la sua vita Gesù Cristo era stato il buon Pastore che conosce le sue pecorelle e che le guida per i pascoli sani della verità e della giustizia, era necessario che questa guida visibile non venisse mai a mancare alle altre pecorelle che sarebbero entrate a far parte del suo gregge, tanto più che il numero sarebbe immensamente cresciuto. Che cosa fece pertanto nostro Signor Gesù Cristo a conseguire tutti questi fini, perché realmente tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi in conformità alla sua volontà vera, avessero ad essere salvi ed a pervenire al conoscimento della verità. Già fin dai tempi antichi i profeti avevano annunziato che a tal fine Gesù Cristo avrebbe creato una società visibile a guisa di un regno potente che si sarebbe esteso sino agli estremi confini della terra; (DAN. II, 44) a guisa di una casa del Signore, che sta sulla vetta dei monti e si solleva sopra tutti i colli ed alla quale sarebbero accorsi in folla tutti i popoli; (Is. II, 2) a guisa di una città santa, nella quale sarebbero entrate le moltitudini delle nazioni ed i popoli gagliardi. (Is. LX) Lo stesso Gesù Cristo poi aveva promesso durante la sua predicazione che per la salvezza universale degli uomini avrebbe edificato la sua chiesa: Edificabo ecelesiam meam, e parlando di essa l’aveva paragonata ad un gregge e ad un ovile, in cui le agnelle si raccolgono sotto la guida di uno stesso pastore; ad un campo, in cui spuntano le buone e le cattive sementi; ad un banchetto, a cui sono chiamate persone di ogni stato; ad una rete gettata nel gran mare dell’umanità e che piglia ogni specie di pesci; ad un granellino di senapa che si converte poscia in un albero immenso, nel quale vanno a ripararsi ogni sorta di uccelli; ad un regno di Dio aperto a tutti i popoli della terra. Inoltre parlando ancora di quest’opera, ch’ei voleva stabilire, dichiarò l’autorità e la missione che intendeva di affidarle, giacché diceva: « Se il tuo fratello ha commesso qualche mancamento contro di te…. dillo alla Chiesa. E se non ascolta la Chiesa, abbilo in conto di gentile o di pubblicano. » E poscia aggiungeva: «Tutto quello che voi legherete sulla terra, sarà legato in cielo, e ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. » E in conformità a queste sue divine promesse ed asserzioni che cosa fa egli! Raccoglie d’intorno a sé alcuni Apostoli, li istruisce, comunica ai medesimi la sua autorità e la sua potenza; dapprima li manda nelle città della Giudea; domanda conto della loro missione, sceglie e stabilisce il loro capo, aggiunge loro alcuni cooperatori, con tenera sollecitudine forma il gruppo tipo e modello della immensa società, nella quale si espanderà, gruppo che chiama al suo principio: pusillus grex, piccolo gregge. Ed ecco la fondazione della Chiesa di Gesù Cristo, Chiesa che, come ognuno facilmente comprende, non è già di ordine interiore ed invisibile, come volle il vecchio protestantesimo, ma di ordine esterno, visibile, visibilissimo. Visibile nei suoi capi e nelle sue membra, cioè nel successore di S. Pietro e degli altri Apostoli e nei’ fedeli che ad essa appartengono, non altrimenti che siano visibili i superiori e gl’inferiori di ogni altra terrena società; visibile nella predicazione e nella professione della dottrina di Gesù Cristo, essendo che secondo il suo comando, la lieta novella della salute deve annunziarsi e sempre si annunzia con la predicazione a tutte le creature di tutti i luoghi e, di tutti i tempi che abbracciandola la professano non solo nell’interno del loro cuore, ma eziandio con le loro parole ed opere esteriori; visibile nel sacrifizio che Gesù Cisto volle perpetuare in questa sua Chiesa e che si celebra con un culto e con riti esteriori; visibile nei Sacramenti che C. Cristo le affidò da amministrare e che sempre si amministrano in modo al tutto sensibile. Porre in dubbio pertanto la visibilità della Chiesa è lo stesso che contraddire non solo alle parole esplicite di Gesù Cristo, ma eziandio alla testimonianza irrefragabile dei sensi e della sana ragione. Per certo sotto altro aspetto la Chiesa è pur invisibile. Come l’uomo è visibile nel suo corpo ed è invisibile nella sua anima, così la Chiesa è invisibile al presente nel suo capo supremo G. Cristo, che è in cielo; invisibile nella verità che illumina le menti; invisibile nella grazia che santifica le anime; invisibile nella vita divina che circola nel gran corpo degli eletti; ma per tutto il resto, torno a dire, visibile, visibilissima. E come potrebbe essere diversamente? Se G. Cristo, capo, al presente invisibile, della Chiesa, venuto su questa terra per la redenzione nostra, l’ha operata tutta in modo visibile del suo corpo; ecco lo Spirito Santo che mandato da G. Cristo, perfeziona l’opera sua; ecco la Chiesa ripiena di vita e di forza. O Chiesa di Gesù Cristo! creazione ammirabile del suo Cuore divino! Benché così piccola come oggi apparisci dentro di quel cenacolo, esci fuori ardimentosa, getta lo sguardo sopra il mondo, e riconoscendo che a te è destinato sfidando i pericoli vola alla sua conquista. Se Cesare nella tempesta diceva al nocchiero che tremava: « Che temi? Porti Cesare! » con più santa alterigia e maggior sicurezza di fronte ad ogni ostacolo tu potrai dire a te stessa sino alla fine del mondo: « IO non temo, perché porto con me lo Spirito Santo, l’anima della mia vita. » No, non meravigliamoci che Gesù Cristo abbia fondata e perfezionata l’opera sua con quella piccola schiera di Apostoli e di discepoli, che stavano raccolti nel cenacolo il dì della Pentecoste! Gesù Cristo senza dubbio nella sua potenza infinita, avrebbe potuto dare fin da principio all’opera sua delle proporzioni più vaste, immensamente più vaste. Ma Gesù Cristo voleva che non ostante gli sforzi che uomini funesti avrebbero fatto per mettere in dubbio l’opera sua, ciò non potesse mai realmente accadere a chi seriamente si fosse fatto a considerare da una parte gli umili suoi inizi e dall’altra gli sfolgoreggianti suoi successi; da una parte dodici uomini rozzi, poveri, senza dottrina e senza umane aderenze, e dall’altra il mondo intero, dall’oriente all’occidente, da bòrea a mezzodì da loro conquistato nel nome di Gesù Cristo. Perciocché, o miei cari, dai tempi nostri calando giù passo passo per mezzo della storia sino ai tempi apostolici noi veniamo a riconoscere che la grande società dei credenti, che ricopre ora la faccia della terra, non è altro che lo svolgimento di quella piccola schiera radunata un dì nel cenacolo già costituente la Chiesa di Gesù Cristo ed avvivata dallo Spirito Santo. Così adunque Gesù Cristo per ottenere la salvezza degli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi ha fondata e perfezionata la sua Chiesa, quella Chiesa che oggi come al suo principio, è la società di tutti i fedeli i quali professano tutti la stessa fede di Gesù Cristo, partecipano tutti agli stessi Sacramenti e sono posti tutti sotto l’obbedienza dei Vescovi successori degli Apostoli e specialmente del Romano Pontefice successore di S. Pietro e vicario visibile di G. Cristo invisibile

II. — Se non che, o miei cari, qual è la Chiesa di Gesù Cristo? Ecco la dimanda che siamo costretti di farci, perciocché, nessuno di voi lo ignora, vi sono molte società religiose che pretendono di essere nate dal Cuore del divin Crocifisso e di continuare nel mondo l’opera della sua redenzione. Ma viva Dio! anche qui il Divin Redentore non ci ha lasciati nel pericolo dell’errore, anche qui ci ha manifestata la sua carità. Di quella guisa che Iddio nella creazione del mondo vi ha scolpito per tal modo le sue perfezioni, che per quanto si faccia, non torna possibile disconoscere che il mondo è opera sua, così Gesù Cristo fondando la sua Chiesa l’ha segnata di tali note caratteristiche, per mezzo delle quali non è possibile disconoscere quale sia l’unica e vera Chiesa da Lui fondata. Queste note sono quattro: l’unità, la santità, la cattolicità, l’apostolicità. – Ed anzi tutto Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una. Nella sublime e commovente preghiera, che rivolgeva al suo Padre celeste prima di separarsi da’ suoi cari, gli diceva: « Padre Santo, Io ti raccomando coloro che mi hai affidato, conservali affinché siano una cosa sola come lo siamo noi. Io non ti prego per essi soltanto, ma per tutti coloro che devono credere in me sulla loro parola… affinché tutti siano una cosa sola in noi… e tutti siano consumati nell’unità. » (Io. XVII, 11, 20, 21, 23) Né Gesù Cristo si è contentato di domandare al suo Padre quest’unità per la sua Chiesa, ma la volle propriamente stabilire, giacché Egli diceva ancora: « Io ho altre pecorelle che non sono di questo ovile, fa di mestieri che quelle pure raccolga. Esse udranno la mia voce e non vi sarà più che un solo ovile ed un solo pastore. » (Io. X, 16) La Chiesa adunque di G. Cristo deve primieramente essere una, vale a dire una nella fede e nell’osservanza di tutta la dottrina, che Gesù Cristo ha insegnato; una nella partecipazione di tutti i Sacramenti che Gesù Cristo ha istituiti; una nella unione e obbedienza a quel Capo supremo che in essa Gesù Cristo ha stabilito, conforme ha dichiarato in quella sua formola, così acconcia e così eloquente, l’Apostolo Paolo: « Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio padre di tutti. » (Eph. IV, 5, 6). – In secondo luogo Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa portasse l’impronta della sua santità; perciocché dice l’Apostolo: « Gesù Cristo nell’amor suo per la Chiesa si è dato per lei affine di renderla gloriosa, senza macchia e senza ruga, santa ed immacolata. » (Eph. V, 25, 27) Sì, la vera Chiesa deve essere santa come santo è il suo Capo invisibile, santa nella dottrina che guida alla santità, santa nei mezzi capaci di operare la santificazione, santa in molti dei membri che le appartengono. – In terzo luogo Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse Cattolica, cioè universale, abbracciando i fedeli di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le condizioni e di tutte le età. Ed è ciò che avevano predetto i profeti, quando cantarono di Gesù Cristo « che avrebbe avuto in eredità tutte le genti, che tutti i re della terra lo avrebbero adorato, che tutte le genti lo avrebbero servito, che egli avrebbe dominato da un mare ad un altro, da un fiume sino agli estremi confini della terra. » È ciò ancora che Egli espresse chiaramente ai suoi Apostoli, quando disse loro: « Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura. » E finalmente Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse apostolica, vale a dire credesse ed insegnasse tutto ciò che gli Apostoli hanno creduto ed insegnato e fosse guidata e governata dai loro successori. Perciocché dopo di aver eletto gli Apostoli e dopo aver insegnato loro la sua dottrina, è a loro stessi che impose il precetto di annunziarla dicendo: « Come il Padre ha mandato me, così Io mando voi: chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. » E perché inoltre s’intendesse come il mandato, che loro affidava, doveva passare ai loro successori aggiunse: « Ecco che Io sono con voi sino alla consumazione dei secoli. » (MATT. XXVIII, 21) Unità, santità, cattolicità, apostolicità, ecco adunque le quattro note caratteristiche, di cui Gesù Cristo volle segnata la sua unica e vera Chiesa. Ed ora sarà egli difficile il riconoscerla, non ostante la molteplicità delle società religiose che vi hanno nel mondo, e non ostante ancora che non poche tra di esse si arroghino l’onore di essere proprio quella? No, ciò non è difficile, è anzi facilissimo. L’unità non si trova presso i popoli idolatri, che per quanto siano affini nell’adorare le creature in onta al Creatore, sono tuttavia fra loro divisi in una infima varietà di culti turpissimi, crudeli, superstiziosi ed assurdi. L’unità non si trova presso gli Ebrei, che per quanto sembrino uniti nel credere tutti a Mosè e alla sua legge, sono tuttavia divisi in tante scuole, quante sono le sinagoghe, e ciascuno intende e pratica quella legge a suo modo. L’unità non si trova presso i Maomettani, che per quanto dicano di seguir tutti Maometto ed il suo Corano, sono tuttavia scissi ancor essi in tante sette, quanti sono i capi politici cui obbediscono. L’unità non si trova neppure presso gli Scismatici e gli Eretici, che per quanto si vantino di credere tutti a Gesù Cristo e al suo Vangelo, discordano tuttavia tra di loro nella fede, quante sono nazioni, quanti sono paesi, quante sono famiglie, quanti sono individui, e più ancora quante sono le voglie di uno stesso individuo, che oggi gli piace di credere ad una cosa e domani ad un’altra. Che dire poi della santità? Ed è possibile che vi sia la santità in quelle società religiose, le cui dottrine spingono la vita pratica a conseguenze immorali? Che vi sia la santità, dove il vizio è Dio? dove il furore dei carnali diletti è il premio promesso alla propria credenza? dove s’insegna che basta credere e che poi nulla importa di peccare, e che quanto più si è scellerati ed infami, tanto più Dio largisce la sua grazia? O poveri protestanti, voi soprattutto, che pretendete di essere nella Chiesa di Gesù Cristo, dove avete la santità della dottrina voi, che nella vostra togliendo il libero arbitrio fate dell’uomo una bestia, e rendete Iddio autore dei peccati, che l’uomo commette? Dove avete la santità dei mezzi capaci ad operare la santificazione voi, che avete ripudiato la massima parte dei Sacramenti istituiti da Gesù Cristo, e conservandone qualcuno l’avete ridotto ad una ridicola cena? Dove avete la santità dei membri che vi appartengono? Sono forse i vostri santi un Lutero, monaco apostata, vanitoso, ghiottone, libidinoso? un Calvino prete abortito, pieno di orgoglio e di crudeltà? un Arrigo VIII, re dissoluto e sanguinario? una Elisabetta d’Inghilterra mostro di libidine e di barbarie? E se son questi i Santi della vostra setta, quali sono le opere, che manifestano la loro santità? quali i miracoli che la provano? Ah! che in fatto di miracoli essi non riuscirono neppure, secondo la frase caustica e sprezzante di Erasmo, a guarire un cavallo zoppo! E poiché a queste società religiose manca l’unità e la santità, si può dire forse che siano cattoliche, universali? Senza parlare delle società degli infedeli, le quali troppo chiaro apparisce non essere universali, le società eretiche e scismatiche non sono che ristrette a pochi paesi, dove gli czar pontefici e i patriarchi, avviliti sotto il giogo dei sultani e dei pascià, lavorano di mani e piedi per ritardare l’inevitabile sfacelo, a cui l’errore è destinato. E i protestanti che pur vorrebbero riuscire a questo di ottenere una specie di universalità, inviano perciò i loro ministri carichi di bibbie nei lontani paesi, ma questi ministri, che accompagnati dalla moglie nel loro apostolato non mirano che a far la loro fortuna, a che sono essi riusciti? Essi medesimi lo dovettero confessare: i loro sforzi per diffondere il pane della vita (come essi chiamano la parola della Bibbia da loro falsificata) non ostante alcuni successi ottenuti qua e là, riuscirono perfettamente inutili. E la ragione è chiara: né le sette dei protestanti, né le altre sette eretiche e scismatiche sono apostoliche. Dal momento che con l’eresia e con lo scisma rifiutarono la dottrina degli apostoli e si staccarono dalla catena dei loro legittimi successori, cessarono affatto di possedere l’apostolicità: e se pure vanno pel mondo a predicare una dottrina, oltreché non predicano la dottrina creduta ed insegnata dagli Apostoli, non vi vanno perché mandati da Gesù Cristo, ma perché essi medesimi si sono arrogata questa missione. Qual è adunque, o miei cari, la vera ed unica Chiesa di Gesù Cristo, la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, se non la Chiesa nostra, alla quale abbiamo il singolar bene di appartenere, quella Chiesa che chiamasi anche Romana, perché il suo capo visibile è il Vescovo di Roma, e Roma perciò è il centro della medesima? Sì, è in questa Chiesa che risplende anzi tutto il carattere dell’unità. Per quanto siano diversi per origine, per costumi, per colore, per linguaggio, i popoli che vi appartengono, essi professano tutti lo stesso Credo; essi ricevono tutti e da per tutto gli stessi Sacramenti; essi obbediscono tutti allo stesso governo e si tengono in unione con lo stesso Capo, giacché i fedeli obbediscono ai loro pastori, i pastori ai vescovi, i vescovi al Papa, e tutti col Papa, Pater Patrum, padre dei padri, padre comune di tutti i credenti, si tengono uniti, formando un solo ovile, sotto la scorta di un solo pastore. È in questa Chiesa che risplende in secondo luogo il carattere della santità, giacché è in questa Chiesa, il cui Capo invisibile è tre volte Santo, che vi ha una dottrina che invita, anima e guida non solo a salvarsi, ma a rendersi santi e perfetti nella pratica eroica di ogni più eletta virtù. È in questa Chiesa che abbondano i mezzi per operare la propria santificazione, giacché è in essa che vi hanno i Sacramenti adatti ad ogni età e ad ogni condizione dell’uomo, per mezzo dei quali la grazia di Gesù Cristo discende copiosa sulle anime a sanare le loro infermità e a comunicar loro la forza e il vigore della vita spirituale, e soprattutto il Sacramento del Corpo e del Sangue istesso del Redentore, che viene a trasfondere nei fedeli la sua stessa vita e per conseguenza la sua stessa santità. È in questa Chiesa che si contano a centinaia, a migliaia, a milioni i santi: i santi apostoli, che sfidando ogni pericolo ed ogni disagio, andarono nei paesi più lontani e più selvaggi per illuminare coloro che giacevano nelle tenebre e nelle ombre di morte; i santi martiri, che sacrificarono generosamente la loro vita, fra i più atroci tormenti per professare sino all’ultimo respiro la fede di Gesù Cristo; i santi Pontefici che portarono sul più alto trono del mondo l’umiltà più profonda e governarono la Chiesa con mano salda e sapiente; i santi re e le sante regine, che tra gli splendori della reggia seppero vivere della vita più mortificata, e recare il vero bene ai loro popoli; i santi anacoreti, che popolarono i deserti e vi menarono la vita più penitente; i santi confessori, che anche in mezzo al mondo rinnegando se stessi e prendendo la croce tennero dietro fedelissimamente a Gesù Cristo; i santi e le sante vergini, che rinunziarono alle nozze terrene per unirsi indissolubilmente allo sposo Celeste e per ispandere sulle umane miserie le tenerezze di una casta maternità; i santi di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione che non cessarono e non cesseranno mai sino alla fine del mondo. È in questa Chiesa, che in terzo luogo risplende il carattere della Cattolicità, giacché è essa sola che ha ricevuto da Gesù Cristo il diritto di espandersi da per tutto, essa sola che ne ha l’attitudine e la forza, essa sola che realmente si espande sino ai confini del mondo. Da quel momento che Gesù Cristo ebbe intimato agli Apostoli : « Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo a tutte le creature; » e gli Apostoli rivestiti di una virtù dall’alto si lanciarono come folgori a portare da per tutto la buona novella, da quel momento l’apostolato non è ristato più mai nelle sue conquiste, immensamente più grandi che non quelle di Cesare e di Alessandro Magno. Per suo mezzo si rende cristiano dapprima il romano impero, e dappoi si rendono tali i barbari. E quando a Vasco di Gama e a Cristoforo Colombo si dischiudono dei nuovi mondi, sono legioni di missionari che si precipitano sulle loro tracce, e l’India, la Cina, il Giappone sono evangelizzati. L’America non ostante i suoi immensi laghi, i suoi immensi fiumi, le sue immense foreste, i suoi immensi pampas è percorsa dalla parola di Dio, sino alla Patagonia ed alla Terra del Fuoco. L’Oceania, questo mondo di isolette sparpagliate nel mare, riceve essa pure la dottrina che ha convertito le più grandi terre. E così sarà sino alla fine del mondo, fino a che non v i sarà più che una tribù di selvaggi da convertire. O secolo del progresso! non pago più del vapore sostituisci l’elettrico, e per suo mezzo fa strisciare i carri sulle vie ferrate e fa volare le navi sul liquido elemento pronte e leggere come il lampo; le tue nuove invenzioni, come le grandi strade per cui erano passate le legioni romane, non serviranno a miglior uso che a rendere sempre più universale la Chiesa di Gesù Cristo. – E finalmente è in questa Chiesa che risplende il carattere della apostolicità, perché è in questa Chiesa che si crede e si insegna, si crederà e si insegnerà mai sempre quello che hanno creduto ed insegnato gli Apostoli; è in questa Chiesa che con una catena non mai interrotta dal Pontefice gloriosamente regnante si va sino a B. Pietro, dai Vescovi che la governano si arriva sino agli altri Apostoli, sicché il Pontefice e i Vescovi, che in essa vi sono e vi saranno sino alla fine del mondo, degli Apostoli sono e saranno sempre i veri e soli successori. Noi fortunati pertanto, che apparteniamo a questa Chiesa, la sola vera che vi sia nel mondo, perché la sola contrassegnata di quelle note caratteristiche, che Gesù Cristo vi ha voluto imprimere, nel suo amore infinito per noi, per far conoscere l’opera sua. Ma infine Gesù Cristo, volendo davvero che il frutto della sua Redenzione potesse essere applicato sino alle ultime generazioni, diede alla sua Chiesa tale una stabilità nell’esistenza e nella dottrina che non avesse a venir meno, né a mutar per poco giammai. Egli disse chiaro: « Edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa giammai: starò con lei sino alla consumazione dei secoli. » Ed egli che ha così parlato fa ben onore alla sua parola. Ed in vero il tempo che tutto distrugge, anche le più potenti istituzioni, anche gl’imperi più giganteschi, anche le monarchie più salde, non ha prodotto né vecchiezza, né infermità, né decadenza nella Chiesa: la sua giovinezza assai meglio che quella dell’aquila, si rinnovella ogni giorno. Più rabbiose che il tempo si sono scagliate contro di lei le potenze della terra congiurate a’ suoi danni. Tutto ciò che di più crudele, di più vile, di più malizioso si poté inventare dagli uomini, tutto fu messo alla prova per batterle i fianchi e farla smuovere dalla sua fermezza: seduzioni, insulti, calunnie, tradimenti, persecuzioni, prigionie, esili, mannaie, roghi, belve feroci… Ma essa ah! come lo scoglio, che in mezzo all’oceano, sicuro di sua stabilità par che miri con occhio di compassione le onde furenti, che nella loro insensatezza lanciandosi contro di esso si credono di sopraffarlo, e poi disfatte dalla sua durezza gli cadono morte ai piedi; così la Chiesa affidata alla parola di Gesù Cristo stette mai sempre sicura di Sua esistenza, e mirò invece con sentimento di compassione caderle ai fianchi l’un dopo l’altro i suoi mortali nemici. Quando Giuliano l’apostata tribolava la Chiesa con quella persecuzione atroce e volpina che porta il suo nome, uno de’ suoi famigliari, il retore Libanio, imbattutosi in un Cristiano con tutto il sarcasmo, di chi vede atterrato il suo nemico gli domandava : « Che cosa fa il vostro Galileo, il figlio del falegname? » E il Cristiano a lui: « Il figlio del falegname fa una bara. » E non andò molto che la Chiesa vide cader in quella bara il suo persecutore. Quello che vedeva allora è quello che già aveva visto per tre secoli, è quello che vede e vedrà sino alla fine del mondo: Gesù Cristo far delle bare e chiudervi dentro l’an dopo l’altro i nemici di lei. No, la Chiesa non si muove nella stabilità di sua esistenza. Gesù Cristo l’ha giurato, e lì è il gran segreto. – E come non si muove nella stabilità di sua esistenza, così non si muove, né si muoverà mai nella stabilità di sua dottrina. In tutti i secoli i suoi figli snaturati si sono recati da lei per domandarle mutazioni. Hanno bussato alla sua porta, ed ella si è affacciata: Che volete da me? — Che tu ti muti. — Io non muto mai. — Muta almeno il tuo Cristo. — Impossibile. — Muta la sua persona. — Impossibile. — Muta le sue nature. — Impossibile. — Muta la sua carne. — Impossibile. — Muta le sue volontà. — Impossibile. — Muta la sua grazia. — Impossibile. — Muta qualche suo Sacramento. — Impossibile. — Muta l’autorità del suo Vicario. — Impossibile. — Muta l’unità del Matrimonio. —- Impossibile. — Muta… — No, io non muto. — Ma pure, tutto muta, tutto è mutato nel mondo: son mutati i tempi, son mutati i governi, son mutate le scienze, è mutata la filosofia, mutata la storia, mutata la medicina. Ma io non muto. — Ebbene, peggio per te. Noi ci distaccheremo dal tuo fianco. E noi… sai chi siamo noi? Noi siamo l’Oriente. Noi siamo la Russia, Noi siamo la Germania. Noi siamo l’Inghilterra. Noi siamo la Svizzera. — Non importa foste ben anche la metà del mondo, staccatevi pure. Ma intendetelo bene: più che voi vi distacchiate da me, sono Io che vi recido come rami secchi ad essere gettati nel fuoco. Così, o miei cari, la Chiesa Cattolica per la perpetua assistenza che Gesù Cristo le ha promesso e che realmente le usa, non ha mutato mai di un ette il suo Credo, neppure allora che le si domandava questo solo ette, e sebbene madre tenerissima dei suoi figli e sposa la più affezionata a quello sposo, che non le chiede altro che figli, col cuore insanguinato ha patito piuttosto l’inesprimibile dolore di rigettare ella medesima dal suo seno dei popoli interi, anziché patire la rottura dell’integrità della fede. E Gesù Cristo ha consolato allora la sua sposa additandole altri popoli, a cui avrebbe dato la vita. – Ma io so bene che qui i nemici della Chiesa intenti sempre, ma indarno, al tentativo di coglierla in contraddizione, si levano su e gridano: « Come? Immutabile la dottrina della Chiesa? Non è vero! E i nuovi dogmi che ella introduce a credere non sono essi una mutazione? Miei cari, che cosa s’intende per nuovo dogma? forse una verità nuova non mai creduta prima? una verità che contrarii o indebolisca le verità già prima esistenti? Niente affatto: ciò non è possibile. Quelle verità che talora la Chiesa, in apparenza di nuovi dogmi, solennemente definisce doversi credere di fede, non sono che verità antiche come tutte le altre, come tutte le altre contenute nelle Sacre Scritture e nella Tradizione apostolica, come tutte le altre rivelate da Dio, come tutte le altre già credute ed insegnate almeno implicitamente, come tutte le altre appartenenti all’integro corpo della dottrina cristiana; ma verità che furono per così dire lasciate giacere nell’ombra fino a che non essendo dubitate o contraddette non corsero il pericolo di non essere credute dai fedeli, e che allora che corsero questo pericolo, dalla Chiesa sommamente sollecita della salute de’ suoi figli, furono tostamente tratte fuori alla luce e col suo solenne definire essere ancor esse verità rivelate da Dio, epperò da doversi credere come tutte le altre, fatte risplendere come il sole in pien meriggio. La Chiesa adunque, per quanto possa parere a taluno che faccia talora dei mutamenti con l’introdurre nuovi dogmi a credere, non muta nulla giammai; essa non fa altro che svolgere sempre meglio il tesoro preziosissimo di quella verità immutabile che Gesù Cristo le ha affidato, non fa altro che mettere in più bella mostra quelle gemme fulgidissime ed infrangibili che circondano la sua fronte. O Chiesa di Gesù Cristo! come esalti per ogni lato il tuo sposo, il tuo sovrano, il tuo fattore! Come canti per ogni verso la sua gloria divina e il suo amore infinito per noi! Fortunato colui che a te appartiene, che in te si affida, che te ama, che te ascolta, che da te si nutre, che in te vive. Egli vive tra le braccia di una madre, che solo alla morte lo staccherà dal suo seno per gettarlo con gaudio tra le braccia di Dio.

III. — Ma dopo tutto ciò è facile di comprendere da qualsiasi uomo che non abbia perduto il senno, come non possa assolutamente essere libero e indifferente l’entrare o no in questa Chiesa, l’appartenervi o il non appartenervi. Ed è perciò appunto che lo stesso Gesù Cristo ha detto: « Se alcuno non ascolta la Chiesa, abbilo per gentile e pubblicano, » vale a dire chi non istà sotto la mia Chiesa, è un infedele che non potrà salvarsi. È perciò che disse ancora agli Apostoli: Chi non crederà a voi ed ai vostri legittimi successori sarà condannato. È perciò che l’apostolo S. Paolo insegnandoci che Gesù Cristo è il capo invisibile della Chiesa: Christus caput ecclesiæ, e che noi siamo le membra del suo corpo: Membra sumus corporis eius, aggiunge che chi si separa dalla Chiesa per seguire l’errore per suo proprio giudizio è condannato. È perciò che S. Cipriano facendo eco alla voce di Cristo e degli Apostoli asserisce che come non sfuggirono al diluvio quelli che non ripararono nell’arca di Noè, così non sfuggiranno all’eterna perdizione coloro che sono fuori della Chiesa; (De unit. Eccl, VI) che S. Agostino dice chiaro che non può pervenire alla vita chi non ha per capo Gesù Cristo e che nessuno può avere per capo Gesù Cristo se non si trova nel suo corpo, ch’è la Chiesa; (De. unit. Eccl, XIX) che S. Gregorio Magno dichiara che la Santa Chiesa crede e proclama che nessuno può essere salvo fuori del suo grembo, che chi è fuori del suo grembo non può ottenere salute. (Moral. XIV, 2) Egli è certo adunque che la salute eterna è nella Chiesa di Gesù Cristo soltanto e che fuori di essa, non vi può essere. Ma se allora è così come si potrà ancora esaltare cotanto la bontà del Cuore di Gesù, perocché se è vero che durante venti secoli di Cristianesimo la Chiesa di Gesù Cristo ha portato e dilatato mirabilmente le sue tende da una parte all’altra del mondo, non è vero altresì che vi sono stati e vi sono tuttora un numero immenso di uomini, i quali non appartennero e non appartengono a lei? Non vi sono in numero immenso degli eretici, dei protestanti, dei scismatici che si sono staccati da lei e da lei vivono separati? Non vi sono in numero immenso dei pagani, dei feticisti, degli uomini ancor selvaggi che ne sono del tutto lontani? Non vi sono insomma in numero immenso infedeli d’ogni maniera? E dunque tutti costoro per non appartenere alla Chiesa andranno tutti perduti? Certamente si può e si deve ammettere che tra di costoro vi saranno non pochi, i quali avranno potuto e potranno conoscere questa Chiesa, e pur conoscendola avranno ed hanno di loro deliberata volontà rifiutato di entrarvi e di farne parte; costoro ben si comprende che siano colpevoli e meritino di essere dannati; ma gli altri? tutti gli altri, i quali non le appartennero, non vi appartengono per nessuna loro colpa? Dovranno anch’essi inesorabilmente perire? Miei cari, non spaventiamoci e non cadiamo troppo facilmente nell’errore, in cui cadono coloro i quali udendo questa sentenza che fuori della Chiesa non v’è salute, pigliano ben anche argomento per negare la carità di Gesù Cristo, la bontà di Dio. Questa sentenza senza alcun dubbio è esatta, esattissima, né deve essere per nulla modificata. Tuttavia fa d’uopo di ben intendere di qual maniera si sia propriamente fuori della Chiesa. E per ben intender ciò non bisogna ignorare che nella Chiesa non vi è soltanto il corpo, ma vi ha altresì l’anima: il corpo è la società esterna, costituita dall’insieme di tutti i fedeli che sono visibilmente uniti nella professione della fede cristiana cattolica, nella partecipazione dei santi sacramenti che nella Chiesa cattolica si amministrano e nella sommissione alla gerarchia nella stessa Chiesa esistente. L’anima invece è la società invisibile di tutti i giusti che vi sono su tutta la faccia della terra, ai quali Gesù Cristo applicò e va applicando gli effetti della sua redenzione, non solo di quelli a cui li applicò e li applica per i mezzi ordinarli della parola divina e dei Sacramenti, la cui dispensazione affidò alla sua Chiesa, ma eziando di coloro a cui li applicò e li va applicando per mezzi straordinarii, a cui Egli nella sua piena libertà e potenza ricorre. Giacché è verissimo che Dio vuol salvi tutti gli uomini e che tutti vengano al conoscimento della verità: Deus vult omnes homines salvos fieri et ad agnitionem veritatis venire; (I Tim, II, 4) è verissimo che Gesù Cristo ha offerto se stesso per il riscatto di tutti gli uomini: dedit redemptionem semetipsum prò omnibus; (I Tim. II, 6) è verissimo che tutti sono morti per il peccato, ma che Gesù Cristo è morto per tutti: Omnes mortui sunt et prò omnibus mortuus est Christus. (II Cor. v, 14, 15). Epperò è verissimo altresì che Gesù Cristo volendo di volontà vera, e non già platonica soltanto, applicare a tutti gli uomini gli effetti salutari della sua redenzione non lasciò, non lascia e non lascerà mai di fare non solo con i mezzi ordinarli posti nella sua Chiesa, ma eziando con mezzi straordinarii tutto ciò a cui lo induce la sua bontà infinita, perché tutti gli uomini per quanto è da lui realmente si salvino. Tanto più poi perché la perdizione degli uomini importa una pena eterna. Perciocché se tale è la pena a cui andranno soggetti coloro che non si salvano, sarà possibile che Gesù Cristo, Egli Salvatore di tutti gli uomini, Bedemptor omnium, vi condanni qualcuno, anche un solo che non l’abbia interamente meritata? Ah! ciò è impossibile. Bisogna che nell’inferno ogni dannato, assolutamente ogni dannato, debba dire: Se mi trovo qui per tutta un’eternità è mia colpa, interamente mia colpa. Se non fosse così, se il dannato potesse in qualche modo anche per la menoma ragione attribuire a Dio la sua dannazione, l’inferno sarebbe un’ingiustizia e Dio non sarebbe più Dio, vale a dire l’Essere perfettamente giusto e buono. Se adunque Dio, Gesù Cristo Uomo-Dio, condanna taluni fra gli uomini all’eterna dannazione, ciò avviene propriamente, perché Egli non ne può fare a meno, ma vi è indotto assolutamente dalla sua stessa perfezione. Ciò vuol dire altresì che Gesù Cristo prima di condannare taluno all’inferno lo giudica e solo allora che lo trova assolutamente meritevole di condanna, solo allora ne pronuncia contro la sentenza. Ed in vero, se negli stessi tribunali di questo mondo i giudici quando si tratta di condannare taluno alla pena di morte od all’ergastolo in vita vanno così a rilento, affine di non condannare a pena sì grave chi non ne fosse del tutto meritevole, che cosa non farà Gesù Cristo? Ma appunto perciò, perché Gesù Cristo possa giustamente condannare taluno alla pena eterna dell’inferno è assolutamente necessario che Egli possa dire a costui: Io ho fatto di tutto per salvarti, e se invece ora sei. meritevole di dannazione eterna ed io te la infliggo, è proprio perché tu, propriamente tu, interamente tu, l’hai meritata ed Io per non venir meno a me stesso debbo infliggertela. Insomma il concetto della dannazione eterna e della giustizia di Dio esigono che Gesù Cristo, Uomo-Dio, non solo sia giusto, ma sia buono, anzi sia talmente amante dell’uomo da avere con lui esaurito tutti i mezzi per salvarlo. Ed ecco perché taluni tra gli stessi Cristiani Cattolici, pur appartenendo al corpo della Chiesa morendo senza appartenere all’anima sua, se ne vanno eternamente dannati. Che cosa non ha fatto, che cosa non va facendo Gesù Cristo per ciascuno di costoro? Non parliamo di quei Cristiani, ai qualiGesù fa sentire ancora tante volte la sua divina parola, di quei Cristiani che tante volte invita alle sue chiese ed a’ suoi Sacramenti, di quei Cristiani, cui mantiene in fondo al cuore la fede, di quei Cristiani che circonda sempre di un ambiente al tutto religioso e che nondimeno datisi in preda a qualche rea passione si abbandonano del continuo alla colpa. Ma parlando anche solo di quegli uomini che hanno interamente rigettata la fede del loro battesimo e si sono dati ad una vita la più empia e libertina, forsechè Iddio di tratto in tratto non li scuote, non li turba, non li commuove? E che cosa sono quelle lagrime della madre, quei gemiti della sposa, quei dolci lamenti d’una cara figliola, quei, crudi rimorsi, quelle improvvise tristezze, quegli amari disinganni, quelle smanie insoffrìbili, che li assalgono, se non colpi di grazia di quel Gesù che vuole salvarli? E quasi ciò non bastasse, non si fa ancora vicino a loro, come dice S. Caterina da Siena, in quell’estremo momento dell’agonia in cui sospesi tra la vita e la morte non sembrano più appartenere alla terra, per tentare una prova estrema, contentandosi anche di un solo sospiro di pentimento, di amore per guadagnarli a sé? Ah! per certo costoro nell’eterna dannazione non potranno giammai incolpare Gesù Cristo e non riconoscere che usò verso di essi un’estrema misericordia. Ma se è vero perciò che vanno dannati taluni tra gli stessi Cristiani Cattolici, non è men vero che Gesù Cristo per chiamare tutti gli uomini a far parte del numero dei suoi redenti, anche quelli che non sono Cristiani Cattolici, adoperi eziandio dei mezzi straordinari, oltre a quelli ordinarli della parola di Dio e dei SS. Sacramenti che ha posto nella sua Chiesa cattolica: non è men vero che senza appartenere al corpo della Chiesa Cattolica v i sono altresì di coloro, i quali appartengono all’anima sua; non è men vero che anche fuori del corpo della Chiesa vi sono, in numero stragrande, di coloro che si salvano, numero, le cui vere proporzioni sono un mistero che Dio solo conosce, ma del quale tuttavia noi possiamo sollevare alquanto il lembo per ammirare sempre più la bontà infinita del Cuore .di Gesù Cristo, E anzi tutto è bensì vero che vi sono in gran numero non solo tra gli acattolici, ma tra gli stessi cattolici dei bambini morti senza battesimo. Costoro senza dubbio non sono ammessi a vedere mai Iddio a faccia a faccia e a godere la felicità di questa contemplazione. Ma ignorando essi il gran bene che hanno perduto, non soffrono per questa privazione e Iddio lascia loro godere in pace di tutti i beni della natura. È adunque solo in questo senso che questi bambini si dicono dannati, in quanto che restano privi per sempre della visione beatifica, alla quale Iddio ha destinato l’uomo sollevandolo allo stato soprannaturale. Ma i bambini, figli degli stessi eretici e scismatici, i quali sono fuori del corpo della Chiesa, rigenerati nel Battesimo e colti dalla morte prima di avere potuto aderire alla ribellione ed all’errore dei loro padri, essi sono certamente salvi, perché furono colti allora che essi appartenevano realmente all’anima della Chiesa. Oltre a questi bambini quanti e quanti altri adulti tra gli eretici e i scismatici vivono con rettitudine e semplicità alla loro credenza, ritenendo in modo invincibile di trovarsi nella verità e nella via del cielo? Costoro, credendo e facendo tutto ciò che la loro buona fede insegna, santificati per mezzo di quei sacramenti che l’errore ha conservato e per le grazie che Dio si compiace di largir loro, non si salveranno essi ancora? E fra gli stessi infedeli, che non hanno conosciuto, che non conoscono per nulla Gesù Cristo, non vi sono di coloro che obbedendo alla legge di giustizia e di rettitudine impressa nella coscienza umana, facendo il bene e fuggendo il male, camminano per la strada della salute? E poiché per salvarsi è sempre necessario il battesimo, avendo detto Gesù Cristo che nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto non potest introire in regnum Dei, che se alcuno non sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo non potrà entrare nel regno di Dio, forsechè Iddio, dice S. Tommaso, non penserà a mandar loro chi li battezzi, come già mandò un giorno l’apostolo Pietro al centurione Cornelio? E quando pure non mandasse loro questo apostolo, affine di salvarli, non li battezzerebbe per mezzo del battesimo di desiderio, che è pure sufficiente alla salute, o per lo meno non lo farebbe loro desiderare implicitamente nel desiderio di tutto ciò che è necessario alla salute istessa? Certamente noi non sappiamo di qual maniera Gesù Cristo vada effettuando queste misteriose giustificazioni,, ma egli è certo, secondo l’insegnamento della teologia cattolica, che esse esistono, e che forse sono in numero immensamente più grande di quello che noi immaginiamo. Vi sono degli uomini, dice S. Agostino, che giacciono nell’eresia e nella superstizione dei gentili, ma anche là il Signore conosce i suoi; poiché nell’ineffabile prescienza di Dio, molti che sembrano fuori della Chiesa, vi sono entro, e quelli che sembrano dentro, ne sono fuori. Egli è di queste anime le quali appartengono alla Chiesa in modo invisibile ed occulto che si forma il giardino chiuso, la fonte suggellata, la sorgente di acqua viva, il paradiso pieno di frutti, di cui parlano le sacre scritture. Ecco perché l’Apostolo S. Giovanni, nelle sue estasi profetiche, vide salva in cielo una turba immensa, che nessuno poteva contare, d’ogni nazione, d’ogni tribù, d’ogni popolo, d’ogni lingua, e intese milioni e milioni di voci che cantavano le lodi di Gesù Cristo, Agnello divino stato immolato per la salute del mondo. È adunque verissimo che come tra coloro istessi che appartengono al corpo della Chiesa vi sono pur troppo di quelli che si dannano e interamente per loro colpa, avendo fatto Gesù Cristo per ciascuno di essi quanto era da sé per salvarli, così è verissimo che molti e molti vi sono che, anche fuori del corpo della Chiesa, ma appartenenti all’anima sua si salvano; è verissimo che anche a loro Gesù Cristo nella sua carità infinita per tutti gli uomini apporta i frutti salutari della sua redenzione. [Il Carmagnola, con questo lungo giro di parole, presenta confusamente un aspetto dottrinale che la Chiesa Cattolica ha precisato con chiarezza nel suo Magistero, fino all’esplicita e chiara lettera Enciclica di S. S.  Pio XII, la Mistyci corporis, e nella risposta che il Santo Ufficio ha dato all’Arcivescovo di Boston (D. S. n. 3868-72) nel 1949, ove è definito in modo infallibile la differenza tra: – 1) coloro che appartengono al Corpo mistico di Cristo (cioè la Chiesa Cattolica) e perciò sono sulla via della salvezza – tra questi coloro che pur volendolo e desiderandolo, purché battezzati almeno di desiderio, conoscenti e praticanti la dottrina cattolica, non lo possono materialmente – e: 2) tra coloro che non appartenendole, come gli eretici, gli scismatici e gli apostati, per i quali non sia possibile invocare l’ignoranza invincibile, sono perciò avviati all’eterna dannazione – n. d. r.]. – Ma intanto, o miei cari, noi che pubblicamente apparteniamo alla società religiosa esterna e visibile fondata da Gesù Cristo, ringraziamolo d’averci dato la parte migliore; perciocché praticamente i beni che vi sono nel Corpo della Chiesa mercé la predicazione della divina parola, la grazia dei Sacramenti e il governo della gerarchia divinamente istituita, sono così grandi che l’essere stati ammessi, senza alcun nostro merito speciale, a farne parte è un beneficio inestimabile, essendoché per tal guisa noi possiamo più facilmente essere certi di appartenere all’anima che ravviva questo corpo. Ma non accontentiamoci, no, di ringraziare di sì gran favore il Cuore di Gesù Cristo, corrispondiamovi ancora debitamente col menare una vita che ci conceda di essere realmente uniti all’anima della Chiesa, e se alcuno di noi per sventura a cagione del peccato privato della divina grazia conoscesse così di non appartenervi, più si affretti quanto è possibile a riacquistare il gran bene che ha perduto, per poter dire con tutta verità: Io appartengo a Gesù Cristo, io sono una pecorella del suo ovile, un abitatore della sua città, un cittadino del suo regno. E voi intanto, o Cuore Sacratissimo di Gesù, fate che noi siamo sempre della Chiesa amorosissimi figli. Ma deh! o Pastore divino, rivolgete altresì uno sguardo di compassione a quelle tante altre pecorelle che sono lontane ancora dal vostro ovile. Con la vostra voce divina chiamatele efficacemente; coll’abbondanza delle vostre grazie fortemente pungetele e spronatele a voler entrar ancor esse a far parte del vostro gregge; sicché si adempia la vostra parola, e non vi sia più che un solo ovile sotto la guida di un solo pastore.

