QUARESIMALE (XXIX)

QUARESIMALE (XXIX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMANONA
Nella feria seconda della Domenica di Passione.

Si mostra la stolta presunzione d’offendere Iddio sulla speranza della Divina Misericordia.

Si quis sitit veniat ad me, et bibat. San Gio: cap. 7.

Il premio e la pena sono le due basi che tengono il mondo in regola. Che meraviglia dunque se Cicerone, principe dell’eloquenza, colà nel terzo de Natura Deorum, apertamente dicesse, che non solo una repubblica, ma neppure una casa poter durare, mentre in quella non si tema il castigo per il vizio, non si speri il premio per la virtù; nec domus, nec respublica stare potestà, si in ea nec recte factis præmia extent ulla, nec supplicia peccatis. Del pari dunque camminano al reggimento del pubblico premi e pene; ma o quanto è male e quante turbolenze partorisce il non punire le colpe. Guai a noi se non si punissero i rei, si vedrebbero in breve tempo le città divenute selve di lupi depredatori. Stupisco però come gli uomini siano così stolti, che dalla clemenza d’un principe che perdona, ne ritraggano motivi di seguitare vita licenziosa; sarebbe tuttavia, quasi dissi, poco male, se così passassero le cose con i soli principi della terra. Anche con Cristo Re si pratica in tal modo, poiché gli uomini, quanto più lo considerano misericordioso, tanto più l’offendono, e perché Egli si dichiara, si quis sitis veniat ad me, per questo sperano aver aperte sempre le fonti delle Divine Misericordie, per affogarvi le loro colpe e seguono a peccare. Seguitate pure, dirò io, perché (e sarà l’assunto del mio discorso) se pretendete d’offendere Dio sulla speranza delle Divine Misericordie e sul fondamento delle vostre stravolte idee, vi troverete e castigati e perduti. – Perdonatemi o dotti: convien che io stamane me la prenda con i peccatori ignoranti, i quali discorrendo da pari loro, formano sciocchissimi sofismi, e su questi vogliono innalzare la fabbrica della loro salute. Dio è buono, dicono essi, ha sparso tutto il sangue per noi, è tutto misericordia, il Paradiso non è fatto per i Turchi, si salvò un ladrone, dunque, anche io porrò piede in Cielo. Poveri peccatori, che sì fattamente discorrendo continuate a menar vita licenziosa senza accorgervi che pretendete stringer l’ombra in pugno, la vostra speranza sulla bontà Divina, mentre continuiate a peccare, è giusto come l’arcobaleno, che altro non ha salvo l’apparenza. Voi dite, Dio è buono, e poi ne cavate per infallibile conseguenza: dunque si può peccare, questo è un discorrere da sciocchi; dunque, perché Dio è buono voi volete esser empi, poiché Dio riceve i penitenti voi volete continuare a peccare; perché Egli vi benefica come Padre, voi lo volete trattar da nemico. Dio immortale, ed è pur vero che neppur le vipere impastate di tossico, offendono se non sono offese, solo voi offendete Iddio non solo quando non vi offende, ma quando tutto bontà vi benefica. Voi temerari così dite: Dio è buono, quindi si passino i giorni negli amori, le notti nelle veglie scandalose! Dio è buono; dunque, irriverenze nelle Chiese, dunque si mormori in ogni circolo, si sparli in ogni piazza, si pecchi in ogni luogo. O che pazze conseguenze! Deducetene piuttosto un’altra, e dite: Dio è buono, dunque s’ami, s’onori, si adori, si osservino i suoi precetti. Fermatevi, che fate, e perché oltraggiate quel cavaliere sì buono con le parole, e perché percuoterlo con schiaffi vergognosi? È un peccato il solo pensare ad offenderlo, e non sapete la sua bontà perché dunque strapazzarlo? Per questo stesso sento rispondermi: perché è buono voglio strapazzarlo, maltrattarlo; questo è un parlar da pazzo, non è vero miei UU.? Orsù a noi. Dunque, un uomo vil fango della terra, perché è buono merita ossequi, e Iddio che è bontà infinita merita dispregi? Neppure un cane, quando sia buono deve strapazzarsi ed è pur vero che il privilegio d’un cane, d’un animale non l’ha Cristo, perché quantunque buono si vilipende, e si conculca con i peccati. Dio è buono! Ah che mi si spezza il cuore, dunque si bestemmi alla peggio il suo nome Santo, dunque s’inalberi uno stendardo, e vi si arruoli sotto un esercito di maritate sedotte, di vergini contaminate, e con una tal milizia si tenti di cacciarlo dal suo trono per costringerlo a nuovamente vivere in una stalla. O che conseguenza bestiale è mai quella… Dio è buono, dunque pecchiamo. Dite piuttosto, bonus es tu, in bonitate tua doce me justificationes tuas. – Non cavò già conseguenze sì storte Giuseppe il casto, casto ancorché giovane come abbiamo nella Genesi al cap. 36. Fu questi più volte tentato dalla padrona che era una di quelle maritate a cui pareva che il vincolo coniugale non servisse di freno, ma di stimolo alla incontinenza, fu dico tentato Giuseppe con quelle infame parole dormi mecum, al che gli rispose: ecce dominus meus omnibus mihi traditis, con quello  che segue. Il mio padrone, disse Giuseppe, è sì buono verso di me che mi ha quasi costituito padrone di tutto il suo, e come potrò io contaminare il suo letto: Quomodo potero peccare in Dominum meum, non sia mai vero no; così si discorre e così si opera. Deh mutate sin quaggiù o peccatori e dite: Iddio è buono, dunque non lo devo offendere, ma amare, perché il buono fu sempre amabile, e riflettete che se Egli è buono, come voi dite, tanto peggio sperate se non l’amate: Certe si talis est, qualem putas tanto iniquius agis, si non amas… non vi seguite a guisa di vipere di fiori per formar veleni. Ah Vergine amabilissima, mi si apre il petto per il dolore; dunque la bontà del vostro Figlio che dovrebbe essere stimolo acutissimo per amarlo, serve a’ peccatori di crudo carnefice per crocifiggerlo. O iniquità, o stoltezza insensata e crudele! – Da questa conseguenza così pestifera … Dio è buono, dunque si può peccare, si passa ad altra non meno indegna: Dio è misericordioso, dunque si può offendere. Confesso di vero, che io non so capire la sfacciataggine di questi peccatori, i quali fanno a Dio il maggior de’ mali, qual è l’offenderlo, e da Lui sperano il maggior de’ beni, qual è la sua misericordia per salvarsi. Tu dici: Dio è misericordioso, e per questo mi salverà, ed io ti rispondo che con tutta la Divina Misericordia, se seguirai a peccare probabilmente ti dannerà. È misericordioso Iddio, non è vero? … Padre sì, eppure lascia piombare nell’inferno tanti Turchi, tanti idolatri; ma questi Padre non hanno il Santo Battesimo, bene … è misericordioso, eppure ha lasciato cader nell’inferno tanti Cattolici … ma Padre perché vissero peggio di me; peggio di te non lo so, perché tu neppur stavi lontano da quei vizi che chiamano fuoco dal Cielo, e ne vuoi complice talora chi ti consegnò Iddio per indivisibile compagnia. Vissero peggio di te, hai tu fatto un sol peccato mortale? Appunto de’ soli pensieri ne conterai le centinaia; e pure Iddio con tutto che sia misericordioso lasciò pur piombare nell’inferno quell’infelice giovinetto della città d’Ingolstadio in Germania, il quale morto che fu per esserglisi rotta una vena del petto, ed averlo affogato mentre dormiva, comparve ad un suo maestro, che per lui voleva celebrare la Messa, e glielo vietò dicendogli che era dannato. Come dannato? Replicò il Padre, sapendo che era vissuto innocente. Ieri appunto, rispose lo scolaro, un cattivo compagno m’allettò alla colpa, commisi il peccato, me ne andai a letto con pensiero di confessarmi la mattina, ma rottamisi una vena del petto, restai soffocato e morto, e per un sol peccato mortale mi trovo dannato. Ditemi, la Misericordia di Dio è punto scemata con la condanna di questo miserabile per un sol peccato mortale? Certo che no, or vedi, se scemerà punto con lasciarvi piombar te, che de’ peccati mortali ne hai a centinaia, tu, che sei pieno d’usure, d’odio, d’amori indegni … noli contemnere misericordiam, dice San Bernardo, si non vis sentire justitiam. Pur sento chi temerariamente mi replica: E non volete che io speri di salvarmi ancorché continui a peccare, mentre Gesù per salvarmi ha sparso tutto il suo Sangue? Cristo ha sparso il suo sangue per noi, dunque pecchiamo! O che diabolico argomentare è mai questo, mentre dovreste piuttosto dedurre, Dio ha sparso il suo sangue per noi, dunque, noi spargiamolo per Lui; Dio ha sparso il suo sangue per liberarmi dalla morte, dunque, uccidiamolo! Che conseguenza!? sentite caso orribile, che si racconta nel Cristiano Istruito. – Si affronta a passare un soldato da un patibolo, di dove pendeva già impiccato un uomo, e veduto che si moveva, stimò, come di fatto era, che ancor non fosse morto, andò, lo staccò, lo ristorò, e levatoselo in groppa del suo cavallo seco lo conduceva per aiurarlo; quando colui, che aveva ricevuta la vita, immaginandosi che quel soldato portasse denari, gli tolse dal fianco lo stile, glie lo piantò più volte nella schiena, e l’uccise. Che dite? Così fate voi: Dio mi ha data la vita spargendo il suo sangue, ed io gli voglio dar la morte con i peccati. Se si è lasciato crocifiggere per voi, non dovete voi ribattergli i chiodi con nuove colpe, altrimenti sarebbe un pretendere che Cristo fosse a guisa di quelle piante che danno balsamo per ferire. Seguite pure a peccare sul fondamento d’aver sparso per voi il suo Santissimo Sangue, ed io v’assicuro, che questi chiodi saranno un giorno a voi fierissimi pugnali al cuore, queste spine serviranno di siepe alle porte del Paradiso perché non vi entriate; i flagelli e strumenti della sacra passione cacceranno voi all’inferno e si avvererà in voi quel di Salviano che: nullus difficilius evadit, quam qui se evasurum presumpserit, niuno più difficilmente scampa la dannazione, che chi troppo presuntuoso spera la Gloria. Padre, voi ci vorreste far disperare della Divina Misericordia, ma tanto vogliamo sperarci sul fondamento che questa è giunta a salvare un assassino di strada, quel buon ladrone. Orsù, già che siete ricorso al rifugio degli ostinati con dirmi, che uno scellerato ladrone nel Calvario con un memento Domine si salvò, e perché non potrete salvarvi ancora voi? Son dalla vostra; ma fo un passo più avanti, e vi dico, che nell’ultimo dì di vostra vita è troppo presto a far penitenza, a convertirvi a sperare nella Divina Misericordia. Piano, Padre. E che dite? Voi volete dir troppo tardi … No, no, troppo presto, perché io vi consiglio aspettare dopo morte; non vi meravigliate del mio discorso, perché io così argomento: Cristo risuscitò Lazzaro, chiamò a vita la figlia di Jajro, il figliuolo della vedova, dunque, morti che sarete resuscitati ancor voi, e vi userà questa misericordia che resuscitati facciate penitenza. Il mio argomento è più forte del vostro. Voi argomentate da uno ed io da tre. Ma via, già che mi avete nominato il buon ladrone discorriamola. Ditemi, sperereste voi, divenuto reo di qualche grave delitto, nella misericordia d’un principe che avesse perdonato ad un solo, e giustiziatene le migliaia? Certo che no; sì bene memini, dice San Bernardo, in toto cannone unum inveniri sic, salvatum, in tutta la Divina Scrittura si trova solamente questo ladro in tal forma salvato; sia pur vero, che fuori delle Divine Scritture se ne trovi qualche altro. Ma dall’altra parte si trovano milioni di dannati; come, dunque, potrete voi più sperare che temere, mentre de’ vissuti male taluno si salva, e tanti si dannano? Dice San Geronimo: Vix de centum millibus unus appena uno di centomila, che son vissuti male, se ne salva. Dio immortale io così la discorro, e dico, che quando anche de’ peccatori simili a voi avessero i più da salvarsi, tanto dovrebbe il timore farvi mutar vita. Sentite: Arnolfo Conte di Fiandra era travagliato da acutissimi dolori di pietra, determinarono i periti di venire al taglio, ma egli ne volle prima la prova in altri; fu eseguito il comando, e trovati venti che pativano del medesimo male, si venne con essi al taglio, e di venti uno solo ne morì. Se ne portò con allegrezza la nova ad Arnolfo, ma egli nel sentire che pur uno era morto, invece di rallegrarsi s’impallidì, sicché disse, può anche essere che io resti sul colpo, e perciò più timido per la morte d’uno, che speranzoso per la salute di diciannove, non volle sottoporsi al taglio. Or io dico, se così risolse essendone campati diciannove e morto uno, che avrebbe fatto se diciannove fossero stati i morti, ed uno il vivo? Via via medici, via chirurghi, a che m’esortate se la maggior parte muoiano? Ah Dio, ciò che nella cura del corpo, neppur si sognerebbe, nell’anima tutto dì si pratica, e si va dicendo: si è salvato il buon ladrone, mi salverò anche io. O che parlar da pazzo, si è salvato un ladrone, mi salverò anche io dopo una pessima vita. Qua voi sapete che a Giuseppe, la prigionia gli portò i primi onori dell’Egitto; andate a mettervi in ceppi, che così vi renderete illustri ed acquisterete il dominio de’ regni; Mardocheo fu calunniato e per mezzo della calunnia salì alle prime grandezze della Persia. Su presto, procacciatevi delle calunnie, e diverrete ricchi e potenti. Contentatevi che ad esempi sacri mescoli una relazione profana. Racconta Plinio d’un tal infermo, ch’aveva speso tutto il suo in medici e medicine per guarire da una ostinata cancrena; disperato si portò alla guerra, e messosi fra la mischia, da un colpo che gli volò su, la postema gli fu aperta e guarì. Se per disgrazia patite un simil male, su andate o alla guerra, o quando sentite qualche rissa nella vostra patria mettetevi tra quelle spade per esser feriti. Eh, che gli esempi rari non devono servire per regola. Se un empio si salva, è un miracolo, muta vita! Gridate pur quanto volete, che finalmente il Paradiso non è fatto per i Turchi, ma per noi; son con voi, per i Turchi che moriran da Turchi non è fatto il Paradiso; ma se non è fatto per i Turchi, molto meno sarà fatto per le bestie come sei tu, che sei un aspide, che vomiti veleno di pestiferi spergiuri; che sei una vipera, che con la tua lingua mormoratrice uccidi la fama del prossimo; che sei un rospo che non hai in bocca altro che tossico di bestemmie; che sei un drago velenosissimo, che getti spuma di laidi discorsi, di disoneste canzoni; che sei un basilisco, che con occhi avvelenati d’amori indegni uccidi l’anima di chi ti mira; che sei un cane mastino pieno di livore, e di brama di vendette; che sei un’animale immondo, perché stai nel fango delle disonestà fino alla gola: dunque se il Paradiso non è per i Turchi, molto meno per te, perché sei una bestia ne’ costumi; per tale appunto ti riconobbe San Girolamo, allorché commentò le parole d’Ezechiele, bæc dicit Dominus homo homo de domo Israel; sapete quello vuol dire con replicare la sacra Scrittura, homo homo, quasi che vi fossero uomini vuole che non fossero uomini? Asserire esservi uomini che non son uomini ma bestie, multi enim homines, ecco le parole del santo, habentes hominis faciem corporalem diversarum bestiarum assumunt imagines, e con prendere i peccatori immagini di bestie, ne prendono altresì i costumi, sicché vivono non più con la testa volta verso il Cielo, ma col capo chino alla terra. Voi ora non avete occhi per riconoscere ciò che in voi è di brutale, ma aspettate, non andrà molto, che al lume della candela benedetta accesa nella vostra agonia, aprirete gli occhi, e temo senza frutto. Quei che lavorano i tappeti, li tessono al rovescio, sicché, se esprimono un mostro non lo vedono sin tanto che, compita l’opera non si volti dall’altra banda, e non si esponga al suo lume. Con un’arte simile lavorate voi peccatori la vostra vita, mentre quantunque intrecciate orribilissimi mostri d’iniquità nella tela de’ vostri giorni, tuttavia lavorando alla rovescia non li vedete, e si può dire di voi come di quei miseri Giudei, nesciunt quid faciunt; sappiate, or vi dico, che voi, peccando, lavorate sulla tela della vostra vita ed alla cieca, mostri tali che hanno da essere distruggitori dell’anima vostra. Alla morte si rivolterà il tappeto, ed allora comparendo i bei lavori che faceste, vi ravviserete per quei che siete, e vostro malgrado confesserete che: se il Paradiso non è per i Turchi che vivono e muoiono da Turchi, molto meno è per chi potendo viver da uomo, ama piuttosto vivere da animale. Da questi sciocchi sofismi passano i peccatori a proposizioni indegne ed ardiscono di dire: se pecchiamo, non pecchiamo per fare ingiuria a Dio! Primieramente io vi dico, che questa vostra scusa prova tanto, che non prova niente, perché prova in sostanza che niuno de’ peccatori si dannerebbe, perché  niuno di loro, se non è divenuto un diavolo offende Dio per offenderlo; chiunque l’offende ha puro fine, comunemente, di scapricciarsi; in secondo luogo io vi rispondo che, siccome voi nel peccare non avete per scopo l’ingiuria che fate a Dio, ma le vostre soddisfazioni, così Iddio nel castigarvi severamente, o in questa vita o nell’altra, non pretenderà far danno a voi, ma pretenderà con la vostra pena far contrappeso alla deformità de’ vizi vostri. Padre, se voi chiamate debole scusa questa addottavi, certo non afferirete per tale la seguente: Or sentite è vero, si peccò, ma non ci disperiamo, perché fu necessità; e come si può di meno di non obbedire al padrone, se vuole gli assista di notte, se vuole che gli serva di guardia. Bisogna pure che io obbedisca, se voglio mantenermi la grazia di lui e vivere. Tacete, tacete bocche d’inferno, che asserite peccare per necessità, perché in così dire mostrate di stimar fallita la Divina Providenza, mentre non credete che ella possa fare le spese convenevoli a chi la serve. Deh aprite gli occhi, dice Agostino ed intendete, che chi v’à finora pasciuti ribelli a sé, con più ragione, vi pascerà riverenti e buoni, pascet te Deus contemnentem se, et deseret timentem? Non è possibile. Tacete adunque, e non adducete queste scuse, che appunto sono scuse per continuare nel vostro peccato che, se oggi vi alletta, domani vi tradirà. Ma se voi o Padre mi sbattete tutte le mie scuse non potrò dirvi altro se non che è vero, che pecco, né vedo modo di svilupparmi da’ peccati, e la causa di ciò bisogna riferirla a Dio. Che dici? Che bestemmi? A Dio? … Padre sì, a Dio: pecco, perché Dio m’ha fatto così, così m’ha impastato, e d’irascibile e di concupiscibile. A Dio, dunque, dai la colpa della tua mala vita? Dio dunque vuole le tue iniquità? Dio mi ha fatto così! dunque Dio per te non è quel sommo Bene che veramente Egli è, ma è per te un fiero tiranno, un fiero carnefice, perché avendoti fatto per peccare, t’ha fatto necessariamente per dannarti. O che bestemmie! Tali che dalla bocca di lucifero non possono uscir simili. Se così è, che Dio ti ha fatto così e, secondo il tuo dire sei necessitato a peccare, così discorro anch’io. Dio ha fatto così te, dunque non ti offendere quando sei ingiuriato, maltrattato, percosso, tradito, perché quelli che contro di te operano, son fatti così da Dio. Scancellate pure i vostri ordini o magistrati, o sovrani … non più leggi, non più statuti. Gli uomini al dire di questi empii son fatti da Dio in modo che bisogna che operino anche il male; dunque non servono i vostri ordini. Dio mi ha fatto così, questa è la natura che Dio m’ha data! Tacete temerari, non è questo modo di parlare, non è scusa che valga, è una difesa da stolto. Ditemi, se un orologio si ferma, se lentamente cammina, se talora non suona, o suona fuor di proposito, voi non dite già il maestro l’ha lavorato così, ma dite l’orologio è guasto. Ne mai vi potete dar a credere, che sia uscito guasto dalle mani di chi lo fece. Dunque, come ardite dire di voi stessi, che se siete cattivi, lo siete perché Dio v’ha fatti così e di tal natura, quasi che dalle mani di Dio siate usciti scellerati. Dite, e direte bene, l’orologio è guasto, io mi sono rovinato da me con darmi a’ vizi: convien pertanto che io mi ponga nelle mani di quell’Artefice stesso che mi fece, col mezzo d’una santa Confessione … Deus fecit hominem rectum: Iddio non mi ha fatto cattivo, da per me mi son fatto tutto il male. Questa vostra scusa dunque o peccatori, di dire Iddio m’ha fatto così, voi ben vedete, che non sussiste, e perciò non passerà al Divino Tribunale: sicché vi perderete. O che sarà mai, se ci perderemo, se ci danneremo, che volete dire? … vogliamo dire, che non saremo soli nell’inferno. Principi Cristiani per punire i delinquenti non ordinate che si fabbrichino carceri oscure, cittadelle penose, orride torri, due sole prigioni bastano nel mondo Cristiano, quella del Sant’Offizio, de’ pazzi l’altra, così disse un servo di Dio, e disse bene, perché o il peccatore crede che vi sia inferno, o non lo crede; se non lo crede, come eretico al Sant’Offizio, se lo crede e pecca, e dopo il peccato non si pente, egli è pazzo, vada alla prigione de’ stolti. Se andrò all’inferno non sarò solo … e che sciocco parlare… non sarai solo, dunque tanto peggio per te. In un chiostro sacrosanto di capuccini satresti solo? No, perché in tanti religiosi avreste tanti Angeli per compagni, e pur non ti dà l’animo d’andarviti a richiudere; come, dunque, ti figuri tollerabile l’inferno, perché non sarai solo? Tra di noi in questo mondo è qualche conforto aver compagni nelle miserie, perché, o ci soccorrono, o ci compatiscono; non così nell’inferno, dove ognuno coopera al mal dell’altro. Senti, dice Naum Profeta, nell’inferno stanno i dannati a guisa d’un gran fascio di spine, che così strette insieme l’una con l’altra si pungono, sicut spine se invicem complectuntur. La moltitudine nell’inferno non serve per sollievo, ma per tormento e perciò meglio sarebbe esser solo; ma non dubitare non sarai solo, perché con te vi sarà quel compagno complice nel tuo misfatto, quel sacerdote che ti assolve francamente, quel tuo padre che non ti castigò, certo non sarai solo, vi saranno quelle femmine con le quali ballaste, sparlaste, lo so, non sarai solo, perché avrai la compagnia di tanti diavoli, di tanti dannati. Pazzo che sei, dunque va’, e gettati da quella torre, perché altri vi si son gettati; va’ butta il tuo perché non sarai solo ad esser povero; va cacciati un pugnale in petto, perché non sarai solo ad aver commesso un simile sproposito; se vado all’inferno non sarò solo… hai ragione, affacciati a quella bocca d’inferno, e dà d’occhio a quelle anime disperate, rimirale tormentate da fiamme inestinguibili, e sappi che anche esse, mentre vissero fra noi seppero dire ad ogni aperta di bocca: Dio è buono, Dio è misericordioso, Dio ha sparso il suo Sangue per noi, il Paradiso non è per i Turchi, dunque ci salveremo; ma perché discorrevano senza lasciare il peccato, si sono dannati; anche essi dissero più volte io non ho intenzione d’offender Dio, ma di scapricciarmi, se pecco, pecco per necessità, ma queste scuse non gli furono ammesse, perché non buone anche molti si lasciarono uscir di bocca cose sacrileghe. Dio m’ha fatto così, non so che farmi, se andrò all’inferno, non sarò solo, ed or pagano le lor bestemmie con eternità di fuoco. Io non so più che dirmi, sol finisco con assicurarvi, che se sollecitamente non mutate vita, né più vi abusiate della Divina Misericordia con questi vostri sofismi, e sciocche conseguenze si verificherà in voi quel tremendo aforisma, in peccato vestro moriemini, morirete in peccato mortale, che vale a dire senza la grazia, e perciò rei di fiamme; dalle piume del letto passerete al fuoco dell’inferno, Dio non lo voglia!


LIMOSINA
Conduceva un gran limosiniero i mercanti al suo granaio, e… quanto mi darete, diceva loro, di questo monte di grano? Essi rispondevano, tanto danaro, conforme a ciò che pareva doversi ed egli replicava: sappiate, che io trovo chi me ne dà più assai. Se io vendo il grano a voi, voi mi date poco di più di quello mi costi; se io lo do a Cristo ne’ poveri, egli mi raddoppia sempre l’entrate, e mi dà per cumulo il Paradiso. E così li licenziava compunti, e distribuiva allegramente la sua raccolta tra mendici, come tra i più fruttuosi corrispondenti. Attendete ancor voi miei UU. ad un sì bel traffico, depositate nelle mani di Dio tutti i vostri averi. Il banco divino non è fallito, può mantenervi il centuplo già promessovi nel Vangelo; fate elemosina e ricordatevi che lo Spirito Santo dice: Elemosina non patitur animas ire ad tenebras, chi fa la limosina non va all’inferno.


SECONDA PARTE

Poveri noi, ci avete sbattuti tutti quei motivi che ci davano speranza di salute, sicché potremo disperare di salvarci. O questo no, perché il maggiore de’ peccati è disperare della Misericordia Divina. È ben vero che chi vuole questa Divina Misericordia convien che cessi da’ peccati, perché il voler far peccati sotto la coperta della Divina Misericordia è un volere che la Divina Misericordia serva quasi di fomento al peccato, e questo non sarà mai! Sapete chi può sperare nella Divina Misericordia con fondamento? Prima quelle persone che vivono senza peccato mortale e molto più se fanno ogni possibile per astenersi da’ veniali. Secondo quelle persone, che dopo aver corso la strada de’ vizi, pur pentiti una volta, più non peccano. Terzo: quelle persone che quantunque immerse ne’ peccati, desiderano ad ogni modo di emendarsi e sfangare da vizi. Queste tre sorti di persone sperano con fondamento; non così però quelli che vivono immersi nelle scelleraggini e sono anni che stanno allacciati con quella pratica, sicché i loro peccati sono senza numero, come le loro sfrenatezze senza ritegno. Pure così chi vive tra gli odii, tra le vendette, tra gli interessi etc…. Questi non accade, che sperino misericordia se non mutano vita. La Misericordia di Dio non si può sperare con far de’ peccati, ma con far del bene, spera in Domino, fac bonitatem, spera, dice il Santo David, ma fa del bene. Se ci è poi che desideri sapere perché la gente diviene ogni dì peggiore, eccolo: perché Dio non castiga subito. Se quando qualcheduno prorompe in qualche bestemmia gli si venisse subito ad inverminire la lingua, se quando uno commette un furto gli si seccassero le mani; se quando uno commette una frode gli si instupidisse la mente; se quando uno trascorre in qualche sorte di enorme disonestà, venisse subito ad esser ricoperto di schifosissima lebbra, vogliamo noi credere, che sarebbero tanti al mondo i bestemmiatori, i furbi, i fraudolenti, i lascivi? Ma perché Dio non ci castiga subito, perché talora par che taccia, perché talvolta prospera alcuni nelle enormità, per questo la gente prende animo ad oltraggiarlo, per questo imperversa, per questo insolentisce, per questo divien finalmente ogni dì peggiore, quasi che Iddio come esercita la pietà, così non sappia ancora a suo tempo esercitar la giustizia; no, no … senti ecclesiastico: dixeris peccavit, et quid mihi accidit triste? Altissimus enim patiens est reditor. Non dire è tanto tempo che io vivo a mio modo, e con tutto ciò le mie cose vanno molto prosperamente, godo un’ottima sanità, ho delle facoltà e mi crescono, ho de’ figli, e mi vivono, ho degli amici, e mi stimano, e se ho de’ nemici mi rispettano. No, ne dixeris…: è vero, che il Signore spesso tarda, ma sempre arriva. T’arriverà quando non te lo credi. Tu prendi animo dal vedere che Dio finora non ti ha mai castigato nelle tue colpe, ed io ti dico, che tu da ciò hai da prendere non animo, ma spavento. Vuoi che te lo dimostri? Il non averti Iddio castigato finora, come tu meritasti peccando, non può procedere se non da uno dei due capi, o dall’averti perdonato il castigo, ovvero dall’avertelo differito. Fingi però che Egli abbia perdonato; adunque ora hai da temer più, perché quanto più ti ha Egli perdonato per il passato, tanto meno è probabile che voglia perdonarti per l’avvenire, non si ritrovando mai principe sì melenso, che mai punisca, sempre perdoni. Che se Dio non ti ha perdonato il castigo, come è certissimo, ma te l’ha differito perché lo sconti dopo, o nella vita presente, o nella futura, tanto più hai da temere, perché: questo è segno che Dio ti vuol castigare tutto in una volta, e però tanto sarà più terribile il castigo tutto raccolto insieme sopra del tuo capo. Riflettete dunque che l’avervi Dio tollerato finora, non solo non ha da rendervi più arditi, ma più timidi!

QUARESIMALE (XXX)

QUARESIMALE (XXVIII)

QUARESIMALE (XXVIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMAOTTAVA
Nella Domenica di Passione.


Il Peccatore ha per nemici il Cielo, la Terra, l’inferno. È
nemico crudele di sé stesso, nemico di Gesù Cristo, ha per
nemico Iddio.

Quis ex vobis arguet me de peccato. San Gio: cap. 8.


