DOMENICA DELLE PALME [2018]

DOMENICA DELLE PALME [2018]

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis. [Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che  viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]
Orémus.
Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.[ Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI [I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].
D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. . [I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]
Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.
Ant. Púeri Hebræórum  …
Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.
Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.
Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.
Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Nuova serie di Omelie, vol. II; Omelia XII, Marietti ed. Torino, 1898).

 “E come si furono avvicinati a Gerusalemme e venuti a Betfage, presso il monte Oliveto, allora Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nel villaggio, che sta davanti a voi, e tosto troverete una giumenta legata ed un puledro con essa: scioglieteli e menateli a me: e se alcuno vi dice nulla, dite che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà. Ora tutto ciò avvenne, perché si adempisse la parola del profeta, che dice: Dite alla figliuola di Sion: Ecco il tuo re viene a te, mansueto, assiso sopra un asinello e puledro di asinella da giogo. E i discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro comandato, e condussero l’asinella e il puledro, e posero sopra di quello le loro vesti e ve lo fecero montare. E intanto una turba grandissima distese le sue vesti nella via; altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano per la via, e le turbe che andavano innanzi e quelle che seguivano, gridavano, dicendo: Osanna al Figliuolo di Davide! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi. „ (S. Matteo, XXI, 1-9).

Gesù Cristo, lasciata la cittadella di Geco, dove aveva ridonata la vista a due ciechi, il sabato precedente l’ultima sua Pasqua, era giunto a Betania, a due chilometri circa da Gerusalemme. Ivi fu accolto da Lazzaro, che non molto prima aveva risuscitato, e dalle due sorelle, Marta e Maddalena, con qual cuore e con qual gioia vel dica Iddio. La sera stessa di quel sabato accettò l’invito di sedere alla mensa di Simone, detto il lebbroso, come più innanzi ci narra lo stesso S. Matteo (XXVI, 6 seg.). Il giorno appresso, cioè la Domenica, che noi chiamiamo delle Palme, per la commemorazione che ne facciamo tuttora, avvenne l’ingresso solenne in Gerusalemme, che qui si narra e che forma l’oggetto della presente Omelia, e che, attesa la insolita lunghezza della funzione, sarà più breve delle altre. – “Come si furono avvicinati a Gerusalemme e furono venuti a Betfage, presso il monte Oliveto, allora Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nel villaggio, che sta davanti a voi, e tosto troverete un’asinella legata ed un puledro con essa: scioglieteli e menateli a me: e se alcuno vi dice nulla, dite che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà. „ Gesù, movendo da Betania, saliva le pendici del colle Oliveto, che sta ad oriente di Gerusalemme, e giungeva al villaggio di Betfage, che in nostra lingua significa Gasa della valle o della bocca, perché posto all’imboccatura della valletta di Giosafat, a mezzo chilometro circa dalla città. Egli era accompagnato dai suoi discepoli, che lo seguivano dovunque. La voce del suo arrivo a Betania e della sua venuta in Gerusalemme erasi sparsa dovunque e particolarmente nella città, dove aveva molti discepoli e maggiori e potenti nemici, che avevano giurata la sua morte. Gerusalemme formicolava di pellegrini per la imminente festa della Pasqua venuti da tutta la Giudea, dalla Galilea e dalle regioni più lontane. Il nome Gesù era sulle bocche di tutti: si narravano le sue virtù, i suoi miracoli operati da un capo all’altro della Palestina e fresca e viva era in tutti la memoria della risurrezione di Lazzaro, avvenuta nella prossima Betania, sulle porte di Gerusalemme, alla presenza di tanti testimoni, amici e nemici. Era dunque naturale che tutta Gerusalemme si commovesse alla fama della sua venuta e il popolo, nel suo entusiasmo, gli preparasse un’accoglienza trionfale. Vedete, o cari, differenza di giudizi e sentimenti! il popolo, il buon popolo, specialmente, io credo, delle campagne, accorso a Gerusalemme, crede che Gesù sia un profeta, anzi l’aspettato Messia, e che il suo regno sia per cominciare, e nell’ardore della sua fede si precipita sulla via di Betania per festeggiare la sua venuta. Non si cura degli scribi, dei farisei, dei suoi capi, pieni di livore e di odio implacabile contro di Gesù; esso ubbidisce all’impulso del suo cuore e della sua fede, impulso sempre retto e generoso, se non è traviato per opera dei tristi, come avverrà cinque giorni dopo. L’entusiasmo del popolo è contagioso e si allarga e cresce in un baleno, fa tacere e soffoca le opposizioni, soverchia e trascina anche gli indifferenti, a guisa di torrente impetuoso. Mentre le turbe, uscendo da Gerusalemme ed ingrossando ad ogni istante, si incamminavano confusamente incontro a Gesù, Gesù dall’altra parte, fattosi condurre l’umile cavalcatura, di cui parla il Vangelo, s’avvicinava alla città. E giunto sul colle degli Olivi (Il colle degli Olivi giace ad oriente di Gerusalemme. Il suo versante orientale fino a Betania è dolce, sparso di olivi scarsi e poveri: il versante occidentale, cioè verso Gerusalemme, è ripido a talché non si può discendere che per sentieri (strade non vi sono) girando e rigirando il colle. Sul suo vertice, da cui si gode la più bella vista di tutta Gerusalemme, si mostra il luogo dove Gesù si fermò e pianse. Il pellegrino che giunge e si arresta in quel luogo e contempla la città, e vede in alto la torre di Davide, più basso la cupola della Moschea di Omar e quella del sepolcro di Cristo e col pensiero abbraccia la storia da Davide a Cristo, ai Crociati, a noi, ricorda che i suoi piedi premono la terra che fu premuta dai piedi di Cristo e che li Egli pianse, prova ciò che lingua umana non sa ridire), d’onde si poteva contemplare la città, come narra altrove S. Luca, s’arrestò, pieno di tristezza la rimirò, i suoi occhi si gonfiarono, pianse e singhiozzò, pronunziando quelle parole piene di tenerezza inesprimibile: “Gerusalemme! oh! se tu avessi conosciuto, almeno in questo giorno, le cose appartenenti alla tua pace! Ma ora sono nascoste ai tuoi occhi! „ Gesù in mezzo al trionfo pacifico, che il popolo gli prepara, è sopraffatto da profonda mestizia e versa lagrime amare. Prima che venga il giorno (ed è vicinissimo) delle lotte supreme e dei supremi dolori, il Padre gli ha preparato un’ora di gioia, di spontaneo trionfo, ed Egli lo dimentica per non pensare che al suo popolo, all’ingrata e colpevole città ed alla catastrofe spaventosa in cui deve piombare, e ch’Egli vede e predice. Ah! il cuore di Gesù si rivela tutto in quel pianto, in quei singhiozzi, in quelle parole. – Il potere supremo religioso, che risiede in Gerusalemme, si accieca, si ostina, si irrita, si scandalizza, freme contro di Gesù e ne delibera la morte; il popolo, i semplici, i poveri, i disprezzati, gli ignoranti riconoscono, sentono che Gesù è il Messia: i maestri della legge, i capi del popolo, i dotti lo bestemmiano; la coscienza del popolo lo proclama Figlio di Davide! — Sono misteri che opprimono l’anima, ma che si spiegano facilmente alla luce della fede e della ragione: la verità è rigettata dai superbi ed entra nelle anime umili: “Dio resiste ai superbi e abbonda delle sue grazie con gli umili — Deus resistit superbis, huniilibus autem dat gratiam. „ – Qui, o dilettissimi, si affaccia una domanda troppo naturale, perché io la possa passare sotto silenzio. Il Vangelo di quest’oggi descrive in poche ma brillanti linee il trionfo di Gesù, che entra in Gerusalemme, salutato come profeta, come Messia, anzi come re. Ora noi sappiamo che Gesù Cristo in tutta la sua vita pose ogni studio in nascondersi, in fuggire gli onori, in vietare persino che si pubblicassero alcuni dei suoi miracoli e nominamente la sua gloriosa trasfigurazione: sappiamo dagli Evangelisti, ch’Egli si sottrasse al popolo allorché, visto il miracolo della moltiplicazione del pane, voleva a forza proclamarlo re. Come sta che oggi Gesù Cristo non solo non si sottrae al trionfale ingresso, che i discepoli e i suoi ammiratori gli apparecchiano, ma vi si presta, e diremmo quasi lo incoraggia ed Egli stesso in parte lo vuole regolare, chiedendo una cavalcatura, approva e difende chi lo acclama? Come comporre questa condotta, che sembra affatto nuova, del Salvatore divino? Alla vigilia della sua morte riceve e gradisce quegli onori che in tutta la sua vita mostrò di non curare, dirò meglio, studiosamente sfuggì: come spiegare questo fatto? Non è mestieri il dirlo; tutti gli atti di Gesù Cristo devono essere degni della infinita sua sapienza, e perciò lo deve essere questo pure, checché al corto nostro vedere possa sembrare Gesù Cristo era re e re supremo, come Figlio di Dio, e l’affermò solennemente dinanzi a Pilato: re delle intelligenze, re dei cuori, re spirituale, non temporale, re umile e mansueto, come l’aveva annunziato il profeta Zaccaria, citato dal Vangelista. Inoltre, permettendo e volendo questo trionfo popolare, ravvivava la fede dei suoi cari, si preparava alle prove vicine, mostrava ai suoi nemici la fede delle turbe, ed era come un ultimo appello, un ultimo invito ad abbracciare la verità. Più in quei giorni nella città di Gerusalemme si introducevano gli agnelli destinati al sacrificio, e Gesù, adombrato da quelli, entrava pur esso come il vero Agnello, come vittima coronata, che si conduce al sacrificio. Fors’anche l’amabile Gesù volle quel breve, ma pubblico trionfo; volle quelle grida festose “Osanna al Figlio di Davide, benedetto chi viene nel nome del Signore, „ per rendere più umiliante e più vituperosa la scena di cinque giorni appresso, la sua passione e la sua condanna al grido: “Toglilo, toglilo; alla croce, alla croce — Tolle, tolle; crucifige, crucifige eum. „ – Gesù, sedendo, come sembra, alternativamente ora sull’asinella, ora sul puledro, si avanzava verso la città, mentre gli Apostoli e le turbe stendevano le loro vesti e spargevano frondi e rami sulla via per rendergli onore, e gridavano: “Osanna al Figlio di Davide: Benedetto Colui che viene in nome del Signore, osanna nel più alto de’ cieli, „ ch’era un riconoscere in Gesù il Messia promesso nella famiglia di Davide, che veniva come mandato da Dio: Osanna a Lui! era come per noi il gridare: Viva, salute, onore sulla terra e in cielo: il cielo lo protegga! Una osservazione comunissima, o cari, ed ho finito. Non è raro udire certuni riprovare le manifestazioni esterne del culto cattolico, le processioni pubbliche, il canto del popolo, la pompa degli apparati e via dicendo. Il fatto narratoci dall’Evangelista, il trionfale ingresso di Cristo, ci mostrano in qual conto dobbiamo tenere questi giudizi degli uomini del mondo. Noi imiteremo, ogni qualvolta sia opportuno, gli Apostoli e le turbe che condussero trionfalmente in Gerusalemme il Salvatore benedetto: noi lo accompagneremo per le vie allorché vi è portato come in trionfo nel divino Sacramento: noi le adorneremo; noi canteremo le sue lodi, noi lo benediremo, noi ci inginocchieremo sul suo passaggio, certi che Egli accoglierà i nostri omaggi e le nostre adorazioni, come già accolse le lodi, gli applausi e le benedizioni degli Apostoli e delle turbe fedeli che lo accompagnavano in Gerusalemme, sotto gli occhi dei suoi nemici che ne fremevano e ne mossero lamento a Gesù Cristo istesso, certi di far cosa grata a Lui, che mostrò di gradire il trionfo procacciatogli dagli Apostoli e dalle turbe.

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis». [Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis». [Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]
Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis». [Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]
Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus 147
Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis.
Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus». Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!
Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis». [Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis». [Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.
[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Introitus
Ps XXI:20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum. Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur. [ Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

LECTIO 

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II:5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genu flectátur coeléstium, terréstrium et inférno rum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.” [Fratelli: Abbiate in voi gli stessi sentimenti dai quali era animato Cristo Gesù: il quale, essendo nella forma di Dio, non reputò che fosse una rapina quel suo essere uguale a Dio, ma annichilò se stesso, prese la forma di servo, fatto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto quale uomo. Egli umiliò se stesso, facendosi ubbidiente sino alla morte e morte di croce. Perciò Dio stesso lo esaltò e gli donò un nome che è sopra qualunque nome: qui si genuflette onde nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli abissi; e affinché ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre.]

OMELIA

[Mons. Bonomelli: Nuova serie di Omelie, vol. II; Omelia XI, Marietti ed. Torino, 1898).

“Abbiate in voi lo stesso sentimento, che fu anche in Gesù Cristo; il quale essendo la forma di Dio, non tenne per usurpato il suo essere pari a Dio; ma, presa forma di servo, annichilò se stesso, fatto alla somiglianza degli uomini e giudicato esternamente simile all’uomo, abbassò se stesso, essendosi reso ubbidiente fino a morte e morte di croce. Per la qual cosa Iddio sovranamente lo innalzò e gli diede un nome, che è sopra ogni nome, affinché nel nome di Gesù si curvi ogni ginocchio delle creature celesti, terrestri ed infernali, ed ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre „ (Ai Filippesi, capo II, 5-11).