SACRO CUORE DI GESÙ (27): Il Sacro CUORE di GESÙ e MARIA nostra Madre

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ. TORINO, S. E. I. – 1920]

DISCORSO XXVII.

Il Sacro Cuore di Gesù e Maria nostra Madre.

Come nel fatto della rovina del genere umano ebbe sì gran parte la donna, così piacque al Signore, che la donna avesse gran parte nel mistero della redenzione del mondo. Epperò ben a ragione esclama S. Bernardo: « Un uomo ed una donna, Adamo ed Eva, ci nocquero grandemente, ma viva Dio! Un altro Uomo ed un’altra Donna, Gesù Cristo e Maria grandemente ci giovarono. » Quindi è che riguardando la croce, come non è possibile non rappresentarsi alla mente il mistero di redenzione, che Gesù Cristo vi ha operato sopra, così non è possibile non ricordare altresì la cooperazione, che a tanto mistero diede Maria stando ai piedi della croce istessa. Ma se questo simbolo di nostra salute considerato da solo nel parlarci di Maria ce la mostra come nostra Corredentrice, riguardato nel Cuore Sacratissimo di Gesù ce la mostra specialmente come nostra Madre. E d in vero, poiché i simboli di questo Cuore ci dicono tutti le prove immense dell’amor suo per noi, così la croce che lo sormonta, dopo d’averci comprovato l’amore di Gesù nel morirvi sopra, ci rammenta altresì quell’altra prova di amore che ci diede nel donarci per madre nostra la sua stessa Madre, Maria. Di fatto: tutta la storia degli inestimabili vantaggi della redenzione si contiene in questo grazioso pensiero di S. Leone, che nostro Signor Gesù Cristo, ricco negoziatore del cielo, è venuto quaggiù a stabilire un salutare commercio con noi per mezzo di un mirabile cambio, prendendo cioè i nostri mali per elargire a noi tutti i beni, di cui Egli è l’inesausta sorgente venit nostra accipiens, et sua retribuens. Ora, poiché tra i beni, che sono, per così dire, di sua proprietà particolare ed assoluta, vi era pure la sua Madre, quella Madre, che a Lui ha somministrato in modo perfetto la natura umana e lo ha generato nel tempo, siccome il Padre celeste lo genera nell’eternità, che cosa fece Egli? Nel cambio generoso di tutte le sue ricchezze divine con le nostre grandi miserie non si è contentato con la sua dottrina di farci parte di quella sapienza, che ha attinto nel seno del divin Padre; non si è contentato con l’istituzione dei Sacramenti di arricchirci abbondantemente dei tesori della sua grazia; non si è contentato neppure con la sua morte di darci se stesso, la sua vita, il suo sangue, ma volendo che sotto tutti i rapporti la sua redenzione fosse copiosa, che la nostra unione con Lui fosse intima e perfetta, che il cambio di tutto ciò che era suo con tutto ciò che era nostro fosse completo, ha trasfuso ancora in noi i suoi diritti di figliuolo di Maria, facendo che Ella divenisse pure la Madre nostra e che noi diventassimo pure i suoi figli: venit nostra accipiens, et sua retribuens. Perciocché, mentre noi stessi considerandolo confitto, ignudo ad un tronco crudele e vicino ad esalare l’ultimo respiro di una vita tutta dedicata per noi, avremmo giudicato, che Egli non potesse fare di più, né avremmo giammai immaginato, che volesse porre per sempre a profitto nostro la Madre sua, la sua sapienza infinita gli ha fatto ritrovare anche ciò, ed il suo amore glielo ha fatto compiere. O tenere sollecitudini del Cuore di Gesù Cristo! O prova mirabilissima del suo amore per noi! O dolce idea, o pensiero giocondo, o cara rimembranza! La madre di Dio è ancora veramente la madre nostra! Abbiamo noi riflettuto abbastanza sopra l’eccellenza di questo gran dono del Cuore di Gesù? A h ! ci sia dolce il riflettervi anche oggi. Consideriamo adunque come questo Sacratissimo Cuore, agonizzante sopra la Croce, ci diede veramente Maria per madre.

I. — Se in nostro Signor Gesù Cristo morente sopra della croce, come osserva S. Agostino, la visibile umanità sopportava i trattamenti più rei, la divinità, che vi era invisibile e nascosta, operava le più grandi meraviglie; e tra di esse, al dire del Crisostomo, compié pur quella di riformare il sesso debole, perciocché questo sesso apparve allora tutto ad un tratto il più coraggioso, il più intrepido ed il più forte. Gli Apostoli, ad eccezione di un solo, quando avevano visto catturare Gesù, abbandonatolo, si erano dati in tutta fretta a fuggire. I discepoli, come timida greggia cui è. tolto il pastore, si erano sbandati e dispersi. E S. Pietro, che lo aveva seguito di lontano, finì per rinnegarlo e giurare che non lo conosceva neppure. Ma al contrario, alcune donne pietose, prevenendo il coraggio e la costanza dei martiri nel confessare Gesù Cristo e condannando anticipatamente la viltà di quei Cristiani, che per un misero rispetto umano si vergognano di apparir seguaci di Lui, non scoraggiate dall’odio de’ Farisei, non arrestate dal furore del popolo, non intimidite dal potere dei magistrati, non spaventate dalla licenza dei soldati, con santo ardire tengono dietro a Gesù costantemente dal pretorio di Pilato sino alla cima del Calvario, assistendo ivi alle sue estreme agonie, e riprovando pubblicamente l’ingiustizia e le barbarie, con cui è trattato da’ suoi nemici il loro Signore e Maestro, lasciandosi vedere a piangere in palese sulla sorte spietata di Lui. Quando adunque fu inalberata la croce e Gesù Cristo, mediatore augusto tra Dio e gli uomini, rimase sospeso tra il cielo e la terra, queste intrepide donne si piantarono sul fiero monte a quella distanza del Crocifisso che loro permise la soldatesca insolente, con li occhi fissi sopra di Lui, contemplando la sua eroica pazienza e i prodigi che intorno a Lui avvenivano, e tutto ciò ravvolgendo nella lor mente con pietosa e devota meditazione: Erant autem ibi mulieres multæae a longe aspicientes. (MARC, XIII). –Ma fra queste donne così forti e così fedeli all’amore di Gesù Cristo era la sua santissima ed amatissima Madre Maria; Maria tratta su quel monte non solo dall’amore di Madre di Gesù, ina pur dallo zelo di Corredentrice del genere umano, non solo per essere spettatrice dei grandi misteri che Gesù Cristo stava per compiervi, ma ancora per prendervi parte, e cooperare col suo amore e col suo dolore alla rigenerazione e vera vita nostra, che Gesù Cristo doveva effettuare con la sua morte e col suo sangue. Epperò, perché ella in questa solenne circostanza ha un ministero tutto suo proprio, un incarico tutto particolare da adempiere, non si contenta di rimanere sul monte in lontananza dal Crocifisso, ma scostandosi dalle altre donne, che l’avevano fin là accompagnata, insieme con Maria di Cleofe, con Maria Maddalena e col Discepolo prediletto si avanzò e si strinse più d’appresso al tronco crudele, da cui pendeva la Salute del mondo: Stabat iuxta crucem Iesu. Sembra bene che la crudeltà dei Giudei ciò non avrebbe dovuto permettere, non già per compassione di Maria, ma per maggior tormento di Gesù, togliendogli oziando per tal guisa il conforto di vedere la sua madre da vicino e compassionarlo; ma sia che di ciò non si dessero pensiero, sia che non osassero di farlo, il fatto si è che Maria, assecondando le divine disposizioni, si trovò con Giovanni appiè della croce del suo Gesù ad essere per la prima bagnata del suo preziosissimo Sangue. – Se ne stava adunque Maria, secondo la bella pittura, che ne fa S. Ambrogio, al lato destro della Croce di Gesù Cristo, come assorta in un’estasi di profondo rammarico e di sublime contemplazione. La sua persona ritta ed immobile annunzia tutta l’intrepidezza e la nobiltà del suo cuore. L’espressione del suo volto manifesta mirabilmente il suo immenso dolore e la sua immensa rassegnazione. I suoi occhi pietosi vanno percorrendo ad una ad una le piaghe sanguinanti dello squarciato suo Figlio e l’anima sua è tutta nel condividere le sue pene atroci, perciocché, come dice S. Girolamo, quot spinæ, quot davi, quot ictus Christi carnem rumpentes, totidem Mariæ animam verberantes. Insomma lo spettacolo che Maria dà di se stessa è quale si conviene alla sublimità di sua condizione, alla grandezza di Madre di Dio. Dall’altro fianco del patibolo stavasi ritto ancor esso Giovanni, l’apostolo prediletto di Gesù, quegli che nell’ultima cena aveva posato la testa sul suo Cuore. Egli pure contempla con tutto il dolore del suo animo e compassiona con tutte le sue forze l’amatissimo Maestro, ed egli pure tiene un atteggiamento, quale si conviene ad un discepolo di Dio. Ora, essendo giunto Gesù al colmo delle sue agonie e delle sue pene, e scorgendo questi due personaggi da lui tanto amati, posa sopra di essi il suo languido sguardo, già vicino a spegnersi nell’ombre di morte, ed accennando l’uno all’altro dice a Maria: Donna, ecco il tuo tìglio, Mulier, ecce filius tuus; e soggiunse a Giovanni: Ecco la tua Madre, ecce Mater tua. (S. Jo. XIX, 26) Oh parole piene di tenerezza e di amore! Ma parole, come tutte le altre uscite dal Cuore e dalla bocca di Gesù moribondo, nella loro semplicità sommamente sublimi e feconde! Che voleva Egli adunque significare con esse? Quali grandi cose voleva compiere? Senza dubbio – come dice S. Agostino – volle anzi tutto procurare a Maria un appoggio ed un conforto. Perciocché secondo la sentenza comune dei Padri e l’antica e costante tradizione, lo sposo purissimo di Lei, il patriarca S. Giuseppe, al tempo della passione di Gesù Cristo già da più anni era trapassato. Essendo dunque Maria vedova del suo santo consorte, e dovendo rimanere priva fra poco del suo stesso Figliuolo, questi dando a noi, come nota il Crisostomo, il grande esempio di prenderci cura dei genitori fino all’ultimo punto di nostra vita, affidò Maria alla custodia di Giovanni. In secondo luogo rendendo Giovanni figliuolo di Maria volle premiare la sua singolare purezza e fedeltà: la sua singolare purezza, perché come afferma il venerabile Beda, Giovanni ritrovato puro e vergine quando il Signore lo chiamò all’apostolato, si mantenne in tutta la sua vita vergine e puro, ciò che gli conciliò la predilezione di Gesù Cristo; e poi la sua singolare fedeltà, perché di tutti i discepoli di Gesù Cristo egli è il solo, che, non curando l’odio e il furore de’ Giudei, ha avuto il coraggio di manifestarsi pubblicamente per suo discepolo, di accompagnarlo al Calvario e di assistere alla sua morte: Virginitate et proximitate crucis Mariæ maternitatem obtinuit. (Glos.) Ma, oltre queste due grandi cose, con quella parola a Maria: « Donna, ecco il tuo figlio, » e con quell’altra a Giovanni: « Ecco la tua Madre, » Gesù Cristo volle compierne un’altra ben più grande ancora, volle cioè rendere Maria madre di noi tutti, e noi tutti figliuoli di Maria; perciocché come nell’ordine naturale oltre al padre, rappresentante più proprio della severità e della giustizia, abbiamo pure una Madre, ministra di amore e di misericordia, così fosse nell’ordine spirituale, ed in Maria, madre nostra, avessimo per tal guisa un legame di unione, un canale di beneficenza, una mediatrice di conciliazione, un mezzo di difesa in faccia al Padre celeste. Ed in vero: nostro Signor Gesù Cristo in tutto il corso della sua vita si occupò mai sempre in ogni azione, in ogni parola, in ogni pensiero della grande missione, di cui il suo celeste Padre lo aveva incaricato, vale a dire degli interessi della sua gloria e della salute degli uomini, e per tal modo se ne occupò, che sebbene amasse di amore immenso la Madre sua Maria, parve tuttavia in varie circostanze non curarsi di Lei, appunto perché, come nota S. Ambrogio, Egli crede di dover tutto se stesso al suo ministero, più che agli affetti della sua Madre; egli crede, in altri termini, di dovere assolutamente tutti i suoi momenti e tutte le sue azioni a compiere la salute degli uomini. Che se tale fu la condotta di Gesù Cristo in tutta la sua vita, puossi dubitare che tale non sia stata al tempo della sua morte? e che abbia in quell’estremo momento voluto interrompere la sua azione continua di salute per pensare soltanto a dare un appoggio alla Madre sua ed un premio al suo discepolo? Ah ciò sarebbe troppo inverosimile! È bensì vero, che in quel medesimo momento Gesù Cristo pensò ad assicurare il perdono a’ suoi crocifissori e il Paradiso ad un ladro. Ma siccome quel perdono fu nel tempo stesso implorato per tutti i peccatori, e quel paradiso per tutti i penitenti, avendo e quella preghiera e quella promessa uno scopo pubblico ed universale, benché espresse in termini particolari e privati, così per la stessa ragione la dichiarazione della nuova maternità di Maria e della nuova figliolanza di Giovanni, benché fatta con personali espressioni, ebbe lo scopo pubblico ed universale di rendere Maria Madre di tutti i credenti e nella persona di Giovanni tutti i credenti figliuoli di Maria. E ciò risulta chiarissimo dalla considerazione delle espressioni adoperate da Gesù Cristo in tale dichiarazione. Di fatti, secondo il magnifico commento che ne fa Cornelio a Lapide, in questa circostanza così misteriosa e solenne Maria è chiamata donna e non madre, perché nel dichiararla Madre nostra Egli operava nella sua pubblica qualità di Redentore degli uomini e non già in quella privata di figliuolo di Maria. Inoltre, poiché Iddio quattromila anni innanzi nel paradiso terrestre dopo il peccato dei nostri progenitori, maledicendo il serpente aveva pur promesso il Redentore dicendo: Io porrò inimicizie tra te e la Donna, tra il seme tuo e il seme di Lei, ed Ella ti schiaccerà il capo » (Gen. III, ) ora perciò con questa stessa parola Gesù Cristo voleva rendere manifesto, che Maria era veramente essa quella Donna celebrata in quella grande profezia, che, immolandosi appiè della croce insieme con Lui, schiacciava per eccellenza la testa all’infernale serpente. In secondo luogo Gesù Cristo disse: « Ecco il tuo figlio — Ecco la tua madre. » Ora le espressioni « Ecco il tuo figlio — Ecco la tua madre » nel loro senso più ovvio e più naturale, indicano cosa che è di già accaduta ed esiste nel presente, anziché cosa che deve ancor accadere in avvenire. L’intendere adunque queste espressioni dette unicamente per Giovanni sarebbe lo stesso che dire, ciò che non è, che in quel momento Maria generò o corporalmente o spiritualmente quel discepolo e che quel discepolo o corporalmente o spiritualmente rinacque a vita novella; ma intendendole invece pronunciate per tutti gli uomini, vogliono dire assai chiaramente: « Donna, in questo momento con l’immolarvi così generosamente con me appiè della croce, soffrendo nel cuor vostro tutti i dolori che Io soffro nel mio corpo ed offerendoli con me al mio celeste Padre per la salute degli uomini, Voi avete cooperato con me alla loro rigenerazione: Ecce filius tuus! Eccoti dunque nel popolo cristiano, di cui Giovanni è la primizia e la figura ad un tempo, eccoti il figlio tuo, e veramente tuo, giacché non sono Io soltanto che liberamente te lo assegno per tale, ma sei tu ancora che lo hai generato col tuo amore e col tuo dolore. » – Così adunque, come riesce manifesto dai termini medesimi della sua grande dichiarazione, nostro Signor Gesù Cristo ha adempiuto interamente la sua grande promessa di non lasciarci orfani: Non relinquam vos orphanos; e non ci ha lasciati orfani né di padre, né di madre: ma come ha voluto renderci per grazia figliuoli adottivi del suo Padre celeste, così ha voluto ancora renderci figliuoli adottivi della Madre sua, Maria. Per tal modo la tenerezza di Gesù Cristo ha esaurite tutte le diligenze per giovarci; non gli restava più nulla da legarci, da procurarci, da ottenerci; col darci per madre la Madre sua ci ha dato tutto quello che gli restava e che ancora poteva darci. O carità immensa del Sacratissimo Cuore di Gesù per noi! o bontà infinita! O copiosità ineffabile della sua redenzione!

II. — Ma per ben comprendere, quanto più ci è possibile, questa grande prova di amore del Cuore di Gesù Cristo, non basta l’aver riconosciuto che Egli con le sue sublimi parole ha dichiarato Maria per nostra Madre, ma bisogna ancora riflettere che con le medesime le ha posto in cuore per noi il supremo affetto materno. E d in vero, la parola di Dio non è certamente come quella dell’uomo, che non ha in se stessa alcuna autorità. La parola di Dio è parola per eccellenza onnipotente, che opera non solo sulla materia, ma pure sugli spiriti, che domina le volontà, che cambia i cuori. Perciò, se un uomo scegliendo un altro uomo ad un ufficio, può dargli il titolo e il diritto ad esercitarlo, ma non già l’ingegno, le cognizioni, l’abilità necessaria, se già non si trova nell’uomo eletto, la cosa ò ben diversa per Iddio, che per quanto sia grande, elevato e difficile l’incarico a cui destina una creatura, con la sua stessa destinazione le conferisce tutte le grazie, di cui abbisogna per ben sostenerlo. Le parole adunque di Gesù Cristo: «Ecco il tuo figlio; ecco la tua madre; » non solo dichiararono Maria Madre nostra, ma tale ancora la resero nell’istante medesimo in cui furono pronunziate. In quell’istante istesso Maria sentissi tutta ad un tratto commuovere le viscere, agitarsi l’anima benedetta, e nascere nel suo cuore tutta la tenerezza, tutto l’affetto di una vera madre verso di noi. Ma vi ha di più ancora. Maria, appiè della Croce, se ne stava immobile nella sua rassegnazione ed estatica nel suo dolore contemplando il suo diletto Figlio. Essa lo mirava ricoperto di piaghe, grondante di sangue, orrido, contraffatto, languente e vicino ad esalare l’ultimo fiato in un mare di tormenti. Udiva le atroci bestemmie, i pungenti sarcasmi, gli amari insulti che farisei, soldati e plebaglia lanciavano contro di Lui. Vedeva tutti costoro impazientire con furore perché ancora non moriva e dar poscia segni di gioia feroce al vedere che già stava per spirare. Ma di fronte a questo spettacolo ributtante di selvaggia crudeltà, Ella intendeva il Figliuol suo che dimenticando le sue pene e i suoi obbrobri pregava il suo Padre celeste, chiedendogli il perdono per coloro che ne erano la causa. Lo vedeva stendere non per forza, ma per amore infinito le sue braccia ad un popolo che non lo credeva e lo contraddiceva, e questo contrasto di una barbarie senza esempio e di un amore senza confini, di un eccesso di malizia, di ingiustizia, di furore per una parte, di pietà, di misericordia e di clemenza dall’altra la colpisce, la sorprende e la rapisce nella profondità misteriosa della carità, che il suo Figlio nutre e dimostra agli uomini, e di cui i torrenti di tante ingiurie e di tanti dolori non valsero ad estinguere l’incendio. In tale rapimento Gesù Cristo, Figliuol suo, non le parve mai Dio così grande e così amabile, come allora che lo vede trattato da meno che uomo e ridotto ad averne perduto le sembianze. Ah! che Maria amò sempre Gesù di un amore senza misura! Ma allora, a quello spettacolo il suo amore come avvivato da nuova fiamma si fa più violento, più energico, più tenero, elevato per così dire alla sua. più alta potenza. E dominata da questo amore, se lo avesse potuto, egli è certo che si sarebbe lanciata con Gesù sulla croce, si sarebbe stretta e crocifissa con Lui e con Lui sarebbe morta di dolore e di amore. Ora, è in questo stato di tenerezza immensa, di violentissimo amore per Lui che Gesù Cristo, dirò così, la sorprende, la coglie e l’arresta per dirle: « Mulier, ecce filius tuus: Donna, ecco il tuo figlio. E perché mai questo agire di Gesù Cristo? perché? Ah! miei cari, ciò fu propriamente, perché Maria in quella espressione: « Donna ecco il tuo figlio, » intendesse prontamente ed efficacemente che Gesù Cristo voleva dirle: « O Donna, quell’amore così forte, così veemente, così acceso che ora più che mai invade il vostro cuore per me, è ad altri vostri figli che voi d’ora innanzi dovete pure rivolgerlo: sono i figli che ora io vi creo con la mia onnipotente parola, sono i figli che ora Voi generate con me nei vostri dolori, sono gli uomini, che io vi addito nella persona del mio discepolo: Mulier, ecce filius tuus.» E così appunto intese Maria. E così intendendo per l’opera di Gesù Cristo e per la libera sua corrispondenza alla medesima, sentì tutto a rifondersi nel suo petto il cuore, e cominciò da quell’istante ad amare gli uomini di quello stesso materno amore, con cui fino allora aveva amato il suo Gesù Cristo. Fu allora pertanto, che Ella divenne quale poi la descrisse lo stesso San Giovanni: Mulier, amicta Sole; la Donna vestita del Sole. – Perché, come nota S. Bernardo, essa che nell’istante dell’Incarnazione aveva con le sue purissime carni vestito come di purissima nuvola il Sole eterno di giustizia, ora veniva Ella da quel Sole medesimo rivestita e compenetrata delle fiamme della sua divina carità. Perciocché in Gesù Cristo di mano in mano che s’avvicinava il tempo in cui doveva morire per noi, il suo amore per gli uomini si andava facendo ognor più intenso e violento; e poiché ormai era giunto al momento di esalare l’ultimo fiato, così l’amor suo per l’umanità era giunto al colmo, all’estremo suo confine. Ed allora pronunziando quelle parole, con cui ci dava Maria per Madre, apriva il suo Cuore Santissimo, ne faceva uscir fuori impetuosa una vampa di amore per noi, la quale dall’alto della Croce discendendo sopra Maria, che ne stava ai piedi, tutta la circondò, la invase, la riempì, sicché ancor Ella si sentì compenetrata dagli stessi trasporti di carità del suo Divin Figlio; e nella sua morte non vedendo più altro che il pegno di nostra salvezza domina e conquide il suo dolore, e non solo si rassegna a che il suo Figliuolo muoia; ma volentieri, e con interno gaudio, come ebbero a dire i Santi Padri, dal fondo dell’anima sua ripete a Dio l’offerta del sacrifizio del suo Divin Figlio, congiungendo l’offerta del sacrifizio del suo Cuore. Dopo di ciò, l’amore di Maria per noi nascendo dalla fonte stessa dell’amore per noi di Gesù Cristo, vale a dire dal suo Santissimo Cuore, puossi dubitare menomamente che Ella sarebbe stata lenta ad esercitare con gli uomini l’ufficio e l’amore di madre? Ah! che non appena la parola di Gesù Cristo li affidava a lei per figliuoli, tosto prendeva a portarli tutti nel suo seno e ad usare verso di essi tutte le sollecitudini, tutte le premure, tutte le tenerezze materne. Ed eccola quasi appena spirato Gesù sulla croce farsi a confortare i tremanti, a sollevare i caduti, a consolare gli afflitti. Perciocché fu ella che tosto raccolse insieme i discepoli che alla cattura di Gesù si erano messi in fuga e dispersi; fu Ella che risollevò l’animo abbattuto di Pietro, che aveva negato il divino Maestro e lo confortò a sperare e ad  essere sicuro del perdono; fu essa che rimise in calma tutti i seguaci del Nazareno, la cui morte aveva scompigliati e confusi, e ingenerò nel loro cuore la sicurezza della sua vicina risurrezione. – Ma che dire poi dello zelo ammirando, con cui questa gran Madre si pose ad esercitare la sua carità per gli uomini dopo l’Ascensione al cielo del suo divin Figlio? In sul bel principio della loro predicazione gli Apostoli essendo incarcerati, flagellati, dannati a morte, essa piglia come per sé medesima tutti quegli iniqui trattamenti, ma superandoli con forte animo, si fa con la parola e con l’esempio a confortare gli Apostoli a superarli essi pure. I primitivi Cristiani abbisognando di aiuto accorrono a Lei da tutte le parti e a Lei si raccomandano con quella fiducia con cui i figli si affidano alla madre; ed Ella tutti accoglie con amorevolezza infinita e tutti rimanda felici della efficacissima sua consolazione. Tutti poi, e apostoli e fedeli, nelle difficoltà che incontrano per spargere il Vangelo e per praticarlo ricorrono a Lei, ed essa co’ suoi consigli e con le sue preghiere le appiana e le scioglie. Ma salita poi al Cielo ha ella cessato di far sentire agli uomini il suo materno affetto? Ah! conforme ai disegni amorosi di Gesù Cristo, che la voleva madre degli uomini non solo dei primi tempi della Chiesa, ma per sempre sino alla fine del mondo, lassù continuò sempre a sentire e prendere per noi tale sollecitudine, che dopo il Figliuolo suo, non havvi là alcuno che la senta e prenda maggiore di lei. E potrà forse una Madre dimenticare il frutto delle sue viscere? Ma quando pure ciò facesse una Madre terrena, ciò non farà mai la nostra madre celeste, che è la Madre per eccellenza, la Madre perfetta, la Madre modello, la Madre delle madri, siccome è la Vergine delle vergini, la stella delle stelle. Epperò del continuo aprendo il suo seno di misericordia, vi accoglie le nostre preghiere e le presenta al suo divin Figlio, del continuo gli espone i nostri bisogni, e ne implora le grazie necessarie, del continuo ce le dispensa e provvede a riparare la nostra miseria. E che altro sono mai se non prove dell’incessante amore di Maria per noi quelle apparizioni molteplici, che Ella fece a’ suoi speciali devoti o per insegnarci per loro mezzo le pratiche più salutari, o per ammonirci dei nostri traviamenti ed animarci alla penitenza, o per riaccendere in noi la fiducia in Dio ed il coraggio cristiano? Non sono prove dell’amore materno di Maria quegli aiuti così potenti che ella ci diede ognora contro i nemici del nome cristiano, per cui, vincendo la loro tracotanza, la Chiesa poté essere libera dall’oppressione e godere una vita sempre più gagliarda? Non sono prove dell’amore materno di Maria quei prodigi così palesi e strepitosi da Lei operati intanto suoi santuari, a tanti suoi altari, per mezzo di tante sue immagini? E queste immagini, questi altari, questi santuari non sono essi medesimi altre prove di tale amore? Cerchiamo pure la loro origine, cerchiamo quella di tanti altri monumenti con ogni magnificenza a Lei dedicati, di tante solennità che per lei si van celebrando, di tante dimostrazioni di ossequio che da per tutto a lei si danno, e troveremo sempre che tutto ciò è avvenuto in omaggio e ringraziamento dell’amore materno che ha dimostrato agli uomini. Quella regione era minacciata dall’eresia, quella città era desolata dalla peste, quell’altra dalla fame; la guerra travagliava quel regno, il terremoto minacciava di subissar quel paese, l’acqua di ingoiar quella provincia, il fuoco di devastar quella contrada, un rio malore di gettar nel lutto quella famiglia, un grave pericolo di togliere la vita a quell’individuo, le passioni e la disperazione di rovinar per sempre quell’anima, e tutti costernati si rivolgevano a Maria e gridavano ti denti: Madre, soccorrici, abbi pietà di noi; e Maria accorse pietosa, li coprì tosto del suo materno manto e li campò dall’ira divina. Sicché ha ben ragione S. Bernardo di esclamare: No, non si è mai inteso a dire che alcuno ricorrendo per aiuto a Maria non sia stato da Lei esaudito. Quale dono adunque è stato quello che ci fece il Cuore di Gesù nel darci dalla croce, ove agonizzava, una madie sì amante, sì tenera, sì pia! Senza dubbio questo fu uno dei benefizi più segnalati che ci abbia fatti, uno degli aiuti più potenti che ci abbia somministrato, uno dei mezzi più efficaci che ci abbia elargito per la nostra eterna salute! Qual nuovo titolo pertanto, diremo con S. Anselmo, qual nuovo motivo per accrescere la nostra fiducia, per raffermarci nelle nostre speranze, per allargare i nostri desideri! La nostra causa, la nostra salute, la nostra felicità eterna sta riposta nelle mani di una madre, che immensamente ci ama, e che amandoci di un infinito amore non lascerà certamente che vada perduto alcuno di quei figli, che Gesù Cristo, prima di morire sulla croce, le ha affidati.

III. — Ma la dichiarazione di nostro Signor G. Cristo in croce contiene due parti. Ora, se nella prima, come abbiamo veduto, Egli ha dato a Maria non solo il titolo, ma il cuore e l’affetto di Madre, nella seconda, vale a dire nelle parole rivolte al discepolo: «Ecco la tua madre» Egli ha dato pure ai fedeli non solo il titolo, ma il cuore e l’affetto di figli di Maria. Epperò la parola onnipotente dell’Uomo-Dio non è in Maria soltanto che operò un’ineffabile trasformazione del cuore, ma è ancora nei fedeli divenuti suoi figli ripieni di amor accesissimo per Lei: giacché la stessa espressione « ecco » che Gesù Cristo adoperò per formare di Maria la nostra vera Madre, l’adoperò ancora per formare di noi i suoi veri figli. Ed ecco la ragione di quell’amore sì grande, sì costante, sì universale di tutta la Chiesa verso di Maria. Ecco perché  fin dai primi secoli prese ad onorarla nel seno della terra, dentro le catacombe, sulle cui pareti dipingeva o grafìva le sue benché rozze immagini, dinnanzi alle quali andavano ad animarsi al martirio i grandi campioni della fede. Ecco perché in seguito prese ad innalzare in suo onore le più splendide basiliche, e segue tuttodì in ogni parte del mondo e tra le più popolose città e nei più piccoli borghi, e sulle rive dei mari, e sulle vette dei monti, e nelle valli più romite a dedicarle dei santuari. Ecco perché con un acconcio giro di feste nel corso dell’anno fa passare alla venerazione dei fedeli i misteri principali della sua vita e celebra molte altre solennità secondo i titoli diversi e tutti magnifici, che la pietà dei Cristiani le ha dato. Ecco perché a Lei consacra dei mesi interi, delle intere settimane, ed in ogni settimana il sabbato e tutti i giorni la saluta con l’Arcangelo Gabriele:

E quando sorge e quando cade il die,

E quando il sole a mezzo corso il parte.

Ecco perché i Sommi Pontefici, i Vescovi, i Concili generali e nazionali, gli Ordini religiosi, gli Ordini civili e militari; le Università e le Accademie sono mai sempre andati a gara per celebrarne le lodi, per promuoverne il culto, per ampliarne la devozione, per difenderne le eccelse prerogative. – Ecco perché i geni della fede, i Padri e i Dottori della Chiesa tennero per Lei il linguaggio più enfatico ed espressivo, i geni della poesia per Lei innalzarono i cantici più ispirati e sublimi, i geni della musica per Lei trovarono le note più tenere e soavi, i geni della pittura formarono di Lei le tele più celebrate. Ecco perché non vi ha paese, non vi ha città, non vi ha nazione cristiana che col più grande entusiasmo non protesti di essere il paese, la città e la nazione di Maria, ciò che significa che tutti i paesi, tutte le città e tutte le nazioni cristiane hanno il medesimo sentimento, lo stesso cuore per Maria. Ecco perché in tutte le calamità pubbliche e in tutte le angustie private, nei bisogni dell’anima e in quelli del corpo, nei flagelli di Dio e in tempo delle persecuzioni degli uomini, il clero e il popolo, i re ed i sudditi, i nobili e plebei, i dotti e gli ignoranti, i grandi e i piccoli, gli uomini e le donne, i vecchi e i fanciulli, il navigante nella tempesta, l’infermo nella malattia, il povero nell’indigenza, l’afflitto nella tribolazione, il soldato nella battaglia, il giovane nella tentazione, la fanciulla nel pericolo, la madre nel dolore, ricorrono sempre e dappertutto a Maria. Ecco perché lo stesso peccatore nella miseria del suo peccato si rivolge fiduciosamente a Lei, e non vi ha Cristiano sì degenerato e corrotto che anche nella mostra sfacciata di un’apparente incredulità, in mezzo alla licenza delle sue passioni sfrenate non conservi in fondo al cuore, come carbone in mezzo alla cenere, un avanzo di inclinazione verso di Lei, che lo induce almeno di anto in tanto ad invocarla, se non altro, occultamente e ad affidarsi alla sua materna pietà. Ecco infine perché il tempo che tutto deteriora, consuma e distrugge, tutt’altro che aver affievolito il culto di Maria lo è andato facendo sempre più grande, più profondo, più universale! Ah! tutto ciò è l’effetto della gran parola detta da Gesù Cristo morendo a Giovanni: « Ecco la tua madre. » No, nessuna causa privata e particolare poteva produrre un effetto sì comune e sì generale. Bisogna risalire a quella causa onnipossente che opera sui cuori e li trasforma: bisogna risalire a quel Gesù Cristo il cui Cuore ripieno di carità infinita per noi non si è contentato di formare di Maria la nostra vera Madre, ma ha voluto ancora formare di noi i veri figli di Lei. Oh bontà! Oh amore! oh degnazione! Come importa pertanto che corrispondiamo per la parte nostra alle intenzioni così salutari del Cuore di Gesù Cristo! Come siamo in dovere di fare ancor noi quel che fece il discepolo Giovanni, che intesa la volontà del Redentore prese tosto da quel momento Maria come sua carissima Madre, e si diede a diportarsi con Lei come il figlio più affezionato! E chi vi sarà tra noi che non si senta trasportato a fare lo stesso? Deh! attacchiamoci tutti a questa madre pietosa, amiamola dell’amore più ardente, onoriamola con lo slancio più vivo, e certamente avremo parte a quei beni che porta l’amore e la protezione di questa gran Madre. – Prostrati intanto ai piedi vostri, o Gesù amantissimo, noi ringraziamo, lodiamo e benediciamo il Cuor vostro della carità infinita che ci ha usato nel donarci colla sua onnipotente parola una Madre celeste in Maria Santissima. E ad un tempo vi preghiamo di voler accendere veramente e rendere sempre più vivo nel cuor nostro l’amore per lei, affinché amandola quaggiù da veri figlioli possiamo un giorno andarla ad amare per sempre in cielo!

SACRO CUORE DI GESÙ (26): Il Sacro CUORE di GESÙ e il S. Sacrificio

DISCORSO XXVI.

Il Sacro Cuore di Gesù e il S. Sacrifizio.

Poiché l’uomo è fattura di Dio e Dio non può essere all’uomo un oggetto estraneo, è assolutamente indispensabile all’uomo il culto di Dio. Ma l’essenza del culto, la sua anima, ciò in cui il culto si compendia è il sacrifizio. Ed ecco perché l’umanità in ogni tempo e in ogni luogo ha innalzati degli altari e sopra di essi ha scannate delle vittime e le ha bruciate in onore della divinità. Abele innocente colle sue pure mani svenava il fiore del suo gregge e l’offriva in sacrifizio a Dio. Noè scampato dalle acque del diluvio, appena uscito dall’arca salvatrice immolava a Dio le vittime serbate. Abramo, Isacco, Giacobbe, Melchisedech seguivano l’esempio dei loro antenati, e compievano ancor essi dei sacrifizi. In seguito il popolo ebreo, uscito dalla schiavitù dell’Egitto, dapprima tra la semplicità del tabernacolo, dappoi nella grandiosità del tempio di Gerusalemme, con una liturgia ordinatissima, non solo nelle feste principali, ma al mattino ed alla sera d’ogni giorno, tra il profumo degli incensi e i gravi cantici dei Sacerdoti, adempiva questo sacro dovere. E quale altro popolo, anche tra i più barbari e selvaggi, non ha offerto dei sacrifizi, alla divinità? Certamente presso gl’idolatri furono crudeli ed esecrandi i loro riti, sia per le vittime che vi sgozzavano, sia per i misteri nefandi con cui li accompagnavano; ma con tutto ciò essi non facevano altro che alterare l’applicazione del più nobile e più imperioso istinto dell’uomo, quello cioè di rendere a Dio il culto dovutogli, per mezzo del sacrifizio. Il sacrifizio adunque, necessario ad esprimere nel modo più riverente le relazioni dell’uomo con Dio, il sacrificio che per ragione di questa necessità si trova in ogni tempo ed in ogni luogo, anche prima della venuta di Gesù Cristo in sulla terra, non doveva mancare dopo la sua venuta: anzi doveva essere infinitamente superiore ai sacrifizi dei tempi antichi, quanto i tempi nuovi superano per opera di Gesù Cristo i tempi antichi in amore ed in grazia, e quanto la realtà supera la figura. E questo sacrifizio già l’aveva annunziato Iddio stesso quando per bocca del profeta Malachia, diceva: « Dall’oriente all’occidente il mio nome è grande tra le genti, ed in ogni luogo sarà sacrificata ed offerta al mio Nome un’oblazione monda. » E questo sacrifizio fu realmente instituito mercé la carità infinita di Gesù Cristo. Perciocché il Cuore Sacratissimo di Gesù, nel trarre fuori dalla sua ferita la Eucaristia, non volle in essa trarre fuori soltanto un grande mistero ed un grande Sacramento, ma ancora il più augusto, il più prezioso, il più ammirabile dei sacrifizi, sia per l’eccellenza della vittima, che in esso si sacrifica, sia per la somma degli omaggi, che in esso si rendono a Dio, sia per la fecondità meravigliosa dei suoi effetti. Dopo d’aver dunque riconosciuto il grande amore di GesùCristo per noi nell’istituire l’Eucaristia come Sacramento, riconosciamo oggi il grande amore di Gesù Cristo nell”istituire l’Eucaristia come Sacrifizio.