È legge stabilita tra’ Persiani, che morto il loro re, si viva per cinque giorni senza legge; onde è, che cresciute le insolenze, ne seguono con mille inconvenienti, anche spietati omicidi. Ciò si permette per far conoscere al popolo la necessità d’un capo, e le gran calamità in cui si vive, mentre si vive senza legge. È legge stabilita nel cuore de’ peccatori vivere senza capo, privo di Dio, quantunque vedano che da ciò ne derivino rovine al corpo, precipizi all’anima. Anzi pare che vadano dicendo: Quis ex vobis arguet me? E che cosa è il peccato? Mio Redentore, e che cosa posso far io perché ne conoscano la gravezza? Altro non posso fare, che rivoltarmi verso di loro e con le parole d’Eliseo a quei facinorosi ladroni, dirvi: aperi Domine oculos istorum: Deh aprite gli occhi a chi vive cieco, e non conosce ciò che sia peccato mortale … Sapete ciò, che vuol dire commettere un peccato mortale? Vuol dire tirarsi addosso l’inimicizia più fiera che possa mai darsi. Sapete quello vuol dire vuol dire tirarsi addosso l’inimicizia del Cielo, della terra dell’inferno; più, vuol dire esser nemico spietato di sé stesso … peggio: esser nemico di Dio. V’è più male? certo, vuol dire avere per nemico Dio, e son da capo … Non v’ha dubbio, che chi commette un peccato mortale tira addosso la inimicizia di tutte le creature Celesti, poiché al pari del figliuol prodigo, dopo aver gettato via tutti i tesori della Grazia divina, ed essersi ridotto ad un’estrema mendicità, poté dire col medesimo peccavi in Cœlum, ho peccato contro del Cielo; e con aver peccato contro del Cielo vi siete nemicato quanti sono colassù Angeli e Beati. E che non potete temere, mentre tutti i Grandi del Paradiso vi son contrari? Né vi crediate, che il loro sdegno contro di voi sia ordinario: perché siccome in Cielo si fa straordinaria festa per la conversione di un peccatore: Gaudium erit in Cœlo super uno peccatore pœnitentiam agente… ogni ragion vuole, che tutta quella allegrezza che si fa in Cielo per un peccatore pentito, tutta si converta in odio contro di quell’indegno che oltraggia il Cielo con nuovi peccati. Ecco, dunque, che avete aperta nimicizia col Cielo, che vale a dire con gli Angeli e con i Santi. E tu, o peccatore, a questa verità non ti riscuoti? Come è possibile che tu voglia continuare ad aver nemici, quanti sono Beati in Paradiso, e perciò voglia continuare in quell’odio, in quell’interesse, in quella maledetta inimicizia? Ah misero peccatore! Hai inimicizia col Cielo: che farai? Chiama, se puoi, a tua difesa la terra; appunto non puoi, perché anche con la terra, con gli uomini hai aperta nimicizia per il peccato mortale, che covi in seno. Che il peccatore, miei UU., sia nemico di tutti gli uomini, che stanno sopra la terra, basta riflettere quanto di male faccia all’uomo il peccato. Tutte le disgrazie, tutte le miserie, tutte le infermità, tutti i dolori, tutte le agonie, tutti gli spasimi, tutte le carestie, tutti i fulmini, i terremoti, le pestilenze, le guerre, le morti, è di fede, miei UU., son vere figlie del peccato mortale. Dunque, il peccatore commettendo i peccati, arma tutte queste miserie contro degli uomini e così si rende loro nemico. Il seguente racconto vi faccia toccar con mano quanta nimicizia abbia il peccatore con gli uomini. Riferisce Sofronio d’una certa donna per nome Maria, la quale non contenta di essere iniquamente vissuta nella propria patria, se ne partì per portarsi in lontani paesi a far pubblico mercato di se stessa. Montò per tanto sopra di una nave presa alla vela, quand’ecco che il legno, quantunque avesse il vento in poppa, si ferma immobile a guisa di scoglio. Attoniti del successo, i naviganti ricorrono alle orazioni, ai voti, ed odono una voce del Cielo che grida: getta in mare Maria, gettala, gettala. Si cerca Maria, che più disobbediente di Giona mette in pericolo tutto il vascello, e ritrovatala si getta non in mare, ma si ripone sul battello per assicurarsi del volere divino; volete altro, appena la meschina fu posta su quel picciolo legno che girando tre volte intorno intorno, s’affondò, quasi non potesse reggere al peso delle colpe della sfortunata femmina. O quante volte si rinnovano queste prove benché tanto sensibili però male intese. Quella casa ha un capo molto assegnato e diligente, eppure le possessioni non rendono; i debiti s’aumentano, insorgono le liti, le malattie, le disgrazie tutte par che l’abbiano presa di mira. Sapete perché? Perché in quella famiglia v’è qualche peccatore: qualche figlio lascivo, qualche servo bestemmiatore, qualche donna impudica. O se si potesse sgravare quella casa di questo peso, voi vedreste cessare le liti, le nimicizie, le malattie. Finché tu continuerai in peccato, cresceranno le miserie, non saranno fertili i poderi, non corrisponderanno i censi: perché il peccato è nemico di tutte le creature, sempre le travagliata ed affligge. È indubitato che i peccati d’un solo talora mandano in rovina le famiglie e popoli interi. Di tanto ci assicura Origene. Uno peccante, ira super omnem populum venit. Che dissi Origene? Le Sacre Carte, Iddio. Portatevi in Giosuè al settimo, e sentitene il fatto. Avevano gl’Israeliti espugnata con rara felicità la città di Gerico, e però volendo seguire animosi il corso delle vittorie, s’incamminarono alla conquista di Hai, città senza paragone inferiore a Gerico e di grandezza e di forze: ma che? Giunti colà a fronte dell’inimico, furono sì vergognosamente respinti, che gli convenne voltar le spalle. A questa inaspettata fuga, immaginatevi che nel popolo si sollevò un bisbiglio non ordinario ed un pianto universale non sapendosi a che attribuir l’avergli Iddio sottratta la sua protezione; mentre dallo stesso Iddio erano colà stati chiamati per mieter palme e per raccogliere allori vittoriosi. Per indagarne dunque la cagione, ecco che Giosuè prostrato avanti all’Arca, prega, piange, si umilia ed intende che la cagione di tanta sciagura era stato un peccato commesso non già da tutti, ma da uno solo, e fu appunto quello che commise l’infelice soldato Acan, allorché vedendo andare a fuoco ed a fiamme Gerico, veduta una ricca sopravveste di porpora tra le spoglie, se ne invaghi’, la tolse contro gli ordini dati dal capitano, la preservò dall’incendio, e la nascose sotto il padiglione. Or per questo malfattore, benché occulto, Iddio tanto si adirò, che protestò di abbandonarli in eterno, se tutti non si univano a levarlo di vita: non ero ultra vobiscum, nisi conteretis eum: tanto è vero, soggiunge qui Salviano, che leditur scelere personali causa cunctorum. – Disgraziato peccatore, come nemico del Cielo e della terra, sei in odio agli Angeli, a’ Santi, ed a tutto il mondo, e sei sì infelice, che hai l’odio insino de’ diavoli: ma come può essere, che il peccatore sia nemico del diavolo, mentre il diavolo altro non brama se non che sia peccatore? È vero che il diavolo brama che il peccatore sia peccatore, e perciò lo tenta e gode che pecchi. Ma ne gode per quel male che l’uomo peccando fa a se stesso, dove che dall’altra parte gli dispiace il suo peccare, perché quel suo peccato, dovrà esser una volta allo stesso diavolo di maggior tormento, e sarà allora quando il peccatore sarà all’inferno. Volete la ragione, perché sarà di maggiore tormento al diavolo? Eccola: molti carboni insieme fanno più fuoco, e più si bruciano l’uno con l’altro. Così sarà nell’inferno: quanti più dannati vi saranno, tanto più tormenteranno i diavoli ed ecco il peccatore nemico anche de’ diavoli; perché tormentandoli diverranno loro nemici. E per non esser parziali di niuno, eccolo nemico anco de’ dannati stessi per la medesima ragione, perché l’uno con l’altro a guisa di tizzoni accenderanno maggiormente quelle fiamme nelle quali stanno sepolti: anzi i dannati saranno nemici più arrabbiati de’ diavoli, perché non avranno l’acerbo conforto tra loro tormenti d’esser carnefici, come l’hanno i demoni. Sebbene, come potrò credere, che il peccatore stimi questa inimicizia, mentre egli peccando diviene nemico ancora di sé medesimo? Si può sentir di peggio esser nemico di sé stesso con fare a se stesso ogni gran male. Sì, i peccatori sono nemici di sé stessi. Così li chiama Tobia: Hostes sunt animæ suæ. Sentite: un nemico, per quanto sia crudele, non vi spoglia mai d’altro che o delle ricchezze, o della libertà, o della vita: ed appunto di tutti tre questi beni spogliano i peccatori con i peccati l’anima loro. La spogliano di ricchezze, togliendole il bel tesoro della grazia, di cui un grado solo val tanto che se il mondo tutto fosse d’oro e di diamanti, non sarebbe sì ricco. La spogliano di tutti i meriti della buona vita passata. Sicché sentite ed inorridite. Quanto per l’addietro operaste di virtuoso, di cristiano, di pio, tutto perdete col peccato mortale; tanto denunciò Iddio per Ezechiele: Si avertit se justus a justitia sua, et fecerit iniquitatem secundum omnes abominationes, quas operari solet impius, numquid vivet? Signori no che non vivet. Ma che? omnes justitia ejus, quas fecerat non recordabuntur. Oh protesta da far raccapricciare anche un’anima di macigno! Tutte quelle opere buone, dice Iddio, le quali per l’addietro avete fatto, rimangono già sepolte in sì alta dimenticanza, che se una morte improvvisa vi togliesse dal mondo, mai mai per tutta l’eternità ne godreste alcun premio. Chi mai, Cristiani miei, potrebbe crederlo? Dunque, dirò io: se taluno di voi per l’addietro avesse, come un Domenico Loricato, afflitte sempre con stranissime guise di penitenze, le proprie carni, sicché le avesse ogni dì sminuite con digiuni, piagate con cilici, lacerate con flagelli, sbranate con catene ed ora morisse in quel peccato del quale a sorte è reo … cotante austerità non gli gioverebbero niente niente. Dunque, se taluno per l’addietro avesse qual altra Melania Romana distribuito in alimento de’ poveri tutte le sue sostanze, sicché avesse continuamente vestito i nudi, ricomprati schiavi, serviti infermi, sostentati i pupilli, ed ora morisse in quel peccato mortale: tante limosine non gli frutterebbero niente, niente, niente. E se voi tutti miei UU., aveste convertiti a Cristo più popoli con Francesco Xaverio; se aveste superato un’Alessio nel disprezzo del mondo; un Francesco d’Assisi nella povertà, umiltà, e poi moriste in peccato mortale: niente vi gioverebbero tante virtù, niente tanti meriti, niente tante penitenze, niente tanta santità? No, omnes justitiæ ejus, quas fecerat non recordabuntur. Ah peccatori, quanto siete nemici di voi stessi, mentre spogliate l’anima vostra di sì ricchi tesori; né contenti di quanto avete, le togliete la libertà; vendendola al diavolo, per un capriccio o d’odio o di senso o d’interesse: venundati sunt, ut facerent malum. E finalmente passano avanti con darle cruda morte. E che altro è alla fine il peccato mortale, che la morte dell’anima; mentre le toglie Iddio, che è la sua vita? Anima emissa, dice Agostino, mors corporis: Deus amissus, mors anima. Se si parte l’anima dal corpo … muore il corpo, se si parte Iddio dall’anima, ecco morta l’anima; che resta al corpo, quando è uscita l’anima? Il sepolcro! Che resta all’anima perduto Iddio? L’Inferno. Come dunque può negarsi che i peccatori non siano nemici di se stessi? Si, si, hostes sunt animæ fuæ, e nemici tali che tolgono tal ricchezza, tal libertà, tal vita. Qual fiera, qual tigre, qual pantera fu mai sì crudele contro se stessa, che giungesse a perdere volontariamente la libertà, dandosi nelle mani de’ cacciatori? E qual mai si trovò, che da se stessa, si svenasse, si uccidesse, si desse la morte? Solo il peccatore è quella fiera così spietata contro di sé. Miseri peccatori, nemici crudeli di voi stessi, mentre a voi stessi causate il maggior de’ mali che possa mai accadervi .. Sentite: Caligola il più fiero mostro che regnasse giammai fra gli uomini, desiderava che tutto il popolo Romano si riducesse ad avere una sola testa per poterla troncare in un sol colpo; io per me mi persuado però, che quando bene avesse potuto sortire effetto il desiderio bestiale d’un tal tiranno in alzare la mano a sì gran taglio, si sarebbe commosso, quel cuor di pietra, si farebbe ammollito; e riposta nel fodero la spada, benché assettata di sangue umano, non avrebbe saputo arrivare tant’oltre. Or miei uditori, tutte le volte, che acconsentite al peccato mortale fate di voi stessi scempio più atroce: privando di vita l’anima vostra, anima quæ peccaverit ipsa morietur. E tuttavia non tremate? E non solamente non vi cadde di mano il ferro per l’alto orrore; ma eseguite un colpo sì lagrimevole e si funesto! Passo avanti e dico che fate un scempio sì grande di voi stessi, che se tornasse di nuovo ad inondar il mondo nel diluvio, la strage di tutti gli uomini ora viventi sarebbe per se stessa infinitamente più leggera di quel che sia la morte che voi date all’anima vostra col peccato mortale, giacché la vita soprannaturale d’un’anima val più che non vale la vita naturale di tutti gli uomini possibili. Sentite se siete veramente nemici spietati di voi stessi. Se Dio desse licenza, ma senza limitazione, non ad un solo demonio, ma a tutti di rivoltarsi contro di voi ed essi a gara vi facessero quel più di male che potessero; sappiate che tutti insieme non potrebbero mai farvi tanto di male, quanto da voi stessi ve ne fate peccando. Dirò di più: se la Divina Giustizia con la spada sua onnipotente, volesse sopra di voi scaricare un colpo degno del suo braccio divino, certo con tutta la sua forza non potrebbe fare all’anima vostra quel male che voi stessi fate con acconsentire ad un peccato mortale; perché alla fine non potrebbe farvi altro male, che male di pena, là dove a voi stessi fate maggior male, perché è male di colpa. Oh Dio! quanto mai deve giubilare l’inferno, allorché voi peccate? Mentre vede che fate a voi stessi quel male che non può Egli con la sua onnipotenza. Chi può dunque negarvi il titolo che vi dà lo Spirito Santo di nemici delle anime vostre qui faciunt peccatum hostes sunt animæ suæ. Ti compatisco, o peccatore, perché ti ravviso nemico di te stesso, ma molto più, perché sei, oh Dio! Nemico di Dio … Ecco la figura, che di te mi rappresenta il santo Giobbe: mi ti fa vedere armato da capo a piedi col collo gonfio, e superbo, con la mano stesa in atto di voler combattere con l’onnipotenza: tetendit adversus Deum manum suam: contra Omnipotentem roboratus est. Non vi è pertanto perfezione in Dio, contro di cui non si armi con la sua iniquità il peccatore. Disprezza l’onnipotenza, vilipende la Sapienza, non teme la giustizia, conculca la Divina Misericordia. Ecco, ecco a quello che vi conduce quella passione di odio, d’amore d’interesse, ecco gli scogli ne’ quali date, mentre siete irriverenti nelle Chiese, disprezzatori de’ parenti, mormoratori, bestemmiatori; voi con oltraggiare le perfezioni Divine siete simili a quegli sciocchi popoli dichiarati nemici del sole, giacché contro di lui lanciavano nembi di saette. Certo non arrivavano a ferirlo; ciò però non procedeva dalla loro volontà, ma dalla sublimità del sole superiore a qualunque dardo; del resto, se il sole fosse stato loro vicino, e fosse stato capace di ferite mortali, chi non vede che, per quanto stava a quei perfidia, sarebbe stato ferito così fate voi, peccatori: per quanto è dal canto vostro, procurate di ferire Dio; e se non vi riesce, non è che resti dalla vostra malizia; resta perché Egli è quel Dio che è. Chi, dunque, negherà che veramente non siate nemici di Dio, sicché lo siete peccatori indegni, peccatrici scellerate; e giacché non volete confessarvi tali con la lingua, ecco che vi svergogno, e vi paleso per nemici di Dio con l’autentica irrefragabile de’ vostri fatti; e quel che è peggio non siete stati nemici di Dio con odio rimesso e moderato, ma con odio il più spietato, il più crudele, il più barbaro, che possa aversi. Ecco, ecco l’autentica della vostra inimicizia. Fissate gli occhi in questo Cristo, e negate se potete, che non siate nemici di Dio. Domandagli, o peccatore, un poco col Profeta: quid sunt plage iste? Che piaghe son queste, che avete nella vostra vita? E sentirai risponderti: queste son piaghe fattemi da’ peccatori miei nemici, queste piaghe de’ piedi me le facesti crudele quando ti portasti a quei balli, a quelle veglie, a quei corsi, a quei festini, a quelle conversazioni dalle quali sempre ne uscivi col peccato mortale. Queste piaghe delle mani me le hanno fatte quei memoriali indegni, che stendesti, quelle lettere cieche che mandasti a danno ora di questo, or di quello; quelle carte, che maneggiasti con tante frodi, con tant’inganni, con tanto pregiudizio della famiglia. Tu mi ponesti la corona di spine nelle tempie quando macchinasti la rovina del tuo prossimo; quando ordisti nella mente tua quelle insidie alla onestà di quella donzella, all’onore di quella maritata. Tu mi porgesti fiele per bevanda, allorché ti lasciasti uscir di bocca tanti giuramenti, tanti spergiuri, tante laidezze, tante bestemmie, tante mormorazioni; tu in somma, da vero nemico mi hai aperto questo costato, quando nel tuo cuore covasti gli odii, i rancori, le inimicizie; quando sì lungamente vi racchiudesti gli amori indegni? Tu insomma m’hai posto in questa croce con le tue scelleraggini; e con le tue indegnità mi ci hai fatto morire. Sarai contento; son morto per le tue mani; eppure ad ogni modo altro non bramo, che darti vita. Voi inorridite a questo mio parlare? Vi ho mostrato la nemicizia, che avete avuto con Dio, mentre gli avete ucciso il Figlio, e pur questo è nulla a paragone di quello che rimane. Voi siete nemici di Dio: gran parola! E pure è il lampo del tuono, è la folgore del fulmine, ecco il colpo. Atterritevi … ecco la saetta. Voi nemici di Dio; ecco la conseguenza, e Iddio è vostro nemico. Iddio è tuo nemico, va’ dove vuoi, che non hai sicurezza. Hai per nemico Iddio, o tu dorma, o tu vegli, o tu mangi. Avete Dio per nemico, e tanto ridete, non cadete a terra morti per lo spavento? Come è possibile? Un antico romano, di cui dovevasi trattar la causa in senato, sentendo che Tullio, oratore sì temuto, gli era contrario, s’accorò tanto che per disperazione s’uccise; ed a voi non par nulla aver un Dio per contrario! Poveri voi, che con aver nemico Dio, avete altresì nemiche tutte le creature; perché tutte insorgono alla difesa del suo Padrone; così seguì appunto allorché Semei ingiuriava di lontano il Re David; giacché subito i cortigiani s’offersero a gara di andar ciascuno di mano propria a staccargli la testa dal busto: Ego vadam, amputabo caput ejus. Ecco, dunque, che contro di voi, che avete Dio per nemico, grida la terra ego vadam, e lo subisserò nel mio fondo: ego vadam, grida l’acqua, e l’assorbirò ne’ miei gorghi: ego vadam, grida l’aria, e lo sconquasserò con i miei turbini: ego vadam, grida il fuoco, e lo consumerò con le mie fiamme: ego vadam, gridano i fiumi, inonderò le sue campagne. Che sarà dunque di te; se non levi di casa colei, se non perdoni, se non restituisci, se non ti penti di cuore? Ah! che mi pare, che i demoni gridino ad alta voce: questo è nostro… presto: Deus dereliquit eum; persequimini, et compræhendite eum, e sepellitelo nelle fiamme eterne d’inferno.

LIMOSINA.
Chi visse in peccato faccia limosina, per non tornarvi; chi lo covò lungamente la faccia maggiore; perché ha più bisogno di misericordia; chi non peccò slarghi la mano, per non tirarsi addosso la inimicizia di Dio.

SECONDA PARTE.

Voi, o peccatori siete nemici di Dio: bene avete inteso. Iddio è vostro nemico altresì e sappiate che questa inimicizia, che ha Dio contro di voi porta seco un odio tale di Dio verso di voi, che tale non l’hanno i demoni tutti dell’inferno verso un’anima dannata. Quando gli Ateniesi si ribellarono a Dario Re della Persia, lo toccarono talmente sul vivo con un tal disprezzo, che diede ordine ad un suo cameriere, che ogni mattina nel svegliarlo li dicesse così: Sire, ricordatevi degli Ateniesi; e ciò richiedeva a solo oggetto, che il tempo non gli diminuisse punto del suo sdegno, e della vendetta, che disegnava prendere contro de’ suoi ribelli. Iddio, o peccatori, non ha bisogno di sì fatta invenzione per ricordarsi che è vostro nemico; e perciò per mantenere sempre
accesa contro di voi l’ira sua giustissima, sappiate che il vostro peccato sta sempre presente al suo guardo; e non può cancellarsi, perché è scritto con filo di ferro, inciso nel diamante: Peccatum Juda scriptum est stylo ferreo, et ungue adamantino. Or io vorrei che i peccatori mi dicessero come mai fanno a vivere allegri, mentre sanno d’avere una inimicizia sì formidabile; ancor io son costretto ad entrare ne’ sentimenti dell’Angelico San Tommaso, il quale si protestava di non capire due cose: la prima come un Cristiano, che sa per fede che peccando diventa nemico di Dio, pure ardisca peccare. La seconda, come essendo già col suo peccato diventato nemico di Dio, possa poi passarsela allegramente, ed abbia passatempi per ricrearsi, abbia facezie per ridere, abbia sonni per riposare. Come farete dunque, o peccatori a vivere sì tranquilli nelle vostre iniquità? Scopritemi di grazia questo segreto ignoto anche alla mente dei maggiori savi che mai vedesse la terra. Tu donna infelice, infedele al tuo marito, come ti riesce a star quieta, mentre sei nemica di Dio? Tu giovine miserabile che tanto t’affliggi se quella amica ti guarda bieco, come fai a vivere sì allegramente, mentre sei tanto in odio a Dio? Tu, che se il tuo principe non ti volesse mai più vedere moriresti di cordoglio, e pure adesso con l’inimicizia formidabile del tuo Creatore non solo non muori di cordoglio, ma giungi fino a vantarti d’averlo offeso, giungi ad insuperbirtene, giungi per questo capo a reputarti più degli altri. Io per me, credo che non crediate, scusatemi … queste verità Cattoliche. Se non credete rinunziate al Battesimo e cancellate dal ruolo de’ fedeli il vostro nome. Credere d’aver nemico Dio e ridere e urlare e scherzare? Peccatore vien qua, dimmi un poco: con qual timore staresti, se sapessi d’aver per nemico un gran cavaliere, un principe, un re? quanto maggiore sarebbe il timore, se tu sapessi che egli assolutamente si vuol vendicare? Grandissimo; tu non me lo puoi negare. Or tu sai che sei nemico non d’un principe ma di Dio, in cujus manu funt omnium potestates: e non temi, e non tremi? Tanto più che sai, che assolutamente vuol vendicare con castigarti. Temilo, o peccatore; e tanto più temilo quanto, che non te lo sei reso nemico con avergli fatto una sola offesa: l’hai offeso tante volte, e sfacciatamente in più luoghi, per le strade, per le piazze, nelle case, nelle stesse Chiese; or se egli vorrà castigarti per una sola offesa, che gli abbia fatta, quanto più per tante! Temilo dunque, e molto più temilo, perché ti può raggiungere ovunque tu sia. Se hai un nemico in una città, puoi andar in un’altra; se in un regno, in un altro; ma Dio ti arriverà per tutto; quo ibo a Spiritu tuo, quo a facie tua fugiam? E dove andrò,
dice il Profeta, che tu non mi giunga? Si descendero in infernum ades; se mi nasconderò nel centro della terra, ivi tu sei: si ascendero in Cœlum, tu illic es; se mi porterò all’altezza de’ Cieli, quivi ti troverò: si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris; ancorché io mi porti di là da’ mari, tanto tu mi raggiungerai! Temilo dunque, o peccatore, perché hai un nemico che da per tutto può raggiungerti. E temilo molto più; perché già tu vedi che contro di te ha sfoderata la spada; e ti fa vedere i lampi del suo sdegno. Spada di Dio, che ti minaccia castighi maggiori, sono quella lite suscitata; lampo dell’ira di Dio è quella malattia, quella grandine, quella morte. Temilo insomma, perché è un Signore di sì alta potenza, che postquam occiderit corpus, babet potestatem mittere in gehennam; che dopo d’aver posto il corpo estinto in terra, ha potestà di seppellire l’anima nell’inferno. Temilo, o peccatore, e non voler più questa inimicizia col tuo Creatore. Ah no, no, no non è dovere; bisogna concludere questa pace ed ora a’ piedi di Cristo si ha da stabilire per sempre. Amor mio non più peccati, diceva la Beata Caterina da Genova; quanto dobbiamo dire ancor noi: non più peccati, non più bestemmie, non più ingiustizie, non più rancori, non più disonestà, purtroppo siamo stati ciechi per il passato a non temer questo Signore; ve ne chiediamo perdono. Eccoci pentiti, eccoci contriti. Evvi nessuno, UU., che ricusi domandare questo perdono? Se vi è si dichiari, e se vuol continuare la inimicizia con Dio; egli si protesta, che gli sarà nemico in vita, e gli pianterà la dannazione in cuore la morte. No no mio Dio; tutti con Voi vogliamo amicizia, e perciò tutti vi domandiamo misericordia, e pace; pace e misericordia. Se così è, miei UU., questo Cristo vi concede il perdono; vi dà la pace, con questa condizione però, che non torniate ad offenderlo.

QUARESIMALE (XXIX)

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2023)

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2023)

MESSA

Doppio di 1° classe – Paramenti bianchi.

Oggi commentiamo il più grande avvenimento della storia: l’Incarnazione di nostro Signore (Vang.) nel seno di una Vergine (Ep.). In questo giorno il Verbo si è fatto carne. Il mistero dell’Incarnazione fa sì che a Maria competa il titolo più bello: quello di « Madre di Dio » (Or.) in greco « Theotocos »; nome, che la Chiesa d’Oriente scriveva sempre in lettere d’oro, come un diadema sulle immagini e sulle statue. « Avendo toccato i confini della Divinità » (Card. Cajetani in 2° – 2æ q. 103, art. 4) col fornire al Verbo di Dio la carne, alla quale si unì ipostaticamente, la Vergine fu sempre onorata di un culto di sopravenerazione e di iperdulia: « Il Figlio del Padre ed il Figlio della Vergine sono un solo ed unico Figlio », dice San Anselmo. Maria è da quel momento la Regina del genere umano e tutti la devono venerare (Intr.). Al 25 marzo corrisponderà, nove mesi più tardi, il 25 dicembre, giorno nel quale si manifesterà al mondo il miracolo che non è conosciuto oggi che dal cielo e dall’umile Vergine. La data del 25 marzo, secondo gli antichi martirologi, sarebbe anche quella della morte del Salvatore.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLIV: 13, 15 et 16
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]

Ps XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.

[Dal mio cuore erompe una fausta parola: canto le mie opere al Re].

Ps 44:2.
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum, Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere eam Genetrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.

[O Dio, che hai voluto che, all’annuncio dell’Angelo, il tuo Verbo prendesse carne nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi tuoi sùpplici che, come crediamo lei vera Madre di Dio, così siamo aiutati presso di Te dalla sua intercessione.]

Lectio

Léctio Isaíæ Prophétæ
Is VII: 10-15
In diébus illis: Locútus est Dóminus ad Achaz, dicens: Pete tibi signum a Dómino, Deo tuo, in profúndum inférni, sive in excélsum supra. Et dixit Achaz: Non petam ei non tentábo Dóminum. Et dixit: Audíte ergo, domus David: Numquid parum vobis est, moléstos esse homínibus, quia molésti estis et Deo meo? Propter hoc dabit Dóminus ipse vobis signum. Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel. Butýrum ei mel cómedet, ut sciat reprobáre malum et elígere bonum.

[In quei giorni: Così parlò il Signore ad Achaz: Domanda per te un segno al Signore Dio tuo, o negli abissi degli inferi, o nelle altezze del cielo. E Achaz rispose: Non lo chiederò e non tenterò il Signore, E disse: Udite dunque, o discendenti di Davide. È forse poco per voi far torto agli uomini, che fate torto anche al mio Dio ? Per questo il Signore vi darà Egli stesso un segno. Ecco che la vergine concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuel. Egli mangerà burro e miele, affinché sappia rigettare il male ed eleggere il bene].

Graduale

Ps 44:3 et 5
Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum.
V. Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam: et dedúcet te mirabíliter déxtera tua.


[La grazia è riversata sopra le tue labbra, perciò il Signore ti ha benedetta per sempre,
V. per la tua fedeltà e mitezza e giustizia: e la tua destra compirà prodigi].

Tractus

Ps XLIV: 11 et 12
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex speciem tuam.

[Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza.]


Ps XLIV: 13 et 10
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: fíliæ regum in honóre tuo.

[Tutti i ricchi del popolo imploreranno il tuo volto, stanno al tuo seguito figlie di re.]
Ps XLIV: 15-16


Adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus afferéntur tibi.
V. Adducéntur in lætítia et exsultatióne: adducéntur in templum Regis.

[Le vergini dietro a Lei sono condotte al Re, le sue compagne sono condotte a Te.
V. Sono condotte con gioia ed esultanza, sono introdotte nel palazzo del Re].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam
Luc 1:26-38
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elísabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo: L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, ad una Vergine sposata con un uomo della stirpe di Davide che si chiamava Giuseppe, e il nome della Vergine era Maria. Ed entrato da lei, l’Angelo disse: Ave, piena di grazia: il Signore è con te: benedetta tu tra le donne. Udendo ciò ella si turbò e pensava che specie di saluto fosse quello. E l’Angelo soggiunse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti a Dio, ecco che concepirai e partorirai un figlio, cui porrai nome Gesù. Esso sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. Disse allora Maria all’Angelo: Come avverrà questo, che non conosco uomo ? E l’Angelo le rispose. Lo Spirito Santo scenderà in te e ti adombrerà la potenza dell’Altissimo. Perciò quel santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco che Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio, in vecchiaia: ed è già al sesto mese, lei che era chiamata sterile: poiché niente è impossibile a Dio. E Maria disse: si faccia di me secondo la tua parola.]


OMELIA

[B. BOSSUET: LA MADONNA NELLE SUE FESTE – Vittorio Gatti ed. Brescia, 1934]

ANNUNCIAZIONE DELLA VERGINE

Discorso I.

Iddio fece nel mondo una cosa nuova: una donna da sola concepirà un uomo.

(Geremia, XXXI, 22).

Nella spaventosa catastrofe, in cui la ragione umana fece naufragio, perdendo in un istante tutte le sue ricchezze, ed in modo speciale la conoscenza del perché Dio l’avesse creata, nella povera mente umana rimase un segreto e vago desiderio di cercarne conoscerne qualche traccia. Da qui l’amore incredibile che ogni uomo prova per tutto ciò che è novità. Amore che si manifesta in molti modi ed agita gli animi in forme tanto diverse. Per tanti non farà che preoccuparli di raccogliere in gabinetti o musei mille e mille rarità forestiere: animali e cose; mentre altri sono assillati, perché più inventivi, della brama di nuove forme nell’arte; sistemi sconosciuti nella gestione dei grandi affari, o nello strappar segreti alla natura! Per non andar all’infinito, vi dirò che nel mondo non v’è attrattiva più lusinghiera ed universale, curiosità meno limitata che quella della novità. Dio che vuol guarire questa febbre, che sì stranamente divora l’umanità, presenta alla brama degli nomini, nella Sacra Scrittura, novità sante la cui curiosità diventa feconda di bene: il mistero d’oggi ce ne dà una prova luminosa. Il profeta Geremia la presenta con parole che indicano la sua attonita meraviglia, e per eccitare la nostra attenzione a qualcosa di prodigioso, più che mai ci obbliga a chiedere alla Madre l’aiuto del suo Figliuolo, con l’Ave Maria, che in nessun giorno più che in questo è la preghiera adatta a salutare la Vergine. Ave Maria. Nella brama frenetica di grandezza e gloria che agita gente di ogni età e di ogni condizione, dobbiamo confessare, o Cristiani, che la moderazione rappresenterebbe tale novità da farne meravigliare il mondo e farla collocare tra le rarità, che se ne vedon casi così rari che quasi si dimenticano!… Spettacolo d’una rarità meravigliosa il vedere l’uomo contener se stesso nella sua piccolezza… e non sarebbe strabiliante addirittura se vedessimo un Dio spogliarsi della sua grandezza infinita scendere dall’alto del suo trono per nascondersi volontariamente… più ancora per annientarsi? È il mistero del — Verbum caro factum est — il verbo si è fatto carne, che la Chiesa presenta oggi, sublime novità che fa esclamare al profeta: « Dominus creavit novum super terram ». Iddio creò sulla terra cose nuove, quando mandò il suo Figlio umiliato annientato nel mondo. In questo abbassamento di Dio che si fa Uomo Dio, io contemplo due fatti straordinari: Dio, Dominus dominantium, il Signore dei Signori al di sopra del quale nessuno s’innalza… e la cui grandezza infinita si stende immensa senza che grandezza alcuna l’arresti, la limiti e nemmeno l’uguagli! Ecco la novità strabiliante: Colui che non ha né sopra di sé né attorno a sé chi l’eguagli, dà a se stesso chi lo domini, e si fa simile all’uomo ch’Egli stesso ha creato. – Il Verbo uguale al Padre nella eternità si fa suo suddito nel tempo: Egli elevato infinitamente al di sopra degli uomini e degli Angeli stessi si fa uguale all’uomo. Quale strepitosa novità! Ha ragione il profeta di gridare al prodigio! Oh Padre celeste, o uomini della terra, oggi vi si fa onore così grande che io non so parlarne senza esserne sbigottito: il Padre non ebbe mai tal suddito, gli uomini mai simile fratello. Su dunque, e tutti, o fratelli, venite e contemplate il fatto inaudito di questo giorno: ma non dimentichiamo, mentre contempliamo il sublime mistero, l’altra parola che soggiunge il profeta: — Fœmina circumdabit virum — una donna concepirà un uomo — imparando da queste mistiche e misteriose parole una grande e consolante verità: Maria fu chiamata a compagna di Dio in quest’opera meravigliosa! Contempliamola per ben capirla in questa festa in cui ha tanta parte. Il Verbo che si fa suddito, la sceglie perché sia il primo tempio nel quale renderà al suo Padre celeste il primo suo omaggio, e lo stesso Verbo, Dio uguale al Padre, che si fa simile agli uomini la sceglie e destina ad essere il canale per cui si comunicherà ad essi! – Per esser più chiaro: consideriamo attentamente come e quanto il Signore onora questa Vergine quando in Lei si annienta: e questo sarà il primo punto; quando per Lei si comunica a noi e sarà la seconda parte. Eccovi quanto vi dirò pregandovi della vostra attenzione.

I. punto.

È mistero ed è verità indiscutibile questa o fratelli: Dio quantunque nella sua onnipotenza abbia tutti i mezzi per stabilire la sua gloria, è incapace, diciamo così, di aumentarla, se non nell’unirla all’umiltà; cosicché troviamo la sua gloria misteriosamente, ma necessariamente unita coll’umiliazione: verità misteriosa che riceve però grande luce dal mistero che oggi onoriamo. Autore della natura e delle sue leggi, Egli la può sconvolgere a suo piacimento, e spezzando le sue leggi con mille miracoli può manifestare agli uomini la sua potenza: ma non potrà mai spinger più alto la sua grandezza di quando s’abbassa, si umilia, si annienta. – Ecco una novità strepitosa: non so se tutti comprenderanno il mio pensiero, ma le prove che io porto sono molto evidenti e chiare nello stesso mistero che abbiamo davanti. S. Tommaso nella terza parte della sua Somma, provò luminosamente che Dio non può far opera più grande di quando personalmente si unisce alla creatura umana nella Incarnazione. Senza addurre tutte le prove che, più adatte alla scuola, qui assorbirebbero troppo tempo, ognuno però comprende come Dio potenza, anzi potenza infinita, non poteva far opera più sublime del gesto con cui diede al mondo il Verbo incarnato, l’Uomo-Dio! ll profeta Àbacuc la dice: opera di Dio — opus tuum Domine! — e dice: tu o Signore nulla puoi fare di più meraviglioso. È la più grande quest’opera, ne consegue che da essa sgorga la gloria più grande del Signore: poiché il Signore solo gloria se stesso nelle sue opere: « Gloriabitur Deus, canta il Salmista, in operibus suis ». Questo strepitoso miracolo Dio non lo poteva fare che facendo quanto S. Paolo dice con frase scultoria: Exinanivit semétipsum… si annichilì prendendo la figura di schiavo. Nell’umiliazione soltanto, dunque, Dio poteva fare la sua opera più grande… il suo capolavoro. – Il profeta grida, e noi diciamolo con lui: Deus creavit novum!… ma quale novità? Volle portare all’apice la sua grandezza per questo exinanivit  semetipsum! rivelandoci così lo sfolgorìo più abbagliante della sua gloria e maestà! Vestito delle nostre debolezze abitò tra noi, per questo vedemmo la sua gloria di Unigenito del Padre. Mai si conobbe gloria più fulgida perché mai neppure si immaginò umiliazione più profonda. – Non vorrei, fratelli miei, pensaste che io voglia colle mie parole dar pascolo alla vostra mente in una semplice contemplazione, quasi curiosa: per carità scacciate tale idea! Con le mie parole ad altro non miro che a farvi amare l’umiltà, virtù base della vita cristiana, mostrandovi quanto l’ami Iddio stesso: tanto che non potendola Egli, sommo amore e perfezione, trovare in se stesso, la viene a cercare in una natura creata. Sovrana grandezza non può aver in sé l’umiltà: non potendo rinnegare la sua natura deve sempre operare da Dio… sempre infinitamente grande quindi! Ma ecco che la sua natura infinitamente feconda non gli impedisce di ricorrere al prestito: viene a prestito dalla natura umana per arricchirsi delle grandezze dell’umiltà! Queste cerca il Figlio di Dio, per questo si fa uomo, perché in Lui il suo Padre celeste contempli un Dio sottomesso ed obbediente. E che questo sia il suo programma, ce lo dice, fratelli, il sommo suo atto: quello che compie venendo nel mondo colla Incarnazione. – Vorreste, oggi, conoscere quale sia stato questo primo atto, del Verbo, quale il suo primo pensiero il primo movimento della sua volontà? Io rispondo sicuro di non sbagliare: fu un atto di obbedienza. Da chi, dove trovai svelato il segreto il grande mistero?… Oh ve lo dico subito: me lo svela S. Paolo nella sua lettera agli Ebrei al capo X, dove così parla del figlio di Dio che, entrando nel mondo, in quello che disse, svelavaci il suo pensiero. – Disse dunque al suo Padre celeste: « Non volesti, Padre, ostie ed oblazioni, nè ti piacquero (soddisfacevano) gli olocausti per il peccato; quindi a me formasti un corpo; ed allora dissi: andrò io stesso… perché?… per fare o Padre la tua volontà ». – E non ci dicono chiaramente queste parole, che il primo atto del Verbo che scende dal Cielo è un atto di umile obbedienza: « ut faciam, Deus, voluntatem tuam », per obbedirti, o Padre?… Ma noi possiamo andar più avanti nel vedere come Dio ami l’umiltà: Oh sublime atto, atto veramente divino d’obbedienza con cui il Cristo inizia la sua vita!… Sacrificio nuovo di un Dio sottomesso, in quale tempio, su quale altare sarai offerto all’Eterno Padre? Dove vedremo questo strepitoso miracolo d’un Dio umiliato ed obbediente? Saranno, fratelli, le viscere immacolate di Maria, il tempio augusto, sarà il suo seno verginale il fortunato altare su cui il Figlio di Dio, fatto carne, consacrerà al Padre i primi voti di obbedienza. – Ma perché il Verbo incarnato sceglie la Vergine a tempio ed altare del suo sacrificio di umiliazione? È l’umiltà che ve lo induce, perché quel Tempio misterioso è costruito sull’umiltà e dalla umiltà venne consacrato! Ecco che ce lo mostra la Scrittura. Raccogliete nella lettura di questa pagina la vostra attenzione per veder come fu proprio l’umiltà di Maria che diede l’ultimo tocco, atteso dalla divinità, perché il Verbo iniziasse la sua dimora nel mondo. Nel colloquio misterioso, tra la Vergine e l’Arcangelo, che il brano evangelico di questo giorno ci ritrae, osservo che due sole volte Maria parla all’Angelo, ma con quali meravigliose parole, o fratelli! Volle il Signore che in queste frasi, vedessimo brillare due virtù, due virtù capaci di innamorare della loro bellezza lo stesso cuore di Dio: una purezza senz’ombra… una umiltà profondissima. L’Arcangelo dice alla Vergine che concepirà il Figlio dell’Altissimo, il quale sarà Re e Liberatore di Israele! Siamo sinceri: sapremmo immaginare una fanciulla che a tale annunzio si turbi? Un annunzio beato che doveva riempire di speranza di gloria!… una promessa, la più nobile… garantita dalla parola d’un Angelo che parla in nome di Dio: che si poteva non domandare ma neppure immaginare di più grande ed attraente? Eppure, vedetela. Maria si turba… trema esita, e quasi risponde che la cosa non è possibile: « Come avverrà quanto dici? Poiché io non conosco uomo ». È l’amore alla sua purezza verginale che fa tremare Maria, la turba, la rende incerta e quasi le fa rifiutare l’invito divino! Par quasi leggere nella sua mente la discussione: è vero sarà grande gloria il diventare Madre al Figlio di Dio, ma … e della mia verginità che avverrebbe… io non la voglio perdere!… Oh ammirabile purezza, sottoposta alla prova di promesse non d’uomini, ma di promesse e grandi promesse di Dio!… O Verbo del Padre, casto amante delle anime pure, a che tardate? se non v’attira nel mondo questo candore di purezza chi mai potrà attrarvi!? Bisogna attendere ancora: il gran tempio che sarà la sua dimora non ha ancor ricevuto l’ultimo tocco! Infatti l’Angelo risponde a Maria: « Verrà su di te lo Spirito del Signore »: non è dunque ancor sceso. – La prima parola di Maria all’Angelo fu detta dalla sua purità per la sua verginità! Udiamo la seconda: l’Angelo ha parlato ancora e Maria risponde: « Ecce ancilla Domini ». « Sono serva del Signore, si faccia di me secondo quanto mi dici ». La vedete da soli nevvero, senza che ve lo faccia notare io, che è l’umiltà che parla qui, e svela il linguaggio dell’obbedienza? Maria nemmeno si lascia trasportare dalla gioia che pur era tanto santa!… nella sua grandezza trova una sola parola… quella dell’umiltà! – Si spalancano i cieli, torrenti di grazia scendono su Maria, l’onda piena dello Spirito Santificatore l’investe, la penetra tutta…: « Verbum caro factum est — il Verbo si è fatto carne del suo sangue purissimo » l’Altissimo la copre della sua potenza e il Figlio ch’Egli nell’eternità continuamente genera nel suo seno, il solo capace di contenerlo perché immenso… è ora racchiuso nel seno della Vergine Santa. – Come poté avvenire tanto prodigio? Chi poté dilatar le viscere caste della Vergine da farvi trovar dimora all’Immenso? L’umiltà fratelli, fu l’umiltà; essa sola è capace di racchiuder l’immenso! Fu questa virtù, o Maria, che vi fece possedere per prima Colui che si dava al mondo intero, a tutti gli uomini. – Ecco, esclama S. Eusebio, ecco che il Promesso del Signore nei secoli passati, tu prima meriti averlo in te, appena venuto in terra. Eccola, per nove mesi, Tempio del Dio incarnato. È il seno di questa Vergine, che l’umiltà fa dolce e cara dimora al Dio fatto Uomo. Per nove mesi la Vergine possederà e sola il Re e Signore dei secoli, il tesoro immenso speranza dell’umanità tutta. Oh mistero! oh privilegio! — Spes terrarum, Deum sæculorum, comune omnium gaudium peculiari munere sola possides. Tanto è vero che l’umiltà è la sorgente di tutte le grazie ed essa sola è capace di far abitare Dio Gesù tra noi. (S. Eusebio – La Vergine). E allora, o cari, voi con me non potrete meravigliare se Dio ci appare così lontano dagli uomini e se tanto restringe su di essi la sua mano piena di misericordia… l’umiltà è proprio bandita dal mondo! Un uomo veramente umile, lo dissi altre volte e lo ripeto perché fa bene il ripeterlo, un uomo umile modesto è oggi una rarità quasi sconosciuta. Se davvero fossimo noi tutti veramente umili ameremmo tanto follemente gli onori del mondo di cui Gesù non si curò neppure, anzi li disprezzò mentre sono il sogno delle nostre brame!? Non avremmo maggior pazienza in sopportare e non curare le ingiurie dei nostri fratelli? Invece siamo tanto permalosi! Se noi avessimo almeno un poco d’umiltà vera oh non tenteremmo né vorremmo abbassar gli altri per fabbricar sulle loro rovine il trono al nostro Io! Temeremmo fratelli, temeremmo e molto di noi e, né quel luogo, né quella compagnia né quell’incontro in cui la dura nostra esperienza, ci ricorda le nostre cadute, ci potrebbero, non solo portare ma neppure attrarre; invece spavaldi ci buttiamo nell’occasione e nel pericolo come fossimo invulnerabili… impeccabili!… Oh folle cecità… superbia sciagurata!… neppur la visione di un Dio umiliato ti potrà dunque guarire? Oh superbo nulla umano, chi ti abbasserà se non lo può un Dio annientato? Non ha alcuno sopra di sé e si crea un superiore facendosi uomo! – Tu, tu stretto da ogni parte, di sopra e ai piedi serrato dalle catene della schiavitù, tu non sai esser un poco sottomesso! Mi vorrete dire: ma io sono sottomesso, io cedo facilmente, mi adatto di buon animo, e, se occorre, so anche umiliarmi!… No no, fratelli, non è umiltà, è apparenza questa modestia che voi mi esaltate!… Ah io lo vedo bene chiaro… ci sottomettiamo, ma quanto spesso non è l’orgoglio, ed un orgoglio prepotente che ci abbassa!… Ci abbassiamo è vero… ma sotto quelli che sono detti potenti (poveri ciechi) ma perché da loro attendiamo aiuto per dominare gli altri! – Ah bisogna che l’orgoglio abbia sempre profonde radici in queste anime, se non giungono ad umiliarsi che per brama arrogante di potersi subito innalzare!… Superbia nascosta che si svelerà però subito… appena che una piccola onda di favore accarezza questi cuori… e si svelerà in tutta la paurosa sua prepotenza! O cuore umano, più leggero della paglia, che una piccola prosperità inattesa basta a stordire tanto che non riesci neppur più a riconoscerti! Tu non ricordi dunque che vieni dal fango: il fango ti circonda ed un cumulo d’umilianti debolezze vere, torna ed impara dalla Vergine a non lasciarti ubbriacare dal luccichio e dal gaudio d’un piccolo trionfo o d’un inatteso onore. Nella grande, sublime offerta dell’onore di Madre di Dio, Maria non trova via più comoda che d’abbassarsi… Dio innamorato da una profonda umiltà, si umilia Egli stesso e si fa carne nel suo seno. Ma non brilla ancora tutta la sua grandezza! Dio che volle annichilirsi e lo volle in Maria… vuole anche darsi agli uomini… e questo dono di sé all’umanità, lo farà per mezzo di Maria. Ve lo mostrerò nella seconda parte del mio discorso e sarò molto breve.