L’Apostolo trovavasi in Roma l’anno 60 circa dell’era nostra, tenutovi in ceppi: è questa la sua prima prigionia, che cominciò in Gerusalemme, continuò in Cesarea, e poi, dopo il suo appello a Cesare, si protrasse per due anni in Roma. I cristiani di Filippi, città di Macedonia, che S. Paolo aveva convertiti alla fede, sapendolo in carcere, gli mandarono soccorsi per mezzo di Epafrodito, suo discepolo. Questi si ammalò gravemente a Roma; riavutosi, dovette ritornare a Filippi, portatore della lettera. In essa S. Paolo effonde l’anima sua in sensi vivissimi di affetto e gratitudine verso quei suoi neofiti e a rapidi tratti tocca alcuni punti dogmatici e morali della dottrina evangelica, senza discendere ai particolari. I versetti, che vi ho sopra riferiti, si leggono nella epistola di questa Domenica delle Palme, e devono essere il soggetto delle mie parole e delle mie e delle vostre considerazioni. S. Paolo, dopo avere fortemente eccitati e ingiuriati i suoi cari Filippesi a stare uniti nella carità, umili nel deferire agli altri, e nel cercare non il proprio, ma sì l’altrui bene, propone il modello che essi debbono tenere innanzi agli occhi nell’esercizio di queste sì alte e pratiche virtù, e scrive: “Abbiate in voi lo stesso sentimento che fu anche in Gesù Cristo. „ Non occorre il dirlo, Gesù Cristo, perché Dio-Uomo, fu e sarà sempre il sovrano esemplare d’ogni umana perfezione, sotto qualunque rispetto lo si consideri, e quegli tra gli uomini meglio si accosterà alle supreme altezze della perfezione morale, ossia della virtù, che sarà maggiormente simile a Gesù Cristo, e perciò il grande Apostolo in cento luoghi delle sue lettere inculca la necessità di ritrarre Cristo in sé, e qui vuole che abbiamo in noi lo stesso sentimento che Gesù Cristo ebbe in sé. I frutti dell’albero, o cari, donde traggono la loro vita, l’alimento e lo sviluppo della medesima? Dall’albero stesso, dal suo umore, dalle sue radici; essi sono una emanazione, una efflorescenza dell’albero, tantoché quelli seguono la natura di questo, e se l’albero avvizzisce e muore, anche i frutti avvizziscono e muoiono. Che cosa sono le virtù? Sono i frutti di quest’albero, che è l’uomo: esse traggono la loro esistenza e la loro conservazione e perfezione dall’anima, dall’intima vita del cuore, dalla grazia divina che lo informa. Se questa regna nel fondo del nostro cuore, se ne vedranno tosto i frutti nelle parole e nelle opere; se questa fa difetto, l’uomo sarà somigliante ad un albero disseccato od inselvatichito. Se in ciascuno di noi abitasse la grazia, ossia la vita di Gesù Cristo, vale a dire se pensassimo, se amassimo, se sentissimo come Lui, non è vero o cari, che si vedrebbero in noi le opere stesse di Cristo? L’Apostolo svolge la verità, e nel supremo modello d’ogni virtù, che è Cristo, mette in rilievo ammirabile quella che più gli sta a cuore. Vuole, S. Paolo, che i suoi Filippesi siano uniti tra loro col vincolo soave della carità e d’una mutua deferenza. Ora quali sono gli ostacoli principali a questa carità e mutua deferenza? Sono due: l’orgoglio e l’egoismo; l’orgoglio e l’egoismo, che non vedono che sé, tutto ordinano a sé, che disprezzano gli altri, che immolerebbero il mondo intero al proprio interesse. Togliete l’orgoglio, soffocate l’egoismo, e la carità e la scambievole deferenza regnano nei cuori; così se abbassate i rialzi del terreno e riducete a perfetto livello, le acque vi si spanderanno sopra in modo eguale. Ora l’Apostolo per atterrare l’orgoglio e fiaccare l’egoismo dell’uomo e spargere nel suo cuore le acque vivifiche della umiltà e della carità, che sono inseparabili, grida: “Figli miei, levate i vostri occhi, rimirate Cristo, di cui siete discepoli e dovete essere immagini fedeli; Cristo, il quale, essendo nella forma di Dio, non tenne per usurpato il suo essere pari a Dio, ma, presa forma di servo, annichilò se stesso. „ Che importano, che vogliono dire queste parole? Cristo, essendo per natura, o nella natura Dio (la parola forma qui usata da S. Paolo, vuol dire quello che v’è di più perfetto in ogni cosa, ciò che dà o fa l’essere, la perfezione d’ogni cosa, secondo Aristotele; e questo è la natura o  l’essenza della cosa. Perciò il dire che Cristo era nella forma di Dio è come dire che era nella essenza di Dio, nella natura di Dio, che era Dio e quindi pari a Dio, a Dio Padre, ecc. Il che apparisce dall’antitesi che segue, cioè prese la forma o forma di servo o di uomo), e perciò avendo coscienza di non fare usurpazione di sorta, dichiarandosi pari a Dio, contuttociò, prendendo la natura di servo, la natura umana, ossia facendosi, uomo, si annichilò. In questa espressione si racchiude l’affermazione precisa e chiarissima di tre dogmi fondamentali riguardanti i misteri della Trinità e della Incarnazione: si afferma che Gesù Cristo è Dio, poi che si dice “lui essere nella forma, ossia nella matura di Dio, e non usurpare la dignità di Dio quando afferma d’essere eguale a Dio; „ si afferma in pari tempo, benché in modo indiretto, la distinzione personale di Cristo da Dio Padre, dicendo, che è verità, Lui essere eguale a Dio Padre; si afferma il mistero della Incarnazione, allorché Paolo insegna che questo Dio, eguale al Padre, prese la forma, cioè assunse la natura di servo, o di uomo; e finalmente si afferma l’unità di persona in Gesù Cristo, fatto uomo, perché si dice, che Colui che è Dio, eguale al Padre, si è fatto uomo, e come uomo fu riconosciuto: Cristo è Dio, eguale al Padre: Cristo è uomo, vero e perfetto uomo, e il medesimo che è Dio, è anche uomo: ecco le tre grandi verità della fede contenute in queste poche parole dell’Apostolo. – Ora veniamo all’applicazione morale, secondo la mente di S. Paolo. Il Verbo, il Figlio di Dio, eterno, immutabile, onnipotente, come il Padre, col quale ha comune la natura! Vi può essere alcun che di più grande, di più eccelso? In Lui sono tutte le perfezioni, in grado sommo, incomparabili, infinite: tutto ciò che apparisce nel mondo, anzi nell’universo, non è che una pallida immagine, un povero riflesso di ciò ch’Egli precontiene in se stesso. Tutto è da Lui, e nulla è senza di Lui, ed Egli non riceve nulla da chicchessia. Egli è il primo, che non ripete l’essere da altri, ma l’ha da sé, ed è perché è: in questo Verbo stanno gli esemplari eterni, perfettissimi di tutte le cose che esistono e di quelle che potrebbero esistere; tutti raccolti in uno, eppure distintissimi, e secondo essi e per essi le cose tutte son fatte e sussistono. Ebbene; questo Verbo, o Figlio di Dio, che si ammanta dell’infinita sua gloria , annichilò se stesso, e letteralmente, vuotò se stesso, exinanivìt, non già della divinità, che sarebbe assurdo, ma si vuotò, cioè si spogliò di tutte quelle grandezze e prerogative che si competevano alla natura umana assunta da Lui personalmente. Egli, il Verbo, prese la forma o la natura di uomo per guisa che fu simile in tutto ed eguale agli uomini, e da tutti esternamente fu giudicato uomo: In similitudinem hominum factus, et habitu inventus ut homo. Si può concepire abbassamento maggiore o maggior carità? L’infinito è divenuto finito, l’immutabile si è fatto mutabile, l’immortale mortale, l’impassibile passibile, Dio uomo! Il sole di eterna giustizia, sfolgorante di luce nel pieno meriggio, in un cielo senz’ombra di nube, si è ecclissato, si è avvolto nel fitto velo d’una nube, la nube dell’umanità, ma solo per accostarsi all’uomo, per comunicarsi all’uomo. Quest’uomo, povera creatura, soggetta ai sensi, che ha sempre bisogno dei sensi per pensare, per elevarsi a ciò che sta sopra i sensi, come l’uccello, che ha bisogno del ramo dell’albero per riposare, nell’umanità di Cristo trova il ponte che lo conduce a Dio, trova Dio stesso: in essa ode la voce di Dio, vede Dio, tocca Dio, si unisce a Dio. Oh! il mistero di Dio fatto uomo è il mistero dell’abbassamento di Dio, dell’amore di Dio, e in pari tempo dell’innalzamento dell’uomo. – Ma qui non s’arresta l’Apostolo. Dopo aver detto che Dio, rimanendo pur sempre Dio, si vuotò, si annichilò, a nostro modo di dire, facendosi uomo, va più innanzi e scrive: “Abbassò se stesso, essendosi reso ubbidiente fino alla morte. „ Badate bene, in sostanza dice S. Paolo, badate bene: al Figlio di Dio non bastò discendere fino all’uomo, e farsi uomo, ed essere stimato uomo: volle essere uomo soggetto, ubbidiente. Non c’è dubbio: il Figlio di Dio poteva farsi uomo, ma anche come uomo avrebbe potuto essere il Re della terra, stringere in pugno lo scettro di tutte le nazioni, circondarsi di tutte le grandezze e magnificenze del potere, della scienza e della gloria: avrebbe potuto fare in modo che i fulgori della sua divinità avvolgessero l’umile natura assunta a talché i popoli tutti si prostrassero riverenti dinanzi a Lui. Chi ne può dubitare? In quella vece Gesù Cristo non pure volle essere uomo e uomo soggetto a tutte le miserie comuni della natura del peccato e della ribellione delle passioni inferiori: ubbidiente a tutte le autorità domestiche e pubbliche, civili, politiche e religiose, ma ubbidiente fino alla morte, il supremo dei dolori e dei mali nell’ordine fisico. E basta? No. Gesù Cristo poteva discendere ancora: v’era ancora un gradino più basso, l’ultimo nella grande scala delle umiliazioni: e quale? La morte, e la morte di croce: “Usque ad mortem, mortem autem crucis”. Era un immenso abbassamento quello della Incarnazione, in cui Dio per poco scompariva, ma restava uomo: quest’uomo si abbassa e si impiccolisce anche nella natura sua assunta, mettendosi all’ultimo posto, rilegandosi volontariamente in una officina, soggetto a tutti: Et erat subditus illis. Ma restava pur sempre la vita d’un uomo quale che apparisse agli occhi del popolo. Anche questa vita naturale cessa col sacrificio della morte, sacrificio dell’obbedienza al volere del Padre: ma poteva rimanere ancora agli occhi degli uomini almeno un po’ di nome, un po’ d’onore, un estremo riverbero d’una vita immolata per obbedienza: ancor questa è totalmente annientata: Cristo muore, e muore in croce, sopra il patibolo destinato agli schiavi; vi muore come un ribelle alle autorità politiche e religiose del suo paese, come un nemico e ribelle a Dio stesso, di cui usurpa il nome e la dignità; vi muore abbandonato da tutti, sotto gli occhi d’una intera città, la capitale della patria sua, e proprio allora che colà si raccoglieva tutta la nazione e d’ogni parte della terra vi convenivano i credenti. Abbassamento, umiliazione, annientamento come quello di Gesù non è possibile a concepirsi: dal seno del Padre in quello della Vergine: dal seno della Vergine in una stalla, nell’esilio, in una officina, nelle angosce della morte e d’una morte vituperosissima: Exinanivit semetipsum semetipsum humiliavit factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. La vostra onnipotenza, o Gesù, ha toccato il fondo di tutti gli abbassamenti possibili. Ma è legge di provvidenza giustissima, che brilla dovunque, che chi volontariamente si abbassa sia sollevato in alto, chi si umilia sia esaltato. Che un ricco signore entri in un miserabile tugurio per soccorrere un poverello; il popolo lo applaude; che un monarca lasci la sua reggia, e passi di casa in casa, di ospedale in ospedale per visitare e confortare i percossi dal cholera, e le moltitudini si accalcheranno intorno a lui, acclamandolo e benedicendolo: quel signore, quel monarca si sono abbassati, e i popoli li innalzano e celebrano il loro nome. Cristo per salvare gli uomini, per ammaestrarli, consolarli e così glorificare il Padre suo, è disceso fino agli uomini infermi, fino a farsi uno di loro, patire e morire ignominiosamente per loro; gli uomini adunque dovevano glorificarlo, e lo fecero e lo fanno: lo doveva glorificare sovra tutto il Padre suo, e tanto quanta era la umiliazione volontaria, a cui si era sottomesso. E lo fece. Udite S. Paolo: “Per la qual cosa Dio sovranamente lo innalzò e gli diede un nome, che è sovra ogni altro nome. „ Per la qual cosa, che è quanto dire, in vista, in premio di tanto abbassamento del Figliuol suo fatto uomo, il Padre lo innalzò sovranamente, ossia gli diede una gloria altissima, che trascende ogni gloria e pareggia il suo abbassamento. E come lo innalzò? Come lo glorificò? ” Col dargli un Nome, che è sovra ogni altro nome. ,, Gli pose nome Gesù, che vale Dio-Salute, o Dio-Salvatore (Il nome di Gesù, secondo i glossologi, è composto di Jehova Shuah, nome proprio di Dio il primo; il secondo, di Dio fatto uomo e divenuto Salvatore del mondo), e rivela la sua dignità e il suo ufficio che a nessun altro, né uomo, né Angelo può competere. Questo nome pertanto, che a Gesù perfettamente conviene, annunzia tutta la sua grandezza e rivela tutta la sua gloria, che i secoli prima in terra, poi in cielo, confermeranno pienamente. Per indicare la grandezza e la gloria di Gesù e del nome, che ne esprime l’ufficio, S. Paolo prosegue: “Affinché nel nome di Gesù si curvi ogni ginocchio delle creature celesti, terrestri ed infernali. „ Ecco, o cari, il frutto dell’abbassamento volontario di Gesù Cristo al di sotto di tutte le creature: esse, tutte, senza eccezione, curvano il ginocchio, vale a dire si prostrano a lor modo e lo adorano: lo adorano gli Angeli del cielo, e lo riconoscono loro re: lo adorano i buoni sulla terra, e lo proclamano loro salvatore: lo adorano lor malgrado gli spiriti infernali ed i malvagi giù nell’abisso eterno, tremando sotto quella mano che li punisce. Questo trionfo di Cristo, che risponde alle inenarrabili sue umiliazioni, ora non è compiuto, ma iniziato: esso avrà il suo pieno compimento al termine dei secoli, quando ogni cosa sarà soggetta a Cristo; Cristo stesso, come uomo, sarà soggetto a Colui che gli ha sottoposta ogni cosa, acciocché Dio sia ogni cosa in tutto, giusta la espressione di S. Paolo (I Cor. XV, 28). Allora ogni lingua delle creature intelligenti del cielo, della terra e dell’inferno, volontariamente o forzatamente confesserà che Gesù Cristo è Signore per la gloria del Padre, in altri termini, siede alla destra del Padre, ha eguale la potenza, la maestà e la gloria col Padre, è Dio come il Padre. Evidentemente qui S. Paolo stabilisce, che la gloria immensa di Cristo è una mercede dovuta alle opere sue, alle sue umiliazioni, e necessariamente suppone che Gesù Cristo meriti una ricompensa. Ad alcuni parve strano che Gesù Cristo potesse meritare a se stesso una gloria, che gli è dovuta necessariamente, essendo egli Dio. Ma non vi è ombra di difficoltà, quando le cose si intendano a dovere. L’umanità di Gesù poté essa meritare l’onore ineffabile di essere congiunta in unità di persona al Figliuolo di Dio? La risposta non può essere dubbia: non meritò, né poté meritare tanto onore, perché questa umanità non poté esistere, e quindi non poté meritare cosa alcuna prima della sua unione: che se avesse anche potuto esistere prima dell’unione (il che sarebbe contro la fede), non avrebbero mai potuto meritare l’unione ipostatica, la quale è grazia, che supera al tutto qualunque merito di creata natura. Gesù Cristo poté Egli meritare la visione beatifica all’anima sua benedetta? No, perché questa visione beatifica l’anima di Gesù Cristo l’ebbe nell’istante istesso della sua unione ipostatica e precedette qualunque suo atto che avesse ragione di merito. Gesù Cristo pertanto con le sue umiliazioni, con i suoi dolori, con la sua morte meritò la redenzione e la grazia agli uomini ed anche agli Angeli, e meritò a se stesso non la gloria interna, sostanziale, dovuta a Lui come Figlio di Dio, ma la gloria esterna, accidentale, avventizia, che riceve e riceverà per tutti i secoli da tutte le creature, e di questa ragiona l’Apostolo nei versetti ora spiegati. E perché gli ammaestramenti di S. Paolo, racchiusi nel breve tratto che vi ho chiosato, rimangano impressi negli animi vostri, ve li riduco in poche parole. Vuole S. Paolo che abbiamo lo stesso sentimento che ebbe Gesù Cristo, il quale dalla somma altezza discese per amore, per il bene degli uomini all’ultima bassezza, Dio si fece uomo: vuole che crediamo, Lui essere Dio eguale al Padre, Lui essere uomo vero e perfetto e Lui essere nell’assunta natura unica persona, e questa divina. Vuole che impariamo che, alla umiliazione estrema, a cui Gesù Cristo si sottopose, risponderà la massima gloria, quale ricompensa a Lui dovuta.

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me. [Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns. [Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus Ps. XXI:2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant: S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

Credo

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto. [Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

Communio Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua. [Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

SAN GABRIELE ARCANGELO

449

Deus, qui inter ceteros Angelos, ad annuntiandum incarnationis tuæ mystèrium, Gabrielem Archangelum elegisti; concede propitius, ut, qui festum eius celebramus in terris, ipsius patrocinium sentiamus in cœlis: qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo devota orationis recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 25 apr. 1949).

SAN GABRIELE ARCANGELO

[G. Lardone: Fra gli astri della santità cattolica; S.E.I. Ed. Torino, 1928 –impr.]

Fra gli innumerevoli spiriti che formano la vasta gerarchia dei cieli, compongono la corte del gran Re e ne eseguiscono gli ordini in qualità di fedeli ministri, tre ve ne sono dei quali i libri santi ci hanno in modo esplicito rivelati i nomi: Michele, Raffaele e Gabriele. Le loro apparizioni ed i rapporti particolari che ebbero con gli uomini nel rivelare i decreti di Dio possono considerarsi come la causa di questa distinzione così onorevole per essi, e così preziosa per noi. Il pontefice San Gregorio nella sua trentaquattresima omelia sul Vangelo ci illustra il significato dei lor nomi; e, seguendo, con S. Girolamo, l’etimologia ebraica, assegna a Gabriele precisamente la significazione di Forza di Dio: Gabriel antera fortitudo Dei (S. GREG. , Op., Parigi, 1535, Voi. I , p. 1478). Il nome adunque è significativo ed eloquente; e, se la Chiesa ha voluto ricordarcelo con una speciale solennità si è perché da lui, Forza di Dio, che fu l’Arcangelo dell’Incarnazione in Cielo, nella Antica Legge e nel Nuovo Testamento, apprendiamo anche noi ad aderire sempre più a Gesù Cristo Redentore per portare con fortezza alle genti l’annunzio della Buona Novella.

1 . — IN CIELO.

Nella sua prescienza innata Iddio ha dall’eternità previsto la caduta dell’uomo dallo stato soprannaturale per causa della colpa di origine. Ma siccome in Lui non vi è successione né di tempo né di momenti, nella stessa previsione della prima e universale caduta, volle la Redenzione, cioè la riparazione dei danni del peccato, affinché l’uomo potesse di nuovo sollevarsi all’abbraccio del perdono d’Iddio e riascendere a quella felicità soprannaturale dalla quale era volontariamente decaduto. Decretò quindi l’Incarnazione cioè che il Verbo Eterno assumesse la umana carne con tutte le miserie ad eccezione del peccato, affinché abbassandosi Iddio fino all’uomo, potesse di nuovo l’uomo risollevarsi fino a Dio. Senonché fra quegli spiriti che Iddio aveva creato perché fossero come intravede Ezechiele il primo Angelo Signaculum similitudinis, plenus sapientia et perfectus decore in deliciis paradisi Rei (EZECH., XXVIII), uno ve ne fu, Lucifero, che desiderò, inordinatamente l’unione ipostatica per essere assunto all’ufficio altissimo di Redentore (SUAREZ, lib. VII, 13, De Angelis). « Ascenderò nel Cielo, egli disse, eleverò il mio trono sopra gli astri del firmamento… siederò sulla più vertiginosa altezza, ai lati dell’aquilone al disopra delle stesse nubi e sarò simile all’Altissimo » (ISAIA, XIV). Ma Iddio rigettò la natura angelica che aspirava all’unione con la divinità, e prescelse invece la natura umana per unirla, nell’unione personale, col Verbo, che doveva incarnarsi per la salute del mondo: Miniasti eum paulo minus ab Angelis (Salm., VIII). E chi prescelse Iddio dall’eternità, mentre volle la Redenzione e stabilì l’incarnazione del Verbo, per darne l’annunzio consolatore? L’arcangelo Gabriele, il quale, nel pensiero di Dio, divenne lo spirito più adatto per essere il messaggero di così alti misteri e per proclamare al cospetto dei cori angelici prima che alla terra che tutti avrebbero dovuto adorare il Figlio di Dio fatto uomo: Et adorent eum omnes Angeli eius (Hebr., I , 6). Maturata poi la rivolta di Lucifero, il quale, non volendo assoggettarsi ai decreti di Dio, pronunziò il suo: Non serviam (IER., II, 20), fu allora che, secondo la visione di San Giovanni: Factum est prœlium magnum in cœlo (Apoc, XII, 7) con l’arcangelo Michele, essendo conveniente che colui il quale voleva essere simile a Dio fosse sconfitto da quegli il cui nome significa appunto nell’interpretazione etimologica e gregoriana: quis ut Deus! Tale fu adunque il ministero dell’Arcangelo Gabriele in cielo: quello di essere l’angelo dell’Incarnazione onde proclamare l’onore che le potestà celesti dovevano al Figliuolo di Dio fatto uomo.

  1. — NELL’ANTICA LEGGE.

Però il suo carattere di nunzio dell’Incarnazione ha un più evidente risalto dalle narrazioni dell’Antica Legge che al mistero del Redentore si riferiscono e specialmente dalle visioni di Daniele. Trovandosi alla corte di Baldassarre, parve al profeta di venir trasportato a Susa e là intravide quanto sarebbe accaduto nelle monarchie e nei regni futuri. Descrisse quindi, secondo gli interpreti, le lotte di Alessandro con Dario, dei Greci con i Persiani: previde la potenza e la crudeltà di uno fra i successori di Alessandro che i commentatori credono Antioco Epifane (A LAPIDE, Vol. XIII, pag. 98, Ed. Parigi, 1866). Per interpretare questa visione così complicata e così confusa Iddio inviò al Profeta l’arcangelo Gabriele: Stetit in conspectu meo, dice il Veggente, quasi species viri (DAN., VIII, 15), il quale dopo avergli spiegata la visione secondo la storica successione degli imperi, fermandosi in modo particolare ad illustrare le persecuzioni che avrebbero dovuto soffrire gli Ebrei degeneri, conchiuse: Tu ergo visionem signa (ivi, 26) cioè conservala: perché allora nessuno avrebbe potuto comprenderla ma soltanto quattrocento anni dopo, cioè quando sarebbero stati maturi i tempi stabiliti dall’Eterno per l’avvento del Messia. – In una seconda visione, essendo il Profeta afflitto dal pensiero che il tempo della desolazione si approssimava per la città santa, rivolse a Dio, prosternato nella polvere, la celebre preghiera che noi leggiamo nel capo IX della sua profezia. Poi, narra il racconto profetico: « Mentre pregavo e confessavo i miei peccati e quelli del mio popolo Israele … ecco Gabriele, che avevo visto fin da principio in visione, il quale, appressandosi nel volo a me, mi raggiunse durante il sacrificio serotino … e mi disse: Daniele, io sono venuto affine di insegnarti e farti comprendere… tu dunque medita la parola e comprendi la visione… ». E l’Arcangelo Gabriele allora gli rivelò il Messia, l’epoca in cui sarebbe venuto al mondo, la sua morte, la riprovazione del popolo giudaico e l’alleanza che Iddio avrebbe stretto con nuovi popoli più fedeli alla sua legge santa. Tale rivelazione è contenuta nella profezia detta delle settanta settimane (DAN., IX, 20-27): « Sono state fissate settanta settimane per il popolo tuo e per la tua città santa, affinché la prevaricazione sia tolta… e sia cancellata l’iniquità… Sappi adunque… da quando uscirà l’editto per la riedificazione di Gerusalemme fino al Cristo principe vi saranno sette settimane e sessanta due settimane… E dopo sessanta due settimane il Cristo sarà ucciso e non sarà più suo il popolo che lo rinnegherà… E la città e il Santuario sarà distrutto da un popolo con un condottiero che verrà… E alla metà della settimana verranno meno le ostie ed i sacrifici e sarà nel tempio l’abbominazione della desolazione… ». Da questo annunzio profetico è adunque chiaro che la missione dell’arcangelo Gabriele ebbe per oggetto l’Incarnazione di Gesù e la Redenzione del genere umano. – Il suo carattere di fortezza poi l’Arcangelo nostro lo conserva ancora in numerose altre apparizioni tramandateci dalle sacre carte. Nota, ad es., quella del capo X di Daniele, dell’anno terzo di Ciro, re dei Persiani, allorché al Profeta, macero dai digiuni e dalle penitenze, apparve l’Arcangelo «vestito di abiti di lino con i fianchi ricinti di fusciacca di fino oro: e il suo corpo era come il brisolito e la sua faccia aveva la somiglianza di folgore, e gli occhi di lui come lampada ardente, e le braccia e le parti all’ingiù fino ai piedi erano simili ad un bronzo rovente: e il suono di sue parole come il mormorio di una gran turba» (DAN., X, 5-6, Trad. Martini). Cornelio A Lapide commenta che fu conveniente questa apparizione nuova ed in forma così maestosa da parte dell’Arcangelo, perché veniva ad annunziare al Profeta le vittorie dei Maccabei, e per conseguenza, la gloria e la maestà che ne proveniva al popolo di Dio. Tanto più che le lotte e le vittorie annunziate erano tipo e figura delle lotte e dei trionfi che i cristiani avrebbero col tempo dovuto sostenere contro gli idolatri e contro gli infedeli che avrebbero perseguitato nella Chiesa il regno spirituale del Salvatore.