I. — Amore di Dio per l’uomo, e poi amore di Dio per l’uomo, e da ultimo ancora amore di Dio per l’uomo: ecco, o miei cari, il compendio della vita e del ministero di Gesù Cristo. – Fu questa divina potenza che lo fece scendere dal cielo in terra; fu essa, che lo indusse a prendere la nostra carne di peccato, fu essa che gl’inspirò le più meravigliose dottrine, fu essa ancora che governò ogni opera, ogni passo, ogni pensiero, ogni affetto del Divin Redentore. Ma dove l’amore del Cuore Santissimo di Gesù per noi diede la sua prova estrema fu senza dubbio nel Sacrifizio da Lui compiuto sopra la croce. Tutti i disagi, tutte le angustie, tutte le pene della sua mortai vita non erano che file sparse che dovevano mettere capo sul Calvario ed avere il loro suggello nel Sangue preziosissimo di Gesù Cristo. E ben lo sapeva Egli, che prendendo a dipingere il suo ritratto in quello del buon pastore, non si contentò di mostrarcelo tutto sollecito di condurre il suo gregge ai buoni pascoli e tutto ansante nel ricercare là pecorella smarrita, e tutto lieto e festante per averla ritrovata, ma volle finire la sua dipintura col mostrarcelo ancora a dare la vita per le sue pecorelle: Bonus Pastor ponti animati suam prò ovibus suis. (Jo. X, 14). Orbene, se il sacrifizio del Calvario è il supremo slancio d’amore del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo, non dovremo riconoscere che tale, è pure il Santo Sacrifizio della Messa, che è la copia fedele, anzi la rinnovazione, sebbene in modo incruento, del Sacrifizio del Calvario? Sì, o miei cari, la Santa Messa che si celebra sui nostri altari è essenzialmente lo stesso, lo stessissimo Sacrifizio che Gesù Cristo compì sulla Croce. Perciocché la stessa è la vittima che si immola sui nostri altari, vale a dire Gesù benedetto, Figlio unico di Dio e di Maria Vergine; lo stesso è il Sacerdote, giacché quivi è pure Gesù che immola la vittima, non essendo altro il ministro che ascende l’altare, se non un rappresentante di Gesù Cristo, uno strumento, di cui egli si vale a compiere il sacrifizio. Ed in vero, che cosa ha fatto nostro Signor Gesù Cristo nell’ultima Cena, quando ha istituito la SS. Eucaristia? Poiché l’immolazione della vittima non è che la separazione del sangue dal corpo della vittima istessa, Gesù Cristo consacrando separatamente il pane ed il vino, e mettendo direttamente sotto le specie del pane il suo corpo e sotto le specie del vino il suo sangue, ha Egli stesso operato una vera immolazione separando il suo sangue dal suo corpo. E poiché ancora la condizione essenziale del Sacrifizio è la morte e la distruzione intera della vittima, G. Cristo dando a mangiare il suo Corpo e a bere il suo Sangue agli Apostoli, mercé la distruzione delle specie mangiate, cessò di esistervi in forma sacramentale, e benché non in modo reale come poscia sul Calvario, tuttavia in modo mistico, vale a dire occulto, Egli fece una vera morte. Per tal guisa nell’ultima cena Gesù Cristo rappresentò nel modo più sensibile l’immolazione che il giorno dopo avrebbe fatto di sé sul Calvario, spargendo per noi il suo Sangue, e la morte cui sarebbe sottostato per la nostra salute. Per tal guisa nell’ultima cena Gesù Cristo Sacerdote-Dio, offrendo a Dio una vittima divina, compiva un vero e reale Sacrifizio, già compreso anticipatamente nell’unico e gran Sacrifizio della Croce. – Ma Gesù spronato dall’amore del Cuor suo per noi, non fu pago di compiere Egli allora lo stesso Sacrifizio del Calvario, ma volle che un tal Sacrifizio si avesse a perpetuare sino alla fine del mondo. Epperò con aria di potenza e di impero Egli diceva ancora agli Apostoli, e nella persona degli Apostoli ai loro successori: « Questo fate in memoria di me: Hoc facite in meam commemorationem, vale a dire: Come Io ho in questo momento con quest’azione sublime compiuto un vero e reale Sacrifizio, anzi lo stesso Sacrifizio che domani compirò morendo sulla Croce, così ancor voi consacrando il pane separatamente dal vino, e consumando poscia nella Comunione le specie sacramentali, ricordate e ripetete sino alla fine del mondo quello stesso Sacrifizio, unico e vero, che Io ho voluto ora anticipare e rappresentare, il sacrifizio della mia morte: Quotiescumque manducabitis panetti liunc et calicem bibetis, mortem Domini annuntiabitis donec veniat. » (I Cor. XI). È dunque evidente che come il sacrifizio compiuto da Gesù Cristo nell’ultima cena fu lo stesso Sacrifizio da Lui compiuto sul Calvario, così ancora lo è il Santo Sacrifizio della Messa che Gesù Cristo nell’ultima cena coll’onnipotente suo comando dato agli Apostoli istituiva in modo permanente. Or dunque se lo stesso è il Sacrifizio che si compie sui nostri altari che quello compiuto sul Calvario, non sarà pure lo stesso l’amore? Sì,lo stesso amore con cui Gesù Cristo adempì la nostra redenzione è quello con cui nella Santa Messa perpetua ed applica a noi i frutti della redenzione istessa. Ci amò adunque il Cuore di Gesù, ci amò di amore grande istituendo la Santissima Eucarestia come Sacramento, per cui perpetua la sua reale presenza in mezzo a noi e si fa cibo delle anime nostre; ma quando pensò a fare dell’Eucarestia il gran Sacrifizio che doveva durare sino alla fine del secoli, fece tal cosa che del suo amore per noi trascese i limiti estremi. Ma ciò non è ancor tutto; perciocché guardando bene addentro alla natura del Sacrifizio della Croce e a quella del Sacrifizio degli altari, sembra vedere in questo una carità più che generosa. Sul monte Calvario Gesù Cristo muore per espiare le nostre colpe, e morendo sembra il massimo prodigio di debolezza. Ma al tempo stesso che appare meno di un uomo, Egli rivela coi più grandi prodigi la sua divinità. Il cielo si copre di dense tenebre, il sole si oscura, la terra traballa, il velo del tempio si squarcia, i sepolcri si aprono, i morti risorgono, e tutta la natura si scuote per modo, che un gentile è costretto ad esclamare: Vere Filius Dei erat iste! Ah! costui era veramente Figlio di Dio. E così Gesù Cristo che moriva in croce come un malfattore si dava a conoscere per quella divina Persona, che era di fatto. Ma invece nel Sacrifizio della Santa Messa non succede nulla di tutto ciò. Quivi, è vero, Egli non muore che misticamente, vale a dire non in modo reale come sul Calvario, ma in modo occulto mercé la consacrazione separata del pane e del vino e la cessazione della sua esistenza Sacramentale per la Comunione. Ma perciò appunto nel Sacrifizio della Santa Messa Gesù Cristo non solo non si fa conoscere come Dio, ma neppure come uomo; perché mentre per una parte Egli si offre in Sacrifizio sotto simboli che non hanno nulla di sanguinoso e di spaventevole, per ragione di questi simboli medesimi, qui vi è un’eclissi totale della sua gloria, vi è la prigionia delle sue membra, vi è la cessazione delle funzioni naturali che convengono ai suoi sensi, vi è l’oscurità, l’immobilità, l’annientamento, che lo mettono talmente in nostra balìa che noi possiamo trattarlo come materia inerte. Ora quanto più altri si abbassa e si umilia per chi ama, non dimostra per lui tanto più grande il suo amore? Questa per ciò è la ragione per cui mi sembra esservi nel Sacrifizio dell’altare una carità tanto più generosa che nel Sacrifizio del Calvario, quanta più in quello Gesù Cristo sembra trascurare il suo onore. – Ma vi ha di più ancora. Perciocché io domando: Quante volte Gesù Cristo vuole rinnovato il Santo Sacrifizio della Messa? Certissimamente, come insegna l’Apostolo S. Paolo, « Gesù Cristo, sacerdote sommo ed eterno, non ha bisogno di offrire ogni giorno delle vittime, come facevano i sacerdoti dell’antica legge; Egli ha adempiuto tutti i doveri dell’umanità verso Dio e ne ha espiati tutti i delitti offrendo se stesso per una volta sola: Hoc fecit semel, seipsum offerendo. (Hebr. VII, 27) Quest’unica oblazione basta anzi a santificarci: Sanctificati sumus per oblationem corporis Jesu Chrit semel; (Ib. X, 10) basta a consumarci eternamente nella nostra santità: Una oblatione consummavit in sempiternum sanctificatos. (Ib.) Epperò il Sacrifizio della Messa non aggiunge un millesimo al Sacrifizio della Croce, giacché se la Messa è vero Sacrifizio, essa non è, come dicemmo, che l’unico Sacrifizio della Croce. Laonde, a notarlo di passaggio, la sbaglia di gran lunga il protestantesimo il quale, supponendo falsamente che tutte le Messe che si celebrano siano altrettanti sacrifizi separati e distinti da quello del Calvario, esce fuori col ridicolo sofisma che « La Messa fa ingiuria alla Croce, e con l’imputazione a noi Cattolici di credere che il Sacrifizio del Calvario non sia stato sufficiente a salvarci. » No, questa non è assolutamente la nostra fede. Ma pur credendo fermamente che bastò alla nostra salute l’unico Sacrifizio della Croce, e che il Sacrifizio della Santa Messa non aggiunge nulla al primo, perché tutte le Messe che furono celebrate dal principio dal Cristianesimo e si celebreranno fino alla fine del mondo sono comprese col Sacrifizio della Croce in un solo e medesimo volere di Gesù Cristo come un solo e medesimo Sacrifizio, noi dobbiamo riconoscere tuttavia e credere altresì che il Sacrifizio del Calvario non bastando alla carità del cuore di Gesù Cristo, Egli volle che mercé il Sacrifizio dell’altare fosse rinnovato e fatto presente ogni giorno, anzi le migliaia di volte al giorno, e che mercé questo stesso sacrifizio della Messa fossero applicate agli uomini di tutti i tempi quelle grazie di salute che scaturirono dal Sacrifizio del Calvario. Ma che dico solo « di tutti i tempi? » Io debbo aggiungere « di tutti i luoghi. » Perché la carità di Gesù Cristo non fu paga di dare alla Chiesa la facoltà di celebrare la Santa Messa in ogni giorno e innumerevoli volte del giorno, ma in un sol luogo, o in pochi luoghi determinati, ma istituì questo Sacrifizio in modo che si potesse e si avesse a celebrare da per tutto, nell’oscurità delle catacombe come nello splendore delle basiliche, nelle umili chiesuole di campagna come nei templi superbi delle città, sulle cime dei monti come in fondo alle valli, in mezzo al deserto come sulle acque dell’oceano, nei clamori del campo di battaglia come nella pace silenziosa d’una vergine foresta, dovunque insomma fosse possibile ergere un altare e piantarvi sopra una croce. Or dite, non è questo un vero abisso di carità? Certamente il Cuore di Gesù Cristo ci ha dato qui una prova finale del suo amore: In finem dilexit eos.

II. – Ma il tesoro donatoci dal Cuore Sacratissimo di Gesù nella santa Messa ci si manifesterà sempre più prezioso se ci facciamo a considerare come per esso ci fu dato il mezzo di rendere a Dio il culto a Lui dovuto nel modo più perfetto. Non solo la fede, ma la ragione istessa ci insegna che noi siamo legati a Dio con ogni maniera di debito. Iddio si affaccia alla mente umana siccome ciò che si può concepire di più eccelso, di più sublime, di più perfetto, come il principio di ogni essere e di ogni perfezione, la perfezione eterna ed influita, la somma grandezza, la somma sapienza, la somma potenza, la somma bellezza, la somma bontà, la somma giustizia, la somma santità. Ora innanzi a questa vista di Dio, l’intelligenza umana non può rimanersi superbamente inerte; è necessario che santamente si commuova e induca tutto l’uomo nella sua anima e nel suo corpo a chinarsi in adorazione innanzi a tanta Maestà; anzi fa d’uopo che spinga l’uomo, re della Creazione, a raccogliere in se stesso le adorazioni di tutto il creato e offrirle a Dio. Tutte il mondo sembra risentire la grandezza di Dio, suo Creatore, e il conseguente dovere di adorarlo; ed è perciò che il Santo re Davide invitava la terra tutta a rendere a Dio questo omaggio: Omnis terra adoret te. (Ps. LXV) Ed è perciò ancora che i tre fanciulli nella fornace ardente sollecitavano la luce e le tenebre, il venti e le tempeste, le brine e le nevi, la pioggia e la rugiada, i fiumi ed i mari, i monti e le valli, le erbe e gli alberi, le bestie selvagge e gli animali da campo, gli uccelli dell’aria e i pesci dell’acqua, le creature tutte a benedire il Signore. Ma questo mistico prosternarsi di tutti gli esseri privi d’intelligenza resta senza vita religiosa, se non ve la trasfonde l’uomo, essere ragionevole e religioso! Tocca a lui, come dotato di ragione e come sacerdote della creazione animare le adorazioni di tutto il creato, raccogliere nel suo cuore il profumo come in un sacro incensiere! e farlo quindi salire al trono di Dio come incenso gradito. Ma con tutto ciò l’uomo come essere finito non potrà mai render a Dio la conveniente adorazione. Esprima pure dinnanzi a Dio il suo nulla con le preghiere più fervide e più nobili, bruci pure gli incensi più odorosi e più preziosi, arda pure migliaia e migliaia di ceri, sacrifichi pure i più pingui animali e ne moltiplichi a dismisura le ecatombi, unisca pure insieme gli omaggi più riverenti di tutti gli altri uomini, non sarà mai che ei possa rendere a Dio quel supremo e perfettissimo culto che a Dio è dovuto: Dio non può essere degnamente onorato se non da Dio. Or ecco a che serve anzi tutto il Santo Sacrificio della Messa. Poiché essa è un Uomo – Dio quegli che si immola in nostro nome con la stessa umiltà profonda, con la stessa devota riverenza, con la stessa perfetta obbedienza con cui si offrì sulla croce, ed in essa quest’Uomo-Dio ci ammette ad offrire questa sua immolazione divina, per tal guisa nella S. Messa noi siamo abilitati a rendere a Dio l’adorazione più perfetta, superiore immensamente a quella stessa adorazione, che gli rendono tutti gli Angeli e tutti i Santi del Cielo. Non basta. Iddio oltre al presentarsi alla nostra mente come l’essere più perfetto, si presenta altresì al nostro cuore come il nostro supremo benefattore. È forse necessario che vi ritessa qui la storia delle larghezze divine per noi? Che vi mostri come tutta quello che siamo e che abbiamo in ordine alla natura ed alla grazia, tutto ci viene dalla liberalissima mano del Creatore? – Ormai, dopo che nel corso di questo mese abbiamo ricordati i supremi benefizi fatti dal Cuore di Dio all’uomo, sembrerebbe inutile. Basta il dire che l’uomo in tutto il suo essere non è altro se non un cumulo di benefizi divini. Ora dinnanzi a questi benefizi immensi fa d’uopo che il cuore dell’uomo, riconoscendoli, si commuova ed esprima la sua gratitudine a Dio nel miglior modo possibile. Ed ecco perché la Chiesa volgendosi a Dio in uno slancio del suo culto per Lui ci ricorda questo grande dovere: Vere dignum et iustum est, æqunm et salutare, nos Ubi semper et ubique gratias agere. (Praef. Missæ) È veramente, o Signore, cosa degna, giusta, equa e salutare, che noi sempre e dovunque ti rendiamo le dovute grazie. Ma anche qui l’uomo, che è povero e privo d’ogni bene, come si adergerà a ringraziare Iddio in quella misura che Egli merita? Qual ricambio, chiedeva affannoso il santo re Davide, qual ricambio renderò io al mio Signore, per tutti i benefizi che mi ha fatti? Quid retribuam Domino prò omnibus, quae retribuii mihi?Ed ecco di bel nuovo il Santo Sacrificio della Messa, che viene in nostro soccorso.Lo stesso re Profeta mirando in lontananza a questo Sacrifizio, si confortava dicendo: Calicem salutaris accipiam, et nomen Domini invocabo: (Ps. CXV, 3, 4) Offrirò riverente il Calice d’un Dio Salvatore, ed il suo nome, la sua invocazione,il suo sacrifizio, soddisferanno per me al debito di gratitudine che ho con Dio. Si, in questo Sacrifizio, essendo Iddio ringraziato da noi per mezzo di Gesù Cristo, vero uomo ma pur vero Dio, riceve il rendimento di grazie in misura adeguata all’immensità dei suoi benefizi. Qual carità adunque ebbe per noi il Cuore di Gesù nell’istituire l’Eucaristia non solo come Sacramento,ma ancora come Sacrifizio! Per tal guisa egli soccorso meravigliosamente alla nostra necessità e picciolezza: poiché ci diede così il mezzo di fare a Dio un’offerta sensibile in segno di soggezione al suo supremo dominio e di rendimento di grazie alla sua infinita liberalità, e questa offerta è Lui stesso, Figlio eterno di Dio in atteggiamento di vittima, nell’atto cioè di adorare e ringraziare per noi Iddio nel modo più perfetto.

III. — Ma adorare e ringraziare Iddio, sebbene in modo perfetto, non è ancora tutto il culto che gli è dovuto e che noi siamo necessitati a rendergli. Perciocché ciò potrebbe bastare qualora noi non avessimo più di Lui alcun bisogno, ma non già nell’indigenza assoluta in cui ci troviamo. Ed in vero, che cosa siamo noi in ordine al corpo e in ordine all’anima? in ordine al tempo e in ordine all’eternità? Povertà, impotenza. E che è mai anche tutta la ricchezza, tutta la bellezza, tutta la sanità, tutta la forza, tutta la prosperità di tutti gli uomini raccolte in un sol uomo? Chi si può vantare di possederle senza timore di perderle? Più ancora, dove sono le nostre virtù, la nostra giustizia, la nostra fortezza d’animo contro gli assalti delle passioni, del mondo, di satana? Senza l’aiuto della grazia di Dio noi siamo nulla, possiamo nulla, nemmeno far nascere un buon movimento nel nostro cuore. E trovandoci ridotti a tale povertà ed impotenza non sentiremo noi la necessità di alzare i nostri occhi, di stendere le mani, di sollevare il nostro spirito e il nostro cuore col sacrifizio di propiziazione a quel Dio che può e vuole aiutarci? Ma l’uomo, chiunque egli sia, ha forse il sé i meriti per essere ascoltato da Dio? Era perciò che Gesù Cristo raccomandava a’ suoi discepoli di domandare al Padre celeste nel suo Nome e li rimproverava perché fino allora noi avevano chiesto in Nome suo, vale a dire per la virtù dei suoi meriti infiniti. Ah! senza dubbio perché le nostre domande giungano accette al trono di Dio e siano esaudite è necessario che siano vivificate dalla virtù di quell’Uomo-Dio, che senza avere per sé il minimo bisogno di pregare, ha voluto tuttavia per noi nel corso della sua mortal vita, come ci attesta S. Paolo, offrire a Dio preghiere e suppliche con forti grida e con lacrime. Ma ecco il Santo Sacrifizio della Messa. Ivi non solo domandiamo a Dio i suoi celesti favori nel nome di Gesù Cristo, ma, affine di rendercelo propizio ed ottenerli, offriamo a Dio lo stesso Gesù Cristo ricoperto di tutti i meriti infiniti della sua Passione e Morte. E come potrà essere che il Divin Padre nel vedere in questo sacrifizio augusto lo stesso suo divin Figlio che in atteggiamento di vittima implora grazie per noi, non ce le conceda tosto? Ed ecco perché una delle parti più importanti della liturgia della Messa consiste nelle preghiere che vi si fanno. In queste preghiere la Chiesa domanda ogni sorta di grazie; domanda la forza pei deboli, la consolazione pei tribolati, la provvidenza per i poveri, la conversione pei peccatori, la perseveranza per i giusti, la conservazione della salute del corpo, la cessazione delle malattie, la opportunità del tempo, la liberazione della guerra, la tranquillità degli Stati, il benessere delle famiglie, la protezione divina durante la vita, l’assistenza del cielo al punto di morte, il trionfo della verità e della giustizia, tutte le grazie per l’anima e per il corpo, per il tempo e per l’eternità. E tutte queste grazie ella domanda per i meriti infiniti di Gesù Cristo e specialmente per il merito del suo Sacrifizio che si offre in sull’altare. E tutte queste grazie ancora per lo stesso merito la Chiesa realmente impetra, così che la Santa Messa nella Chiesa è veramente la fonte divina di ogni bene, quella da cui deriva la conservazione, la vita, la forza, la prosperità di tutti i figli di Dio, e di tutti gli uomini del mondo. Ma infine nel culto che dobbiamo rendere a Dio, è per noi essenzialissimo espiare le nostre colpe. Tutti, senza eccezione di sorta, siamo miserabili peccatori che abbiamo più e più volte offeso la Maestà infinita di Dio. E ad ogni offesa che abbiamo commessa, noi avremmo meritato di essere distrutti. Tuttavia Iddio pietoso ci ha risparmiati e conservati in vita. Noi siamo adunque in dovere di riconoscere che Iddio poteva punirci perché ne eravamo ben degni. E a tal fine che dovremmo far noi? Poiché, come insegua l’Apostolo Paolo, non si fa la remissione delle colpe senza spargimento di sangue, non è del sangue che noi dovremmo far scaturire da una vittima ed offrirlo a Dio? Ma da quale vittima? Egli è certo che l’ecatombe intera del genere umano non varrebbe a soddisfare degnamente l’oltraggio recato a Dio col peccato. E se i sacrifizi dell’antica legge giungevano di fatto a placare Iddio ed a renderlo propizio al popolo od all’uomo peccatore, non era già per quello che erano in se stessi, ma bensì per quello che significavano, « essendo impossibile, come insegna lo stesso S. Paolo, che col sangue dei capri, dei vitelli e dei tori si cancellino i peccati. » Ma ciò che non può fare il sangue degli uomini, e tantomeno quello degli animali, lo potrà fare senza dubbio il Sangue di Gesù Cristo, che ha una virtù ed un merito infinito. Ed è questo appunto che si offre a Dio nel Santo Sacrifizio della Messa, come già un giorno nel Sacrifizio del Calvario; ed alla vista di questo Sangue che si offre per la remissione dei peccati, come non si placherà la giustizia di Dio e non trionferà la sua misericordia? Non già che nel Sacrifizio della Messa si rimettano immediatamente i peccati senza il bisogno di sottometterli alla podestà delle chiavi nel Sacramento della Penitenza, ma bensì perché in questo Sacrifizio sgorgano quelle grazie di conversione che valgono a spezzare i cuori colpevoli e a purificarli prima ancora che nel Sacramento delle divine misericordie abbiano ricevuto la sentenza! di assoluzione; perché in questo Sacrifizio scaturisce il dono della vera compunzione, lo spirito di penitenza, la grazia di ben praticarla e di ristorare per tal guisa in unione ai meriti infiniti di Gesù Cristo gli oltraggi recati a Dio con la colpa. È in questo senso che noi riconosciamo nel Sacrifizio della Messa una virtù espiatrice; e non solo per noi viventi ancora sulla terra, ma secondo la fede e la pratica costante della Chiesa, secondo la testimonianza dei Santi Dottori, secondo le attestazioni delle più antiche liturgie, non ostante le negazioni dell’eresia, ancora per le anime giuste, che passate a l’altra vita con le macchie di lievi peccati o senza aver fatta condegna penitenza dei peccati gravi, trovatisi ancora nella necessità di compiere la loro espiazione, prima di poter raggiungere la requie e la luce eterna. Più ancora: al Santo Sacrifizio della Messa noi attribuiamo giustamente una virtù espiatrice, non solo per coloro che intendono o per i quali si intende direttamente ad ottenerla, ma eziandio per quei peccatori che di ciò non si danno alcun pensiero, e per quelli medesimi che con diabolico proposito si abbandonano alla colpa con questo scopo diretto di sfidare le divine perfezioni. Alcuni si meravigliano, parendo loro che Iddio ai tempi nostri abbia cambiato il modo di governare, essendo che anticamente si faceva chiamare il Dio degli eserciti, e parlava ai popoli frammezzo alle nuvole, e con i fulmini alla mano, e castigava le colpe con tutto il rigor della sua giustizia, con le catastrofi più spaventose, mentre ora tollera con pazienza non solo le vanità e le leggerezze, ma i peccati più sordidi, gli scandali più iniqui e le bestemmie più orrende, che molti de’ Cristiani vomitano ad ogni tratto contro il suo Santissimo Nome. Come va dunque? Forse che le nostre ingratitudini sono ora più scusabili, di quello che erano prima? Tutto all’opposto. Sono assai più colpevoli quanto più grandi sono i benefizi, di cui noi nella nuova legge siamo ricolmati. La ragione vera di sì stupenda clemenza è la S. Messa, in cui si offre all’eterno Padre questa gran vittima di Gesù, questo agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. « Io per me credo – dice mirabilmente S. Leonardo da Porto Maurizio – che se non fosse la Santa Messa, a quest’ora il mondo sarebbe già sprofondato, per non poter più reggere all’alto peso di tante iniquità; ma la Messa è quel poderoso sostegno, che lo tiene in piedi. » Sì, è la Santa Messa, che ferma più spesso di quel che si crede il braccio della divina giustizia pronto a percuotere, che allontana i molti flagelli dagli uomini, che li scampa da tanti pericoli, e che, provocando la divina misericordia, attira invece sopra di essi le più elette grazie. Oh se l’umanità comprendesse quello di cui va debitrice al Santo Sacrifizio della Messa! Così adunque col Sacrifizio dei nostri altari si rinnova e si fa presente lo stesso Sacrifizio del Calvario, e per tal guisa si rende alla Maestà di Dio il culto che a Lui è dovuto nel modo più perfetto. Così si onora come deve essere onorato. E poiché nell’offrire questo sacrifizio si ricordano e si esaltano quasi sempre le virtù, i meriti e le grazie di Maria, Madre di Dio, degli Angeli e dei Santi, e si invoca la loro intercessione secondo l’avvicendarsi delle loro feste, così collo stesso Sacrifizio, non già offerto ad essi direttamente, ma a Dio in loro onore, si rende anche ad essi l’omaggio di quel culto che loro pure è dovuto. Così specialmente si adora Iddio come deve essere adorato, gli si offre il più adeguato ringraziamento de’ suoi benefizi; se ne domandano dei nuovi nel modo più atto ad ottenerli, si implora e si ottiene la remissione dei peccati. Così ancora la Santa Messa è il compendio di tutti i sacrifizi dell’antica legge, perciocché da solo è sacrifizio latreutico, ossia di adorazione, sacrifizio eucaristico, ossia di ringraziamento, sacrifizio impetratorio, ossia di impetrazione delle grazie, sacrifizio espiatorio, ossia della remissione dei peccati. Amore pertanto, amore infinito del Cuore di Gesù per noi, ecco ciò che ci predica in modo eccellentissimo il Santo Sacrifizio della Messa. E dopo ciò come potrà essere che, dai devoti almeno del Sacro Cuore, non si corrisponda degnamente a tanta prova di amore? Come non vi sarà in noi il massimo impegno per ascoltare devotamente la Santa Messa, non solo nei giorni festivi, ma più volte ancora nel corso della settimana? Deh, o carissimi, non rifiutiamoci di partecipare il più sovente possibile con la nostra devota presenza ad un Sacrifizio che è la gloria della Chiesa, la consolazione e la delizia delle anime fedeli, la ricchezza e la fortuna di ogni cuore cristiano, la fonte inesauribile di tutte le grazie per il tempo e per l’eternità. Veniamo, veniamo spesso ad attingere con gaudio a questa fonte di salute, e siamone certi, per la bontà immensa del Cuore di Gesù Cristo, continueranno a sgorgarne zampilli di vita eterna. E voi, o Cuore Sacratissimo, nel vostro influito amore per noi, continuate ad ammetterci in questo Santo Sacrifizio ad essere partecipi delle vostre adorazioni, delle vostre azioni di grazie, delle vostre suppliche e delle vostre impetrazioni di perdono, affinché per questo gran mezzo compiendo degnamente i nostri doveri col vostro Padre Celeste, possiamo sempre nel corso di nostra vita essere da Lui mirati con sguardo benigno ed amoroso, ed al termine di essa meritarci d’essere accolti per tutta l’eternità tra le sue braccia in cielo.

SACRO CUORE DI GESÙ (25): “Il Sacro Cuore di GESÙ e gli effetti dell’Eucaristia”

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ. TORINO, S. E. I. – 1920]

DISCORSO XXV

IL SACRO CUORE DI GESÙ E GLI EFFETTI DELL’EUCARISTIA

Gesù Cristo, o miei cari, nel suo amore infinito per noi colla SS. Eucarestia non solo ha perpetuato quaggiù la sua reale presenza, ma ci ha ancora somministrato un cibo divino, confaciente alla vita divina che vi è in noi. E questo cibo è Lui stesso, vivo e reale quale è in cielo. Senza dubbio nel leggere la vita di certi Santi noi ci sentiamo presi come da una santa invidia riconoscendo la singolar fortuna che essi ebbero durante la loro vita di vedere talvòlta e vagheggiare tra le loro braccia il Bambino Gesù. Ma ravviviamo la fede, esclama il grande Gersone, ed essa nell’Eucarestia ci mostrerà una fortuna assai maggiore. Perciocché per mezzo dell’Eucarestia, sempre che ci piace, noi possiamo anche ogni giorno ricevere, stringere, possedere nel nostro cuore Gesù, immedesimarci con lui, vivere della sua vita. Ed in vero, qual è l’unione che Gesù Cristo fa con noi in questo Sacramento? Essa è più intima, che non sia l’unione di due gocce d’acqua, fatte cadere l’una sopra dell’altra, più intima che non sia l’unione di due stille di cera fusa colate l’una sopra dell’altra, più intima che non sia l’unione di due liquori versati dentro un medesimo vaso. Questa unione è così intima, così stretta, così perfetta, che possiamo paragonarla a quella che avviene tra noi e il cibo che prendiamo, il quale, anche senza che noi ce n’avvediamo, tramuta nella nostra carne, nel nostro sangue, nelle nostre ossa, con questo divario immensamente per noi vantaggioso che nella Santa Comunione, valendo la legge che nel concorso di due sostanze la più attiva trasforma in sé quella che lo è meno, non siamo noi che trasformiamo il pane vivo di G. Cristo nel nostro essere, ma è lo stesso Gesù Cristo che ci trasforma in Lui. Cibus sum grandium, diceva Gesù dal tabernacolo a S. Agostino, cresce et manducabis me: Io sono il cibo delle anime grandi, cresci e potrai mangiarmi: Nec tu mutabis me in te, sicut cibum carnis tuæ, sed tic mutaberis in me: ma tu non cangerai me in te, come il nutrimento della tua carne, tu bensì sarai cangiato in me. Non già, o miei cari, che la Carne di Gesù Cristo si identifichi con la nostra carne ed il suo Sangue si mescoli col sangue nostro. No, la Carne e il Sangue di Gesù Cristo entrando nel nostro petto non fanno altro fisicamente che posarsi per breve tempo sul nostro cuore. Ma benché questa unione fisica non duri che pochi istanti, perché le specie sacramentali, dalle cui sorti essa dipende, scompaiono ben presto nel cieco lavoro dei nostri organi, tuttavia l’unione morale è così stretta e così intima, che Gesù Cristo impossessandosi per amore della nostra vita, del nostro cuore, di tutto il nostro essere, ciascuno di noi può esclamare con l’Apostolo: sembra che sia ancor io che viva, ma no, non son più io, è Gesù Cristo che vive in me: Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus. (Galat.,II, 20) Quale unione adunque è questa mai! È propriamente l’unione indicata nel libro dei Cantici, in quella espressione così bella e così forte della sacra sposa: Dilectus meus mihi et ego illi: (Gant. II, 16) il mio diletto appartiene a me, ed io appartengo a lui; il mio Cuore è suo, ed il cuor suo è mio: Cor Iesu meum est. (S. Bern.) Ora, tale essendo l’unione che Gesù Cristo fa con noi per mezzo della SS. Eucarestia, potrà essere che non operi in noi degli effetti corrispondenti? Ciò è impossibile. L’alimento divino, il fuoco divino, la vita divina sono “dinami” divine, che producono le più grandi meraviglie. E sono appunto oneste grandi meraviglie, questi portentosi effetti dell’Eucarestia, che io vi invito oggi a considerare perché comprendiate sempre più quanto sia stato grande l’amore del Cuore di Gesù nel trarre fuori dalla sua ferita il Sacramento dell’Eucarestia.