II° punto.

Signori miei, eccovi una novità non meno sorprendente della prima! Siete rimasti sorpresi nel vedere un Re fatto suddito, ma credo rimarrete attoniti quando lo vedrete, anche Sovrano, unico, incomparabile, far alleanza e abitare tra gli uomini. « Il Verbo si è fatto carne ed abitò fra di noi ». A ben comprendere il nuovo mistero, tentiamo formare nella nostra mente un’idea quanto più esatta di un Dio Uno d’una perfetta unità! Unità perfetta che necessariamente lo fa infinito incomunicabile… unico in ogni sua opera. Egli solo: il Sapiente, il Felice? Egli solo il Re dei re, Signore dei dominatori, unico nella sua maestà da un trono inaccessibile domina colla sua infinita potenza. Noi non abbiamo neppur parole capaci non di parlarne ma neppure di esprimerla degnamente, questa misteriosa unità. Ecco però che Tertulliano ha parole, che mi pare, ci diano una idea, grande quanto può capirla la mente umana: Tertulliano chiama Dio — il grande Sovrano: — Summum magnum — il Sommo grande, più esattamente, Sovrano sommo, dice, in quanto sovra sta a tutti ed a tutto — Summum Victoria sua constat — Non potendo quindi sopportare alcuna eguaglianza, quanto potrebbe tentarlo rimane tanto sotto di lui, e tanto basso che attorno a lui rimane una solitudine in cui sola è la sua Eccellenza. Sono parole dure, quasi strane: ma questo genio avvezzo alle espressioni scultorie, pare vada cercando parole nuove per parlare di una grandezza senza esempio. Nulla di più maestosamente augusto di questa solitudine. – Per me, quando ci penso, mi immagino questa maestà infinita concentrata in se stessa nascosta nei suoi stessi splendori, separata da tutte le cose, perché al di là di tutte si estende: in nulla simile alla grandezza umana in cui c’è sempre debolezza, e che se da un lato s’innalza, dall’altro si sprofonda; maestà che dovunque la si contempli dovunque la si trova egualmente forte, egualmente inaccessibile! Chi allora non spalancherà strabiliati gli occhi vedendo questo Unico incomparabile lasciar la sua maestosa solitudine per aver dei compagni?… e, sta qui la strabiliante novità, quali compagni? Gli uomini, gli uomini peccatori! Non angelos apprehendit… non agli Angeli volse il suo sguardo, che pur erano più vicini alla sua solitudine. Venne, dice la Scrittura, a passi di gigante valicando i monti cioè passando sopra i cori celesti degli spiriti, e cercò la povera natura umana, che per la sua mortalità era relegata molto in basso, anzi all’ultimo grado degli esseri intelligenti dell’universo e che alla ineguaglianza di natura aveva aggiunto, insormontabile ostacolo, la colpa! La cercò e l’unì a sé anima e corpo, prendendo carne umana, una carne simile alla nostra povera carne condannata a morte. Oh misericordia infinita, o bontà di un Dio che si fa uomo per farci stringere alleanza con Lui, e trattò noi da eguali, perché da eguali trattassimo con Lui! esclama Tertulliano contro l’eretico Marcione : Ex æquo agebat Deus cum hominibus, ut homo agere ex æquo cum Deo posset ».Chi mai intese tale prodigio?… qual popolo o nazione della terra ebbe dei che tanto fossero vicini come a noi s’avvicina il nostro Iddio?Questo gesto di infinita misericordia, dovrebbe più a lungo essere oggetto della nostra meditazione: ma il mistero di questo giorno mi fa volgere la mente alla Vergine beata. Un Dio si è dato a noi: felicità grande per la povera natura nostra! Ma qual gloria per la Vergine santa perché per mezzo suo Egli si dona all’umanità! Per Maria Egli entra nel mondo e per Maria stringe con noi questa fortunata alleanza: non gli basta l’averla scelta al grande ministero, ma le manda, apportatore della sua parola, un Angelo tra i più belli, quasi per chiedere il suo consenso.Quale mistero è mai questo o Cristiani? Tentiamo penetrarne il segreto leggendo nel piano dei disegni di Dio, come Dio a noi lo svela. Dalla Scrittura e dall’intero consenso della cristianità di tutti i tempi, io imparo che nel mistero adorabile della redenzione della nostra natura caduta, Dio aveva fissato che alla nostra salvezza dovesse servire tutto ciò che aveva servito alla nostra rovina. Non cercatemene le ragioni, che dovrei dilungarmi troppo spiegandovele; accontentiamoci di ascoltarle tutte in una sola parola: In una misericordiosa emulazione Dio venne a lotta e volle distruggere il nostro nemico, volgendo verso di lui i suoi piani di guerra, sconfiggendolo, a così dire, con le stesse sue armi. Ecco che la fede ci insegna che un uomo ci perde ed un uomo ci salva! La morte regna nella discendenza d’Adamo, ma da questa stessa discendenza sgorga la vita, e la morte, castigo della colpa, ne sarà la riparazione: un albero ci uccide ed un albero ci risuscita. L’Eucaristia sarà cibo di vita, come un cibo avvelenato lo fu di morte. Davanti a questo piano meraviglioso della Provvidenza divina per la nostra salvezza conchiuderemo che i due sessi della creatura umana come operarono la morte devono anche concorrere alla sua salvezza. – Nel suo libro « Della Carne di Cristo » Tertulliano già insegnava ciò fin dai primi secoli della Chiesa, e parlando della Vergine diceva che lo stesso sesso che aveva portato la rovina, era giusto che portasse agli uomini la salute: « ut quod per eius modi sexum abierat in perditionem per eundem sexum redigeretur ad salutem ». Prima di lui lo disse S. Ireneo martire, e dopo lo ripete S. Agostino, e tutti i Padri insegnarono nei secoli che vennero, questa dottrina dalla quale io tiro questa conseguenza: Dio doveva predestinare un’Eva novella come un Adamo nuovo per dare alla terra, al posto dell’antica stirpe condannata, una nuova discendenza santificata dalla grazia. – Se meditiamo i segreti consigli della divina Provvidenza nel mistero della redenzione umana vediamo nella festa d’oggi un esatto parallelo: Eva e Maria, parallelo che ci persuade della forza di questa dottrina dei Padri tanto santa quanto antica. L’opera di morte è cominciata per Eva, quella della risurrezione per Maria: Eva disse la parola di morte, Maria il fiat che ci ridà la vita: Eva vergine ha il suo sposo, e lo ha pure Maria la Vergine delle Vergini: per Eva vi fu la maledizione. Maria fu benedetta: « Benedicta tu inter mulieres ». L’angelo delle tenebre parla ad Eva, ed un Angelo della luce parla a Maria: quello inganna Eva mostrandole la via di una falsa grandezza – « sarete come dei — eritis sicut Dii » le diceva; mentre Gabriele conferma a Maria la sua sublime grandezza e le dice: « Dominus tecum — Dio è con te » L’angelo tentatore eccita Eva alla ribellione « ma perché Dio ti proibì il mangiare un frutto così bello? » . L’Angelo della luce quasi induce Maria all’obbedienza: « Non temere, Maria, a Dio nulla è impossibile! » – Eva crede al serpente, Maria all’Angelo, cosicché, dice Tertulliano, una pia fede cancella il delitto, una temeraria credulità: Maria, credendo, ripara il delitto che Eva aveva compiuto credendo: « quod illa credendo deliquit, hæc credendo delevit ». – Infine per completare il quadro: Eva sedotta dal demonio fugge dalla faccia del Signore, Maria istruita dall’Angelo è fatta degna di portare il Cristo: Eva all’uomo presentò il frutto di morte, Maria offre il frutto delle sue viscere, frutto di vita… Perché, dice qui il Martire Ireneo, Maria Vergine fosse l’avvocata di Eva vergine peccatrice. Questo parallelo, o fratelli, non è frutto di mente umana, e non ci è lecito dubitare che Maria non sia l’Eva fortunata del nuovo patto, la Madre del popolo nuovo avendo essa lavorato alla nostra salute come alla nostra rovina lavorò la prima madre Eva. Essendo Madre del Salvatore, come Eva era stata la madre di tutti i condannati: Maria divenne la madre dei viventi, perché Madre del primogenito dei viventi; Eva lo fu di tutti i morituri! Iddio stesso vuol persuaderci questa verità nell’ordine meraviglioso dei suoi consigli, e nell’economia meravigliosa dei suoi disegni, nell’evidente convenienza di quanto abbiamo esposto, e nel collegamento necessario che esiste nei misteri della riparazione umana. – I poveri nostri fratelli, che si sono staccati dalla madre comune la Chiesa, non possono sopportare la nostra devozione alla Vergine: non vorrebbero che la credessimo, dopo il Cristo, la cooperatrice principale della nostra salute. Ma tentino, se ci riescono, di distruggere gli innegabili rapporti che collegano tra loro i misteri divini: ci dicano per qual ragione Dio manda un Angelo alla Vergine! Non poteva Iddio compiere la sua opera anche senza il suo consenso?… Non appare più chiaro del giorno che il Padre Eterno, abbia voluto espressamente ch’Ella cooperasse alla Incarnazione del suo Verbo, con la sua obbedienza e carità? E allora: se questo affetto materno tanto fece per la nostra felicità nella Incarnazione, sarà diventato sterile ed inerte dopo, e non vorrà più nulla fare a nostro bene? Ah fratelli, io penso che non lo si possa non solo non affermare ma neppure immaginare! Ora se noi aspettiamo l’aiuto suo, che venga in nostra difesa e soccorso, quale delitto commettiamo domandandolo?… Ah è questa dunque la causa per cui, voi fratelli, tanto cari, spezzaste l’unità della fede, rifiutaste quella comunione nella quale e per la quale i padri nostri morirono beati nel bacio del Signor Nostro Gesù Cristo? Ma forse nessuno di loro c’è ad ascoltarmi… – Ed io non posso più dominarmi… i palpiti del mio cuore sono violenti… il mio cuore diventa padrone della mia lingua e vuol gridare con l’intera Chiesa Cattolica apostolica romana: O santa Vergine, o cara Maria, o Madre, noi miseri figli d’Eva, poveri reietti gridiamo gementi a te: « Ad te clamamus exules filii Evæ gementes ». Ma a chi potremmo ricorrere, noi figli schiavi di Eva l’esiliata se non alla Madre dei liberi? E se è questa la dottrina dei Padri tutti, se tale è la fede dei Martiri… che voi siete l’avvocata di Eva… rifiutereste la difesa, la tutela dei suoi figli che nascon nei secoli?… Ah, se qualche altra Eva, ci presenta il frutto avvelenato che ci ammazza… accorrete o Maria… dateci colle vostre mani benedette il frutto del vostro seno… che ci doni la vita eterna! « Et Jesum benedictum fructum ventris tui nobis ostende! » Oh meraviglia, oh prodigio dei segreti divini… oh mirabile armonia della nostra fede… il mistero si spezza: Cristo a noi è dato dalle mani e nelle mani di Maria… lo dà a noi perché noi siamo a Lui fratelli, a lei figli… Oh che la nostra vita sia la vita dei fratelli di Gesù, dei figli della Vergine sua Madre: perché il Cristo venne: « Ut homo divine agere doceretur » perché l’uomo imparasse a vivere ed operare l’opere di Dio.

IL CREDO

Offertorium

Luc 1:28 et 42
Ave, Maria, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

[Ave, María, piena di grazia: il Signore è con te: benedícta tu tra le donne, e benedetto il frutto del tuo ventre].

Secreta

In méntibus nostris, quǽsumus, Dómine, veræ fídei sacraménta confírma: ut, qui concéptum de Vírgine Deum verum et hóminem confitémur; per ejus salutíferæ resurrectiónis poténtiam, ad ætérnam mereámur perveníre lætítiam.

[Conferma nelle nostre menti, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri della vera fede: affinché noi, che professiamo vero Dio e uomo quegli che fu concepito dalla Vergine, mediante la sua salvifica resurrezione, possiamo pervenire all’eterna felicità.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admitti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Is 7:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

[Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio: al quale si darà il nome di Emmanuel]

Postcommunio

Orémus.
Grátiam tuam, quǽsumus, Dómine, méntibus nostris infúnde: ut, qui. Angelo nuntiánte, Christi Fílii tui incarnatiónem cognóvimus; per passiónem ejus et crucem, ad resurrectiónis glóriam perducámur.

[La tua grazia, Te ne preghiamo, o Signore, infondi nelle nostre anime: affinché, conoscendo per l’annuncio dell’Angelo, l’incarnazione del Cristo Tuo Figlio, per mezzo della sua passione e Croce giungiamo alla gloria della resurrezione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA



QUARESIMALE (XXVII)

QUARESIMALE (XXVII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA VENTESIMASETTIMA
Nella feria sesta della Domenica quarta.


Le tribolazioni sono segni dell’Amore Divino; ci riducono a
Lui e ci danno l’eterna salute.


Domine ecce quem amas infirmatur. San Gio: cap. 11.

Chi professa d’esser seguace del Vangelo, non solo riverentemente deve baciare la mano liberale di Dio, quando piena di benedizioni tutte le sparge a nostro pro; ma ancora, quando armata di flagelli, si fà vedere fulminatrice a’ nostri danni. E chi v’è tra voi uditori che non sappia tutto operarsi da Dio a nostro benefizio, e che le tribolazioni che Egli ci manda, sono finissime dimostrazioni del suo amore.  Stolto, dunque, dicasi colui che detesta i colpi della mano divina, che con mostrarli in apparenza crudele, è in fatti ministra d’ogni nostro bene. Facciano coloro che senza considerare l’utilità grandi, che alla giornata ci apportano le tribolazioni, usano talvolta, anche con bocca sacrilega, lamentarsi di Dio invece di rendergli umilissime grazie, certi che quella destra che li percuote, sol li tormenta per renderli più degni del Paradiso. Ben l’intese questa verità nelle Spagne Teresa Vergine sposa di Cristo, mentre di continuo esclamava … aut mori, aut pati. Signore, diceva ella, o moltiplicate le pene, o troncate la vita, così parlava Santa Teresa. Con questo suo parlare pretendo far capire a’ miei uditori questa verità. Le tribolazioni esser segni dell’Amore divino, queste ridurci a Lui, e darci l’eterna salute. – Prima di dar principio, stabiliamo punti di Fede: sia il primo non v’esser caso, non v’esser fortuna in questo mondo, e questo caso, e questa fortuna, che va per bocca degl’uomini non avere altro essere, che nell’opinione de’ stolti. Iddio solo esser quello che manda, opera, e permette il tutto. Secondo: che Dio nel travagliarci ha comunemente la mira a purgarci da’ vizi, e promuoverci alla virtù, a guisa di un orefice, che nel porre l’oro nel fuoco nulla più pretende, che purgarlo dalla terra, e farlo crescere di splendore, e di stima. Poste queste verità infallibili, dico assolutamente non essere paradosso, no, che le tribolazioni siano segni dell’Amore Divino. Date d’orecchio a David, che parla e con voi discorre, o tribulati, egli si protesta, che sino dalla gioventù imparò sì bella lezione; le tribolazioni esser segni dell’Amore di Dio, mentre lo cavarono dalle miserie del peccato: Deus docuisti me a juventute mea, quantas ostendisti mihi tribulationes multas malas; quasi dir volesse, ecco che appena nato mi convenne strozzar orsi, e sbranar leoni, fatto giovine mi portai a cimento con i giganti; passato che io fui dalla capanna al soglio reale, ebbi trentasette anni di guerra con i Filistei, tollerai le congiure d’un figlio e le maldicenze e le percosse d’un Semei; quantas tribulationes multas, malas; ma il termine di questi travagli mostrò l’Amor di Dio verso di lui mentre egli stesso stesso esclama: Et conversus vivicaste me, o de abyssis terræ, iterum reduxisti me. Sì, sì, le tribolazioni furono a David veri pegni dell’Amor divino. Le tribolazioni lo saranno a voi. Taci, dunque, o tribulato, prendi dalla mano amorosa di Dio le afflizioni, se ti manca roba, se perdi la sanità, quantunque fossi oppresso da turbini di disgrazie,  la tua bocca non esali sospiri di risentimento; ma impara tutto operarsi da Dio per l’amor che ci porta. Confermi le parole di David il Santo Giob, e voi frattanto uditori riflettete che sull’altezza del trono, siedono talora col monarca i precipizi reali. Nacque egli tra le grandezze, fu allevato tra le adorazioni, ebbe tributo da tutte le felicità, ed ora eccolo non più principe nel soglio, ma, mendico nel mondezzaro, si vede ridotto ad estreme miserie; i palazzi son diroccati da’ fulmini, i figli sepolti tra le rovine, i sudditi fono diventati nemici ed egli da capo a piedi si rimira coperto da piaghe verminose, e pure se darete orecchio alle sue voci proferite tra tante calamità, le sentirete espresse su queste parole: Hæc mihi consolatio, ut affligens me, dolori non parcas. Vermi, diceva egli, figli delle mie postemme, rodete pure le mie carni, succhiate il mio sangue tanto io bramo da voi, hæc mihi consolatio: tanto diceva un innocente, un santo, benché si vedesse così piagato, così travagliato perché tutto riconosceva per finezza dell’Amor divino. E voi peccatori macchiati d’ogni vizio non volete riconoscere le tribolazioni per segno dell’amor di Dio! Ben l’intese Maurizio, il quale tolto dal trono, e portato, sul palco, mostrò di ricevere le tribolazioni per pegni dell’Amor divino, rifletté egli, esser asceso da bassa condizione all’altezza del soglio imperiale, e dubitando, per i suoi peccati, che una felicità temporale, gli poteva togliere l’eterna, presa la penna in mano, scrisse un’umilissima fupplica a quanti vivevano religiosi nella Grecia, nella Palestina, nell’Egitto, pregandoli che da Dio gli ottenessero, qualche certo contrassegno di salute. Piacque alla Maestà Divina la preghiera, e per mezzo de’ suoi servi gli fece rispondere: Te, totamque familiam tuam Deus collocat inter electos. Che egli, con tutti di sua casa si sarebbero falvati. Or sentitene di grazia segni di salute, e poi dubitate, se potete, non amarvi Iddio quando vi tribola. Ecco, che per accertar Maurizio d’eterna felicità, si turba a’ suoi danni il Cielo, ode da chiunque ha dono di profezia, minacce orribili; vede uno de’ monaci più modesti portarsi con ferro nudo alla mano in ogni contrada della città, annunziando stragi all’Imperial casa, si sente Maurizio ne’ sogni stessi citato per reo, indi a non molto si vede dal popolo tumultuante tolta di testa l’imperial corona, di dosso l’ammanto reale, e di mano lo scettro regio, ed innalzarsi su’ propri occhi, Foca all’imperio; per ordine di cui, carico Maurizio di catene vien condotto al palco, per assistere, testimonio infelice, alla barbara uccisione di cinque suoi cari figli; assiste ma senza turbarsi; giacché nell’odio di Foca riconosceva mascherato il Divino Amore, e con cuore magnanimo, finché la spada non gli tolse la testa, altro non diceva, che quel di David Justus es Domine, et rectum judicium tuum. Non vorrei già, che tra miei uditori si trovasse chi pietoso compatisse la calamità di questo principe, quasi che troppo travagliato da Dio; poiché mostrerebbe di non conoscere i certi pegni dell’Amor divino. Poveri noi, se rei di gravi peccati, saremo privi di tribolazioni. Noi felici, se a guisa di Maurizio interpreteremo per il meglio le sventure di questo mondo. Intellige, dirò io con Sant’Agostino a chi m’ascolta, medicum esse Deum et tribulationem medicamentum esse ad salutem, non pœnam ad damnationem. Intendetelao Cristiani! Cristo è medico amoroso, e l’amare medicine che ci porge per mezzo delle tribolazioni, son segni certi del suo amore. Contentatevi a questo proposito d’udire un bel fatto accaduto a Crisippo gran filosofo. Vide egli un giorno Ciro re di Persia, il quale de’ due figli che aveva, sol si mostrava crudele verso quello che viveva con tutta bontà ed obbedienza, e pur questo gridava, questo batteva, dove l’altro disobbediente e ritroso, mai era punito. Quando un giorno nuovamente vedutolo sotto la sferza paterna, gli si fece avanti con libertà filosofica, gli tolse la sferza di mano, gli disse: io non l’intendo, voi percuotete il buono, e non castigate il cattivo. Allora Ciro rivolto al filosofo gli disse: or l’intenderai! Sappi che, quem impunitum relinquo nihil est possessurus, quem vero percutio Regni futurus est hæres.  Questo figlio che punisco, questo è l’erede del regno, lo batto per farlo più degno dell’imperial corona. Cari uditori, se saremo tribolati, saremo figli eletti per il Paradiso. Gaude sub flagellis, dice Sant’Agostino, flagellat enim, ut ad bæreditatem erudiat. – Ricordatevi finalmente delle belle parole di Tobia all’Angelo, quia acceptus. eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te: Non si può, no, esser caro a Dio senza travagli e croci, questi sono i certi segni del suo amore. Né solo son segni dell’Amore divino, ma ci conducono a Lui. Ricordatevi un poco di quei discepoli montati insieme con Cristo nella nave, e sovvengavi che fintanto che l’acque furono tranquille, placido il mare, quieti i venti, mostravano i discepoli di curarsi poco del Maestro che lo lasciarono solitario dormire sopra una sponda; ma quando poi il mare cominciò a turbarsi, motus magnus factus est in mari, quando in un subito gonfiare l’onde s’offuscò il cielo, si scatenarono i venti, e scaricarono le nubi con pioggia talmente dirotta che già temevano di sommergersi, tutti allora ricorsero a Cristo, gli si affollarono d’intorno, e gridavano piangenti: Domine salva nos perimus. Così segue di noi, dice Sant’Agostino, si cessaret Deus et non misceret amaritudines oblivisceremur eum. Se fossimo sempre in calma ed Iddio non ci travagliasse, non si ricorderemmo di Lui. Ah che certamente mai, mai, il figliuol prodigo darebbe ritornato dal padre se egli non si fosse veduto vicino a morir di fame. Allora disse: ibo ad patrem. Così fate voi, andate da Dio, ricorrete alle orazioni, fate limosine, digiuni, pellegrinaggi. Quando? quando dalla sua santa mano siete percossi. Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze narra un caso degno, successo a lui medesimo. Racconta dunque, come passando un dì per una strada, gli vennero alzati gli occhi, e vide sopra il tetto d’una povera casa, un coro d’Angeli, che vi stavano con segni di gran giubilo; stupito il Santo volle indagarne la causa: batte all’uscio, gli fu aperto, entrò, salì la misera scala, e giunto ad una piccola stanza, vide una povera madre con due figlie nubili, le quali attente al lavoro procuravano di sollevare la propria miseria con il ristoro di poco pane e di poca acqua. Vi trovò una somma pace, e contentezza, onde mosso a compassione il Santo, gli lasciò una larga limosina, assicurandole che per l’innanzi non sarebbero vissute in tanta miseria ed a tal effetto gli assegnò una certa risposta delle rendite ecclesiastiche: A mala pena entrò questa piccola fortuna in quella casuccia che subito non solo le figlie ma la madre ritirata dal lavoro, principiarono ad ornarsi, a trattenersi alle finestre, ad amoreggiare. Quando ritornato il Santo Arcivescovo per quella strada, vide non più il coro d’Angeli, ma di demoni; attonito a tal aspetto entrò in casa e non vi trovò più né quel ritiro, né quella modestia di prima; sì eh, disse non sia il vero mai, che le entrate ecclesiastiche debbano servire a sollievo de’ demoni; gli levò tutto, tornarono alla povertà di prima, e tornate alla primiera povertà, tornò la stessa devozione a Dio. Non accade altro, le tribolazioni ci riducono a Dio. Così è, così è, bonum mihi, dite pure col santo David, quia humiliasti me. Fortunati noi se saremo tribolati, avremo l’amore di Dio, le tribolazioni ci condurranno a Lui, e ci daranno eterna salute. Ditemi. Per qual causa son a voi sì cari i signori medici? Non per altro, se non perché ne’ nostri mali sono il mezzo di nostra salute. Ma avvertite vi amareggeranno il palato con l’Aloe, v’altereranno lo stomaco con amarissime pillole, vi metteranno in rivolta tutti gli umori con antimonio. Non m’importa, tutto deve conferir salute, e perciò, tutto si abbracci. Perché sono a voi sì cari i cerusici? Perché all’occorrenze o di febbri o di cancrene o di posteme ci guariscano. Ma piano… Voi non considerate quei tanti ferri, che portano seco; con essi vi segheranno le vene, vi staccheranno la carne viva dall’osso, gli ossi stessi ve li segheranno per levarvegli dalla vita. Non importa, voi mi rispondete, e voi ancora alla occorrenza direste loro ciò che Teodorico al suo Medico, se voi, al par di lui stringeste scettro. Udite di grazia con quali belle parole dichiarò questo monarca, suo primo medico un uomo intelligentissimo nella professione. Tu solo, dissegli, fra tanti vassalli che mi obbediscono potrai con lodi, e con mercedi opporti alle mie brame, tormentar le mie voglie, e mortificarmi in ogni parte del mio corpo. S’abbraccino dunque le tribolazioni, non si ributtino, ma si stringano al seno, merceché son segni dell’Amor divino, che ci riducono a Lui e che ci danno vita eterna. Delicati mei ambulaverunt vias asperas. È vero son grandi i travagli, ma questi ci conducono al Cielo. Se vi volle giungere una Liduina, bisogno’ che si contentasse di giacere pazientemente per trent’otto anni in un povero letticciuolo afflitta da paralisi, da convulsioni, da cancrene, a tal segno che era venuta una viva immagine della morte. Ambulavit vias asperas. Se vi volle giungere un Britio convennegli tollerare pazientemente di essere a guisa d’un infame deposto dalla dignità episcopale, per una falsa calunnia … ambulavit vias asperas. Se vi volle giungere una Godolena, le convenne pure tollerare pazientemente di esser come schiava strapazzata con modi orribili dal bestial suo marito. Eh via … delicati mei ambulaverunt vias asperas. Bell’impresa di nobil ingegno fu quella che mostrava un animaluccio, detto Pirale, entro le fiamme d’una fornace, ove esso viveva, prodotto col motto Moriar si evasero; non ha questo insetto altra vita, che quella che gli viene somministrata dalle fiamme del fuoco, da cui, se esce, è certo di morire, come pesce fuori dell’acqua. Somiglianti a questo animale sono gli uomini, i quali se non si trattengono nelle fiamme della tribolazione non vivono vita di grazia, e non conseguono Gloria di Paradiso ma stanno in pericolo di morire, perché privi di quel pane di vita della tribolazione, che li conserva; Moriar, dunque, dica ognuno a se stesso … moriar si evasero. Se io non sarò travagliato, se non avrò persecuzioni, se vivrò vita troppo felice in questo mondo. Ah, che dubito di non morire eternamente. Dica altresì ciascuno: Vivam si sustinuero, se tollererò le fiamme di questo fuoco delle tribolazioni, certo il Paradiso sarà mio, Vivam si sustinuero. Questa è la strada regia e battuta, la quale addirittura conduce alla gloria. Per multas tribulationes oportet intrare in Regnum Dei. Se si compra il Regno de’ Cieli, i patimenti sono il prezzo; se s’ottiene per amicizia, non sono amici se non quelli che patiscono; tutti i predestinati, dice Ezechiele, portano la Croce segnata in fronte; tutti gli eletti del popolo di Dio, dice Mosè, passano per il Mar Rosso delle tribolazioni; tutti gli innocenti, dice Paolo Apostolo, sono soggetti alla continua persecuzione. Quoniam ad requiem, è ragione di Sant’Ambrogio, non ni si per laborem et ad gaudia, non ni si per tristitiam pervenitur. Non troverete, no, che s’arrivi al Cielo, senza fatiche. Non vi sia per tanto tra’ miei uditori, chi di buona voglia non abbracci le tribolazioni; servaci dunque, dirò io con Pier Damiano, per modello del nostro vivere la bella natura dell’incenso; questo voi sapete bene, che non tramanda odore, quando, grondi dal suo ceppo felice, colà nell’Arabia, o pure si conservi in vasi d’oro. Allora solo riempie di non ordinaria fragranza, e Chiese, e case, salendo fino all’Empireo, come in trionfo, quando tormentato dal fuoco, e da esso totalmente disfatto; questa è l’idea che la Maestà divina ha formata per chi vuole l’eternità: non solo non dobbiamo sfuggire ciò, che ci attrista, ma dobbiamo andarci incontro. Ecco le parole del Santo: Sicuti aromata fragrantiam suam non ni si cum incenduntur expandunt, ita et sancti viri. Ogni qualunque volta c’imbatteremo in spine di triboli, benché acutissime, la nostra mano prontamente le colga, se le rivolti al petto, se le conficchi in cuore, benedicendo Dio, che con segni di tanto amore ci tiri a sé, e ci dia caparra del Paradiso, ho finito. Miei Uditori, tra le tribolazioni vi vorrei simili alla conchiglia: questa al riferire di Plinio, nulla patisce ancorché il mare sia agitatissimo dalle tempeste: Possono bene le balene ed ogn’altro pesce versar sopra d’esse fiumi di spume, ma non per questo la conchiglia si turba. Fate, che l’Oceano fino dal profondo si sconvolga, ella però niente si agita; ma se l’aria si rannuvola, e se anche leggermente lampeggia e tuona il cielo, la conchiglia si sconcia, e la perla s’impallidisce. Voi siete in questo mondo e, con essere in questo mondo, siete in un mare, agitati da mille travagli, non vi turbate punto quantunque questi crescano a dismisura, riceveteli con cuore allegro, e volto sereno, già che sono segni dell’Amore divino, ci tirano a Lui, e ci servono di caparra al Paradiso. Allora solo turbatevi, quando sapete d’aver la coscienza macchiata da peccato mortale, perché allora con fondamento potrete temere, che se non vi emenderete con sollecita Confessione, i travagli presenti di questo mondo siano per essere principio de’ futuri nell’altro … che Dio non voglia.

LIMOSINA
La maggiore delle miserie che tema un uomo, il maggiore de’ travagli, è la paura d’impoverire, e questa è la cagione, perché molti si ritirano dal far limosine. Non abbiate paura d’impoverire per sovvenire ai poveri. Non abbiate paura, che per questo capo vi venga danno, anzi starete male se non farete limosine; l’aver molto è causa ben spesso del nostro male. Prosperitas multorum perdet illos, dice lo Spirito Santo a guisa di quelle madri che dando a balia i loro figliolini infettano talora se medesime con quella copia di latte che sì utilmente potevano deviare in sostentamento de’ propri parti. Fate dunque limosina abbondante.

SECONDA PARTE.

Quando a voi per motivo di sollievo a’ vostri travagli, e per tollerare pazientemente non bastasse il sapere che sono segni dell’Amor di Dio, che ei tirano a Lui, e ci dà caparra di salute; v’addurrei un altro motivo, il quale, benché basso e vile, ad ogni modo per taluno, sarà efficace. Voi che vi protestate d’esser tanto travagliati, non guardate a chi gode maggiori facoltà, a chi vive con maggior splendore, a chi sta bene di salute, ma voltate gl’occhi indietro, che troverete che tanti e tanti da più di voi per la nascita, da più di voi per la grazia di Dio, che conservano nel loro cuore, stanno peggio di voi. E voi, che state ne’ peccati e che vi continuate, vi lamentate; mi meraviglio di voi! Entrate un poco nelle carceri, e vedrete di quei che vi marciscono anche innocenti, che non vedono mai raggio di luce, privi d’ogni conversazione, e ciò che più li fa inorridire, è che dopo questi tuoni, temono che loro cada in capo il fulmine di sentenza a morte. Entrate un poco negli ospedali, e mirate tanti languenti, quali abbruciati nelle viscere da rabbiose febbri, quali spasimanti per dolori acutissimi; quante bocche vedrete aperte da ferite mortali, che domandano pietà, e quanto volentieri cambierebbero il loro male con voi, che vi dichiarate i più infelici del mondo. Tacete, tacete; Padre? E che volete? Voi siete nobile, comodo, non avete di che lamentarvi. Non voglio sentire le vostre querele. O Padre v’ingannate, sono disgraziatissima, tribolatissima. E perché? Perché non ho la gioia, non ho la veste così sfoggiata, non posso mantenere tanta servitù … Eh tacete, son querele sciocche, e se tutto aveste, tutto servirebbe per ribellarvi a Dio. Alle tribolazioni, uditori miei, vogliamo o no, bisogna starci soggetti. Per tanto io devo avvertirvi, che uno de’ maggiori errori che si commetta da’ tribolati è, che nel tempo delle tribolazioni si lascia Dio, quando più che mai converrebbe cercarlo. O quanto sono mai pusillanimi alcuni, i quali appena tocchi da leggier colpo di fortuna lasciano di frequentare i Sacramenti, trascurano le Orazioni, né più esercitano opera alcuna di pietà cristiana. Se la tempesta deserta il podere, se la vigna un anno non frutta, se il campo non rende, se il negozio va male, subito si sospende la celebrazione di quella Messa, quella limosina, quell’opera buona, che soleva farsi. Ah sciocchi, ah stolti, voi lasciate di ricorrere a Dio, allorché siete più bisognosi del suo aiuto? Questo è l’inganno del diavolo, anzi quanto maggiori sono i travagli, tanto più frequenti devono essere l’opere pie, se volete che cessino i travagli; e poi perché quando i ricolti, o qualche altro accidente rende più scarsa di danaro la vostra casa, subito si mette l’occhio a risecar l’opera pia. E perché più tosto non si dice così: le entrate questo anno non ocorrispondono, dunque meno spesa ne’ teatri, nelle vanità, ne’ giuochi, negli ornamenti; o donne meno spesa in tante cose superflue, nelle quali trovate da buttar tanti danari quanti mai volete. Di più; quando l’entrate sono scarse, volete risecar l’opere pie, e quando sono abbondanti, volete raddoppiare i lussi, ma non il bene. Aprite gl’occhi o miei uditori, all’inganno del diavolo, non cessate dal far bene per qualsisia tribolazione che avvenga alle vostre case, anzi accrescetelo… Che sarebbe però, se quivi fosse taluno, il quale invece di ringraziare il Signore delle tribolazioni che gli manda per sua salute, bestemmiasse sacrilego la sua sorte, e mordesse per così dire quelle mammelle che gli danno nutrimento. Sarebbe costui vero fratello dell’empio Re Acaz, il quale, come un rospo velenoso accrebbe veleno sotto le sassate. Che farà Iddio di quest’anime indegne, che lo maltrattano perché sono tribolate: le getterà da sé come inutili al disegno che aveva d’inserirle in Cielo … Argentum reprobum, dice Geremia, vocate eos quia Dominus projecit illos· Tremiamo, miei uditori, a minaccia sì spaventosa: guai a chi diventa peggiore per le tribolazioni, che Dio gl’invia, io per me credo, che questi tali picchino alle porte dell’inferno per esser ammessi in compagnia di coloro, i quali flagellati da Dio, come dice San Giovanni, si rivoltarono alle bestemmie, e non alla penitenza, Blasphemaverunt Deum Cœli præ doloribus, non egerunt pœnitentiam. Deh per l’amore che portate all’anime vostre imparate a conoscere nelle avversità non solo l’Amor divino, ma le vostre scelleratezze, e ricordatevi, che quando peccaste faceste un debito con Dio. E se lo faceste, perché dunque dolervi, che Dio voglia esser pagato. Prendete per tanto tutto dalla mano divina, e dite con cuor contrito: … iram Domini portabo quoniam peccavi ei. Sentite, è aforismo de’ signori medici, che quæ solent prodesse et non profunt malum, un pessimo segno è, che quei medicamenti che sogliono giovare non giovino: voi siete infermi, siete alterati da tanta malignità, quanti ne racchiudono in se tanti peccati mortali, che avete commessi e con ragione potete dire, sana me Domine, quoniam infirmus sum. Orsù ecco, che Dio, Celeste Medico adopra le tribolazioni, che sono i rimedi delle vostre infermità; ma avvertite, che se queste non vi giovano per farvi tornar a Dio. Malum, malum; pessimo segno, e posso dubitare, che per voi non vi sia più speranza di salute. Date mente voi, che non prendete le tribolazioni con pace per sconto de’ vostri peccati, date mente, è Dio che parla per Geremia, percussi te, castigavi te, t’ho battuto, t’ho flagellato con le tribolazioni ma tu, invece di ravvederti ti sei indurato nel peccato, dura facta sunt peccata tua. Orsù senti, sai che ne seguirà? O Dio, tremate ed inorridite, non vi è salute per te, sarai dannato, insanabilis dolor tuus , etc

QUARESIMALE (XXVIII)

QUARESIMALE (XXVI)

QUARESIMALE (XXVI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMASESTA
Nella feria quinta della Domenica quarta
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Il vero consiglio per bene operare si prenda dalla morte.