  1. — NEL NUOVO TESTAMENTO.

Ma dove più spicca per il nostro il carattere di Angelo dell’Incarnazione si è nel Nuovo Testamento, poiché appunto nel Nuovo Testamento si narra come l’Arcangelo Gabriele …

…Venne in terra col decreto

della molt’anni lacrimata pace

ch’aperse il ciel dal suo lungo divieto.

(Purg., X).

Si approssimava il tempo nel quale Colui che è la forza e la sapienza di Dio doveva venire nel mondo. Le settimane profetate da Daniele erano oramai compiute: il Santo dei Santi doveva ricevere l’unzione divina che lo costituiva sacerdote eterno nel tempo stesso in cui doveva diventare la grande vittima offerta per la salute del mondo; doveva, in una parola, compiersi il mistero dell’Incarnazione. Orbene sei mesi innanzi l’Annunziazione della Vergine un grande avvenimento accadde al tempio di Gerusalemme: l’Arcangelo Gabriele vi discese dal cielo per annunziare l’inizio della gioia che la nascita del Redentore doveva portare a compimento. C’era, dice San Luca, un sacerdote per nome Zaccaria della classe di Abia: sua moglie, delle figlie di Aronne, si chiamava Elisabetta. Erano tutte e due giusti al cospetto di Dio, camminando irreprensibili nei precetti e decreti del Signore. Posta una così perfetta ubbidienza a Dio, una edificazione così grande per il prossimo, non è a stupire che i coniugi santi abbiano attirato su di sé e sulla loro famiglia gli sguardi e la benedizione del Signore, non è a stupire che siano stati eletti a portare al mondo il Precursore del Verbo. E fu l’arcangelo Gabriele che venne loro inviato, nunzio della lieta novella. Egli comparve alla destra dell’altare dell’incenso, mentre Zaccaria offriva il sacrificio, e, visto lo sbigottimento del sacerdote, gli disse: « Non temere, Zaccaria, perché è stata esaudita la tua preghiera, tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio, a cui metterai nome Giovanni, e sarà a te di allegrezza e di giubilo, e molti si rallegreranno per la sua nascita, ecc. ». Siccome poi Zaccaria recava in campo l’età avanzata sua e di Elisabetta, l’Arcangelo soggiunse: « Io sono Gabriele che sto in presenza di Dio e sono stato mandato a parlarti e recarti questa buona notizia » (LUCA, I, 5-19). I più importanti prodigi stavano per avverarsi ed era ben conveniente che quel Dio il quale Fecit potentiam in brachio suo (LUCA I, 51), inviasse colui che era più spiccatamente la rivelazione della sua forza per portarne l’annunzio al Giusto prescelto pure a grandi cose. Però dove l’Arcangelo fu propriamente Nunzio di grandi cose si fu nell’annunziazione della Vergine benedetta: allorché fu mandato « ad una città di Galilea di nome Nazaret, ad una Vergine che aveva per sposo un uomo della stirpe di Davide per nome Giuseppe e la Vergine si chiamava Maria » (LUCA, I, 26). È qui il più bel trionfo di Gabriele perché la gloria che gli venne nella sua qualità di ambasciatore dell’Altissimo fu immensa. « Non bisogna credere, esclama San Bernardo, che egli sia uno di quegli Angeli che Iddio invia frequentemente sulla terra e per una causa ordinaria. Egli deve custodire un segreto che nessuno degli Angeli deve conoscere prima della Vergine: eppure Iddio a lui lo confida perché dev’essere di una perfetta eccellenza per venir ritenuto degno e del nome che porta e della missione che gli viene confidata. Fu lui il primo che ha pronunziato il saluto che si ripete oramai da due mila anni nel mondo intero e che dovette pure essere adottato in cielo dai cori angelici per onorar la loro regina. « Salve, o piena di grazia, il Signore è con te! ». Fu lui che rassicurò la Vergine turbata all’annunzio del tremendo mistero: « Non temere, o Maria, hai trovato grazia davanti a Dio ». Fu lui che alla Vergine diede chiara, esplicita, formale la rivelazione dell’incarnazione del Verbo: « Concepirai nel seno e partorirai un figlio ». Fu lui che pronunziò per primo il nome adorabile del Figlio di Dio fatto uomo: « Cui porrai nome Gesù» (LUCA, I, 26-32). F u lui infine che venne fatto degno di ricevere il consenso di Maria per portarlo al trono dell’Eterno. – Potevano dunque darsi rapporti più stretti tra l’Arcangelo nostro ed il mistero della nostra salute? Inoltre questi rapporti furono confermati da altre apparizioni, le quali nell’ora della Redenzione, vengono attribuite all’Arcangelo della fortezza. San Cipriano ed altri scrittori pii opinano che lo stesso San Gabriele sia apparso ai pastori nella notte della natività di Gesù per convocarli alla culla del Messia. Altri dottori pensano che lo stesso Arcangelo sia disceso all’Orto degli Ulivi per confortare il Salvatore nella spasimante agonia del sudore di sangue (SUAEEZ, I part., tom. II, disp. 244, n. 3; e LUDOVICO DA PONTE, Med. de agon. Christi in Orto). Alcuni infine opinano che Gabriele Arcangelo sia stato deputato alla custodia del Sepolcro di Cristo e che a luì sia stato concesso l’onore di dare per il primo l’annunzio della Risurrezione del Salvatore. Orbene, questi molteplici rapporti, così augusti, così intimi, così misteriosi col mistero del Verbo Incarnato mentre ci donano la più alta idea di questo spirito immortale che sta davanti al trono del Signore ci devono ispirare la più viva confidenza nella sua valida protezione e ci devono spronare a celebrarne la festa con venerante pietà. – Creato arcangelo dell’Incarnazione per la sua fortezza, egli fu l’annunziatore di Gesù. Preghiamolo adunque affinché apporti anche a noi la buona novella del Cristo, ci comunichi in abbondanza i lumi supremi sui misteri adorabili della di lui persona e ci insegni ad amarlo ed a servirlo con una fedeltà inviolabile. Egli fu il visitatore di Maria. Chi mai, dopo Gesù, ha visto Maria più da vicino? Chi è meglio penetrato nei sublimi segreti della di Lei anima? Chi ha potuto avere una più giusta ammirazione per la purezza perfetta, per l’umiltà profonda, per l’ubbidienza ammirevole della Vergine Santa? Egli fu certo il primo devoto di Maria. Preghiamolo quindi affinché ci conduca alla Vergine e ci renda meritevoli di stringere con Lei quei legami di venerazione che hanno caratterizzato la sua visita all’umile dimora nazarena. – In un’antica effigie scoperta a Palermo nel 1516 (A LAPIDE, Vol. 21, pag. 21-2) il nostro Arcangelo è rappresentato mentre tiene nella destra una face e nella sinistra uno specchio di diaspro verde chiazzato di macchie rosse. Possano i suoi simboli segnare la nostra via. Agitiamo anche noi la face che segnali a tutti la nostra fede in Gesù: sia la nostra vita come uno specchio fedele delle virtù mariane: e noi, come l’Arcangelo, annunzieremo Gesù e saremo realmente uniti a Maria. Imploriamo quindi da San Gabriele che ci impetri la grazia di essere forti e costanti nell’attaccamento a Gesù ed a Maria; che ci ottenga l’onore di pronunziare sempre, come egli li ha pronunziati, questi nomi sacri, in modo degno del Figlio e della Madre, affinché un giorno siamo ancora noi glorificati per la vista di Gesù e di Maria.

 

 

PECCATO VENIALE

PECCATO VENIALE.

[G. Dalla Vecchia: Albe primaverili; G. Galla ed. Vicenza, 1911]

Et ecce leprosus veniens, adorabat eum dicens:

Domine, si vis, potes me mundare.

Ed ecco un lebbroso, accostatosi a lui, lo adorava, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mandarmi.

(Matt. XVIII, 2.)

ESORDIO. — Un lebbroso si avvicina a Gesù, si prostra, lo adora, lo prega : Signore, se vuoi, puoi guarirmi. E Gesù: Voglio; già sei guarito… E da quel povero corpo emaciato la lebbra scomparve… Notate : Il lebbroso viveva, ma il suo male lo avrebbe

stremato, corroso fino a morirne… Il lebbroso riconosce la potenza divina di Gesù: Se vuoi, puoi mondarmi, si affida alla sua bontà…

— L’anima, che volontariamente e con frequenza commette il peccato veniale, è una povera lebbrosa. Il peccato veniale, vera lebbra spirituale, le snerva le forze, le corrode ogni energia per il bene, per resistere alle tentazioni; e lentamente la conduce alla morte col peccato grave… — E intanto essa crede in Gesù, frequenta i sacramenti…; ma, se non si emenda, la sua vita si affievolisce…, si spegne.

— Povera infelice! gettati ai piedi di Gesù, lo prega: Domine, si vis, potes me mundare. — Ed oggi da questa croce Gesù ti risponde: Lo voglio. — Signore, tu lo vuoi? Aiutami dunque a meditare bene che cosa sia il peccato veniale contro di te, contro l’anima mia… Ed io pure ti dirò: Signore, con la tua santa grazia, anch’io voglio guarire da questa lebbra così schifosa e di tanto danno al mio progresso spirituale.

PARTE PRIMA

Il peccato veniale è una piccola disobbedienza alla legge di Dio; si dice veniale, perché non dà morte all’anima e viene perdonato con più facilità. — Però, sebbene veniale, non è cosa piccola, né riguardo a Dio, né pei danni che apporta all’anima. — Infatti: 1° – Che cosa fa il peccato veniale contro Dio?

— L’offende. — Offende un’infinita Maestà, il nostro Benefattore, il nostro unico e sommo Bene. — Non gli volti le spalle, come col peccato mortale, ma gli rechi dispiacere. Innalzi fra te e Dio un velo denso, che impedisce ai raggi della sua grazia e del suo amore di giungere fino a te. — Non attenti alla sua vita; ma però lo flagelli, lo cingi di spine… E non ti pare orribile?

— Prendi una bilancia: da una parte poni tutti i dolori di questa vita, vi aggiungi anche 1’inferno, in quanto è pena; dall’altra vi metti una sola bugia ufficiosa… Pesa più quel peccato veniale; mentre l’inferno è pena, la bugia è colpa; ed ha più ragione di male la colpa, che la pena (S. Tommaso). — Tutti i dolori della Vergine e dei Santi non possono cancellare una sola colpa veniale…; e Gesù è morto anche per i peccati veniali. Offende Dio: se un’anima ama il Signore, eviterà certo il peccato veniale, che gli dà tanto dispiacere.

2° – Che cosa fa Dio contro il peccato veniale?

— Lo odia. — La colpa, anche più piccola, ripugna essenzialmente alla divina natura. — Egli, la stessa purezza, non può tollerare la minima macchia.

— Lo castiga. — Maria, sorella di Mosè, mormora contro il fratello… ; per tre giorni è coperta di lebbra.

— Sara, moglie di Lot, per una curiosità, diventa una statua di sale. — Un atto d’impazienza… ; batte due volte la rupe, da cui zampilla l’acqua, e Mosè non può entrare nella terra promessa. — I Betsamiti (50.000) guardano l’Arca con poco rispetto… ; e sono colpiti di morte.

— S. Gerardo fisa un po’ troppo un oggetto pericoloso, e tosto diventa cieco. — S. Francesca romana sta un po’ di tempo oziosa, e riceve dall’Angelo uno schiaffo solenne…

E, se per i peccati mortali vi è 1’inferno, per i veniali vi è il Purgatorio. Anche nel purgatorio, e fuoco, ed atroci dolori, e privazione della vista di Dio… Vi si deve soddisfare la divina giustizia fino all’ultimo centesimo.

Il Kempis scrive: « Un’ora di purgatorio sarà più dolorosa, che cento anni di grave penitenza qui sulla terra. »

— E l’Angelico: « Signore, se il fuoco, che ci avete dato in questo mondo per vostra misericordia, è così terribile, che cosa sarà quello del purgatorio, acceso dalla vostra giustizia per l’espiazione della colpa? ».

— E dirai cosa piccola il peccato veniale? — Ma i Santi erano risoluti a qualunque sacrificio piuttosto, che commettere una piccola colpa… E tu?

3° – Che cosa fa il peccato veniale contro l’anima?

L’anima innocente è tutta bella, e Dio l’onora di sua amicizia. Quam pulcra es, amica mea!… Surge, propera, amica mea, et veni (Cantico). — È l’amica, la figlia, la sposa di Dio… — Ora il peccato veniale allenta questa preziosa amicizia, rompe l’intimità fra l’anima ed il suo Signore. Infatti; l’amicizia consiste:

(a) Nell’unione dei cuori. (Eadem velle, eadem nolle).

— Col peccato veniale, con quella critica, con quella vanità, tu fai il contrario di quello che vuole il Signore.

— Tu offuschi il candido velo dell’innocenza; Dio non trova più in te le sue compiacenze e cerca altre anime più generose… Ecco rotta 1′ intimità, l’amicizia…

(b) Nella comunicazione dei beni. — Dio è diffusivo di sua natura, Deus charitas est. Ti ricolma di favori, di attenzioni. — Tu, con le piccole colpe, gli ricusi i leggeri sacrifici, che Egli ti chiede… Uno sguardo…, una curiosità…, un affetto… ; e tu gli neghi cose sì piccole!

— Disgustato se ne lamenta coi suoi eletti… ; a poco per volta, ritira le sue grazie…, non ti onora più dei suoi favori… ; le ispirazioni, gl’impulsi segreti, le sue visite di amore si fanno sempre più rare… Incìviam te evomere ex ore meo (Apoc. III, v. 10). L’amicizia non è più.

(c) Nell’esercizio di amore. — Tu cerchi sempre le occasioni di mostrare all’amico l’affetto che nutrì per Lui.

— Dio ti ama davvero; è sempre pronto ad accorrere alle tue chiamate…, sollecito ti presta aiuto, conforto… — Tu invece, a parole, tante proteste di amore; ma poi vieni meno alle promesse più sante. Tu sei quindi tiepido, infedele, ingrato verso il tuo Amico divino. Ed Egli si asconde, ti rigetta, ti abbandona… Maledictus…, qui facit opus Dei fraudolenter (Ieremia XLVIII, 10).

Maledetto chi fa l’opera di Dio con negligenza. — Quindi non sei più il suo amico… E potrai tenerti tranquillo? E non ti risuona terribile la sentenza di G. C.: Chi non è con me, è già contro di me? Ma l’amicizia si mostra specialmente – (d) – nella stabilità dell’affetto; essa deve durare anche oltre la tomba. — Dio ti ha sempre amato, e sempre ti amerà, se a Lui fedele. Cantate perpetua dilexi te, et ideo attraxi te, miserans. (Geremia XXXI. 3). — Un dì sarà il tuo premio per i secoli eterni… Ma tu gli ricusi le piccole cose, quindi non lo ami; esponi debole il fianco al demonio…, che a tempo opportuno darà un assalto più fiero…, e cadrai nella colpa mortale. — In pigriiiis humiliabitur contignatio. (Eccli. IX, 18).

; Giuda, prima avaro, poi traditore, sacrilego, muore impiccato. — Pietro, prima presuntuoso, poi negligente…, rinnega il divino Maestro… Questa è la storia di tutti i malvagi… Qui spernit modica, paullatim decidet (Eccli. XIX, 1).

4° – Dunque: che cosa deve fare l’anima contro il peccato veniale?

(a) Temerlo…, evitarlo, a qualunque costo… ; ed appunto, perché si tratta di cose piccole, vi sarà più diligente…

In omnibus operibus tuis præcellens esto. (Eccli. XXXIII., v. 23).

(b) Si fortificherà, per combatterlo, colle pratiche di pietà, con le giaculatorie, coll’esame della sera; con una tenerissima devozione a Gesù in Sacramento…

(c) Confesserà con esattezza e pentimento tutte le colpe anche più piccole; e riceverà la forza per non ricadervi… Qui timet Deum, nihil negligit (Eccles. VII, 19).

(d) Userà diligenza nell’acquistare le sante indulgenze …; nel compiere qualche piccola mortificazione… ; nell’adempimento dei propri doveri, per fare sulla terra un po’ di penitenza dei peccati veniali commessi, e diminuire così il tempo del Purgatorio… Ne verearìs usque ad mortem iustificari. (Eccli. XVIII, 22).

CONCLUSIONE. — Guerra dunque al peccato veniale, che disgusta il Signore, e lo costringe a punirlo con tanto rigore. — Guerra al peccato veniale che allenta e distrugge la nostra amicizia con Dio; unico vero amico, ultimo fine della nostra esistenza… Fortis est ut mors dilectio (Cantic. VIII, 6). E quindi, ai piedi del Crocefisso, preghiamolo a volere mondare questa povera anima nostra dalla lebbra pericolosa delle colpe leggere: Domine, si vis, potes me mundare… Scongiuriamolo a non ritirarsi da noi; di creare anzi in noi un cuor nuovo, puro, umile, ardente di amore… Ne vroicias me a facie tua… Cor mundum crea in me Deus (Salmo L). E deponiamo ai suoi piedi la ferma promessa di volere anche morire, piuttosto che tornare a commettere un solo peccato veniale.

I SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA

I SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA

[Dom Guéranger: L’Anno Liturgico, vol. I, ed. Paoline, Alba, 1957 imprim.]

La compassione della Madonna.

La pietà degli ultimi tempi ha consacrato in una maniera speciale questo giorno alla memoria dei dolori che Maria provò ai piedi della Croce del suo divin Figliolo. La seguente settimana è interamente dedicata alla celebrazione dei Misteri della Passione del Salvatore, e sebbene il ricordo di Maria che soffre insieme a Gesù sia sovente presente al cuore del fedele, il quale segue piamente tutti gli atti di questo dramma, tuttavia i dolori del Redentore e lo spettacolo della giustizia divina che s’unisce a quello della misericordia per operare la nostra salvezza, assillano troppo la mente, perché sia possibile onorare come merita il mistero della compassione di Maria ai patimenti di Gesù. Conveniva perciò che fosse scelto un giorno, nell’anno, per adempiere a questo dovere; e quale giorno meglio si addiceva del Venerdì della presente settimana, ch’è di per se stesso interamente dedicato al culto della Passione del Figlio di Dio?

Storia di questa festa.