I. — Miei cari, ciò che vale ad operare la nostra santificazione è la grazia di Dio. E per mezzo dell’Eucarestia, nella Santa Comunione noi ne siamo riempiuti. O sacrum Convivium – canta la Chiesa – in quo Christus sumitur… mens impletur gratia! Ma qual è propriamente la grazia di questo Sacramento? Quali sono gli effetti che esso produce in coloro che lo ricevono? Risponde S. Tommaso: Ogni effetto che l’alimento materiale produce nella nostra vita corporale, lo produce l’Eucarestia nella vita spirituale, vale a dire ripara, sostiene, aumenta e diletta. Ed anzitutto ripara. Come il nostro corpo va soggetto aperdite per le forze deleterie, che agiscono in lui, così l’anima nostra. Il peccato opera in essa delle alterazioni analoghe a quelle che le malattie producono nel nostro corpo: e sebbene se ne sia guariti per mezzo di una santa confessione, rimangono tuttavia le sue conseguenze, una debolezza, una prostrazione di forze, una facilità a ricadervi come chi si trova nello stato di convalescenza. Or bene non è certo ufficio proprio della Eucarestia di restituirci la vita perduta per il peccato, anzi in colui, che osasse cibarsene in istato di peccato, renderebbe sempre più profondo il sonno della morte, perché il peccatore, mangiando la carne di Gesù Cristo, mangia il suo giudizio e la sua condanna; ma se il peccatore si è purificato nel lavacro della Penitenza e si accosterà alla mensa eucaristica, questo pane divino, venendo in lui, riparerà le perdite di grazia e di forza spirituale a cui fu assoggettato per il peccato, lo rinforzerà e gli renderà sempre più remoto il pericolo di ricadere nella colpa grave. Ma non è la colpa grave soltanto, che cagioni in noi delle perdite; anche le colpe veniali, che con tanta facilità commettiamo ogni giorno e più volte al giorno, sebbene non distruggano in noi la divina carità, ne scemano tuttavia l’ardore e ci dispongono a poco a poco alla colpa grave. Ebbene l’Eucarestia compie anche qui la sua opera di riparazione. Questo pane, afferma S. Ambrogio, è il rimedio alle quotidiane infermità. Iste panis quotidianus sumitur in remedium quotidianæ infirmitatis.Ma con ciò rimangono pur sempre presso di noi e con noi medesimi i nemici dell’anima, che sempre ci assaltano pertogliercene la vita. Il demonio nostro implacabile nemico sempre si aggira d’intorno a noi, cercando di divorarci. Il mondo con le sue vanità, con le sue massime e persino con le sue minacce porge, ahi! troppo valido aiuto all’opera di satana. E sventura vuole che a questi nemici esterni si aggiungano dei nemici interni, vale dire le nostre passioni, che a guisa di furie si scagliano continuamente contro di noi per cooperare con satana e col mondo a far la nostra rovina. Ora, contro queste tre sorta di nemici, sempre congiurati ai nostri danni, dove troveremo noi la forza per resistere e vincere? Nella Santissima Eucaristia. La carne ed il sangue di Gesù Cristo – dice S. Giov. Crisostomo – mette in fuga ed allontana da noi il demonio, poiché al solo vedere nelle anime nostre Colui, che atterrò il suo impero, si sente ripieno di sgomento. Oh! la Comunione ci tramuta in leoni spiranti fiamme d’un coraggio divino, sicché non è più il demonio che sia terribile a noi, ma noi siamo terribili al demonio. La SS. Eucaristia ci sostiene nella lotta contro il mondo.Venga pure contro di noi con le sue vanità, con le fragili bellezze delle creature, con le lusinghe dei suoi amori caduchi! Se l’Eucaristia ciba di spesso le anime nostre, il nostro cuore non pena e non tarda a dissipare le illusioni, e a togliere anzi argomento da questi assalti mondani a stringersi sempre più fortemente al suo unico vero bene. Venga pure il mondo contro di noi con le sue massime e con le suo derisioni, ma dall’Eucaristia scenderà nell’anima nostra tale una forza che ci farà respingere sdegnosamente quelle sue perversi massime e ci indurrà benanche a sfidare il mondo tutto, se con le sue dicerie varrà a distoglierci dall’operare il bene. Venga infine contro di noi con le stesse minacce e con le persecuzioni e con le violenze. Temeremo perciò? Non appena si cominciò a predicare e spargere per il mondo la nostra santa Religione, i potenti della terra si scagliarono tosto contro di lei per farla perire. E per il corso di tre secoli sparsero rivi di sangue. Il Cristiano scoperto nella professione della sua fede veniva tratto davanti ad un preside, che così l’interrogava: Chi sei tu? — Sono Cristiano.— Qual è il tuo nome? — È quello di Cristiano. — Qual èil Dioche adori? — Gesù Cristo, morto sulla croce per la salvezza degli uomini. — L’imperatore ti comanda di adorare gli dèidella Patria. — Ma io non adoro che Gesù Cristo. — Folle, se non ubbidisci ti farò morire. — Sia pure: potenza della terra,tu potrai bene qualche cosa sopra questo mio corpo di terra, ma nulla potrai sopra dell’anima mia, la quale libera dagl’inciampi di questa creta se ne volerà diritta in seno al suo Dio. — E il Cristiano veniva condannato a morire. Talora lo si decapitava senz’altro, ma il più delle volte era fatto passare prima fra i più atroci tormenti. Taluni erano distesi e legati sopra di un cavalletto ed ivi battuti con verghe di ferro fino a che le carni saltassero loro via; a tanti altri così distesi le carni si strappavano a brani a brani con tenaglie infuocate; a tali altri si apriva il ventre e se ne estraevano a poco a poco le viscere che si andavano avvolgendo attorno ad una ruota. Tali altri erano gettati in caldaie di olio, di pece bollente, o di piombo fuso. Tali altri racchiusi dentro un toro arroventato; tali altri distesi sopra graticole infuocate; tali altri rivestiti di pelle di animali erano gettati nella campagna in pasto ai cani; tali altri venivano lanciati nel circo ad essere divorati dalle belve feroci; tali altri caricati sopra una nave senza cibo di sorta erano spinti in alto mare a morire di fame; tali altri altrimenti ancora erano fatti perire. Ma pure in mezzo a patimenti così atroci imprecavano forse ai loro persecutori, o per lo meno si lamentavano delle loro pene? Ah! tutt’altro: essi erano lieti e sorridenti sino all’ultimo istante, e talora trovavano persino la forza di scherzare coi loro persecutori; come un S. Lorenzo, che disteso sopra una graticola infuocata ad un certo punto si volge al tiranno e gli dice: « Da questa parte sono già arrostito abbastanza; di grazia, fammi voltare dall’altra. E poi di lì a non molto: Ora sono un arrosto bell’e fatto: se vuoi cibarti di me, lo puoi fare. »Ebbene, o miei cari, donde mai i martiri, talora vecchi cadenti, tal altra deboli donzelle, tal altra teneri fanciulli, traevano tanta forza, tanto coraggio? Ah! miei cari, anche presentemente si possono visitare in Roma, e in altre città, le catacombe, o luoghi sotterranei, dove essi di nottempo si recavano per assistere ai santi misteri. Ivi sulle tombe dei martiri, divertite in are sacrosante, un Sacerdote, un Vescovo, un Pontefice, celebrava il santo Sacrificio della Messa. Ed arrivato il momento solenne della Comunione, all’invito che ne ricevevano, avreste veduto quei Cristiani sfilare a due a due, andarsi ad inginocchiare davanti al ministro di Dio e ricevere devotamente il pane dei forti. Qualche volta ne avreste veduto altresì qualcuno, che dopo d’aver ricevuto la comunione stendeva ancora dinnanzi al sacerdote un candido lino. Era undirgli: « Padre santo, a casa vi sono degli Infermi, dei vecchi che qui non han potuto venire; in fondo alle prigioni stanno stivati i nostri fratelli nella fede, e tutti costoro bramano ancor essi di ricevere questo Pane: deh! datelo qui a noi che noi lo porteremo anche a loro, per renderli contenti, per farli felici. » E perciò appunto si costumava allora di lasciare che i Cristiani portassero alle loro case l’Eucaristia, perché potendo da un momento all’altro essere catturati e condotti al martirio avessero in pronto questo cibo di fortezza, giacché, come nota S. Cipriano, nessuno era riputato abile al martirio, se prima non era stato armato dalla Chiesa di questo Pane dei forti. Ecco, o miei cari, donde i primitivi Cristiani traevano l’eroico coraggio per vincere i più aspri tormenti e confessare col loro sangue la fede di Gesù Cristo. E d ecco dondelo trarremo anche noi per combattere vittoriosamente il mondo, le sue lusinghe, le sue insidie, i suoi scherni, le sue battaglie, le sue persecuzioni. O giovani, che mi ascoltate, è a voi che in questo istante rivolgo massimamente la parola, perché siete voi i più combattuti dal mondo. Ricordatevi bene, che è nella Comunione soprattutto che sta riposto il gran mezzo e il gran segreto della vittoria. Se voi vi ciberete sovente e bene di questo Pane Eucaristico, mentre il mondo con lo scherno tenterà di commuovervi, di abbattervi, di calpestarvi, voi con la forza meravigliosa, che vi verrà da questo Pane, sarete voi che commoverete, abbatterete, calpesterete il mondo. Fu un giovane della vostra età che nella forza di questo Pane, ottenne sopra il mondo una delle più splendide vittorie. Tarcisio, con l’Eucaristia serrata al cuore, piuttosto che cedere agli eccitamenti dei compagni, che lo invitavano al gioco, alla brutalità dei pagani che volevano scrutare i sacri misteri, si lasciò togliere la vita. Ma perdendo la vita del tempo egli guadagnò quella dell’eternità. Deh! o giovani, che la progenie dei Tarcisii tra di voi rifiorisca. Ma oltrochè da questi nemici esterni, siamo noi travagliati dalle nostre prepotenti passioni, dal nostro orgoglio, dalla nostra cupidigia, dalla nostra carne? S. Cirillo Alessandrino c’insegna che stando Gesù Cristo dentro di noi per la S. Comunione, raffrena il loro ardore corroborando contro di esse la nostra pietà. E come non fiaccare la nostra superbia davanti ai prodigiosi abbassamenti di Gesù nella SS. Eucaristia? Come non distaccare il cuore dai beni terreni nel possesso del vero ed unico bene? Come non castigare e mondare la nostra carne nel mangiare il frumento degli eletti e nel bere il vino che germina i vergini ? O Giovanni, Apostolo prediletto, come mai ti conservasti così puro se non toccando la carne di Gesù Cristo, posando la tua testa sopra del suo Cuore? E tu, o Maddalena, che eri pure lo scandalo della Palestina, come altrimenti ti sei purificata cotanto da diventare l’oggetto delle speciali attenzioni di Cristo, se non toccando la sua carne, baciando i suoi piedi puri e sacri? Ma queste meraviglie, operate durante la vita di Gesù, non hanno cessato dopo. Abbandonando il mondo, Egli ci ha lasciato la sua carne, tutta satura dei profumi dell’umiltà, della povertà, della castità e di qualsiasi altra cristiana virtù. E chi vuol rialzarsi dall’abisso, in cui è caduto sotto l’impero delle passioni, chi vuol resistere ad esse sempre vincitore, si accosti alla sacra mensa, e nel cibarsi della carne di Gesù Cristo si adergerà e si rafforzerà. Questo è il sublime convegno dove le Maddalene piangenti non potranno temere di essere respinte e guardate con disprezzo dai Giovanni innocenti, dove tutti castiticheremo il nostro corpo, angelizzeremo il nostro spirito, informeremo tutto il nostro essere a sentimenti verginali e celesti. Anzi, cosa mirabile a dirsi! La carne di Cristo unendosi alla carne nostra ed avvivandola di sé, ne suggellerà gli elementi e nel giorno supremo ricomponendola spirituale e gloriosa, attraverso di lei fatta più chiara di terso cristallo risplenderà, divenuto la sua vita, la sua gloria, la sua felicità in eterno! Ma Gesù Cristo divenuto cibo delle anime nostre non vuol essere da meno del cibo dei nostri corpi; epperò riparando le nostre perdite, sostenendoci contro i nostri nemici, accresce ancora in noi la vita spirituale, spronandoci efficacemente a far passi da gigante nella via della giustizia e della santità. La legge del Cristianesimo è per eccellenza legge di perfezione. Gesù Cristo ha parlato chiaro: « Siate perfetti, Egli ha detto, come è perfetto il mio Padre Celeste. » E quando l’Apostolo S. Paolo ha soggiunto: « Questa è la volontà di Dio, che vifacciate santi; » non è stato che l’eco fedele del divin Maestro. Ora sapete voi quali siano tra i Cristiani coloro che attendono seriamente a praticare questa legge? Coloro, i quali si cibano sovente, e bene della SS. Eucaristia. Sì, sono essi, a ciascun dei quali si possono applicare le parole del Salmista: Beatus vir, cuius est auxilium abs te; ascensiones in corde suo disposuit: beato l’uomo che da te, o Signore, riceve l’aiuto, anzi il generatore dell’aiuto, perciocché è desso che ha stabilito di salir sempre più in alto. Sì, sono essi che se ne vanno di virtù invirtù. Ibunt de rirtute in virtutem, (Ps. LXXXIII, 6) che sifanno sempre più umili, sempre più pazienti, sempre più mortificati, sempre più casti, sempre più caritatevoli, sempre più ardenti nell’amor di Dio, sempre più santi. È la forza arcana dell’Eucaristia che li spinge, che dice a ciascun di loro con tutta l’efficacia: Ascende superius; più in alto, più in alto sempre. – E finalmente il cibo della SS. Comunione arreca alle anime nostre un ineffabile spirituale diletto. Ah! io so bene che se fossero qui ad ascoltarmi certi uomini al tutto mondani e miscredenti, a questa asserzione sogghignerebbero di compassione, dicendo: E che razza di diletto può mai recare quella particola di pane che si va lì a ricevere nella vostra Comunione? Ma qui sarebbe propriamente il caso di ripetere le parole dell’Apostolo: Animalis homo non percipit ea quæ sunt spiritus Dei; l’uomo animalesco, che non vive che in mezzo!alle cose del mondo e ai piaceri del senso, del tutto ignaro e dimentico delle cose di Dio, no, non capisce che vi possa essere uno spirituale diletto nel ricevere la Santa Comunione! Ma se noi ne domandassimo qualche cosa ai Santi, che con tanta frequenza e con tanto fervore vi si accostavano, ben ci risponderebbero che non vi ha sulla terra maggior diletto di questo, e che qui nella Santa Comunione si prova davvero il paradiso anticipato. Ma anche senza rivolgerci ai Santi, certo che se nel corso della nostra passata vita abbiamo fatto delle buone Comunioni, noi medesimi potremo rendere testimonianza di questa certissima verità, perciocché allora anche noi abbiamo provate tali dolcezze da dover esclamare fuori di noi per la felicità, in cui ci trovavamo immersi: O Signore quanto è dolce, quanto è soave il vostro spirito: O quan suavis est, Domine, Spiritus tuus!Napoleone invitati un giorno taluni de’ suoi generali a indovinare quale fosse stato il giorno più bello della sua vita; dicendo uno quello della vittoria dellePiramidi, e un altro quello della vittoria di Marengo, e un terzo quello della vittoria di Austerlitz; no, soggiunse egli, nessuno di voi ha indovinato; il più bel giorno di mia vita è stato il giorno della mia prima Comunione. Ecco adunque la grazia efficacissima, che il Cuore di Gesù arreca nell’anima nostra per mezzo dell’Eucaristia. E considerando una tal grazia non dobbiamo dire un’altra volta: Sì, il Cuore di Gesùci ha dato qui una prova suprema dell’amor suo?

II. — Ma Gesù Cristo non pago di operare per mezzo dell’eucaristia queste meraviglie individuali, nello stesso Sacramento ci anima alla pratica delle più belle virtù sociali. O carità cristiana, che aneli a formare un cuor solo ed un anima sola di tutti gli uomini del mondo non è propriamente lì nel Sacramento dell’amore che si accendono le tue vampe? Non è lì che ingeneri la vera uguaglianza, la fraternità, la pazienza, il perdono, la compassione, il sacrifizio, l’eroismo? Non è lì che fai emettere questo grido sublime: Impendam et super impendar ipse prò animabus. (II Cor. XII, 15) Io darò tutto il mio, e per di più sacrificherò me stesso per la salute delle anime? Sì, è lì anzitutto dove si genera la vera eguaglianza e la fraternità cristiana. Indarno si grida nel mondo: Abbasso le distinzioni! in quel giorno che la dinamite le avesse atterrate, sorgerebbero più forti e più manifeste di prima. Ma qui nel Sacramento dell’Eucaristia, senza che si emetta questo grido, tutte le distinzioni scompaiono: principi e sudditi, capitani e soldati, padroni e servi, ricchi e poveri, tutti sono eguali, tutti sono fratelli, tutti sono figli di un medesimo padre e si cibano ad una medesima mensa. Il celebre Turenna si accostava in un giorno di festa alla Comunione insieme col suo servo. Il quale attentissimo all’etichetta, giunto da presso alla balaustra, fatto un inchino al suo padrone gli disse: « Vossignoria, passi. » Ma Turenna gli rispose con prontezza: « Vossignoria è rimasto alla porta: qui dinnanzi al Signore che stiamo per ricevere non c’è né prima dopo; va innanzi a me. » Ah! miei cari, questa parola: « Va innanzi a me » talora così turpe in bocca ad un signore e ad una signora, quando la dicono al servo od alla fantesca per coprire qualche grave fallo che stanno per compiere, o che già hanno compiuto; questa parola qui in bocca a questo eroe è sublime, ma pur non è altro che la conseguenza della vera e fraterna eguaglianza che regna al banchetto Eucaristico. E lì, dove si ingenera la pazienza, che per amor della pace induce a soffrire i più gravi affronti, i trattamenti più duri. O mariti inumani e spergiuri! Voi vi meravigliate di vedere quelle mogli che da voi tradite, da voi oltraggiate e persino da voi spietatamente battute, pure tentano in mille modi di nascondervi le lagrime, di cui esse hanno il cuore pieno e di parere dinnanzi a voi liete, serene, tranquille ; voi vi meravigliate di saperle a tutta prova sempre amanti, sempre fedeli, sempre generose, non ostante che conoscano i vostri tradimenti. Ma volete voi sapere il segreto di questa loro longanimità? Eccolo: il Sacramento d’amore. È qui che vengono a piangere e a sfogarsi; qui dove vengono a chiedere che si alleggerisca la loro croce, qui dove vengono a pregare per voi, dove dicono a Gesù con tutto l’impeto della loro anima straziata, che vi tocchi il cuore, qui fino a che un giorno questo vostro cuore si spezzi, e veniate a questa stessa mensa a frammischiare le vostre lagrime di pentimento con le loro lagrime di consolazione; ma è di qui per intanto, che esse si alzano con una forza ch’esse medesime non sanno spiegare e che fa loro ripetere : «Andiamo, andiamo allegramente a soffrire. » O uomini miscredenti e malvagi, non arrivate almeno a tale stoltezza da proibire alle vostri mogli di recarsi in chiesa! In quel giorno in cui esse non verranno più dinnanzi a questi altari cominceranno a pensare se non sia meglio compensarsi altrimenti del vostro abbandono e delle vostre infedeltà. Ma andiamo innanzi. – È lì nella Santa Eucaristia, dove si ingenera la generosità del perdono. Spinti forse da umani riguardi voi vi siete recati ai piedi di un confessore col cuore tuttora pieno di astio, di odio, di bramosia di vendetta contro di chi aveva ferito il vostro onore e commesse in vostro danno le più gravi ingiustizie. Il ministro di Dio ha dovuto far prova di tutta la forza persuasiva della sua parola per indurvi al perdono: vi ha minacciati pur anche di mandarvi inassolti delle vostre colpe. E solo allora, benché a stento, avete promesso di perdonare. Ma in seguito vi siete recati alla Comunione: avete ponderato alla generosità dell’amore di un Dio per voi, che da voi tante volte villanamente offeso, non solo vi ha perdonati, ma vi ha abbracciati, compenetrati di se medesimo, colmati di grazie e di benedizioni celesti, ed allora sotto l’azione potente del Sacramento dell’amore avete detto con maggior risolutezza e con tutta la padronanza sul vostro onore oltraggiato: Sì, perdono anch’io, e se oggi troverò il mio nemico, gli muoverò incontro e gli bacerò la fronte. È lì, nell’Eucaristia, dove si ingenera la compassione per i sofferenti, ma non quella compassione sterile che fa dare uno sguardo alle altrui miserie e poi lascia tirare innanzi, ma quella compassione efficace, operosa, sollecita che fermandosi sul luogo del bisogno fa cercare prontamente il soccorso. Un giorno un povero prete camminando per le strade di Parigi s’imbatte in poveri bambini esposti, vicini a morire: ed egli li piglia in grembo, li porta a casa, trova loro delle madri. È il B. Vincenzo de Paoli che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda l’istituto delle Figlie della carità. Un giorno un giovane di mondo, convertito a Dio nell’ascoltare una predica, trova per istrada giacente nell’abbandono un povero infermo ricoperto di piaghe, ed egli se lo carica sulle spalle, lo porta all’ospedale, e lo cura con amore paterno. È S. Giovanni di Dio che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda l’istituto dei Fatebenefratelli. Un giorno un umile frate si commuove alla vista degli orfanelli, che son lasciati in abbandono per le strade, e dei moretti che se tengon nero il corpo, sono capaci d’esser fatti candidi nell’anima e stabilisce di rivolgere ad essi i palpiti del suo cuore. È Lodovico da Casoria, che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda l’istituto dei frati Bigi. Un giorno un buon canonico vede per via dei vecchi, che tremanti per età e per malattia a stento si reggono sul bastone, stendendo la mano ai passanti, ed egli se li piglia con sè e li ricovera a casa sua. È il beato Cottolengo, che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda la Piccola ossia l’immensa Casa della Divina Provvidenza. Un giorno un giovane prete si reca a confessare nelle prigioni di Torino, e si avvede con pena che non pochi delinquenti sono giovanissimi di età, e là sono andati a finire perché non ebbero chi si pigliasse cura di loro, ed egli risolve d’impiegare la sua vita a pro della gioventù. È il servo di Dio D. Giovanni Bosco che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda la Congregazione Salesiana. Un giorno… ah! miei cari, io non la finirei così presto, perché questo un giorno, che segua le più grandi creazioni della carità cristiana, è un giorno che dura da diciannove secoli e che è cominciato in quel giorno così memorando, in cui Gesù Cristo ha detto: Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo; prendete e bevete, questo è il mio Sangue: inebriatevi di amore. » Sì, inebriatevi di amore, perché se non sarete ebbri dell’amore che si beve nell’Eucaristia come fareste voi, o giovani! e delicate donzelle, a rinunziare alla casa, ai parenti, alle caste gioie della famiglia, alle comodità, per andarvi a rinchiudere negli ospedali, negli asili, negli ospizi, nei maniconi, nelle prigioni ad essere per venti, per trenta, per quarant’anni per tutta la vita le tenere madri dei bambini, dei trovatelli, degli orfani, dei poveri, dei vecchi, degli infermi, degli appestati, dei sordomuti, dei ciechi, degli epilettici, dei mentecatti, dei carcerati? Come mai vi aggirereste sempre liete, sempre sorridenti, sempre felici in mezzo a tante miserie, a tanti gemiti, a tante piaghe, a tanto sozzure, a tanti rantolìi di morto, e non di rado in mezzo a tante imprecazioni, a tanti insulti, a tanti oltraggi lanciati contro di voi stesse? In un ospedale uno di questi Angeli terreni si accosta al letto di un infermo, e giusta le prescrizioni del medico gli offre per cibo un uovo. — Come? esclama infuriato l’infermo, a me un uovo soltanto? — e trattolo dalle mani di chi glie l’offriva glielo sbatte in faccia. E la donzella china il capo, si asciuga e tutta umile si ritira. Ma di lì a pochi istanti, come se nulla fosse stato, ritorna all’infermo, e credendolo rabbonitogli offre un uovo una seconda volta. Ma una seconda volta l’uomo villano ripete la scena di prima. Povera suora! che farà ella a questo ripetuto insulto? Come la prima volta china la testa, si asciuga e va senza dir parola. E passata una breve ora appena, già sì ritorna tutta sorridente dallo stesso infermo, quale tosto che la scorge, avvampa di sdegno, digrigna i denti e tratto dal letto il braccio lo scuote in segno di minaccia. Ma la donna non impaurita si avanza e in accento supplichevole: Figliuolo, si fa a dirgli, là al tuo paese, in Turchia, non hai una madre? non hai una sorella? ebbene io ti voglio bene come una sorella; ti voglio bene come una madre… A queste parole, al vezzo di compassione, con cui le accompagna, il turco si leva su, si poggia sul gomito… e i malati attorno già gridano che si vada a liberare la suora, ma l’infermo come stordito la fissa da capo a piedi e grida: Pel Dio di Maometto! tu non sei una creatura: tu sei un angelo. E chi ti ha insegnato a fare così? La donna gli mostra il Crocefisso che aveva sul petto. Ma se avesse potuto più ancora che l’immagine gli avrebbe mostrato la realtà, che la mattina alla Comunione, aveva albergato dentro al petto. S. Vincenzo de Paoli glie l’aveva detto: « Figlia mia, per essere caritatevole bisogna mangiare la carità. » E la Signora Le Gras se ne cibava ogni giorno. – Finalmente, per tacere di altro, è lì nell’Eucaristia che si ingenera l’eroismo dell’apostolato. Ecco quel giovane sacerdote! Egli dice addio alla patria, ai parenti, agli amici, sale sopra una nave e parte. Dove vai, o generoso? Dove vado? Vado a sacrificarmi per amore di Gesù Cristo in prò’ delle anime. Al di là dei mari, nelle terre più lontane, in alcune isole perdute in mezzo all’oceano vi sono ancora dei popoli che giacciono nelle tenebre e nelle ombre di morte. Essi mi stendono le mani, mi chiamano con voci supplichevoli, ed io vado. Impendam et super impendar ipse prò animabus. Ma non sai che i più gravi pericoli ti attendono? Pericoli nei viaggi, pericoli nei fiumi, pericoli nelle foreste, pericoli nei monti, pericoli nelle solitudini, pericoli nei deserti, pericoli nelle città, pericoli da per tutto? E dunque andrai innanzi? – Sì, io vado innanzi, perché mi sprona la carità di Gesù Cristo, ed io confido che questa carità non si estinguerà mai nell’anima mia: perché io porto meco un altare ed una croce. E nell’alto del mare, in mezzo alle foreste, sulle sabbie del deserto, io ergerò questo altare, vi pianterò sopra la croce e colla virtù della parola divina vi farò scendere il Corpo e il Sangue di Cristo, mangerò quel Corpo, beverò quel Sangue… ed allora griderò con. S. Paolo: Omnia possum in eo qui me confortat!Oh meraviglie! Oh portenti! Oh effetti dell’unione di Gesù Cristo con noi nella S. Comunione. Io so bene che gli avversari della fede cattolica si fanno qui a gridare all’esagerazione e per far vedere che tutto ciò non è il frutto salutare dell’Eucaristia, fra l’altro mettono pure innanzi delle donne buone e benefiche come la suora di carità ed anche più, senza che pure frequentino la Comunione; dei ministri protestanti che vanno anch’essi in lontani paesi per portarvi la parola della Bibbia. Ma, miei cari, pare a voi la stessa cosa la bontà esterna, apparente, ipocrita, e la bontà interna, vera, reale del cuore? Pare a voi la stessa cosa la beneficenza, l’elemosina, la carità legale, fatta per vanità e talvolta come frutto d’un veglione in maschera, e la carità cristiana, santa, perfetta, scaturita dall’abnegazione e dal sacrificio? Pare a voi la stessa cosa il missionario protestante, che coperto dalla bandiera britannica, pagato dalle società bibliche di belle sterline, accompagnato dalla moglie, provveduto di tutti i conforti della vita dà ai selvaggi delle bibbie, e il missionario cattolico, che bisognevole sempre della carità cristiana, in mezzo ai più gravi pericoli e disagi, dà agl’infedeli se stesso? Ah! si dica quel che si vuole, si adoperino ben anche le menzogne e le calunnie, ma sarà pur vero sempre che gli spettacoli di eroismo che si hanno nella Chiesa Cattolica dove vi è l’alimento, il fuoco, la dinamo eucaristica, non si veggono altrove; e che questi spettacoli, no, non sono immaginazioni, non sono finzioni oratorie, ma realtà palpabili, che durano da diciannove secoli, e che a volerle negare, sarebbe lo stesso come negar la luce del sole in pien meriggio.

III. — Ma da ultimo, o miei cari, Gesù Cristo nell’Eucaristia, oltre all’averci dato la grazia per operare la nostra santificazione, oltre all’averci animati a praticare le più belle virtù sociali, ci ha dato per soprappiù un pegno sicurissimo della eterna gloria. Udite ancora per poco. Uno fra i doni più grandi ed ammirabili, che Iddio ci ha fatto, è senza dubbio quello della parola. Per mezzo della parola l’uomo si mette in intima relazione col suo prossimo; manifesta agli altri i suoi pensieri, i suoi affetti, i suoi desiderii. Per mezzo della parola l’uomo insegna, persuade, convince. Per mezzo della parola l’uomo consiglia, eccita, sprona, accende. Per mezzo della parola l’uonmo consola, rianima, conforta. Oh quante cose buone e belle l’uomo può compiere per mezzo della parola! Ma fra tutte ve n’ha una che è la più grande, la più importante, la più solenne di tutte, ed è quella che si chiama per eccellenza dar la propria parola: ciò che vuol dire attestare altrui che la propria parola è verace e che si manterrà certamente la promessa che si è fatto altrui per salvare l’onore della propria parola. Con tutto ciò io domando: si accetta da tutti indistintamente per prova di una qualsiasi promessa l’altrui parola? Ed accettandolo anche solo da quelle persone che per la relazione e la conoscenza che ne abbiamo fatto, crediamo non vengano meno alla parola data, ne restiamo noi del tutto sicuri? No, o miei cari, ed ecco il perché nell’umana società la parola non essendo il più delle volte sufficiente a rendere altrui sicuro dell’adempimento di una promessa, si è istituito quel contratto che si chiama pegno, quella donazione cioè che si fa altrui di un oggetto prezioso ad assicurarlo quanto più è possibile che si manterrà la promessa fatta. Or bene, anche Gesù Cristo ha fatto agli uomini delle promesse, delle grandi promesse. E tutte queste grandi promesse che Gesù Cristo ha fatto all’uomo, per quanto possano parere molteplici e varie, si compendiano poi e si riducono tutte ad una sola, espressa in quelle parole indirizzate un giorno da Dio al suo servo Abramo: Ego merce tua magna nimis. (Gen. XV, 1) Io sarò un giorno la vostra grande mercede. Senza dubbio la promessa di Gesù Cristo, essendo la promessa di un Dio, è una promessa indefettibile. Non eravi dunque bisogno che Egli ne desse sicurtà per mezzo di un pegno. Tuttavia Egli, nella sua bontà infinita per noi, credette di darcelo. E qual è questo pegno che ci assicura dell’eterna gloria del cielo, dell’eterno possedimento di Dio, se saremo quaggiù ossequenti al suo divino volere? Cantiamolo ancora allegramente con S. Tommaso, o dirò meglio con la Chiesa, che ha fatto sue le parole di S. Tommaso: O sacrum Convivium in quo Christus sumitur… et futuræ gloriæ nobis pignux datur. O sacro Convito, nel quale si riceve un pegno della futura gloria. Si, l’Eucaristia è il pegno della nostra futura gloria. Ed oh quale pegno! L’oggetto medesimo che ci è promesso: Gesù Cristo, il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima, la sua Divinità; il Padre, il Figliuolo, lo Spirito Santo, Iddio; con questo solo divario, che ora nell’Eucaristia come pegno si dona sotto il velo delle specie sacramentali, mentre in cielo si darà a noi e noi lo possederemo disvelatamente. Dubitate voi forse che l’Eucaristia sia questo gran pegno della nostra futura gloria? Temete che la Chiesa nel chiamarla: pignus futuræ gloriæ, si sia lasciata trascorrere ad un eccesso di linguaggio in qualche momento di religioso entusiasmo? Via, via questi dubbi, via questi timori. La Chiesa nel dirci che l’Eucaristia è il pegno della nostra futura gloria non ha fatto altro che dirci quello che aveva già detto Gesù Cristo medesimo: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno.» Oh amore veramente infinito del Cuore di Gesù per noi! E che altro mai di più grande poteva Egli darci, che non ci abbia dato nella S. Eucaristia? E quale eccitamento maggiore di questo potremmo noi avere a corrispondere ad un sì gran dono? – Ci racconta la sacra Scrittura come il profeta Elia essendo perseguitato a morte dall’empia Gezabele, si salvò fuggendo nel deserto. Ma ivi, stanco del cammino ed annoiato della vita, si gettò per terra e si addormentò. Allora Iddio per consolarlo, gli mandò un Angelo, il quale messogli daccanto del pane ed un vaso di acqua, lo svegliò o gli disse: Elia, sorgi e mangia: Surge et comede. Elia mangiò e bevette, ma adagiatosi ripigliò sonno. Se non che l’Angelo nuovamente destatolo, gli ordinò che mangiasse di bel nuovo, perché gli restava ancora a fare un lungo cammino. Il profeta alzatosi mangiò una seconda volta e fortificato da quel pane camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio Oreb: Ut ambulavit in fortitudine cibi illius quadraginta diebus et quadraginta noctibus, usque ad montem Dei Horeb. (III Reg. XIX) Oh noi fortunati,se a somiglianza di Elia, in questo travaglioso deserto delmondo, assecondando gli amorosi inviti di Gesù Cristo stessoe del suo angelo visibile, la Chiesa, mangeremo di frequentee bene il pane dell’Eucaristia. Nella fortezza di tal cibo cammineremo anche noi con sicurezza al monte santo di Dio, alla gloria eterna del cielo!E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, siate lodato, ringraziato e benedetto le mille volte per l’amore immenso, che ci avete dimostrato nel darci per cibo spirituale delle nostre anime il vostro medesimo Corpo. Deh! che vi abbiamo sempre a ricevere con fede viva, con ferma speranza, con ardente carità! Che abbiamo sempre a provare gli effetti meravigliosi di un tanto Sacramento, affinché per mezzo di esso vivendo ora della stessa vostra vita, possiamo poi un giorno godere della vostra felicità.

SACRO CUORE DI GESÙ (24): Il Sacro Cuore di Gesù, e l’Eucaristia

(A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Torino, 1920)

DISCORSO XXIV

Il Sacro Cuore di Gesù e l’Eucaristia

Quando Iddio ebbe creato il cielo e la terra con tutte le loro meraviglie, gettando uno sguardo complessivo sopra di esse le riconobbe tutte buone assai : Viditque Deus cuncta quæ fecerat, et erant valde bona. (Gen. I, 31) Sì, tutte le opere della creazione erano belle, erano grandi, erano perfette, e non solamente i cieli dovevano farsi a narrare la gloria di Dio, e il firmamento ad annunziare il lavoro delle sue mani, ma il giorno ancora doveva imprendere a dire questa parola all’altro giorno, e la notte a darne cognizione all’altra notte, affine di far conoscere a tutti i secoli, che le opere di Dio sono perfette: Dei perfecta sunt opera. (Deut. XXXII, 4). Ora, quello che Dio Creatore poté vedere di tutte le opere della creazione, è quello che Gesù Cristo Redentore poté vedere di tutte le opere della redenzione; perciocché tra le opere di Gesù Cristo ve ne ha forse qualcuna che non sia buona, che non sia bella, che non sia grande, che non sia perfetta?! Ma pure, o miei cari, come i grandi geni hanno dato quasi sempre una piena manifestazione della loro forza creativa In un’opera speciale, che però si eleva al di sopra di tutte le altre, così ha fatto il Genio di tutti i geni, nostro Signor Gesù Cristo. E l’opera che costituisce per eccellenza il suo capolavoroè la SS. Eucaristia. Già lo cantava migliaia di anni innanzi il santo Profeta: Memoriam fecit mirabilium suorum misericors et miserator Dominus, escam dedit timentibus se (P«. CX, 4), il Signore pieno di bontà e di misericordia ha fatto il memoriale delle sue meraviglie, apprestando il cibo divino a coloro che lo temono. Sì, fra tutti i Sacramenti, che Gesù Cristo nella sua infinita carità per gli uomini ha fatto uscire dalla ferita del suo Sacratissimo Cuore, questo tiene il primo posto, perché in esso non vi ha soltanto un segno della grazia, ma si trova l’Autore stesso della grazia, perché è la perfezione, il centro, il fine a cui tutti gli altri Sacramenti sotto ordinati, perché in sé solo raccoglie le virtù, le prerogative e le grazie di tutti gli altri. Quale prova adunque dell’amore di Gesù Cristo per noi in questo Sacramento! Senza dubbio, ad imitazione della Chiesa, è sopra di questa specialissima prova, che nella divozione al Sacro Cuore di Gesù Cristo dobbiamo fermare l’attenzione nostra. Pertanto cominciamo oggi a riconoscere come per la SS. Eucaristia Gesù Cristo ci abbia dato veramente una prova suprema di amore.

I . — Uno fra i più prepotenti bisogni del cuor dell’uomo è quello, senza dubbio, d’avere a sé vicino Iddio. Perciocché l’uomo creato da Dio non può non tendere a Lui e farne a meno. Epoiché egli nel suo essere è anima e corpo, perciò non è coll’anima soltanto che egli tende ad avere a sé dappresso Iddio, ma ancora col corpo. No, l’uomo non è, non può essere del tutto contento di possedere Iddio nella sua intelligenza per la fede e nel suo cuore per la grazia; egli vuole altresì vederlo coi suoi occhi, toccarlo con le sue mani, stringerlo nelle sue braccia, badarlocolle sue labbra, trovarsi insomma anche in relazioni sensibili con Lui, vivere anche corporalmente in unione e in compagnia di Lui. E la verità e realtà di queste tendenze dell’uomo riguardo a Dio sono comprovate dalla stessa idolatria, che per quasi quattromila anni trionfò in pressoché tutte le parti del mondo. Poiché sebbene colpevolmente gli uomini siano giunti a tale stravaganza da fabbricarsi con le loro mani degli idoli di metallo, di legno e di pietra e poi curvarsi davanti agli stessi esclamando: Ecco i nostri Dei; tuttavia questa inescusabile insensatezza non era altro maggiormente che la manifestazione di questo prepotente bisogno dell’uomo, d’aver Iddio a sé realmente presente, non era altro di più che il grido lanciato in alto dall’umanità follemente ingannata: « O Dio, discendi in mezzo a noi, sii marmo, sii legno, sii metallo, piuttosto di star lontano da noi. » Imperciocché sebbene l’orgoglio dei regnanti, l’interesse dei falsi sacerdoti, l’ignoranza dei popoli e il fascino delle passioni, l’astuzia e la potenza di satana, siano cause reali del culto degli idoli, tuttavia questa immensa aberrazione dello spirito umano non sarebbesi resa così universale, né sarebbe durata così a lungo so non era di questo bisogno, così intimo, così violento e indistruttibile per l’uomo di avere a sé presente Iddio. Se pertanto questo è un bisogno del cuore umano, è senza dubbio Iddio stesso che lo ha creato, ed egli non crea nel cuor nostro alcun bisogno senza soddisfarlo. Soddisfece adunque anche a questo. Lo soddisfece sul principio del mondo con Adamo ancor innocente, scendendo nel Paradiso terrestre a passeggiare con lui all’aura meridiana e facendosi a parlargli come ad amico. Lo soddisfece in seguito, anche dopo la caduta del nostro progenitore, apparendo di tanto in tanto ai Patriarchi, ai Profeti, ai Condottieri del suo popolo. Lo soddisfece discendendo in una nube misteriosa sopra del tabernacolo a riempierlo della sua gloria, a far sentire la sua voce e ad operare i più strepitosi prodigi, tanto che gli Ebrei esclamavano con alterezza: Non v’ha certo altra nazione, per grande che ella sia, la quale abbia tanto vicini a sé i suoi dei, come il Dio nostro è presente a tutte le nostre preghiere: Non est alia natio tam grandis, quæ habeat deos appropinquantes sibi, sicut Deus noster adest cunctis obsecrationibus nostris. (Deut. IV, 7). Con tutto ciò quella sublime tendenza, di cui parliamo, non era ancora pienamente soddisfatta: Iddio non aveva ancora adempiuta del tutto quella promessa da Lui fatta agli uomini, quando disse: Camminerò tra di voi: Ambulabo inter vos. (Levit. XXVI). Ma ecco che alla fine, per tutta quanta la “terra e sino agli estremi suoi confini, esce il suono di una voce che grida: È apparsa la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Iddio: Apparuit benignitàs et hunanitas Salvatoris nostri Dei,” (Tit. III) e questo grido; non è altro che l’eco del più grande, del più sublime, del più inenarrabile degli avvenimenti, l’incarnazione di Dio: Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis. (Io. I) Allora gli uomini, come dice S. Giovanni, l’ebbero udito, l’ebbero veduto, l’ebbero toccato con le stesse loro mani: Quod audivimus, quod vidimus, quod manus nostræ contrectaverunt de verbo vitæ. Se non che, trentatrè anni di vita passati nella piccola terra di Palestina, che cosa sono mai se non un fuggevole lampo attraverso lo spazio di tanti secoli e di tutto il mondo? E dopo che Iddio incarnato, Gesù Cristo, con la sua gloriosa umanità è salito al cielo, la terra ricadrà in una oscurità più profonda di quell’antica, che pure di tanto in tanto era diradata dalle luminose apparizioni di Dio? E questa nuova era, cui sospiravano i Patriarchi, che vagheggiavano i Profeti, che Dio stesso inaugurava scendendo dal cielo ed incarnandosi, sarebbe stata perciò inferiore alla prima? Ah no! o miei cari. Iddio in tutte quante le sue opere esteriori si è dimostrato mai sempre eminentemente progressista, e tale eziandio si dimostrò nelle sue comunicazioni con gli uomini. Dapprima, nei tempi antichi, comunicò per mezzo del Divin Verbo incarnato e fatto uomo, che abitò tra gli uomini di un paese privilegiato; ed ora nei nuovi tempi con un prodigio inaudito e perenne, che al dire di S. Agostino, esaurisce la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, pur non privando il cielo della sua umanità sacrosanta e gloriosa, rimane e rimarrà sempre realmente presente con il suo corpo, con il suo sangue, con la sua anima e con la sua divinità in mezzo a pressoché tutti gli uomini sino alla consumazione dei secoli. Ma qual è questo prodigio? Dov’è la reale presenza del nostro Dio? Dov’è? Udite. Vi sono due piante di assai meschino aspetto, ma l’una e l’altra di preziosa virtù. La prima di esse, erba sottile e fragile, non spicca né per ragion delle foglie, né del suo fiore, né della sua fragranza; l’altra è un legno inutile, non atto neppure a farne una caviglia. E non pertanto queste due piante senza vigore e senza vaghezza, il grano e la vite mantengono la forza dell’uomo e gli spargono in cuore la gioia. Chi oserà ancora sprezzare la loro umiltà? Fortunato colui che abbonda dei frutti di queste umili piante! Con tale abbondanza suole Iddio non di rado benedire colui che lo ama e lo teme e fedelmente osserva la sua santa legge. Maledetto invece colui che disprezza od abusa del pane e del vino. Il volgo stesso capisce il motivo di questa maledizione, quando di chi sciupa il pane ed il vino dice nel suo energico linguaggio che disprezza la grazia di Dio. Eppure che il pane ed il vino formino la base del nostro alimento non è ancora il tutto. Essi hanno una destinazione ben più sublime, e quale? O ammirabile procedere del Signore, chi può intendere le sue vie? Il pane ed il vino sono destinati ad essere tramutati nel Sacramento dell’Eucarestia nel Corpo e nel Sangue di Nostro Signor Gesù Cristo! Il Sacerdote, che nella sacra ordinazione ne ha ricevuto la possanza, a nome di Gesù Cristo pronunzia sopra del pane queste singolari parole: Hoc est Corpus meum: questo è il mio corpo; e sopra del vino queste altre: Hic est calix Sanguinis mei, questo è il calice del mio Sangue: ed a queste semplici parole per la potenza che Gesù Cristo ha loro comunicato, il pane cessa di essere pane: il vino lascia di essere vino: e diventano il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo: quel vero Corpo nato da Maria Vergine, quel vero Sangue sparso sulla croce per la nostra salute. Rimangono è vero le specie ossia le apparenze di pane e di vino, la loro figura, il loro colore, odore, sapore, ma il pane ed il vino più non vi sono; essi diventano tanto l’uno quanto l’altro, tutto intero il Corpo Sacratissimo e tutto quanto il Preziosissimo Sangue del divin Redentore congiunti alla sua Anima ed alla sua Divinità. – Ah! io so bene che dinanzi ad un tanto mistero la ragione si arresta esterrefatta ed esclama: Possibile? Ma pure o negare addirittura la veracità del Vangelo e la Divinità di Gesù Cristo, od ammettere senz’altro quello che è, ancorché con la ragione non si comprenda. Perciocché tanto le parole con cui Gesù Cristo promise, quanto quelle con cui istituì l’Eucaristia sono di una chiarezza insuperabile. Ed in vero in quel dì in cui Gesù Cristo prese a promettere questo grandissimo dono che cosa disse alle turbe dei Giudei? « Io sono il Pane vivo disceso dal cielo, epperò chi mangerà di questo pane vivrà in eterno. E questo pane che Io darò a mangiare è la mia carne, questo corpo istesso che Io esporrò alla morte per la salute del mondo. » E siccome a queste parole i Giudei si posero tra di loro a litigare dicendo: Come potrà costui darci a mangiare la sua carne? Gesù Cristo ribadendo ciò che già aveva detto, soggiunse: « In verità, in verità vi dico, che se non mangerete la mia carne e non berrete il mio Sangue, non avrete in voi la vita: chi mangerà la mia carne ha la vita eterna ed Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. » – Ora poteva Gesù Cristo adoperare parole più. chiare per farci capire che realmente Egli avrebbe lasciato tra di noi, affine di essere cibo dell’anima nostra e restare in nostra compagnia, il suo Corpo e il suo Sangue? Per certo gli stessi Giudei credettero così, ma essendo essi troppo carnali e non potendo capire come Gesù Cristo avrebbe effettuato la sua promessa in un modo miracoloso, essi si spaventarono al pensiero di una scena d’antropofagia; epperò credendo che Gesù Cristo non potesse altrimenti compiere ciò che prometteva che con lo squartare il suo corpo e col darne a mangiare la sua carne sanguinante, perciò appunto presero a litigare fra di loro domandandosi vicendevolmente come mai fosse possibile una tal cosa. Anzi continuando Gesù a riaffermare la stessa asserzione molti di essi, dicendo che quel discorso era troppo duro e che non lo si poteva capire, gli voltarono le spalle e da quel dì cessarono di essere suoi seguaci. Ma non perciò Gesù Cristo corresse o modificò quanto aveva detto; anzi lasciando andare quei Giudei, si volse ancora agli Apostoli dicendo loro: Volete andarvene anche voi? E cioè: Non volete credere neppur voi che Io darò veramente in cibo la mia Carne e in bevanda il mio Sangue? Se non volete credere, Io non intendo di sforzarvi, epperò potete seguire l’esempio di coloro che mi hanno lasciato; ma se volete restarvi presso di me, se volete continuare ad essere miei discepoli è assolutamente necessario che crediate quanto Io ho asserito. Or dite, se Gesù Cristo che era via, verità e vita, se Egli che era tanto zelante nell’istruire i Giudei affine di salvarli, se Egli che era così voglioso di salvare le animo per modo da non perdonarla né a fatiche, né a disagi di sorta, se anzi per la salvezza delle anime egli sarebbe morto sopra una croce, dite, al vedersi abbandonato da molti, che pure avevano già incominciato ed essere suoi seguaci, propriamente perché prendevano le sue parole nel senso più ovvio e naturale, qualora Egli nel promettere l’Eucarestia non avesse inteso di dare realmente il suo Corpo e il suo Sangue, ma soltanto un’immagine od una figura del medesimo, non avrebbe Egli rattenuti quei Giudei, non avrebbe egli detto loro: « Fermatevi e calmatevi; voi non mi avete inteso? Nel dirvi che Io vi darò in cibo il mio Corpo e in bevanda il mio Sangue non ho già inteso di dirvi che ve li darò in modo reale; oh no per certo! Ma ho inteso unicamente di dirvi che vi darò una figura, un’immagine del mio Corpo e del mio Sangue. Continuate adunque ad essere miei discepoli, e non abbandonatemi per un malinteso. Questo mio discorso, poiché è questo propriamente che intendo di dire, non è alla fin fine troppo duro, troppo difficile a capirsi. » Non vi pare che così veramente si sarebbe regolato Gesù Cristo in tale circostanza? Ma no, Egli tenne una condotta del tutto contraria; epperò la condotta da Lui tenuta non è una prova evidentissima della sua reale presenza nella SS. Eucaristia? – Ma non meno evidente è la prova che ne risulta dalle parole, con cui Gesù Cristo istituiva l’Eucaristia. Ed in vero ci riferiscono gli evangelisti che Gesù Cristo nell’ultima cena prese del pane, lo benedisse e lo spezzò e dandolo ai suoi discepoli disse: Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, che per voi sarà dato: Accipite et comedite, hoc est corpus meum quod prò vobis tradetur; e che avendo preso un calice, resegrazie e lo diede agli stessi Apostoli dicendo: Bevete tutti diquesto: Bibite ex hoc omnes; perciocché questo è il Sangue miodel nuovo testamento, che sarà versato per molti in remissionedei peccati: hic est enim sanguis meus novi testamenti, qui prò multis effundetur in remissionem peccatorum. Or vi sono parolepiù chiare di queste? Non insegna apertamente Gesù Cristoper mezzo di esse che nell’Eucaristia vi ha quello stesso Corpo,che doveva essere per noi offerto in croce e quello stesso Sangue, che ivi pure doveva essere sparso? E se sulla croce offerseil suo Corpo e versò il suo Sangue non già in figura o sottoqualche immagine, ma il suo Corpo vero e reale, il suo vero ereale Sangue, come si potrà credere ed asserire che Gesù Cristonel dire agli Apostoli: Prendete e mangiate, questo è il mioCorpo; prendete e bevete, questo è il mio Sangue, abbia intesodi dire: Prendete e mangiate, questo pane è una figura delmio Corpo; prendete e bevete, questo vino è una figura delmio Sangue?Per certo gli Apostoli come non avevano esitato a prenderenel loro vero significato le parole di Gesù Cristo quando promisel’Eucaristia, così non esitarono punto a prendere nel lorovero senso queste altre, con cui Gesù Cristo la istituì, epperòsenza dubbio cibandosi di quel pane e bevendo di quel vinoche Gesù Cristo loro diede, credettero fermamente, che sebbenedi pane e di vino conservassero l’apparenza, non eranopiù tali, ma in quella vece erano stati realmente tramutati nelvero Corpo e nel vero Sangue del loro adorabile Maestro. Secosì non fosse, l’apostolo Paolo che aveva appreso tutto ciòdagli altri Apostoli, dopo di avere egli stesso brevemente narratola istituzione di questo divin Sacramento, toccando lacommovente circostanza che Gesù Cristo lo istituì in quellanotte medesima, in cui veniva tradito per cominciar la suapassione, in qua nocte tradebatur, dopo di aver notato che Gesùnon si contentò di dare il Suo Corpo e il suo Sangue agliApostoli, ina volle ancora farne dono a tutti i suoi credenticomunicando a’ suoi Apostoli ed ai loro successori nel sacerdoziola facoltà di fare la stessa cosa che Egli aveva fatto fino aquel dì, in cui Egli visibilmente ritorni su questa terra, se cosìnon fosse, dico, questo Apostolo avrebbe in proposito in dirizzatoai Cristiani questa raccomandazione e questa sentenza: Probet autem se ipsum homo et sic de pane illo edat et de calice bibat: Si esamini adunque l’uomo, e solo dopo essersi esaminatoed aver riconosciuto di essere in grazia di Dio, solo allora siaccosti a mangiare di questo pane e a bere di questo vino.Perciocché chiunque mangerà di questo pane o berrà di questocalice indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue di GesùCristo, e si mangia e si beve la sua condanna: quicumque enim manducaverit panem hunc vel biberit calicem Domini indigne, reus erit Corporis et Sanguinis Domini ? ( I Cor. XI). Oh no, certamente S. Paolo non sarebbe arrivato al punto dadir parole sì terribili, da dichiarare nientemeno che reo deldisprezzo del Corpo e del Sangue di Cristo chi prende indegnamentel’Eucaristia, e da sentenziare che costui si mangiae si beve la sua stessa condanna. Perciocché avrebbe avutoin animo di ingenerare nei Cristiani tanto orrore al prendere