Ecce defunctus efferebatur filius unicus matris suæ.
San Luc. cap. 9.


È legge universale convien morire: Statutum est hominibus semel mori. Le porpore delle grandezze non hanno esenzione da questa tignola, gl’allori della sapienza non hanno difesa da questo fulmine; i cedri della santità non sono imbalsamati da questa incorruzione; muore la somma ognun che nasce. Se così è, che faremo per far ben questo passo, da cui dipende l’eternità? Il mio parere sarebbe, giacché l’odierno Vangelo nel figlio estinto della vedova madre ci ricorda la morte, che nulla operassimo per bene operare senza il consiglio della morte. Tal sarà l’argomento mio, e comincio. Quel gran Padre de’ monaci San Basilio, altro ricordo non dava a’ suoi discepoli perché resistessero alle tentazioni, salvo che pensassero e si consigliassero con la morte. Diceva dunque il Santo Padre Cum diluculo surrexeris, ad Vesperam te ambigas pervenire; cum ad quiescendum membra posueris, de lucis adventù noli cogitare. Quando andrete al riposo della notte, pensate che forse non sarete vivi la mattina, e quando vi leverete la mattina, pensate che forse non sarete vivi la sera ed in tal forma sarete lontani da’ vizi: Ut facilius te possis refrenare ab omnibus vitiis. Quanto disse S. Basilio a’ suoi discepoli, tanto dico io a’ miei uditori; quando vi portate al riposo della notte, pensate che forse non sarete vivi la mattina; e quando vi levate la mattina, pensate che forse non sarete vivi la sera. Quanti, quanti, ditemi, da voi conosciuti, li avete veduti la mattina vivi, e morti la sera; vivi la sera, e morti la mattina o affogati da un catarro, o percossi da una goccia, o feriti da un rivale, o caduti da un albero, o sommersi in un fiume. Nella città d’Ancona, allorché nel mille e seicento novanta tre vi si facevano le Sante Missioni venne il sabato sera s sentir la predica un uomo in sanità: vi stette a tutta, e la mattina era in Chiesa morto. Pensate dunque, che il medesimo può intervenire a voi; e però consigliatevi in tutte le vostre operazioni con la morte; perché non vi è freno maggiore per astenersi da’ vizi. Volete vedere quanto sia potente il pensiero della morte per ottener vittoria da’ nemici? Sentite come parla lo Spirito Santo nelle Sacre Carte! Egli ci pone avanti gli occhi un uomo il più scellerato, il più iniquo che possa trovarsi, una donna la più indegna che possa immaginarsi; e poi ci dice: e come mai si potrà ridurre nella buona strada un uomo sì scellerato, una donna sì reproba? Che partito dovrà tenersi? Eccolo: Ad sepulchrum ducetur, et in congerie mortuorum evigilabit. Se volete che quest’uomo, che questa donna sì iniqui si ravvedano, non dovete far altro che condurli sopra d’un sepolcro; alzargli sugli occhi la lapide, fargli vedere quei cadaveri, quei fracidumi, quelle sozzure … in congerie et mortuorum evigilabit; e voi vedrete che allora apriranno gli occhi, conosceranno l’infelice stato dell’anima loro, si convertiranno. Confermi quanto vi dico la seguente storia: una dama di gran nascita e di ricca dote fu maritata in un cavaliere quanto a lei eguale ne’ natali, tanto dissimile ne’ costumi. Era la dama tutta dedita all’opere pie, tutta intenta alle devozioni; il marito per l’opposto dedico alle crapule, a’ giuochi, a’ vizi; e non contento della compagna datale da Dio, ne andava in cerca d’altre. L’afflitta Consorte altamente amareggiata non tanto per il torto che riceveva, quanto per l’offesa di Dio, si buttò un giorno a’ piedi d’un Cristo, e con calde lagrime, e con replicati sospiri lo richiese che con qualche grave malattia percuotesse lo scellerato consorte, con speranza che così travagliato si ravvedesse. Esaudì il Signore le suppliche della devota donna: ecco in letto e con pericolo di morte il marito; si porta al letto la consorte, l’assicura del pericolo, lo esorta ad aggiustare le partite dell’anima, ma fa del sordo il marito; replica le istanze la moglie, e gli pone avanti gli occhi l’infamia della casa, se egli non ammette qualche religioso per assistere alla sua morte; allora lo scellerato marito disse alla consorte che era contento che si chiamasse un religioso, che per pura apparenza venisse al suo letto, ma con patto e condizione, che nulla gli parlasse né di Confessione, né d’anima, né d’altra vita. Considerate voi con quanta afflizione ne ricevesse questa indegna condizione l’addolorata consorte. Ad ogni modo fattasi cuore, raccomandossi al Signore, e trovato uno de’ più accreditati religiosi della città, gli raccontò lo stato infelice del marito, gli espose la brama che aveva, ch’egli v’andasse, ma insieme la diabolica condizione con cui il marito lo voleva ammettere; che però egli si raccomandasse al Signore. Accettò di venire il religioso, e prima d’andare, pregò la Maestà Divina che gli suggerisse qualche stratagemma per mezzo di cui quello scellerato dovesse ravvedersi. Andò dunque il religioso al letto, e quivi cominciò a discorrere delle guerre che allora bollivano per l’Europa. Indi degli interessi di sua casa. Quando, nel più serio del discorso si turbò il religioso, s’impallidì, principiò a lacrimare, a sospirare. L’ammalato, veduta una sì strana mutazione, l’interrogò, perché gliene manifestasse la causa. Mi lasci stare, replicò il religioso; ma perché l’ammalato il vedeva sempre più turbato, e si vedeva rimirato con occhio d’ammirazione compassionevole, costrinse il religioso, se non lo voleva morto prima del tempo, a manifestargli l’origine vera della turbazione. Allora il religioso gli disse: signore, già che volete saperlo, ecco ve lo dico: Dovete sapere, che io nel vedervi su morbide piume, circondato da un padiglione così ricco di seta e prezioso d’oro, e di ricamo, riflettevo alle parole d’Isaia: Super te fernetur tinea et operimentum tuum erunt vermes; e dicevo fra me compassionandovi: fra poco sarà in un sepolcro per averla putredine per suo strato, e per coperta i vermi. Allora l’ammalato pieno di sdegno si lamentò per la mancanza della promessa: perché non aveva osservata la condizione di non parlargli nulla dell’anima. Ma signore, riprese il religioso, io ve ne ho parlato, perché voi avete voluto. Levatevi davanti, replicò l’ammalato ed il religioso partì; ma credete voi, che il pensiero della morte messogli in testa nulla operasse? Non passò un’ora, che l’ammalato rientrato in sé per quel pensiero di morte, mandò a chiamare il religioso, e fece una Confessione delle sue colpe con tal dolore e pentimento che lasciò certa la speranza della sua salute. Or che dite del pensiero della morte? non è egli efficacissimo? Non è ella savia consigliera la morte? Ricorrete dunque al di lei parere, con sicurezza di profitto all’anima. Consigliatevi tutti con la morte, ed in particolare voi, che avete commesso de’ peccati e, per anche colti dalla vergogna, non li avete confessati. La morte vi dice: confessali prima che io venga a toglierti l’anima; e pure ad ogni modo tanti e tanti non li vogliono dire; e temono non solo che il confessore li riprenda, ma che egli sappia i loro errori. O pazzi, che siete! Voi temete d’un uomo che non può che giovarvi; che non può manifestare ad anima vivente il vostro fallo, sotto pena di rendersi degno del fuoco. Come è possibile che temiate di manifestare le vostre colpe ad un uomo che ne ha udite delle peggiori delle vostre, e che può averle commesse anch’esso; e poi non temiate quel Dio Onnipotente che se alla morte vi troverà con quel peccato sull’anima, vi getterà irreparabilmente nel seno de’ diavoli. Ecco il consiglio della morte: dico vobis, hunc timete, temete Iddio, e perciò dite tutti i peccati che finora avete celato; altrimenti vi sovrastano i precipizi dell’anima. Il Collettore racconta come una signora invaghitasi d’un servitore di casa, giunse tanto oltre, che concepì, e quel ch’è peggio, per occultar un peccato, ne commise uno tanto maggiore, quanto fu mandar a male la creatura senza Battesimo. Né vi crediate che questa infelice donna si ravvedesse: appunto. Divenne madre di più creature, ed all’istesso modo privolle tutte del Paradiso, uccidendole con la medesima crudeltà senza battezzarle. Quello poi, che deve rendere meraviglia maggiore, è come una donna tanto sfacciata, che aveva avuto animo per commettere tante scelleratezze, non avesse mai avuto animo di confessarle. È vero, che per acquietare gli stimoli della coscienza, faceva limosine grandi a’ poveri, ma senza frutto, poiché morì e si dannò; e morta comparve tutta cinta di fiamme, manifestando la sua dannazione esser seguita per aver taciuto il suo peccato, con aggiungere, che quelli, i quali non confessano i peccati, ancor che distribuiscano tesori a’ poveri, mai si salveranno. O se costei, miei uditori, potesse tornare al Mondo, ed aver il comodo di confessarsi! che non farebbe? Salirebbe su questo pulpito e manifesterebbe le sue scelleraggini, per ottenerne il perdono. Gli confesserebbe, non solo ad un Confessore, ma quando tanto bisognasse, a tutto il mondo. Imparate voi a spese d’altri; prendete il consiglio dalla morte; portatevi a’ piedi del confessore; dite quel peccataccio, altrimenti vi dirò con Agostino: tacitus damnaberis, qui poteras confessus absolvi. Né minor bisogno di consigliarsi con la morte hanno coloro i quali si caricano di roba d’altri; non pagano mercedi; ritengono le possessioni estorte, non di ragione, ma di potenza, non soddisfano legati pii; vendono e comprano con inganni; aggravano i poveri, gli promettono per i lavori il denaro e poi gli vogliono dar la roba della peggiore ed a sommo prezzo; e poi non trovano mai la via di restituire; promettono sempre, e mai attendono. Se tra’ miei uditori v’è taluno di simil fatta, vada subito a consigliarsi con la morte, e sentirà dirsi: stulte hac nocte, … O pazzo tu, pensi ad accumulare con danno dell’anima, con pregiudizio del prossimo; tu fabbrichi una casa, che tra poco ti rovinerà in capo; tutto dì stai col pensiero in accumulare e nulla pensi a restituire; e poi dici che ti confessi: ma che ti vale la Confessione, se non restituisci? Odi Sant’Agostino: Si res que reddi potest non reddatur, pænitentia non agitur, sed simulatur: la tua Confessione, se non restituisci mentre puoi, non è Confessione, ma un inganno l’assoluzione che ricevi, non scioglie le catene, ma le raddoppia: pœnitentia non agitur, sed simulatur; stulte, stulte, pazzo che sei, tutta quella roba, che ingiustamente ritieni non ti caverà da quelle fiamme nelle quali stai per cadere; e quelli eredi a’ quali la lascerai, appena morto non penseranno più a te. Orsù, non si prometta più la restituzione, ma si faccia perché non v’è altra strada per salvarsi, che a restituire. Si res, que reddi potest non reddatur pœnitentia non agitur, sed simulatur. Sebbene pochi saranno tra miei uditori quelli che debbano o possano restituire; molto maggiore farà il numero de’ disonesti: O questi sì che hanno bisogno e necessità di consigliarsi con la morte. Quanti sono qui tra quelli che m’ascoltano, i quali non hanno maggior negozio sopra la terra che amoreggiare, trovarsi a veglie, trovarsi a balli, e di passarsela allegramente. Eh Dio! Perché non date mente all’Apostolo che dice: tempus flendi et tempus ridendi, in questa vita bisogna piangere, se volete ridere nell’altra; né mi state a dire è vero, si ride, che vale a dire: si va a veglie, a balli, ci tratteniamo negli amori, ma non per questo pecchiamo. Oh quanto è difficile ad avverarsi questo vostro parlare! Cum aliena mulieres ne sedeas omnino, dice lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico al nono, con quella donna che non è tua, non ti porre mai accanto, anzi neppur guardarla, ne concupiscas speciem alienam; e perché? Perché se la guarderai, s’accenderà l’amor indegno a guisa di fuoco, a cui sono somministrate molte legna: ex hoc concupiscentia quasi ignis exardescit; e se uno si espone a pericolo sì grande, con solo porsi accanto ad una donna, col solo guardarla: quali rovine, quai precipizi non devono aspettarsi quei giovani, quelle donzelle , che non solo siedono insieme, non sol si guarda ma si prendono per la mano, ma se la discorrono per ore a solo a solo, anche di notte? E questo mestiere sono anni che lo praticano; e talora discorrono di cose sì laide, che non ardirebbe il marito discorrerne con la consorte; di cose sì vergognose che se qui si potessero dire, ne resterebbe appestata tutta d’intorno l’aria… –  Ah giovani infelici che praticate come lecite cose tanto pericolose. Ah, fanciulle sconsigliate che dite questa esser l’usanza, questo il modo d’accasarsi… Ah padri disgraziati! Ah madri svergognate che non solo permettete, anzi talora difendete gli amori delle figlie; anzi di peggio, talora ve le istigate, con la speranza di maritarle con minor dote. Dio immortale! Se foste nemici crudeli de’ vostri figli, voi non potreste trattarli con maggior tirannia; ben si conosce che non vi consigliate con la morte. Ah, che se voi di proposito pensaste che presto la morte verrà per voi per portarvi al Tribunale Divino, voi fanciulle lascereste balli, veglie, feste, amori; e voi madri con ogni premura vigilereste, perché le figlie stessero lontane dalle amorose corrispondenze. Così appunto procurava di fare una savia madre, la quale si ritrovava con una figlia sì disgraziata, che pareva nata alle pompe, alla vanità; non voleva altro che portarsi a feste, che trattenersi tra gli amori, e siccome per sua disgrazia era non meno vaga, che vana, aveva questo indegno costume di specchiarsi, di vagheggiarsi continuamente, appena levata andava allo specchio; allo specchio prima di porsi al lavoro, prima di pranzare, dopo pranzo, in ogni tempo allo specchio. Alla povera madre non era mai bastato l’animo né con le minacce, né con le percosse, di distogliere né dagli amori, né dallo specchio, questa figliuola. Vedendo dunque infruttuosa ogni sua opera, ricorse a Dio, perché l’ispirasse quel modo con cui potesse a ciò rimediare. Ecco, che un dì chiamata per uscir fuori di casa la figlia da certe parenti, la buona Madre chiamò a sé frettolosamente un pittore e così gli disse: Sentite, io voglio un servizio da voi; vedete questo specchio? Si, signora. Voglio, che mi dipingiate quivi una testa di morto; ma avvertite di porvi tutta la perfezione del vostro pennello; fatela dunque orrenda, terribile, spaventosa; terminata l’opera, tirò la madre il drappo, che giusta il solito copriva lo specchio. Ecco, che indi a poco torna a casa la figlia tutta allegra, perché trattenutasi il giorno al ballo; tutta briosa, perché vagamente vestita; sale le scale, giunge alla sala, entra in camera, e subito se ne va allo specchio, tira la tenda e vede non il suo vago sembiante, ma il teschio, ma la testa spaventosa di morto. Considerate qual fosse il suo timore, quale l’orrore? S’impallidì; principiò a tremare, a piangere; restò attonita; restò come fuori di sé. Quando ecco, che la madre, che se ne stava in agguato sotto d’una portiera, si fece vedere, si fece sentire e le disse: figlia, cara figlia, io sempre ti ho gridato, ti ho minacciato, t’ho percossa perché altro non facevi che specchiarti; adesso ti prego, ti supplico, ti scongiuro, specchiati figlia, specchiati: quello è il vero tuo ritratto! Quella l’effigie tua: mirati, vagheggiati. Volete altro? La figlia attonita, per la morte nello specchio, impaurita per le parole della madre, considerando quel che di lei doveva esser tra poco, si pose le mani sulla testa, si guastò le trecce, disfece i ricci, buttò via ogni vanità; dal collo il vezzo, dal petto le gioie, le maniglie da’ polsi; Indi genuflessa avanti la madre, la pregò che volesse vestirla d’abito grossolano da penitente; e così vestita, visse e morì non solo lontana dagli amori, ma con vita esemplare. Ah! che se tu pure, gioventù sconsigliata, ti consigliassi con la morte, non ti cureresti di favorite, detesteresti gli amanti. Ah! Che se quelli che vissero tra gli amori ed ora sono morti, tornassero nuovamente a vivere, io vi assicuro, che avrebbero più paura dell’amore, che voi non avreste ora di cento vipere, se per disgrazia tutte unitamente v’assalissero per infondervi rabbiosamente il loro mortal veleno nelle vene. Specchiatevi tutti con la morte, per che questa vi dirà il vero; a questa solo si può credere. Sentite un pensiero, che forse non vi dispiacerà: Voi ben sapete che una donna, la quale brami veramente di comparire ed essere vagheggiata, tra tutti i suoi corredi di vanità, non ha cosa che più le prema dello specchio; e con ragione, perché quantunque ella sia leggiadra, bella e linda, non è però contenta, se il suo favorito cristallo non glielo dice. Possono ben dire le damigelle, possono affermare esser ella del tutto concia decorosamente che ad ogni modo, fin tanto che ella non si è ben specchiata, sempre sospetta, se ben svolazzino su de’ capelli i nastri; se le trecce siano del tutto composte; se la fronte sia lustra; se il collo ben lavato; se facciano la sua comparsa il vezzo, i pendenti; insomma vuol lo specchio, vuol lo specchio, a questo si crede, e non ad altri. A questo specchio solamente della morte dovete credere, e non ad altri. Non credete alle lusinghe di colui, agli affetti di colei, ma allo specchio. Miratevi, contemplatevi con la morte. Ma se tanto hanno di bisogno del consiglio della morte i giovani, e le fanciulle, che passano le giornate tra gli amori; qual necessità n’avranno del consiglio della morte quei che non solamente vogliono gli amori pericolosi, ma altresì peccaminosi? O Mors, quam bonum est juditium tuum! E non sentite la morte, che vi dice: lascia quei compagni con i quali discorri e pratichi azioni degne di fuoco che incenerì Pentapoli; lascia l’amicizia, abbandona la pratica, scaccia quella serva di casa perché ti dannerai, e senza rimedio dirai ancor tu con Gionata: Gustans gustavi paululum mellis et ecce morior. Per una goccia di miele, diceva Gionata, mi son tirata adosso la morte; per un piacere da nulla, ancor tu dirai: mi son tirato addosso la morte, con questa differenza, che la morte di Gionata fu di corpo, la tua sarà d’anima: quella fu temporale, la tua sarà eterna. Tu vuoi tenere in casa quella donna; vuoi andar da quell’altra sotto mille finti pretesti; tu vuoi cedere alle voglie di colui, bene, vuoi gustare questo poco di miele? Seguita pure, ma sappi che la pagherai con tanto fuoco. Il consiglio, che ti dà la morte non è questo; ma bensì, che tu lasci, e lasci ora l’amicizia, le pratiche, le laidezze, altrimenti sarai di coloro che ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad inferna descendunt … sarai di coloro, che doppo una vita condotta tra le amicizie disoneste balzano nel fuoco eterno. Evvi qui per ultimo tra miei uditori, alcuno che racchiuda in cuore brama di vendicarsi per gli oltraggi ricevuti? Se vi è, prima d’effettuare i suoi desideri, prenda il parere dalla morte, la quale gli dirà con lo Spirito Santo: memento novissimorum, et define inimicari; pensa a me, e lascerai gli odi. Tu dici: è vero, non gli parlo, non lo saluto, non gli rispondo, gli volto le spalle, ma non per questo gli voglio male; o questo no; e la morte ti dice che tutto è odio e che quanto prima ti condurrà al Tribunale Divino, ove Judicium tibi fiet fine misericordia, perché non fecisti misericordiam dove non potrai aspettar misericordia da Dio, mentre tu hai avuto un cuore senza misericordia verso del prossimo. Bene, tu dici di non esser obbligato, e neppur Iddio ti risponde che non è neppur Lui obbligato a darla a te. Tu non lo vuoi in paese, e Dio non ti vuole in Paradiso. Or vedi, se ti torna conto così. Un certo villano più di costumi, che di nascita, aveva ricevuta una ingiuria, della quale conservò sempre sì altamente la memoria, che non fu mai possibile ottenere la remissione per mezzo d’una vera pace. Visse l’infelice villano per più anni in questo stato, e così pure se ne morì, e seco portò la sua ostinazione, per la quale venne in tant’odio a Dio che, essendo il corpo di questo infelice esposto in Chiesa, prima di seppellirlo, mentre il Sacerdote, secondo il costume de’ fedeli, pregava nelle solenni esequie, che gli si perdonassero i peccati commessi, con quelle parole: parce ei Domine, un gran Crocifisso nella medesima Chiesa schiodò ambedue le mani, e con esse turatesi le orecchie, proferì queste parole formidabili: non pepercit, non parcam. Considerate qual fosse lo spavento degli astanti che, attoniti e palpitanti non seppero trovare altro partito che strascinare quel cadavere alla campagna, e seppellirlo, secondo il merito, come un giumento. Ecco il termine, ecco il fine di quegli indegni che, dopo aver ricevuto qualche torto, qualche ingiuria, non vogliono perdonare e vogliono vendicarsi. O stolti che siete! voi non sapete conoscere la vostra sorte. Chiunque ha ricevuto qualche ingiuria, si può dire, che abbia in mano la Misericordia Divina per partecipare quella misura o maggiore o minore che gli aggrada; basta, che perdoni di buon cuore, che si scordi dell’ingiuria, che faccia la pace, ed ecco rimesso a lui ogni debito. Così parla, così protesta l’istesso Cristo: dimittite, dimittetur; perdonate, e vi sarà perdonato; ma avvertite che per il contrario, chi non vuole rappacificarsi; chi non vuol salutare, né rendere il saluto; chi indebitamente nega i segni d’una giusta riconciliazione con gli offensori, tenga per certo, che Dio lo pagherà con la stessa moneta: qua mensura mensi sueritis remetietur vobis. Chi sarà dunque sì stolto, che per sfogare quella passione d’odio, per far quella vendetta, voglia tirarsi addosso l’ira di Dio, non voglia la Misericordia di Dio? Cari miei uditori, se non avete bisogno che Iddio vi perdoni, perché non abbiate mai peccato; io mi contento, che ancor voi neghiate la pace, vi vendichiate ma se avete un’estrema necessità, che Dio vi perdoni; perché non perdonate, mentre siete sicuri di non aver il perdono, se non perdonate? Qual fu la sua strada, che tenne la prudentissima Abigaille per raffrenare lo sdegno di David concepito contro del di lei caro marito, sì che lo voleva morto? Molte furono le scuse, molte le ragioni; la più potente però ad abbattere quel cuore, qual fu? Eccola, il dirgli così: e quando vi sarete vendicato, non ve ne avrete voi da pentire per aver disgustato Iddio? Non erit tibi hoc in singultum? Uditori miei cari, ecco quale deve essere il vostro freno da’ peccati: il pensare, che ha da venire un tempo, che ve ne dovrete pentire. Si si erit tibi in singultum, d’aver procurata la rovina di quella donzella; erit tibi in singultum, d’aver tentato l’onore di quella maritata: erit tibi in singultum, d’aver presa la roba al tuo prossimo; e qual sarà? quello della morte, e respiro.


LIMOSINA.
Qui in Nomine Christi, dice il Damasceno, pauperibus subvenit centuplum accipiet.
Chi dà ai poveri per amor di Dio, riceverà il centuplo. Volete vedere se Iddio rende il centuplo? Udite quel che accadde nella città di Livorno in Toscana. Un negoziante di prima riga, intervenuto alla predica, sentendo questo centuplo che Dio promette, diede una Dobla. Torna a casa, vien richiesto di certa cannella ordinaria, la mostra, e la trova cambiata in cannella finissima ed in quel giorno ebbe appunto cento doble di guadagno.

SECONDA PARTE.

Non vi è passo più terribile in tutto l’Oceano dello stretto di Magalianes posto tra l’Affrica, e la Terra di fuoco, perché quivi le acque sono urtate insieme, e respinte da due mari contrari, i quali con il loro flusso e riflusso vi mantengono le tempeste come paesane. Hanno i nocchieri trovato modo di scansare quel passo così terribile e mortale, tenendosi più basso, e passando per un altro stretto meno burrascoso. Non v’è passo più spaventoso della morte; ella è uno stretto combattuto dall’impeto di due mari totalmente diversi: tempo ed eternità; e quel che è peggio, il passo è unico; e non vi pensate e non dite … che farà di me, se v’affondo? Sapete perché non ci fissiamo in questa morte? Perché la miriamo da lontano, e ci pare che abbiano da passare mari di secoli prima che giunga. Così appunto da lontano la rimirò la madre di Nerone Agrippina. Uditene il fatto. Desiderava Agrippina di vedere lo scettro di Roma in mano al figlio, e per ciò che non fece? Fece quanto le permise l’astuzia d’una donna appassionata. Gl’indovini Caldei chiamati da essa a consulta sopra questo affare, gli dissero unitamente che desistesse dall’innalzamento al trono del figlio, poiché il figlio, divenuto Imperatore, gli avrebbe data la morte. Qual pensate che fosse la risposta della donna ambiziosa? Occidat dum imperet; a me non importa, muoia Agrippina, purché Nerone comandi. Ma quando poi si venne all’effetto, e principiò a vedere i preludi della sua morte; oh come subito si dié a’ pentimenti di quello che aveva tanto sospirato! Eccola rinchiusa, eccola in carcere come leonessa in serraglio e tigre in catena. Interrogatela, e ditegli … serenissima, non siete voi quella che apertamente dicevate: muoia Agrippina purché Nerone comandi? Eccovi contenta! Nerone è nel trono, già riscuote i tributi delle provincie straniere, gli ossequi delle milizie obbedienti, morite contenta? Quanto bramavate, avete ottenuto; appunto, appunto, tutto l’amore si voltò in odio, e disperata, al centurione, che gli venne incontro col ferro ignudo, o per segarle la gola o per trafiggerle il seno, ella gli si portò d’avanti, e gli disse: qui, qui ferisci questo ventre che diede ricetto ad un mostro di crudeltà: ventrem ferire exclamavit. Che sarà di voi peccatori, che ora andate dicendo a chi vi riprende de’ vostri vizi, e vi dice: avvertite, vi verrà la morte, e voi rispondete: occidat dum imperet. Muoia l’anima, purché si giunga a quella vendetta: … occidat, vada l’anima, purché si ottenga quella roba; si perda l’anima, purché si sfoghi quella passione. Non direte così no, quando vi troverete al capezzale. Ora ve la figurate lontana, e perciò gli fate testa.

QUARESIMALE (XXVII)

QUARESIMALE (XXV)

QUARESIMALE (XXV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDIC A VENTESIMAQUINTA
Nella feria quarta della Domenica quarta.

La conversione procrastinata si rende difficile, e quasi moralmente impossibile; sì per la parte del demonio, sì per la nostra, come per quella di Dio.