Fin dal XV secolo, nel 1423, un arcivescovo di Colonia, Thierry de Meurs, inaugurava tale festa nella sua chiesa con un decreto sinodale (Labbe, Conciles, t. XII p. 365. – Il decreto esponeva la ragione dell’istituzione di tale festa: « Onorare l’angoscia che provò Maria quando il Redentore s’immolò per noi e raccomandò questa Madre benedetta a Giovanni, ma soprattutto affinché sia repressa la perfidia degli empi eretici Ussiti »). Successivamente si propagò, sotto diversi nomi, nelle regioni cattoliche, con tolleranza della Sede Apostolica; fino a che il Papa Benedetto XIII, con decreto del 22 agosto 1727, non l’inserì solennemente nel calendario della Chiesa universale, sotto il nome di Festa dei sette Dolori della Beata Vergine Maria. In tal giorno dunque la Chiesa vuole onorare Maria addolorata ai piedi della Croce. Fino all’epoca in cui il Papa non estese all’intera cristianità la Festa, col titolo suindicato, essa veniva designata con differenti nomi: La Madonna della Pietà, La Madonna Addolorata, La Madonna dello Spasimo; in una parola, questa festa era già sentita dalla pietà del popolo, prima che fosse consacrata dalla Chiesa

Maria Corredentrice.

Per ben comprendere l’oggetto, e meglio compiere in questo giorno, verso la Madre di Dio e degli uomini i doveri che le sono dovuti, dobbiamo ricordare che Dio, nei disegni della sua sovrana Sapienza, ha voluto in tutto e per tutto associare Maria alla restaurazione del genere umano. Tale mistero ci mostra un’applicazione della legge che rivela tutta la grandezza del piano divino; ed ancora una volta ci fa vedere il Signore sconfiggere la superbia di satana col debole braccio di una donna. Nell’opera della salvezza, noi costatiamo tre interventi di Maria, tre circostanze, nelle quali è chiamata ad unire la sua azione a quella stessa di Dio. La prima, nell’Incarnazione del Verbo, il quale non assume carne in Lei se non dopo averne ottenuto il consenso con quel solenne FIAT che salvò il mondo; la seconda, nel Sacrificio di Gesù Cristo sul Calvario, ove ella assiste per partecipare all’offerta espiatrice; la terza, nel giorno della Pentecoste, quando riceve lo Spirito Santo come lo ricevettero gli Apostoli, per potere adoperarsi efficacemente alla fondazione della Chiesa. Nella festa dell’Annunciazione esponemmo la parte ch’ebbe la Vergine di Nazaret al più grande atto che piacque a Dio intraprendere per la sua gloria, e per il riscatto e la santificazione del genere umano. In seguito avremo occasione di mostrare la Chiesa nascente che si sviluppa e s’ingigantisce sotto l’influsso della Madre di Dio. Oggi dobbiamo descrivere la parte che toccò a Maria nel mistero della Passione di Gesù, spiegare i dolori che sopportò presso la Croce, ed i nuovi titoli che ivi acquistò alla nostra filiale riconoscenza.

La predizione di Simeone.

Il quarantesimo giorno dopo la nascita di Gesù, la Beata Vergine venne a presentare il Figlio al Tempio. Questo fanciullo era atteso da un vegliardo, che lo proclamò « luce delle nazioni e gloria d’Israele». Ma, volgendosi poi alla madre, le disse: «(Questo fanciullo) è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione; anche a te una spada trapasserà l’anima » (Lc. 2, 34-35). L’annuncio dei dolori alla madre di Gesù ci fa comprendere che le gioie natalizie erano cessate, ed era venuto il tempo delle amarezze per il figlio e per la madre. Infatti, dalla fuga in Egitto fino a questi giorni in cui la malvagità dei Giudei va macchinando il più grave dei delitti, quale fu lo stato del figlio, umiliato, misconosciuto, perseguitato e saziato d’ingratitudini? Quale fu, per ripercussione, il continuo affanno e la costante angoscia del cuore della più tenera delle madri? Noi oggi, prevenendo il corso degli eventi, facciamo un passo avanti ed arriviamo subito al mattino del Venerdì Santo.

Maria, il Venerdì Santo.

Maria sa che questa stessa notte suo figlio è stato tradito da un suo discepolo, da uno che Gesù aveva scelto a suo confidente, ed al quale ella stessa, più d’una volta, aveva dato segni della sua materna bontà. Dopo una crudele agonia, s’è visto legare come un malfattore, e la soldatesca l’ha condotto da Caifa, suo principale nemico. Di là l’hanno portato al governatore romano, la cui complicità era necessaria ai prìncipi dei sacerdoti e ai dottori della legge, perché potessero versare, secondo il loro desiderio, il sangue innocente. Maria si trova allora a Gerusalemme, attorniata dalla Maddalena e da altre seguaci del Figlio; ma esse non possono impedire che le grida di quel popolo giungano fino a lei. Del resto, chi potrebbe far scomparire i presentimenti nel cuore d’una tal madre ? In città non tarda a spargersi la voce che Gesù Nazareno è stato consegnato al governatore per essere crocifisso. Si terrà forse in disparte Maria, in questo momento in cui tutto un popolo s’è mosso per accompagnare coi suoi insulti fino al Calvario, questo Figlio di Dio che ha portato nel suo seno ed ha nutrito del suo latte ? Ben lungi da tale viltà, si leva e si mette in cammino, fino a portarsi al passaggio di Gesù. L’aria risuonava di schiamazzi e di bestemmie. La moltitudine che precedeva e seguiva la vittima era composta da gente feroce od insensibile; solo un gruppetto di donne faceva sentire i suoi dolorosi lamenti, e per questa compassione meritò d’attirare su di sé gli sguardi di Gesù. Poteva Maria, dinanzi alla sorte del suo figlio dimostrarsi meno sensibile di queste donne, che avevano con lui solo legami di ammirazione o di riconoscenza? Insistiamo su questo punto, per dimostrare quanto abbiamo in orrore il razionalismo ipocrita che, calpestando tutti i sentimenti del cuore e le tradizioni della pietà cattolica ha tentato, sia in Oriente che in Occidente, di mettere in dubbio la verità della Stazione della Via dolorosa, che segna il punto d’incontro del figlio e della madre. Questa setta che non osa negare la presenza di Maria ai piedi della Croce, perché il Vangelo è troppo esplicito al riguardo, piuttosto di rendere omaggio all’amore materno più devoto che mai sia esistito, preferisce dare ad intendere che, mentre le figlie di Gerusalemme si mostrarono intrepide al passaggio di Gesù, Maria si recò al Calvario per altra via.

Lo sguardo di Gesù e di Maria.

Il nostro cuore di figli tratterà con più giustizia la donna forte per eccellenza. Chi potrebbe dire il dolore e l’amore che espressero i suoi sguardi, quando s’imbatterono in quelli del figlio carico della Croce? e dire con quale tenerezza e con quale rassegnazione rispose Gesù al saluto della madre? e con quale affetto Maddalena e le altre sante donne sostennero fra le loro braccia colei che doveva ancora salire il Calvario, per ricevere l’ultimo respiro del suo dilettissimo figlio? Il cammino è ancora lungo sulla Via dolorosa, dalla quarta alla decima Stazione, e se fu irrigato dal sangue del Redentore, fu anche bagnato dalle lacrime della madre sua.

La Crocifissione.

Gesù e Maria sono giunti sulla sommità della collina che servirà da altare al più augusto dei sacrifici; ma il divino decreto ancora non permette alla madre d’accostarsi al figlio; solo quando sarà pronta la vittima, s’avanzerà colei che deve offrirla. Mentre aspetta questo solenne momento, quali scosse per la Vergine ad ogni colpo di martello che inchioda sul patibolo le delicate membra del suo Gesù! E quando finalmente le sarà permesso d’avvicinarsi a lui col prediletto Giovanni, la Maddalena e le compagne, quali indicibili tormenti proverà il cuore di questa madre nell’alzare gli occhi e nello scorgere, attraverso il pianto, il corpo lacerato del figlio, stirato violentemente sul patibolo, col viso coperto di sangue e imbrattato di sputi, e col capo coronato da un diadema di spine! Ecco dunque il Re d’Israele, del quale l’Angelo le aveva preannunziato le grandezze; ecco Figlio della sua verginità, Colui che Ella ha amato come suo Dio e insieme come frutto benedetto del suo seno. Per gli uomini, più che per sé, Ella lo concepì, lo generò, lo nutrì; e gli uomini l’hanno ridotta in questo stato! Oh, se, con uno di quei prodigi che sono in potere del Padre celeste, potesse essere reso all’amore di sua Madre, e se la giustizia alla quale s’è degnato di pagare tutti i nostri debiti volesse accontentarsi di ciò che Egli ha sofferto! Ma no, deve morire, ed esalare lo spirito in mezzo alla più crudele agonia.

Il martirio di Maria.

Dunque Maria è ai piedi della Croce per ricevere l’addio del figlio, che sta per separarsi da lei; fra qualche istante, di questo suo amatissimo figlio non le resterà che un corpo inanimato e coperto di piaghe. Ma cediamo qui la parola a S. Bernardo, del cui linguaggio si serve oggi la Chiesa nell’Ufficio del Mattutino: « Oh, Madre, egli esclama, considerando la violenza del dolore che ha trapassata l’anima tua, noi ti proclamiamo più che martire, perché la compassione che hai provato per tuo figlio, sorpassa tutti i patimenti che il corpo può sopportare. Non è forse stata più penetrante d’una spada per la tua anima quella parola: Donna ecco il figlio tuo? Scambio crudele! in luogo di Gesù, ricevi Giovanni; in luogo del Signore, il servo; in luogo del Maestro, il discepolo; in luogo del figlio di Dio, il figlio di Zebedeo: un uomo, insomma, in luogo d’un Dio! Come poté la tua anima sì tenera non essere ferita, quando i cuori nostri, i nostri cuori di ferro e di bronzo, si sentono lacerati al solo ricordo di quello che dovette allora soffrire il tuo ? Perciò non vi meravigliate, fratelli miei, di sentir dire che Maria fu martire nella sua anima. Di nulla dobbiamo stupirci, se non di colui che avrà dimenticato ciò che S. Paolo annovera tra i più gravi delitti dei Gentili, l’essere stati disamorati. Ma un tale difetto è lungi dal cuore di Maria; che sia lungi anche dal cuore di coloro che l’onorano! » (Discorso delle dodici stelle). Nella mischia dei clamori e degl’insulti che salgono fino al figlio elevato sulla Croce, nell’aria. Maria ascolta quella parola che scende dall’alto fino a lei e l’ammonisce che d’ora in poi non avrà altro figlio sulla terra che quello di adozione. Le gioie materne di Betleem e di Nazaret, gioie così pure e sì spesso turbate dalla trepidazione, sono compresse nel suo cuore e si cambiano in amarezza. Era la madre d’un Dio, e suo figlio le è stato tolto dagli uomini! Alza per un’ultima volta i suoi sguardi al caro Figlio, e lo vede in preda ad un’ardentissima sete, e non può ristorarlo; contempla i suoi occhi che si spengono, il capo che si reclina sul petto: tutto è consumato!

La ferita della lancia.

Maria non s’allontana dall’albero del dolore, all’ombra del quale è stata trattenuta fino adesso dal suo amore materno; ma quali crudeli emozioni l’attendono ancora ! Sotto i suoi occhi, s’avvicina un soldato a trapassare con una lanciata il costato del figlio suo appena spirato. « Ah, dice ancora S. Bernardo, il tuo cuore, o madre, è trapassato dal ferro di quella lancia ben più che il cuore del figlio tuo, che ha già reso l’ultimo suo anelito. Non c’è più la sua anima; ma c’è la tua, che non può distaccarsene » (Ivi). L’invitta madre rimane immobile a custodire i sacri resti del figlio; coi suoi occhi lo vede distaccare dalla Croce; e quando alla fine gli amici di Gesù, con tutte le attenzioni dovute al figlio ed alla madre, glielo rendono così come la morte l’ha ridotto, ella lo riceve sulle sue ginocchia, che una volta furono il trono sul quale ricevette gli omaggi dei prìncipi dell’Oriente. Chi potrà contare i sospiri ed i singhiozzi di questa madre, che stringe al cuore la spoglia esamine del più caro dei figli? Chi conterà le ferite, di cui è coperto il corpo della vittima universale?

La sepoltura di Gesù.

Ma l’ora passa; il sole declina sempre più verso il tramonto: bisogna affrettarsi a rinchiudere nel sepolcro il corpo di Colui ch’è l’autore della vita. La madre di Gesù raccoglie in un ultimo bacio tutta la forza del suo amore, ed oppressa da un dolore immenso come il mare, affida l’adorabile corpo a chi, dopo averlo imbalsamato, lo distenderà sulla pietra della tomba. Chiuso il sepolcro, accompagnata da Giovanni suo figlio adottivo, dalla Maddalena, dai due discepoli che hanno assistito ai funerali e dalle altre pie donne,

Maria rientra nella città maledetta. La novella Eva.

Vedremo noi, in tutti questi fatti, solo lo spettacolo delle sofferenze sopportate dalla madre di Gesù, vicino alla Croce del figlio? Non aveva forse Dio una intenzione, nel farla assistere di persona alla morte del Figlio? E perché non la tolse da questo mondo, come Giuseppe, prima del giorno della morte di Gesù, senza causare al suo cuore materno un’afflizione superiore a quella di tutte la madri prese insieme, che si sarebbero succedute da Eva in poi, lungo il corso dei secoli? Dio non l’ha fatto, perché la novella Eva aveva una parte da compiere ai piedi dell’albero della Croce. Come il Padre celeste attese il suo consenso prima d’inviare sulla terra il Verbo eterno, così pure richiese l’obbedienza ed il sacrificio di Maria per l’immolazione del Redentore. Non era il bene più caro di questa incomparabile madre, quel figlio che aveva concepito solo dopo aver accondisceso alla divina proposta ? Ma il cielo non poteva riprenderselo, senza che lei stessa lo donasse. Quale terribile conflitto scoppiò allora in quel cuore sì amante! L’ingiustizia e la crudeltà degli uomini stanno per rapirle il figlio: come può lei, la madre, ratificare, col suo assenso la morte di chi ama d’un duplice amore, come suo figlio e come suo Dio? D’altra parte, se Gesù non viene immolato, il genere umano continua a rimanere preda di Satana, il peccato non è riparato, ed invano lei è divenuta la madre d’un Dio. Per lei sola sarebbero gli onori e le gioie; e noi saremmo abbandonati alla nostra triste sorte. Che farà, allora, la Vergine di Nazaret, dal cuore così grande, la creatura sempre immacolata, i cui affetti non furono mai intaccati dall’egoismo che s’infiltra così facilmente nelle anime nelle quali è regnato il peccato originale? Maria, per la sua dedizione unendosi per gli uomini al desiderio di suo figlio, che non brama che la loro salvezza, trionfa di se stessa: una seconda volta pronuncia il suo FIAT, ed acconsente all’immolazione del figlio. Non è più la giustizia di Dio che glielo rapisce, ma è lei che lo cede: e, quasi a ricompensa, viene innalzata a un piano di grandezza che mai la sua umiltà avrebbe potuto concepire. Un’ineffabile unione si crea fra l’offerta del Verbo incarnato e quella di Maria; scorrono insieme il sangue divino e le lacrime della madre, e si mescolano per la redenzione del genere umano.

La fortezza di Maria.

Comprendete ora la condotta di questa Madre ed il coraggio che la sostiene. Ben differente da quell’altra madre di cui parla la Scrittura, la sventurata Agar, la quale dopo aver cercato invano di spegnere la sete d’Ismaele, ansimante sotto la canicola solare del deserto, fugge per non vedere morire il figlio. Maria inteso che il suo è condannato a morte, si alza, corre sulle sue tracce fin che non lo ritrova e l’accompagna al luogo ove dovrà spirare. Ed in quale atteggiamento rimane ai piedi della Croce di questo figlio? La vediamo forse venir meno e svenire? L’inaudito dolore che l’opprime l’ha forse fatta cascare al suolo, o fra le braccia di quelli che l’attorniano? No; il santo Vangelo risponde con una sola parola a tutte queste domande: « Maria stava (in piedi) accanto alla Croce ». Come il sacrificatore sta eretto dinanzi all’altare, così Maria, per offrire un sacrificio come il suo, conserva il medesimo atteggiamento. S. Ambrogio, che col suo tenero spirito e la profonda intelligenza dei misteri, ci ha tramandato preziosissimi trattati del carattere di Maria, esprime tutto in queste poche parole: « Ella rimase ritta in faccia alla Croce, contemplando coi suoi occhi il Figlio, ed aspettando, non la morte del caro Figlio, ma la salvezza del mondo » (Comment. su S. Luca. c. XXIII).

Maria, madre nostra.

Così la Madre dei dolori lungi dal maledirci, in un simile momento, ci amava e sacrificava a nostra salvezza perfino i ricordi di quelle ore di felicità che aveva gustate nel Figliol suo. Facendo tacere lo strazio del suo cuore materno, Ella lo rendeva al Padre come una sacro deposito che le aveva affidato. La spada penetrava sempre più nell’intimo dell’anima sua; ma noi eravamo salvi: da semplice creatura, essa cooperò insieme col figlio alla nostra salute. Dopo di ciò, ci meraviglieremo se Gesù scelse proprio questo momento per eleggerla Madre degli uomini, nella persona di Giovanni che rappresentava tutti noi? Mai, come allora, il Cuore di Maria era aperto in nostro favore. Sia dunque, ormai, l’Eva novella, la vera « Madre dei viventi ». La spada, trapassando il suo Cuore immacolato, ce ne ha spalancata la porta. Nel tempo e nell’eternità, Maria estenderà anche a noi l’amore che porta a suo Figlio, perché da questo momento ha inteso da Lui che anche noi le apparteniamo. A riscattarci è stato il Signore: a cooperare generosamente al nostro riscatto è stata la Madonna.

Preghiera.

Con tale confidenza, o Madre afflitta, oggi noi veniamo con la santa Chiesa, a renderti il nostro filiale ossequio. Tu partoristi senza dolore Gesù, frutto dal tuo ventre; ma noi, tuoi figli adottivi, siamo penetrati nel tuo Cuore per mezzo della lancia. Con tutto ciò amaci, o Maria, corredentrice degli uomini! E come potremmo noi non cantare all’amore del tuo Cuore sì generoso, quando sappiamo che per la nostra salvezza ti sei unita al sacrificio del tuo Gesù? Quali prove non ci hai costantemente date della tua materna tenerezza, tu che sei la Regina di misericordia, il rifugio dei peccatori, l’avvocata instancabile di tutti noi miseri? Deh! o Madre, veglia su noi; fa’ che sentiamo e gustiamo la dolorosa Passione di tuo Figlio. Non si svolse, essa, sotto i tuoi occhi? non vi prendesti parte? Facci dunque penetrare tutti i misteri, affinché le nostre anime, riscattate dal sangue di Gesù, e lavate dalle tue lacrime, si convertano finalmente al Signore e perseverino d’ora innanzi nel suo santo servizio.

L’AGONIA DI GESU’: SESTO VENERDI’ DI QUARESIMA

SESTO VENERDÌ DI QUARESIMA

[Don U. Banci: L’AGONIA DI GESU’, F. Pustet ed. Roma, 1935 – impr.]

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

SESTA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Consummatum est.

Tutto è compiuto.