indegnamente l’Eucaristia, quando egli e gli altri Apostoli e tutti i Cristiani di quel tempo avessero creduto che nell’Eucaristia non vi è altro che una figura, un’immagine di Gesù? Ah senza dubbio è pur un mancar di rispetto a Gesù Cristo disprezzando la sua figura e la sua immagine, ma come mai  un tal mancamento si avrebbe a ritenere così grave da diventare nel commetterlo rei non solo della figura e dell’immagine ma del medesimo Corpo e Sangue di Gesù Cristo, e da meritare per ciò di essere dannati? Voi lo vedete adunque, le parole della promessa e dell’istituzione della SS. Eucaristia sono sì semplici, sì chiare, sì esplicite da non lasciarci il minimo dubbio sulla realtà della cosa. Epperò lo stesso Martin Lutero dopo di aver passata una notte intera con la febbre indosso su di queste parole, torturandole quanto più era possibile affine di cavarne fuori qualche cosa d’altro che non fosse la reale presenza di Gesù Cristo, non vi riuscì affatto. Ma Lutero, come tutti gli altri novatori, Carlostadio, Zuinglio, Ecolampadio, Bucero e Calvino, che anche più radicalmente di Lutero negarono la reale presenza, erano giunti troppo in ritardo per insegnare anche a questo riguardo una fede diversa da quella degli apostoli. La Chiesa in tutti i secoli a loro antecedenti aveva mai sempre con una costante ed universale tradizione ritenuto ed insegnato quanto avevano appreso da Gesù Cristo ed insegnato ai primitivi Cristiani gli Apostoli. Ma che dico la Chiesa? È l’umanità che ha creduto: l’umanità cristiana, la più grande, la più forte, la più sensata, la più libera, la più intelligente che sia esistita. No, non sono già orde barbare erranti in steppe sconosciute: non sono società degradate nelle vergogne del feticismo e dell’idolatria e che avrebbero trovato in questa credenza l’alimento e la scusa della loro corruzione, sono le anime più belle, più pure, più tenere e più forti, che siano venute al mondo. Sono i Padri, i Dottori della Chiesa, i Santi tutti; S. Ignazio, S. Girolamo, S. Agostino, S. Ambrogio, S. Giovanni Grisostomo, e via via sino a S. Bernardo, a S. Francesco di Sales, a S. Alfonso Maria de’ Liguori, e a quanti altri Santi vi saranno fino alla fine del mondo. Dunque: Tantum ergo Sacramentum veneremur cernui: Inchiniamoci venerabondi davanti all’augustissimo Sacramento dell’Eucarestia: Iddio realmente presente tra gli uomini Egli è là. Via le figure, i segni, le profezie dell’antico patto; il figurato, il significato, il profetato, Egli è là: Ut antiquum documentum novo cedat ritui: è vero, i miei occhi non vedono che pane, le mie mani non toccano che pane, i miei sensi tutti non sentono che pane; ma venga la fede a supplire al difetto dei miei occhi, delle mie mani e de’ miei sensi: Præstet fides supplementum sensuum defectui, e sotto di quelle specie io vedrò, toccherò, sentirò realmente Iddio. Sì, per l’Eucarestia e nell’Eucarestia Gesù Cristo, nostro divin Salvatore, Dio e uomo, si trova sopra dei nostri altari, nelle più superbe basiliche e nelle più povere chiese, nei più magnifici templi e nelle più umili cappelle, nelle città e nelle campagne, nelle contrade più incivilite ed anche in quelle più selvagge; e per l’Eucarestia e nell’Eucarestia Egli passeggia trionfalmente per le nostre vie e per le nostre piazze tra il profumo degli incensi e l’olezzo dei fiori, tra la soavità delle musiche e la letizia dei cantici, benedicendo agli uomini che distendono i bei drappi e si inchinano riverenti al suo passaggio; per ‘Eucarestia e nell’Eucarestia col seguito modesto di poche persone e di pochi lumi, tra il mormorio di devote preci va a trovare il Cristiano ammalato per consolarlo, il fedele moribondo per farsi ancora suo compagno nel viaggio dal tempo all’eternità, dalla terra al cielo; per l’Eucarestia e nell’Eucarestia collocato nelle crociere degli ospedali consola i poveri infermi, che a lui volgono lo sguardo dal letto dei loro dolori; per l’Eucarestia e nell’Eucarestia chiuso in una teca di argento conforta i Pontefici, (un Pio VI, un Pio VII, un Pio IX) allorché per la nequizia dei tempi sono costretti a fuggire dalla loro sede per una terra di esilio; per l’Eucaristia e nell’Eucarestia solleva dalla sua cupa mestizia il misero che geme nel carcere avvinto di catene, che come un Silvio Pellico vive più rassegnata la vita, se attraverso le sbarre della sua dimora può allungare lo sguardo sino all’umile chiesuola, ove sta il Carcerato d’amore; per l’Eucarestia, nell’Eucarestia insomma Dio è in mezzo a noi, vicino a noi e con noi, e noi abitiamo vicino a Dio e con Dio; noi troviamo dappertutto Iddio, ma sotto le specie sacramentali, nell’attitudine dell’umiltà e della dolcezza, la più acconcia a ingerirci la fiducia, a ispirarci l’amore a incoraggiarci a trattarlo con la medesima famigliarità con cui Egli stesso si degna di trattare con noi, sempre pronto a ricevere le nostre visite e a testimoniarci la sua bontà, a raccogliere i nostri omaggi e a spandere sopra di noi le sue misericordie, a udire le nostre suppliche e ad arricchircidelle sue grazie, ad ascoltare i nostri gemiti e a concederci le sue consolazioni, a gradire i trasporti della nostra divozione ed a largire a noi le sue tenerezze, le sue gioie, la sua vita! Oh bontà immensa di Gesù Cristo! Nel suo infinito amore per gli uomini cavando fuori dalla ferita del suo Cuore il SS. Sacramento dell’Eucaristia ha soddisfatto anzitutto ad uno dei più prepotenti bisogni dell’uomo, quello cioè d’avere a sé realmente presente Iddio.

II. — Ma v’ha di più ancora: col gran dono dell’Eucaristia Gesù Cristo ha appagato la fame che gli uomini sentivano di un cibo divino. Quel Signore, il quale ha creato tutte le cose dal nulla, volle che le medesime avessero incremento e vita mediante la nutrizione. Però, « tutte le creature, come dice Davide, aspettano dal Signore il cibo nel tempo opportuno ed Egli apre la mano e tutte le sazia con la sua benedizione. Omnes a te expectant ut des illis escam in tempore; aperis tu manum tuam et imples omne animal benedictione.( Ps. CXLIV).  Così la creazione può paragonarsi ad un immenso banchetto, dove seggono incessantementemilioni di convitati pascendosi dal mattino alla sera deidoni della Divina Provvidenza. La pianta va cercando nellaterra e persino sull’arida roccia i succhi che essa aspira; nell’atmosferava cercando la luce, i gaz, la rugiada ch’essa avidamentebeve. L’animale più esigente ancora, a mano a manoche la sua vita si svolge, va cercando il suo cibo nei prodottidelle piante e non di rado nelle carni stesse di un altro animale.E l’uomo sfuggirà egli a questa legge? No, certamente.Anzi egli sarà il re del convito, come è il re della creazione.Per questo Dio gli dié la possanza e l’assoluto impero su tuttele piante e su tutti gli animali: non solo perché usufruissedei loro prodotti e delle loro attitudini, ma ancora perché dei loro frutti e delle loro carni a suo talento si cibasse. Se non che, basterà forse all’uomo questo cibo terreno? No,miei cari. Se l’uomo, essere animale per ragion del corpo può sostenere e crescere la sua vita corporea col cibo materiale,essere immateriale ed immortale per ragione dell’anima ha bisogno di altro cibo, che risponda alla natura incorporea dell’animae che l’anima valga a nutrire, abbellire e corroborare,finché giunga alla sua perfezione. E questo cibo, che rispondealla natura dell’anima è costituito dal vero, dal bello, dal buono,dall’ordine, dalla virtù; e più l’uomo si nutre di tal ciboe più si fa grande e fecondo nella sua intelligenza, più si faelevato ne’ suoi pensieri, più si fa saldo e vigoroso nel suogiudizio, più si fa retto nella sua volontà, più si fa delicatonella sua coscienza, in una parola, più egli si fa uomo.Tuttavia, o miei cari, ciò non è ancor tutto per compierela grandezza dell’uomo. Per la sua costituzione soprannaturalel’uomo è un essere divino. Egli ha un’anima creata nel soffiodi Dio, destinata ad avere per suo fine Iddio medesimo, acontemplarlo, a possederlo, ad essere felice di Lui ed in Luiper sempre. E sebbene vi sia stato il peccato di Adamo e ne siano derivate le sue fatali conseguenze, tuttavia la vita divinaper l’uomo fu riconquistata dal Sangue di Gesù Cristo ed essarientra nella nostra natura scaduta per la virtù rigeneratricedel Battesimo, e si corrobora e si arricchisce pei doni delloSpirito Santo nella Confermazione. No, S. Pietro non è statopunto esagerato, quando ha detto che noi siamo divinæ contortes naturæ: (II PETR. I, 4) partecipi della divina natura; e S. Agostino quando ha sentenziato: Si filii Dei facti sumus, et dii facti sumus: se siamo divenuti figli di Dio, siamo divenutidei altresì; non ha fatto altro che trarre la conseguenzadi una bella e giusta asserzione di S. Paolo. Or bene, di chesi nutrirà questa vita divina, che vi ha nell’uomo? Non  sentiràegli il bisogno di sostentarla con un cibo che non solo nonsia materiale, ma con un cibo che sia soprannaturale, celestee divino, con un cibo che sia Iddio medesimo? Domanda strana,direte voi, o per lo meno assai ardita. Eppure, no! Perché larisposta affermativa è già data; e l’hanno data gli uomini ditutti i tempi e di tutti i luoghi. Davide non fa altro che parlare a nome di tutta l’umanità quando esclama: Come un cervositibondo sospira il fonte delle acque, così, o mio Dio, l’animamia sospira a te: Quæmadmodìim desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus. Sitivit anima mea ad fontem vivum: l’anima mia arde di dissetarsi in te,fonte viva. (Ps. XLI) Ed in vero leggete la storia, non soloquella del popolo ebreo, ma quella altresì degli Egizi, dei Caldei,dei Persiani, dei Greci, dei Romani, dei Germani e deiGalli; investigate le tradizioni degli stessi popoli selvaggi;andate insomma a sorprendere i popoli di tutte le età e ditutti i luoghi nel momento solenne, in cui compiono dei sacrificiad onore della divinità, e voi li vedrete sempre dopod’aver offerto delle vittime, agnelli, vacche, buoi e talvoltapersino poveri bambini, o uomini sventurati, dividersi gli avanzidi quella vittima immolata in onor di Dio e mangiarne devotamente,pensando così che col mangiare della vittima consacrataa Dio, si mangiasse qualche cosa di soprannaturale, diceleste, di divino, qualche cosa come se fosse Dio medesimo,e che per conseguenza mangiando della divinità si diventassesimile a lei. Perciocché qual è mai in fondo in fondo la ragionedi questa fame e sete di Dio se non la brama di rendersia Lui somigliante più che sia possibile? E per operarel’assimilazione di un essere qual mezzo più atto, che il mangiarne,se ciò è possibile senza recargli del male? Guardatela madre, che tanto ama il suo bambino, non solo se lo stringeal seno, non solo lo accarezza in mille guise, non solo lo accostamille e mille volte alle sue labbra e lo bacia e lo ribaciasenza stancarsi mai, ma molte volte abbocconandogli ancora leguance o le mani, grida e rigrida: Ti mangio, ti mangio. Espressionevolgare, se volete, ma pur piena di senso e di filosofia:perché dimostra chiaramente che questo si vorrebbe fare,se fosse possibile, quando si brama di essere una cosa solacon alcun altro, o di essergli almeno simile. Or dunque, Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus:ciò che si è fatto da tutti gli uomini, in tutti i tempi, in tutti i luoghi, non dubitatenepunto, è una legge della umanità, una legge che sta nel fondo stesso della natura umana, un bisogno cioè che Iddiomedesimo ha creato nel cuor dell’uomo. Questo bisogno, è vero, noi non lo comprendiamo, ma tuttavia lo sentiamo. Anche rispettoa questo noi siamo come bambini appena nati; quasi modo geniti infantes. (I PETR. II). Il bambino appena nato noncomprende che cosa sia la fame, il bisogno del cibo, ma purlo prova e lo manifesta con le sue contorsioni, con le sue grida,con le sue lagrime; e buon per lui che la madre dalla divinaProvvidenza fornita di intelligenza e di attitudine acconcia albisogno del suo neonato, con tutti gli sforzi lo attacca al suoseno, e cibandolo del suo latte sazia in lui quella fame chesente. Così, noi nell’ordine spirituale, a guisa di bambini appenanati, non arriviamo a comprendere questa fame e questasete misteriosa, che abbiamo di Dio medesimo, ma pur la sentiamoe la manifestiamo eziandio in quel non essere mai paghidelle cose terrene, fossimo pur anco padroni di tutto il mondo.Or bene poiché l’uomo sente questo bisogno di mangiaredi Dio, ed è Dio stesso, che glielo fa sentire, non avrà poiegli pensato a soddisfarlo? Oh sì, senza alcun dubbio, giacché,come già vi diceva, se Iddio crea dei bisogni nel cuor dell’uomonon è che per soddisfarli. Certamente non lo ha soddisfattopienamente nei tempi antichi, perché sebbene dica l’ApostoloPaolo che tutti i giusti dell’antico Testamento bevevanodella pietra che li avrebbe seguiti, e che questa pietra eraCristo: Bibebant omnes de spiritali sequenti eos petra; petra autem erat Christus, tuttavia e per la manducazione dell’Agnello pasquale, e dei pani di Proposizione, e degli avanzi delle vittime immolate a Dio non partecipavano che per la fede e in una certa misura al banchetto della grazia di Dio. Ma poiché sono venuti i tempi nuovi, e Dio si è incarnato e fatto uomo per soddisfare pienamente a tutti i bisogni dell’uomo, ha pienamente soddisfatto anche a questo e vi ha soddisfatto con la istituzione del Sacramento dell’Eucaristia, per mezzo del quale Egli si dà veramente, realmente, sostanzialmente in cibo alle anime nostre. Poiché badate bene alle parole con cui Gesù Cristo promette l’Eucaristia, e a quelle con cui la istituisce, e che già vi ho recitate, e poi vedrete come a ragione la Chiesa nel distribuire la Eucaristia esclama e deve esclamare: O sacrum convivium in quo Christus sumitur: O sacro convito nel quale si prende per cibo Gesù Cristo istesso! Sì, Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo: Gesù Cristo seconda Persona della SS. Trinità; epperò, poiché una Persona divina non può stare senza le altre, insieme con Gesù Cristo il Divin Padre, che da tutta l’eternità e per tutta l’eternità lo genera nello splendore dei Santi, e il Divino Spirito, che da tutta l’eternità e per tutta l’eternità procede dal Padre e dal Figliuolo. Che cosa dobbiamo desiderare di più? Quando le antiche Sibille si mostravano invase dall’ispirazione, esclamavano: Deus, ecce Deus: Dio, ecco Dio. Ma quando noi ci appressiamo alla mensa eucaristica, gli Angeli ci gridano con verità: Attollite portas: aprite le porte del vostro cuore; et introibit rex gloriæe vi entrerà il Re della gloria; Deus, ecce Deus: Dio, ecco Dio fatto vero cibo delle anime nostre! Così adunque la bontà del Cuore Sacratissimo di Gesù per noi, nell’istituzione dell’Eucaristia si rivela veramente infinita, giacché per essa ha soddisfatto al bisogno che noi avevamo della reale presenza di Dio, ed ha appagato la fame e la sete che sentivamo di Dio stesso.

III. — Ma ciò non è tutto. Perché se Gesù Cristo con l’istituire l’Eucaristia per una parte ha soddisfatto agli aneliti del cuor nostro, per l’altra ha pur soddisfatto agli aneliti del Cuor suo. Bossuet ha detto bene che non vi sono due amori, ma uno solo, cioè che l’amore che vi ha nel cuor dell’uomo è quello che vi ha nel Cuor di Dio, con questo divario tuttavia che nel Cuor di Dio è infinito. Or bene l’amore, questa forza arcana e meravigliosa è di tal natura, che fa tendere colui che ne è preso all’unione più intima con l’oggetto amato. Aver sempre al fianco le persone più care, non doverne soffrir mai la separazione, abbracciarle, stringerle, possederle, formare con esse un cuor solo, un’anima sola, una sola vita, ecco quello che si vorrebbe da coloro che amano, ciò che vorrebbe una madre dal suo figlio diletto. Epperò quando le circostanze della vita crudelmente esigono che il figlio si abbia a separare ed allontanare da lei, chi potrà pienamente comprendere lo schianto del suo cuore? Allora, questa madre, che sta per cadere nella più profonda desolazione, non potendo seguire il figlio e pur volendo restare a lui vicino prende un suo ritratto, una ciocca de’ suoi capelli, un fiore da lei raccolto, una memoria qualsiasi e dandola al figlio: Prendi, gli dice, questa mia memoria, ponila sopra il tuo cuore, e quando la sentirai battere sopra di esso, ricordati, figliuol mio, che la tua madre col suo amore si trova mai sempre dappresso al tuo cuore. Ecco quello che allora dice e fa una madre. È tutto ciò che ella può fare e può dire. Ma se ella potesse fare di più, se ella potesse dire efficacemente; Figlio, tu vai: non importa: io raddoppio la mia presenza e mentre resto in questo luogo, ove mi è d’uopo restare, pure io vado con te, ti seguo dappertutto, ovunque sarò al tuo fianco; potete voi dubitare che una madre non direbbe e non farebbe questo? Anzi; se una madre, contemplando il suo figlio potesse dirgli: Sia che tu rimanga presso di me, sia che tu vada in capo al mondo, io non soffro alcun affanno, perché io potrò sempre e dappertutto unirmi a te nel modo più intimo, trasfondere in te la mia vita, alimentarti del mio sangue, farti vivere di me, credetelo, o miei cari, una madre lo direbbe e lo farebbe. E se vi ha chi dubita di questa mia asserzione, no, non ne dubitano punto le venerande madri che mi ascoltano. Ma perché ho detto io le madri?… Un padre non farebbe lo stesso? Non lo fa continuamente? Perciocché a che intisichisce egli in un officio, od a che si logora in un’officina o tra i solchi, se non per far vivere di sé, delle sue fatiche e de’ suoi sudori i figli amati? E quando a sostentare la vita dei figli non bastassero più le sue fatiche, i suoi sudori, ma ci volesse il suo sangue, lo dico fidamente, egli con una lama si aprirebbe tosto le vene, e le farebbe lor succiare. Ecco la natura e la forza dell’amore. – Quando si impossessa di u cuore, lo fa tendere con una prepotenza indicibile ad unirsi e a darsi all’oggetto amato nel modo più intimo che sia possibile. Ora il Cuore Santissimo di Gesù ci ha amati, ma ci ha amati sino alla fine: cum dilexisset suos, in finem dilexit eos. (Io. XIII, l) Non già sino alla fine della sua vita mortale soltanto, ma giusta l’interpretazione di S. Tommaso sino all’ultimo termine dell’amore, usque ad ultimum finem amoris; ed amandoci per siffatta guisa sentì ancor Egli il bisogno di unirsi, di darsi a noi, di alimentarci di sé, di farci vivere della sua vita. E a questo anelito del suo Cuore divino ei soddisfece appunto col dire : « Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo; prendete e bevete, questo è il mio Sangue! » Ah! miei cari, si potranno ben chiamare strani, oscuri, impenetrabili i misteri di nostra fede, quando non si conoscono punto, ma se si studiano per poco vi si scorge tosto il lato luminoso, splendido, che ci invita, ci sforza anzi a ripetere umilmente: Credo e adoro! Qui tuttavia, o miei cari, non basta dire: Credo e adoro: ci vuole qualche cosa di più. Se Gesù Cristo con l’Eucaristia ebbe in mira di soddisfare le nostre e le sue brame, Eivuole altresì ottenere questo scopo. Ed è perciò che non solo ci esorta, ma ci impone di accostarci a riceverlo sotto pena di escluderci per sempre dall’eterna felicità. No, non è soltanto la Chiesa che ci comandi la Comunione, benché al vero Cristiano ciò dovrebbe bastare più che mai; la Chiesa non fa altro che applicarci praticamente il precetto di Gesù Cristo, il quale ha detto chiaramente, come attesta S. Giovanni: Nisi manducareritis carnem Filii hominis, non habebitis vitam in nobis: se non mangerete la mia Carne non avrete la vita in voi. Obbedite adunque al precetto di Gesù Cristo. Voi, o anime appassionate dei Santi tabernacoli, continuate a fare la vostra delizia nel venire a congiungere con le adorazioni degli Angeli le adorazioni vostre al SS. Sacramento; nell’accostarvi anche quotidianamente a ricevere questo pane di benedizione e di vita. E voi, o anime di buon volere, ma troppa indecise,soverchiamente timide, vincete coraggiosamente le vostre perplessità, seguite il consiglio dell’Angelo visibile che vi guida nelle vie della salute e frequentate ancor voi la mensa Eucaristica. Ma forse vi saranno anche qui di coloro che è da dieci, venti, trent’anni, che di questa mensa non fanno più conto. Ahimè! Benché essi si vantino forse di essere vivi, giacciono tuttavia in potere della morte! Che costoro massimamente ascoltino la voce amorevole e potente di Colui che è la resurrezione e la vita: che questi Lazzari più che quatriduani con una pronta e dolorosa confessione, susseguita da una santa Comunione, balzino fuori dal sepolcro ignominioso e fetente della loro indifferenza e della loro corruzione per ripigliare la vita, e più rigogliosa di prima: ut vitam habeant, et abundantius habeant. (Io. X, 10)

E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che nell’istituzione della SS. Eucaristia ci avete dato una prova così grande del vostro amore per noi, degnatevi ancora con la vostra grazia di illuminare sempre meglio le nostre menti, perché sempre meglio riconosciamo una tale carità, e di toccare sempre più i nostri cuori, perché sempre più con l’adempimento dei vostri voleri nella frequenza di un tanto Sacramento abbiamo a corrispondere ai vostri immensi benefizi.

COMUNIONE SPIRITUALE

COMUNIONE SPIRITUALE

ACTUS COMMUNIONIS SPIRITUALIS

164

Gesù mio, credo che Voi state nel santissimo Sacramento. Vi amo sopra ogni cosa e vi desidero nell’anima mia. Giacché ora non posso ricevervi sacramentalmente, venite almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io vi abbraccio e tutto mi unisco a voi; non permettete che io mi abbia a separare da voi (S. Alfonso M. de’ Liguori).

Fidelibus, qui spiritualis Communionis actum, quavis adhibita formula, elicuerint, conceditur:

Indulgenza trium annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem actus perfectus fuerit.

(S. Pæn. Ap., 7 mart. 1927 et 25 febr. 1933).

IL CUORE DI GESÙ (23): Il Sacro Cuore di Gesù e la penitenza.

(A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Torino, 1920)

DISCORSO XXIII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la Penitenza.

Uno fra i più belli, fra i più grandi, fra i più salutari costumi della Chiesa, nostra Madre e maestra, è quello di farci leggere ogni giorno nella Santa Messa un tratto del Vangelo e nella Officiatura il relativo commento che ne fecero i Santi Padri. E ciò ella fa non a caso, ma scegliendo sapientemente quei tratti di Vangelo e quei commenti che più sono conformi ai Santi che secondo la varietà del tempo essa onora od ai misteri che essa ricorda. Quale sarà pertanto il tratto di Vangelo che ella ci fa leggere, siccome il più adatto, nella festa del Sacro Cuore di Gesù? Quello ove si racconta il ferimento del costato di Gesù Cristo e la conseguente apertura del suo Cuore istesso. Eccolo: « In quel tempo, i Giudei, poiché era giorno di venerdì, perché i corpi dei giustiziati, vale a dire di Gesù Cristo e dei due ladroni con lui crocifissi, non rimanessero sulla croce al sabbato (perciocché quel sabbato era il giorno della Pasqua), pregarono Pilato che ai medesimi si rompessero le gambe (secondo il costume) e fossero tolti via. Andarono pertanto i soldati, e ruppero le gambe all’uno e all’altro di quei due che erano stati con Gesù crocifissi. Arrivati poi a Gesù, vedendolo che era già morto, non gli ruppero le gambe, ma uno dei soldati aprì il fianco di lui con una lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua. E chi vide (cioè S. Giovanni il discepolo prediletto) lo ha attestato, ed è vera la sua testimonianza. » (Io. XIX, 31-35) Questo è adunque il Vangelo scelto dalla Chiesa per la festa del Sacro Cuore di Gesù. E quale è il commento che ne fa leggere nella sua Officiatura? II commento che ne fanno tre grandi dottori della Chiesa: S. Agostino, S. Giovanni Grisostomo e S. Bonaventura. Ed anzi tutto quello di S. Agostino, che così spiega il ferimento del costato di Gesù Cristo e l’apertura del suo Sacratissimo Cuore: « Di una parola assai espressiva ha fatto uso l’Evangelista; giacché non disse già che il soldato percosse o ferì, o fece altro, ma sebbene che il soldato aperse con la lancia il fianco del Signore, affinché si intendesse che ivi si è aperta in tal modo la porta della vita, poiché dall’apertura del Cuore di Gesù Cristo ne sono usciti i Sacramenti, senza dei quali non si può entrare a quella vita che è sola vera vita, la vita eterna. » Così il grande Vescovo d’Ippona. Ora che cosa vi ha di più chiaro, pur tacendo di altri commenti fatti nello stesso senso da S. Cipriano, da S. Ambrogio, da S. Giovanni Crisostomo, e da altri ancora, per farci riconoscere che i Sacramenti della Chiesa sono il più vero, il più grande, il più vantaggioso effetto dell’amore del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo per noi? Ma notiamo però che se nel Sangue e nell’acqua che uscirono dalla ferita del Divin Cuore sono raffigurati in genere tutti i Sacramenti, e cioè nell’acqua i Sacramenti così detti dei morti, che ci lavano e mondano dai peccati, e nel Sangue i Sacramenti dei vivi, che accrescono in noi la grazia e i meriti per salvarci, secondo le spiegazioni istesse dei Sacri Dottori sono raffigurati in modo specialissimo i Sacramenti che ci rimettono i peccati, il Battesimo cioè e la Penitenza, e il Sacramento che nutre e disseta l’anima nostra, la SS. Eucaristia. Di questi adunque è particolarmente simbolo la ferita del Sacratissimo Cuore; e di questi a preferenza dobbiamo occupare la nostra mente nel riandare le prove d’amore di Gesù Cristo per noi. E lasciando di trattare del Battesimo perché grazie a Dio già l’abbiamo tutti noi ricevuto, né più ci occorre di riceverlo altra volta, passiamo tosto a trattare della Penitenza ed a riconoscerne il grande benefizio.