Vade lava in natatoria Siloe. San Giov.: cap. 9

Vedonsi ben spesso non senza stupore, dentro i Sacri Templi, o ne’ superbi cortili, rozzi marmi, così al vivo da industrioso scalpello animati, che per compire le illustri azioni, o l’eroiche imprese che rappresentano, altro non sembra mancargli che il moto. Quivi si fa vedere il pastorello David, che afferrate con ambe le mani ad un feroce leone le zanne par che or ora lo sbrani. La si mira l’ubbidiente Abramo che con generoso braccio, alzato il coltello, sta per tagliare all’innocente Isacco la vita. Da una parte la vedova di Bettulla scarica sul collo ad Oloferne la spada; dall’altra il legislatore Mosè, acceso il di lui giusto zelo, sta per spezzare le tavole della legge: ne toglie già, dall’arte il pregio, dallo spettatore il contento il sapersi che, anche dopo il corso di più secoli, resteranno intatte le tavole della Legge. Giuditta non avrà reciso il capo ad Oloferne, non sarà sacrificato Isacco, non sbranato il leone. Tutto ciò, che da periti nell’arte de’ marmi non solo non si riprende, anzi si ammira: non può già tollerare ne’ suoi allievi la grazia, ne’ quali il non risolversi di mutar vita non è difetto di potenza, ma colpa di volontà. Voglio dire, che pessimo è lo stato di quei Cristiani, i quali non dando orecchie alle divine chiamate, procrastinano il pentirsi, stanno sempre sul fare, e mai si risolvono; sicché giungono alla morte, con una vita condotta tra peccati. Guai all’odierno cieco dell’Evangelio, se avesse tardato ad eseguire i divini comandi: guai a voi, se non ubbidirete prontamente alle voci divine; poiché quella conversione, che ora v’è più facile ad ottenersi, se procrastinerete, vi si renderà più difficile e quasi moralmente impossibile. Io per me non ho mai trovato uomo sì stolto, il quale aggravato da qualche male non ne abbia cercati gli opportuni rimedi: mai ho letto, che niuno chiuso fra quattro mura in orrida prigione per la vita, mentre possa facilmente trovarsi l’adito alla fuga, volontariamente si trattenga fra quelle miserie. Ah, che certo un simile stolto non s’è mai trovato. Solo il peccatore è sì pazzo, che essendo in miserie le maggiori, che si possano mai dire, cioè a dire in peccato mortale, aggravato da un male immenso, stretto da’ lacci del diavolo; ad ogni modo, quantunque facilmente possa liberarsi, non ne fa nulla, e mostra di godere felicità in mezzo alle somme infelicità. Datemi mente per cortesia, acciò mi diciate il vostro parere circa l’operato di Faraone; né dubito punto, che non siate per decidere, che operò da mentecatto. Questo re s’imperversò, come sapete, fra le spaventose piaghe d’Egitto. Guardati, gli dice Mosè, o Faraone, guardati, perché, se non lasci libere le mie genti, la pagherai. Non ti credere già che a tua rovina sia per armare poderosi eserciti, non t’immaginare che per incenerirti sia per chiamare fulmini dal Cielo, no: ma per tua maggior vergogna farà che dalle paludi scappino fuori eserciti di rane, e queste bestiole così piccole prenderanno contro di te le mie difese. Queste assedieranno le tue case, occuperanno le tue sale, ti discacceranno dagli appartamenti delle tue camere. Sorrise l’empio Faraone alla minaccia; ma non andò molto, che il riso tramutossi in amarissimo pianto. Ecco, ad un cenno imperioso di Mosè scappano fuori di subito da pantani, da fiumi, da fonti, eserciti innumerabili di strepitose ranocchie: si spargono per la città, ed guisa di furibondi nemici corrono a darne il sacco. S’impadroniscono de’ posti, chiudono le strade, penetrano le case, e già trionfanti avanzandosi nella reggia, assaliscono Faraone nel proprio trono. Or qual pensate, miei UU. che fosse il cuore di quell’empio, quando si vide posto un assedio sì pertinace alla vita? Chiama frettoloso Mosè, e quasi tutto dolente del suo fallire, compunto del suo errore: ecco, disse, o Mosè, che mi arrendo; mi dichiaro per reo; prega, ti supplico, il tuo Dio, che da me tolga questo flagello, ed io ti compiacerò: orate Dominum, ut auferat ranas a me, a populo meo, dimittam populum ut facrificet Domino. Mosè, come quello, che voleva l’emendazione, e non la perdizione dell’empio: orsù, disse, son contento: dì, quando vuoi, che si preghi per la tua liberazione: Constitue mihi tempus, quando deprecer pro te. Stette allora Faraone alquanto sospeso a deliberare; e poi: domani, rispose, voglio che preghi per me qui respondit cras. Pazzo Faraone! Ti trovi stretto da nemici tanto più fieri quanto più inevitabili, e con tutto ciò frapponi indugi, tessi dimore, e rispondi cras? Domani, domani; e perché non oggi? Grida Ambrogio: insensato risponde cras, cum deberet in tanta positus necessitate rogare ut jam oraret. Certo, che niuno v’è tra voi, che non deplori una sì fatta stolidità d’uno che, potendo uscire da gravi miserie oggi, indugi a domani; orsù, se tanto sciocco, a parer vostro, deve riputarsi chi si mostri sì poco sollecito di salvare la vita del corpo, che dovrà dirsi di quei miseri peccatori che stando continuamente assediati, non da rane, ma da demoni ansiosi di strapparli a gara dal petto lo spirito scellerato; con tutto ciò non sanno ancora risolversi a svilupparsi da sì imminenti pericoli: Constitue mibi tempus; quando o lascivo, si ha da lasciare quella pratica, che ti toglie la sanità, ti ruba le sostanze, t’invola la reputazione, ti priva della grazia di Dio? Quando? Ah, che sento rispondermi: inoltrato che io già un poco più negli anni, allora muterò vita. Constitue mihi tempus; quando verrà quel tempo di lasciar quelle corrispondenze; quando vi risolverete d’allevare le figlie più per Dio, che per il Mondo? Voi le tollerate libere nello sguardo senza riflettere, che tra gli occhi ed il cuore vi sta quella segreta corrispondenza che dicono passare tra quei monti che gettano fuoco; quando, ditemi volete mutar vita e, deposto da voi e dalle figlie ogni ornamento superfluo volete comparire nelle Chiese, alle feste, ne’ corsi con la dovuta modestia, chiuse nel seno, coperte nelle braccia? Quando, quando volete desistere di dare tutto il tempo al mondo, al diavolo senza farne punto di parte a Dio? Allora, sento rispondermi, allora, che sarò più avanzata nella età lascerò quegli ornamenti di vanità scandalose, quelle mode che conosco nocive a me, dannose agli altri. Constitue mihi tempus. Signori, quando volete invigilare sopra l’educazione de’ figli? Mercanti, quando si lasceranno i traffici illeciti? Nobili, quando si soddisferanno le mercedi, i legati pii? Quando, o mormoratori, cesseranno le vostre lingue malediche d’intaccare l’onestà delle fanciulle, il decoro delle vedove, l’onore delle migliori aritate? Quando, o bestemmiatori, lascerete d’oltraggiare col nome de’ Santi, quello della Vergine e di Dio? Quando, quando? Domani, domani. Domani dovete liberarvi dalla pestifera febbre del peccato, mentre potete oggi? O che pazzia! Potere uscire da una miseria sì grande oggi e volere indugiare a domani; hodie, hodie si vocem ejus audieritis, nolite obdurare corda vestra; oggi si ha da fare questa conversione, fin d’adesso si ha da lasciare il peccato? Sì, perché ora è più facile; sì, perché con la tardanza si renderà più difficile, e quasi moralmente impossibile. Adesso, miei UU. La vostra conversione è più facile, che sortisca sì per la parte vostra, sì per quella risguarda il demonio, sì per la parte di Dio; dove che se indugerete si renderà più difficile, e materialmente impossibile;
sì per la parte vostra, quanto per quella e del demonio, e di Dio. Vi dissi che è più facile che se darete orecchio alle voci di Dio, adesso vi convertiate per quel che risguarda la parte vostra, perché certo è che in tanta commozione, alla vista di tanto popolo penitente è molto probabile che concepiate un vero dolore de’ vostri peccati, un vero proposito di non volerli più commettere, e così per mezzo d’una vera, d’una sincera, d’una real confessione ritorniate nel seno del vostro Dio; più facile altresì farà adesso la vostra conversione, perché in questo tempo sentendo la gravezza del peccato, udendo i gran mali, che seco porta, meglio ne concepirete la di lui malizia, e perciò più facilmente la detesterete. E più facile finalmente adesso la vostra conversione, perché il male non è tanto invecchiato, la piaga non è del tutto incancherita, onde può sperarsi che la parola divina possa avere la sua efficacia, per portarvi salute. Su dunque: ne tardes converti ad Dominum, non tardate no, ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis; questo è il tempo da convertirsi; questo è il giorno di salute. Il demonio non v’ha ancora ben fermato; non v’ha legati sì fortemente in quegli amori, in quegli odii ed interessi che non possiate scappargli; non vi ha per anche messi a piedi ceppi sì fieri che non possiate spezzarli; converrà che egli ceda, mentre tanti si uniranno a torvegli dalle branche per mezzo di frequenti orazioni. Su, dunque, fatevi animo e sappiate che il demonio combattuto dalle orazioni, dalle penitenze, dalle lacrime, da sospiri resterà talmente abbattuto nelle sue forze, che la vostra fuga dai suoi artigli è quasi che certa. E che forse ne potete dubitare per la parte di Dio? E non è questo Cristo quello che v’invita a ritornare a Lui? E se Egli è quello, che per mezzo mio v’invita, potrete dubitare, che Egli non sia per darvi tutto l’aiuto necessario per una buona e santa conversione? Che Egli non sia per assistervi con quella grazia, che vince ogni protervia, che abbatte ogni ostinazione con la grazia efficace? Certo che sì! Egli sta con le braccia aperte per accogliervi nel suo seno, correte dunque, e non tardate: Ne tardas converti; perché so dirvi che quanto ora è più facile, tanto poi si renderà più difficile, se tarderete. Sarà più difficile per la parte del demonio, per la parte vostra, per la parte di Dio. Per la parte del demonio, perché quanto più egli tiene il possesso dell’anima vostra, tanto più se ne fa padrone, e tanto più difficilmente gli scapperete di mano. Quanto più l’anima sta in peccato, tanto più s’indebolisce, e le sue debolezze sono accrescimento di forza al demonio. Quante sono le vostre perdite, tante sono le sue vittorie; e quante più sono le vittorie tanto maggiore è l’accrescimento delle di lui forze; sicché assai più difficilmente gli scapperete dalle mani, se non vi convertite adesso. Hodie si vocem, etc.. Che sia poi più difficile anche per la parte vostra, e chi ne dubita? Le spinose quanto più indugiano a dare alla luce i loro parti tanto più penano; mercè che quanto più crescono quelle spine, tanto più poi danno di tormento alle viscere materne. Quanto più indugerete a convertirvi, tanto più stenterete a farlo; mercè che crescendo sempre più l’abito, sempre più radicherà e si renderà difficilissimo lo sradicarlo. Portatevi nelle vostre campagne, e quivi dopo aver piantato un albero indi a due dì tentate sradicarlo, voi vedrete che vi sarà facilissimo lo sbarbarlo; non così, se indugerete un mese, molto più indi a sei: arriverà quell’albero, se tarderete a sradicarlo, a porre radici sì forti, sì ferme e si profonde, che non basterà né la mano, né il ferro: vi vorrà il fuoco per incenerirlo. Se voi indugerete a sradicare quella amicizia, quella invidia, quella avarizia, quelle bestemmie, metteranno radici sì alte, che sarà quasi impossibile svellerle. Geremia ci rappresenta una sorte di peccato, la di cui effigie non è forma dal peccatore col pennello sulla tela, ma con lo scalpello nel sasso: peccatum Juda scriptum est stylo ferreo; voi ben sapete, che tra la pittura e scultura vi passano molte differenze; benché ambedue contrastino per imitare al vivo la natura, la scultura fabbrica statue, rompendo selci; la pittura forma figure spargendo colori; ciò che fa a mio proposito è, che un errore di pittura si scancella con acqua pura; ma se lo scultore vuol riformare ad una statua un membro, è necessario, che rotto il primo, ne formi un altro. Che voglio dire? Voglio esprimere, che il peccato ancor fresco è una pittura; bastano lacrime penitenti a scancellarlo; ma se egli è invecchiato, non è dipinto ma scolpito, scriptum est stylo ferreo, id est per sculpturam, glosa il Lirano, et in boc peccati indebilitas designatur, presto, presto non tardate; perché vi si renderà difficilissima la vostra conversione. Non v’è chi non sappia, che ogni peccatore è simile ad un morto: Omnis qui peccat, son parole di Sant’Agostino, moritur. Or sentite, io osservo, che di tre morti resuscitati da Cristo, in due poco vi faticò; per resuscitare la figlia di Jajro, bastò che dicesse, non est mortua, sed dormit; merceché appena era morta; per ravvivare il secondo, che di poche ore era morto, nulla più fece, che toccare il Cataletto. Non così per il terzo, che fu Lazzaro, che era morto più giorni avanti; poiché per rendere la vita a questo, si turbò, pianse, gridó ad alta voce e con assoluto impero: Lazare veni foras. Non vi meravigliate, dice Sant’Agostino, che dimostrasse di faticar tanto per resuscitar Lazzaro, lo fece per mostrarci quanto è difficile che risorga chi indugia la sua conversione: Difficile surgit quem moles consuetudinis premit. Io resto stordito alla pazzia di costoro, che vogliono indugiare a convertirsi, mentre si tratta d’anima. Dio immortale! Se nella casa un trave minaccia, non aspettate un mese a mettergli un puntello; se l’acqua del fiume entra nella vigna non indugiate a far l’argine; se oggi vi viene la febbre non aspettate un mese a chiamare il medico; se vi svoltate un braccio, un piede, non differite a chiamare il cerusico; se per disgrazia prendete veleno, non aspettate un mese a prender la triaca; se oggi si attacca fuoco alla casa non aspettate a domani portar l’acqua per estinguerlo. Sentite Avicenna medico arabo: Qui bibit venenum in dormire non debet, chi ha preso il veleno presto se ne liberi. Cristo Medico Celeste dice: chi ha il peccato presto se ne scappi, se no morte eterna; perché quando vorrà non potrà. Ah, che se voi indugerete a convertirvi s’indurerà talmente il vostro cuore, che vi vorrà fuoco per incenerirlo: non basterà la parola divina; sarà quasi impossibile che vi convertiate. Sentite caso orribile, registrato nel Cristiano Instruito ed inorridite. Un cavaliere chiaro di nascita, ma sordido di costumi, invaghitosi d’una certa fanciulla, benché moresca, se la teneva già da molti anni senza prezzario né  le riprensioni degl’amici né le ammonizioni de’ Sacerdoti; e a chiunque l’esortava a lasciarla rispondeva con modi austeri e sdegnosi, non posso, quasi che pretendesse persuadere, essere necessità di natura ciò che era elezione di libidine: non volendo egli dunque staccarsi dalla perfida compagnia, venne, come accade, la morte per distaccarlo. S’ammala dunque lo sfortunato nel fiore degli anni, s’abbandona e pone in letto, e ben presto si dà da’ medici per disperata la sua salute. Fu pertanto chiamato un religioso per disporre il giovane in quell’estremo; giunto il religioso al letto saluta cortesemente l’infermo, e con modi assai dolci e prudenti principia ad insinuarsi dicendogli: signore, non può negarsi, che il male non sia grave: ad ogni modo voglio credere che vi sia più da sperare che da temere. Ella è fresca di età, vigoroso di forze, sincero di complessione, molti d’un male simile al suo sono campati, molti però ne son morti; e benché speri che ella sia per camparla, ad ogni modo, che nuoce l’apparecchiarsi come se dovesse morire? Allora l’infermo rivolto al religioso dissegli: insinuatemi Padre ciò che devo fare, che son pronto ad ubbidire. Ancor io conosco il pessimo stato, in cui mi trovo e quantunque io abbia menata cattiva vita, desidero però al pari d’ogn’altro una buona morte. Non potete credere quanto di giubilo arrecassero al cuore del religioso queste parole; bramava egli di venir subito al taglio di quella pratica scellerata che con tanta sua pena vedeva nella camera stessa del moribondo; il quale or sotto il pretesto d’un servizio, or d’un altro, la voleva sempre efficacemente vicina. Nondimeno la prudenza gli persuase di disporlo prima con richieste più facili ad una più difficile; orsù dissegli, giacché vi scorgo per grazia di Dio sì bene animato, voglio parlarvi con quella libertà che richiedono sì la santità dell’abito che porto, come lo zelo della vostra salute. La vostra vita è disperata: bisogna morire; e perché poche sono le ore che vi restano, conviene aggiustar le partite con Dio. Eccomi pronto, ripigliò il moribondo: che devo fare? Avreste, riprese il Padre, roba d’altri? L’avevo, ma ho soddisfatto. Racchiudete in cuore livore verso del prossimo? Ho perdonato a tutti. Volete per ultimo ricevere li Santissimi Sacramenti per armarvi al gran passaggio? Certo, Padre, se voi avrete la bontà d’amministrarmeli. Io son pronto, ripigliò il Padre, ma voi sapete che questo non si può fare se prima non licenziate la rea femmina! O questo non posso Padre, non posso. Ahimè! che dite? E perché non potete? E potete e dovete, se volete salvarvi. Ed io vi dico che non posso; ma sentite, tanto di qui a poche ore bisognerà lasciarla; e perché non vi risolvete a far per elezione ciò, che vi converrà fare per necessità? Non posso, Padre non posso; guardate questo Cristo per voi in croce; Egli vi dice, che la licenziate; non posso, torno a dirvi, non posso. Ma uditemi, perderete il Cielo; non posso; andrete all’inferno: non posso; e come è possibile, che non vi debba cavare altra parola di bocca, che questo ostinato non posso? Ma non è meglio perdere la donna, che perdere la donna, la reputazione, il corpo, l’anima, l’eternità, i Santi, la Vergine, Cristo, il Paradiso, e dopo morte esser sepolto da scomunicato e da bestia in mezzo alla compagna? Che pensate, che facesse allora questo sfortunato? Gettò un crudo sospiro dal petto, e tornando a replicare quelle orrende parole: non posso, non posso; raccolte quelle deboli forze, che gli restavano, afferra all’improvviso quella perfida femmina, e con volto acceso e con voce alta in queste voci proruppe: questa è stata la gloria mia in vita; questa la sarà in morte. Indi per forza stringendola ed abbracciandola, sì per la veemenza del male, come per la violenza del moto e l’agitazione dell’affetto le esalò sulle sozze braccia lo spirito scellerato. – Cristiani miei non indugiate più a convertirvi, a lasciare quella pratica, quell’odio, quella roba altrui, non indugiate a fare una buona Confessione, perché è molto probabile, che anche dalla parte vostra vi si renda quasi impossibile convertirvi, e dire ancor voi con costui: non posso, non posso. Non perché non siate per potere in ogni tempo, se vorrete; perché la grazia sufficiente non è mai negata a veruno il quale almeno la chieda ma perché ad uno sì male abituato vi vuole altro, che grazia sufficiente, ci vuole quella grazia che da Sant’Agostino vien chiamata trionfatrice; quella che abbatte ogni perfidia; quella che atterra ogni protervia, quella, che doma ogni ostinazione; la grazia efficace voi dovete sapere che Iddio non è tenuto a darla a niuno, né per legge di provvidenza, né per legge di Redenzione, e non vi par giusto, che la neghi  a coloro i quali tante volte che la poterono conseguire, non la curarono? Dixerunt Deo recede a nobis scientiam tuarum viarum nolumus: certo che sì! Son pur stolti quei peccatori che con tanta franchezza dicono, se non mi pento adesso, in questa Quaresima, in questa Missione, mi pentirò un’altra volta, verrà un Giubileo, una Solennità; quasi che il pentirsi, il ravvedersi, il convertirsi stesse totalmente nelle loro mani, in loro potere. Sappiate, miei UU, che siccome è vero, che niun peccatore, che di cuore si penta, vien mai rigettato dalla Divina Misericordia, così niun peccatore può mai convertirsi di cuore, se Dio con la sua misericordia non l’aiuta; che cosa è quello che dà il colore al mare? voi mi dite: il fondo del medesimo: è vero; ma è altresì vero, che glielo da anche il Cielo; anzi dovete sapere, che a dar quel colore vi concorre più il Cielo, che il fondo medesimo di tante acque. Così appunto cammina nel caso nostro:
quello che fa volere il nostro pentimento, la nostra conversione, non è solamente la nostra volontà, ma anche la volontà di Dio; anzi più quella di Dio, che la nostra. Come dunque avere ardire di dire: mi pentirò un’altra volta; se ciò non sta solamente nelle mani nostre; ed ora che Iddio ve ne dà l’impulso, rifiutate di farlo? Sentitemi bene: con le nostre sole forze naturali possiamo si bene cadere in peccati gravissimi; ma caduti che siamo, con le nostre sole forze non possiamo uscire e risorgere; può bensì un orologio da per sé scomporsi, e guastarsi; ma guastato che sia, da sé non si può raggiustare; vi vuole la mano maestra dell’artefice. Come dunque vi compromettete della conversione a vostro capriccio? Non indugiate a tornare a Dio, mentre ora Egli vi chiama, vi assisterà con i suoi aiuti; che se non risponderete, è probabile vi abbandoni. Intendetela una volta: senza Dio non possiamo niente; sentite San Paolo: Non sumus sufficientes cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis, sed sufficientia nostra ex Deo est; e chi dicesse il contrario direbbe un’eresia; Archita ingegnere celeberrimo fabbricava alcune sue colombe mirabili, e con tale arte, che volavano per l’aria, avendo compaginato dentro di esse alcune soste e ruote segnate, le quali dessero impulso al volo, ma quando l’impulso mancava, le colombe cadevano a terra; e la ragione si è perché per sollevarsi al volo avevano bisogno d’aiuto estrinseco di strumenti, e di soste; ma per cadere bastava il loro proprio peso: così siamo noi; per precipitarci ne’ peccati basta il peso d’una nostra natura; ma per fare una buona Conversione abbiamo necessità di Dio; e come volete, che Egli ci dia mano, mentre noi non gli diamo orecchie or che ci chiama? Ah che Egli per verità adirato con noi, è molto probabile, che non voglia più sentirci. Voi ben sapete, che ogni ribellione di città è il maggior delitto di violata fede: con tutto ciò il principe non vien subito al castigo: la chiama ad arrendersi, con ricordarle i benefici e favori compartiti. Quando ella persista nella disobbedienza viene alle minacce: e quando queste non bastino, vien a dar segno de suoi gravissimi sdegni; ma quando poi la trovi ostinata, e pertinace nella ribellione, allora il principe sdegnato non la chiama più alla resa, a ritornare all’obbedienza giurata, come la prima e seconda volta; ma con poderoso esercito, si porta fotto le mura, la costringe ad arrendersi, e poi severamente la castiga. Tanto seguirà col soprano Principe Iddio: voi vi ribellaste perché ammetteste il demonio nel cuor vostro col peccato, vi chiamò a tornare a Lui, ricordandovi i benefici compartiti di roba, di nascita, di talenti e voi ostinati, vi chiamò per mezzo delle minacce de’ sacri oratori, e voi pertinaci, vi ha chiamato a voce di castighi, con carestie, con terremoti con mortalità d’armenti, con inondazioni di fiumi, con morte di figli, di consorti, di padre, e voi persistete? Ah! se ormai non vi arrendete, io posso temere, che sia l’ultima chiamata: e però non vi fidate di star ostinati a queste voci, con la speranza di poterlo avere a voi propizio quando vi piaccia; questo è un inganno grandissimo, che vi mette in cuore il demonio, per potervi con più sicurezza rovinare. Il dipingere le navi, l’indorar la poppa, l’intagliar la prora, il fregiare di bizzarri arabeschi tutte le sponde è stata un’arte finissima per ricoprire i pericoli a chi naviga, e per torli dal pensiero d’osservarli: Pericula expingimus juvatque ad mortem speciose vehi, disse colui. Tanto fa il demonio con noi, procura di nascondere i pericoli della dannazione, con inserire ne’ nostri cuori una certa speranza di salute con un futuro pentimento; con questa speranza ci fa navigare in alto mare: ci fa immergere fino a gli occhi nelle disonestà, nelle crapule, negli odii, nelle bestemmie e negli interessi peccaminosi, e quando siamo in alto mare, e bene ingolfati nelle scelleraggini, ci suscita una tempesta, viene una malattia inaspettata, un accidente non previsto, e si resta estinti nel corpo, affogati nel fuoco con l’anima. Peccatori miei amatissimi, aprite ora per tempo gli occhi per conoscere le astuzie del demonio, il quale vi va lusingando con la speranza che vi convertirete per avervi con più sicurezza nell’inferno. Si, si miei UU. quelle speranze di pentimento fondate sull’avvenire, altro non producono che aborti di dannazione. Sentite, o mal consigliati Cristiani, con voi parla Salviano: Usurpata absolutio damnationem parit; il troppo presumerci di poter aver con pentimento la conversione quando pare e piace, fa che ci precipiti l’anima, e per renderci certi di questa verità, egli ci chiama, e ad alta voce ci dice, venite: ecco, che io vi schiudo con la chiave dell’eternità la porta dell’inferno. Orsù vedete, mirate, osservate. O che orrore! oh che spettacolo! che disperazioni! Non vi paventate, non vi ritirate: vedete voi, dice Salviano, colaggiù quei sensuali, che tra quelle fiamme ardono di continuo, ed arderanno per tutta un’eternità? Saprete, che finché vissero mai disperarono di salvarsi; anzi più volte con sperare un vero pentimento, ne concepirono una ferma speranza, e si figurarono di vedersi un giorno preparato un trono di gloria, come fu già veduto da’ discepoli del grande Antonio per Taide la peccatrice. Vedete là in quel cantone quei vendicativi, che l’un l’altro in quello stagno di zolfo ardono, ed a vicenda rabbiosamente si lacerano? siate pur certi che anche essi finché vissero ebbero pensiero di pentirsi, e si crederono a guisa di Giov. Gualberto stampare in fronte all’inimico un bacio di pace, e nell’anime loro un certo contrassegno di salute: ma perché troppo lo sperarono, e perciò si dilungarono la conversione, ed or si trovano dannati. Non vi lusingate o peccatori, con dire: mi pentirò, mi convertirò. Iddio vi chiama ora, se non vi arrendete è probabile che stanco vi volti le spalle, e con la briglia sul collo vi lasci correre tanto, finché giungete all’inferno. Non si dica più farò, farò; ma si metta la mano all’opera, perché procrastinando di giorno in giorno la conversione, v’assicurerete nel pericolo, dormirete sul precipizio e vi sveglierete dannati.

LIMOSINA.
Quelle fontane, che la natura fa sorgere in cima de’ monti non son fatte, perché ne godano i soli monti, ma perché tosto che i monti sono inzuppati, passino in pro delle valli. Così pure è delle facoltà date da Dio ai ricchi, ai comodi: non le ha date loro perché si stagnino, e si putrefacciano in loro, ma perché dopo il loro bisogno, passino a benefizio de’ poveri. Fate dunque parte di ciò ch’avanza ai miserabili, che si raccomandano per aiuto alle loro necessità, e questo atto di compassione, vi disporrà il cuore ad un salutare pentimento.

SECONDA PARTE

Non indugiate più à convertirvi, perché  Iddio adirato vi volterà le spalle, giacché tante volte finora v’ha chiamato, e voi non avete corrisposto. Il Tamberlano, quel soldato sì generoso che ha fatto più volte patire, e dissi anche doloroso, alla luna ottomana; quando andava all’assedio d’una piazza, subito spiegava bandiera bianca, con cui faceva intendere alle milizie nemiche, che voleva la resa, trovandole restie, inalberava nel secondo giorno la bandiera, rossa; e quando non si arrendessero, faceva, che si esponesse una bandiera nera, acciò intendessero, che non avendo voluto cedere agl’inviti, sarebbero stati tutti preda di morte. Così appunto farà Iddio con voi: ha spiegato bandiera bianca, chiamandovi ad una vera conversione con ispirazioni per mezzo di Sacerdoti e Predicatori; ha spiegata la rossa, mandandovi delle tribolazioni: ecco che spiegherà la terza nera, che altro non vuol dire che morte, e morte eterna. Cari UU. qua si tratta del maggior negozio di tutti. Voi sapete che Eliezer, come si narra nella Genesi, famoso servo d’Abramo, dopo un disastroso viaggio arrivò a Nacor città di Mesopotamia, per cercar sposa di conto al giovane Isacco. Subito giunto, fu cortesemente ricevuto, ed ognuno diedegli segni di non ordinario affetto, compatendolo del lungo viaggio ed offrendogli ristoro: Et appositus est panis in conspectu ejus: Eliezer però rivolto verso di coloro che gli ammannirono la tavola, gli disse: non vi affrettate no, perché vi giuro che non prenderò boccone, se prima non vi avrò esposte le mie ambasciate: non comedam donec loquar sermones meos: e così in piedi prima di deporre gli abiti di campagna, non solo espose i desideri di Abramo, le preminenze d’Isacco, le ricchezze, e che so io, ma volle interamente concludere il parentado e fermar le nozze, e così ne ritrasse risposta concludente: eh Rebecca, En tolle eam, fit uxor domini tui; gran fretta, direte voi, di questo servo, gran furia? Poteva riposare, poteva cibarsi, e poi parlare, e poi concludere; e non è così; chi ha negozi grandi di premura, non ammette dimore, non comedam, non comedam donec loquar sermones. In hoc ostendit, dice il Lirano, babere negotium sibi impositum cordi; così appunto avete da far voi dove si tratta di anima. Siete caduti in peccato? Dite ancor voi non comedam, finché non abbia vomitato a’ piedi del Sacerdote il mio misfatto; avete fraudata la mercede al povero? Non comedam, finché io non gli abbia appieno soddisfatto; avete infamata quella fanciulla, quella maritata, quella vedova, quel Sacerdote? Non comedam, finché non li ho riposti nel suo onore, perché so, che se tarderò, questa mia conversione mi si renderà difficile dalla parte mia, dalla parte del diavolo, dalla parte di Dio. Queste tre difficoltà esperimentò quella rea femmina nella città di Viterbo, alla di cui morte si trovò uno de’ nostri Padri che a me ha narrata la funesta tragedia. Si ridusse alla morte questa empia; da’ parenti fu chiamato un nostro Padre per assisterla; andò, e vedutala le disse: vi conosco moribonda; eccomi in aiuto dell’anima vostra, per assolvervi da’ vostri peccati. Non voglio assoluzione, arrabbiata rispose la donna. Come, e non volete riconciliarvi con Dio? No, che Egli non mi vuol più! Non è così; sperate… appunto e non vedete, che la mia camera è piena di diavoli che mi vogliono strozzare? Dite almeno queste parole: credo; non posso … perché? Non credo; dite: spero … non posso, perché? Son disperata; dite amo: questo no, no, che non l’amo. E voi siete fuori di voi… non è così, sono in me, non deliro; voi siete il Padre tale, e quella è la mia comare; conosco tutti, non v’è più rimedio per me; è impossibile la mia salute per la parte mia, che ho il cuore indurato; per la parte de’ diavoli, che mi circondano come sua, per la parte di Dio, che mi ha voltato le spalle, ed in così dire apparve come strozzata da’ diavoli, e divenne nera come un carbone,
pestilente come una sozza cloaca. Peccatori non tardate a convertirvi per non trovarvi in questi frangenti. Ricordatevi, che gli Apostoli agitati dalla tempesta del mare non conobbero Cristo, ma lo stimarono fantasma; e la ragione si è perché: erat quarta vigilia noctis. Questo interverrà a voi, se indugerete a convertirvi; non conoscerete il Redentore… putabitis phantasma. Vi porrà il confessore avanti gl’occhi il Crocifisso, e voi inorridito, striderete, fantasme … mirate vi dirà, quei chiodi, son chiavi per aprirvi il Paradiso: fantasme … Queste Piaghe son porte per le quali si entra in Cielo: fantasme … Questo Sangue è il prezzo che riscatta dall’inferno: fantasme. In somma perché indugiaste a convertirvi, abbandonato da voi, da Gesù, darete nelle mani de’ demoni vostri nemici, che Iddio ve ne scampi.

QUARESIMALE (XXVI)

QUARESIMALE (XXIV)

QUARESIMALE (XXIV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMAQUARTA
Nella Feria terza della Domenica quarta


II tesoro scoperto a’ peccatori nella preziosità dell’anima.

In die Festo mediante ascendit Jesus in Templum. San Giov.: cap. 7

Considerò Giovanni Crisostomo, con le pupille attonite per lo stupore, quel maestoso tempio di Gerosolima in cui nihil erat quod auro non tegeretur, ed in esso nulla più ravviso’, salvo che l’ombra d’un’anima, Unicum Templum diruit Dominus Jerosolymis, et innumerrabilia erexit illo longe venerabiliora, vos inquit, Templum estis Dei viventis. Or se così splendida è l’ombra, che deve essere la vera luce, l’anima! Ah, che ella è sì preziosa, che non v’è cosa creata, che la superi, e basti dire che è abitazione di Dio, e che qui veramente ascendit Jesus, come in suo Tempio. Diamo dunque un’occhiata al gran tesoro, che è l’anima, ed alla poca stima che taluno ne fa; acciò risolva una volta, renderla abitazione di Dio. E son da capo … – Non v’è giocatore, che senta meno d’afflizione nel perdere il suo, di chi si pone a giuocare sulla parola. Quel non vedere ciò che si perde, riesce un impoverire tanto più dolce, quanto meno osservato. Ecco la maniera con la quale giuocano tutto il giorno i peccatori. L’anima col diavolo giuocano come per polliza, senza numerare, o pensare ciò che essi perdono. M’indurrei, sto per dire, a perdonarli questa gran pazzia, se almeno e’ ricordassero, che giuocano da davvero, e non da burla. La maniera, a mio credere, più efficace per emendare un tal uomo è porli avanti gli occhi quella ricchezza medesima, che egli troppo facilmente perdendo, disprezza. Così Agrippina bramò correggere il suo figlio Nerone, che in un sol giorno arrivò a sborsare ad uno ottocento mila scudi. Fece ella adunare insieme in monte quella gran somma d’oro; e poi: questo, disse, o Figlio è quel poco, che voi ieri buttaste. Voglio anche io valermi di questa regola; e vedendo tanti che per nulla giuocano, e perdono l’anima loro, voglio porli avanti gli occhi il gran tesoro che buttano, la gran perdita che fanno. Non v’ha dubbio, che la preziosità dell’anima non può conoscersi qual ella sia qua giù fra noi; e che solo ben si conoscerà quando farà nel suo proprio lume in Paradiso. L’anima finché è chiusa nel nostro corpo non mostra il suo bello a guisa della conchiglia, che serrata non palesa la bellezza della perla che racchiude. Non è però che io non voglia darvene al meglio, che so qualche notizia. Sentite come parlano dell’anima anche coloro che non avevano bagnata la fronte d’acque battesimali. Aristotile ci dice che l’Anima è un ristretto virtuale di tutte le creature: est quodammodo omnia. Parli Seneca, che quantunque privo del vero lume della Fede, asserì ad ognuno, che quanto ha di buono è l’anima, cogita in te præter animam nihil esse mirabile; ed il padre della romana eloquenza giudicò sconvenevole ogni paragone alla sua grandezza, attribuendoli solo il Divino, con dire: Humanus animus excerptus ex mente Divina cum nullo alio, ni si forte cum ipso Deo, si hoc est fas dictu, comparari potest, il che quantunque fosse un iperbolico trascorso di lingua, non deviò però dalle Cattoliche verità. Sebbene, a che cercarne la preziosità da Aristotele, da Seneca, da Cicerone? E non è forse la Fede che ci dice esser l’anima una sostanza spirituale spirata in faccia all’uomo dalla bocca di Dio? Spiravit in faciem ejus spiraculum vita. Dunque l’anima nostra è d’origine celeste, benché cittadina terrena; e come tale, se ebbe principio, non avrà mai fine. Ella è degna d’esser stimata per la sua preziosità intrinseca; essendo una vera immagine di Dio; e perciò l’opera più bella che sia uscita dalle mani della Onnipotenza Divina. Manus tua, Domine, fecerunt ed o quanto stimabile per la sua preziosità estrinseca! Avendomi Dio fatta stima sì alta, che ha voluto mandare il suo Figlio in terra a’ ludibri, a’ flagelli, alla corona di spine, alla croce, alla morte per ricomperarla dalla schiavitù di satanasso: Magna res est anima, quæ Christi Sanguine redempta est. Erigete, dirò io pertanto con Agostino, a chiunque m’ode, erigete anima tanti vales; gloriati pure, o anima di te stessa; perché tu sei di prezzo senza prezzo. O anima quanto sei stimabile! E pure sì poco conosciuta dagli uomini, mentre la pospongono ad ogni più succido piacere, e l’oltraggiano con i peccati; sicché bisogna dire, nescit homo pretium ejus. E perché non ho io qui un paio di bilance, ma non già quelle del mondo, le quali fanno apparire di più peso la terra che il Cielo: Mendaces Filii bominum in stateris: Le vorrei simili a quelle di Teodorico il Savio, il quale intendendo che con pesi falsificati si riscotevano i pubblici pagamenti della plebe ed i tributi esorbitanti de’ principi, comandò subito che le bilance si riformassero ad libram cubiculi regii, alla misura delle regie bilance; che vale a dire bilance perfettissime, bilance di tutta sincerità; poiché con queste spererei di farvi conoscere in parte l’inestimabile prezzo d’un anima. Poniamo dunque su queste, da una parte l’anima, dall’altra quanto v’è di prezioso nel mondo di gioie. Qua presto tutti i carbonchi de’ Garamanti, tutti i coralli della Sicilia, tutti gli smeraldi della Scitia, tutti i diamanti dell’Arabia, tutte le perle della Pescheria: né qui mi fermo. Aggiungete a questo gran tesoro di gemme quanto di danaro conservano ne loro erari tutti i principi d’Italia; passo avanti, quanto ne possiede ogni monarca del mondo. Or pesiamo. Ah che troppo vi corre: assai più, e di gran lunga pesa l’anima sola del più vile uomo che viva sopra la terra. Che dite? Credete voi veramente che l’anima vostra sia più preziosa di tutti i tesori e di tutte le gemme preziose del mondo? Padre sì, Padre no, perché tu o donna hai dato il tesoro dell’onor tuo, mancando di fede al consorte per un poco d’argento. Ma perché tu o fanciulla deste la più preziosa gioia che ne avessi, la pudicizia, la verginità, per un lucro vilissimo, per un brillo, per un dono di fiera? No, che non stimi l’anima, o mercante, più preziosa di tutti i tesori, perché tu per avere quel piccolo guadagno non curi l’anima oltraggiandola con bugie, con falsità, con giuri, spergiuri e bestemmie, no, che non la stimi più preziosa o nobile d’ogni gemma; perché tu per avere maggior facoltà non curi l’anima; sottoponendola alle ingiustizie, alle frodi, agl’inganni. Ma diamo di nuovo un altro peso per eguagliare almeno, se non altro, il peso e prezzo dell’anima. Ecco, che la pongo dall’una parte della bilancia, e dall’altra vi si ponga il valore di quante sono le gloriosissime città d’Italia. Dissi poco; di quante ne domina la Spagna, ne comanda la Francia, ne regge l’Impero Cristiano. Più; se vi si ponga l’Europa tutta con la grandezza de’ suoi monarchi; l’Asia con la sontuosità de’ suoi coronati; l’America con la nobiltà de’ suoi principi; l’Africa con la magnificenza de’ suoi Imperi. Alza ora uditori miei, che tengo su la bilancia, il valore d’un mondo. Ah, che di gran lunga supera il valore d’un’anima; né sono paragone proporzionato i regni della terra con la preziosità d’un’anima. Dico bene o dico male? Dico il vero oppure il falso? Voi mi rifpondete, che dico il falso, se non con le parole, certo co’ fatti; perché voi per possedere non una parte del mondo, non un regno, non una provincia, non una città, ma talora un piccolo feudo, un’entrata maggiore, un misero guadagnuccio non vi curate di perder l’anima con frodi indegne, con instrumenti falsi. No, perché per aver un dominio maggiore non guardate a precipitare intere famiglie. Diasi dunque l’ultimo peso, e si faccia l’ultimo confronto, ponendo sull’altra parte a dirimpetto dell’anima un tesoro maggiore di tutto il mondo. Eccolo, vi si pongano degli uomini sì regi, come imperatori e pontefici, non solo stati e che saranno, ma ancora possibili a tutte quelle vite di monarchi sì grandi, e non è forse un’anima assai più preziosa? Mercè che ella è immortale, e tutte le vite degli uomini hanno da finire. Ah, che sento chi mi dice: presso di me è più preziosa la vita di quella dama a cui servo, di quel cavaliere a cui corrispondo, che non é l’anima. Avete ragione, dite il vero; perché per questi fare getto dell’anima?Tacete, v’intendo, presso di voi val più la vita dell’innamorato, del padrone, della serva, che tutta l’anima vostra. Ah miseri! che nulla stimate il gran tesoro, che dentro di voi racchiudete. Che farò io dunque per indurvi à prezzarlo? Io non posso far altro, che porvi avanti gli occhi la stima, che hanno fatta dell’anima vostra, quei che se ne intendono, e che ne hanno più cognizione di voi. Diteci dunque o voi che vivete a Dio, o nel mezzo del mondo, o ne’ chiostri religiosi: e perché passate la vita in digiuni, in asprezze, in vigilie, in orazioni? Perché, Figli riveriti del Serafico Padre S. Francesco, vi vedo vestiti di ruvido sacco, cinti di rozza corda, sempre con piede nudo anche ne maggiori rigori del verno, perché vi nutrite sempre di cibo vile e mendicato? Ditemi perché? Ecco la risposta: perché vogliamo mettere in sicuro il bel tesoro che abbiamo, l’anima nostra. Perché, o Vergini consacrate a Dio nel chiostro, vi siete ritirate dal mondo; avete abbandonato parenti, amici, e quanti avevate del vostro sangue? Perché avete lasciate le ampie facoltà, date le spalle alle pompe; ed abbracciata col disprezzo la povertà? Dite: perché vogliamo assicurare l’anima nostra. Cari UU. questi, che sono veri intendenti del prezzo dell’anima così operano; e voi, e voi alle crapole, a’ lussi, agli spassi, a’ giuochi, a’ balli, a veglie, agli amori per annichilare il bel tesoro che avete dell’anima vostra. Io non vi dico che a guisa d’Alessio abbandoniate le spose; rinunciate alle comodità; vi poniate in stato mendico. Mi basta, che non contaminiate l’altrui letto; che abbandoniate quell’amicizia; che non amoreggiate con vampe indegne; lo non vi dico, che a similitudine di Francesco di Assisi dispensate a’ poveri quanto avete: ma che non succhiate il lor sangue mendico. Eh via, principiate a far la stima dovuta dell’anima vostra, già che vedete, che gli uomini da bene, che ne conoscono il prezzo, tanto la stimano. E l’anima quando non vogliate credere a questi intendenti; date fede a quelli che ne sono più periti, e che vedono l’anima nel suo lume. Tali sono i Santi, che regnano in Cielo. Io, vi dirà quel gran Patriarca Domenico, or che vedo nel suo proprio lume la bellezza d’un’anima, conosco, che pochi furono i patimenti che tollerai per fondare la mia Religione, acciò tutta impiegasse a salute dell’anime. Pochi furono, vi dirà Francesco Saverio, i miei stenti, i miei sudori per salvar anime. Li dieci anni che spesi per la salute di tante erano ben impiegati per un’anima sola: tanto ella è stimabile. E pure una gioia tanto stimata dagli uomini da bene nel mondo, da’ Santi in Cielo sì poco si prezza da tanti peccatori; anzi si strapazza con odi, con bestemmie, con spergiuri, con amori, con laidezze. Come è possibile, che un’anima così preziosa da voi sì poco si prezzi? Orsù, giacché le mie voci col testimonio de’ buoni e de’ Santi al vedere, non bastano per farvi conoscere la preziosità dell’anima, lo saranno forse quelle dell’inferno, ed essendo queste a voi più amiche, avranno forse maggior forza da persuadervi. Tanto più, che dimorando colaggiù gente peritissima, potranno darvene certe le informazioni. Interrogate, miei UU., uno di quegli spiriti ribelli che precipitosi caddero dal Cielo nel più cupo profondo degli abissi, che cosa sia anima; e sentirete rispondervi: io, che pur sono più d’ogn’altra creatura superbo ed altero; io, che gareggiar volevo col mio Creatore, e farmi simile all’Altissimo; io, io per l’acquisto d’un’anima pur volentieri m’abbasso, m’umilio, e mi soggetto all’uomo, con servirlo, con ubbidirlo. lo, che fui annoverato tra le angeliche squadre, benché tumido, e gonfio per alterigia, ad ogni modo desideroso di acquistar un’anima servii per lo spazio di sei anni ne’ più vili ministeri che immaginar si possano, un vilissimo Fantaccino, fino a farmi sgabello de’ suoi piedi con le spalle del corpo, che avevo assunto; ogni qual volta voleva montare a cavallo, e speravo ben impiegate le mie umiliazioni, la mia servitù; perché so quanto sia preziosa un’anima; ed altrove costretto il demonio a forza d’esorcismi ebbe a dire per bocca d’un energumeno, che per un’anima tutti i diavoli, se fosse possibile, che a guisa d’uomini potessero patire nel corpo, volentieri si lascerebbero precipitare dal Cielo in terra per una scala ripiena tutta di rasoi, di coltelli e di ferri pungentissimi. Non ci partiamo ancora dall’inferno per bene intendere la preziosità d’un’anima, chiede un dì il demonio licenza a Dio d’esercitare la pazienza di Giob con tutto il suo diabolico talento condiscende Iddio, con questo però che non tocchi anima: Verumtamen animam illius serva. Sfoga dunque il demonio le maggiori rabbie d’inferno, ma in vano; perché Giob quanto più combattuto, tanto più si rende forte, onde è, che tornato lo spirito infernale da Dio, sente dirsi: or che ti pare della pazienza del mio servo Giob? Ah che egli prontamente: e chi non sa, che l’uomo per salvar l’anima porrà ricchezze, figli, sanità, e vita? Cuncta, quæ babet homo dabit pro anima sua. Ah peccatori, grida qui contro di voi Origene, udite. Lo stesso demonio dice ed asserisce esser l’anima sì preziosa, che deve preferirsi a figli, a moglie, a’ mariti, reputazione, a roba, a tutti i beni del mondo: satan ipse omnia pro anima daturum hominem dicit; e voi con strapazzo più che diabolico la posponete a quel ballo, ove con piè leggero gravemente calpestate la modestia; a quella amica che con la morte dell’anima v’appresta il corpo; a quell’interesse, che vi renderà povera la vita, e mendico lo spirito; a quella nemicizia, che partorirà a voi un colpo che fermi il corpo in mezzo ad una strada e butti l’anima nell’inferno. Lasciate, deh lasciate, che io, o miseri peccatori, esclami con Salviano, e me la prenda contro di voi, che sì poco fate conto dell’anima; lasciate pure che io gridi fino alle stelle, che ne ho ben ragione, quis furor viles a vobis animas vestras haberi, quas et diabolus putat esse pretiosas? Che furore è mai questo, o Cristiani, che pazzia è mai la vostra, stimar si poco quell’anima creata da Dio, redenta da Dio  mentre tanto la stimano i diavoli e la prezza l’inferno. Ma passiamo agli altri periti, che sono gli Angeli. Spiriti Angelici Santi, voi che state custodi al nostro fianco, diteci, che cosa è un’anima? Udite la risposta: io, dice uno di loro, benché Principe del Soglio Celeste, benché di natura superiore all’umana, benché sempre beato; con tutto ciò non sdegno di servire all’uomo per vile ed abietto che sia: l’ammonisco con esortazioni e lumi interiori; lo consiglio, l’aiuto, mai l’abbandono, io, io son quello, che mi umiliai in forma di chirurgo per sanare le piaghe di Cristina; che mi feci cameriere scopando la stanza d’Aurelio; m’abbassai fino al vil mestiere di bifolco, e di marinaro, guardando gli armenti d’Isidoro, e guidando la barca di Basilide. Or io replico adesso  … ditemi, per qual motivo una sì nobile creatura, un purissimo spirito, un Principe del Soglio Celeste soggettarsi a tante bassezze? Ah, che non per altro al certo, se non perché l’anima è preziosa sopra quanto può trovarsi di prezioso. Tutto è vero; ma ad ogni modo non vogliono i peccatori stimar l’anima, benché gli Angeli la stimano, la vogliono morta tra quelle lascivie, tra quelle mormorazioni, tra quelli odi, tra quei maledetti interessi. E che posso dunque fare io? Io non posso far altro se non che gli confermi il valore lo stesso Dio. Egli dunque, che è eterna Verità, che è infinita Sapienza, che conosce il giusto peso di tutto il creato vi dia la notizia accertata della preziosità d’un’anima. Cristiani date orecchio alle parole, attenzione al discorso: è un Dio che parla, audiat terra verba onis mei. Per l’Anima, dice Iddio nostro Redentore, scesi dal seno dell’Eterno Padre; per l’anima nacqui in una stalla, tra due animali; per l’anima vissi in miserie, tollerai patimenti, soffersi ingiurie, mi sottoposi a fieri strapazzi per l’anima in somma diedi il corpo ai flagelli, il capo alle spine, le mani ed i piedi a’ chiodi, per esser confitto in una croce ove per l’anima ignominiosamente fra due ladri come capo d’assassini spirai la vita in braccio a dolorosissima morte. Gridi pur Bernardo dal suo eremo di Chiaravalle magna res est anima, qua Christi Sanguine redempta est; gran cosa è l’anima, mentre per ricomperar la vi è voluto il Sangue di Cristo. Io non ho che dir di vantaggio, o peccatori; e se non arrivate à conoscere il prezzo dell’anima vostra e la sua preziosità, mentre vedete esser costata il sangue e la vita d’un Dio, che posso io fare? O cosa invero deplorabile! Vede apertamente il peccatore che l’anima sua, costata a Dio tanto sangue, va in rovina, ed ad ogni modo non vi pensa; vede che già sta con un piede nell’inferno, e non riflette: sa di certo, che egli è in disgrazia di Dio, e che ad ogni momento lo può coglier la morte e mandarlo in eterna dannazione ed egli, come se non fosse fatto suo, come se non gli importasse niente, ne vive totalmente spensierato; e quel che è peggio, ride, scherza, burla. Deh aprite gli occhi al ricordo di Santa Teresa, lasciato a’ suoi figli e figlie: Memento unicam esse animam, unicam esse gloriam, pensate e seriamente pensate, che avete un’anima sola, e che se la perdete, è perduta per sempre. Peccatore, peccatrice, rispondi alle interrogazioni di San Giov. Crisostomo, il quale sopra quelle parole: Quam dabit homo commutationem pro anima sua? Così dice: si non aliam habes animam, quam possis pro anima tua dare? Dimmi, o tu, che sì poco prezzi l’anima tua: quante Anime hai? Perduta che ne abbi una, te ne rimane forse un’altra, con cui tu possa riparare la perdita della prima? Certo che se hai fede, confesserai di non aver che un’anima. Un’anima sola dunque ti trovi, e ne vivi sì trascurato? E la vedi andare in rovina, in perdizione, e non ci rimedi? Io per me so che di quelle cose delle quali l’uomo non ha più che una, ne tiene cura straordinaria. Fate che quel padre di famiglia non abbia più d’un figlio, voi vedrete che se ne prende un grandissimo pensiero. Oh come l’accarezza! Quanto amore gli porta! E se per disgrazia gli si ammala, voi vedrete che il buon padre non trova quiete, gli porge a tempo prefisso i medicamenti; e se mai morisse quel figlio, o che pianti! O che sospiri! Non vi sarebbe voce o di amico o di congiunto presente, non vi sarebbe penna d’assente che lo potesse consolare. Perdonatemi Angeli Santi, che assistete al Trono di Dio; se scendo a paragoni assai più vili. Lo fo per più confondere il peccatore. Fate che quella dama abbia per suoi onesti sollievi un cagnolino, che compagno fedele la segua ovunque ella si porti; s’ammali questa bestiola; non si perdona a spesa; si fa talora vegliare chi v’assista per vedere i combattimenti del male; s’adoperano medicamenti, e sol si desiste dal chiamar medico per sicurezza o di negativa, o di riprensione. Se poi a forte morisse l’amato cagnolino, sono sì copiose le lagrime dell’addolorata padrona, che non cessano per giorni, e forse per mesi. Or, se tanta cura si ha d’un figlio … che d’un figlio? D’un animale, d’una bestia, che la lor perdita tanto ci affligge, perché una sola ne abbiamo; è possibile, che dell’anima, che non solo non ne abbiamo più d’una, ma neanche ne possiamo aver più, così poco ce ne prendiamo cura e così poco ci duole il perderla? Voglio finire a pro dell’anima con quella gran sentenza la quale ben ruminata ha partorito a tanti il Paradiso. ́ Ah Dio, che se perdete l’anima, avete perduto il tutto; e se salvate l’anima, avete posto in sicuro il tutto: Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? Quid prodest? Rispondete o cavalieri; che vi gioverà aver atterrato l’inimico, accresciute le facoltà con mercedi ritenute, con estorsioni praticate; in una parola, con roba altrui? che vi gioverà l’applauso riportato in quella giostra, in quella barriera, in quell’azione cavalleresca, se avete danneggiata l’anima vostra, sicché resti eternamente dannata? Quid prodest? che gioverà? Tutto vanità, tutto nulla. Quid prodest? Parlate o dame: che vi gioveranno quelle giornate felici delle vostre nozze concluse, l’allegrezza del banchetto nuziale, che vi gioverà la pompa del corteggio, l’esser voi stato l’oggetto di tutti gli occhi, quando tutta vaga nelle ricche e capricciose vesti eri ne’ corsi da tutti ammirata, e con profondi inchini riverita? Che vi gioverà tutto questo, se l’anima vostra si perderà per tutta l’eternità? Quid prodest? Che vi gioverà? Nulla! Tutto è dato vanità, vanitas. O ecclesiastici, o regolari, o secolari che siate, dite: Quid prodest? che vi gioverà l’esser stati esaltati a gradi sublimi; l’aver ricevuto le maggiori acclamazioni? Quid prodest? Se per questi motivi voi avrete resa l’anima vostra degna d’inferno; Quid prodest e a che gioverà? Nulla! Tutto è vanità, che dura finché arrivi al sepolcro, vanitas, etc.. A che giovano o letterati le vostre cattedre, i vostri plausi, le vostre glorie? A che, o mercanti, le vostre fortune negli interessi, la prosperità ne’ vostri negozi, l’abbondanza d’ogni danaro? Quid prodest che, o giovani, l’esservi sempre ricreati ne’ piaceri, a che le conversazioni, i giuochi, a che le veglie, i canti, i balli, gli amori? A che quelle commedie rappresentate agli occhi del corpo; mentre i peccati, facevano tragedia nell’anima? A che? Quid prodest? Che gioverà tutto questo, o giovani, o mercanti, o letterati, se in fine fra pochi giorni stesi sul cataletto col corpo, avrete l’anima nell’inferno? Quid prodest? o Peccatori dopo, che vi farete ben bene satollati nelle vostre laidezze prendendovi le vostre felicità bestiali dopo che avrete saziata la vostra avarizia, la vostra vendetta, le vostre crapule, che vi gioveranno tutti questi falsi beni? Se in fine perderete totalmente l’anima vostra, che vi gioverà? Nulla! morto voi, tutto morendo con voi mostrerà, che tutto fu vanità, vanitas vanitatum. Donne, che peccaste senza punto pensare all’anima, dopo che avrete appagate le vostre voglie, e vi sarete soddisfatte negli amori; dite a voi stesse: Quid prodest? Che mi giovano tutte le mie allegrezze, contenti e vanità, mentre io mi danno? Nulla! Tutto sarà stato vanità; perché l’anima sarà perduta, vanitas. Quid prodest? In somma, che vi gioverebbe aver avuto i tesori di Salomone, le fortune d’Alessandro, l’imperio d’Augusto, le delizie di Sardanapalo, la dottrina d’Aristotele? che vi gioverebbe, o donne l’aver avuti gli amanti di una Taide, ed i piaceri d’una Venere, se poi, perduta l’anima, precipitate nelle fiamme ad ardere per tutta l’eternità … a nulla; tutto finisce; e l’anima sarebbe dannata: vanitas, et cogita itaque, mi rivolto a voi, de Anima, noli de alienis curare te, ac tua negligere. Deh rivoltate, o Cristiani, il vostro pensiero all’anima: pensate di proposito a questo; e già che ella è di tal prezzo, che per redimerla vi è voluto il Sangue di Cristo; non vogliate voi venderla per nulla, ucciderla con i peccati. Non vogliate esser più trascurati nelle cose che appartengono alla vostra salute di quello siate in quelle cose che poco, o nulla importano. Noli, noli de alienis curare et te, ac tua negligere; non vi scordate di voi stessi, dell’anima vostra, della vostra salute; per non aver a piangere tal dimenticanza finché Dio sarà Dio, ed imparare a tener conto dell’anima …