[GIOVANNI, cap. XIX, v. 30]

CONSIDERAZIONE

Nel decretare la redenzione dell’uomo Iddio fissò e volle, fin dai primi tempi, per mezzo dei Profeti rendere noto al mondo, nei suoi particolari, il programma che il Redentore avrebbe dovuto svolgere durante gli anni della sua vita mortale, subordinando al completo sviluppo di esso la umana rigenerazione. Ed il Figlio, cui è sacra la volontà del Padre e che ardentemente desidera la salvezza nostra, nell’istante stesso in cui incarnandosi nel seno purissimo di Maria fa il suo primo ingresso nel mondo, con la piena consapevolezza che gli viene da quello spirito di intelligenza e di scienza, che illumina l’anima sua e che gli fa presenti alla mente tutte le circostanze più dolorose della sua vita e della sua morte, accetta il divino mandato, dicendo al Padre suo: Ecco che io vengo a fare, o Dio, la tua volontà. E se leggi quanto gli Evangelisti hanno narrato di Gesù, facilmente vedi come Egli abbia tenuto fede alla sua promessa e quanto giustamente avesse scritto di Lui il Salmista: Nel volume della legge sta scritto di me: io mi compiaccio di fare la tua volontà, mio Dio, e la tua legge sta in mezzo al mio cuore -. Tu lo senti infatti continuamente ripetere che unico scopo, per cui è al mondo, è quello di fare la volontà del Padre suo: Sono disceso dal Cielo, così leggiamo in S. Giovanni, non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato [GIOVANNI, cap. VI. v. 38]. E questo il suo cibo quotidiano, come Egli stesso, quando un giorno ai discepoli che con affettuosa premura, essendo l’ora tarda e sapendolo affaticato e stanco, lo invitarono a prendere cibo, disse: Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato, e così compiere l’opera sua [GIOVANNI, cap. IV, v. 34]. Ed a questa augusta volontà è pronto a sacrificare tutto, anche gli affetti più cari. Era fanciullo di appena dodici anni, quando alla Madre sua, che dopo tre giorni di penose ricerche, ritrovandolo al tempio, gli domanda perché mai l’avesse lasciata in quella profonda amarezza, non dubita di rispondere: Perché mi cercavate? Non sapevate come io debbo essere in quel che spetta al Padre mio? 2 [S. LUCA, cap. II, v. 49]. E dinanzi a coloro che in qualunque modo avessero tentato impedirgli il compimento di tale volontà, si accendeva di un santo sdegno. Predice ai suoi discepoli le persecuzioni ed i dolori che avrebbe sofferto nella sua passione, ed a Pietro, che lasciandosi trascinare dall’affetto per il Maestro esclama scandalizzato: Non sia mai vero o Signore, simil cosa non t’avverrà mai, risponde con quelle energiche parole: Va’ lontano da me, satana; tu mi sei di scandalo, perché non senti quel che è di Dio, ma quel che è degli uomini'[MATTEO, cap. XVI, v. 22, 23]. E quando nel Getsemani Pietro snudò la spada, volendosi opporre all’arresto del Maestro, questi, imponendogli di rimettere la spada nel fodero, disse: Non berrò io il calice che il Padre mi ha dato?[S. GIOVANNI, cap. XVIII, v. 10]. E tu sai, anima cristiana, quanto costasse a Gesù fare la volontà del Padre suo. Gli costò tutta una vita di umiliazioni e di dolori, di fatiche e sudore di sangue. Quando durante l’agonia dell’orto, prostrato a terra, chiede al Padre che gli sia allontanato il calice di amarezza, Egli sperimenta nella sua natura umana tutta la ripugnanza per il sacrificio che gli si domanda; ma fermo è il suo proposito di fare sempre la volontà del Padre suo. Si accende allora in Lui una fiera lotta che lo prostra a terra spaventato e tremante, e per lo sforzo sovrumano che in quel momento deve compiere per sottomettere la sua alla volontà del Padre, affinché volontario e meritorio fosse il suo sacrificio, suda sangue. Quelle gocce di sangue che gli solcano il volto, gli bagnano le vesti e scorrono a terra, mentre ti dicono meglio che ogni parola quanto gli costi fare la volontà del Padre, sono anche il segno glorioso della vittoria della sua ferma volontà sulla natura riluttante. Ed ora che si trova agli estremi, volgendo un rapido sguardo alla sua vita e ripensando ad uno ad uno a tutti gli anni della sua dolce infanzia, della sua laboriosa gioventù, della sua virilità meravigliosa e feconda di bene, il suo Cuore ha un sussulto di gioia. Tutto ciò che di Lui era stato scritto negli eterni decreti, tutto quanto fu raffigurato nei Patriarchi e nei sacrifici e fu predetto dai Profeti, è ormai un fatto compiuto; gli oracoli, che come una minaccia pendevano sulla sua vita, l’uno dopo l’altro si sono tutti compiuti; non rimane altro che si elevi, secondo la predizione del Salmista [Samo XVIII], un inno di trionfo e di lode per aver eseguito tutti i voleri del Padre. E quest’inno erompe dalle sue labbra quando, appena assaporata la disgustosa bevanda offertagli dal soldato, col giusto e santo orgoglio del trionfatore, che sta per riposarsi nella pace del trionfo, esclama: Tutto è compiuto. È questa dunque, anima cristiana, non già un’espressione di rassegnazione all’inevitabile, ma un grido di gioia per aver raggiunto la mèta tanto bramata. E le schiere invisibili degli Angeli, che raccolti attorno alla croce avevano assistito all’agonia del loro Dio, facendo eco alle sue parole, avranno elevato al cielo il canto della loro ammirazione, che dopo di loro ripeterà S. Paolo: Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e morte di croce [Epistola ai Filippesi, cap. II, v. 8]. Anche tu, anima cristiana, hai una grande missione da compiere qui sulla terra; e la tua è la stessa missione di Gesù: fare cioè la volontà di Dio. Questo, che è lo scopo vero ed unico della tua vita, ti fu solennemente annunziato dalla Chiesa, quando bambino di pochi giorni fosti condotto al fonte battesimale per essere rigenerato alla vita soprannaturale. Allora il Sacerdote nell’iniziare la santa cerimonia rivolse a te quelle stesse parole, che un giorno Gesù disse ad un giovane, che gli domandò che cosa avrebbe dovuto fare per ottenere la vita eterna: Se vuoi ottenere la vita eterna, osserva i comandamenti [Rituale romano]. Quindi anche tu, e con maggior ragione di Gesù, devi ripetere quello che Egli diceva di sé : Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato 3 [S. GIOVANNI, loc. cit.] Sì, anima cristiana, tu sei al mondo non per volontà tua, ma esclusivamente per volontà di Dio, il quale ti ha dato la vita per quest’unico scopo: amare e servire Dio; ed è così, e soltanto così che potrai conseguire il fine e raggiungere la vera grandezza e la vera felicità. Un giorno, narra l’evangelista S . Luca, una donna levando alta la voce di mezzo alla folla, disse a Gesù: Beato il seno che ti ha portato e le poppe che hai succhiate, e Gesù subito le rispose: Beato è piuttosto chi ascolta la parola di Dio e la osserva 11 [S. LUCA, cap. XI, v . 27, 28]. – Con questa risposta Gesù non volle certamente negare che Maria fosse grande e felice per essere la Madre sua, ma volle dire che la vera causa della sua grandezza non consisteva nei privilegi di cui era stata arricchita, ma nell’aver Essa ascoltata la parola di Dio, ed avere uniformata pienamente la sua volontà a questa parola. Che cosa infatti, o anima cristiana, giovò agli Angeli essere stati dotati di una natura eccellente, arricchiti di intelligenza, di bellezza e di grazia, quando non seppero ubbidire al volere del loro Creatore? Da Angeli divennero demoni, ed un inferno orribile fu e sarà la loro infelice ed eterna dimora. E che cosa giovò ai nostri infelici progenitori aver ricevuto da Dio, sempre generoso verso le sue creature, tanti doni di natura e di grazia ed essere in possesso di un giardino di delizie, quando poi osarono disobbedire al comando ricevuto? Spogliati di tutti i doni videro il paradiso terrestre convertito in una valle di lacrime. Maria invece, quando ricevette l’annunzio dell’Angelo, che veniva da parte di Dio a chiedere l’assenso della sua volontà, chinando la testa disse: Si faccia di me secondo la tua parola 1 [S. LUCA, cap. I , v. 38]. E fu proprio per questa obbedienza umile, pronta, generosa che fu elevata alla grandezza sublime di Madre di Dio, che tutte le generazioni avrebbero chiamata beata; poiché fu proprio allora che il Verbo discese nel suo seno e si fece carne. Beata te, le dirà S. Elisabetta, che hai creduto, perché s’adempirono le cose dette a Te dal Signore 2 [S. LUCA, cap. 1, v. 45]. E in tanti modi Gesù cercò di far comprendere ai suoi discepoli questa verità fondamentale. Fu avvertito un giorno che sua Madre e i suoi fratelli volevano parlargli, ed Egli rispose: Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli? e stesa la mano verso i suoi discepoli soggiunse: Ecco mia madre e ì miei fratelli, perché chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, colui mi è fratello e sorella e madre [S. MATTEO, cap. XII, v. 48 e seg.]. E nel discorso che tenne agli Apostoli nell’ultima cena, più volte con dolce insistenza ritornò su questo argomento; se mi amate, osservale i miei comandamenti … chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello è che mi ama22 [S. GIOVANNI, cap. XIV, v. 15, 21], assicurandoli che il premio di questa obbedienza sarebbe una gioia senza limiti: v’ho detto questo, affinché sia in voi la mia gioia e la gioia vostra sia completa [S. GIOVANNI, cap. XV, v. 11]. E S. Paolo, dopo aver detto che Cristo fu obbediente fino alla morte di croce, subito soggiunge: Per la qual cosa Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome [S. PAOLO, loc. cit.]. Dunque lo stesso Gesù è stato glorificato non per i suoi sapienti discorsi, né per i suoi strepitosi miracoli, ma per la sua obbedienza; e l’obbedienza a Dio è anche per te la via unica della salvezza. Non ti contentare dunque di pii desideri, di belle parole o di semplici promesse; no, ciò non basta; potresti fare anche miracoli, ma senza la sottomissione completa della tua volontà a quella di Dio, dimostrata con la docile osservanza dei suoi comandamenti, dei precetti della Chiesa, dei doveri del tuo stato, tu non sarai mai trovata degna del regno dei cieli. Anzi incorreresti in quell’amaro rimprovero che Gesù rivolse ai Farisei: Ipocriti, ben profetò di voi Isaia dicendo: questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore e lontano da me [S. MATTEO, cap. XV, v. 7, 8]. D’altronde non tutti quelli che dicono; Signore, Signore, ha detto Gesù, entreranno nel regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei Cieli, questi entrerà nel regno dei Cieli [S. MATTEO, cap. VII, v. 21]. Verrà anche per te, anima cristiana, il momento di dover dire: «Tutto è finito». Lo dirà il peccatore nel punto della sua morte, e sulle sue labbra questo grido avrà un senso di profonda tristezza: sono finiti i piaceri, sono svanite le speranze; e toccherà con mano come nel mondo « tutto è vanità ed afflizione di spirito » [Ecclesiaste, cap. II, v. 17], e non senza orrore si vedrà alle soglie di una eternità di miserie e di dolori. Lo dirà anche il giusto, ma per lui vorrà significare il termine dei patimenti ed il principio della gloria, poiché sta scritto: L’uomo obbediente canterà vittoria [Proverbi, cap. XXI, v. 28]. Ti sia dunque familiare quella preghiera, che Gesù in uno dei momenti più desolati della sua vita ripeteva: Sia fatta la tua, o Padre, non la mia volontà; e ripetila più col cuore che con le labbra nelle tue pene intime, come nelle pubbliche calamità; ripetila con tutte le forze del tuo spirito, con tutto lo slancio generoso del tuo cuore, rapito d’amore e dominato dall’unico desiderio di essere pronta a tutto, pur di compiere la volontà sempre adorabile di Dio. Così potrai, con la tranquillità del servo buono e fedele, affidarti al giudizio di Dio, ripetendo con fiducia le parole di S. Paolo a Timoteo: Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi (ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la corsa, ho conservata la fede). In reliquo reposita est mihi corona justitiæ, quam reddet mihi Dominus illa die, justus judex (del resto è serbata a me la corona della giustizia, la quale a me in quel giorno renderà il Signore, giusto giudice) [Epistola IIa Timoteo, cap. IV, v. 7, 8].

Breve pausa, quindi si reciti la seguente:

PREGHIERA

O mio buon Gesù, se in questo momento io andassi ripensando alla mia vita passata, che cosa vedrei? Non altro che continue trasgressioni alla vostra santa legge e peccati senza numero. Purtroppo ho vissuto fino ad ora per fare non già la vostra, ma la mia volontà, ripetendo coi fatti, se non con le parole, il grido insano di Lucifero: Non serviam (non ti voglio servire). E se in questo istante mi chiamaste a rendervi conto del mio operato, che cosa potrei aspettarmi da Voi, che pur essendo infinitamente misericordioso, siete anche infinitamente giusto, né potete lasciare la colpa invendicata? Misero me! dinanzi a questa croce, ove vi siete immolato per compiere la volontà del Padre vostro, come diventano inescusabili le mie ribellioni, come ridicoli i miei lamenti! E non meriterei altro che essere gettato via come servo iniquo ed infingardo, lontano da Voi, al buio, ove è pianto e stridore di denti. Abbiate pietà, o Signore, secondo la vostra grande misericordia, di quest’anima, che vi costa tanti dolori e tanto sangue! Voi che avete viscere di bontà per i peccatori, fatemi ben comprendere che non si può servire a due padroni, e che Voi solo siete veramente degno di tutto il mio amore. Insegnatemi vi dirò col Salmista, a fare la vostra volontà.

— Doce me Domine, facere voluntatem tuam — a farla sempre, anche quando essa mi chiede dei sacrifici, perché la grazia vostra non mi mancherà mai e tutto potrò col vostro aiuto. Ravvivate in me il desiderio della mia salvezza, affinché abbandonando tutto vi segua e possa così ricevere un giorno il centuplo e possedere la vita eterna.E Voi, Madre mia Maria, che umile nella vostra eccelsa grandezza, avete saputo essere sempre serva fedele di Dio, ottenetemi la grazia di imitare il vostro esempio; perché anch’io, come il servo buono e fedele, meriti di entrare un giorno nel gaudio del mio Signore.

Pater, Ave e Gloria.

L’alta impresa è già compiuta,

E Gesù con braccio forte

Negli abissi la ria morte

Vincitor precipitò.

Chi alle colpe ornai ritorna

Della morte brama il regno,

E di quella vita è indegno,

Che Gesù ci ridonò.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus,

ad locum supplicii tamquam

ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis afFigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato; abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la lancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.  Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

 

 

IL PATIRE

IL PATIRE.

[G, Dalla Vecchia: Albe Primaverili; G. Galla ed. Vicenza. 1911 – impr.]

” Solvite templum hoc, et in tribus diebus excitabo illud. ,,

Disfate questo tempio, e in tre giorni lo rimetterò in piedi.

( Joan. V, 19)

ESORDIO. — Gesù, un dì, entrava nel tempio di Gerusalemme. Ma il luogo santo pareva una piazza di traffico, dove mercanti e banchieri facevano lauti guadagni.

— Acceso di santo zelo, lampeggiando dal volto raggi di maestà divina, con piccole cordicelle di giunco fa una frusta, caccia via i profanatori ed intima di rispettare la casa del Padre suo, casa di orazione. Cessato il primo stupore, i Giudei gli chiedono un segnale, una prova, che Egli aveva il potere di fare cose tanto straordinarie… E Gesù: Voi disfate questo tempio ed Io in tre giorni lo rimetterò in piedi. Solvite templum hoc, et in tribus diebus excitabo illud. I Giudei credono che Ei parli del loro tempio insigne, e ne fanno le meraviglie; ma Gesù alludeva alla sua passione e morte. Allora essi, coi flagelli, la croce, e la morte, avrebbero disfatto il suo corpo, tempio vivo della divinità, ma Egli in tre giorni lo avrebbe rimesso in piedi, risorgendo glorioso dalla tomba. Dunque il caro Salvatore, fino dai primi giorni della sua predicazione, accenna alla sua passione e morte. Questo è il suo tema favorito nei tre anni che lo dividono dal Calvario: sospira la grande ora dei suoi strazi; anela alla sua sposa, la Croce; insegna che il patire sarà l’eredità, il distintivo dei suoi amanti, ai quali però riserva una gloriosa risurrezione ed eterni trionfi. — Incomincio.

Parte prima.

Il programma di Gesù Cristo è ben diverso da quello del mondo. Sentitelo dal labbro del divino Maestro : « In verità vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. » (Ioan. XVI, 20). È un programma, che spaventa e conforta, affligge ed innalza, nobilita, assicura gioie vere, intime, eterne… — Cerchiamo di penetrarne il segreto…

1° – Tutti i buoni sono provati dalle tribolazioni e dalle sventure: umiliati, derisi, nella povertà, nelle angoscie, esterne ed interne… La vita di Gesù, della Vergine, dei Santi, degli eletti, s’impernia sulla parola « patire » ; si avvinghia, come edera, all’albero sanguinante della Croce

— I cattivi godono, tripudiano negli onori, nell’abbondanza, … nei piaceri… Ma poi ai buoni un premio immortale, … ed anche qui, sulla terra, una felicità, che può comprendersi solo da chi soffre per amore di Dio. Beatus vir qui suffert tentationem, quoniam, cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae (Iacob. I).

2° – A che serve il patire?

(a) A fare penitenza delle colpe commesse, e compierne il purgatorio durante la vita… Tutti abbiamo peccato; peccavimus et inique egimus, (Daniele III, 29) dunque col patire dobbiamo espiare i nostri falli… ut destruatur corpus peccati (Rom. VI, 6).

(b) Per esercizio di virtù. Nelle sofferenze il cristiano esercita la fede, la speranza, l’amore, la pazienza, impara a compatire chi soffre… Assomigli a Gesù, che ha patito per noi, qui passus est prò nobis, lasciando a noi l’esempio del modo di seguire i suoi passi; vobis relinquens exemplum, ut sequamini vestigia eius (I Petr. II, 2). — D’altra parte, la vera virtù si consolida e si perfeziona al fuoco lento della tribolazione; virtus in infìrmitate perficitur (II Cor. XII, 9).

(c) Per distaccarti da quell’oggetto, da quelle creature…, che troppo ami, e sono la causa dei tuoi falli. — Dio ti ama; quem enim diligit Deus, castigat (Hebr. XII, 6); si serve, per correggerti, delle stesse creature… e ti salva.

(d) Per distaccarti da te stesso… Nella prosperità si ama la vita… ; nel dì della sventura riesce dolce il morire; si prova il bisogno di avvicinarsi a Dio…, dal quale viene la vera felicità. – La religione t’insegna a trovare, nei dolori, fonti di meriti… Qui vult venire post me, abneget semetipsum, tollat crucem suam quotidie… (Luca IX, 23).

3° – Bisogna però patire per Gesù Cristo; e questo si può avere in quattro modi…

(a) Il primo modo è di essere perseguitati per la Fede.

— I martiri ci fanno coraggio coi loro eroici sacrifici, con la loro generosità nel sopportare i più atroci tormenti, piuttosto che rinnegare la dottrina del divino Maestro. —

Adesso i veri Cattolici sono l’oggetto di una persecuzione lenta, insidiosa, ma incessante e terribile… Non ci perdiamo di animo. Siamo figli di martiri; del loro sangue furono imporporate le belle contrade della nostra italica terra… – Lungi da noi il vile timore e gli umani riguardi; lungi le transazioni ed il venire a patti coi nemici della Chiesa e del Papa… Dobbiamo essere soldati di Gesù Cristo, tutti di un pezzo; forti, intrepidi, sottomessi alle direzioni del Pontefice e dei vescovi… Il trionfo è certo, che il trionfo sta nella lotta. — Nondum usque ad sanguinem restitistis adversus peccatum repugnantes. (Hebr. XII).

(b) Il secondo è patire per Gesù Cristo le angustie e le lotte, che si devono sostenere nel suo servizio. È una battaglia continua contro il demonio, il mondo, e la carne. — Militia est vita hominis super terram. (Iob. 7). — Per innalzare le mura della nostra Gerusalemme interiore, con una mano bisogna lavorare, con l’altra combattere.