I. Sebbene misticamente, cioè in modo occulto, ma pur vero, il Sacramento della Penitenza, come tutti gli altri Sacramenti sia uscito dalla ferita del Cuore di Gesù, tuttavia questo Sacramento in modo manifesto non fu istituito da Gesù Cristo che dopo la sua Risurrezione. Allora apparendo Egli agli Apostoli, che stavano nel cenacolo disse loro in tono solenne di autorità: Come il Padre mandò me, così Io mando voi, vale a dire con quello stesso potere sopra il peccato con cui mandò me il mio Padre celeste, così Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo; ricevetelo cioè per ben esercitare il grande potere che io vi affido. I peccati saranno rimessi a coloro ai quali li rimetterete e saranno ritenuti a coloro ai «quali li riterrete. E cioè coloro che dopo aver manifestati a voi i loro peccati riconoscerete degni di perdono li perdonerete, coloro che riconoscerete indegni, non li perdonerete: quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis retenta sunt. (Io. xx, 22, 25) Con queste parole pertanto Gesù Cristo istituiva il Sacramento della Penitenza, ne designava il ministro, indicava implicitamente il modo con cui questo Sacramento dovevasi amministrare e ne denotava l’ammirabile effetto. Ed oh quale bontà, quale misericordia dimostrava per tal guisa verso di noi Gesù Cristo. Ed in vero G. Cristo avrebbe potuto lasciare del tutto di istituire questo Sacramento, istituendo solo per la remissione del peccato originale, col quale nasciamo, il Sacramento del Battesimo, stabilendo poi che qualora dopo di aver ricevuto questo Sacramento da bambini, giunti all’uso di ragione noi l’avessimo personalmente offesi, andassimo irreparabilmente perduti! E stabilendo le cose per tal guisa Egli non sarebbe ancor venuto meno alla sua bontà e misericordia, perché in tal guisa ci avrebbe pur sempre dato il gran mezzo di diventare Cristiani, figliuoli di Dio ed eredi del paradiso. Ma se Gesù Cristo avesse così stabilito, quanti e quanti Cristiani sarebbero tuttavia andati perduti! Forse, chi sa? nessuno tra di noi stessi che ora stiamo qui a considerar la misericordia infinita del Divin Cuore, nessuno tra di noi potrebbe più sperare di salvarsi, imperocché non sono veramente rare, rarissime, quelle anime che conservano per tutta la vita l’innocenza battesimale? .Ma Gesù ha veduto questo grande, questo immenso rischio, a cui la più parte degli stessi Cristiani sarebbe andata incontro, epperò con una bontà, con una misericordia infinita non solo ha istituito il Battesimo per toglier dall’anima nostra il peccato originale, ma ancora la Penitenza per togliere dall’anima nostra tutti o sempre i nostri peccati attuali. E qui avvertite che ho detto nient’altro che la verità nell’asserire clic il Sacramento della Penitenza è per togliere tutti e sempre i nostri peccati attuali. Perciocché per quanto siano numerosi i nostri peccati, fossero pure numerosi come le stelle del cielo e le arene del mare; per quanto fossero gravi, fossero pur gravi tutti come il delitto di Caino, il tradimento di Giuda, le nefandità di Nerone, i peccati nostri per virtù di questo Sacramento, sempre che noi vi portiamo le disposizioni richieste, possono sempre essere tolti del tutto dall’anima nostra e perdonati da Dio. E non una volta sola in tutta la vita, non due, non tre, non dieci, non cento, ma quante e quante volte noi con cuore veramente pentito ci presentiamo al ministro di Dio a confessarli. Ah questa bontà, questa misericordia di Gesù Cristo si può chiamare davvero bontà eccessiva, perciocché pur troppo ci saranno peccatori e peccatrici, che ne abuseranno indegnamente; ma Egli ebbe più caro di permettere che vi sia qualche sciagurato che ne abusi, anziché non dare tutto l’agio, tutta la possibilità alle anime pentite dei loro peccati e delle loro ricadute di sollevarsi dalle loro pene, di liberarsi dalle loro angustie. Ed ecco un’altra ragione per cui nel Sacramento della Penitenza risplende vivissima la bontà e la misericordia del Cuore di Gesù. È un fatto innegabile che l’uomo commettendo il peccato perde sullo stesso punto la pace interiore dell’anima, e per conseguenza la vera felicità, che come dice giustamente S. Agostino, consiste nella calma di tutti i suoi desideri e movimenti. Chi resiste a Dio e può aver pace? si domanda il santo Giobbe. Quis resistit ei, et pacem habuit? (Iob. IX) Non appena la legge di Dio è stata violata e la colpa fu commessa, sorge in fondo all’anima dell’uomo uno straziante rimorso che prende dì e notte ad accusarlo ad agitarlo e a tormentarlo co’ suoi terribili rimproveri. Indarno per tentare di non sentirlo ei fa di tutto per soffocare l’istinto che lo porta a riconoscere il male; indarno ci si appiglia ai rumori del mondo, alle agitazioni della vita, all’ebbrezza di altri peccaminosi piaceri, per dimenticare che è colpevole; indarno sospira, ricerca, invoca di bel nuovo la pace: essa più non si dà a lui fino a che è nello stato di peccatore; l’amarezza e l’infelicità soltanto egli incontrerà ovunque sul suo cammino, ad ogni tratto a ripetergli: « Sciagurato! potevi operare il bene, ed invece hai commesso il male! potevi vivere sicuro del tuo eterno destino, ed ora invece hai da tremare che Dio ti punisca e ti mandi eternamente perduto! » Ora in questo stato così orribile, a riacquistare la pace perduta, non vi ha nulla per l’uomo di più naturale quanto il sentire il bisogno di manifestare ad altri il segreto che lo strazia, in quella guisa che l’ammalato oppresso dalla copia dei cattivi umori sente la necessità di rigettarli per esserne alleviato. E questo bisogno è così imperioso che l’uomo colpevole, non potendo altrimenti manifestarsi, e pur sentendosi costretto da una forza arcana a farlo, si inoltra talora nell’oscurità di una caverna, o si addentra nel folto di un bosco, o si spinge nell’alto del mare e con i flutti, o con le piante, o con i sassi sfoga l’ambascia dell’anima sua. Spesse volte anzi, rifiutando l’impunità che gli promette il silenzio si presenta da se stesso ai giudici, preferendo la punizione della colpa allo strazio morale che questa gli reca al cuore. Or ecco perché lo stesso Socrate presso Platone, benché filosofo pagano diceva: « che avendo commessa un’ingiustizia, che è il maggiore dei mali, il mezzo sovrano per esserne sciolti e riacquistare la pace, si è l’andare prontamente a farne la manifestazione al proprio giudice e subirne la punizione. » (PLAT. Giorgias, XXXVI) Ecco perché la manifestazione delle proprie colpe, fin dalla prima di esse che si commise, si trova presso tutti i popoli, anche i più selvaggi, sanzionata dalle pubbliche leggi e dai riti di Religione. Ecco perché massime tra il popolo giudaico questa manifestazione era prescritta e regolata per tal guisa, da sembrare una vera confessione; tanto è vero che gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, anche prima della venuta di Gesù Cristo, hanno creduto, come disse lo stesso Cicerone, essere la manifestazione delle proprie colpe il miglior rimedio alla malattia del colpevole. – Se tale adunque è la tendenza dell’umana natura, che cosa ha fatto Gesù Cristo istituendo la confessione? Scrutando a fondo l’umana natura, affine di appagarla nelle sue esigenze, Egli ha fatto quanto era per lei confacente, giacché la confessione non è altro che la manifestazione delle malattie nascoste in fondo all’anima al medico che le può guarire, non è altro che la rivelazione delle colpe che agitano il cuore umano a quel Giudice che assolvendolo dalle medesime, gli può ridonare la pace e la felicità. Ma notate bene, o miei cari, quale medico e quale giudice, ci ha dato qui Gesù Cristo; il più omogeneo, il più illuminato, il più discreto, il più indulgente, il più rassicurante, il più conforme insomma alle condizioni della nostra stessa natura. Ed anzi tutto il più adatto, perciocché nella confessione non è Iddio colui che viene a ricevere visibilmente la manifestazione delle nostre colpe. Gesù Cristo conosceva troppo bene come al cospetto della maestà influita di Dio non solo non avremmo osato articolare una sola parola, ma saremmo agghiacciati di spavento. Non è neppure un Angelo, perché troppo eccellente per la sua natura, troppo splendido per la sua purezza, non avrebbe ancora ispirato in noi la necessaria confidenza, né ci sarebbe ancora bastato il coraggio di rivelargli le nostre iniquità. Ma egli è un uomo, bensì ministro di Dio, ma pure della nostra identica natura, fragile come noi, come noi nella condizione di peccatore, epperciò non solo il più atto ad ingenerare in noi la confidenza, ma ancora il più facile ad usare verso di noi quella misericordia che abbisogna per se stesso; un uomo che ad ogni modo deve prendere in sé le viscere della misericordia di Dio e trattarci con la carità più affettuosa e più ardente, e addolorandosi pure in cuor suo dei nostri peccati perché offesa di Dio, non sdegnarsi punto contro di noi, anzi compatirci e compassionarci. Ah! se certi peccati li manifestassimo al nostro padre, noi dovremmo temere che egli avesse da pronunciare contro di noi una maledizione; se alla nostra madre, che ella avesse a morire di angoscia, e se al nostro amico che, tutto pieno di sdegno, ci avesse ad abbandonare all’istante. Ma invece manifestandoli al ministro di Dio con umiltà e sincerità, non dobbiamo aspettarci altro che di essere trattati colla massima benignità e compassione. E intanto con qual sicurezza egli, conosciuto le cause dei nostri mali appresta il rimedio ed indica i mezzi per espiarli! Con quale sincerità lacera il velo, dietro al quale il nostro amor proprio nasconde le sue passioni favorite e ne mostra tutta l’enormità! Con quale precisione ci illumina sulla natura e sull’estensione di certi obblighi tanto indispensabili, quanto difficili e complicati! Con quale esperienza ci guida per la via del dovere, della virtù della perfezione e della santità! Perciocché Gesù Cristo ha voluto che le labbra di questo suo ministro custodissero la scienza. Che dire poi della sua prudenza, della sua discrezione, della sua segretezza? E qual è il medico, qual è il giudice, da cui non abbiamo a temere la pubblica rivelazione delle nostre malattie e delle nostre colpo? Qual è anzi il tribunale in cui non si facciano per regola di pubblica ragione i delitti dei condannati ? E non è questo il tormento maggiore di un colpevole l’essere pubblicamente infamato? E Gesù Cristo lo sapeva benissimo, epperò questo non accade nel Sacramento della Confessione. Noi andiamo a gettarci ai piedi del ministro di Dio, gli apriamo il nostro cuore colpevole, lo abbandoniamo anzi nelle sue mani sacerdotali. Ed egli se ve n’ha bisogno, lo scruta minutamente, non già per inasprirne crudelmente le piaghe, ma solo per medicarle con l’unzione della sua carità e della grazia di Dio. E dopo che egli tutto ha conosciuto anche i più reconditi pensieri e desideri del cuor nostro, le sue labbra si chiudono ad un silenzio, che non sarà violato mai, neppure in vista del martirio, sia in forza della legge formidabile che lo impone, sia più ancora per la grazia di Gesù Cristo, che da diciannove secoli custodisce la bocca dei suoi Sacerdoti. Che anzi non solo il ministro di Dio non rivelerà mai con alcun pregiudizio della nostra fama le colpe che gli abbiamo manifestate, ma terminata la confessione, avendo pur anche a trattare con noi, egli si diporterà con noi come se nulla mai avesse inteso dalla nostra confessione, quando pure in essa gli avessimo manifestati i più enormi delitti. E da ultimo questo ministro così omogeneo, così illuminato, così discreto, sarà ancora per noi il più indulgente e il più rassicurante. È bensì vero che egli potrebbe non perdonare, perché egli ha pure questa, facoltà. Ma questa facoltà egli non può esercitarla a suo capriccio; e sol che egli veda in noi le necessarie disposizioni, Gesù Cristo gli ha imposto di perdonarci senz’altro. Quando tu hai confessato al mondo la tua colpa, te ne sei pentito al suo cospetto, l’hai ben anche espiata, il mondo forse ti dirà allora d’averti perdonato. Ma lo credi tu davvero? Ah! ben puoi temere del contrario. Quel marchio di disonore con cui ha bollato un giorno la tua fronte, ben di rado te lo cancella, anzi per regola più ordinaria lo imprime ancora sulla tua tomba e sulla tua memoria. Ed ecco perché non ostante che, dominato dall’istinto, tu ti sia forse anche spontaneamente manifestato, tu sei costretto a pentirti di quella manifestazione e ad adirarti teco stesso perché non hai celato con ogni mezzo possibile la tua colpa. Ma nel Sacramento della penitenza invece tu dovresti adirarti quando non ti fossi manifestato del tutto, perché è allora appunto che non saresti stato perdonato; ma quando tu hai rivelato con pentimento tutto che di grave pesava sull’anima tua ed hai inteso a dirti: « Va in pace, i tuoi peccati ti sono stati rimessi; » allora tu sei stato perdonato davvero, il peccato è stato tolto e per sempre dall’anima tua. E tu lo puoi ritenere con certezza, ne puoi essere sicuro: perciocché Gesù Cristo ben riconoscendo come la nostra natura sensibile avrebbe anche in questo caso, come in molti altri, avuto bisogno di una prova esterna e sensibile della certezza del perdono, non ha voluto che la confessione consista soltanto nella manifestazione delle nostre colpe fatta a Dio direttamente nell’interno del nostro cuore, perché Iddio che non si vede e che non si manifesta, come ci avrebbe assicurati del perdono! come ci avrebbe accertati che i gemiti e le lacrime delle nostre contrizioni sono state da lui bene accolte! ed in questa formidabile incertezza, quale angoscia non avrebbe continuato a tormentare l’anima nostra? Ma Gesù Cristo volle invece che la confessione si facesse esternamente al sacerdote, perché egli pronunziando sopra di noi in modo esteriore ed efficace la sentenza del perdono; per l’immenso potere conferitogli, noi ci intendessimo come a dire da Dio in modo sensibile: « Ora non aver più alcun timore; come il mio Sacerdote ti ha perdonato, così ti ho perdonato Io; la mia giustizia non richiede più nulla al di là delle condizioni e delle soddisfazioni che egli giustamente ha creduto di importi; le mie braccia sono aperte, vieni pure che io ti stringa al mio cuore e ti stampi in fronte il bacio del perdono. » Ah! ricevere il perdono da Dio delle nostre colpe ed esserne moralmente sicuri, ecco ciò che nella confessione ci ridona la pace e la felicità. Ed è allora che sebbene ci rimanga in fondo al cuore un dispiacere tranquillo d’aver offeso Iddio, ci alziamo tuttavia dal tribunale di penitenza liberi e leggeri come se avessimo deposto il più pesante fardello, e raggianti della contentezza e della gioia viva. O anime penitenti, che qui siete ad ascoltarmi, ditemi in verità, quando un dì, tocche dalla grazia di Dio, conosciuta la deformità orribile della vostra vita disordinata e piena di afflizioni, pentite sinceramente delle vostre colpe, andaste a deporlo in un seno sacerdotale e sentiste, mercé l’assoluzione, grondare su di voi il Sangue di Gesù Cristo a lavarvi e perdonarvi, avete voi mai trovato dei momenti più deliziosi, avete voi mai gustata una felicità così grande? È bensì vero adunque che come nel prendere la medicina non si può non sentire qualche po’ di disgusto, e nel manifestare altrui anche spontaneamente la propria reità non si può non provare una qualche ripugnanza, così nel valersi della confessione sacramentale non è possibile non sottostare a una certa qual pena. Ma come le nausee che prova il inalato sotto l’azione del farmaco si mutano presto in calma ed in gioia, e come la manifestazione della propria colpevolezza non lascia di recare qualche sollievo, così non appena nella Confessione l’uomo peccatore si sbarazza dei peccati che terribilmente lo travagliano, la pace, quel dono così prezioso e così stimabile, che supera tutti i godimenti materiali e senza della quale i godimenti materiali valgono nulla, entra come fiume impetuoso e benefico a rallegrare il cuor dell’uomo e a ridonargli quella felicità che nella sicurezza del perdono e del possesso della grazia di Dio produce una beatitudine, che è saggio ed anticipazione della beatitudine celeste. Or bene, o miei cari, da tutto ciò non è manifesto quanto fu grande la bontà di Gesù Cristo nel metter fuori dalla ferita del suo Cuor Divino il Sacramento della penitenza, Sacramento sì conformo all’umana natura?II. — Ma questa bontà risplende ancora per ben altri lati. Tutti gli uomini che vengono al mondo, senza eccezione di sorta, sono tutti destinati al cielo, e a raggiungere questa sublime destinazione non si frappone che un ostacolo, il peccato. Quaggiù la povertà, l’infermità, la deformità della persona, la bassezza dei natali, la miseria ed altre cause ancora possono proibirci l’entrata in molti luoghi ed in molti convegni, ma tutto ciò non c’impedirà di entrare in cielo, ci potrà anzi servire di raccomandazione per entrarvi; solo la colpa, nient’altro che la colpa ci può escludere e per sempre da quel beato regno. Che gran ventura adunque è per noi, quando avendo sgraziatamente commesso la colpa potremo convenientemente espiarla, ed espiandola cancellarla dall’anima nostra, e cancellandola renderci degni di bel nuovo della nostra eterna destinazione! Or ecco qui, dove per un altro lato risplende la bontà e l’amore del Cuore di Gesù Cristo per noi nell’avere dato la Confessione, poiché per essa ci diede il mezzo più acconcio ad espiare degnamente le colpe nostre. – Ed in vero, il principio di ogni peccato, come dice la Sacra Scrittura, è la superbia: initium onmis peccati superbia. (Eccl, x, 14) Non vi ha peccato alcuno nel quale l’uomo, che lo commette, non si levi orgoglioso contro di Dio, suo Creatore, suo sovrano e suo padre per dirgli: Non serviam; non ti voglio servire. Inoltre ogni peccato che comincia dalla superbia va a finire nel godimento materiale di qualche miserabile e fuggevole soddisfazione dei sensi. Questo è lo spaventevole mistero del peccato. Se adunque il peccato è orgoglio e soddisfazione dei sensi, con quali mezzi potrà e dovrà essere espiato? Non altrimenti che dai suoi contrari, vale a dire dall’umiliazione dello spirito e dal castigo dei sensi. Non altrimenti, no, perché la divina giustizia, che non può venir meno neppure per la divina misericordia, a perdonare il peccatore non può non esigere che egli si umilii e si castighi. Vi ha bisogno adunque che l’azione orgogliosa e piacevole ai sensi, quale fu il peccato, sia degnamente riparata da un’azione umiliante ed affliggente. E quale sarà quest’azione? Un rande filosofo cristiano ha scritto che « la coscienza universale riconosce nella confessione spontanea una forza espiatrice ed un merito di grazia, e che su questo punto non v’è che un sentimento, dalla madre, che interroga il suo fanciullo sopra un vaso rotto o sopra qualche ghiottoneria mangiata contro il divieto, al giudice, che interroga il ladro e l’assassino. » (DE MAISTRE. Del Papa, lib. III, c. 4) Sì, tutti riconoscono che il perdono non si ha da concedere se non a chi essendo pentito del male commesso, incomincia dal confessarlo e dal credersi degno di essere punito. La confessione adunque, la manifestazione spontanea delle nostre colpe, la disposizione ad espiarla con la debita penitenza, ecco l‘azione umiliante ed affliggente cui dobbiamo sottostare per essere perdonati da Dio. Ma perché questa manifestazione sia umiliante davvero a chi dovremo farla noi? Sì, io lo so, non mancano certi spiriti ignoranti e superbi che vanno dicendo: « Non potrebbe forse Iddio contentarsi che noi manifestassimo a Lui le nostre colpe, e che con Lui solo, senza bisogno di ricorrere ad altri, regolassimo le nostre partite? » Ma ciò, o miei cari, non sarebbe abbastanza conforme alla divina maestà oltraggiata, perché non vi sarebbe in noi un’umiliazione adeguata alla superbia del peccato. Ed in vero che cosa ci costerebbe pentirci in segreto ed in segreto confessarci a Dio solo? Nulla, menoche nulla. E Dio, che odia il peccato di un odio essenziale, Dio che rifulge per la sua santità e per la sua giustizia, avrebbe a contentarsi di questa umiliazione da nulla perdarci il suo perdono? Ed in questa umiliazione che è già nulla per il nostro spirito, quale castigo subirebbero i nostri sensi che devono pur essere castigati? Sapremmo noi ingiungere loro la dovuta penitenza? Il nostro amor proprio ci lascerebbe agire con giustizia? Il confessarsi adunque a Dio soltanto potrebbe ben parere maggior misericordia, ma non sarebbe in realtà, anche solo perché non umiliandoci e castigandoci abbastanza, non ci farebbe abbastanza comprendere la malizia infinita della colpa, né ce la farebbe abbastanza intestare e fuggire per l’avvenire. Occorre adunque che questa manifestazione, benché non in pubblico, per non violentare soverchiamente la nostra natura, sia fatta tuttavia apertamente ad un uomo, rappresentante di Dio e suo ministro, affinché noi che in nessun’altra guisa maggiormente ci umiliamo che facendo palese ad un altro uomo la nostra miseria, quella miseria che più d’ogni altra ci degrada e ci avvilisce, in questa umiliazione così profonda veniamo meglio a conoscere e riparare l’orgoglio che vi fu nel peccato e l’oltraggio che per esso facemmo al nostro Dio, e maggiormente lo detestiamo; ed in questa umiliazione che ci fa piegar le ginocchia e chinare la fronte dinnanzi ad un altro uomo e sottostare alle penitenze che egli crede di imporci, veniamo meglio a punire ed espiare la soddisfazione colpevole che si presero i nostri sensi peccando. La confessione adunque, la manifestazione delle nostre colpe al sacerdote sia pur umiliante, come si deve concedere, è pur tuttavia il mezzo più semplice, più proprio, più naturale di togliere da noi il peccato, di riconciliarci con Dio e di riguadagnare i diritti alla nostra eterna destinazione; e lo è appunto perché tanto ci umilia. Sì, perché tanto costa all’uomo scoprire tutta la malizia e la bruttura del suo cuore ad un altro uomo che la ignora, tanto più che satana, come dice S. Giovanni Crisostomo, ingrandisce fuor di misura la ripugnanza per la confessione, rendendoci tanto timidi e vergognosi a manifestare le colpe quanto ci aveva fatti arditi e sfacciati a commetterle, e persino a vantarcene all’altrui presenza, perché noi sacrifichiamo in tal guisa il nostro orgoglio, perciò noi siamo da Dio perdonati. Questa confusione che noi subiamo, questa vergogna, alla quale noi volontariamente ci sottomettiamo, è una vergogna ed una confusione salutare, che ci apporta la grazia di Dio e ci rende atti alla gloria del cielo: Est confusio adducens gloriavi et gratiam. (Eccl. IV) Certamente, o miei cari, non è questa nostra umiliazione per sé sola che adegui la malizia della colpa e ce ne ottenga il perdono. Quando tutti gli uomini si riducessero in polvere, non si umilierebbero abbastanza dinanzi a Dio, né gli darebbero il compenso degna di una sola colpa grave. Ciò che propriamente adegua gravezza infinita dei nostri peccati è l’umiliazione infinita cui volle assoggettarsi per noi Gesù Cristo coi misteri ineffabili della sua Incarnazione, Passione e Morte. Ed è propriamente solo per i meriti infiniti acquistati da Gesù Cristo che noi dobbiamo confidare di essere perdonati da Dio delle nostre colpe. Ma è pur sempre vero che alle umiliazioni ed ai patimenti di Gesù Cristo bisogna aggiungere le umiliazioni ed i patimenti nostri, essendo questo l’unico mezzo di renderci partecipi de’ suoi meriti infiniti. Ed è vero perciò ci la confusione e la vergogna nostra nella confessione, impregnata della umiliazione infinita di Gesù Cristo, è quella che ci placa la collera divina, appaga la divina giustizia, ci riamica con Dio e ci riapre le porte del cielo. Ecco adunque come 1° confessione, che per questo lato non sembra altro che la conseguenza della divina giustizia, è ad un tempo l’espressione più viva della divina misericordia, perciocché mentre per essa paghiamo alla divina giustizia in modo acconcio il nostro debito, conseguiamo altresì più prestamente, più sicuramente, più efficacemente la divina misericordia. Ecco come  Gesù Cristo, cavando fuori dalla ferita del Cuor suo Sacratissimo la Confessione, dandoci in essa il miglior mezzo per riparare il peccato, ci ha dato altresì una delle prove più belle, più grandi e più vere della sua bontà e del suo amore per noi. Egli ha fatto qui come il padre che, amando sinceramente il figlio, lo umilia e lo percuote per i suoi mancamenti, non già per la gioia crudele di vederlo umiliato e percosso, ma perché, subendo il figlio il meritato castigo, ei possa avere di nuovo la consolazione di stringerlo al suo cuore paterno e reintegrarlo in tutti i diritti della sua eredita.

III. — Finalmente, o miei cari, la bontà infinita del Cuore di Gesù nell’averci dato la Confessione si rivela ancora perciò che in essa ci ha dato il gran mezzo per rinnovare e perfezionare l’individuo e con l’individuo la società. La legge cristiana è per eccellenza legge di perfezione: essa si ritrova e si compendia in quella gran parola di Gesù: Siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste: Estote per/ecti, sicut perfectus est Pater vester, qui in cœlis est. Ma questa legge, che Gesù Cristo ha emanato con tanta chiarezza non è altro in fondo in fondo che la legge di natura che Egli ha stampato sopra di ogni essere. Noi adunque siamo tenuti alla perfezione, e non solo alla perfezione materiale ed intellettuale, ma molto più alla perfezione spirituale, in quanto che signore e sovrano di tutto il nostro essere è lo spirito. E questo spirito non altrimenti si perfeziona che adornandolo di quelle virtù le quali consistono nell’abitudine di evitare il male e di fare il bene, anzi il maggior bene possibile. Ma a compiere quest’opera di morale perfezionamento, basterà egli l’uomo da sé? No, senza dubbio: Egli abbisogna dell’aiuto della grazia di Dio, aiuto però che Iddio all’uomo non lascia mancar mai. E questo aiuto, di cui tuttavia per regola ordinaria Iddio vuol essere richiesto, o che non concede se non in premio di qualche merito, è quello pure che dà all’uomo in modo sovrabbondante nella confessione, essendo la confessione ancor essa una di quelle fonti salutari, di cui parlava il Profeta quando ci assicurava che con gaudio avremmo attinto le acque della grazia alle fonti del Salvatore: Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris. Ed in vero non è propriamente la confessione quella che anzi tutto rinnova l’uomo colpevole? Ecco lì un povero peccatore gravato di ogni iniquità: la sua anima dinnanzi agli occhi di Dio, a cagione della sua bruttezza è divenuta oggetto di nausea e di schifo; essa ha perduto il bell’ornamento della grazia e con esso tutti i meriti delle opere buone già compiute; è scaduta dal diritto del cielo ed è precipitata nel potere di satana. Ma questo povero peccatore, tocco della grazia di Dio, va a gettarsi ai piedi del suo ministro, col pentimento sincero delle sue colpe gliene fa l’umile confessione, il sacerdote, fremendo in spirito di sua indegnità, alza la mano grondante il Sangue preziosissimo di Gesù Cristo e pronuncia le parole dell’assoluzione. Ed ecco l’anima di quel Cristiano tutto ad un tratto ripigliare la sua bellezza ed il suo splendore, essere riadorna della grazia di Dio e riacquistare tutti i meriti perduti, rompere le catene della schiavitù infernale per rientrare nella libertà dei figliuoli di Dio, diventare di nuovo amica di Dio, degli Angeli e dei Santi, e riavere tutti i diritti alla beatitudine del cielo. Ah dite, si può immaginare una rinnovazione più bella, più grande, più ammirabile di questa? – Tuttavia non è questa rinnovazione soltanto che avviene nel Sacramento della penitenza, perciocché in questo Sacramento non vi è soltanto il pentimento e la manifestazione delle colpe per parte del penitente, e l’assoluzione per parte del Confessore, ma vi ha ancora l’ammaestramento individuale del legge cristiana, delle virtù e dei doveri propri ad ogni stato particolare. Sì, è vero, noi possiamo bene essere ammaestrati intorno agli obblighi della nostra fede da queste cattedre pubbliche di verità, dove i Sacerdoti parlano pur sempre a noi di Dio, ma per regola ordinaria da queste cattedre pubbliche non siamo ammaestrati che in modo generale e sopra i doveri comuni a tutti i fedeli. Lì invece nel Sacramento della penitenza, il Sacerdote, dopo che il impenitente gli ha manifesta le sue colpe e dopo che egli stesso, se l’ha creduto necessario si è fatto a scrutarne le cause e le occasioni, che fa egli ancora? Si fa ad illuminarlo con la luce delle sue acconce riflessioni, delle sue giuste ammonizioni, dei suoi santi consigli. E così a ciascuno in particolare addita la via da tenere, i pericoli da fuggire, le speciali virtù da praticare e i mezzi da adoperare. E così ancora il sacerdote, questo amico che ama sinceramente il bene di ogni anima, questo amico che non tollera ma compisce, che non adula ma incoraggia, che non scusa ma corregge, che non nasconde insomma la verità, ma la dice con un amore divino, intende non solo a rinnovare, ma ad abbellire e perfezionare le anime di coloro che si confessano. E difatti dopo gli ammaestramenti di questo amico così affezionato così sincero, quali meraviglie non si vedono? Senza dubbio, non tutti quelli che si confessano, sia perché non tutti si confessano come dovrebbero, e sia anche perché la confessione non rende impeccabili, vanno realmente operando in se stessi la loro perfezione, ma egli è certo tuttavia che se vi hanno dei giorni che si mantengono casti in mezzo ai più sfrenati eccitamenti di corruzione, delle fanciulle che resistono innocenti alle seduzioni del mondo, delle donne che compiono con nobiltà i loro doveri di spose e di madri cristiane, degli uomini che sono onesti nel vero senso della parola, che sono umili, pazienti, caritatevoli, generosi; se vi hanno anzi di coloro che nell’uno e nell’altro sesso avendo rinunciato alla propria volontà, ai propri averi, alle proprie famiglie, se ne vivono appartati dal mondo attendendo unicamente a rendersi veramente perfetti secondo il consiglio di Gesù Cristo, no, non li troverete altrimenti se non tra coloro che si confessano. Quelli che non usano della confessione o per essere acattolici o per essere Cristiani indifferenti e cattivi potranno bene farvisi innanzi ammantati della virtù, ma voi non penerete a riconoscere che la loro virtù vana ed apparente, è una virtù superba e sterile, o tutt’al più una virtù puramente umana, che non varrà mai a sollevarli una linea al di sopra di loro stessi e meno ancora ad inspirare in essi l’energia per rinnegare se stessi ed immolarsi a prò degli altri. – Ma nel mentre la confessione rinnova e perfeziona l’individuo che ne usa, tende altresì a rinnovare e perfezionare la società istessa. Perciocché la società non è essa forse l’aggregato di individui? Se per ragione adunque della confessione la società ha nel suo seno degli individui che operano il bene e vivono virtuosamente, non ne risentirà ancor essa il benefico influsso? Se» anzi vi fosse una società, i cui individui tutti si confessassero frequentemente e bene, non si potrebbe credere di vedere in essa una società perfetta? Sì, senza alcun dubbio; e in tale società per il rispetto all’autorità ed alla proprietà, per la carità vicendevole, che vi regnerebbe, tornerebbero inutili i gendarmi e si potrebbero diroccare le prigioni. Certamente i poteri umani con le leggi che emanano e con le punizioni che infliggono ai loro trasgressori, riescono fino a un certo punto a impedire e menomare i delitti. Bla niuno è che non vegga quanto numerosi e quanto gravi altresì siano i delitti che o per una o per altra ragione riescono a sfuggire all’azione delle leggi e delle punizioni. E così quella società che, pure arma ed impiega una metà di se stessa a governare l’altra metà, non riesce ancora a tener lontane da sé le invasioni della colpa e del disordine. Ma a ciò, cui non varrebbe neppure la società intera armata e spiegata contro di un solo individuo, perché questo solo individuo potrebbe se non altro covare in cuore mille iniqui pensieri contro la società, senza che essa li conoscesse, a ciò basterebbe la confessione, quella confessione in cui si raccomanda all’individuo di essere buono e virtuoso non solo per sé, ma ancora per la famiglia e per la società, quella confessione in cui si ingiungono non solo le virtù private, ma anche le virtù sociali e pubbliche, vale ai dire il rispetto ad ogni autorità costituita, il riguardo all’altrui proprietà, la restituzione del mal tolto, il perdono delle offese, il soffocamento dell’odio, la distruzione dell’egoismo, l’esercizio della carità, l’orrore per il vizio e la conseguente abolizione del libertinaggio. Tale sarebbe il benefizio che alla società renderebbe la confessione se fosse universalmente usata; tale è il benefizio che essa rende secondo la misura con cui è praticata; tale e mille volte più grande, perciocché quei sacerdoti, quei frati e quelle suore, che il mondo ingrato disprezza e tollera in pace perché non riesce a distruggerli, ma che pure lavorano indefessamente a bene della società, curandone tutte le piaghe, confortandola ne’ suoi bisogni e nelle sue infermità, accorrendo a soccorrerla nelle sue calamità e sempre istruendone i figli ignoranti, assistendo negli ospedali i suoi infermi, accogliendo negli ospizi i suoi orfani e i suoi vecchi, usando verso di essi le cure più affettuose e materne, questi uomini religiosi, dico, sono uomini tutti sostenuti, incoraggiati, rafforzati nella loro vita di sacrifizio per una società, benanco sconoscente, dalla voce di Dio che per il tramite del sacerdote ascoltano nella confessione. O vantaggi! o benefizi di questa divina istituzione! E chi mai riflettendovi alquanto non vede risplendere in essa tutta la bontà, tutto l’amore del Cuore di Gesù Cristo per gli uomini, e non vorrà corrispondere ad amore così grande col valersi sempre e bene di un tanto Sacramento? E come mai si potranno ancora comprendere coloro (e il loro numero è grande), che credendo all’esistenza di un Sacramento istituito da Gesù Cristo per risuscitarci, quando siamo morti alla vita eterna, amano meglio rimanere e sprofondarsi nelle tenebre, anziché ricorrere a questo rimedio infallibile, che hanno tra mano? Che dire di coloro che pur accostandosi a questo rimedio, lo convertono in fatale veleno col non portarvi la umiliazione dovuta, il dolor vero dell’animo, il proposito fermo di non cader più in peccato, col tacere volontariamente dei gravi peccati, la cui manifestazione è assolutamente indispensabile? Che dire soprattutto di quegl’insensati, i quali, invece di cadere in ginocchio davanti a questo capolavoro della divina clemenza, innanzi a questo frutto sempre duraturo della Passione di Gesù Cristo, si sollevano per esso a deridere, a bestemmiare, a calunniare la Chiesa, ad insultare, a vilipendere, ad odiare il sacerdozio? Ah! certamente non sarà così almeno di alcuno di noi, devoti del Sacro Cuore di Gesù! Sì, o Gesù clementissimo, noi apprezzeremo, esalteremo, benediremo mai sempre una prova sì grande del vostro amore. Sì, noi verremo ogni qual volta ne saremo in bisogno a questa fonte di misericordia e di salute che avete fatto zampillare dal vostro Cuore ferito. Noi ci verremo con la dovuta umiltà, con la dovuta sincerità, col dovuto pentimento delle nostre colpe. E voi, o pietosissimo Samaritano, degnatevi per mezzo di questo Sacramento di versare sempre copioso il balsamo della vostra grazia sopra le piaghe dell’anima nostra, di medicarle, di guarirle perché sani di mente e di cuore possiamo darci interamente al vostro servizio ed al vostro amore.

FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA CROCE (2019)

FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA CROCE (2019)

[Messale Romano di D. G. Lefebvre O. S. B.; L.I.C.E.- R. Berruti, Torino, imprim. 16 giu. 1936 Can. L. Coccolo)

Esaltazione della Santa Croce.

Doppio maggiore. – Paramenti rossi.

Il 14 settembre 320 si fece la consacrazione della basilica costantiniana che racchiudeva la sommità del Calvario e il $. Sepolcro. Fu allora, dice Eteria, che si scopri la Croce. Ed è per questo che si celebra l’anniversario con altrettanta solennità quanto a Pasqua ed all’Epifania ». Di qui ebbe origine la festa dell’Esaltazione della Croce. « Allorché sarò esaltato, attirerò tutto a me » (Vang.) aveva detto Gesù. E poiché il Salvatore si è umiliato, facendosi obbediente sino alla morte sulla croce, Dio l’ha innalzato e gli ha dato un nome al disopra di ogni altro nome (Ep.) Così dobbiamo gloriarci nella Croce di Gesù, perché è la nostra vita e la nostra salvezza (Intr.), e protegge i suoi servi dalle insidie dei nemici (Off., Comm., Postc). – Verso la fine del regno di Foca, Cosroe, re dei Persiani, si impadronì di Gerusalemme, fece perire molte migliaia di Cristiani e trasportò in Persia la Croce di nostro Signore, che Elena aveva deposto sul monte Calvario. Eraclio, successore di Foca, dopo aver implorato fervorosamente l’aiuto divino, riunì un’armata e sconfisse Cosroe. Allora egli esigette la restituzione delia Croce del Signore. Questa preziosa reliquia venne così ricuperata, dopo quattordici anni dacché era caduta in possesso dei Persiani. Di ritorno a Gerusalemme, Eraclio la prese sulle spalle e la riportò in gran pompa sul Calvario (630). Questo atto, secondo una tradizione popolare, fu accompagnato da uno strepitoso miracolo, Eraclio, carico d’oro e di pietre preziose, sentì una forza invincibile arrestarlo dinanzi alla porta che conduceva al monte Calvario, più faceva sforzi per avanzare, più gli sembrava di essere trattenuto. Poiché l’imperatore e con lui tutti i testimoni della scena erano stupefatti, Zaccaria, Vescovo di Gerusalemme, gli disse: « O imperatore, con questi ornamenti di trionfo, tu non imiti affatto la povertà di Gesù Cristo, e l’umiltà con la quale Egli portò la Croce ». Eraclio si spogliò allora delle splendide vesti, e toltosi i calzari, si gettò sulle spalle un semplice mantello e si rimise in cammino. Fatto questo, egli compi facilmente il resto del tragitto, e rimise la Croce sul monte Calvario, nello stesso luogo donde i Persiani l’avevano portata via. La solennità dell’Esaltazione della Santa Croce, che si celebrava già ogni anno in questo stesso giorno, prese allora una grande importanza, in ricordo del fatto che l’imperatore Eraclio aveva rimessa la Croce proprio nello stesso luogo dove era stata eretta la prima volta per la crocifissione del Salvatore ». — Uniamoci in ispirito ai fedeli che, nella chiesa di Santa Croce a Roma, venerano oggi le reliquie esposte del Sacro Legno, affinché, essendo stati ammessi ad adorare la Croce sulla terra in questa solennità, nella quale ci rallegriamo per la sua Esaltazione, siamo messi in possesso per tutta l’eternità della salvezza e della gloria che essa ci ha procurato (Or., Secr.).

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Gal VI : 14
Nos autem gloriári opórtet in Cruce Dómini nostri Jesu Christi: in quo est salus, vita et resurréctio nostra: per quem salváti et liberáti sumus [Ci dobbiamo gloriare nella Croce di nostro Signore Gesù Cristo: in cui è la salvezza, la vita e la nostra resurrezione; per mezzo del quale siamo stati salvati e liberati].Ps LXVI :2

Deus misereátur nostri, et benedícat nobis: illúminet vultum suum super nos, et misereátur nostri.

[Dio abbia pietà di noi e ci benedica: faccia brillare su di noi il suo volto e ci usi misericordia].

Nos autem gloriári opórtet in Cruce Dómini nostri Jesu Christi: in quo est salus, vita et resurréctio nostra: per quem salváti et liberáti sumus [Ci dobbiamo gloriare nella Croce di nostro Signore Gesù Cristo: in cui è la salvezza, la vita e la nostra resurrezione; per mezzo del quale siamo stati salvati e liberati].

Oratio

Orémus.
Deus, qui nos hodiérna die Exaltatiónis sanctæ Crucis ánnua sollemnitáte lætíficas: præsta, quǽsumus; ut, cujus mystérium in terra cognóvimus, ejus redemptiónis præmia in coelo mereámur.
Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum ….

[O Dio, che ci allieti in questo giorno con l’annua solennità dell’Esaltazione della S. Croce, concedici, Te ne preghiamo, che, come conosciamo in terra il mistero della Croce, cosí in cielo ne godiamo il frutto di redenzione.
Per il medesimo nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio,….]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Philipp II: 5-11

Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapinam arbitrátus est esse se æquálem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accipiens, in similitudinem hóminum factus, et hábitu inventus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: et donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nomine Jesu omne genu flectátur coeléstium, terréstrium et infernórum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris. [Fratelli: Abbiate gli stessi sentimenti che ebbe Gesù Cristo: il quale, essendo nella forma di Dio, non considerò questa sua uguaglianza a Dio come una rapina: ma annichilí sé stesso prendendo la forma di servo e, fatto simile agli uomini, apparve come semplice uomo. Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli diede un nome che è sopra ogni altro nome qui ci si inginocchia onde nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre].

Graduale

Phil II: 8-9
Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis.
V. Propter quod et Deus exaltávit illum, et dedit illi nomen, quod est super omne nomen. Allelúja, allelúja.
V. Dulce lignum, dulces clavos, dúlcia ferens póndera: quæ sola fuísti digna sustinére Regem coelórum et Dóminum. Allelúja. [
Per noi Cristo si è fatto ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
V. Per questo Dio lo esaltò e gli diede un nome che è sopra ogni altro nome. Allelúia, allelúia.
V. O dolce legno, amati chiodi, che sostenete l’amato peso: tu che solo fosti degno di sostenere il re dei cieli, il Signore. Allelúia

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XII: 31-36
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Nunc judícium est mundi: nunc princeps hujus mundi ejiciétur foras. Et ego si exaltátum fuero a terra, ómnia traham ad meipsum. (Hoc autem dicébat, signíficans qua morte esset moritúrus.) Respóndit ei turba. Nos audívimus ex lege, quia Christus manet in ætérnum: et quómodo tu dicis: Opórtet exaltári Fílium hóminis? Quis est iste Fílius hóminis? Dixit ergo eis Jesus: Adhuc módicum lumen in vobis est. Ambuláte, dum lucem habétis, ut non vos ténebræ comprehéndant: et qui ámbulat in ténebris, nescit, quo vadat. Dum lucem habétis, crédite in lucem, ut fílii lucis sitis. [In quel tempo: Gesú disse alle turbe dei Giudei: Ora si compie la condanna di questo mondo: ora il principe di questo mondo sarà per essere cacciato via. E io, quando sarò innalzato da terra, trarrò tutti a me. Ciò diceva per significare di qual morte sarebbe morto. Gli rispose la turba: Abbiamo appreso dalla legge che il Cristo vive in eterno: come dici allora che il Figlio dell’uomo sarà innalzato? Chi è questo Figlio dell’uomo? Disse allora Gesù ad essi: Ancora un poco è con voi la luce. Camminate mentre avete lume, affinché non vi sorprendano le ténebre: e chi cammina nelle tenebre non sa dove vada. Finché avete la luce, credete nella luce, per essere figli della luce].

OMELIA

[Non abbiamo trovato nessuna omelia più espressiva e bella del Cap. XII del II lib. dell’Imitazione. La proponiamo alla lettura e alla pia meditazione – ndr. -]

 [IMITAZIONE DI CRISTO,  trad. T. Canonico; P. Marietti ed., Torino-Roma 1924]

DELLA REGIA VIA DELLA SANTA CROCE

Lib. II, CAPO XII.

1. Dura sembra a molti questa parola (Joan. VI, 61) : « Rinnega te stesso, prendi la tua croce, e segui Gesù » (Matth. XVI, 24). Ma più duro assai sarà udire quell’estrema parola: « Lungi da me, o maledetti, nel fuoco eterno » (id, XXV, 41). Coloro che volentieri ascoltano adesso e seguono la parola della croce (1 Cor. I, 18),non temeranno allora di ascoltare l’eterna condanna (Ps. CXI, 6). Questo segno della croce sarà in cielo quando Iddio verrà a giudicare. Allora tutti i servi della croce, che in vita si conformarono al Crocefisso (Rom. VIII, 29), si accosteranno a Cristo giudice con grande fiducia.

2. Perché dunque temi di prendere la croce, mediante la quale si va al regno? Nella croce è la salvezza, nella croce è la vita, nella croce la protezione contro i nemici. Nella croce è l’infusione di soavità superna, nella croce il vigore della mente, nella croce la gioia dello spirito. – Nella croce è il compendio della virtù, nella croce è la perfezione della santità. Non v’è salute per l’anima, né speranza di vita eterna, fuorché nella croce. Prendi dunque la tua croce, e segui Gesù, e andrai nella vita eterna (Matth. XXV, 46). – Precedette egli portando la propria croce (Joan. XIX, 17), e per te in croce morì; affinché tu pure porti la croce tua, e desideri morire in croce. Poiché, se con Lui sarai morto, con Lui pure vivrai (Rom. VI, 8), e se sarai compagno a Lui nei dolori, lo sarai altresì nella gloria.  

3. Ecco che tutto sta nella croce, e tutto si riduce al morire; e non v’è altra via alla vita ed alla vera pace interiore, fuorché la via della santa croce e della quotidiana mortificazione. Va dove vuoi, cerca tutto ciò che ti piace; e non troverai al di sopra via più alta, né al di sotto via più sicura che la via della santa croce. Disponi ed ordina ogni cosa secondo il tuo volere e piacimento; e non troverai fuorché dover sempre soffrire qualche cosa, o per amore o per forza; e cosi troverai sempre la croce. – Poiché, o sentirai dolore nel corpo, o nell’anima sosterrai tribolazione di spirito.

4. Talora sarai abbandonato da Dio, talora sarai esercitato dal prossimo; e, ciò che più è, spesse volte sarai grave a te stesso (Job. VII, 20). Né potrai trovare rimedio che ti liberi, o conforto che ti sollevi; ma finché vorrà Iddio, conviene che ciò sopporti. Poiché Iddio vuole che tu impari a soffrire la tribolazione senza consolazione; affinché a Lui totalmente ti assoggetti, e per mezzo della tribolazione diventi più umile. – Nessuno sente così nel cuore la passione di Cristo come colui al quale sia avvenuto di soffrire siffatte cose. Dunque la croce è sempre pronta, ed in ogni luogo ti aspetta. Non puoi sfuggirla dovunque tu corra; perché da qualsiasi parte tu venga, porti teco te stesso, e troverai sempre te. Volgiti all’alto, volgiti al basso, volgiti al di fuori, volgiti al di dentro; in tutte queste direzioni troverai la croce. Ed è necessario che in ogni luogo tu conservi la pazienza, se vuoi avere la pace interiore e meritare la corona perpetua.

5. Se porti volentieri la croce, essa porterà te e ti condurrà al fine desiderato, dove cioè sarà fine al patire, benché ciò non sia quaggiù. Se la porti malvolentieri, te la rendi più pesante; nondimeno conviene che la porti. Se getti via una croce, ne troverai certamente un’altra, e forse più pesante.

6. Credi tu sfuggire a ciò che nessun mortale poté schivare? Qual santo fu al mondo senza croce e senza tribolazione? Neppure Gesù Cristo, Signor nostro restò, finché visse, un’ora sola senza dolore di passione. Conveniva che Cristo patisse e risorgesse da morte, e per tal modo entrasse nella sua gloria (Luc. XXIV, 46). E come mai cerchi tu altra via, fuori di questa via regia della santa croce?

7. La vita intera di Cristo fu croce e martirio: e tu cerchi gioia e riposo? T’inganni, t’inganni, se cerchi altra cosa che soffrire tribolazioni; perché tutta quanta questa vita mortale è piena di miserie (Giob. XIV, 1), e segnata intorno di croci. E quanto più altamente altri ha progredito nello spirito, tanto maggiori croci spesso egli trova; perché l’angoscia del suo esilio cresce in proporzione dell’amore.