LIMOSINA
Uno de’ maggiori contrassegni di prezzar l’anima è la limosina ai poveri, e se la farete partorirà a voi, ed ai vostri discendenti la salute eterna. Udite; mi ricordo aver letto come Eutichio Senatore Romano, uomo nobilissimo e ricchissimo, allorché si ritrovava al governo della provincia di Borgogna, venne colà tanta penuria di viveri, che i poveri ne morivano di fame. Eurichio, che veramente aveva viscere di pietà, mantenne con le sue entrate in quella dolorosa carestia, più di quattro mila poveri. Terminata la penuria rimandò Eurichio tutti i poveri alle proprie case, ringraziando il Signore, che l’avesse inspirato ad una tal opera, e n’ebbe per risposta, da una voce del Cielo che gli disse: Eurichio perché tu nel tempo della fame m’hai sostentato ne’ miei poveri, ti fò sapere, che alla tua discendenza non mancherà mai la mia grazia. Tanto io dico a voi, a nome di questo Cristo. Slargate dunque la mano.

SECONDA PARTE.

I popoli dell’America tenevano da principio l’oro in più vile stima del ferro; ma osservando a poco a poco che gli Europei navigavano con tante pene e pericoli per averlo, che vi lavoravano attorno con tanto studio e che lo difendevano anche con la vita, cominciarono anche essi a farne più conto, ed a servirsene come di mezzo per supplire con quello a’ propri bisogni. Per l’addietro, miei Uditori, siamo vissuti in somma ignoranza, senza conoscere l’anima, ma ora che abbiamo avuta qualche luce della di lei preziosità, bisogna farne la dovuta stima. Ei è pur vero che con tutte queste cognizioni della preziosità dell’anima, ad ogni modo si conculcherà. E qual è la ragione? Perché più si stima il corpo, ed a questo si pospone l’anima. Pianse questa disgrazia, quasi dissi comune, d’anteporsi indegnamente il corpo all’anima quel santo Vescovo Nonno, quando incontratosi a caso nella pubblica peccatrice Pelagia, poiché vedutala tutta intenta alla cultura del corpo, e del tutto scordata dell’anima, considerolla con occhio santo da capo a piedi; e tutto pieno di confusione esclamò: Mira o Nonno, mira costei, come attende di proposito a farsi bello quel palmo di viso, che ella ha; quanto vi studia d’intorno, quanto tempo vi spende; sai a che fine indirizza tanto lavoro? A fine di piacere agli uomini, a’ suoi innamorati da’ quali all’ultimo non ne ritrarrà che assenzio amarissimo di disgusti: quantas horas facit in cubiculo suo hac mulier, ne turpis videatur esse amatoribus suis, qui hodie sunt et crastine non sunt; indi tratto dal più cupo del cuore un profondo sospiro, seguì a dire: tanto dunque fa Pelagia per piacere agli amanti, tanto coltiva il suo corpo; ed io per piacere al mio Dio Sposo dell’anima mia, che fo? Sì, che fo per l’anima mia? ed in così dire, rinnovando le lagrime, e i gemiti, rivolto a’ Vescovi astanti, e compagni: Posuit faciem suam super genua sua sie omnem sinum suum replevit lacrymis et suspirans graviter dixit ad Episcopos: costei, fratelli miei, ci griderà nel dì del Giudizio, e ci metterà contro Dio, mentre noi non avremo fatta la minima parte per l’anima di quel che ella fece per il corpo, intorno a cui consumò doti e dissipò patrimoni. Quanto disse il santo Vescovo, tanto io dico a voi: che sarà di voi nel dì del Giudizio, che tutto faceste per il corpo, e quasi nulla per l’anima? Esclamate pure, o gran maestro di Carlo Magno, e dite:  En quod corrumpitur tanta diligentia amatur quod permanet tanta socordia negligitur. Terrenum colitur, et colesie non curatur Dei imago vilescit, terræ species bonoratur.  Eppure è vero, Dio immortale! Dove è il giudizio, o Cristiani? dove è la Fede, o Cattolici? Che cosa è anima? Che cosa è corpo? L’anima è eterna, il Corpo
fra quattro dì fracido nel sepolcro per ingrassar rospi e vermi. Tutto si fa per il corpo, nulla per l’anima; e questo è quello che con lagrime di dolore amaramente deplorava San Giovanni Crisostomo: Si corpus patitur, medicos vocamus, et herbas inquirimus; Sì, sì, per purgare il corpo non si guarda a fatica, a stento, a spesa di più se dirà talora il medico all’infermo: signore, per non morire convien pigliare una buona dose d’amarissime pillole, che si prendano. Dice il confessore: per esser più certo di vostra salute convien domare la vostra carne ribelle con qualche colpo di disciplina … O questo no! C’è la pietra nella vescica (così parla il cerusico) ci vuole il taglio; son prontissimo; io stesso affilerò i rasori; replica il confessore, bisogna dare un taglio, e slontanar da sé colei … Padre non è possibile, e si dice in fatti: più tosto l’anima, che l’amica; ma Signore, replica il medico, per guarire questa cancrena vi vuol fuoco: bruciate pure; esorta il Confessore per placare Iddio bisogna fare qualche limosina; Padre non ne parlate, ho troppe spese: e pure talora la fai a quella poverella per darla al disonore, e toglierla a Dio. Per il corpo in somma si trangugia ogni più amaro boccone, si tollera ferro, e fuoco; tutto si fa per il corpo, nulla per l’anima, Animam vero vitiis laborantem negligimus, grida il Boccadoro; dove si tratta d’anima lacerata da’ vizi, neppure un poco d’impiastro per risanarla. Mutate vita; fate più conto dell’anima, se non volete perdere anima e corpo. Come appunto intervenne a quel cavaliere, il quale viveva nella corte di Corrado Re de’ Merci. Questi quanto amava il corpo, altrettanto strapazzava l’anima; il re, che era piissimo, e molto l’amava, l’ammoniva di quando in quando, e l’esortava a pensare all’anima, acciò sopravvenendogli d’improvviso la morte non fosse colto in disgrazia di Dio. Il cavaliere con sorrisi di riverenza ringraziava il re e l’assicurava, che l’avrebbe fatto a suo tempo. Avvenne intanto che sopraffatto da una malattia gli convenne darsi al letto; il re allora spinto più dalla pietà che dalla cortesia si portò a visitarlo ed instantemente pregollo che avanti si aumentasse l’infermità si confessasse. Udite diabolica risposta: sacra maestà non è questo tempo da confessarsi, mostrerei a’ miei soldati d’aver avuto paura della morte, come se fosse prodezza da capitano non temere né morte, né inferno. Non dubiti però vostra maestà, perché guarito che io sia voglio confessarmi. Invece di guarire gli crebbe il male; fu disperato della salute. Tornò il re a più fervorose esortazioni, perché si confessasse; non dava retta l’infermo; finché, quasi annoiato delle sante parole del suo re, tutto pieno di sdegno, verso di lui rivolto gli disse: sire non vi stancate perché voi non mi potete portar salute né al corpo né all’anima; non è vero replicò il re, l’anima si può salvare, se si perde il corpo. No, no, ripigliò il moribondo, per me non v’è più tempo … v’è tempo … non v’è; e se volete sapere il perché, ecco che ve lo dico. Poco prima che voi entraste in questa camera vennero qui da me due giovani d’aspetto vaghissimo ed uno di essi cavatosi dal seno un nobile libretto, me lo diede a leggere, ed in esso vidi espresso quel poco o nulla di bene da me fatto; indi ritiratosi da parte diede luogo ad un esercito di demoni, che riempirono questa camera ed uno di essi m’aprì il libro delle tante mie scelleratezze e rivolto a quei due bellissimi giovani, che erano due Angeli, disse loro: che fate qui? Costui non è vostro, ma nostro; così è, così è, replicarono gli Angeli, ve lo cediamo, prendetelo pure, e conducetelo al baratro dell’inferno. Allora gli spiriti nemici mi vennero alla vita, e due di loro, che tenevano uno spiedo per uno in mano, me li ficcarono nella vita uno per la testa, e per i piedi l’altro, ed ora mentre parlo lentamente mi vanno trafiggendo con spasimo terribile delle mie viscere, ed allorché questi ferri si uniranno insieme, io morirò dannato; ah che già mi trapassano il cuore, ah già mi pigliano, ah che già mi seppelliscono nel fuoco. Così dicendo sospirò, anima infelice, portata, come dice il Venerabile Beda, da’ demoni nella eternità delle pene; questo è quel che fa chi non pensa all’anima.

QUARESIMALE (XXV)

QUARESIMALE (XXIII)

QUARESIMALE (XXIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMATERZA
Nella feria seconda della Domenica quarta


Si fa palese che quanto Dio  benefica chi rispetta le Chiese, altrettanto castiga chi le profana con irriverenza.


Ascendit Jesus Jerosolymam, et invenit in Templo ementes,
et vendentes.
San Gio: cap. 2.

Non fu detto arguto de’ savi, fu grave sentimento de Santi, essere i Sacri Templi
piccoli Cieli della Terra, Ecclesiam non secus, ac Cælum frequenta, disse Sant’Ilo. Locus est Angelorum, regia Domus Dei, ac Cælum ipsum definì il Crisostomo; e n’ebbero ragione. Presiede nelle Chiese, miei Uditori, quel medesimo Monarca che regna in Cielo; ivi beatifica i Comprensori che, svelato lo contemplano; qui
benefica i mortali, che in enigma l’adorano; né minor gelosia ha del Cielo che dei Templi; in quello perché reperit pravitatem, ordinò ad un Arcangelo, che con spada di fuoco, fulminasse chi lo contaminava con colpe; in questi, perché vi vede ementes, et vendentes, Dio medesimo flagella chi l’oltraggia con irriverenza, et cum fecisset quasi flagellum de funiculis omnes ejecit de Templo. Or datemi licenza che io, lasciata ogn’altra superfluità d’esordio in materia di tanta importanza, sì per incitamento della pietà de’ devoti, come per correggimento della sfacciataggine de’ dissoluti, vi faccia vedere Dio quanto liberale sia in beneficare chi nelle Chiese l’adora, tanto severo in fulminare chi le profana. – Folle e temerario fu il consiglio di quel regnante persiano, il quale avendo udito dagli astrologi non essere egli rimirato con volto benefico dalle stelle, fece subito architettare nella sua regia un Cielo con tal positura di pianeti, che non solo gli volgessero benigno l’aspetto, ma gli presagissero felicissimo l’impero. Quanto tardi, tanto male avvedutosi, la temerità non fabbricar grandezze, ma precipizi. Savia però e pia è la consuetudine de’ Cattolici nell’ergersi Cieli in terra, non ad onta, ma alla venerazione di Dio, per quivi fabbricarsi la propria fortuna, e quasi dissi, mutare Dio di severo in piacevole, di sdegnato in amante, di Giudice in Padre, bene intendendo essere la pietà poco meno che l’arbitra della Onnipotenza. E che ciò sia vero, che favori, che grazie, che benefici non impetrano i fedeli da Dio ne’ Templi? – Te chiamo in testimonio o Roma, che presso al seicento, prima soffocata dalla inondazione del tuo Tevere, poi quasi estinta dalla infezione di contagiosa pestilenza, allora risorgesti a nuova vita, quando t’incurvasti nella Basilica Liberiana cessando in quel medesimo tempo la strage dell’Angelo percussore, in cui principiarono le preghiere del tuo popolo supplichevole. Te pure voglio in conferma del mio dire, o Verona, quando, come narra San Gregorio, il tuo Adige gonfio per le piogge, e per l’influsso di numerosi torrenti che in sé riceve, superando ogni sponda, rompendo ogn’argine uscì e si stese facendo d’ogni via un ben grosso fiume, della piazza un lago, della città tutta, e delle campagne un piccol mare, e degli uomini averia fatto un comune naufragio, se il popolo ritiratosi dalle case non si raccoglieva nel Tempio ad orare come in arca di salute contro quel domestico diluvio, ed infatti nel fuggire i pericoli del diluvio trovarono i privilegi del Mare Eritreo. Cresciute per ogni lato a dismisura le acque, s’alzavano alle porte, alle finestre, aperta all’ingresso ogni via; ma il non trascorrere, il non entrare, il far di sé argini e sponda fu forza d’un miracolo, che le congelò, le impietrì, e le fermò in soliditatem parietis. Cinto dunque il popolo da tanti miracoli, quante erano le acque, ebbe necessità d’un altro miracolo, perché le acque fatte già un muro non si facessero un sepolcro a quanti starebbero quivi imprigionati, penuriando e morendo di fame e sete. Eccole pertanto alla sodezza sasso, alla fluidezza fonti, scorrere per le strade, e disfarsi, liberando quel Popolo contrito. Voi vi stupite, miei UU., in udire prodigi sì belli della Onnipotenza Divina: Roma liberata da fierissima peste; Verona sottratta dalle inondazioni funeste del suo Adige; non vi stupirete però, se rifletterete tutto essere effetto di somma riverenza alle Chiese. Che meraviglia, che le Chiese partorissero sì gran bene, quando tanto erano riverite non pure dall’infima plebe, ma da’ monarchi. Leggete le Storie antiche, e troverete che Teodosio il Giovane, Imperatore di sì gran nome e stima, a cui servivano riverenti più nazioni, al di cui comando obbedivano numerose province, ed al balenar della di cui spada anche i regi s’intimorivano. Or questi, prima di por piede nella soglia adorata della Chiesa, non solo licenziava da sé quante l’attorniavano milizie, e quanti lo corteggiavano cavalieri; ma scintasi la spada, si spogliava del regio ammanto, deponeva l’imperial diadema, e tutto lasciando nei liminari della Chiesa quivi stava in atto d’ogni ordinario cavaliere con gli occhi fissi al sacro altare, ed in portamento sommamente modesto. Che meraviglia, torno a dire, che le Chiese partorissero sì gran prodigi, mentre in quei tempi era somma la riverenza de’ fedeli alle Chiese. Celebrava il Santo Vescovo Ambrogio nella Basilica maggiore della città di Milano ogni giorno i Divini Offizi con gran frequenza di gente. Si stimò offesa l’Imperatrice eretica da esercizio sì devoto, e sì pubblico. Scelte pertanto delle sue guardie due compagnie d’uomini d’arme, spietati di natura, idolatri di setta, ed inviolli alla Chiesa con ordine che trucidassero quanti sacrificavano col Prelato o assistevano al Sacrifizio. Giunta la Soldatesca alla porta della Chiesa, con urti violenti la sforzò; indi entrati i barbari fino ai liminari del Santuario, già calavano le lance per investire chi cantava; ma che? in vedere il silenzio del popolo, in udire la melodia de’ cherici, in considerare quel bell’ordine de’ ministri, in riflettere alla maestà d’Ambrogio, che celebrava, in rimirare finalmente i raggi di predestinazione che rilucevano in fronte de’ supplicanti, talmente si commossero che deposte le armature, e gettate le aste, disarmati e piangente, chiedessero ad alta voce il Battesimo; e tale e tanto fu il lume ed il fervore che concepirono per la modestia di quel popolo, e per la maestà di quel clero, che dopo breve istruzione ne’ Misteri di nostra Fede, vollero lavarsi nel sacro fonte e rinascere a Cristo. Quanto in tal congiuntura fosse il giubilo di quel santo prelato e di quel popolo, chi può mai esprimerlo? Questo però venne non poco amareggiato, quando videro che i soldati appena ricevuto il carattere di Cristo con più furia di prima si rivestirono delle armature, si cinsero le spade al fianco, ed impugnarono con mano ardita l’alabarde, sicché in quel subito stima ognuno che quei barbari avessero chinate le teste al sacro fonte non per altro, che per beffare i riti della Chiesa Cattolica; quando ben presto tornarono alle prime e maggiori alle grezze, poiché quella nova squadra di Cristo, preso posto alle porte del Tempio, giurarono tutti di difender la Chiesa da chiunque tentasse d’oltraggiarla, protestandosi di non conoscere in ciò l’augusta regnante, e minacciando animosamente, che quando ella non rispettasse quella vera casa di Dio, l’avrebbero assediata nel proprio palazzo. Eccovi le parole del Santo Vescovo nell’Epistola 33 ad Sororem: Venerunt cum armis, et circumfusi occupaverunt Ecclesiam; qui enim venerunt facti sunt Christiani, defensores habeo quot hostes putabam, socios teneo quot adversarios existimabam. Voi esclamate: o che Prodigi son questi veder barbare milizie, che venute per far strage de’ Cattolici, depongono l’armi, si fanno Cristiane, e difensori della Santa Fede. Non vi stupite, perché son tutti effetti prodotti dalla riverenza alle Chiese. Tali e sì prodigiosi effetti non si potrebbero vedere oggidì, poiché se entrassero nelle nostre Chiese i gentili, qual riverenza scorgerebbero nella plebe? Qual modestia nella nobiltà? Qual ritiramento nel clero? Ditemi; ammirati dalla devozione, chiederebbero forse d’esser prontamente battezzati? Eh Dio! Lasciate che io lo dica, eh Dio! Sarebbe tale lo scandalo che riceverebbero per la profanità de’ discorsi, per l’irriverenza di chi volta le spalle al venerabile Sacramento a titolo di compiacere o al prurito della lingua o alla curiosità degl’occhi, che stomacati volterebbero. Sì, dico, volterebbero le spalle, perché vedrebbero le Chiese di Cristo posposte alle anticamere de’ principi, ove per riverenza del monarca, o non si parla o se si parla, appena si articolano le parole; e nelle Chiese si articolano le parole? non solo si articolano, ma si proferiscono talora le più insolenti, le più sconce, le più laide, quelle che talora per gran timore non avrebbe ivi ardire di pronunciare un diavolo d’inferno; né solo non si tace, ma vi si fa strepito tale, di riverenze, di saluti, d’inchini, che spesse volte son costretti a fermarsi nel Sacrifizio i Sacerdoti, ed ad interrompere da pergami le prediche fatte. Oratore. Se bene, che parli? mi rimprovera San Gio. Crisostomo; dovevi dire che le Chiese si pospongono non alle anticamere, ma ai teatri stessi di commedie, ove par che le scelleraggini abbiano porto di franchigia. Piacesse a Dio che si rispettassero i tempi, come si rispettano i saloni delle commedie. Basterebbe, per così dire, che in tal guisa si trattassero i Sacerdoti, quando alzano l’Ostia consacrata, come son trattati gl’istrioni quando rappresentano in palco o le frenesie di Didone, o le mascherate di Giove. Basterebbe che alle scene si eguagliassero gli Altari; può mai chiedersi cosa inferiore a questa? E non impallidite a paragoni simili? Udite ciò che dice Crisostomo: si nega a Cristo ne’ Templi, ciò che si concede a’ commedianti ne’ palchi; non v’è, dice il Santo, non v’e giovinastro sì scorretto, né femmina sì dissoluta, che al calar della tenda non si acquieti e non oda con somma attenzione ciò che espone la favola, eppure l’autore di essa è il demonio, ed il contenuto sono sciocchissimi sacrilegi. Ad ogni modo, se in tanta moltitudine alcuno si scomponesse con i gesti, o si strepitasse con le parole, l’udienza tutta lo sgriderebbe, ed a forza di bastoni lo caccerebbe fuori: Cum in Theatro Chori canunt Satanici, summa quies, et magnum silentium. Per l’opposto, nella Chiesa, ove si leggono gli Evangeli di Cristo, si cantano Salmi di David, si vedono talora circoli scandalosi, ove non manca chi con ciarle moleste offenda le orecchie di chi ora; Hæc ne grida il Grisostomo, sunt tollerabilia hæc ne ferenda? Son cose queste da tollerarsi, da sopportarsi? Non è lecito per ricreazione innocente d’un popolo in alzare un teatro in quel luogo, ove sta collocata la statua dell’Imperatore; e nella Chiesa, ove sta il Re del Cielo, non rappresentato, ma vero e vivo, alzano molti Cristiani dentro de’ loro cuori indegni, teatri di amor profano, sicché se si hanno da tendere insidie all’onestà, il sito più opportuno è la Chiesa di Dio! Peggio, sì, v’è di peggio ed è che da molti, e molti si trattano al pari de’ luoghi infami. Ah, che mi sento serrare il cuore in pensare a’ peccati che si commettono nelle Chiese davanti a Dio talora Sacramentato. – Voleva l’empio Caligola profanare il Tempio di Gerosolima con porvi la sua statua; Quando Filone a lui Ambasciatore, per dissuaderlo, dissegli: Monarca, al nostro impero sono suddite tante città, tante isole, tante Province, e tanti Regni. Deh, riflettete esser troppo non voler lasciar a Dio neppur il Tempio elettosi in terra per sua abitazione: … Non contentus Imperio tot Provinciarum, Insularum, Gentium Deo in terra nihil vis relinquere, ne Fanum quidem? Tanto io dico a quelli indegni che, dato un calcio al Paradiso, a Dio, cambiano le Chiese in lupanari, trafficando, comprando e vendendo l’altrui onestà; mancano piazze, mancano case, mancano abitazioni, mentre volete profanare le Chiese di Dio? Ah Paolo Apostolo, voi, che pieno ed acceso di santo zelo, rimproveraste coloro, solo perché mangiavano in Chiesa gridando: Numquid Domos non babetis ad manducandum, et bibendum. Rinfacciate, rimproverate la sacrilega sfacciataggine di non pochi Cristiani, e dite loro: Numquid Domos non habetis; Oh Dio! lo dovrò dire? già m’intendete; non mancano camere, non mancano sale, che profanate ancor la Casa di Dio. O Dio! Lupanar ergo vobis videtur Ecclesia, griderò anch’io inorridito col Boccadoro. Hai ben ragione o santo Profeta Geremia mentre tutto addolorato al riflesso di queste verità vai esclamando: Quid est quod dilectus meus in Domo mea fecit scelera multa? quasi dir volesse: pur troppo mi duole che i gentili ed i Turchi strapazzino le mie Chiese; che gli eretici e gl’Ebrei disprezzino i miei Templi; ma pure il sapere, che questi mi sono nemici, m’è d’alleggerimento al dolore; quello che mi trapassa il cuore, è che dilectus meus, che il popolo Cristiano a me diletto, da me ricomprato col mio Sangue abbia ardire in casa mia, nelle mie Chiese, alla mia presenza Sacramentale commettere scelleraggini! Questo è quello che non posso né capire, né sopportare, in Domo mea scelera multa; e quali sono queste iniquità? Quali lo stesso Cristo l’esprime in quelle parole: Vos autem fecistis illam speluncam latronum; avete resa la Chiesa una spelonca di ladri, che vale a dire voi fate nelle Chiese, ciò che gli assassini nelle pubbliche strade: questi, preso il passeggero, per potere senza timore spogliarlo di tutto, lo conducono alla vicina spelonca, e quivi commettono quella scelleraggine, che temono di commettere nella pubblica strada. Così fate voi, o scellerati, che cambiando le Chiese in scellerati ridotti, poiché ardite di farvi ciò che non ardireste nelle più frequenti contrade. Non vi stancate o Girolamo che non è più tempo di dire a chi patisce o incendi di sdegno, o fiamme d’avarizia, o lordure di senso: entra, entra in quella Basilica di Martire, od Apostolo, e subito a’ riverberi della santità che esce da’ marmi stessi de’ santuari, ricupererai e pace e luce, e temperanza. Do consilium ingredere Basilicas Martyrum, et aliquando purgaberis; non parlereste, no, così a’ tempi nostri, perché scorgereste regnare nelle nostre Chiese la sfacciataggine a tal segno, che molti entrano ne’ Templi meno rei di quel che n’escano. Riveriti ministri del Tempio, cessate vi prego di più solennizare con sacra pompa la memoria di chi regna in Cielo; non vestite né di preziosi addobbi le sacre mura, non cercate no musici che con voce angelica allettino la gente ad udirli, no no, mutate parere, spogliate i sacri altari, celebrate con ordinario apparecchio le vostre feste, perché pietas vestra contumeliam suscitabit, la vostra pietà sarà cagione di maggiori irriverenze. E voi sacri Sacerdoti, nelle solennità di vostre Chiese, non esponete a pubblica udienza l’adorato Signore nell’Ostia consacrata, perché pietas vestra, grida Ugon Cardinale, contumeliam suscitabit, perché sarete cagione di maggiori peccati, non verranno per adorar Cristo, ma per ucciderlo con più sacrilega cospirazione; non per placare l’ira di Dio, che già stringe fulmine per incenerirli, ma bensì con più insolente petulanza la provocheranno a vendicarsi. Voi salmeggerete ed essi cicaleranno, voi con affetti castissimi porgerete preghiere a Dio ed essi, con ragionamenti lascivi, con cuor impuro l’offenderanno. Sacri Pastori della Chiesa Cattolica piangete pure amaramente la profanazione de’ vostri Santuari, e se sarete interrogati da Dio, come già, Ezechiele, di quello che vedete praticarsi ne’ vostri Templi, dite pure ancor voi con singulti: video, video abominationes … vedo i Santuari divenuti postriboli, ove sono ementes, vendentes con ardire da ateo e con sfacciataggine da barbaro l’onestà, la continenza. Video abominationes magnas, vedo uomini, che immersi in pensieri laidi, somigliano non a Cristiani nel Tempio, ma ad animali nel bosco: Et ecce similitudo reptilium animalium. Passate avanti col Profeta e, col custode del tempio, pronunziate: video abominationes majores, vedo donne idolatrate con occhi impuri, ed incensate con sospiri d’incontinenze, idola domus depicta, ed a ragione, perché molte donne han la faccia dipinta a fresco; veggo stantes ante picturas, unusquisque habebat turibulum. Né qui fermatevi, ma esclamate col Profeta, e col custode del tempio: Video abominationes majores, vedo uomini, che stanno in Chiesa con ginocchia piegate, ma subito che entra colei, ecco che voltate le spalle all’altare si rivoltano ad adorar quel viso, dorsum habentes contra templum Domini, et adorabant ad ortum solis; mentisce forse il Profeta, miei UU.? Mentiscono i sacri Pastori con i custodi del tempio? Mentisco io con dire che si fanno le Chiese postriboli? No! Ditemi: perché venite alla Chiesa molti e molte di voi? Per sozzi amori, per esser rimirate e vagheggiate; negate ciò, se potete, voi giovani, che state sulla vita amorosa, e molto più voi donne, e dame, che con tanta boria venite ed ascoltate a questo proposito un bel racconto. – Un gran titolato, benché cavaliere di gran nascita, si portò con pompa anche superiore a’ suoi natali alla corte di Carlo Quinto, a solo titolo, come egli diceva, di vedere quel grande imperatore. Non è vero disse Cesare, allorché seppe l’addotto motivo. Questo cavaliere non è venuto per vedere né la corte, né me, ma è venuto per farsi vedere e dalla corte e da me; non son venuti alla Chiesa quei giovani tutti profumati e nell’abito e nella persona per riverire la Vergine Santissima, Iddio, ma per amoreggiare; non si sono portate al tempio quelle donne tutte vane nell’abito e tanto più leggere nella testa, quanto più la caricano d’ornamenti, che sollevati in alto mostrano nell’agitarsi ad ogni vento l’incostanza del cervello che le inventò; non sono venute, dico, per impetrare grazie da’ Santi, da Maria, da Cristo, ma per farsi vedere scollate, sbracciate, spettorate, e così tirarsi addosso l’ira de’ Santi, della Vergine, e di Dio; e non è questo trattar le Chiese da postriboli? mentre quivi si va senza riserba a caccia libera d’ogni sorte di disonestà. Platone nelle sue leggi proibì la pesca dentro i porti del mare, parendogli crudeltà, che dove gli uomini trovavano la sicurezza, i pesci incontrassero i pericoli; non così fanno gli empi profanatori de’ templi mentre neppur ne’ porti de’ Santuari, nelle Chiese vogliano sicura delle loro reti l’innocenza, l’onestà. E dove siete ministri de’ sacri altari, che non gli chiudete le porte in faccia e non gridate ancor voi con i custodi del Cielo foris canes? Almeno sottentrate voi all’offizio Angeli tutelari. Deh ruotate quella spada, al di cui folgoreggiare inorridì una volta Costantinopoli, e tra gli empi soldati di più empia imperatrice, ad alcuni inaridirono le braccia, a tutti il cuore. Ma se, non i custodi, né gli Angeli si risentono degli oltraggi di questi Cieli terreni delle Chiese sacrosante, se ne risente Iddio, e se da esse tramanda benefiche le influenze in quelli che le rispettano, sa altresì senz’ombra di pietà scaricar fulmini severissimi sopra le teste di quegli iniqui che le strapazzano fino a farle divenire postriboli. Ricordatevi, miei UU., che il Tempio di Salomone si stringeva in forma di leone per additare agli irriverenti nelle Chiese, che Dio contro di loro si sarebbe fatto implacabile e spietato leone, li avrebbe assaliti, uccisi e sbranati. Li altri delitti si scrivono nella polvere, perché facilmente restano scancellati dall’aria d’un fiato penitente; ma i commessi nella Chiesa si scrivono, come dice il Profeta, ne’ corni dell’altare con l’ugna di Diamante, come quasi impossibili a scancellare: Domus mea, Domus orationis, questa è casa di santità, non di lascivie; Domum tuam decet sanctitudo, così parla il Salmista, non occorre altro, è delitto di lesa Maestà offender Dio in sua Casa. La testa di chi sguaina la spada, nonché alla presenza del Principe, ma nel suo palazzo, ne paga il delitto; e non volete che Dio si palesi terribile contro chi uccide nelle Chiese alla sua presenza e l’anima propria, e quella de’ prossimi? Volete voi vedere quanto grave delitto sia portar poco rispetto alle Chiese? Negate, se potete, che ogni qual volta un principe voglia eseguir la giustizia di sua mano, non vi venga tirato per un eccesso de’ più enormi; scorrete dunque le sacre carte, e non troverete che Iddio abbia mai castigato i delinquenti di sua mano. Peccarono i nostri primi Padri tra le delizie del Paradiso Terrestre, Iddio, che li volle puniti, vi spedì un’Angelo che gl’intimasse l’esilio. Peccò Erode superbo affettator d’onori anche divini, e fu da Dio percosso, ma per mano d’un Angelo. Mai, mai Iddio ha steso la sua mano divina al castigo de’ peccatori salvo che nel profanamento delle sue Chiese; chi può dunque negare, che non sia un grand’eccesso portar poco rispetto alle Chiese; e qual castigo non si può aspettare chi le profana con pensieri, con parole, con discorsi, e talora con opere indegne? Aspettatevi pure i più fieri castighi, che possano uscire dalla mano sua onnipotente. E che credete voi, che Iddio o non possa, o non voglia, o non li usi? V’ingannate.  Dicalo Arnolfo imperatore, che per esser stato irriverente nel Tempio si vide il corpo ridotto in cadavere, tenuto però lungamente vivo in corte, perché i Cortigiani imparassero a meglio vivere nelle Chiese. Dicalo quell’infelice nel Settentrione, che nel Secolo passato fu scannato sopra quella medesima pietra sacrata da lui vilipesa. Dicalo quel giovane a cui, pochi anni orsono, dolendosi avanti l’Immagine della Vergine per la morte d’alcuni suoi Compagni, seguita nell’età più florida, sentissi rispondere dalla Madre di Dio che erano morti in pena del poco rispetto portato alla Chiesa, e però da sua parte ne avviasse il predicatore, che ne intimasse al popolo. Voi ve la ridete in sentir quelle mie minacce, perché le stimate spari d’artiglieria sì, ma senza palla; tuoni sì, ma senza fulmini; non sarà così, non sarà; interverrà a voi come alla infelice città di Gerico, che cambiò le risa in amarissimo pianto. Aveva Giosuè dato ordine che per sette mattine si portasse l’Arca in giro delle mura, che precedessero le truppe armate, e che appresso seguisse il popolo, ed i Sacerdoti intanto facessero risuonare suono di trombe; fu eseguito l’ordine del generale, con gran terrore della città assediata, la quale nel veder quell’ordinanza, ed udir quelle trombe guerriere, già si aspettavano la rovina della patria; ma quando poi s’accorsero, che a tanto strepito non seguì niuno effetto, si sollevarono da timori concepiti, i quali del tutto svanirono. La seconda mattina, mentre videro che con eguale ordinanza, accompagnamento e suono si circondarono nuovamente le mura. Non così seguì la terza mattina, perché nel vedersi girar le milizie attorno alle mura, non solo non ne ebbero spavento, ma cambiarono tutto il terrore in deriso, vedendo che tutto il loro assalto terminava in apparenza di milizie, ed in vano strepito di trombe. Lascio ora a voi, miei UU., il considerare quali dovettero essere i beffeggiamenti e le risa del popolo di Gerico verso le milizie di Giosuè, nel vederle girar la quarta, quinta e sesta mattina, certamente dovevan dirgli e con le voci e col cuore: suonate pure allegramente, che noi al suono delle vostre trombe faremo le nostre danze, i nostri balli. E che vi credete di poterci sbalordir con lo strepito, già che non potete col valore? E se tanto probabilmente dissero in questi giorni, che dovettero dire allorché le rimirarono la settima mattina? Dovettero a dismisura crescer le beffe ed i risi. Ma che! Ecco che in quella mattina succede l’universale ruina delle muraglie. Septimo circuitu clangentibus tubis muri illico corruerunt, … cadono le cortine, rovinano i torrioni, entrano gl’Israeliti e senza riguardo né a sesso, né a condizione, né ad età svenano quanti trovano ed allagano la città di sangue, seminando ogni via, ogni piazza di cadaveri. Or che voglio io dire? Ecco cari miei UU., Iddio minaccia, Iddio grida per mezzo de’ suoi ministri, suonano le trombe evangeliche: si rispettino le Chiese, modestia nella Casa di Dio. E voi che fate la prima volta? Concepite qualche terrore, come i popoli di Gerico, e per ciò entrate con più modestia nella Chiesa. Ma nel sentir poi strepitar la seconda volta: rispetto alle Chiese! Cambiate il timore in meraviglia, e cominciaste a dire dentro di voi: che pretendono con questi schiamazzi che ogn’anno replicano su’ pulpiti? E la terza volta? La terza volta ve la rideste apertamente con i compagni nelle esse Chiese, dicendo: io non vedo quel colpo, questa spada; non vedo castighi, benché amoreggi nelle Chiese: bene, verrà la rovina a voi come venne a Gerico; non è giunto ancora il tempo, come venne a quel misero giovane, di cui ne fu stampato il funesto accidente accaduto in una città del Piceno. Se ne stava questo giovine alla predica del rispetto alle Chiese; ma egli avvezzo a strapazzare Dio in Casa sua più che mai in quella mattina lo vilipendeva; poi nell’atto della predica stessa stava con uno stile facendo un foro a quelle tavole che servono di divisorio tra gli uomini e le donne per mirare lascivamente certa femmina. Se ne accorse il predicatore e dall’alto sgridò con parole ben capite da lui, benché non intese dal resto dell’udienza; minacciò il predicatore che quel ferro che adoperava a servizio sì indegno gli avrebbe data la morte. Cieco costui d’amore, chiuse il cuore a quelle voci, che ben presto si verificarono, poiché non passarono giorni che venuto a rissa con un rivale a causa di quella stessa femmina, non avendo quegli armi, tolse al nemico quello stilo, glielo piantò in petto, gli schiantò l’anima dal seno. Gran caso è questo; ma non minore è il seguente. Udite, irriverenti alle Chiese, profanatori de Templi. Una Chiesa in Roma, non ha molto, che fu per più giorni scena aperta alle impudicizie di sguardi, di cenni, e d’imbasciate d’un giovane scapestrato, e d’una sfacciata donna. S’inoltrarono tanto i reciproci affetti, che dagli sguardi si giunse alle parole, e riuscì da stabilire un lungo congresso da farsi nella medesima Chiesa, in cui si sarebbe determinato il modo e l’ora per giungere all’adempimento della loro disonestà. Si portò dunque alla Chiesa l’indegna femmina nel giorno ed ora accordata, e dopo aver con cuor immondo, e con sozza mente recitate poche Ave, si pose ad aspettare l’amico; passò l’ora prescritta ed il giovane non si vedeva; penava la donna, ma pur sperava, che dovesse venire quando vedendo farsi l’ora tarda, ecco che si alzò per partirne; ma fu fermata da una turba di popolo, e dal canto flebile del clero, che portava in quella Chiesa a seppellirvi un morto; interrogò, curiosa la donna, chi fosse defunto, e sentissi dire, il tale di tale, cioè il nome e cognome di quello appunto che ella ivi aspettava per concluder con esso il giorno e l’ora della vendita dell’onore e dell’anima. Considerate qual fu l’orrore; ma non potendosi persuadere, replicava … ma chi? Ora il vedrete, gli fu risposto, ed ecco che scopre telo, fu ‘l cataletto lurido, lercio, squallido, per esser tra poco cacciato in una fossa, quello con cui in quella Chiesa si doveva stabilir l’ora del peccato. – Queste sono le risposte de’ peccati che si commettono in Chiesa, la morte! Non ci volete credere? Seguitate pure con cenni disonesti, con occhiate lascive, con discorsi laidi, con opere nefande a contaminar le Chiese, ma poi aspettatevi la morte temporale in castigo, per preludio della eterna.