— La virtù costa fatica e sacrificio… Ma ogni pena è un merito; ogni sforzo un premio, ogni passo è una vittoria; la ricompensa infinita, eterna…, Dio. — Existimo enim, quod non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam, quæ revelabilur in nobis. (Rom. VIII, 18).

(c) Il terzo modo di patire per Gesù Cristo è sopportare con pazienza le tribolazioni della vita… Tutti devono portare ogni giorno la loro croce… La ricevi: con sommessione; te la manda il buon Dio… ; con pazienza, in espiazione dei tuoi peccati… ; con rassegnazione, uniformandoti alle intenzioni divine… ; con riconoscenza ; la croce è un fuoco lento, che purga lo spirito, e rende bella la virtù… Beati quelli che piangono, perché saranno consolati (Matt. V, 5).

— Se ti sdegni, tu devi pure soffrire; ma il tuo dolore è senza merito, senza conforto, senza premio. Ti torna forse utile, vantaggioso?

— Riposiamo.

(d) Il vero cristiano è generoso col suo Signore, e per questo impone a se stesso delle mortificazioni esterne ed interne. Ecco il quarto modo di patire per Gesù Cristo. — Per seguire questo divino Maestro bisogna rinnegare se stessi, cioè i propri sensi, l’amor proprio, le proprie idee, gli affetti, la natura, il cuore… Gesù ne è l’inarrivabile modello. Egli volle essere sommerso in un oceano di strazi per farci coraggio in questa lotta così difficile. — Sii fedele alle astinenze ed ai digiuni della Chiesa… Non ti risparmiare, non usarti troppe delicatezze…, che i delicati e gl’imbelli non arrivano al regno dei cieli… – Pensiamo, che non siamo più di noi stessi, mentre siamo stati comperati a caro prezzo ; (I Cor. VI) non con l’oro e l’argento, ma col sangue prezioso dell’Agnello immacolato (I Petri 1, 18). Dunque diamo gloria al Signore mortificando il nostro corpo, perchè la vita di Gesù si manifesti anche nel nostro esteriore. Semper mortificationem  Jesu in corpore circumferentes, ut et vita Jesu manifestetur in corporibus vestris. (2. Cor. IV., 10).

4° – Gesù poi ci assicura, che al dolore succederà la gioia, alla tristezza il gaudio… Nel momento del dolore, guarda questo divino Maestro, che sale il Calvario per acquistare a noi gli eterni gaudii; senza tenere conto delle umiliazioni, porta la croce, su cui si lascia crocifiggere. Muore su quel legno ferale… ; ma ora trionfa alla destra del Padre (confronta ad Hebreos XII, 2.).

– Dunque lo segui nella via del patire. Egli ti consolerà!

(a) sulla terra, nell’ orazione…, nella comunione…, con gioie interne… Sicut socii passionum estis, sic eritis et consolationis. (2 Cor. 1., 7). — Ti consolerà (b) nel cielo.

— Là troverai il riposo, la corona, la pace, Dio. — Sì, Dio; e in Lui il premio, la felicità, il trionfo. — Ibi fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia (S. Agost.).

— Non vi sgomentate: neppure una delle vostre lacrime andrà perduta; ma tutte, raccolte dalla mano amorosa del Padre che sta. nei cieli, si muteranno in gemme per la vostra eterna corona. Si tamen compatimur, ut et conglorificemur (Rom. V, 17).

Prendiamo dunque la nostra croce, che è la nostra grande e gloriosa eredità. — Scelgano pure i mondani i piaceri e le delizie terrene, che tante volte sono veleno di morte. — Noi invece prendiamo il calice di amarezza, di angoscia, che ogni dì ci porge il buon Dio… È il calice prediletto del nostro divino Maestro… Generosi, con Lui, vi appressiamo le labbra, gustandone con amore fino all’ultima stilla… È calice di salute e di vita; ed in esso troveremo l’amore di Dio, troveremo Dio… Ed in Lui un’ebbrezza di pace e soavità, che mai viene meno… Un altro giorno in quello stesso calice troveremo il liquore prezioso della gioia, dell’ immortalità… Allora il Signore c’inonderà della sua felicità… Ed innanzi a tanto gaudio, che cosa sono mai le piccole e momentanee tribolazioni della vita?

— Dio, Dio, esclamava il grande Agostino, tu sei la mia eredità, il mio calice: ora con la tua grazia, ed un altro giorno con la tua gloria, mi ripagherai ad esuberanza del poco che io posso soffrire per te. — Bibant alii mortiferas voluptates; pars calicis mei Dominus, et calix meus inebrians quam præclarus est! (In Ps. XV).

PECCATO ORIGINALE

PECCATO ORIGINALE

[G. Bertetti:  “I tesori di S. Tommaso D’Aquino”. S.E.I. Ed. 1918]

1. Il peccato dei nostri primi padri. — 2. Sue conseguenze. — 3. La riparazione (Comp. Theol., 189-200).

1. Il peccato dei nostri primi padri. — Il diavolo, che già aveva peccato, vedendo l’uomo nella condizione di poter giungere a quell’eterna felicità da cui esso era caduto, e in pari tempo nella condizione di poter peccare, cercò di stornarlo dalla rettitudine della giustizia, assalendolo dalla parte più debole, col tentar la donna in cui era men vigoroso il dono e il lume della sapienza. E per inclinarlo più facilmente nella trasgressione del precetto, escluse, con la menzogna il timore della morte e gli promise ciò che l’uomo desidera naturalmente: lo scanso dell’ignoranza (« s’apriranno i vostri occhi »), l’eccellenza della dignità (« sarete come dei »), la perfezione della scienza (« sapendo il bene e il male »). L’uomo infatti da parte dell’intelletto fugge naturalmente l’ignoranza e desidera la scienza; da parte della volontà, che è naturalmente libera, desidera tale altezza e perfezione da essere soggetto a nessuno o almeno a più pochi che può. a donna adunque desiderò nello stesso tempo l’altezza promessale e la perfezione della scienza. Vi s’aggiunse ancora la bellezza e soavità del frutto che attiravala a cibarsene: e così, disprezzando il timore della morte, trasgredì il precetto di Dio col mangiare il frutto proibito. Cinque peccati ella commise pertanto: — 1° di superbia, col desiderio disordinato d’eccellenza; — 2° di curiosità, desiderando la scienza oltre i termini prefissi; — 3° di gola lasciandosi attirare dalla soavità del cibo a mangiarne; — 4° d’infedeltà, con un falso concetto di Dio, mentre credette alle parole del diavolo contro a quelle di Dio; — 5° di disubbidienza, trasgredendo il comando di Dio. Dalla persuasione della donna il peccato giunse fino all’uomo, il quale tuttavia, come dice l’Apostolo, non fu sedotto come la donna, non avendo egli creduto alle parole del diavolo contro quelle di Dio: egli non poteva supporre che Dio avesse fatto una minaccia menzognera o l’avesse inutilmente proibito da una cosa utile. Fu però attirato dalla promessa del diavolo, desiderando indebitamente l’eccellenza e la scienza; quindi la sua volontà s’allontanò dalla rettitudine della giustizia, volle contentar la donna, la seguì nella trasgressione del precetto di Dio e mangiò il frutto proibito.

Conseguenze del peccato originale. — L’integrità così ben ordinata dei nostri primi padri era tutta causata dalla soggezione dell’umana volontà a Dio: perciò, sottratta l’umana volontà alla soggezione divina, ebbe fine necessariamente quella perfetta soggezione delle inferiori forze alla ragione e del corpo all’anima. Per conseguenza l’uomo sentì nell’inferiore appetito sensibile i moti disordinati della concupiscenza e dell’ira e delle altre passioni: non più secondo l’ordine della ragione, ma ad essa ribelli, ma ottenebranti e quasi sconvolgenti nel maggior numero di volte. Quest’è la ripugnanza della carne verso lo spirito, della quale parla la Scrittura. Infatti, poiché l’appetito sensitivo, come anche le altre forze sensitive, opera per mezzo d’organi corporei, mentre la ragione opera senz’alcun organo corporeo, convenientemente s’imputa alla carne ciò che appartiene all’appetito sensitivo: s’attribuisce allo spirito ciò che appartiene alla ragione, come sogliono chiamarsi sostanze spirituali quelle che son separate dai corpi. Ne seguì pure che il corpo sentisse i difetti della corruzione e che perciò l’uomo incorresse nella necessità di morire, non avendo più la forza di mantenere in perpetuo il corpo animato con dargli la vita. L’uomo divenne dunque passibile e mortale: non solo potendo patire e morire come prima, ma avendo quasi una necessità di patire e di morire. Molti altri difetti derivarono per conseguenza all’uomo. Abbondando nell’appetito inferiore i moti disordinati delle passioni, e mancando anche nello stesso tempo alla ragione quel lume di sapienza che divinamente illustrava la volontà mentre era soggetta a Dio, l’uomo sottomise il suo affetto alle cose sensibili, fra le quali, allontanandosi da Dio, peccò in molti modi; inoltre l’uomo si rese schiavo degli spiriti immondi ripromettendosene l’aiuto nelle sue imprese. Di qui nel genere umano l’idolatria e molti altri peccati: e quanto più l’uomo vi rimase corrotto, tanto più s’allontanò dalla conoscenza e dal desiderio dei beni spirituali e divini. – Al genere umano era stato attribuito da Dio nel primo padre il bene della giustizia originale in modo che derivasse ai posteri. Privato di questo bene il primo uomo per propria colpa, dovettero pure esserne privati tutti i discendenti, i quali dopo il peccato del primo padre nacquero tutti senza giustizia originale e coi difetti che ne derivano. Né questo è contro l’ordine della giustizia, quasi che Dio punisca nei figli la colpa del primo padre: perché questa pena non è altro che la sottrazione di quello che sovrannaturalmente f u concesso da Dio al primo uomo e che per mezzo del primo uomo doveva derivare ad altri. Agli altri pertanto ciò non era dovuto, se non come eredità del primo padre. Se un sovrano desse a un suo soldato un feudo da trasmettere poi in eredità agli eredi, e se il soldato mancasse contro il sovrano in modo da perdere il feudo, anche gli eredi ne sarebbero giustamente privati.

Un’altra questione: — Ci è imputato a colpa un male, quando è in nostra potestà il farlo e il non farlo; ora non è in nostra potestà il nascere con la giustizia originale o senza di essa: dunque l’esser nati privi della giustizia originale non dovrebbe aver ragione di colpa. — Questa difficoltà si risolve agevolmente, distinguendo fra persona e natura. Come in una sola persona ci sono molte membra, così in una sola umana natura ci son molte persone, sicché per la partecipazione della specie i molti uomini si comprendono quasi come un sol uomo. Or bene, nel peccato d’un sol uomo si fanno con diverse membra diversi peccati, e affinché ci sia colpa non si richiede che ciascuno di questi peccati siano volontari per la volontà del membro che fa il peccato: basta che siano volontari per la volontà di ciò che nell’uomo è principale, cioè la parte intellettiva, perché al comando della volontà intellettiva non può la mano non percuotere, non può il piede non camminare. Appunto in questo modo il difetto dell’originale giustizia è peccato di natura: perché deriva dalla volontà disordinata del primo principio nella natura umana, ossia il primo padre. Essendo volontario per rispetto alla natura, passa in tutti quelli che dal primo principio ricevono la natura umana, vi passa come in membra del primo principio: e si dice peccato originale, perché è derivato per origine dal primo padre nei posteri. Gli altri peccati, cioè gli attuali, riguardano immediatamente la persona che pecca: il peccato originale riguarda direttamente la natura, che, infestata dal peccato del primo padre, infetta la persona dei figli.

3. La riparazione. — Quantunque il peccato del primo padre abbia infettato tutta la natura umana, questa non poté esser riparata dalla penitenza del primo padre né da qualsiasi altro suo merito. È manifesto che la penitenza d’Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto individuale, che non poteva redintegrare tutta la natura umana. Adamo con la penitenza riacquistò la grazia, non la pristina innocenza: anche qui è manifesto che lo stato di giustizia originale fu un dono speciale di grazia; ora, la grazia non s’acquista per meriti, ma si dà gratuitamente da Dio. Come dunque il primo uomo ebbe da principio l’originale giustizia non per merito ma per dono di Dio: così, e molto meno, poté dopo il peccato meritarsela con la penitenza o con qualsiasi altra opera. Eppure, bisognava che l’umana natura così infetta fosse riparata dalla divina provvidenza. Se non si fosse tolta questa infezione, l’uomo non avrebbe potuto giungere alla perfetta beatitudine: perché la beatitudine, essendo il bene perfetto, non tollera alcun difetto, e massimamente quello che è peccato, che è contrario alla virtù e alla via della beatitudine. Dunque, se non fosse stata riparata l’umana natura, l’uomo non avrebbe giammai raggiunto il suo ultimo fine, e sarebbe così rimasta frustrata l’opera di Dio in una creatura tanto nobile. — Inoltre l’uomo, fin quando si trova in questa vita mortale, non può esser né confermato irremovibilmente nel bene, né ostinato irremovibilmente nel male. Non conveniva dunque che la divina bontà, tanto superiore alla potenza della creatura nel fare il bene, lasciasse vana del tutto la possibilità che ha l’umana natura d’esser purgata dall’infezione del peccato. – Ma l’umana natura, come s’è dimostrato, non poteva esser riparata né per mezzo d’Adamo né per mezzo di qualsiasi semplice uomo: sia perché nessun uomo da solo sopravanzava tutta la natura, sia perché nessun semplice uomo può esser causa di grazia. E per la medesima ragione l’umana natura non poteva esser riparata da un Angelo: sia perché un Angelo non può esser causa di grazia, sia perché un Angelo non può esser premio dell’uomo quanto all’ultima beatitudine perfetta, a cui doveva l’uomo esser revocato, e in cui l’uomo e l’Angelo son pari. – Dio dunque soltanto poteva riparare l’umana natura. Ma s’Egli l’avesse riparata con la sola sua volontà e virtù, non sarebbe stato conservato l’ordine della giustizia, la quale esige per il peccato una soddisfazione. Ma in Dio non può esserci né soddisfazione né merito: perché la soddisfazione e il merito son cose proprie di chi dipende da un altro. Non competendo a Dio soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, e non potendolo un semplice uomo, fu conveniente che Dio si facesse uomo, affinché così fosse un solo e il medesimo chi potesse e riparare e soddisfare. Quest’è la causa che l’Apostolo assegna della divina incarnazione: « Venne Cristo Gesù in questo mondo a salvare i peccatori » (I Tim., I, 15).

LA CARITA’

LA CARITÀ.

[G. Dalla Vecchia: Albe primaverili; G. Galla ed. Vicenza, 1911 -impr.]

“Dicit ei Jesus : Da mihi bibere.”

[Gesù le dice: Dammi da bere.]

(Joan. IV. 7)

ESORDIO. — È sul mezzodì; hora erat quasi sexta; e Gesù, stanco ed affranto, siede sul pozzo di Giacobbe, presso la città di Sichem, nella Samaria. — Una donna del popolo viene al pozzo, attinge dell’acqua, e sta per ritornare. — Ma Gesù gentilmente le chiede da bere. —

Dicit ei Iesus: Da mihi bibere.

Il caro Salvatore era realmente assetato, ma soprattutto aveva sete della fede, della salute, dell’anima di quella Samaritana. — Quella sete era l’effetto dell’amore immenso, che nutriva per le anime; era 1’ardore, che dalla culla alla tomba lo struggeva per la salute di tutti noi, poveri mortali; era quella febbre di carità, che sulla croce gli strappava il grido straziante: Sitio; ho sete. — Il Cuore di Gesù fu un incendio di amore… O Modello perfettissimo di carità, Maestro inarrivabile, che nell’ultima sera della tua vita davi ai tuoi cari il divino comando: Amatevi come io vi ho amato; deh! oggi, ci innamora della bellezza di questa tua lezione favorita, la carità fraterna. Ci dona la grazia di attuarla nella nostra vita pratica, per assicurarci che ti amiamo davvero; e per assicurarci ancora le grazie ed i premi, che tu riservi a chi ama rettamente il suo prossimo.

PARTE PRIMA

La Carità è una regina, che discende da Dio ed a Dio ritorna, conducendo al seno del Padre celeste tutti i cuori che l’hanno amata. — Dio è amore per essenza; ama infinitamente e sostanziarmele se stesso, ed infinitamente ama ancora le sue creature. Questo amore divino le conserva nella loro natura e bellezza. — Noi poi, fatti ad immagine del divino Creatore, abbiamo un’anima, la cui vita è amore. — Non si può vivere senza amare… E chi ameremo?

— La Carità, questa graziosa regina, ha due braccia. — Con l’una accenna a Dio : l’altra si abbassa alla terra.

— Dobbiamo 1.) amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutto noi stessi: amarlo sopra tutte le cose… Dobbiamo 2.) amare il prossimo nostro, come noi stessi, per amore di Dio… L’amore del prossimo si chiama Carità.

1° – Dio comanda di amare il prossimo e lo comanda per mezzo di Gesù… Diliges proximum tuum, sicut te ipsum (Matt. 2XXII, 39). Prossimo sono tutte le creature ragionevoli capaci di amare e di servire il Signore qui sulla terra, e di goderlo poi nel cielo.

— E il comando prediletto di Gesù, quello che Egli ha portato sulla terra; quello, su cui insiste di più, perché venga osservato; ed ha praticato costantemente e con tutta perfezione. Hoc est præceptum meum (Ioan. XVIII, 34).

— Lo chiama: il compimento del grande precetto dell’amore di Dio; il secondo poi è simile al primo… (Marco XII, 31) ; lo dice il distintivo dei suoi veri discepoli ; si vedrà che siete miei, se vi amerete scambievolmente (Ioan. XIII, 35). Afferma che l’amore del prossimo è migliore degli olocausti e dei sacrifici (Marco III, 33)… Promette le sue grazie nella proporzione/ della nostra carità verso i nostri simili (Matt. VII, 2); assicura di ritenere, come fatto a sé stesso, ciò che avremo fatto al più piccolo dei suoi, cioè del prossimo. (Matt. XXV, 40). — Non basta: Ci propone sé stesso come modello della carità; ut diligatis invicem sicut dilexi vos (Ioan. XVIII). — Gesù ci amò tutti, sempre, anche quando eravamo in peccato e quindi suoi nemici. — Ci ha amato: e per noi si è umiliato, fatto simile a noi… Ha sopportato povertà, fatiche, intemperie, ingratitudine, persecuzioni…, la morte. — Ci ha donato il suo onore, la sua libertà…, la sua vita, tutto se stesso…, e per noi si è lasciato nell’Eucaristia; vive ascoso nei nostri tabernacoli…, si fa nostro cibo…, tutto nostro… — E noi dobbiamo imitarlo, seguirlo, coll’amare i nostri fratelli…, anche peccatori…, anche i nemici. — Se non ami il tuo fratello, non sei da Dio (Ioan. IV, 9), cioè figlio di Dio; non adempì la legge del Signore, perché la carità è il compendio di tutta la legge ; e chi ha la carità, osserva tutti gli, altri comandamenti (Rom. XIII, 8) e, se alcuno dice di amare Dio, ed odia il proprio fratello, è bugiardo (I Ioan. IV, 20).

— Se non ami il prossimo, non avrai il perdono dei peccati… Recita pure le più belle preghiere, ma, se non ami, Dio non ti ascolta. — Fa pure anche miracoli…, ma, o sarebbero falsi, oppure «anche con questi prodigi non cesserai di essere un riprovato. — Avessi anche a morire per la fede, ma, senza l’amore, a nulla ti gioverà presso il Signore… Sarai un confessore della fede, ma un apostata della carità…

2° – Il prossimo merita di essere amato.