8. Però chi è in tal modo variamente afflitto non resta senza conforto; perché sente che dal sopportare la sua croce gli deriva grandissimo frutto. Giacché, mentre si sottomette spontaneamente alla croce, tutto il peso della tribolazione si cambia in fiducia nella consolazione divina. E quanto più la carne resta domata dall’afflizione, tanto più lo spirito vien confortato dalla grazia interiore. E talora, pel desiderio di conformarsi alla croce di Cristo, si trova talmente fortificato dall’amore della tribolazione e dell’avversità, che non vorrebbe esser mai senza dolore e senza tribolazione; poiché si crede tanto più accetto a Dio (Libro di Tobia, XII, 13.), quanto maggiori e più gravi cose può per esso soffrire. Non è questo virtù dell’uomo, ma è grazia di Cristo, la quale tanto può ed opera nella fragile carne, che l’uomo col fervore dello spirito affronta ed ama quelle cose da cui naturalmente sempre abborre e rifugge.

9. Non è cosa naturale per l’uomo portare la croce, amare la croce, tener in freno il corpo e sottoporlo a servitù (1 Cor. IX, 27); fuggire gli onori, sopportar volentieri gli oltraggi, spregiar se medesimo e bramare di essere spregiato; sopportare con proprio danno ogni cosa avversa, e niente di prospero desiderare in questo mondo. Se guardi a te stesso, nulla di tutto questo potrai da te solo. Ma se confidi in Dio, ti sarà data fortezza dal cielo, e verranno assoggettati al tuo impero il mondo e la carne. Cheanzi non temerai neppure il nemico demonio, se sarai armato di fede e segnato colla croce di Cristo.

10. Mettiti dunque da buono e fedele servitore di Cristo a portar virilmente la croce del tuo Signore crocifisso per amore di te. Preparati a tollerare molte avversità ed ogni sorta d’incomodi in questa misera vita; perché così sarà di te dovunque tu sia, e questo è ciò che troverai realmente, dovunque tu ti nasconda. Bisogna che sia cosi: non c’è mezzo per uscire dalla tribolazione e dal dolore dei mali (Ps. CVI, 39), se non che tu soffra. Bevi con amore il calice del Signore, se vuoi essere suo amico ed aver parte con Lui (Joan. XIII, 8). Le consolazioni, rimettile a Dio: faccia Egli, quanto ad esse, come più a Lui piace. Ma tu disponiti a sostenere le tribolazioni, e tienile per grandi consolazioni; poiché i patimenti di questa vita non sono degni di meritare la gloria futura (Rom. VIII, 18), quando anche li potessi soffrir tutti tu solo.

11. Quando sarai giunto a tale, che la tribolazione ti sia dolce e soave per Cristo, allora pensa pure che le tue cose van bene; perché avrai trovato il paradiso in terra. Finché il soffrire ti pesa, e cerchi difuggirlo, sempre starai male. e dovunque fuggirà teco la tribolazione.

12. Se ti sottometti a ciò che devi essere, cioè a soffrire e morire, le cose andranno subito meglio, e troverai pace. Ancorché tu fossi rapito con Paolo fino al terzo cielo (2 Cor. XII, 2), non saresti sicuro perciò di non soffrire contrarietà. Io, dice Gesù, gli mostrerò quanto bisogna ch’egli soffra pel mio nome (Act. IX, 6). Soffrire adunque, soffrire ti resta se desideri amare Gesù e servirlo per sempre.

13. Piacesse a Dio che tu fossi degno di soffrire qualche cosa pel nome di Gesù! (Act. V, 41) quanto grande gloria ne verrebbe a te, quanta esultanza a tutti i Santi di Dio, e quanta sarebbe l’edificazione del prossimo! Poiché tutti raccomandano la pazienza, ma pochi vogliono patire. A buon diritto dovresti patir volentieri qualche cosa per Cristo, mentre molti patiscono tanto pel mondo.

14. Tieni per certo che ti conviene vivere in un morire continuo. E quanto più altri muore a se stesso, tanto più comincia a vivere a Dio (Gal. II, 19). Nessuno è atto a comprendere le cose celesti, se non si è prima sottomesso a sopportare cose avverse per amore di Cristo. Nulla è più accetto a Dio, nulla più salutare per te in questo mondo, che il soffrire volentieri per Cristo. E se fosse tua la scelta, dovresti preferire di soffrire avversità per Cristo, anziché avere il conforto di molte consolazioni; perché saresti più simile a Cristo e più conforme a tutti i Santi. – Il nostro merito ed il nostro progresso non ìstanno già in molte soavità e consolazioni; ma piuttosto nel sopportare grandi gravezze e tribolazioni.

15. Veramente, se vi fosse stato qualche cosa di meglio e di più utile alla salute dell’uomo che il patire, Cristo per certo l’avrebbe mostrato con la parola e coll’esempio. Poiché i suoi discepoli che lo seguono, e tutti coloro che desiderano seguirlo, manifestamente Egli esorta a portar la croce, e dice: « Se alcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé medesimo, prenda la sua croce, e mi segua» (Matth. XVI, 24). Dopo dunque di aver letto e meditato ogni cosa, sia questa la conclusione finale: Che per mezzo di molte tribolazioni ci conviene entrare nel regno di Dio (Act. XIV, 21).

Credo …

Offertorium

Orémus
Prótege, Dómine, plebem tuam per signum sanctæ Crucis ab ómnibus insídiis inimicórum ómnium: ut tibi gratam exhibeámus servitútem, et acceptábile fiat sacrifícium nostrum, allelúja. [O Signore, per il segno della santa Croce, proteggi il tuo popolo dalle insidie di tutti i nemici, affinché ti sia gradito il nostro servizio e accetto il nostro sacrificio. Allelúia].

Secreta

Jesu Christi, Dómini nostri, Córpore et Sánguine saginándi, per quem Crucis est sanctificátum vexíllum: quǽsumus, Dómine, Deus noster; ut, sicut illud adoráre merúimus, ita perénniter ejus glóriæ salutáris potiámur efféctu.  [A noi che dobbiamo essere nutriti dal Corpo e dal Sangue del nostro Signore Gesú Cristo, per mezzo del quale fu santificato il vessillo della Croce, concedi, o Signore Dio nostro, che, come ci permettesti di adorare tale vessillo, cosí perennemente ne sperimentiamo l’effetto salutare.]

Communio

Per signum Crucis de inimícis nostris líbera nos, Deus noster. [Per il segno della Croce, líberaci dai nostri nemici, o Dio nostro.]

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos sanctæ Crucis lætári facis honóre, ejus quoque perpétuis defénde subsídiis.
[Assistici, o Signore Dio nostro, e coloro che Tu allieti colla solennità della S. Croce, difendili pure coi tuoi perpetui soccorsi].

Per l’Ordinario:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

IL CUORE DI GESÙ (22): Il Sacro Cuore di Gesù e i peccatori.

(A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Torino, 1920)

DISCORSO XXII

Il Sacro Cuore di Gesù e i peccatori.

Iddio, o miei cari, è veramente infinito, epperò ammirabile in tutte le sue perfezioni. Se io getto lo sguardo nell’universo e contemplo il sole, la luna, le stelle, i monti, i mari, i fiumi, le piante, le erbe, i fiori, gli animali, gli uccelli, i pesci, e tutte le altre meraviglie, che egli ha creato con un semplice fiat, e rifletto che con un solo atto di volontà potrebbe creare mille altri mondi più belli e più meravigliosi di quello che esiste, fuori di me per lo stupore io esclamo: Mio Dio, quanto sei potente! Se poi considero l’ordine ammirabile che nella molteplicità infinita degli esseri regna mai sempre, sicché gli astri del firmamento nel loro aggirarsi intorno ad altri astri non escono mai dalla loro orbita, la terra compie sempre nello stesso tempo il suo giro, il mare rimane sempre racchiuso tra i suoi confini, gli animali e le piante si riproducono sempre secondo la medesima legge ed ogni cosa risponde al fine per cui fu creata, allora non mi contengo dal dire: Mio Dio, quanto sei sapiente! E se poi io rammento i terribili castighi con cui il Signore lungo il corso dei secoli ha punito le iniquità degli uomini, ora col diluvio, ora col fuoco mandato dal cielo, ora con le pestilenze, ora col terremoto, ora colla guerra, ora con altre calamità, allora santamente atterrito io grido: Signore, quanto è tremenda la tua giustizia! Sì, Iddio è veramente infinito, in queste e in tutte le altre perfezioni. – Ma sebbene Iddio sia infinito, epperò ammirabile in tutte quante le sue perfezioni, una ve n’ha tuttavia, che la Chiesa c’invita ad ammirare di preferenza, ed è la misericordia. Questa, dice la Chiesa, è propria in modo particolarissimo di Dio: Deus cui proprium est misereri semper et parcere. Anzi con questa, ella soggiunge, iddio fa manifesta quella tra lo sue perfezioni, che sembra colpire maggiormente i nostri sensi, vale a dire la sua infinita potenza; Deus qui omnipotentiam tuam miserando maxime manifestas. E così dicendo, la Chiesa va pienamente d’accordo col Santo Re Davide, il quale dopo di aver passati in rassegna i più grandi attributi di Dio finisce per esaltare più d’ogni altro la sua misericordia, proclamando che le sue miserazioni sono al di sopra di tutte le sue opere: Miserationes eius super omnia opera eius. (Ps. CXLIV, 9)

– Io non so, o miei cari, se si possa fare una considerazione più bella, più dolce, più consolante di quella della divina misericordia verso i poveri peccatori. Ma come non farla parlando del Cuore Sacratissimo di Gesù, che della misericordia di Dio verso i poveri peccatori è la manifestazione più splendida? Sì, esclama la Chiesa nel giorno sacro al Cuore di Gesù, valendosi delle parole del Santo Zaccaria: « Iddio ci ha visitati per le viscere della sua misericordia, » vale a dire per quel Cuore dato ai miseri, dal quale uscì fuori quella gran parola esprimente la sua speciale missione: Non veni vocare iustos, sed peccatores; (MATT. IX, 13) non son venuto a chiamare i giusti, ma bensì i peccatori. Gettando adunque anche oggi lo sguardo sopra le fiamme del Cuore di Gesù, che son pur fiamme di carità compassionevole, considereremo la sua misericordia divina verso i poveri peccatori.

I. — Ed anzi tutto la misericordia di Gesù Cristo verso dei poveri peccatori si manifesta nel sopportarli con pazienza infinita. E qui, o miei cari, per ben intendere questa verità, bisognerebbe poter prima intendere che cosa è il peccato e chi è quel Gesù Cristo, contro di cui il peccato è commesso. Ma noi colla debolezza della nostra intelligenza non arriveremo mai ad intendere né l’una cosa, né l’altra. Il santo Re Davide ben a ragione ha potuto fare agli uomini questa sfida: Delicta quis intelligit? ( XVIII, 13) Chi arriverà a comprendere la malizia che si racchiude in un grave peccato? Ed il Savio nel libro dei Proverbi ha detto pur bene: Qui scrutator est maiestatis opprimetur a gloria, (XXV, 27) Colui che si fa a scrutare la maestà di Dio rimarrà sotto il peso della sua gloria. Il peccato, ha detto S. Tommaso colla maggior energia che gli fu possibile, è un villano voltar di spalle aDio per darsi in braccio alle misere creature : Aversio a Deo et conversio ad creaturas. – Col peccato l’uomo, che non è altro che un pugno di fango,si ribella contro di Gesù Cristo, che è per l’appunto

il suo Dio, e gli dice col fatto: E chi sei tu che io abbia a seguir la tua legge, a praticare i tuoi precetti, a servirti nei tuoi voleri? Non serviam: non ti voglio servire. Tu micomandi di credere alla tua dottrina, ed io non vi voglio credere. Tu mi comandi di rispettare il tuo nome, ed io lo voglio disprezzare. Tu mi comandi di onorarti nei giorni festivi, ed io non ne voglio sapere. Tu mi vieti di far la vendetta, ed io voglio vendicarmi.T u mi proibisci di soddisfare le brame della mia carne, ed io le voglio soddisfare. Tu insomma mi vuoi fare da padrone,ma io non voglio farti da servo: non serviam, non serviam! Ma chi è Gesù Cristo Dio, contro di cui il peccatore insolentisce per siffatto modo? È il sovrano Creatore di tutto il mondo; e il Signore di maestà infinita, dinnanzi a cui si prostrano riverenti tutti gli Angeli del cielo, è quel Dio, che se col dito tocca i monti questi fumano, che se il capo accenna, trema l’universo. E questo Dio così potente non schiaccia subito il misero vermiciattolodella terra, che si leva ardito contro di lui ad insultarlo? non lo fulmina? non lo incenerisce? No, ma ordinariamente con ammirabile pazienza lo sopporta e ne soffre l’offesa. Così appunto si diportò sempre verso dei peccatori durante la sua vita mortale. I protervi giudei, non ostante che Gesù Cristo si fosse loro manifestato Dio in tanti miracoli operati alla loro presenza, lo ingiuriarono in mille guise: lo chiamarono indemoniato, impostore, mangione, bevone, sovvertitore di popoli; attentarono alla sua vita, e pensarono persino a gettarlo giù da un monte; infine gli misero le mani addosso, lo legarono come vil malfattore, lo trascinarono davanti ai loro tribunali, lo gridarono reo di morte e lo fecero condannare; e quando l’ebbero confitto sulla croce si fecero ancora ad insultarlo nel modo più atroce; eppure a tutte queste offese, egli che essendo Dio avrebbe potuto stritolare inun attimo i suoi offensori, pazientò sempre sino all’ultimo suo respiro.E la condotta così longanime che tenne durante la sua vita mortale non fu che un saggio di quella condotta, che avrebbe continuato a tenere per tutto il corso dei secoli. Oh bontà! Oh misericordia infinita! E perché mai egli sopporta il peccatore con tanta pazienza! Ah! cosa incredibile a dirsi, egli è perché lo ama. Mirate quella madre che stringe tra le sue braccia il suo bambino. Quel cattivo preso da mal talento insensatamente si adira contro di lei, si dibatte, e colle mani percuote e graffia il seno che lo allatta. Che tornerebbe più facile alla madre per vendicarsi di quell’affronto, che aprire le sue braccia e lasciar cader a terra il suo bambino? Ma lo fa essa? Ah! tutt’altro. Benché essa nell’animo suo soffra della collera del suo figlioletto e la detesti, essendo ella in diritto di non riceverne che baci e carezze, tuttavia lo tiene ancor serrato al seno perché  lo ama. E così fa Gesù Cristo. Egli odia, detesta il peccato; non vi ha nulla che odi e detesti maggiormente; ma il povero peccatore continua ad amarlo. E amandolo si fa persino a difenderlo. È ciò che diceva S. Agostino: Ego te offendebam et tu me defendebas: Signore, io insensato ti offendeva in milleguise, e tu pieno di misericordia ti facevi ancora a prenderele mie difese. Ed invero allorquando il peccatore si rivoltacol peccato contro di Gesù Cristo, tutte le creature come inorriditein certa guisa si presentano dinnanzi a lui come peressere armate da lui che è Dio ad ultionem inimicorum suorum,alla vendetta dell’oltraggio ricevuto. E la terra par che dica:Signore, lo vuoi? ed io son pronta a spalancare i miei abissi ed

inghiottire nel più profondo di essi l’insensato che ti ha offeso. – Il mare par che dica! Signore, lo vuoi? ed io son pronto a gettar fuori da’ miei confini le mie onde gigantesche e raggiungere lo sciagurato e travolgerlo in fondo ai miei gorghi, E il vento par che dica: Signore, lo vuoi? ed io son pronto a lanciarmi contro dell’infelice e ravvolgerlo nelle le mie spire e lanciarlo contro di un masso per farlo in pezzi. E il fuoco par che dica: Signore, lo vuoi? ed io son pronto a piovere dal cielo sopra il miserabile ed investirlo coi vortici dello mie fiamme e ridurlo in minutissima cenere. E gli Angeli par che dicano: Signore, lo vuoi? e noi siamo pronti ad impugnare le spade della tua giustizia, avventarci contro l’ingrato e trapassarlo da banda a banda. E Gesù Cristo?… Ah! mi vien per la mente Davide. Questo re poiché l’empio suo figlio Assalonne si era ribellato contro di lui, fu costretto di mandargli contro il suo esercito. Ma in sì dura necessità Davide non si dimenticò che era padre. Epperò mentre i suoi capitani schizzando sdegno anelavano il momento di vendicare l’oltraggiato genitore, egli piantatosi ritto sulla porta di Mahanaim, per dove a schiere di cento e di mille uomini uscivano i suoi soldati, con voce alta sicché anche questi intendessero, ai capitani Gioabbo, Abisai, Ethai andava dicendo: Sì, marciate pure contro le schiere nemiche, combattetele, distruggetele… ma per carità, deh! salvate, salvate la vita al mio figlio Assalonne: servate, servate mihi puerum Absalom(2 Reg. XVIII, 5) Così o miei cari, quando le creature quasi presentandosi a Gesù Cristo sembrano offrirsi ministre di vendetta contro l’insensato ed empio peccatore, Gesù col Cuore infiammato di amore e pieno di compassione per lui, con la sua volontà deliberata di non punirlo, viene a dir loro le stesse parole di Davide: No, non fate…, lasciatelo ancora in vita, risparmiatelo… giorno verrà, in cui la mia grazia lo toccherà… il suo cuore si ammollirà… egli conoscerà il suo delitto, e piangendolo amaramente farà di nuovo a me ritorno: servate, servate mihi puerum…, servate, servate mihi! Oh bontà, oh pazienza ineffabile! Ohmisericordia infinita! Ben aveva ragione il reale salmista diinvitarci a confessarla e benedirla: Confitemini Domino, quoniam bonus, quoniam in æternum misericordia eius. (Ps. CXXXV).

II. — Ma se la misericordia di Gesù Cristo ci appare già così grande nel sopportare con pazienza il povero peccatore, ci apparirà anche maggiore nel ricercarlo e chiamarlo che egli fa colla più viva sollecitudine alla penitenza. Ed in vero, dite, o miei cari: Se io conoscendo avere alcun di voi ricevuta una gravissima offesa da un suo fiero nemico, gli dicessi: Mio caro è certamente enorme l’oltraggio che hai ricevuto da quel temerario, ma pur tuttavia tu lo devi perdonare, né solo lo devi perdonare, ma gli devi andare incontro colle braccia aperte per stringerlo con affetto al tuo seno, e siccome egli fuggirà tu gli devi correre dietro e chiamarlo con la più forte insistenza, fino a che con le tenero tue voci abbia domato il suo cuore di pietra, e con la tua suprema generosità lo abbia indotto a gettarsi pentito al tuo seno; non è egli vero che assai facilmente mi sentirei a rispondere: Come? Che io corra dietro al mio nemico con le braccia aperte? Che io lo chiami con la maggior tenerezza possibile mentre egli ancora mi fugge e mi abborre? Ah! che io lo perdoni… passi; ma che io faccia tutto il di più che voi m’imponete… sarebbe troppo! Or bene è questo troppo appunto che Gesù Cristo nella sua infinita misericordia ha fatto e continua sempre a fare verso il povero peccatore. Mentre esso non si dà alcun pensiero della lontananza da Dio, in cui si è posto a cagione della colpa, mentre forse aggiungendo peccato a peccato se ne allontana sempre di più, Gesù Cristo è Egli stesso che con la più viva sollecitudine muove in cerca di lui, che lo rincorre, che lo chiama con tenerezza divina, che in mille guise lo sprona a far ritorno al suo Cuore. E di ciò non possiamo avere il minimo dubbio, giacché ce lo ha fatto conoscere lo stesso divin Redentore con le sue belle parabole. Un pastore, diceva Egli, menò al pascolo cento pecore. Stando per ricondurle a casa si accorge di averne solo novantanove. A quella vista è grandemente turbato, e non reggendogli il cuore di rimanersi con una pecora di meno, lascia le altre novantanove sul loro cammino; e andato per valli e per monti non si dà posa finché non abbia ritrovata la pecorella smarrita. Riavutala il suo cuore s’inonda di gioia, e senza punto percuoterla, anzi risparmiandole la fatica del viaggio, se la carica sopra le spalle, e la porta all’ovile. E giunto a casa chiama gli amici e i vicini, e dice loro: « Misero me! avevo smarrita una pecorella: ma ora rallegratevi meco, perché l’ho ritrovata. » E terminata questa bella parabola il divin Redentore interrogava così i suoi uditori: «Chi di voi, avendo perduta una pecorella non farebbe altrettanto.» Quasiché volesse dire: Se così fareste voi medesimi per nient’altro che per una pecora, come dunque non andrò Io in cerca di anime infelici, che, smarrita la via del Cielo, corrono invece per la via di perdizione, in procinto di essere da un momento all’altro divorate dal lupo infernale? Quindi a ribattere anche meglio questa verità, continuava: « Qual è quella donna, la quale avendo dieci dramme, perdutane una, non accenda la lucerna, e non iscopi la casa e non cerchi diligentemente, fino a che l’abbia trovata? E trovatala non chiami le auliche e le vicine, dicendo: Rallegratevi meco, perché ho ritrovata la dramma perduta? » Ma una tal verità più ancora che con le parole ce l’ha appresa coi fatti. Un giorno insieme co’ suoi Apostoli si recava dalla Giudea nella Galilea, passando per le terre dei Samaritani. Egli, che nulla faceva a caso, ma ogni sua operazione dirigeva a nobilissimo fine, studiava il passo, e pareva, che assai gli premesse di portarsi avanti come se ad un’ora determinata avesse un appuntamento con qualche persona. Dopo un cammino a piedi per parecchie ore, egli sul meriggio giunse presso la città di Sichem, e ivi siccome a termine del suo faticoso viaggio, si pose a sedere sopra la sponda di un pozzo. Gli occhi suoi parevano brillare di un’insolita gioia, ed un più vivido raggio di celestiale bontà traspariva dalla sua faccia divina. A che pensa dunque, a che mira Gesù? Egli pensa e mira all’acquisto di un’anima in preda al peccato; Egli sta colà aspettando una misera donna che, quale smarrita pecora, va errando lungi da Dio ed è caduta nello zanne dei lupi. Egli sa che tra poco ella deve arrivare colà ad attingere acqua, ed il buon Pastore ansioso l’attende per ricondurla all’ovile. – La misera donna arriva di fatto, si accosta al pozzo ed allo sconosciuto non ilice parola. Ma se ella non pensa a Gesù, Gesù, che la conosce, si prende ben cura di lei. Laonde riempitache ebbe la secchia, e mentre già sta per andarsene, Gesù pel primo le volge il discorso, e le domanda da bere, non già perché abbia sete di acqua, ma perché ha sete dell’anima sua; e con la più ammirabile pazienza, con le parole più amorevoli egli ricerca e richiama a sé quell’anima traviata, la fa pentire de’ suoi peccati, la converte e la salva. Or bene, quello che Gesù fece colla Samaritana, è presso a poco quello che fa con qualsiasi povero peccatore. Sono davvero ineffàbili le industrie con cui egli ne va in cerca, sono inesprimibili le voci tenerissime con cui a sé lo chiama. Volete farvi una più bella idea di questa consolantissima verità? Lasciate che qui vi ricordi quello che si legge di S. Giovanni, l’Apostolo della carità. Racconta Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, che mentre il santo Apostolo andava per l’Asia Minore fondando nuove chiese, venne ad imbattersi in un giovane di bell’indole e di spiriti vivaci, e riputandolo abile a far progressi nella cristiana perfezione, lo raccomandò caldamente e con grandi espressioni al vescovo della città, acciocché prendesse di lui tutta la cura. Il prelato, in esecuzione dei suoi ordini, lo prese nella sua casa, lo battezzò, lo istruì, lo educò col latte della pietà e della divozione. Sicché parendogli che fosse ornai venuto un devoto e perfetto Cristiano, cominciò a rallentare un certo rigore di domestica disciplina. Ma oh Dio! Quanto è debole la virtù nei giovani! Sentendosi quegli quasi gettata la briglia sul collo, a guisa di un puledro sfrenato, comincio a camminare dissolutamente per la strada del vizio, e passando da un peccato all’altro, da un eccesso minore ad un altro maggiore, arrivò a commettere ladronecci, assassinamenti e scelleratezze esecrande. Che più? Giunse fino a farsi capo d’una squadra di ladroni, ed occupato un monte vicino alla città, si diede ad insidiare alla vita ed alla roba dei passeggieri. Ecco i precipizi in cui si arriva a cadere quando dall’alto della perfezione si comincia a dare indietro. Intanto essendo ritornato il diletto Apostolo in quella città per affari ecclesiastici, domandò conto al Vescovo del giovane, commesso alla sua cura. Quegli, tratto un profondo sospiro dal cuore: È morto, disse. E di che morte, ripigliò S. Giovanni, temporale o spirituale? Di morte spirituale, soggiunse il Vescovo, e irreparabile; perché lo sventurato fattosi capo bandito, se ne va ramingo per le pendici del vicino monte. In udir questo l’Apostolo si stracciò per dolore la vestimenta; e poi: Presto, disse, mi si trovi un cavallo, ed una guida; e salito su quello si diede con gran fretta a cercare la pecorella smarrita. Appena però si avvicinò alle radici del monte, che subito fu fermato dalle guardie e messo in arresto. E questo appunto io bramava, disse a quei micidiali il santo, di cadere nello vostre mani: presto, conducetemi qui il vostro capo, perché o esso dovrà essere mia preda, o io la sua. Ma già da se stesso se ne veniva il giovane infelice coll’armi in mano, tutto accigliato nella fronte e pieno di mal talento nel cuore. Quando mirando da lungi il santo Apostolo, lo riconobbe, vergognandosi di se stesso, voltò le spalle e si diede alla fuga. Allora il santo, spronato il cavallo, si diede a seguirlo a briglia sciolta per quelle balze, e dimentico affatto del suo carattere e della sua età cadente, cominciò a gridare ad alta voce: Ferma, tiglio, ferina! E da chi fuggi? Da tuo padre? E di chi temi? È forse d’un vecchio imbelle, che altre armi non ha con cui ferirti, che quelle del suo amore? Ferma, figlio, non temere, non dubitare, che c’è speranza ancora di salute per te; ferma, l’erma! Da questi strali di amore, vibrati da quel tenerissimo cuore, rimase altamente ferito il misero giovane. Si fermò, si voltò, e fissando a terra gli occhi, vergognossi, gettò via le armi che aveva in dosso, si spogliò immantinente della fierezza che aveva nel cuore, e corse precipitoso a gettarsi ai piedi del santo vecchio. Quivi incominciò con sospiri, con gemiti e con un profluvio di lagrime a mostrargli il suo grande dolore. Solo però manifestandogli il suo pentimento, nascondeva nel seno la destra, rea di tanti morti e di tanto sangue innocente, che aveva sparso, in vederlo così contrito, il santo Apostolo precipitò da cavallo, si prostrò davanti al sanguinario, gli gettò le braccia al collo, e mescolando lagrime con lagrime, gemiti con gemiti, pianto con pianto: Non temere, gli diceva, figlio mio, che io con solenne giuramento ti prometto d’impetrarti da Gesù il perdono delle tue colpe. E finalmente cavatagli dal seno la mano rea di tanto sangue, per eccesso di tenera pietà si pose a baciargliela replicatamente. Ricondottolo poscia alla chiesa non solo lo ripose sul sentiero della virtù cristiane, ma lo condusse a tanta perfezione, che poscia poté e volle crearlo Vescovo di quella città. – Ebbene, dove mai S. Giovanni aveva imparato a richiamare per siffatto modo i peccatori? Dove? Alla scuola di Gesù, posando il capo sopra il suo Cuore Sacratissimo nell’ultima cena. Se tale pertanto fu la sollecitudine del discepolo, quale non sarà mai quella del Maestro? Se con tanta insistenza e tenerezza S. Giovanni ha rincorso e chiamato il peccatore al pentimento, chi potrà dire con quale insistenza e tenerezza lo rincorra e lo chiami Gesù Cristo? Oh sì! egli lo rincorre e lo chiama con quelle sante inspirazioni, con quel buon libro che come per caso gli fa cadere sott’occhio, con quella predica che gli fa ascoltare, con quella parola che forse è uscita involontaria dal labbro del predicatore e che egli ha forse anche creduto guastare il suo discorso. Egli lo rincorre e lo chiama colle preghiere di una madre, coi gemiti di una sposa, Coi dolci lamenti di una sorella, cogli sguardi di un innocente fanciullo, colle esortazioni di un amico sincero. Egli lo rincorre e lo chiama colla voce della Chiesa, che in certi tempi si fa più grave e supplichevole, ripetendo ad ogni istante: « Ecco il tempo propizio, ecco i giorni di salute; eh! l’empio abbandoni le sue vie e l’uomo ingiusto rinunzi a’ suoi malvagi pensamenti. » Lo rincorre e lo chiama coi ricordi cristiani di una santa fanciullezza, coi crudi rimorsi, con le improvvise tristezze, con gli amari disinganni, con le vive agitazioni, con le insoffribili smanie che l’assalgono in mezzo all’ebbrezza medesima dei godimenti. Lo rincorre e lo chiama. Sì, quando non basta ancora la voce dell’amore, egli chiama con la voce tonante del castigo, che alla fin fine non è altro che l’ultimo spediente della sua inesauribile bontà. Rammenti,o Cristiano, quei rovesci di fortuna? quelle calunnie? quei tradimenti? quella malattia? Rammenti quei feretri, che involavano i tuoi amori fulminati dalla morte? Tu credevi che fosse la giustizia di Dio, ed era invece la misericordia del Cuore di Gesù, che menava l’ultimo colpo al tuo induramento, era la sua voce tutta piena di tenerezza e di compassione per te, che ti diceva nel modo più efficace: Convertere, convertere ad Dominum Deum tuum: convertiti, convertiti al Signore Iddio tuo. Oh bontà! oh misericordia infinita del Cuore di Gesù verso del povero peccatore! E quasi ciò non bastasse ancora, la misericordia di Gesù Cristo, come dice S. Catterina da Siena, perseguita con le sue chiamate il peccatore fino al momento supremo dell’agonia, in cui sospeso tra la vita e la morte non sembra più appartenere alla terra. Allora, un’ultima volta, in un mistero di bontà inesplicabile, il Cuore di Gesù, Creatore e Redentore delle anime si affaccia e gli dice: Figlio, vuoi essere mio? Ahimè! vi hanno di coloro che rispondono di no! Ma quanti vi saranno che a questa prova estrema di amore risponderanno di sì, e sfuggiranno per tal guisa all’eterna dannazione! Confessiamo, confessiamo chela misericordia di Gesù Cristo è infinita: Confitemini Domino, quoniam bonus, quoniam in aeternum misericordia eius.

III. — Ma infine dove spicca maggiormente la misericordia di Gesù Cristo verso i poveri peccatori si è nell’accoglierli con bontà e con gioia al tutto paterna, quando a lui ritornano sinceramente pentiti. E anche qui non potremmo intendere meglio questa dolcissima verità che dalla bocca stessa del divin Redentore in quella parabola sempre antica e sempre nuova, sempre sublime e sempre commovente, la parabola del figliuol prodigo. « È un padre, che ha due figli. Il minore si presenta a lui e gli dice: Padre, dammi la mia parte di eredità che mi spetta, che io sono stanco di stare in casa tua: me ne voglio andare lontano. – Ma, figlio, perché queste parole? t’ha fatto qualche cosa tuo padre da trattarlo così? – Tant’è, dammi la parte di eredità che mi spetta: torno a dirti che me ne voglio andare. E il buon padre eccolo a dividere le sue sostanze e dare a quel figlio la sua porzione. E lui, lo sciagurato, voltare villanamente le spalle a suo padre e andarsene in lontano paese, e là, cogli amici, nei bagordi e nelle scostumatezze dissipare tutta la sua sostanza. Sicché ben presto si trova nella miseria e sente lo stimolo della fame, tanto più che in quel paese è sopravvenuta la carestia. E come fare adesso per campare la vita? Gli amici, così numerosi nel tempo del godere, ora tutti l’hannoabbandonato. Come fare adunque? È costretto a porsi da servitore presso un duro padrone, che lo manda al pascolo di animali immondi, e per paga non gli dà che un tozzo di pan nero, sicché si trova al punto d’invidiare le ghiande a quei sozzi animali che pascola. Povero figlio, a che stato è mai ridotto! Ma in quello stato egli ritorna col pensiero a casa di suo padre. Seduto forse sotto di una quercia, appoggiata la testa al suo bastone egli pensa e ripensa: Oh quanti, non più che servi in casa di mio padre, abbondano di pane, ed io qui… qui mi muoio di fame. Ma dunque vorrò durarla a lungo una vita così infelice? E che fare? Tornare da mio padre? E perché no? Mio padre è buono, oh lo conosco bene il suo cuore: mi getterò ai suoi piedi, li bagnerò di lagrime, gli dirò: Padre, perdono! ho peccato contro il cielo e contro di te, non son più degno di essere chiamato tuo figlio: abbimi per l’ultimo dei tuoi servitori. E mio padre… mio padre mi perdonerà. Surgam Surgam et ibo ad patrem meum. E sorge; pianta là quel branco di animali, si getta attraverso il bosco, guadagna la strada maestra, cammina, cammina, corre… Ma il padre, oh padre amoroso! da quel dì che suo figlio s’era allontanato da lui, non aveva avuto più pace. Tutti i giorni si portava sul terrazzo del suo castello, e di là spingeva lo sguardo per tutte le vie, che vi mettevano capo, per vedere se caso mai… Ma quel giorno, dopo aver alquanto guardato, vide là in fondo ad una via una persona che si avanzava…’Man mano che si avvicinava,nell’andatura, nel movimento gli pareva… ma intanto che si ingannasse come le altre volte? No; gli pareva proprio lui: il cuore glielo diceva: batteva così forte! Ma pure… cominciava a vederlo tutto lacero, pezzente… Ah non era così mio figlio quando è partito… Eppure, sì, sì, è lui: lo riconosco già ai lineamenti. E qui il povero padre, dimentico della sua età correre giù frettoloso le scale, uscire di casa, andargli incontro. Ah! il figlio non ha quasi tempo a gettarseli ai piedi per dirgli piangendo: Padre, perdono: ho peccato contro il cielo e contro di te; non son più degno d’essere chiamato tuo tiglio; cheil Padre gettatosi al suo collo, pieno della più grande compassione lo bacia. Poscia gridando ai servi: Presto, dice, portate la più bella veste, e indossategliela: mettetegli l’anello in dito e i calzari ai piedi: ammazzate il vitello più grasso, invitate i parenti, gli amici, le musiche, mangiamo e stiamo allegri, perché questo mio figliuolo era morto ed è resuscitato, l’aveva perduto e l’ho ritrovato. E si cominciò a banchettare. E intanto il figliuolo maggiore tornando dalla campagna e sentendo tutta quella allegria interroga uno dei servi: Che cos’è questa festa? – Come, non sai? È tornato tuo fratello. – Quello scioperato? – E non voleva saperne di entrare nella sala del convito. Ma il padre avvisato esce fuori e si fa a pregarlo. Ed egli: Ma, padre, io vi sono sempre stato ubbidiente da tanti anni, e voi non mi avete mai dato un sol capretto da banchettare co’ miei amici, ed ora cheè tornato quello sciagurato di mio fratello fate sì gran festa? Figlio mio, non dire così: tu sei sempre con me, e tutte le cose mie sono anche tue; ma quel tuo fratello era morto ed ora è risuscitato, l’aveva perduto ed ora l’ho ritrovato. Vieni, vieni dunque anche tu a rallegrarti con noi. » – Così, o miei cari, così Gesù benedetto descriveva Egli medesimo la festosa accoglienza che Iddio fa al peccatore convertito. Così comprovava la verità di quella sentenza da Lui pronunziata poco più innanzi nel Santo Vangelo: Sì, io vi dico che si fa maggior festa in cielo per un peccatore che si pente, che non per novantanove giusti, che non, abbisognano di penitenza. Oh certamente! Gesù Cristo è buono ed infinita è la sua misericordia: Confitemiiti Domino, quoniam bonus, quoniam in æternum misericordia eius. Senza dubbio Gesù Cristo non poteva darci un’idea più viva della bontà e della gioia con cui accoglie al suo Cuore un peccatore che sinceramente pentito faccia a Lui ritorno. Tuttavia per farci sempre maggiore animo, alle parole volle aggiungere, i fatti. Ne abbiamo, anche qui, una prova nel Vangelo istesso riguardo ad un’altra donna, non meno peccatrice della Samaritana, anzi così peccatrice, che con tal nome era comunemente designata, e il Vangelo stesso la disse posseduta da sette demoni, cioè rea di ogni peccato. Orbene Gesù predicava un giorno nella Galilea, quando Maddalena, tratta dalla gran fama del nuovo Profeta, si decise di andarlo a udire. Oh fortunata decisione! Oh felicissimo pensiero! Alle parole che da quel labbro divino uscivano così efficaci sulla vanità degli onori terreni e dei piaceri del senso, al discorso così eloquente sulle ricchezze della bontà e misericordia di Dio, e soprattutto a quel dolcissimo invito: Venite a me tutti, o peccatori e peccatrici, che siete oppressi sotto il peso delle vostre colpe, ed io vi darò a gustare quella pace, che indarno cercate nelle vanità e nei piaceri del mondo; a questi insomma e ad altri simili detti la peccatrice famosa sentissi tocca nel profondo del cuore. Ella concepisce tosto un sì vivo dolore de’ suoi peccati, che non potendo più rattenersi comincia a versare dagli occhi come un torrente di lagrime. Si porta quindi subitamente a casa, getta via gli ornamenti di lusso, si scompiglia i capelli e dato mano ad un vaso di alabastro pieno d’unguento prezioso va di nuovo in cerca di Gesù. E saputolo nella città di Naim a pranzo in casa di Simon fariseo, in compagnia di ragguardevoli personaggi, ella, senza umani rispetti, si porta colà. Ed entra nella sala del convitto, si getta ai piedi di Gesù, glieli bagna con le lagrime del dolore, glieli asciuga con i suoi lunghi capelli, glieli profuma col suo prezioso liquore, glieli bacia con ardentissimo affetto. E Gesù! Gesù tollera che una donna così peccatrice e scandalosa lo tratti con una confidenza siffatta, quale appena si potrebbe permettere ad un’anima stata sempre innocente? E non le rinfaccia i suoi molti peccati? e non la manda prima a riparare gli scandali? non le impone di scostarsi da Lui? e non le impedisce di toccarlo? Così pensa nell’animo suo il Fariseo, perché tutto ciò non gli par prova che Gesù sia un gran profeta. Ma non così la pensa Gesù, che pieno di gioia indicibile nel vedere pentita ai suoi piedi quella povera Maddalena non solo ve la lascia e la rimira con occhio benigno, ma tosto la difende contro del Fariseo superbo, che di lei mormorava, la dimostra già migliore di lui, perché piena di contrizione e d’amore; quindi le dice la gran parola di perdono: Remittuntur tibi peccata. Fides tua te salvam fecit, vade in pace. (Luc. VII, 48, 50) Ti sono rimessi i peccati.La fede che opera mediante la carità, ti ha fatta salva; vannein pace. Né qui ebbe fine la bontà di Gesù con la penitenteMaddalena. Egli, in seguito ancora, trattolla come se nonavesse peccato giammai; l’ebbe ognora carissima, come sefosse sempre vissuta quale un’anima innocente. Gradì i servigidi lei, le permise che lo seguitasse con altre pie donne, eprovvedesse ai bisogni del Collegio apostolico. E morto Lazzarosi recò in Betania per consolarla, anzi ai prieghi, allelacrime sue, operò il più strepitoso miracolo, richiamandolea vita il fratello da quattro giorni morto e sepolto; dopo lasua Risurrezione gloriosa a lei apparve in modo tutto particolare,e prima ancora che agli stessi Apostoli. Ora un amoresì grande verso un’anima un dì rea di tanti peccati, non èforse una prova la più evidente della bontà sommamente paterna,con cui accoglie a sé i peccatori pentiti?Che altro dunque ci vuole, o sventurati e carissimi peccatori,per animarvi a ritornare tra le braccia di Dio? Ah!Se il Cuore di Gesù vi ha oggi chiamati ad ascoltar la suasanta parola, deh! non tardate più un istante a rifugiarvi in

lui: ad Cor reclusum vulnere, ad mite Cor accedite. Questo Cuore santissimo per ciò appunto è aperto, per facilitarvi l’entrata in esso. Andate a gettarvi ai piedi del suo ministro, e col pentimento sincero e colla santa confessione delle vostre passate colpe riacquistate la sua grazia e la sua amicizia. Ah sì, è vero, per chi da gran tempo vive lontano da lui, questo primo passo sarà duro! ma se egli lo darà risoluto, il Cuore di Gesù farà il resto. Oh quante volte, benché ministri indegni del Signore, abbiamo veduto queste meraviglie della sua bontà! Erano poveri peccatori che da quindici, venti, quarant’anni non si erano più confessati mai… e poi tocchi dalla grazia di Dio, facendosi pure un’estrema violenza venivano a gettarsi ai piedi del sacerdote, e cominciata appena l’accusa delle loro colpe davano in tali scoppi di pianto, che costringevano a dire: Ah! qui vi è veramente la mano, o meglio ancora qui vi è il Cuore di Dio! Ma quelle lagrime non erano soltanto di rammarico della passata vita, erano pure lacrime di consolazione, ed assai più che tutti i più eloquenti discorsi dicevano: Oh quanto è buono Iddio! Quanto è misericordioso Gesù! Come è dolce il ritornare al suo seno e a vivere in casa sua! Coraggio, coraggio adunque! Oggi il buon Gesù, col suo Cuore pieno di carità per voi, vi fa una chiamata decisiva, e beati voi se l’ascolterete! Ma se per isventura induriste il vostro cuore… Ah! Timeo Dominum transeuntem, esclama S. Agostino: temo il Signore che passa. Quando Gesù, chiama e richiama, non si sente mai a rispondere, vede anzi le sue chiamate accolte con indifferenza glaciale, disprezzate, si stanca ancor egli: Curavimus Babylonem et non est sanata, derelinquamus eam. (GER. LI, 9) L’abbandono, ecco il terribile castigo, con cui Gesù Cristo punisce chi si fa indocile alla misericordia del suo Cuore. Non più adunque, o Gesù mio. Abbastanza sono stato lontano da Voi. È tempo, che a voi ritorni pentito. Lo so, non sono più degno d’essere chiamato vostro figlio! Caro Gesù! Quanti peccati ho commessi! quante offese vi ho recate! Ma Voi siete buono, volete che speri in Voi, me lo comandate, ed io obbedisco. Mi getto ora nel vostro Cuore Santissimo, per cantarne poi in eterno la sua misericordia.