LIMOSINA

Un povero padre, carico di dodici figli, non avendo più che un piccolo podere da lasciargli, fece una scrittura autentica, nella quale cedeva a Dio tutto quel podere in benefizio de’ poveri, e postala nella punta d’una saetta, la scoccò in aria per mandarla al Cielo, né mai più la vide. Morto poco dopo e salito al Cielo, vide dal Paradiso tutti quei suoi figli con la lor discendenza straordinariamente beneficati. Intendetela con Agostino  che chi dà a Dio, non può di meno di non arricchire, poiché Egli è quello di cui dice il Santo, et aliud dabo, plus dabo, et melius dabo, e quel che più importa, in æternum dabo.


SECONDA PARTE.

Gran castighi son questi, ma in essi non vi apparisce, salvo che la perdita della vita. Eh che a chi è irriverente nelle Chiese son preparati castighi eterni; ecco le voci d’Isaia, che mi risuonano alle orecchie, abili ad atterrire ogni protervo: iniqua gessit in terra Sanctorum, non videbit gloriam Dei; Non siete castigati di qua, lo sarete di là nell’inferno: profanatori de’ templi, irriverenti nelle Chiese, non vi è Paradiso per voi; non vi punisce Iddio di quà, perché per voi la pena temporale è poca. Iddio, perché non può darvi pena proporzionata in questo mondo, ve la riserva nell’altro … gessit iniqua in terra Sanctorum non videbit gloriam Dei. Cristiani miei, se per farvi mutar vita, ed essere riverenti nelle Chiese non basta il dirvi per bocca di Dio, che non v’è Paradiso per voi, non so più che dirmi, e pure ci son di quelli che hanno orecchie sì sorde, onde seguiranno a parlare, a contar novelle, e ridere, amoreggiare, a discorrere con tal temerità, come se fossero non nella Reggia d’un Dio sensitivissimo di un sì fatto disprezzo, ma ne’ giardini d’Eliogabalo, che rimunerava l’irriverenza. Se così è, mio Dio, non più pazienza, fulmini, fulmini per incenerire questi empi, e per sotterrarli nelle fiamme eterne. Ecco che ve l’intima l’Apostolo a nome di Dio, … si quis violaverit Templum Domini perdet illum Dominus; a guisa di Giuda sarà figlio di perdizione, sarà dannato l’irriverente nelle Chiese; ma dove piomberà? Dove appunto sprofondò quella nobildonna in Calabria a solo titolo delle sue irriverenze nelle Chiese fatte da lei teatri d’amori e scene di vanità. Uditene… Questa riconoscendosi pur troppo vaga di sembiante, abusandosi d’un tal dono, ad onta del donatore, in ogni luogo, ma specialmente nelle Chiese interveniva per essere idolatrata. Fu più volte, ma indarno ammonita; ond’è che Dio stanco di tollerarla venne al castigo. Stavasene ella di sera ad una gran festa; quando sorpresa improvvisamente da fiere doglie di viscere’ fu costretta a strani lamenti, a smanie, Giacché scompigliata la testa, fu ella più morta che viva e portata alla casa paterna. Quivi chiamati i medici, ogni rimedio fu vano, ond’è che disperata di salute, fu consegnata a’ Sacerdoti, uno de’ quali ingegnandosi di ridurla ad una buona Confessione, altro non ritrasse dalla bocca di quella rea femmina, che difese de’ suoi peccati, senza mostrar principio di pentimento, e perché il Sacerdote neppur si quietava per farla ravvedere del suo errore, la sentì prorompere come una furia in queste parole: se Iddio mi vuole qual io mi sono, mi pigli, se no, lasciami stare; e rivoltate le spalle, cominciò rabbiosamente a muggire, né più parlò. Frattanto il padre della giovane che l’aveva veduta trattenersi molto col Confessore, credette che si fosse confessata, e perciò mandó ad avvisare il curato, che senza indugio portasse il Santissimo Viatico. Ecco, che se ne viene il buon curato con grandissimo accompagnamento di gente stordita al caso di morte tanto inaspettata. Deh mio Dio, datemi, vi prego ora una energia, una efficacia pari al successo, che mi rimane a raccontare. Non prima il Sacerdote comparve con la sacra pisside in mano avanti la stanza ove giaceva la rea femmina, che subito dalla finestra di rimpetto si levò un furiosissimo vento che gli serrò con impeto dispettoso la porta in faccia; corsero i servitori per riaprirla, ma spaventati fuggirono, giacché cominciossi subito a sentire entro la camera un tal fracasso di strascinate catene, una confusione di voci tartaree che ben pareva essersi quivi racchiuso un piccolo inferno. Si scompiglio’ a questo rumore tutto impaurito quel popolo che colà si era adunato, ed il Sacerdote, dopo aver per qualche tempo aspettato, deliberò tornarsene col Santissimo Sacramento alla Chiesa. Partito che egli fu, tra pochissimo d’ora cessò lo strepito, si mitigò lo spavento e così riuscì aprir con somma facilità la porta. Pareva che tutta la camera fosse stata messa a ruba, spezzata la lettiera, sconvolto il letto, abbattuto il bel padiglione, tutte per terra le vesti, disperse le anella, le ambre, sparse le acque odorose; ma quello che soprattutto metteva orrore era la donna, la quale del tutto spogliata, giaceva sul pavimento già morta, e con volto sì spaventoso a rimirarsi che ben vi si leggeva sulla fronte descritta la dannazione. Lascio a voi il considerare qual fosse l’afflizione di quel povero padre, scongiurò tutti i domestici a non voler per riputazione svelare il fatto, e poi fatte in tutta fretta private esequie alla defunta la fece di notte seppellire in sagrato; ma che? Credete voi, che la Chiesa volesse in seno ricever morta colei dalla quale aveva ricevuti tanti oltraggi, con tante irriverenze d’amori, di vanità? Appunto, ecco, che la mattina seguente vien data nuova all’afflitto padre, che la figlia giaceva all’aria insepolta, egli la fece allora seppellire in diversi luoghi, ma vedendo che da per tutto da terra l’escludeva, e non poteva trovar modo da levarsi davanti agli occhi quell’obbrobrioso cadavere tutto pieno di furore, esclamò: se così è, vengano dunque i diavoli, e via si portino nell’Inferno anche il corpo di mia figlia, dacché v’hanno l’anima. Non tardarono questi, gradirne il dono … Venne uno stuolo di demoni, quasi stormo avidissimo d’avvoltoi, e come è fama anche grande in quella città, si portò seco con una festa propriamente infernale quell’infelice cadavere, né mai più comparve. Rispetto alle Chiese, miei Uditori, rispetto alle Chiese, perché tali castighi si preparano ancor per voi, se profanerete con sguardi lascivi, con amori impuri, con vanità scandalose con discorsi laidi i Templi di Dio.

QUARESIMALE (XXIV)

QUARESIMALE (XXII)

QUARESIMALE (XXII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMASECONDA
Nella Domenica quarta di Quaresima.


Del Purgatorio. In cui si mostrano le pene gravissime per
l’intensione, lunghissime per la durata, accresciute dalla nostra ingratitudine.

Accepit Jesus panes, et cum gratias egisset distribuit discumbentibus. San Giov. cap. 6


Perdonate alla mia lingua, miei UU. se quella mattina mi pubblica bramoso di cambiare questo sacro pergamo in un teatro, ove divenuto di predicatore recitante, possa più facilmente ottenere il mio fine; ed è pur, vero, che se tale io fossi, potrei da voi impetrare ciò che ottengono ogni dì tragici attori, a’ quali, quantunque sappiate che fingono, pagate ad ogni modo vero tributo di compassione, e senza risparmio
di lacrime, gli ponete i cuori in braccio, e gli versate le anime in seno. Rappresentisi in palco una Andromeda, e voi vedrete strepito nell’udienza, sollevati gl’affetti de’ circonstanti. Fingasi legata ad uno scoglio una beltà, per esser preda de’ mostri marini che, già vicini, slarghino le fauci per ingoiarla, non troverete allora in teatro spettatore così codardo, che non desideri sprigionare quella beltà ed uccidere il mostro. Dio immortale, e se io, da questo luogo facro, aprirò scena funesta per mostrarvi milioni d’anime nel Purgatorio, affogate tra’ tormenti, sepolte tra le carneficine, le quali urleranno con grida le più lacrimevoli che possa spremere un immenso dolore; e pure chissà se otterrò, non dico una buona somma di danaro per suffragarle, non dico frequenza de’ Sacramenti per liberarle, ma neppure una interna compassione. O quanto bramerei vedere innalzato in questa vostra patria il tribunale d’Atene in cui, con severità non ordinaria, fu accusato il ricco Gallio, sol perché non sovveniva la povertà d’Aristide suo parente, ma viva il Cielo, che le mancano questi rettissimi giudici a concordare chi più spende, o nelle vanità superflue, o nelle mense troppo laute, v’è Iddio, che siccome assisté a Giovanni allorché erat in Vinculis, così assisterà alle Anime Purganti, non voglio però, con rimettere la causa a Dio, tralasciare di rappresentarvi; e sarà l’assunto del mio discorso, delle pene atrocissime del Purgatorio, accresciute dalla nostra ingratitudine. – Sappiate dunque, UU. Miei, che le anime dei vostri amici, dei vostri parenti, di quelli che più teneramente amavate, vivono tra tormenti sì fieri, che maggiori non furono inventati dalle barbarie di Nerone in Roma, né dalla crudeltà di Dionisio in Siracusa. Figurarevi, dunque, per apprendere bene questa verità, sotto de’ vostri piedi una profonda carcere, la quale per la vicinanza che ha con l’inferno, senza parteciparne niente dell’empio, ne ritragga però il penare tormentoso. Quivi vedrete come la notte domina con nebbie oscure, l’aria lampeggia con baleni funesti, scuote il suolo con orrendi terremoti, e senza mai cessare risuonano quelle caverne per i gemiti inconsolabili di quelle anime, e per i fieri sibili di quei mostri. Quivi i tori
più celebri di Falaride, i cadaveri verminosi di Massenzio, le ruote più spietate di Diocleziano, servirebbero di refrigerio a quell’anime purganti. Miei UU., raccogliete pure in un sol pensiero, le pene più mostruose di questa vita, e poi leggete ciò che San Cirillo lasciò scritto, si omnes, quæ in mundo cogitari possunt pœnæ, pœnis, ac tormentis quæ illic habentur, comparentur, solatia sunt. Ah, che tormenti simili, neppur formano un’ombra di quei che tollerano le anime del Purgatorio. Ma ciò che disse Cirillo con le parole, lo confermò Cristina con i fatti. Attenti! – Appena morta, questa Santa Vergine fa condotta a vedere le pene acerbissime del Purgatorio, ed in esse vide impiegata in orrori, in confusioni, la Giustizia di Dio, indi presentata al Divin Tribunale si sentì interrogare di ciò che aveva veduto patirsi da quell’anime, al che (ah mio Dio) rispose: purtroppo ho veduto gl’orrendi tormenti;  or vedi Cristina, sentissi replicare, mira quella sedia, quel trono ricco d’oro, di perle, di gemme, quello appunto significa l’eterna Gloria che hai da godere nell’eternità beata; dimmi adesso liberamente, se vuoi prender possesso d’un sì gran Bene, pure ritornartene in vita per patire molto a beneficio di quelle anime. Udite ora la risposta di Cristina alla proposta di Cristo. Io ho veduto, dice la Santa Vergine al suo Redentore, le carneficine con le quali sono tormentate quelle misere anime, e son tali, che io volentieri mi eleggo di tornare a vivere per patire a pro loro orrende pene. Sì, sì, mio Dio, per liberar di colaggiù quelle anime, io mi eleggo un inferno di strazi, e rinunzio ad un Paradiso di contenti. Sarei una tigre se pur mi avessero a muover le mie consolazioni, che i loro tormenti. Quando ecco, che Cristina per effettuar quanto disse, s’alzò subito dal cataletto, alla presenza de’ Sacri Ministri, allorché gli celebravano le esequie. Inorridite pure, o miei UU.. Ecco che si pone Cristina dentro fetidi sepolcri per esser divorata da’ vermi, s’inzuppa nelle caldaie bollenti, perché l’acque la disfacciano, e per miracolo n’esce illesa, si tuffa ne’ stagni gelati, acciocché il freddo l’intirizzisca, or si pone alquanto lungi dal fuoco perché le fiamme divoratrici lentamente la distillino, or penetra nelle più orrende selve per essere sbranata dalle fiere, or si caccia nelle fornaci acciò le fiamme l’inceneriscano! No, la si lancia giù dalle rupi, perché le punte de’ sassi la scervellino, qui si mette sotto le macine de mulini perché minutamente la disfarinino. In somma, era Cristina un Purgatorio animato, mentre miracolosamente viveva tra tanti patimenti. Né vi crediate già, che questo suo penare sì fiero fosse di tre giorni, si stendesse a settimane, non passasse il mese, oppur finisse in un anno appunto, fu di più lustri, mentre fu di venticinque anni. Argomentate ora voi UU. qual abissi di pene, che spettacoli orribili dovesse ella vedere nel Purgatorio, mentre eccitarono nel suo cuore una compassione sì smisurata. Negate ora se potete quella d’Agostino, che le pene del Purgatorio sono maggiori di tutte quelle del mondo; ille Purgatorius ignis durior est quam quidquid possit in hoc sæculo poenarum videri possit, aut cogitari. Cristina per quelle anime che non appartenevano né in vigor di sangue, né d’amicizia, patisce tanto, e noi per l’anime de’ nostri congiunti non solo non faremo ciò che ella fece, ma neppure offriremo una limosina a lor suffragio, una corona. una Messa, cadit asinus, piange Agostino et omnes sublevare festinant, clamat in tormentis Fidelis, et non est qui accurat. Cade in un fosso un giumento, e l’aiutano tutti perché risorga; bruciano le anime, e non si trova chi le soccorra per liberarle. Staccate quel quadro di vostro padre, levate di là quello di vostra madre, toglietevi dagli occhi quelli de’ vostri parenti, de’ vostri amici, che meno sarete colpevoli col non vederli, anzi no, mi disdico, e quasi dissi ebbro della vostra ingratitudine, prendete quei quadri e bruciateli, e così sarete contenti in veder di qua bruciare la copia, come di là arde l’originale. Furono grandi i patimenti di Cristina; ma finalmente Cristina si pose a patire per quelle anime, non perché avesse provati i lor tormenti, ma per averli sol veduti; che avrebbe fatto, se gli avesse non sol veduti, ma provati? Udiamo un poco ciò che dice di quelle pene chi e le vide e le provò. San Cirillo Vescovo racconta come, essendo resuscitato per miracolo di San Girolamo un morto, andò egli stesso a vederlo, e trovò che amaramente piangeva e, perché piangi, gli disse, mentre più tosto, per la vita ricuperata dovreste stare allegramente; ah se sapeste o Santo Pastore, quel che ho patito nel Purgatorio anche tu piangeresti con esso me, quales credis pœnas existentibus in Purgatorio præparari, e rispondendogli di non saperlo, sono sì crudi, soggiunse, che qualunque uomo prudentemente operando, eleggerebbe più tosto soffrire tutte le pene che sono state nel mondo dal suo principio finora, che soffrire la minima di quelle pene per un dì, quam uno die minori, quæ illic babetur pœna torqueri. Chi dunque non inorridirà, sentendo che non solo le pene del Purgatorio sono maggiori di quante si possono soffrire nel mondo, ma di più in sentire da un testimonio di prova, che la minima d’esse è incomparabilmente più fiera. O pene, o pene, e chi può mai comprendervi! E pure non mancano cuori sì duri, i quali nulla s’inteneriscono alla rimembranza che quivi penano i loro congiunti più stretti. Non solo le pene del Purgatorio sono gravissime, ma quel che è peggio sono
lunghissime. O Dio! e che può darsi di peggio? Pene acerbissime nella intenzione, pene lunghissime nella durata. Inorridite. Pascasio Cardinale di Santa Chiesa fu veduto patire un’atrocissimo, e lunghissimo Purgatorio per un difetto sol d’ignoranza, leggermente colpevole; ditemi dunque, e quando mai, i nostri parenti finiranno di patire e pagare non un solo, ma tanti e tanti difetti ben leggeri, commessi ad occhi veggenti, o nella cura de’ servitori, o nella educazione e de figli o negl’affari de’ magistrati, o ne’ traffici del denaro? Ahi quanto dovranno penare; quanta fuerit peccandi materia, disse San Bernardo, tanta erit mora perseverandi. – Santa Vitaliana Vergine illustre, per un poco di vanità nei suoi capelli, fu veduta patire un lunghissimo Purgatorio. O Dio! Chi mi dirà quanto tempo dovranno patire laggiù i nostri cari morti per le tante e tante vanità, o per gl’abiti pomposi o per le fogge o per le usanze inventate, quanta fuerit peccandi et … – Se il Vescovo Durano di Tolosa per aver detto alcuni motti galanti, sofferse pena lunghissima, io non so dire quanto Purgatorio siano per avere i vostri morti, che con facezie, e detti pungenti ingiuriavano gl’inferiori, si burlavano degli uguali, mormoravano de’ maggiori, dileggiavano i Sacerdoti, motteggiavano i superbi, applaudivano a’ licenziosi. Ahimè quanto e poi quanto patiranno… quanta fuerit peccandi etc. … – Se un religioso di San Francesco patì tormenti lunghissimi per questo solo difetto di non chinare il capo alla Gloria Patri, che sarà de’ vostri poveri morti che singolarmente dentro le Chiese furono curiosi, distratti, immodesti, loquaci. Ahimè quanto e poi quanto peneranno … Quanta fuerit… O che montagne di colpe, e quando mai finiranno d’esser pagate in quelle pene tremende. Voi credete che esageri, ma v’ingannate, parlo fondatamente: Santi Pontefici, che dispensate il Sangue di Cristo in tante indulgenze, palesate il fine, manifestate i motivi; lo so che Sisto Quinto concesse indulgenza di undicimila anni effettivi a chi recitava certa Orazione a Nostra Signora, e Gregorio Decimoterzo ne pubblicò una di settantaquattromila anni a tutti gli ascritti nel Santissimo Rosario, e per qual cagione Santa Chiesa ammette Messe perpetue, fino alla fine del mondo, non per altro, miei UU., così opera Santa Chiesa ed hanno dispensato i suoi tesori i Sommi Pontefici, se non perché, ben sanno la lunghezza del Purgatorio, che per tante anime non suffragate, durerà fino alla fine del mondo. Eccovi miei UU., esposto un abbozzo delle pene acerbissime e lunghissime, che tollerano i vostri amici e parenti nel Purgatorio. Contentatevi ora, di dare orecchio alle querele per confondere la vostra ingratitudine, Miseremini mei, miseremini: udite parenti, amici udite, così da quelle pene tanto intense, tanto vive, esclamano quelle povere anime: Miseremini mei… abbiate di noi pietà. Alzate più le voci, anime sante, se volete essere intese tra gli strepiti dell’interesse, della ambizione, del fasto, dite il fatto vostro. Vorremo per carità una Messa; udite la risposta, ho da spendere cinquanta scudi per un abito, e cento per una giostra. Ah mio padre, mio fratello, mia consorte, mi struggo nel fuoco! Pazienza, ho bisogno di danaro per fare una nobile comparsa. E come è mai possibile, che siate così crudeli con noi, che tanto facevamo per voi. Deh almeno per noi dispensate pane ai poveri, udite la risposta. E là si governino quei cani, che non patiscano, si satollano. Se bene anime sante, non vi lamentate più perché non vi sovvengano, querelatevi sì, perché vi perseguitano, e dite loro quare persequimini carnibus meis saturamini. Figli, parenti, dissi male, fiere, furie, mostri di crudeltà
allevati da tigri, nutriti con carni d’aspidi e con sangue di pantere, perché mi
perseguitate? Quare me persequimini, o carnibus meis faturamini; e quel che è
peggio vi pascete delle nostre carni, carnibus meis saturamini. Chi vi lasciò quei palazzi, quei giardini, quelle gioie, quelle vesti, quelle ricchezze, se non io; sono mie quelle sostanze, che godete, e voi crudeli scordati di me, e de’ miei tormenti, così barbaramente vi saziate delle mie carni, e quel che più altamente mi
crucia, e mi rende più tormentoso il Purgatorio, e che voi godete delle mie miserie; né mi state a dire, che non ne godete, perché vi si può rispondere col Morale: … qui non vetat vetare cum possit jubet, mentre che voi con poco, potete sollevarmi, e non lo fate, è segno che godete del nostro penare. Voi parenti, voi figli, voi figlie, tenete acceso nel fuoco che tormenta i vostri congiunti, mentre non recate acqua per estinguerlo, voi tenete stretti quei ferri, mentre non stendete la mano per disciorli. Voi siete, che impedite a quei buoni morti la grazia che otterrebbero d’uscire dalla loro cruda schiavitudine, mentre non volete prestarli nemmeno un soldo. Miseremini mei saltem vos amici mei. Che voci sono queste, non si parla più con parenti, ma con amici, e con ragione, perché i parenti non odono. Voi dunque amici sovveniteci, giacché nel cuor di mio padre, di mio figlio, non v’è più amore. Voi amici, giacché mia madre, mia figlia, non ha cuore che per odiarmi, mentre mi lasciano penar qua giù. – Voi amici, voi soccorretemi, giacché quanti ho fratelli e parenti tutti si sono scordati di me, che ardo in queste fiamme; ah, che se ci soccorrete con una Indulgenza presa con una Messa celebrata, con un poco di limosina distribuita a’ poveri, noi trionferemo rivestite d’oro, risplenderemo coronate di raggi, e c’ingolferemo nel godimento di un bene immenso non limitato da tempo, non amareggiato da tribolazioni, che più scientemente ne andremo a godere Dio. Ma che se non udirono i parenti, meno sentono gl’amici. Orsù parenti, amici, se non avete più cuore per sovvenire i vostri congiunti, o per sangue, o per fedeltà, e non volete aiutarli. Almeno per rimprovero della vostra ingratitudine, quando entrate in Chiesa, date mente a quelle voci, che da quelle tombe vi risuonano alle orecchie, e sentirete dirvi così: sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quel povero tuo padre, che ti lasciò tant’oro in cassa, che visse da povero per arricchirti. Egli è quello, o figlio, che stentò il vivere per farti lautamente vivere, parcamente bevve per estinguer la tua sete. Odi, sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quella infelice tua madre a cui tu stesso, avanti di nascere desti penosissima infermità nella nascita tua, gli faceste provar la morte, quella saziò la tua fame col proprio sangue, con le sue lagrime asciugotti le guance bagnate dal pianto, e finalmente morendo ti fissò in fronte lo guardo, quasi pietosa volesse dire: porgimi la mano, o figlio; buttata, che io sarò nella tomba per divenir cibo de’ vermi, ricordati di sovvenir colei che in questa vita per la tua vita avrebbe provata la morte. Alza quel sasso, o mio Uditore, e vedrai, che sotto d’esso coperto da putredine vi giace quel tuo caro amico, che sempre fu fido compagno delle tue azioni, che non dubitò espor la vita ad evidente morte per salvarla a te. Or che fai? Chi giace sepolto in queste tombe? Attendi alle altre voci, che da quelle fredde ceneri rimbombano. Pietà figlio pietà; madre, consorte, fratelli pietà, non ti domando il valsente d’un patrimonio, non le gioie di tua moglie, non gl’avanzi di tua casa, ma un sol calice per estinguere una sì eccessiva arsura; negherai dunque un sacrificio per quello che si sarebbe lasciato svenar vittima per te? Odi, e non mentisco, l’amor troppo tenero che ti portai mi tiene tra queste fiamme, e tu ingrato non mi accorri? Ah crudo, ah finto amico, ah figlio traditore! Che serve a me che tu ostenti il mio ritratto, mentre lasci arder me nel Purgatorio, tu per ornamento della casa, e per splendore della famiglia vuoi la mia immagine appesa ad un chiodo, e non ti curi di schiodare il mio spirito da quelle pene? Come è possibile che a queste verità, a queste querele, o miei UU., non vi risolviate suffragar quelle anime per non tenerle più lungamente tra quelle angosce di morte. – Dio Immortale, e chi è tra voi, che non giubili d’allegrezza, quando intende di poter con poco danaro ricuperare dalle mani de barbari un figlio, un fratello, e talora un amico, tenuto da loro in vergognose catene, certo, che se non avesse in pronto la moneta richiesta’ per la liberazione, se n’andrebbe subito ad importunare i parenti, a negoziare co’ mercanti, a costringere i debitori, ad impegnar le gioie, a vendere i beni e se oggi potesse mandarli il riscatto, certo non indugerebbe a domani, se non per altro, che per aggiungerli un giorno di libertà. Ah fede, fede, ben si conosce che le vostre menti altro non hanno di sé che le tenebre; ditemi un poco UU. con quel denaro di cui vi vorreste servire per liberare l’amico, il parente dalla barbara servitù, non potreste voi, per così dire, spopolar mezzo il Purgatorio? E pure, o Dio, quanto stentate a dare talora per i vostri morti un poco di moneta, a far cantar un Offizio, a far celebrare una Messa, quanto stentate, anzi dico di più, piacesse pure al Cielo, che non vi mostraste di viscere più inumane, quando anche salva del tutto la vostra borsa, voi li potreste sovvenire, e non lo fate? E quante volte con visitare una Chiesa, con acquistare un’Indulgenza, con fare una Comunione voi mettereste insieme il prezzo bastante al riscatto d’un’anima imprigionata nel Purgatorio, e voi per non abbandonar quel giuoco, per non differir quel negozio, lasciate che ella incallisca sotto quei ceppi, mentre, con sì leggera fatica li si potreste o spezzare perché subito volassero in libertà, o almeno alleggerire, perché non sentissero tanto quella dura prigionia, e non è questo un eccesso di crudeltà? Di tirannia, di barbarie? Tacete, istorie, tacete, voi narrate per singolare una tal peste, di cui chi fosse tocco perdeva tutta la memoria, fino a non ricordarsi più, guarito che fosse, né di padre, né di madre, or sappiate, che d’una simil peste sono infettati molti de’ miei UU. mentre non
si ricordano più né di padre, né di madre, lasciandoli star nel fuoco senza soccorso, e di loro ben si avvereranno le parole del Profeta Reale: Dum superbit impius, incenditur pauper. Voi alle feste, e vostro padre nella carcere, dunque voi alle crapole, e vostro padre e vostra madre a’ digiuni, dunque voi agl’amori tra le delizie e vostro padre tra’ tormenti: egli brucia e voi ridete, e voi solazzate; Dum superbit impius, cenditur pauper. – Voglio esprimere la vostra crudeltà con quel fatto che si narra da San Giovanni nel cap. 5, in persona di quel povero paralitico. Erano già trent’otto anni che egli giaceva addolorato, ed assiso là sulle sponde della Probatica, che però
non poteva non esser notissimo a quanti vi venivano, o per rimedio o per curiosità. Se voi aveste veduto quel miserabile, l’avreste altresì osservato macilento e scaduto di forze, senza colore in volto, ed in tale stato che avrebbe mosso ogni cuore ancorché duro a compassione, ed è pur vero, che un uomo in stato sì miserabile mai ebbe neppur uno che stendesse una mano per tuffarlo in quelle acque, giacché nulla di più vi voleva … Hominem non habeo. Dio immortale, se a sollevar quel meschino da quella lunga infermità vi fossero volute centinaia di scudi, o per i medicamenti più eletti, o per i medici di primo grido, io l’intendo, ma mentre non vi voleva più, che una stesa di mano, io inorridisco alla crudeltà; se si fossero dovute cercare dalle montagne più remote erbe incognite, e del tutto salubri, mi rimetterei; ma quando so che bastava trovarsi al tempo prefisso della volata dell’Angelo, e che non vi voleva altro che tuffarlo, non posso non infierirmi con quanti comparvero, e dichiararli con cuor di tigre in petto. Così dico, che compatirei chiunque avesse veduto lo stato infelicissimo
del paralitico, e non l’avesse sovvenuto quando a lui fossero bisognate le perle
più pellegrine per macinarle in polvere e porgerle al miserabile in rimedio di sua salute, ma mentre non vi voleva di più che correre a suo tempo e dargli soccorso con cui sbalzarlo nelle acque, non l’intendo, non la capisco, e dichiaro per crudeli quanti lo videro, e non l’aiutarono, e voi miei UU. con me vi unireste a deplorarne le barbarie; ma non dubitate, che voi per verità non avete in petto, cuor meno crudele, mentre sapete d’aver l’anime de’ vostri amici, de vostri parenti, de vostri padri e madri colaggiù nelle fiamme del Purgatorio, che sono anni ed anni che patiscono, e pure quantunque per liberarle nulla più si richieda d’una stesa di mano in poca limosina, d’un Sacrificio celebrato, d’un Offizio recitato, quantunque nulla di più vi voglia, salvo che d’un poco diי scomodo in una Comunione, ed una Indulgenza presa, non fate nulla, anzi fate che dolenti abbian da dire: Hominem non habeo, non vi son per me nel mondo più amici, più parenti, più figli, Hominem non habeo, o che crudeltà, o che barbarie! Venga in questo pulpito a ricoprirvi di rossore un Dandamide privo di fede, che per liberar l’amico dalle catene nemiche, si sottopose alla perdita degli occhi. Fu fatto prigione di guerra alle foci del Boristene un cavaliere per nome Amizzoca; questi impaziente, e della cattura e de’ ferri, gridò ad alta voce verso gl’amici che non l’abbandonassero in sì disperata disavventura, l’udì Dandamide suo amicissimo, ed a lui totalmente eguale in chiarezza di sangue, subito per ciò si mise a nuoto del fiume per raggiungere le squadre nemiche, e ricuperare l’amico; accortasi la retroguardia del tragitto, voltò gl’archi per ferirlo prima che approdasse; allor Dandamide chiese quartiere, e si protestò, non per altro avvicinarsi, che per professione d’amicizia; a queste voci, mitigati i barbari trattenero le saette, finché, giunto Dandamide alla riva, sentironsi interrogare del dove, e sotto qual tenda dimorasse un certo cavaliere Amizzoca; quando condotto dall’amico, e vedutolo tra’ ceppi rivolto al Generale delle Armi, supplicollo che si compiacesse restituirgli il caro compagno. Non mostrò questi alieno della grazia, purché fosse pronto il riscatto. Dandamide allora, perché volonteroso, ma impotente al riscatto: sappi disse, o Sire, che Amizzoca è assai a me più caro degli occhi, onde di buona voglia vi consegnerei la metà del patrimonio, per liberarlo quando voi di tutto non m’aveste svestito.  Allora il Generale l’assicurò, che quando volesse perdere gl’occhi per ricuperar l’amico, lo scioglierebbe dalle catene, lo porrebbe in libertà; accettò Dandamide prontamente la condizione, e lasciato accecare da pugnali de’ Sarmazi, ebbe il sospirato Amizzoca. Or che dite Uditori? Con quanto meno potreste voi liberare non gl’amici, ma i parenti più stretti, non da catene di ferro, ma di fuoco ardentissimo, e pur neppure vi movete a compassione, ah che purtroppo è vero il detto del Savio, Amicus est socius mense, et non permanebit in die ne cessitatis. Così appunto segue di voi anime Sante, giacché i vostri congiunti si sono totalmente scordati di voi; furono vostri amici finché viveste, e con voi banchettarono; ma ora che voi siete bisognosi non pensano punto a voi; la lor amicizia è stata a guisa di quella che passa tra l’oro, e l’argento vivo, detto con ragione, Mercurio, perché ladro, ruba il danaro alla borsa, ed il cervello alle teste; or di questo sentirete la proprietà, egli è sì amico giurato dell’oro, che tirato da un assetto simpatico, sempre lo segue, e trovandosi sparso, quando lo giunge, raccoglie tutto sé  stesso sull’amata moneta; ma che? Venga l’oro posto in mezzo alle braci per esser purgato, appena l’amico bugiardo sente gl’ardori che se ne fugge per l’aria, e lascia il compagno nel fuoco: eccoci al punto, socius mense, furono vostri amici allorché poterono sollazzarsi con voi, ma ora che voi bruciate tra le fiamme vi lasciano ardere, né più si curano di voi con una ingratitudine sì alta, che maggiore non so immaginarmi, e finisco di spiegarvela con il seguente racconto. – Narra Diodoro, che tre figli d’un re de Gimeri, morto il loro padre, contesero del regno, mercecché ben spesso la ragione di stato, cangia l’amor di fratello, in rabbia di nemico, vero però è, che quantunque agitati da interessata passione, ebbero nondimeno quei tre signori di tanto di lume, che per decidere senz’armi la contesa, scelsero per giudice del loro litigio, il re della Francia Ariofarne. Io per me non so, se giammai s’udisse in tal contingenza, altra più trana decisione, Comandò il re, che si cavasse il morto principe della sepoltura, alzato in alto a bersaglio, i tre figliuoli lo saettassero, e quello di loro,
che l’avesse colpito nel cuore  quello regnasse; lasciò dunque la saetta il primogenito, e colpì nel capo, scaricò il secondo, e colse nel petto sì, ma senza toccarne il cuore. Quando ecco, che tutto acceso di sdegno afferra con ambe le mani, il terzogenito, arco e saette, e mentre tutti aspettavano che egli prendesse di mira il cuor paterno, egli invece, ruppe l’arco, infranse i strali; eh non sia mai vero, dispettoso, gridò,
che io più fiero delle fiere incrudelisca contro il morto mio Padre: abbia sì de’
miei fratelli il regno, chiunque lo vuole, purché il mio capo sia coronato di
pietà punto non m’importa, che le corone d’oro lo circondino: Supererat, ecco l’autore, supererat minimo spes regni vicit pietas, ed oh giustissima sentenza d’Ariofarne, udite: io consegno, le ragioni della reale primogenitura al terzogenito; abbia lo scettro paterno quella mano che ricusò saettare il cuor del padre; viva, viva re, chi al morto re e padre, come degno figlio portò onore, e riverenza; mio Dio, quando giungo a questo termine, m’accendo d’uno zelo straordinario. Quanti figli ingrati incrudeliscono non contro i corpi, ma contro l’anime de’ loro parenti, e trafiggono con barbare saette i loro cuori; ben si adatta a costoro il detto d’Ambrogio: Si non pavisti, occidisti; Hai tu figlio compita l’ultima volontà di tuo padre? No, occidisti, hai fatto celebrare quelle Messe? No, occidisti, hai soddisfatto a quei Legati pii? No … occidisti; quei testamenti sono nella tua cassa degl’avi e bisavi coperti nella polvere, morti nella memoria, e non punto eseguiti, occidisti; Tu sei più crudele di Caino; poiché questo, dopo d’aver tolta la vita al fratello non incrudelì punto, che io sappia, contro il morto Abele, ma tu sei più spietato, mentre incrudelisci contra de’ Morti, non pavisti, occidisti, non gli sovvenga, dunque, l’uccidi. Se cosi è, ascolta, io ti fo con le parole di Cristo un funesto ma non fallace pronostico: qua mensura mensi fueritis remetietur, et vobis. Sappi che, balzato che sarai nel Purgatorio, quando pur non ti tocchi l’Inferno, permetterà Iddio, che ognuno si scordi di te, e che tu arda fino al dì del Giudizio in quelle pene, mercecché tu non avesti pietà verso de’ tuoi morti.