Lo merita: (a) perché è figlio di Dio, uscito dalle sue mani divine… ; quindi amarlo è procurare a Dio la gioia, che prova un genitore, quando si ama un suo figlio…

(b) Perché è fatto ad immagine di Dio. — Se sei buono, anche attraverso i difetti del tuo fratello, scorgerai questa immagine divina, che ti spingerà a rispettarlo ed essergli utile…

(c) Perché è tuo fratello. — Anch’egli dice: Padre nostro, che sei nei cieli…, invoca la medesima Madre celeste…, il medesimo fratello e redentore, Gesù Cristo… — Rigenerato, egli pure, nel Battesimo…, riscattato egualmente dal sangue di un Dio…, ricolmo di grazie; forse più amato dal Signore, perché più buono e fedele… Esso pure alla confessione, alla comunione, e forse vi reca un cuore più umile ed amante del tuo…

(d) Tutti, al pari di te, sono i servi del grande Padrone degli Angeli e degli uomini; essi pure sono destinati al cielo, dove torse la loro gloria sarà superiore alla tua, perché più di te hanno amato il Signore. — Anche i loro nomi sono scritti nelle mani di Dio, che li ama con tanta tenerezza, che, se violi la carità, l’offendi nella pupilla dei suoi occhi. (Zacc. II, 8).

3° – La Carità è una regina, che entra nei cuori seguita sempre da molte nobili ancelle, cioè altre virtù cristiane.

— Intanto conduce l’amor di Dio, perché devi  amare i tuoi fratelli non per interesse, non per accontentare gl’impulsi del cuore; ma solo per amor di Dio; altrimenti la tua carità non avrebbe Dio, per origine, centro e fine e quindi non sarebbe meritoria di vita eterna.

— Conduce il vero amore verso te stesso, perché devi amare gli altri in quella maniera, che ami te medesimo.

— L’amore verso di te consiste nel procurarti il vero bene dell’anima, e così amerai il prossimo per aiutarlo nell’amore e servizio di Dio.

— Ne consegue, che deve essere un amore ordinato; prima la famiglia, i parenti, i benefattori, gli amici, poi tutti senza distinzione, senza antipatie, senza esagerazioni. Amare il prossimo in Dio, con Dio, per Iddio.

— Compatisci i difetti degli altri, dimentica le offese, prega per essi, ti presta in loro aiuto, parla con affabilità, senza critiche, né mormorazioni, accondiscendi dove puoi, desidera loro ogni bene, soffri delle umiliazioni altrui, godi delle doro gioie, dà buon esempio… In una parola amare è avere sete di fare a tutti tutto il bene possibile; quindi dimenticarsi, sacrificarsi, rinnegare se stessi, i propri comodi, la propria volontà. E’ farsi santi, che la santità è amore. Plenitudo ergo legis est dilectio (Ad Rom. XIII).

PARTE SECONDA

Il comando di amare il prossimo è chiaro, semplice; risponde al bisogno del cuore. — Però Gesù conferma il suo precetto con promesse di grandi premi a chi vi sarà fedele; ed ai trasgressori minaccia gravi castighi.

— Accenno solo.

1° – I premi. La carità copre la moltitudine dei nostri peccati, perché chi usa misericordia, troverà misericordia.

— I tuoi peccati sono forse gravi, senza numero, e tremi dei divini giudizi? — Ricorda dunque le parole di Gesù: Non giudicate, né condannate, e non sarete giudicati, né condannati (Matt. VII, 1). Dimentichi quel torto, tu perdoni quell’offesa? E vedrai dimenticate e perdonate le tue colpe… Se avrai amato il prossimo, la carità ti otterrà il dolore, il proposito, la sincerità dell’accusa… ; quindi al giudizio di Dio non saranno esaminati i tuoi peccati, perché non esisteranno più.

— Ti fa paura il pensiero di non salvarti? — Ma, se ami il prossimo, ami Dio; in questo amore si compendiano tutti i Comandamenti… Per salvarti non occorre di più… Chi ama davvero e rettamente, è un santo… I Santi furono sempre i più grandi benefattori dell’umanità…

2° – I castighi. — Eccoli, desunti dalle Epistole di S. Giovanni, l’apostolo dell’amore. (Epistola I) .

(a) Chi non ama il proprio fratello è nella morte. — Dunque se non ami il prossimo sei nella morte del peccato, nella morte della dannazione; non ti salvi. Qui non diligit (fratrem), manet in morte cap. III. v. 14). — Quindi, se volontariamente desideri espressamente un male grave ad una persona, se il tuo odio si prolunga per un tempo notevole, tu sei in peccato mortale.

(b) Chi odia il proprio fratello (cap. II, v. 11) è nelle tenebre spirituali, che seguono sempre la colpa grave. E nelle tenebre cammina, perché Dio ritira da lui la sua luce superna… Tanto più, che su questo punto è facile ingannarsi, trovare pretesti, scuse, fino a credere cose buone e virtù gli stessi peccati contro la carità… Si dice zelo di retta morale la maldicenza, la calunnia; non se ne ha rimorso; anzi si pretende di averne merito presso Dio e la società. Qui autem odit fratrem suum, in tenebris est, et in tenebris ambulat, (ivi, 11).

(c) Chiunque odia il proprio fratello, è omicida (III, 15). — Omicida, dell’anima sua, mentre l’uccide con una colpa grave… ; omicida della carità, perché da parte sua tende ad estinguere il principio di ogni società umana… ; omicida del prossimo, perché in certo modo, lo fa morire nel proprio cuore, dove dovrebbe vivere con l’amore… Omnis qui odit fratrem suum, homicida est. ( III, 15).

— Esaminiamoci tutti sinceramente intorno a questa virtù; sul come ci diportiamo nelle relazioni di famiglia, di società, cogli amici, con i nostri simili … — E’ tanto facile commettere dei falli contro la Carità… Vigiliamo dunque per non mancarvi coi giudizi male fondati, con le critiche, mormorazioni…, con le antipatie, collere… Reprimiamo gli affetti contrari … ; perché, un giorno, Dio stesso prenderà le difese di questa virtù, e ne rivendicherà i sacri diritti.

NELLA FESTA DI SAN GIUSEPPE [2018]

– 458 –

Fac nos innocuam, Ioseph, decurrere vitam,

Sitque tuo semper tuta patrocinio.

(ex Missali Rom.).

Indulgentia trecentorum (300) dierum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, invocatione quotidie per integrum mensem pie recitata (S. C. Indulg., 18 mart. 1882; S. Pæn. Ap., 13 maii 1933).

HYMNI

– 463-

Te, Ioseph, celebrent agmina Cœlitum

Te cuncti rèsonent Christiadum chori,

Qui, clarus meritis, iunctus es inclytæ

Casto fœdere Virgini.

Almo cum tumidam germine coniugem

Admirans, dubio tangeris anxius,

Afflatu superi Flaminis, Angelus

Conceptum puerum docet.

Tu natum Dominum stringis, ad exteras

Aegypti profugum tu sequeris plagas;

Amissum Solymis quæris et invenis,

Miscens gaudia fletibus.

Post mortem reliquos sors pia consecrat,

Palmamque emeritos gloria suscipit:

Tu vivens, Superis par, frueris Deo,

Mira sorte beatior.

Nobis, summa Trias, parce precantibus,

Da Ioseph meritis sidera scandere:

Ut tandem liceat nos tibi perpetim

Gratum promere canticum. Amen.

(ex Brev. Rom.).

(Indulgentia trium (3) annorum. – Indulgentia plenaria suetis conditionibus, quotidiana hymni recitatione in integrum mensem producta (S. Pæn. Ap., 9 febr. 1922 et 13 iul. 1932). 

– 464 –

Salve, Ioseph, Custos pie

Sponse Virginis Mariae

Educator optime.

Tua prece salus data

Sit et culpa condonata

Peccatricis animae.

Per te cuncti liberemur

Omni poena quam meremur

Nostris prò criminibus.

Per te nobis impertita

Omnis gratia expetita

Sit, et salus animae.

Te precante vita functi

Simus Angelis coniuncti

In cadesti patria.

Sint et omnes tribulati

Te precante liberati

Cunctis ab angustiis.

Omnes populi laetentur,

Aegrotantes et sanentur,

Te rogante Dominum.

Ioseph, Fili David Regis,

Recordare Christi gregis

In die iudicii.

Salvatorem deprecare,

Ut nos velit liberare

Nostræ mortis tempore.

Tu nos vivos hic tuere

Inde mortuos gaudere

Fac cadesti gloria. Amen.

Indulgentia trium (3) annorum (S. Pæn. Ap., 28 apr.1934).

– 473 –  

Virginum custos et Pater, sancte Ioseph, cuius

fideli custodiæ ipsa Innocentia, Christus Iesus,

et Virgo virginum Maria commissa fuit, te per

hoc utrumque carissimum pignus Iesum et Mariam

obsecro et obtestor, ut me ab omni immunditia

præservatum, mente incontaminata, puro

corde et casto corpore Iesu et Mariæ semper

facias castissime famulari. Amen.

(Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum singulis mensis marti: diebus necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidie per integrum mensem pia mente iterata (S. C. Indulg., 4 febr. 1877; S. Pæn. Ap., 18 maii 1936 et 10 mart. 1941)

-475-

Memento nostri, beate Ioseph, et tuæ orationis

suffragio apud tuum putativum Filium intercede;

sed et beatissimam Virginem Sponsam

tuam nobis propitiam redde, quæ Mater est

Eius, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et

regnat per infinita sæcula sæculorum. Amen.

(S. Bernardinus Senensis).

(Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem oratio devote recitata fuerit (S. C. Indulg., 14 dec. 1889; S. Pæn. Ap., 13 iun.1936).

476

Ad te, beate Ioseph, in tribulatione nostra

confugimus, atque, implorato Sponsæ tuæ

sanctissimae auxilio, patrocinium quoque tuum fidenter

exposcimus. Per eam, quæsumus, quæ

te cum immaculata Virgine Dei Genitrice coniunxit,

caritatem, perque paternum, quo Puerum

Iesum amplexus es, amorem, supplices deprecamur,

ut ad hereditatem, quam Iesus Christus

acquisivit Sanguine suo, benignius respicias,

ac necessitatibus nostris tua virtute et ope

succurras. Tuere, o Custos providentissime divinæ

Familiæ, Iesu Christi sobolem electam;

prohibe a nobis, amantissime Pater, omnem errorum

ac corruptelarum luem; propitius nobis,

sospitator noster fortissime, in hoc cum potestate

tenebrarum certamine e cœlo adesto; et

sicut olim Puerum Iesum e summo eripuisti vitae

discrimine, ita nunc Ecclesiam sanctam Dei

ab hostilibus insidiis atque ab omni adversitate

defende: nosque singulos perpetuo tege patrocinio,

ut ad tui exemplar et ope tua suffulti, sancte

vivere, pie emori, sempìternamque in cœlis

beatitudinem assequi possimus. Amen.

 (Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum per mensem octobrem, post recitationem sacratissimi Rosarii, necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana orationis recitatio in integrum mensem producta fueri: (Leo XIII Epist. Encycl. 15 aug. 1889; S. C. Indulg., 21 sept. 1889; S. Paen. Ap., 17 maii 1927, 13 dee. 1935 et 10 mart. 1941).

477

O Ioseph, virgo Pater Iesu, purissime Sponse

Virginis Mariæ, quotidie deprecare prò nobis

ipsum Iesum Filium Dei, ut, armis suae gratiæ

muniti, legitime certantes in vita, ab eodem coronemur

in morte.

(Indulgentia quingentorum (500) dierum (Pius X, Rescr. Manu Propr., 11 oct. 1906, exhib. 26 nov. 1906; S. Paen. Ap. 23 maii 1931).

#     #     #

Nella festa di S. Giuseppe.

[G. Lardone: “Fra gli Astri della Santità Cattolica”, S.E.I. ed. Torino, 1928 – impr.]

Nei tramonti luminosi del nostro bel cielo italico si contempla a volte un fenomeno interessante. Mentre il sole declina lentamente a l’occaso e presenta in tutto il fulgore che le è proprio la sua enorme massa incandescente, è circondato attorno attorno da nuvole gigantesche, come disposte in un trionfo di gloria, le quali, dando riflessi di porpora e d’oro, sembrano risplendere di luce propria, per quanto non riflettano che la luce ricevuta dall’astro maggior dell’universo. Tale fenomeno singolare si ripete sempre nel cielo fulgido della cristiana santità. Stelle splendenti nel divin firmamento della Chiesa trionfante e della Chiesa militante i Santi danno una luce che non è terrena: a primo aspetto sembra una luce loro personale: in realtà non è che la luce loro inviata dal Santo dei Santi che è nostro Signor Gesù Cristo. E più essi si avvicinano all’Autore ed al centro della santità o per l’altezza della loro missione o per l’eroismo delle loro virtù, tanto più essi sono irradiati ed irradiano della luce che viene da Lui. – Orbene quale dei Santi, dopo la Vergine, e per l’altezza del ministero e per l’eccellenza della perfezione si è avvicinato di più al Sole divino di giustizia del glorioso San Giuseppe? Ecco perché noi lo contempliamo come un astro di prima grandezza nel cielo dell’eternità. Perché nessuno più di lui si tuffò nell’oceano di luce di Cristo, nessuno più di lui fu scelto all’onore di rifletterne, come in un’aureola incomparabile, i raggi sempiterni. Eleviamo lo sguardo a lui che la Provvidenza ha eletto a destini ineffabili e, rapiti alla contemplazione delle sue virtù perfette, delle sue grandezze ammirabili, dei suoi poteri trascendenti, lo troveremo perfettamente degno di riflettere la luce che gli viene da Gesù.

— « IPSI VIRTUS ».

Al glorioso S. Giuseppe, che gli Evangeli hanno lasciato in una discreta penombra fra tutti i personaggi della Redenzione, non può ascriversi alcuna di quelle qualità esteriori che gli uomini ammirano e che strappano gli applausi del mondo. La sua vita ordinaria, semplice, comune, intessuta di doveri e di opere in apparenza volgari, non ebbe per teatro che una povera officina di villaggio e per testimoni che gli occhi di una donna e di un fanciullo. Tuttavia le sacre carte hanno sintetizzato, con un motto unico, ma tanto comprensivo, la virtù eccelsa dell’umile fabbro di Nazareth: Joseph autem cum esset iustus (MATT., I, 19). È qui il titolo di sua nobiltà. La giustizia non ha altro principio né altra regola che la volontà divina: questa volontà che fissa i nostri doveri e determina tanto gli omaggi che dobbiamo al nostro Creatore, quanto l’amore ed i servizi che dobbiamo al nostro prossimo. D’onde segue che il fondamento ed il carattere essenziale della giustizia sono rappresentati dalla sottomissione alla volontà divina. Ora la santità di S. Giuseppe non ha altra origine che questa. La sudditanza a Dio non solamente egli la prova con la fedele osservanza delle leggi promulgate ai suoi padri per il magistero di Mose, ma ancora corrispondendo alla ispirazione celeste, abbracciando con amore il proprio stato, sottomettendosi agli avvenimenti più misteriosi e disparati ed assoggettandosi ai travagli più gravosi che Dio suscita sui suoi passi. È veramente il giusto per eccellenza. Tale è sempre il primo effetto della sottomissione alla volontà di Dio: il mantenersi nello stato in cui la Provvidenza ci ha posto. Come il Signore, sovrano ed arbitro dei nostri destini, istituendo la società ne ha fissato l’ordine e la pace sulla diversità delle condizioni e proporziona le sue grazie ai diversi uffici ai quali ci ha eletto, così è giusto, è necessario che l’uomo accetti volonterosamente la posizione voluta da Dio e cerchi di adempierne con fedeltà i doveri. – Tale fu San Giuseppe, il quale, oltre ad amare la propria oscurità, adempì con trasporto i doveri che la sua modesta condizione gli imponeva. E se ogni stato ha le sue responsabilità specifiche e le sue speciali difficoltà, tutti gli stati convengono sostanzialmente in un dovere comune, il lavoro: il lavoro imposto a tutti i figli di Adamo come retaggio della prima colpa, come mezzo di sostentamento, come strumento di elevazione. Ebbene lo stesso Evangelo ci ricorda che il buon Giuseppe traeva dal lavoro delle sue mani il cibo quotidiano e la tradizione ce lo richiama intento a formare gioghi per bovi e carri per agricoltori. Il suo mestiere oscuro lo metteva a contatto con i ceti più umili dei suoi conterranei e lo esponeva sovente al loro gratuito disprezzo. Difatti, allorché Gesù parlava alla Sinagoga di Nazareth, il popolo ascoltandone le parole nuove diceva: « Non è costui il figliuolo del fabbro? Non è fabbro egli stesso? Nonne Me est fabri filius? (MATT. XIII, 55). Nonne Me est faber filius Mariæ? (MARC, VI, 3). Oh! Perché tante volte pesano i doveri umili e rudi a quanti sono condannati a professioni che il mondo non stima? Perché molti sentono in fondo all’anima l’onta ed il peso del loro mestiere? Guardino costoro a S. Giuseppe, il Padre custode di Gesù, lo sposo eletto della Regina del Cielo. Guardino costoro a Gesù medesimo, il Re del cielo e della terra. Dal momento che l’uno e l’altro hanno maneggiato gli strumenti dell’artigiano il lavoro non dev’essere per nessuno un’umiliazione, ma un onore ed una gloria ambita. È naturale poi che la figura del buon Giuseppe si mantenga storicamente circoscritta alla povera casa di Nazareth e non partecipi punto a nessun episodio glorioso della vita terrena del Salvatore: la storia si direbbe che ricordi soltanto gli avvenimenti tristi perché meglio sia provata e più evidentemente rifulga la sua virtù. Il Salvatore era già nato a Betlemme; gli Angeli ne avevano cantato l’avvento nei cieli; i pastori, dopo averlo adorato alla grotta, avevano divulgato fra i vicini centri la venuta del Liberatore d’Israele; i Magi, guidati dall’astro misterioso, erano venuti d’oriente per offrire i loro omaggi al Figlio di Dio e deporre attorno alla sua culla i loro doni simbolici. Gerusalemme stessa sapeva oramai che il Messia annunciato dai profeti era nato. Ma Erode sospettoso e crudele, paventava che la nascita di quel fanciullo, accompagnata da tante meraviglie, rappresentasse un pericolo per il proprio potere: quindi non ascoltando che la propria gelosia, meditò il delitto di perderlo con la progettata strage degli innocenti. Fu allora che Dio parlò a S. Giuseppe per mezzo del suo Angelo: e il Padre custode di Gesù, ubbidiente alla voce del cielo, partì immediatamente con quel fanciullo la cui presenza sulla terra non causava a lui che avversità e dolori. Ma per seguire la voce dell’alto dovette tutto abbandonare, la patria, la famiglia, la stessa sua officina per avviarsi in esilio e rimanervi fino a che un nuovo ordine di Dio lo riportasse a Nazareth. In chi troveremo una sottomissione più pronta, una carità più viva, una più umile docilità alla voce della Provvidenza? E tutte queste virtù che brillano in lui con tanto splendore a che si devono attribuire se non alla unione assoluta con la volontà divina, e quindi a quella giustizia fondamentale che forma l’ornamento più prezioso del suo carattere? A buona ragione dunque noi lo chiamiamo il giusto per eccellenza, perché ci dice S. Pier Grisologo, possiede la perfezione di tutte quante le virtù: Joseph vocari iustum attendite, propter omnium virtutum perfectam possessionem (SAN PIER. GRIS. , serm. 50).