IL CUORE DI GESÙ (21): Il Sacro Cuore di GESÙ e la gioventù.

CUORE DI GESÙ

 (A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Torino, 1920)

DISCORSO XXI

Il Sacro Cuore di Gesù e la gioventù.

Io non so chi vi sia tra di voi, già alquanto innanzi nel cammin della vita, che non si senta turbato e commosso nel vedersi dinnanzi un fanciullo od un giovane. Perciocché che cosa sono questo giovane e questo fanciullo? Essi sono un germe, che racchiude un molteplice avvenire; l’avvenire di loro stessi, temporale ed eterno, l’avvenire della famiglia, che un dì formeranno, l’avvenire della società, alla quale apparterranno e la cui vita avranno essi nelle mani. E a un tanto pensiero come non turbarsi e commuoversi nel vedere un fanciullo od un giovane? La Sacra Scrittura ne insegna apertamente, e l’esperienza quotidiana il comprova, che il giovane, presa che ha una buona via, più non si allontana da quella, nemmeno nella sua vecchiaia: Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet ab ea. (Prov. XXII, 6) Sicché come è vero in generale, che se il giovane è buono, lo sarà ancora in seguito non solo per sé, ma pur in prò della famiglia e delia società, così è verissimo, che se il giovane è tristo, lo sarà pure negli anni ulteriori e per sé e per la famiglia e per la società. E dopo di ciò qual meraviglia, che tra gli amori speciali, di cui si mostrò infiammato il Cuore Santissimo di Gesù Cristo, tenga un posto principalissimo quello, che Egli ebbe verso la fanciullezza e la gioventù? Del che. leggendo il Vangelo, non possiamo avere alcun dubbio. Il Vangelo ci apprende, che a Gesù presentavano dei fanciulli, affinché imponesse loro le sue mani divine e li benedicesse, e cercando gli Apostoli d’impedirlo, loro diceva: « Lasciate che i fanciulli vengano a me, e non vogliate impedirli, perché di essi è il regno dei cieli. » (MATT. XIX) il Vangelo ci apprende, che Gesù Cristo un giorno pronunziò un terribile guai: « Guai a chi darà scandalo ad un fanciullo, che crede in me. Piuttosto di dare scandalo siffatto, meglio sarebbe che il disgraziato si legasse una pietra da molino al collo e con quella andasse a gettarsi nel profondo del mare. » Il Vangelo ci apprende, che Gesù Cristo ha detto ancora: « Guardatevi dal disprezzare alcuno dei fanciulli, perciocché io sono venuto a salvarli, e i loro Angeli custodi, che sempre veggono il volto del Padre mio, chiamerebbero sul vostro capo un’aspra vendetta. » ( MATT. XVIII) Infine il Vangelo ci apprende ancora, come Gesù Cristo abbracciando col suo amore i fanciulli e i giovani di tutti i tempi pronunziò quella grande parola creatrice delle più grandi opere a prò della gioventù, quella parola che ha suscitato gli Ignazii di Loyola, i Calasanzii, i Zaccaria, i Gerolamo Emiliani, i Giovanni Bosco, quella parola che ha allargato le braccia della Chiesa ad accogliere al suo seno con maggior predilezione i giovani per istruirli, per proteggerli, per salvarli: « Chiunque riceverà in mio nome un fanciullo, sarà come ricevesse me stesso: Qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo, me suscipit. (MATT. XVIII, 5) Ah! prima che Gesù Cristo pronunziasse questa gran parola, nessuno si pigliava cura della gioventù e l’amava di un amor vero. E sebbene un retore pagano avesse riconosciuto che al fanciullo si deve massima riverenza, tutta via la gioventù non era riguardata che quale elemento di forza materiale, e, cosa orribile a dirsi, siccome pascolo di nefande passioni. Quale carità adunque non ebbe mai Gesù Cristo per la gioventù, illuminando gli uomini sul valore di questo brillante stadio dell’età umana! Ma, oh Dio! dopo diciannove secoli di Cristianesimo qual è il conto che fa la gioventù della carità di Gesù Cristo per lei? Rammentando che oggi la Chiesa onora e festeggia un giovine, che la carità di Gesù Cristo ricambiò con l’amore più ardente e più puro, e venendomi innanzi l’opposto e miserando spettacolo, che presenta la gioventù irreligiosa e scostumata dei nostri giorni, mi par conveniente farvi rilevare oggi come molta gioventù mal corrisponda alla carità di Gesù Cristo per lei.

I. — Qual è adunque il conto, che fa oggidì la gioventù della carità di Gesù Cristo per lei? Nessuno. Oggidì la gioventù non ama Gesù Cristo; a quindici, a diciotto, a venti la gioventù non prega più, non v a più a messa, non s’accosta più ai Sacramenti, non fa più pratiche religiose. E non solo la gioventù non ama Gesù Cristo e non si cura della sua religione; ma, cosa orribile a dirsi, eppur vera, la gioventù oggidì non crede più a Gesù Cristo e lo disprezza. Ecco quello che fa oggidì un giovane a quindici, a diciotto, a vent’anni. Se egli è un giovane del popolo, ai crocicchi delle vie, agli angoli delle piazze, tra i lavori dell’officina, non fa uscir dal suo labbro che bestemmie le più orribili contro di Dio, di Gesù Cristo, della Vergine e dei Santi, insulti i più bassi e vigliacchi contro la Chiesa e i suoi ministri, discorsi i più scellerati ed immorali, da far fremere di orrore l’aria che li ascolta. Se egli poi è un giovane di più elevata condizione, benché non così rozzamente e rabbiosamente, tuttavia forse anche con maggior colpevolezza, perché con maggior raffinatezza e malizia, compie verso di Dio e di Gesù Cristo lo stesso dileggio. Egli è uscito appena dall’infanzia, ma perché in una scuola tecnica o liceale ha già apprese qualche po’ di latino e di greco, qualche po’ di fisica e di matematica, qualche squarcio di storia antica e moderna, e soprattutto perché egli ha letto qualche libercolo più o meno spiritoso contro il Cristianesimo, qualche osceno romanzetto, si pone con baldanza in faccia a Gesù Cristo e alla sua Religione, e dice senz’altro: Impostura, menzogna, follìa, superstizione, tenebre! Sì, così parla e sentenzia questo giovane; e mentre le verità della fede per diciannove secoli di Cristianesimo hanno occupate le menti dei più grandi geni, e sono state l’oggetto della loro più profonda ammirazione, questo giovane a quindici, a diciotto, a vent’anni, non ancora capace di seriamente studiare e riflettere, e senza aver punto studiato e riflesso, le giudica follle e le rigetta con disprezzo. Ah! miei cari, non si è mai veduto alcunché di simile, non mai è accaduto un fatto così lagrimevole. In altri tempi, giacché le passioni non sono di oggi, il vizio penetrava ben anche nel cuore dei giovani; in altri tempi venivano ben anche trasandate dai giovani le pratiche di Religione, ma la fede cristiana in fondo all’anima rimaneva, e il perderla affatto era cosa assai rara, di qualche individuo isolato. Oggidì invece… la gioventù più non crede. – Ma non è tutto. Nel tempo stesso che questa gioventù respinge e disprezza la fede di Gesù Cristo, ne respinge e disprezza la morale, anzi è appunto perché ne conculca la morale, che, ne rigetta la fede. La superbia dell’animo e la corruzione della carne, ecco ciò che tutti lamentano oggidì nella gioventù. Per essa non vi ha più alcun giogo che valga, trattisi pure dei più ragionevoli e necessari. In famiglia spadroneggia i genitori, che oggimai anziché padri e madri, son divenuti miseri schiavi ai capricci dei figli; nella scuola s’impone ai professori, ai quali cogli urli e coi fischi nega a suo piacere il diritto di far lezione, e di farla in un modo piuttosto che in un altro; nella società si rivolta contro lo stesso pubblico potere, e con gazzarre e tumulti per poco gli si fa a dettare la legge. E con la superbia dell’animo la corruzione della carne. Indarno, gettando lo sguardo sull’odierna gioventù voi cercate di scoprire in essa qualche tratto, che annunzi il minimo senso cristiano: l’immodestia del contegno e del portamento, l’occhio impudente e inverecondo, il parlare frivolo ed osceno, la frenesia pei liberi divertimenti, la voluttà per tutto ciò che inebria i sensi, tutto rivela che il vizio la domina e la corrode. Ed ahi! non di rado questa terribile rivelazione ò fatta da una fronte solcata di rughe premature, da occhi smorti ed incavati, da labbra impotenti a ritrarre il sorriso della bontà, da un volto insomma, che nella primavera della vita già porta sopra di sé le ingiurie del tempo, ed annunzia vicino lo schiudersi di una tomba. Ah! senza dubbio non è a dire che sia così di tutti i giovani. Guai se lo fosse! Giovani credenti, umili e ben costumati, per grazia di Dio, ve ne sono ancora. Come l’antichità pagana ci ha mostrato il grande e bello spettacolo del giusto, che rimane imperturbato in mezzo alle rovine del mondo crollante a’ suoi piedi: Et si fractus illabatur orbis impacidum ferient ruinæ; così l’ora presente ci mostra uno spettacolo più bello e più grande ancora, quello di un giovane, che ama Gesù Cristo, che lo crede, che lo confessa con sincerità e coraggio nelle parole e nei costumi non ostante il soffio delle proprie passioni e le terribili seduzioni del mondo. E se vi ha uno spettacolo, che tranquilizzi alquanto, che ravvivi la speranza e consoli l’anima è questo appunto di una gioventù credente e casta, che passa in mezzo al mondo come una soave emanazione del cielo, come Lot in mezzo alle infamie di Sodoma, che conserva perciò tutta la grazia, tutta la freschezza, tutto il vigore di tale età. O giovani carissimi, che siete qui ad ascoltarmi, voi la conoscete questa gioventù tanto degna di ammirazione e di stima, ed io ben la ravviso in voi, e in voi con tutta l’enfasi dell’anima mia le faccio plauso e le grido: Gloria e onore! Ma con tutto ciò, senza esagerazione di sorta, noi possiamo asserire, che in generale la gioventù odierna, nei due suoi terzi abbondantemente, è incredula, superba e corrotta, nemica giurata di Gesù Cristo, della sua fede e della sua morale. Come si spiega tutto ciò?! Quali cause ingenerano una rovina sì grande, sì numerosa sì precoce? Che cosa è che oggidì fa perdere ai giovani la fede, la sudditanza e la purità del costume? Tutti coloro, che hanno studiato a fondo questo spaventevole fenomeno, vanno tutti d’accordo nel dire, che le cause più vere, che lo hanno prodotto, sono l’ignoranza intorno alla Religione ed il pestifero ambiente irreligioso, in cui oggidì la gioventù viene cresciuta.

II. — Ed anzi tutto l’ignoranza intorno alla Religione. Di fatto, questi giovani, che con tanta sicumera si danno a trinciar sentenze su Dio, su Gesù Cristo e sulla sua Chiesa, che cosa ne sanno essi e di Dio, e di Gesù Cristo, e della sua Chiesa? Nulla! Molti non hanno mai avuto alla mano un piccolo catechismo. E talora se ne incontrano di quelli che, incredibile a dirsi, sebbene nati in paesi cristiani, da genitori Cristiani, non sanno tuttavia a farsi il segno della croce. Purtroppo per la più parte della gioventù Dio è il grande Ignoto cui S. Paolo trovava un altare dedicato in Atene. E come potrebbe essere diversamente? L’apostolo S. Paolo scriveva che la scienza e la fede delle verità divine non si ottiene, che per mezzo dell’udito, e l’udito per mezzo dell’insegnamento della dottrina cristiana: Fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi. (Rom. X, 17) L’uomo, ha detto il grande Lacordaire, è un essere insegnato. Epperò come le lettere e le scienze non entrano nella sua mente se non per mezzo dell’insegnamento, che glie ne vien fatto con la parola, così non può essere altrimenti della Religione. Ma chi è oggidì, che apprende ai giovani la Religione, che parla loro in modo conveniente di Dio, di Gesù Cristo, dei grandi misteri della fede! Questo grande insegnamento, non si può mettere in dubbio, appartiene alla famiglia, alla scuola ed alla Chiesa. Nella famiglia è la madre, che deve impartire ai figliuoli la prima istruzione religiosa; è dessa il primo ministro di Dio, il primo missionario, il primo apostolo, il primo dottore. E Dio le ha dato perciò un accento così tenero, così soave, così persuasivo. A lei adunque, non ad altri massimamente che a lei, si conviene d’istruire di buon’ora i suoi figli negli elementi della Religione, d’apprendere loro i misteri principali della fede, il simbolo degli Apostoli, i Sacramenti, i precetti di Dio e della Chiesa. A lei gettare nei loro vergini cuori i germi della pietà e del timor di Dio; a lei trasfondere nelle tenere loro anime l’amore di Gesù Cristo e della sua Santissima Madre; a lei mostrar loro il Cielo e metterli per tempo nella via, che ve li conduce. – Ma quando il fanciullo cresce e già comincia ad uscir di casa per entrar nella scuola, allora senza dubbio la scuola deve continuare essa quell’insegnamento, che la madre ha incominciato in famiglia; perciocché in fondo in fondo la scuola non deve essere altro che l’aiuto della famiglia nella cristiana educazione della gioventù. E come il padre e la madre ricordando del continuo che i figli, ricevuti da Dio, per Iddio sopra tutto devono allevarli, così i maestri insegnando le lettere e le scienze ai loro discepoli non devono mai trasandare il primo e più importante di tutti gl’insegnamenti, l’insegnamento, che apprende a conoscere, ad amare e servire Iddio. Anzi, poiché questi loro discepoli non vivono in un’isola separata dal mondo, e in cui non siano peranco penetrate le sue massime, ma vivono propriamente in mezzo all’empietà e corruzione del mondo, è perciò necessario che di mano in mano che col crescere degli anni si avanzano negli studi delle lettere e delle scienze, crescano altresì nello studio delle divine verità e ne vadano acquistando un conoscimento razionale, corrispondente alla loro coltura, affinché o nell’affacciarsi dei dubbi alla loro mente, o nell’udire o nel leggere difficoltà ed obbiezioni contro la loro fede, essi sappiano ricordarne almeno in complesso le grandi prove, e trovare in esse le armi per difendersi e star fermi nella loro credenza. – Ma infine insieme con la famiglia e con la scuola la Chiesa più che mai deve insegnare ai giovani le verità della fede. È questo uno dei suoi diritti e dei suoi doveri più sacrosanti. Tocca a lei pertanto con la divina autorità, di cui fu rivestita, quando Gesù Cristo disse ai suoi apostoli: « Andate ed ammaestrate tutte le genti, » tocca a lei e co’ suoi catechismi, e con le convenienti spiegazioni, far ben penetrare nell’animo dei fanciulli e dei giovani la dottrina e il sentimento cristiano. Ed è appunto questa dottrina e questo sentimento che soli riescono a rendere la gioventù, quale dovrebbe essere, religiosa, umile e morigerata. È questa dottrina e questo sentimento, che alla mente del giovane fanno rilucere quelle verità che sono la norma del ben pensare e del ben operare. È questa dottrina e questo sentimento, che avvalorano la naturale fragilità del giovane e lo spronano a combattere le sue ree inclinazioni. È questa dottrina e questo sentimento, che ingenerano nel suo animo il nobile sdegno per il piacere disonesto e per la colpa, e gli fanno battere, sia pur con sacrifizio, la strada severa e dignitosa della virtù. Ma ora io domando: queste tre cattedre, che devono trasfondere nell’animo del giovane una dottrina ed un sentimento così efficace, ed il solo efficace, compiono esse di comune accordo questo grande dovere? Io tremo in rispondere. L’insegnamento cristiano è taciuto nel massimo numero delle famiglie. Molte madri oggidì, piene di spirito mondano, non sognano pei loro figli che grandezze, che onori di mondo, che beni di fortuna. E simili a quell’uccello, di cui parla la Scrittura, che dopo fatte le uova le seppellisce nella terra, ove le dimentica e abbandona, le madri mondane non si curano di procacciare ai loro figli che vantaggi terreni, seppellendoli nella terra, circondandoli e coprendoli di terra, senza neppur pigliarsi un pensiero della loro anima e della loro eternità, senza talora seminare in fondo al loro cuore neppure una qualche idea cristiana; filia populi mei crudelis: quasi struthio in deserto dereliquit ova sua in terra. (Thren. iv, 3; IOB. XXXIX, 14) L’insegnamento cristiano, taciuto nel massimo numero delle famiglie, nella sbcuola poi, se si tratta di quella elementare, si imparte come un’elemosina, che ogni anno il padre di famiglia è costretto a chiedere formalmente; se si tratta della scuola tecnica, ginnasiale e liceale, e tanto più della universitaria, esso non c’entra, né deve entrarci affatto. E in chiesa? In chiesa indarno si trova al suo posto il prete per apprenderlo, perciocché quanti sono massime i giovani di famiglie un po’ agiate o ricche, che frequentano la dottrina cristiana? Pochissimi e talora nessuno, giacche entrando in una chiesa all’ora della dottrina, voi non vedrete ordinariamente, che un qualche gruppo di fanciulle povere, e negli oratori festivi, benché frequentati, quasi nient’altro che figli del popolo. E quando pure, a non parere esagerati, volessimo asserire che in generale fanciulli, che ricevono l’istruzione religiosa in famiglia, nella scuola e in chiesa ve ne sono ancora, che istruzione è dessa? Un’istruzione affatto elementare quale è richiesta dalla loro età, un’istruzione che consta più di esercizi di memoria, di parole e di formule, che non di cose e di verità, un’istruzione che dura fino ai dieci o ai dodici anni e poi si tronca lì per tutta la vita. E sarà dunque questa istruzione quella che valga a rendere religiosa, soggetta e costumata la gioventù? Ah! miei cari, voi dovete purtroppo dolorosamente riconoscere che l’insegnamento religioso manca alla gioventù in modo pressoché assoluto. E mancando tale insegnamento, ne viene per conseguenza quella stupida ignoranza, che nei giovani fa grossolanamente ripetere quelle obbiezioni, che sono state le mille volte confutate, quegli errori, che le mille volte furono sfatati, che li fa combattere quei dogmi, che le mille volte furono propugnati e difesi, che al pari degli eretici e dei pagani del tempo di S. Paolo, li fa bestemmiare quello che ignorano. E quel che è peggio, mancando la cognizione delle verità e delle massime cristiane, manca il più grande riparo al torrente delle male inclinazioni, che così irrompe, dilaga e rovina. Ma ohimè! ciò non è ancor tutto. Perciocché dal mondo crudele dei giorni nostri non solo è negato alla gioventù il cibo della cristiana istruzione, ma con un’educazione apertamente nemica della Religione, la si costringe a crescere su in un ambiente avvelenato. E quando non si nutre il corpo di un cibo adatto e per soprappiù gli si fa respirare un’aria malefica, come non cadrà vittima di qualche rio malore? Ah! certamente come l’aria contaminata e satura di miasmi contagiosi aggirandosi, insinuandosi e compenetrandosi nel corpo degli uomini indubbiamente li abbatte, li opprime e produce in loro febbri maligne e fatali, così l’atmosfera morale in cui la gioventù è allevata, l’atmosfera della famiglia, della scuola, della società, essendo guasta ed impestata, non può, senza un certo qual miracolo, non cagionare nella gioventù quelle gravi malattie dell’anima, alle quali nella gran maggioranza soccombe. Ed anzitutto l’atmosfera della famiglia. L’aria morale che prima di ogni altra respira il giovane è quella della famiglia: e quest’aria è pure indubbiamente quella, che influirà più d’ogni altra sulla sua vita avvenire, perciocché quest’aria morale, nel più intimo avvicinamento dei genitori coi propri figliuoli, in certa guisa si trasfonde e si inocula nel sangue di quest’ultimi, formando in loro con un’energia latente e decisiva le idee, che forse dureranno per tutta la vita. Ora qual è quest’aria morale, che il giovane comincia a respirare oggidì fin dall’infanzia nel seno della famiglia? Ah! diciamolo ad onor del vero: per parte di molte madri è ancor un’aria di religione e di virtù, un’aria, di cui Gesù Cristo costituisce un sufficiente elemento, ma per parte dei padri, fatte le debite eccezioni, tanto più nobili quanto più rare, per parte dei padri è un’aria d’indifferenza e persino di miscredenza spaventosa. In un gran numero di famiglie il padre non prega, il padre non va a messa, il padre non fa la Pasqua, il padre vive come se Dio non vi fosse. E forseché a sette anni il fanciullo, aprendoglisi il lume della ragione, non si avvede della irreligione del padre? Oh sì …, e come! Allora egli ricerca con ingenuità il perché della differenza, che passa tra gl’insegnamenti e gli esempi della madre e la condotta del padre; ma a dieci anni tutto ciò egli ricerca già con malizia, e a quindici alla madre, che da lui vorrebbe ad ogni costo l’esercizio delle pratiche religiose, risponde con audacia: E papà? … Tu vuoi che io preghi ancora, che vada ancora a Messa, che prenda ancora Pasqua; e non sono già abbastanza grande da vivere senza tutto ciò, come fa mio padre? Ma che dire quando insieme con l’irreligione del padre si congiunge nella famiglia la vita frivola ed irreligiosa della madre? Allora è fatto: i figliuoli con una educazione del tutto mondana e anticristiana sono sciaguratamente condannati ad una incredulità spaventosa e fatale. Allora si rinnova in peggior modo l’orrendo sacrifizio dei Druidi, che immolavano i fanciulli alle loro false divinità, bruciandoli vivi; allora si ripete la crudeltà esecranda di quei genitori, che al dir della Scrittura portavano i loro figli nelle braccia infuocate di Moloc; allora il padre e la madre non sono più i genitori della loro prole, ma ne sono gli spietati carnefici. Ma dopo l’ambiente di famiglia quello, che oggidì appesta l’animo della gioventù, è quello della scuola. La scuola, si sa, è quella dove si formano i convincimenti dell’uomo. E se la scuola tendesse seriamente al suo grande scopo, se essa fosse il prolungamento della famiglia, l’aiuto del padre e della madre nella cristiana educazione della gioventù, non potrebbe far a meno di trasfondere nell’animo dei giovani, insieme con la luce delle lettere e delle scienze, correnti di fede e fiamme ardenti di virtù. Così appunto faceva un tempo la scuola, non solo quella dei teneri fanciulli, che loro apprendeva prima d’ogni altra cosa la scienza di Dio, e con l’esempio e con la disciplina li spronava più che tutto alla pratica della pietà cristiana, ma eziandio la scuola dei giovani adulti, la stessa scuola universitaria. Ogni anno alle Università, il corso degli studi era inaugurato solennemente con la celebrazione della Messa e con l’invocazione dello Spirito Santo, ed era continuato con varie altre solenni funzioni religiose; e chi può dire quanto pei giovani fosso edificante lo spettacolo dei loro venerandi rettori e professori prostrati in mezzo a loro dinnanzi a quel Dio, che si chiama il Dio della scienza, pregare da Lui efficacia al loro insegnamento, a quell’insegnamento, in cui il nome di Dio veniva di spesso ripetuto colla massima riverenza? Chi può dire il rispetto, la stima, l’amore, che tutto ciò conciliava a quei veri educatori della gioventù! Tale rispetto era sì grande, che essi passavano tra i condiscepoli come divinità calate dal cielo. Or che accade invece ai giorni presenti? Io non posso dirlo senza fremere e senza a sentirmi bollire il sangue. Oggidì il fanciullo esce dalla casa domestica, ed entrando nella scuola egli entra non già in un prolungamento della famiglia, ma in una vera agenzia dello Stato; giacché i maestri e i professori non sono più ausiliari delle sollecitudini di buoni genitori e delle loro legittime ambizioni, no, essi sono gli impiegati dello Stato, che si sostituisce all’inviolabile autorità del padre e della madre e confisca la loro missione. Fin dai primi anni di età, nell’asilo infantile e su su, nelle scuole elementari, ginnasiali, tecniche, liceali, universitarie, lo Stato si impadronisce del giovine, e ne fa una cosa sua. Lo Stato giudica e stabilisce egli quello, che il giovine debba imparare, non imparare e disimparare, e per mezzo degli impiegati suoi, cui torrebbe il pane, se non fossero delle sue idee, egli istruisce, educa, plasma il carattere, inocula sentimenti, tendenze, abitudini a suo proprio uso. Lo Stato insomma, tolto il giovane, e sarebbe più proprio il dire strappatolo dalle mani della famiglia, lo fonde e lo rifonde al calore del suo fuoco, come si fa delle statue di bronzo. E qual è il calore di questo fuoco? Si dice: quello del patriottismo; ma in realtà è quello dei più spudorato scetticismo. Perciocché col preteso di esortare i giovani a mostrarsi degni figli della patria, col metter loro ipocritamente innanzi virtù menzognere, fin dai loro primi anni si comincia a por loro in derisione Gesù Cristo, la sua Chiesa, i suoi ministri, i suoi dogmi, i suoi Sacramenti, e poi si prosegue con un’audacia incredibile fino a che entrati i giovani nei corsi superiori sono poi completamente attossicati senza alcun ritegno. E non vi sono nei Licei e nelle Università nostre dei professori, talora in età già abbastanza matura, che insegnano in mezzo agli applausi della gioventù corrotta e leggiera, che Gesù Cristo non è che un mito, che non vi ha Dio, non anima, non immortalità, non distinzione del bene e del male, non libertà morale, non responsabilità; che tutte le passioni sono nella natura, e che per conseguenza tutto ciò che è nella natura è buono; che il piacere è l’unica realtà della vita, che la morale non è altro che un affare di istinto, che la coscienza non ò che un meccanismo, che si monta e si smonta a proprio piacimento, giacché se vi ha un Dio non è altro all’infuori di quello che ciascun uomo si crea da per sé? Sì, non è questo, che certi vecchiardi insegnano oggidì a giovani leggeri, guasti e tormentati dalle passioni? E dopo tali insegnamenti a giovani, che ne vanno troppo lieti per le conseguenze, che ne possono trarre, come non discacceranno essi Gesù Cristo, Iddio dal cuore e non prenderanno persino a disprezzarlo e odiarlo? Gesù Cristo non ò che un mito? Dio non c’è? Dunque a che Chiesa, a che fede, a che preghiera, a che Sacramenti? Sono gli imbecilli soltanto che si curano di ciò. Siamo tutta materia? dunque tendiamo al nostro fine, diamo alla materia, vale a dire alla carne, quegli sfoghi naturali, che essa domanda. Il piacere è l’unica realtà della vita? Dunque incoroniamoci di rose, scorriamo per ogni prato, beviamo al dolce calice, abbandoniamoci al piacere. Non sono che cretini coloro, che ne rifuggono siccome da cosa illecita. Al di là c’è il nulla? Dunque non siamo così bestie da non vivere, finché si vive, come vivono le bestie. Così, così, con una logica brutale, tolto Dio dal cuore dei giovani, tolta la fede, tolte le massime cristiane, è tolto altresì ogni ritegno alla scostumatezza, tolto eziandio il naturale pudore, ed il vizio trionfa pubblicamente. Sicché quando io vedo dei giovani come voi che mi ascoltate, i quali malgrado l’ambiente appestato della scuola, come i tre fanciulli della Bibbia nella fornace di Babilonia, non si abbruciano punto, e conservando la fede conservano la moralità e conservando la moralità conservano la vita, allora con tutta la commozione dell’anima io esclamo: No, l’antico valor non è ancor morto. Vi hanno ancora dei veri eroi; e come Leonida, padre di Origene vorrei baciare il cuore di questi giovani come il santuario dello spirito di Dio, come la manifestazione più efficace e più parlante della grazia del Signore. Ma infine un’atmosfera anche più pestilenziale, che non quella della famiglia e della scuola, perché più specialmente libera da riserve e da scrupoli, l’atmosfera della società è quella che compie l’opera devastatrice della vita morale della gioventù. Perciocché che cosa è che questa nostra società fa respirare ai giovani di quindici, diciotto, venti anni? L’irreligione e la immoralità da per tutto. Irreligione ed immoralità in un giornalismo dichiaratamente empio e pornografico; irreligione ed immoralità nei romanzi e nei libri, scritti con intento diabolico appositamente per lei: irreligione ed immoralità nei circoli e nelle società settarie, in cui si fa di tutto per irreticarla; irreligione ed immoralità nei teatri, di dove, si dice, gli spettatori adulti, benché poco delicati, sono talvolta costretti per un po’ di pudore che ancor li assale, levarsi e andarsene; irreligione ed immoralità in un nugolo di gente da trivio, appostata ad ogni angolo delle vie per darle l’assalto; irreligione ed immoralità nell’andamento di tutta la cosa pubblica, in cui l’onore posto sulla punta della spada, le truffe più ingenti e più audaci, l’ingiustizia più aperta e manifesta non fanno regnare che la ragion del più forte. E la gioventù, malamente educata in famiglia, scristianizzata del tutto nella scuola, come non cadrà asfissiata in questa atmosfera d’irreligione e d’immoralità, che le fa respirare la società in cui si trova? Sì, essa cadrà asfissiata, ma non impunemente, né per essa, né per la società. Non impunemente per essa, che talvolta se ne muore consunta a venticinque anni tra le strida di una madre, che non avrà pace più mai, e tal altra avanzandosi nel cammin della vita, tra i contrasti spaventosi, di cui è cosparso, senza fede in Dio e in Gesù Cristo, senza amore per Lui, si sentirà orribilmente straziata ora dal dubbio, ora dalla noia, ora dall’agitazione, ora dalla tristezza, ed ora persino dalla disperazione, che ingenera la pazzia e spinge al suicidio; non impunemente per la società, la quale avendo operato il suo assassinio e la sua rovina, resterà alla sua volta da lei assassinata e rovinata. Ecco, o miei cari, la catastrofe orrenda, a cui mette capo l’atmosfera senza Dio, senza Gesù Cristo, che oggidì si fa respirare alla gioventù nella famiglia, nella scuola e nella società. E dopo tutto ciò, se vi ha gente da mettere alla gogna, no, non sono tanto questi poveri giovani, ma sono gli scrittori infami, i seduttori maligni, i professori empii, i poteri pubblici prepotenti, e soprattutto, quei padri così ciechi da non vedere l’opera, che si compie in danno dei loro figli, cosi fiacchi da tollerarla in pace senza alcuna protesta, e talora così malvagi da coadiuvarla essi pure con le loro iniquità e coi loro scandali!

III. — Ma ora dopo d’aver riconosciuto la mala corrispondenza, che la gioventù odierna rende alla carità di Gesù Cristo per lei, e quali cause producono in lei sì nera ingratitudine, che cosa fare? Senza dubbio che si cambi radicalmente indirizzo nell’educazione della gioventù non è cosa da sperarsi, né è da pensare, che la gioventù, la quale si è spiegata in senso opposto alla verità ed alla virtù, tutto ad un tratto abbia a mutar idee e costumi. Per tutto ciò sarebbe necessario uno di quei prodigi, di cui Gesù Cristo non è sempre largo, massime quando gli uomini non ne hanno alcun merito. Ma tuttavia noi Cristiani, amanti di Gesù Cristo, dobbiamo sollecitarlo al più presto possibile con l’opera nostra. La Chiesa, in quanto è da sé, più che mai allarga le sue braccia ai fanciulli ed ai giovani coi moltiplicati oratorii festivi e con le scuole di Religione largamente istituite; e con tutta la tenerezza e l’insistenza della sua voce materna li invita a rifugiarsi nel suo seno, ad attingervi il santo timor di Dio, gridando: Venite, filii, audite me; timorem Domini docebo vos. (Ps. XXXIII, 12) Ma voi, o genitori Cristiani, non lasciate di fare la parte vostra. Anzitutto educate voi cristianamente i figli vostri, e quando trattisi di allontanarli dal vostro fianco per mandarli alla scuola e tanto più per affidarli al collegio, deh! aprite gli occhi e preferite sempre la scuola e il collegio, dove non solo entra la Religione come una larva ipocrita per tradire la vostra fiducia, ma dove la Religione è dichiaratamente rispettata e praticata. Ma soprattutto voi, o madri, imitando l’esempio di quelle donne ebree, che recavano a Gesù Cristo i loro figli, perché imponesse loro le mani e li benedicesse, recate anche voi a Gesù Cristo i tigli vostri, consacrandoli a Lui fin dal loro nascere, ammaestrandoli per tempo a conoscere ed amare Lui, aiutandoli sempre con le vostre esortazioni e coi vostri esempi a tenersi uniti a Lui. E quando cresciuti negli anni, per l’influenza malefica di una scuola atea e di una società scostumata, li vedeste con immenso dolore dell’animo vostro tralignare dalle speranze della loro verde età, e cader vittime sventurate dell’incredulità e delle passioni, ricordatevi allora che non vi ha spettacolo, che maggiormente commuova il Cuore di Gesù Cristo a compassione della sventura dei vostri figli, quanto quello delle vostre lagrime. Quando si portava alla sepoltura il figliuolo unico della vedova di Naim, spietatamente rapito dalla morte sul fior della vita, l’infelice madre gli teneva dietro con tale profluvio di lagrime, che avrebbe intenerito le pietre. E l’amabilissimo Gesù, alla vista di quello spettacolo di desolazione e di dolore, tocco nel più intimo del suo Cuore, si appressa a quella povera madre, con l’accento della più filande tenerezza e pietà le dice di cessare il pianto, e avendo comandato ai portatori della bara di fermarsi, voltosi al morto: « O giovane, gridò, io ti dico, sorgi. » E dall’istante quel giovane, che era morto, si levò a sedere e pieno di salute e di vita si fe’ a parlare. Ora, quello a cui valsero le lagrime di una madre per la vita fisica del suo figlio, sarà pur quello a cui varranno per la vita dell’anima. S. Monica lo ha ben provato nel suo Agostino. Non disperate pertanto, o povere madri, cui lo stato spaventoso dei figli vostri e la spirituale loro morte mette in desolazione e terrore. Piangete e pregate, e non cessate mai dal piangere e dal pregare. Forse anche per voi, come già per S. Monica, dovrà passare del tempo, prima che siate esaudite. Ma se al pari di lei sarete costanti a piangere ed a pregare, finirete com’essa per ottenere la grazia. Il Cuore di Gesù è troppo tenero per non commuoversi di voi e per non cambiare a tempo opportuno il vostro pianto di dolore in lagrime di gioia. Sì, egli vi consolerà di quanto avrete sofferto, risusciterà i vostri figliuoli morti e li ridonerà belli e vivi di una nuova vita cristiana al vostro amore. – Ma anche voi, o giovani Cristiani, che mi ascoltate, anche voi dovete mettere riparo alla sciagura di tanti altri giovani con la vostra fermezza nella fede e con la costanza vostra nella virtù. Rappresentatevi di spesso alla mente l’amore che Gesù Cristo vi porta, e siate generosi nel ricambiarlo. Senza dubbio, voi dovrete combattere le vostre passioni, perché anche voi figliuoli di Adamo, anche voi ne siete travagliati; ma ricordando la parola di Gesù Cristo: « Chi vuol venire dietro a me rinneghi se stesso; » gettando lo sguardo sopra di Lui, modello di sacrifizio, di abnegazione, di mortificazione e di obbedienza, e sopra tutto accostandovi spesso a ricevere nel cuor vostro Lui, che è il frumento degli eletti ed il vino, che germina i vergini, voi domerete le vostre passioni, come il domatore delle belve doma il leone della foresta. Senza dubbio, dovrete resistere al gran pericolo di una scienza atea e materialistica, le cui dottrine vi è giocoforza ascoltare per la schiavitù dell’insegnamento; ma non dimenticando le lezioni sublimi intorno alla vostra origine, alla vostra natura ed ai vostri destini, appresi sulle ginocchia della vostra madre Chiesa e della vostra Chiesa-Madre, e con lo studio continuato della Religione convertendole in succo ed in sangue, voi, mercé di Dio, avrete mai sempre sufficiente intelletto per lasciare tutta a certi professori la gloria di essere un pugno di fango o razza di scimmie e di lombrichi. Senza dubbio voi dovrete superare gli umani rispetti, che vi assaliranno da ogni parte e da per tutto, perché la vostra fede e la vostra virtù, essendo un pruno negli occhi dei tristi, sarà sempre da loro oltraggiata e derisa; ma voi infiammati d’amore per la vera libertà, che Gesù Cristo è venuto a portare sulla terra, e che affranca da ogni servaggio, anche da quello del numero e della forza materiale, non sarà mai che vendiate la vostra coscienza a prezzo di una vile apostasia. Senza dubbio voi dovrete respingere la stolta calunnia, che la pietà cristiana rende stupidi e melensi e che la fede è contraria alla scienza, e col tenervi sempre lontani da coloro, cui ogni pretesto è buono per liberarsi dalla noia dello studio, col non partecipare mai alle loro gazzarre e baldorie, e coll’applicarvi invece seriamente agli studi, dimostrerete una volta di più, che col raggio della fede penetrate ben più a fondo che gli altri nelle verità scientifiche, e coll’aiuto della cristiana pietà riuscite anche meglio degli altri ad apprenderle. O giovani cattolici! o nobili speranze della Chiesa e della patria, gettate oggi lo sguardo sopra l’eroe, che la Chiesa festeggia e vi dà per modello, e checché sembri al mondo, seguendo le traccie luminose di S. Luigi Gonzaga, crescerete senza dubbio allo stato virile, « all’età di Gesù Cristo. » Presto o tardi il mondo avrà bisogno di voi. Sotto gli occhi spalancati del genere umano finirà il trionfo di una dottrina e di una virtù, che non è la vostra. Ed allora la società stanca di veder più a lungo lo spettacolo dell’incredulità e della corruzione, accasciata dal dolore di tante rovine, a voi, figliuoli unici della fede e dell’amore di Gesù Cristo, volgerà affannosa lo sguardo e stenderà anelante la mano gridandovi ad alta voce di trarla a salvamento. – E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che ponete mai sempre la vostra delizia tra i figliuoli degli uomini, soccorrete con la vostra grazia questi giovani volonterosi, che si stringono oggi intorno al vostro altare; date loro la forza di mantenersi costanti nella professione della fede e nella pratica della virtù e di essere pronti sempre a morire piuttosto, anziché venirvi meno. Ma ad un tempo stesso pietà vi prenda di quei giovani infelici, che vi disconoscono, che non vi amano, che anzi vi oltraggiano: pietà per amor di queste madri, che ora dinnanzi a voi versano amare lacrime per essi. Deh! o divino Pastore, richiamate presto, che ben lo potete, questi agnelli traviati al vostro ovile; stringeteli presto, cambiati di costume, tra le vostre braccia amorose, ed allora noi benediremo un’altra volta ai trionfi della vostra bontà e della vostra misericordia.