LIMOSINA
Ignem ardentem extinguit aqua, et eleemosyna resistit peccatis. La limosina
fatta per l’anime del Purgatorio è un’acqua, che lava le loro fiamme. Immaginatevi questa mattina d’aver qui presente una di quelle anime a voi più care in mezzo al fuoco, e che ciascun di voi abbia alle mani un gran secchio d’acqua ed in tal caso, io son certo, che la vostra pietà verserebbe sopra di quel fuoco tutta l’acqua, e non bastando, si porterebbe a prenderne altra. Io non voglio tanto, basta a me, che per le anime sante, diate quello che vi troviate, non tutto …

SECONDA PARTE

Già vi ho rappresentati UU. miei, la terribilità di quelle pene del Purgatorio, le querele di quelle anime, e l’ingratitudine di chi non le sovviene; la qual è, quasi dissi, cosa comune; che si ha dunque da fare per non essere nel numero di quelle povere anime, scordate da’ loro parenti Sapete, che non avete d’aspettare, che vi si faccia il bene, ma fatevelo da voi, e se l’aspetterete da loro, potrò con fondamento temere, che starete lungamente tra quelle fiamme. Alessandro Magno morendo lasciò a’ suoi capitani in eredità la sua monarchia da dividersi in tante parti, e pure è vero, morto che fu, ebbe da stare trenta dì insepolto a causa contrastarsi la divisione; ed ognuno procurava di tirare a sé un squarcio più bello della porpora del defunto, ma niuno si curava di vedere quel cadavere insepolto: Dum ejus presecti, ecco le parole d’Eliano, de regno per seditiones contenderent, ille triginta diebus inumatus, et carens sepulcro relictus est. Così appunto faranno i vostri eredi, appena sarete morti, che subito daranno di mano alle gioie più preziose, ai mobili più ricchi, subito si susciteranno le liti tra fratelli, tra madri e figli, tra mariti e mogli, e a pagar que’ legati, a far celebrar quelle Messe, a dispensar quelle limousine, a far del bene per voi, non vi si penserà. Sicché miei UU. convien dire le parole di Dio, Maledictus homo, qui confidit in homine. Maledetto quell’uomo che confida nell’uomo. Ricordatevi miei UU. del trito proverbio che fa più lume un candeliere avanti, che una torcia alle spalle; voglio dire che bisogna vi provvediate mentre vivete. Un gran mercante, detto Onofrio, nella Riviera di Genova, s’era arricchito per via di mare, venuto a morte, benché pregato da’ figli, non lasciò nel testamento obbligo alcuno per suffragio dell’anima sua; morto che fu, tra le sue scritture si trovarono registrate più partite di questo tenore: per maritar zitelle, mille scudi, per Messe, duecento, per cera in onore del tal Santo, cento, ed in fondo della scrittura erano queste parole: chi vuol bene se lo faccia in vita, e non si fidi di chi resta. Non vi fidate dunque, ma fatevi del bene. Oh io costringerò, voi dite, legherò in modo i miei eredi che certo faranno. V’ingannate. Sentite: aveva un certo padre tre figli, e già vicino a morte, domandò ad uno di loro: dimmi un poco figlio mio che cosa pensi di farmi per liberarmi dal Purgatorio? Io, signor padre vi voglio erigere una cappella
ed ivi far celebrare per voi. E voi, rivolto all’altro figlio, disse, che farete? Io pure, rispose, farò una cappella, ma con più sacrifici; così pure richiese il terzo, il quale pronto rispose: io signor padre farò quanto faranno questi due. Loro niente faranno di quello che v’hanno promesso ed io pur niente, provvedetevi finché vivete e ricordatevi della rivelazione fatta da Dio a Sant’Alberto Carmelitano, allorché gli disse: valer più un quattrino dato in vita che migliaia dopo morte. Voi vi volete quietare con dire, lascerò de’ legati, e non considerate che quanti sono i legati, tanti sono i legami perché non soddisfatti, come spesso avviene: legano al Purgatorio il testatore ed all’inferno gli eredi, e come è vero quel primo, altrettanto è vero questo secondo, come ora v’esprimo con una storia. Un contadino venuto a morte volle fare il suo ultimo testamento, e non avendo altro di proprio, che un agnelletto ed un cavallo, lasciò questo al figlio, con obbligo stretto che lo vendesse, e del prezzo gli facesse dire tante Messe, e l’agnelletto poi restasse a lui. Il villanello che aveva callose le mani ma non l’ingegno, fece così: andò una mattina al mercato con tutte e due le bestie, e cominciò a gridar forte, chi vuol l’agnello ed il cavallo? Un massaro gli disse: io comprerò il cavallo se saremo d’accordo, ed il villanello rispose, io non voglio venderlo senza l’agnello; bene, rispose l’altro, comprerò anche questo, e che vi ho da dare? Non posso darvelo a meno di trenta scudi, e del cavallo, che ne volete? Mezzo scudo; stabilitasi la vendita, si ricevette il danaro, il mezzo scudo, prezzo del cavallo, impiegò in Messe, ed i trenta scudi dell’agnello, ritenne per sé. Che voglio dire con questa storia? voglio significarvi che non commettiate ad altri quel che potete e dovete far voi stessi, perché nel mondo non v’è di chi fidarsi; ma quando pure vogliate lasciar legati per l’anima vostra, lasciateli, ma con obbligo strettissimo a’ vostri eredi, che se non soddisferanno puntualmente, la roba vada al principe al sovrano etc…

QUARESIMALE (XXIII)

QUARESIMALE (XXI)

QUARESIMALE (XXI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA VENTESIMAPRIMA

Nella Feria sesta della Domenica terza.

Del Giudizio particolare
che si farà d’un’anima considerato
nel processo, nelle difese, nella sentenza.


Cum venerit ille, nobis annunciabit omnia.

San Gio.: cap. 4.

Non vi predico miei R. A. cose lungi dalla nostra età, da’ nostri secoli, ben sapendo non avere i sacri oratori, più difficile impresa per eccitare nelle udienze cristiane il timor de mali futuri. So che Aristotele al secondo de suoi libri, m’insegna, che l’apprensione delle calamità future, ma lontane, non è potente ad indur la paura in cuor degli uomini: Remota namque nimium, non timent. I dolori, i crepacuori, gli spasimi vicini del Giudizio particolare, e non dell’universale v’annuncio; e con questo v’affogo le vostre parole in gola, e vi schiaccio in bocca quel baldanzoso parlare… Eh, che prima d’arrivare a quel dì tanto terribile, si ha da passare un mare lungo e largo di più secoli. V’affogo, dico, le parole in bocca per additarvi, come il dì del Giudizio per ciascheduno di noi, non è più lontano del dì fatale della nostra morte. A questo giudizio, dunque, particolare che segue subito dopo la morte, presento questa mattina il peccatore, perché ne senta il processo, ne faccia le difese, e ne oda la sentenza, giacché queste tre cose devono concorrere in ogni giudizio ben formato. Figuratevi miei UU. il processo formato, steso già per mano de’ diavoli, e sappiate che per molti di voi si considera cominciato fino dalla puerizia, perché sin d’allora principiaste a peccare, e pare che facessero a gara per introdursi dentro di voi malizia e uso di ragione, sicché si  può dire che molti di voi furono simili a quei serpi, i quali hanno tossico prima d’aver denti per diffonderlo. Orsù state attenti al contenuto del vostro processo, poiché uditene le accuse, possiate prepararvi alle difese, per evitare quella sentenza d’eterna dannazione, che vi sovrasta. Nello spaventoso processo si contiene come voi peccaste in pensieri, parole ed opere. I delitti dell’adolescenza fono stati discorsi lascivi, parole sporche, giuramenti falsi, roba tolta di casa o per crapule o per giuochi, o per offendere Dio con detrimento della famiglia, con perdita della reputazione nella servitù; peggio: sono stati omicidi d’uomini, se non nati che potevano nascere, vizi che non si possono nominare, e sol s’esprimono con i carboni delle incenerite Pentapoli, e poi tanti pensieri laidi che non hanno numero, finiscono di colmare l’enormità della vostra adolescenza alla quale non volle cedere punto la vostra gioventù, mentre non contento di seguitare ancor da giovane le medesime laidezze, che commetteste nella adolescenza, v’aggiungeste le brame incessanti delle donne altrui; di queste andaste in cerca nelle strade, per le case, nelle Chiese, i vostri occhi, non guardavano che per incenerire l’altrui anima; non la perdonaste né a condizione, né a stato, né alle spirituali parentele, né tampoco al proprio sangue. – La virilità non fu inferiore alla gioventù. E che non faceste cresciuti all’esser d’uomo? Non cessaste punto dalle iniquità già dette ed a queste accompagnaste gl’odi, i rancori, gli sdegni, ma chinaste la ruina di quella famiglia, tramaste, alla vita altrui, sfregiaste con indegne mormorazioni l’onestà delle fanciulle, l’onor delle maritate, foste spergiuri ne’ giuochi, bestemmiatori nelle bettole, sacrileghi nelle Chiese. La vostra vecchiaia poi portò seco quanti vizi ho narrato, e v’aggiungeste la sordida avarizia, l’indegno interesse che vi fece perdere talmente di vista il Cielo, onde più neppur per ombra, pensaste né a limosine dovute, né a soddisfazione de legati pii. Ecco formato il processo ed i peccatori. Queste fono le accuse ancora, contro di voi o donne, con l’aggiunta della vostra superbia, della vostra dissoluta vanità, della vostra sfacciataggine nel farsi vedere scoperte nel seno, scoperte nelle braccia. Negate, se potete queste accuse, e ributtate come falso questo processo; bisogna a vostro marcio dispetto, che confessiate esser vero quanto s’è narrato. Padre di famiglia, madre di famiglia, v’è di peggio per voi. Sapevi che i vostri figliuoli versavano marcia di disonestà, e non vi rimediavi; sapevate che le vostre figlie si disfacevano contemplate alle finestre, sulle porte, nelle Chiese, non solo non le gridavate, anzi facevate loro animo. Che confusione sarà la vostra alla veduta d’un sì formidabile processo. Ma respirate, poiché qui termina. Qui termina, finito il processo! Mi meraviglio di voi, vi sono altri delitti. Vi sono quei peccati commessi dal vostro prossimo, ma con la vostra cooperazione. Sentitemi: in tre modi si coopera agli altrui peccati. Prima che si commettono, quando si commettono, e dopo commessi. Prima che si commettano, vi si concorre con l’esempio: padre di famiglia, madre di famiglia contro di voi contiene il processo, quei cattivi esempi che date a’ figli bestemmiando, mormorando, giuocando, spergiurando, perché tanto v’adornavi, vi specchiavi, perché discorrevi con tanta libertà con gl’uomini altrui. Padrone, quante volte siete concorso al peccato degl’altri, con istigare or questo ed or quello al male, quante volte avete mandate quelle imbasciate, quei biglietti, quei regali, avete fatto lavorare le feste, e vi siete fatto assistere per difesa nelle vostre iniquità. Sacerdote, Curato, confessore, quante volte col male esempio, siete concorsi ne’ peccati altrui, mentre vi siete fatti vedere maneggiare meglio le carte da giuocare che quelle del Divino Officio, vi siete fatti vedere ridere per le Chiese, immodesti nel coro, discorrere con libertà secolaresca con le donne, anche voi ne festini, anche voi, perdonatemi se lo dico, negli amori. Oh che processo formidabile è mai questo! E questo vuol dire concorrere al peccato prima che si commetta. Or vediamo ciò che dica il processo di quei peccati, ai quali siete concorso quando si commettono. E non è forse vero che volete complici nelle vostre iniquità? Voi chiamaste quel giovinetto, e con chiamarlo, chiamaste fuoco dal Cielo per incenerirvi; Voi seduceste quella donzella, per altro sì buona. Voi faceste mancar di fede a quella maritata. Voi poneste il ferro in mano di quel tale, perché foste complice nelle vostre vendette. Voi lo chiamaste per compagno ne vostri furti. Oh che processo formidabile è mai quello! E non vi spaventa? Spaventatevi dal riflettere, che vi sono notati anche quei peccati a’ quali siete concorso dopo che si sono commessi con approvarli, con lodarli, con esaltare le scelleraggini de’ perversi. Voi v’inorridite ad un processo sì formidabile! Ed è pur vero che non è ancor terminato, perché vi sta registrato tutto il Bene che non si fece; bene s’udì Messa, ma standovi con irriverenza, mescolandovi discorsi non solo impropri, ma talora indegni; si dissero le devozioni, si recitò la Corona, ma piene di distrazioni, ma col cuore sugli amori, negl’interessi, alle vendette; vi confessaste, ma senza dolore, ma senza proposito; vi comunicaste, ma senza preparazione, senza rendimento di grazie. O poveri peccatori, e non inorridite ad un processo sì formidabile fabbricato contro di voi? Spaventatevi; perché non è ancor finito; non solo vi sta registrato il bene che non si fece, ma il bene che si poteva fare e non si fece. Si poteva slargar la mano alle limosine, ma per far quelle commedie, quei teatri, quei festini, per trattenersi in quei giuochi, per comparir con più fasto, per non dir con più scandalo, nelle vanità del vestire, non se ne fece altro. Si poteva visitare quell’infermo, far quell’opera pia, ma per trattenersi a quel ballo, a quella veglia, a quel ridotto di mormorazioni, non si fece. V’ingannate, o peccatori, se credete chiuso il processo, dopo tante accuse, poiché vi resta il male che potevi evitare e non evitaste; potevi con l’autorità che avevi in reprimere la sfrenatezza de’ dissoluti, e non lo faceste; potevi con una riprensione far tacere quella lingua mormoratrice, con un castigo frenar quella bestemmiatrice, una limosina mandata a tempo teneva in piedi quell’onestà, un sussidio caritativo impediva quell’offesa di Dio; ma voi nulla faceste. Io per me confesso di restar sbalordito ad un processo di tal sorte, e voi peccatore, e voi peccatrice, che dite? Voi tacete; così è, perché … iniquitas oppilabit os suum: voi tacete? Voi, voi che avanti il confessore stesso gettavate in altri la colpa con dire d’essere stati violentati; voi che la gettavate fino in Dio con dire che eravate stati fatti in quel modo, che eravate nati sotto quel pianeta, che non sapevate che farvi, voi tacete? Voi che travestivate il peccato per una leggerezza, per una facezia, per un bel garbo. Voi che non solo scusavate i vostri eccessi, ma li giustificavate; voi, dici, tacete? Così è, perché …iniquitas oppilabit os suum. Sovvengavi, che quel convitato infelice, che non portò alla Mensa Reale un vestimento da nozze, allorché fu interrogato dal Re medesimo: Quomodo huc intrasti, non habens Vestem nuptialem? Come ardiste d’entrare qua, sì mal vestito? Avrebbe questi potuto dire per sua discolpa: io come povero non potevo far queste spese, e rivestirmi alla grande, poteva afferire che, indebitato, non aveva danaro con cui riscuotere gl’abiti da festa, che aveva un impegno. Io, poteva soggiungere, sono stato colto all’improvviso da’ vostri messaggeri, e la fretta, non m’ha dato tempo di procurarmi miglior arredo; poteva insomma dire: Sire, la mira che ebbi ben grande d’ubbidire prontamente agl’ordini di Vostra Maestà, la tema di non mostrar poca stima de’ vostri favori con farvi aspettare, sono stati la cagione di comparire al vostro cospetto sì male all’ordine. Tutto questo, e molto più, poteva dire l’infelice convitato, e pure non disse nulla, e perdette di subito la parola At ille obmutuit. Or se costui nulla rispose restando attonito, pure poteva addurre molte scuse … che risponderete voi peccatori, allorché subito morti sarete condotti al Tribunale Divino? Converrà con silenzio approvare il processo. Non avrete scuse che valgano. Sebbene, non essendo dovere, che in questo giudizio manchi ciò che non deve mancare mai ad ogni altro, che vale a dire, dare ai rei un avvocato, convien darglielo. Ed io appunto voglio assumermi questo ufficio. Il fatto non può negarsi, i peccati si commisero, al processo nulla può opporsi. Ecco dunque che m’accingo a difendervi o peccatori. Grande Iddio nelle di cui mani sta posta la vita, e la morte, non si nega che questi poveri peccatori non abbiano rotta la vostra santa Legge: ma se a tanto eccesso si condussero, fu o per ignoranza o per necessità, non capirono mai quanto gran male fosse contravvenire a’ vostri ordini, mai capirono che l’odio del vostro cuore, fosse così grande verso il peccato, non poterono mai comprendere, che la pena stabilita contro di loro nel vostro tribunale fosse tanto eccessiva. Ma che dico! Mentre invece di sminuire i vostri delitti, così difendendovi li accresco, invece d’allegerirveli, li aggravo, mercé che sento rispondermi: se non capirono queste verità fu tutta loro colpa; fu perché immersi nell’affetto delle crapule, delle lascivie, de’ beni caduchi di questo mondo, a guisa di brutti insensati tenevano sempre gl’occhi in terra senza mai volerli alzare alla considerazione attenta de’ beni, e de’ mali che ne scopriva loro la fede. Oculos suos statuerunt declinare in terram. Dicano, se possono, che loro non parlasse il cuore, la coscienza, l’Angelo Custode, non ce lo dicevano in privato i confessori, i predicatori in pubblico; se ciò volessero negare, le mura stesse di questa Chiesa, i confessionari, nonché i Sacerdoti, li smentirebbero, e seppur non l’udiste fu vostra colpa, perché a bella posta voleste star lontani da quella scienza di vita che sola poteva darvi salute, e perciò invece, nei giorni festivi, di frequentare le devozioni, i Sacramenti, le prediche, attendevi a spendere il tempo in bestemmie, in amori, in passatempi, in ubriachezze e disonestà. La scusa adunque dell’ignoranza, non la posso più addurre. Deplorerò per tanto la vostra disgrazia con lo Spirito Santo, dicendo: Ignorans ignorabitur. Ma perché non voglio abbandonarvi, finché posso per difendervi, dirò al vostro e mio Giudice Iddio: le colpe descritte nel processo sono vere, le confessiamo, non le neghiamo; sol diciamo che se peccammo non si poté di meno, non fu malizia di volontà, fu colpa di necessità; più volte l’oltraggiammo il vostro Santissimo Nome con replicate bestemmie, è vero: ma à ciò ci costrinse l’insolenza de’ nostri figliuoli, la consorte sì impaziente, fu l’impeto della collera, che ci suggerì ad un tratto quelle orrende parole alla lingua. Ma Signore! Come era mai possibile mantenere la famiglia senza quelle frodi nel vendere, senza quelle bugie, senza quegli spergiuri? Come si poteva praticare con gl’altri compagni senza apprendere i loro costumi, e senza lasciarsi persuadere da’ loro perversi esempi e più perversi consigli? Ah miei Uditori, ho fatto quanto ho potuto per difendervi, ma le scuse son frivole, e le difese non bastano a ricoprirvi, neppur quanto bastarono a ricoprir la Confessione de’ nostri primi Padri nella loro disubbidienza, che necessità, sento rispondermi … che violenza? che non potere? Peccarono, perché vollero peccare e peccarono mentre altri simili a loro non peccarono; peccarono, mentre io, dice Iddio, gl’offrivo il mio braccio per sostenersi; non v’è dunque scusa che vi discolpi; vi dirò con l’Apostolo: Inescusabilis es o homo, inescusabilis es.. – Peccatori, voi sentite; le vostre difese sono dalla verità buttate per terra, onde a mio credere, non vi è altro scampo per evitare la sentenza terribile, che buttarsi al patrocinio di qualche grande in Cielo. Su, ricorrere a quel servo di Dio, Giovanni di Dio. Egli può molto, perché con l’eccessiva carità verso de’ poveri si guadagnò gran posto in Paradiso; ahimè, che egli non vuole aiutarvi, perché sempre disprezzaste i poverelli, e foste verso di loro un tiranno; Francesco Saverio apostolo dell’Indie asserì di sua bocca di poter qualche cosa in Cielo: egli è amato da Dio, perché con zelo indefesso procurò la salute delle anime; ma no: non vuole patrocinarvi, perché voi del tutto dissimili a lui, andate sempre in cerca di farle perdere. O Dio! E che farete? Non vi perdete di speranza; Giovanni Gualberto è Principe del Soglio Celeste per quel perdono sì generoso dato all’inimico, allorché poteva saziare la sua spada sitibonda del di lui sangue; ma no, neppure egli vuole aiutarvi, perché voi sempre fomentaste nel vostro cuore odii, sdegni, vendette; mai voleste perdonare. Stanislao Koska giovane tutto pietoso della minima Compagnia, fu sì caro a Dio per la sua purità, che per saziare la sua fame del Pane di Vita, glielo fece porgere per mani Angeliche: ah che neppur egli vuole assistere a vostri bisogni, perché viveste sempre impuri; v’aiuterà Francesco d’Assisi, che per avere lasciato tutto il suo nel mondo, gode sì gran posto in Cielo… non già, sento rispondermi; perché per succhiare il sangue de’ poveri foste sanguisughe spietate. Non so più che suggerirvi, miei Uditori, se non vi aiuta il vostro Custode destinato alle vostre difese; appunto non è dovere, mentre sempre sprezzaste e le sue difese, ed i suoi consigli. Ecco l’ultimo rifugio: ricorrete a Maria, rifugio vostro, perché de’ peccatori. Ah che non è più tempo. Luna non dabit lumen suum; non ne vuole saper niente, troppo spesso con i peccati gli trafiggeste in seno il suo Figliuolo Gesù. Che sarà dunque di voi o peccatori? Le accuse del processo son vere, le difese non valgono, la protezione de’ Santi, né della Vergine non si possono avere. Dunque? Dunque alla sentenza, Dio ci aiuti! Ecco che sopra quel medesimo letto, che forse più volte servì all’infelice morto per trono d’incontinenza, s’alza il Tribunale Divino, e quivi a Cristo in Maestà terribile si conduce l’anima miserabile, cinta non di catene, ma di peccati, e quivi ferma ed attonita mira quella Faccia del Redentore adirata, che porta seco tale spavento, che considerata, fece dire al Crisostomo: Satius est mille fulmina sustinere, quam adverso Deo stare. Vorrei più tosto mille fulmini piombati sopra di me dal Cielo, che vedere il volto di Dio irato. Ed è pur vero, che questo è un principio de’ terrori. Assiso poi Cristo nel Trono ordina agli Angeli suoi, che si ponga sopra la testa di quell’anima infelice la corona, che si poteva competere per la ragione che aveva alla gloria; ma che? Subito gli vien tolta da’ demoni, che gli dico no: il Paradiso non è per te, giacché lo vendesti per odii, per crapule, per interessi, per vanità, per lascivie. O che terrori, o che spaventi! Ed a questi succede la sentenza, che a guisa di fulmine esce dalla bocca di Cristo, allorché rivolto all’anima gli dice: Recede a me maledicte in ignem æternum; va’ maledetto nel fuoco eterno: ed in così dire, rivolto a’ diavoli, dirà loro: ecco che Io vi consegno quest’anima, tormentatela, laceratela, sbranatela, giacché Io gl’ho scagliato in faccia col mio Sangue l’eterna dannazione. S’apre allora nella stanza del morto un invisibile foro per cui quell’anima non scende, ma precipita all’inferno tre mila miglia sotto del suo letto. Così termina l’anima infelice in quell’istesso luogo, ove lasciò il corpo estinto, condannata, dannata. Sacerdoti Ministri di Dio qual sarà la vostra sentenza in quel Tribunale Divino? Voi che parlate di laidezze, che mangiate il Pane d’Angeli peggio che non fareste quello de’ cani. Sacerdoti che assolvete chi non lo merita, dando veleno, invece d’antidoto. Donne, dame, anche voi comparirete al Tribunale di Cristo, che per trattarvi come meritate vi darà vesti di fiamme con le quali coprite la vostra immodestia, vezzi di serpi che v’adornino il collo, conciature di rospi, che v’abbiglino la testa. Cavalieri uomini, finiranno i vostri odii, le vostre superbie, a fronte di Cristo adirato. Mercadanti i guadagni di tanti traffici illeciti, di tante sacrileghe usure non valgono per placarlo; anche a voi dirà: all’inferno, all’inferno, e con voi stia in eterno chi visse e morì peccatore. Che rispondete ad una sì formidabile sentenza di vostra eterna morte? Niente! Così è; ma tutti come avverte Sant’Agostino: Ecce nihil respondere potero, sed demisso capite præ confusione coram te stabo confufus. Non risponderete con parole, ma con silenzio piomberete tra’ diavoli.

LIMOSINA
Vorrei che i miei Uditori riflettessero per ridurli a far limosina, a ciò che l’Angelo disse a Tobia: Bonum est eleemosynas magis, quam thesauros auri recondere; è meglio assai dispensare il danaro a poveri, che accumularlo; la ragione sembra un paradosso , e pure è verità infallibile. Sentite! Voi di tutto il vostro, altro non ritenete per voi, se non quello che date a’ poveri; quel che avete e non lo date non è vostro; solamente è vostro quello che date; E la ragione si è, perché tutto ciò che possedete e non lo date, un altro l’acquisterà dopo la vostra morte; ma quello che date a’ poveri, voi stessi ne sarete in terra i testatori, per efferne in Cielo gl’eredi: Quod Pauperi non dederis, dice San Pier Crisologo, habe bit alter, tu solum quod Pauperi dederis, hoc habebis.

SECONDA PARTE.

Orsù ditemi (contentatevi che lo gran predicatore moderno, a gran parte di voi noto, per le sue stampe) orsù ditemi, che vi pare di questa bella favola, che io v’ho raccontata questa mattina del futuro Giudizio? Oh Padre, voi mi rispondete, e che dite favola? Voi burlate… no; dico da senno, come favola? Ricordatevi che parlate con chi ha fronte bagnata d’acque sacrosante Noi crediamo il Divino Giudizio, è istoria Evangelica, è verità eterna. Se così è, dunque mi consolo; confesso il vero, che mi credeva che, non dico tutti, ma buona parte teneste per favola il mio racconto; come per favola lo tiene una gran parte del mondo cristiano; sì cristiano; cattolico? Si Cattolico: perché dunque voi mi replicate non si riempiono le carceri della Sacrosanta Inquisizione? Perché l’Inquisizione terrena non condanna se non quei che appaiono increduli. V’è però l’Inquisizione Celeste, che condanna ancor quelli che non appaiono increduli, ma lo sono. Se bene che sto io a slongarmi, veniamo al punto per vedere se si, o no, tenete per favola il Divino Giudizio. Non voglio parlare io in adunanza sì degna. Parli a voi il sapientissimo Vescovo Salviano: Che dite o savissimo prelato, tra miei Uditori v’è chi stimi per favola il Divino Giudizio? Ecco, che egli risponde, e per non offendervi così parla: Niuno crede di dover esser giudicato, se non procura evitar la sentenza di dannazione. Nemo est qui se judicandum a Deo certus fit, qui non præstet, ut pro bonis operibus præmia capiat. Bene bene, credete favola il Divino Giudizio? No, dunque, che fate per rendervi benevole il Giudice? Io vedo che quando pende una vostra causa in un tribunale, voi cercate avvocati, pagate procuratori, stentate, spendete lettere commendatizie, che non fate? E per avere favorevole Cristo? Nulla! Se vi chiede frequenza de Sacramenti? Nulla. Una piccola devozione? Nulla. Una limosina? Nulla. Una mortificazione? Nulla. Si lasci quell’amicizia? Nulla. Si perdoni? Nulla. Mi meraviglio di voi che così operate ed a voi dico che tenete per mera favola il Divino Giudizio. Non creditis, no, et licet velitis asseverare verbis crudelitatem vestram; torno a dirvi, non creditis; altrimenti converrà che vi dica che voi teniate il Tribunal di Cristo per tribunal di ciarle, e Cristo per un Dio di stucco, non creditis : Non me lo credete? Vel fo toccar con mano: ecco, perché non solo non procurate l’amicizia di questo Giudice, ma la nemicizia, strapazzandolo. Voi lo credete Giudice, e Giudice vostro, e lo maledite in ogni giuoco? Voi lo credete vostro Giudice, e lo bestemmiate? Voi lo credete vostro Giadice, e francamente contravvenite a ‘ suoi Comandamenti? Non creditis. Ma a vostro marcio dispetto quello non credete, toccherete con mano. Il Santo Vescovo Corrado allorché nella sua camera stava preparandosi alla predica, che nella mattina seguente doveva fare al popolo, si vide aprire su gl’occhi scena funesta: vide venire un signore d’alta maestà, che assiso in gran trono, era assistito da gran numero di personaggi, i quali tutti stavano in atto d’assistere ad un gran giudizio. Quand’ecco che per mano de’ diavoli fu condotto uno ben vestito ma con benda sul volto, e fu presentato avanti quel tribunale, con esporre che quello era uno vissuto tra l’ambizione e la crapula, onde si doveva all’inferno; ciò sentitosi dal Giudice, disse a quel misero, che si difendesse; ma egli disperato, rispose, è vero, è vero … merito l’inferno. Se così è, dunque, portatelo, disse Cristo, alle fiamme eterne; tanto bastò, perché quei diavoli seppellissero subito nel fuoco quell’anima infelice. Stava, come potete credere tutto attonito, e fuori di se il santo Vescovo, a questa orribile visione, quando alzatosi Cristo Giudice in piedi, se ne partì, e dietro ad esso seguirono tutti quei Santi Assessori, i quali nel passare avanti a Corrado, gli dicevano: Reliquum est, dum tempus habemus, operemur bonum; Non resta altro o Corrado, dicevano quei Santi, se non che mentre v’è tempo, far del bene. Non vi è altro miei Uditori. A questo Tribunale s’ha da venire, non v’è altro, salvo che vivere bene, purgar l’anima dalle colpe ed inserirvi delle opere buone.