— « IPSI GLORIA ».

Quale fu la gloria con cui fu premiata l’eccellenza della virtù di S. Giuseppe? Lo possiamo dedurre dalle prerogative che la liberalità divina concentrò in lui e dalla missione cui venne dalla Provvidenza eletto, Iddio anzitutto concesse a lui la rivelazione dei suoi misteri. Il mistero dell’Incarnazione, nascosto nella mente dell’Altissimo, non era ancora uscito dal silenzio eterno. Maria SS., senza cessare di essere vergine, concepiva per opera dello Spirito Santo, il Figlio di Dio fatto Uomo. Ma questo avvenimento che doveva riempire il cuore della Vergine di una dolce emozione, fu per il cuore di Giuseppe il soggetto di una crudele perplessità. – La sua giustizia, la sua sottomissione ai divini voleri, gli faceva senza dubbio intravedere un miracolo: ma non poteva mettere fine totalmente alle sue apprensioni. Allora Iddio, per bandire le sue inquietudini gli inviò un Angelo che gli disse: « Non paventare di ritenere presso di te, Maria tua sposa: il frutto che Ella porta nelle viscere verginali è opera dell’Onnipotente ». Così per lui si compie il giorno che Abramo ha sospirato di vedere: le profezie si avverano ed il più grande mistero è svelato all’umile operaio nazareno. Perché quel Dio che nasconde i suoi segreti alle anime orgogliose, li rivela alle anime sottomesse: e rivelandoli a S. Giuseppe ricompensa con una gloria incomparabile la sua giustizia eccelsa. – Ma vi è di più: Iddio lo elevò ad un’altra grandezza associandolo, quale cooperatore, ai suoi disegni. Avendo decretato di salvare il mondo per mezzo dell’Incarnazione ha voluto celare questo mistero altissimo sotto il velo di un coniugio per nascondere il Figlio suo agli occhi del demonio, per confonderlo tra i figli di Adamo e sottometterlo a tutte le miserie della vita terrena. Però il disegno di dissimulare l’avvento del Verbo Incarnato nell’oscurità di una vita comune esigeva che si trovasse un uomo eccezionale a cui si potesse affidare; l’amministrazione degli interessi visibili del Figlio di Dio fatto uomo. Se Iddio voleva che Gesù nascesse da Maria, occorreva pure a questa Vergine benedetta uno sposo elettissimo che potesse essere il testimone della di Lei verginità, il protettore della di Lei innocenza, il garante del di Lei onore. Se Iddio voleva assoggettare Gesù a tutte le vicissitudini della nostra vita era necessario un uomo che al Verbo incarnato potesse tener le veci di padre e sapesse vegliare alla di Lui conservazione. Giuseppe fu appunto colui che Iddio giudicò degno di questi eminenti ministeri. Egli fu prescelto ad essere lo Sposo della Vergine. – Come potremo noi divinare la gloria di questa sublime prerogativa? Occorrerebbe penetrare in tutta la misteriosa profondità della maternità divina: comprendere gli eccezionali avvenimenti che, per opera dello Spirito Santo si compirono in Lei: sapere le vie ineffabili per cui il Verbo si è fatto carne per la redenzione degli uomini. Essere lo sposo di Maria, esclama San Giovanni Damasceno, vuol dire avere una dignità così eminente che la lingua umana non può assolutamente esprimere. Quando si è detto: San Giuseppe è lo sposo di Maria; non si può far altro che tacere ed adorare. Virum Mariæ: hoc est prorsus ineffabile et nihil præterea dici potest. – Eppure non è qui ancora la gloria più fulgida del nostro Santo. Egli fu altresì il Padre custode di Gesù: l’Eterno gli comunicò una partecipazione della paternità divina. Questo titolo che è proprio dell’Onnipotente, questo titolo che nessun Santo, nessun Angelo ha mai potuto possedere neppure per un istante, San Giuseppe l’ha portato. Nomine Patris neque Angelus neque Sanctus in cœlo, brevi licei spatio meruit appellari; hoc unus Joseph meruit nuncupari (S. BASILIO, Orat. 20). Quale dignità! Egli fu il padre del Figlio di Dio, non solamente per riputazione ma per l’autorità, per il potere di rappresentanza che Iddio gli elargì sul Verbo Incarnato, confidandogli realmente tutti i diritti che un padre ha per natura sulla propria prole. Quindi egli, padre vergine del Figlio di una Madre vergine, padre adottivo prescelto volontariamente con abbondanza di grazio provenienti dallo stesso suo Figlio, padre infine per la feconda verginità della sua sposa, si presenta, tra i protagonisti stessi dell’Incarnazione, come un agente necessario per lo svolgimento dei disegni divini accanto a Gesù ed a Maria, e brilla nell’empireo della santità di una gloria talmente eccelsa .che non ha sopra di sè che la gloria di Gesù e di Maria.

— « IPSI IMPERIUM ».

Non possiamo quindi dubitare che, eletto, per la sua virtù, a tanta gloria, S. Giuseppe eserciti un potere od un’autorità senza esempio: potere ed autorità che hanno avuto in lui il loro inizio primo durante la stessa sua vita terrena, e che egli ha esercitato sulla più straordinaria delle Vergini, Maria SS. e sul più eccezionale dei Figli, Gesù Cristo. Dal momento che il matrimonio suo con la Vergine fu vero e perfetto ne venne di conseguenza che esso conferì al giusto Giuseppe tutti i diritti che per legge di natura e per legge positiva-divina allo sposo si attribuiscono, ed impose alla Vergine tutti i doveri che una donna ha verso il compagno dei suoi giorni. Di qui in Giuseppe il potere di comandare e nella Vergine il dovere di ubbidire. Comando certo fatto di bontà riguardosa e di premurosa dolcezza quello del santo sposo di Nazareth: ciò non toglie che si esercitasse in forza di un vero potere e di una indiscutibile autorità, a cui la Vergine « alta più che creatura » sottostava con docilità pronta e con divozione perenne. 0 sublimitas ineffabilis, esclama qui Gersone, ut Mater Dei, Regina Cœli, domina mundi, appellare te dominum, non indignum putaverit. – Tale sublimità di potere si accresce ancora se noi la consideriamo in esercizio verso il Verbo Incarnato. Nell’Evangelo di San Luca che più di tutti illustrò i quadri dell’infanzia del Salvatore, noi troviamo una frase che involge un mistero per una parte di autorità e per l’altra di umiliazione profonda. Ritornata la Sacra Famiglia, dopo le cerimonie della prima Pasqua e lo smarrimento del dodicenne Infante nel Tempio, alla povera dimora nazaretana, Gesù se ne andò con loro et erat subditus illis (LUCA, II, 51). Il Re del Cielo e della terra, Colui il quale ventis et mari imperai et obœdiunt ei (LUCA, VIII, 25) si inchina docilmente all’operaio a cui ha conferito in antecedenza affectum, sollicitudinem ei auctoritatem patris (S. GIOVANNI DAMASCENO). Mai alcun re ottenne simile potere; mai alcuna creatura ha esercitato una sì eccezionale autorità: lo stesso S. Giuseppe anzi non si sarebbe adattato a tale altissimo ministero, se Iddio Padre di cui egli era il vero e legittimo rappresentante, non gliene avesse fatto un preciso dovere. – Forse che in cielo è venuta meno la sua autorità maritale e sono cessati i suoi diritti paterni? Tutt’altro: è in mezzo allo splendore dei Santi che egli svolge ancora il suo impero: il suo trono si eleva presso quello della Sposa Immacolata che Iddio gli ha prescelta, e la sua potenza di intercessione presso il cuore dell’Altissimo conserva sempre dell’autorità paterna. È principio teologico indiscusso, illustrato sapientemente dall’angelico, che quanto più i Santi nel cielo sono vicini a Dio, tanto più le loro orazioni sono efficaci: Quanto Sancii qui sunt in patria sunt Deo coniunctiores, tanto eorum orations sunt magis efficaces (2a , 2æ, quæst. 83, art. 11). – Ora chi più unito a Dio da vincoli di intimità, di familiarità del nostro San Giuseppe che anche in Cielo può chiamare suo Figlio lo stesso nostro Signor Gesù Cristo? All’infuori di lui e della Vergine, dice San Cipriano, non est in cælestibus agminibus qui Dominum Jesum audeat filium nominare (De Bapt. Ghrist.). Se chiama Gesù suo Figlio, non è più a stupire che la sua intercessione acquisti l’efficacia di un vero comando. Tale il pensiero di un pio dottore: Quanta vis in eo impetranti quia dum pater filium orai, imperium reputatur. Ha qui il suo naturale fondamento la fiducia che la Chiesa santa e tutti i fedeli cristiani hanno sempre riposto nel suo potente patrocinio: ma è qui ancora il premio più ambito per la santità perfettissima di cui fu adorno, il fastigio supremo ed il coronamento più bello di quella gloria che a lui si proietta da Gesù e che egli riflette in tanta copia e con tanta fulgida paradisiaca luminosità. – L’antico patriarca Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, che del nostro era figura e promessa, essendo in tutto lo splendore della sua potenza faraonica, fece un sogno impressionante che le sacre carte ci hanno tramandato: vide mentalmente che il sole, la luna e le stelle erano intenti ad adorarlo. Quello che nella visione antica non era che il simbolo di un potere politico e la prova di una gloria transeunte, nel nostro San Giuseppe è invece una perfetta ed indubitata realtà. Attorno a lui noi troviamo il Sole di giustizia che è Gesù, la Luna candida ed Immacolata che è Maria, le stelle fulgidissime che rappresentano i Santi del Cielo, da S. Bernardo a San Francesco di Sales, da Santa Teresa alla Chantal. A ragione quindi la Chiesa ci invita considerare la di lui esaltazione e ci sprona ad onorarlo quale patrono universale, con un culto speciale di suprema dulia. Vi è un sapiente, vi è un re, un conquistatore che ottenga oggi omaggi così universali e lodi così entusiastiche? Dappertutto si elevano templi ed altari in suo onore: le arti vanno a gara nel fissare il suo nome e la sua immagine nella memoria degli uomini, e l’eloquenza deputa i suoi geni più celebrati per esaltarne la giustizia e le alte prerogative. Uniamoci dunque a questo coro di esaltazioni ed invochiamo dalla intercessione quasi onnipotente di San Giuseppe la grazia di avvicinarci in qualche modo alle sue virtù, affinché, ottenendo poi un qualche grado della sua gloria eccelsa, possiamo nel cielo testimoniare gli effetti del suo illimitato potere.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: RERUM NOVARUM -2-

Leggendo questa seconda parte dell’enciclica Rerum Novarum, si nota ancor più la divergenza tra la dottrina Cattolica, e quella “falsa” dell’attuale setta del novus ordo vaticano, “setta ecumenico-massonica” insediata nell’ottobre del 1958, nella quale operano, in sintonia con comunisti, socialisti [tutti aborriti e scomunicati da “veri” Papi in varia successione], ed ogni altro tipo di associazione politica, chiaramente e scopertamente anticristiana, loschi figuri ad ogni livello, intruppati nelle logge delle conventicole in cui si adora il cornuto baphomet bisessuato, il lucifero maledetto che le domina e le dirige occultamente. La questione sociale e politica è gestita, nel mondo intero, a braccetto con radicali, atei dichiarati, noti personaggi massonici, ad esempio in Italia, i piduisti dei vari schieramenti [P 2 sta per: Palladio 2], socialisti e comunisti propugnatori delle tesi gnostiche più abiette, nonché aderenti ai noti club mondialisti, incaricati di spianare la strada all’anticristo … compito che stanno assolvendo con il massimo impegno ed efficacia. Quindi come meravigliarci delle lotte sociali, delle politiche scellerate devastanti redditi e proprietà, singoli e nazioni, delle finte e famigerate “crisi” dei capitali, volute e fomentate da chi stampa moneta senza averne diritto e senza controllo, e di tantissimi altri abomini perpetrati a carico dei lavoratori sfruttati, delle masse e delle famiglie ridotte all’inedia, cui viene elargita però la consolazione di assistere a spettacoli televisivi ingannevoli, sconci, blasfemi, e la possibilità di abortire ed essere adulteri! Tutto questo approvato senza battere ciglio dai loschi figuri di cui sopra, lupi con talari bianche, rosse, nere … lupi che, usciti dalle chiese, banchettano insieme ai “33°” ed agli alti gradi degli “illuminati”, nelle agapi rosacrociane e brindano con i cavalieri kadosch al grido di “nokem adonai”. Se fossero vere autorità spirituali al servizio di Dio, Uno e Trino, incarnato in Cristo, osserverebbero ed attuerebbero quanto il Santo Padre Leone XIII raccomandava con sconfinata saggezza, attinta alle fonti d’Acqua viva della Chiesa Cattolica, voce Una, Santa ed infallibile! Ma “fortes in fide”, irriducibilmente certi della vittoria finale del Figlio di Dio-Uomo e della Santa Chiesa Cattolica, suo Corpo mistico, leggiamo le parti finale di questa memorabile enciclica.

“RERUM NOVARUM”

-2-

1 – Il diritto d’intervento dello Stato

26. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità. Questo infatti è l’ufficio della civile prudenza e il dovere dei reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dall’osservanza della religione e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione dei pubblici oneri, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da altre simili cose, le quali, quanto maggiormente promosse, tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via, può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al benessere delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite ingerenze; giacché provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato. E quanto maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza, tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie a salvezza degli operai.

a) per il bene comune

27. Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da vicino la questione: che cioè lo Stato è una armoniosa unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I proletari né di più né di meno dei ricchi sono cittadini per diritto naturale, membri veri e viventi onde si compone, mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai; non facendolo, si offende la giustizia che vuole si renda a ciascuno il suo, Onde saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte e il tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera della parte (S. Th. II-II, q. 61, a. 1 ad 2). Perciò tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva.

b) per il bene degli operai

Sebbene tutti i cittadini senza eccezione alcuna, debbano cooperare al benessere comune che poi, naturalmente, ridonda a beneficio dei singoli, tuttavia la cooperazione non può essere in tutti né uguale né la stessa. Per quanto si mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà e disparità di condizione senza la quale non può darsi e neanche concepirsi il consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici ministri, legislatori, giudici, insomma uomini tali che governano la nazione in pace, e la difendono in guerra; ed è facile capire che, essendo costoro la causa più prossima ed efficace del bene comune, formano la parte principale della nazione. Non possono allo stesso modo e con gli stessi uffici cooperare al bene comune gli artigiani; tuttavia vi concorrono anch’essi potentemente con i loro servizi, benché in modo indiretto. Certo, il bene sociale, dovendo essere nel suo conseguimento un bene perfezionativo dei cittadini in quanto sono uomini, va principalmente riposto nella virtù. Nondimeno, in ogni società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente abbondanza dei beni corporali, l’uso dei quali è necessario all’esercizio della virtù (S. Th., De reg, princ. I,17). Ora, a darci questi beni è di necessità ed efficacia somma l’opera e l’arte dei proletari, o si applichi all’agricoltura, o si eserciti nelle officine. Somma, diciamo, poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo si che egli partecipi ín qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque al massimo ciò che può in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che questa provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà a tutti, essendo interesse universale che non rimangano nella miseria coloro da cui provengono vantaggi di tanto rilievo.

2 – Norme e limiti del diritto d’intervento

28. Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti. Tuttavia, i governanti debbono tutelare la società e le sue parti. La società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo potere, tanto che la salute pubblica non è solo legge suprema, ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le parti, poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a insegnare che il governo è istituito da natura non a beneficio dei governanti, bensì dei governati. E perché il potere politico viene da Dio ed è una certa quale partecipazione della divina sovranità, deve amministrarsi sull’esempio di questa, che con paterna cura provvede non meno alle particolari creature che a tutto l’universo. Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire, si rende necessario l’intervento dello Stato.

29. Ora, interessa il privato come il pubblico bene che sia mantenuto l’ordine e la tranquillità pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la religione; che fioriscano i costumi pubblici e privati; che sia inviolabilmente osservata la giustizia; che una classe di cittadini non opprima l’altra; che crescano sani e robusti i cittadini, atti a onorare e a difendere, se occorre, la patria. Perciò, se a causa di ammutinamenti o di scioperi si temono disordini pubblici; se tra i proletari sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia; se la religione non é rispettata nell’operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri; se per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l’integrità dei costumi corre pericolo nelle officine; se la classe lavoratrice viene oppressa con ingiusti pesi dai padroni o avvilita da fatti contrari alla personalità e dignità umana; se con il lavoro eccessivi o non conveniente al sesso e all’età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l’autorità delle leggi. I quali fini sono determinati dalla causa medesima che esige l’intervento dello Stato; e ciò significa che le leggi non devono andare al di là di ciò che richiede il riparo dei mali o la rimozione del pericolo. I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.

3 – Casi particolari d’intervento

a) difesa della proprietà privata

30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le popolazioni siano tenute a freno; perché, se la giustizia consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l’altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria condizione onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia non sono pochi coloro i quali, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi padroni da quello dello spogliamento.

b) difesa del lavoro

1) contro lo sciopero

31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni.

2) condizioni di lavoro

32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell’operaio, e prima di tutto i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita dello spirito con la cognizione del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine e la somiglianza divina, ed in cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le creature inferiori, e di far servire all’utilità sua le terre tutte ed i mari. Riempite la terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli animali che si muovono sopra la terra (Gen 1,28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti (Rom 10,12). A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili. Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto questo nome non s’intenda uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma un riposo consacrato dalla religione. Unito alla religione, il riposo toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla Maestà divina. Questa è principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale, prescrisse all’uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli: Ricordati di santificare il giorno di sabato (Es 20,8) e che egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno, creato l’uomo, si riposò dalle opere della creazione: Riposò nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte (Gen II,2).

33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che si sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non è ragionevole che s’imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e dell’altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio e a sé stesso.

3) la questione del salario

34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché  il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (Gen III,19). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio.

c) educazione al risparmio

35. Quando l’operaio riceve un salario sufficiente a mantenere sé stesso e la sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è saggio, penserà naturalmente a risparmiare e, assecondando l’impulso della stessa natura, farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell’acquisto di qualche piccola proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita pure nell’andamento dello Stato una grande influenza. Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza di poter acquistare stabili proprietà, una classe verrà avvicinandosi poco a poco all’altra, togliendo l’immensa distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a ciò, dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore, anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte.

C) L’opera delle associazioni

1 – Necessità della collaborazione di tutti

36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a prendersi cura dell’operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d’ambo i sessi, per la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi sopra per mostrarne l’opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento e la loro azione.

2 – Il diritto all’associazione è naturale

37. Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire la sua opera all’altrui. La Scrittura dice: E’ meglio essere in due che uno solo; perché due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto dall’altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi (Eccl IV, 9-10). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prov XVIII,19). L’istinto di questa naturale inclinazione lo muove, come alla società civile, così ad altre particolari società, piccole certamente e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre grandissima differenza per la diversità dei loro fini prossimi. Il fine della società civile è universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione. Perciò è chiamata pubblica; per essa gli uomini si mettono in mutua comunicazione al fine di formare uno Stato (S, Th., Contra impugn. Dei cultum et religionem, c. II). Al contrario le altre società che sorgono in seno a quella si dicono e sono private, perché hanno per scopo l’utile privato dei loro soci. Società privata è quella che si forma per concludere affari privati, come quando due o tre si uniscono a scopo di commercio (Ivi).

38. Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro la Stato e ne siano come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo Stato proibirne la formazione. Poiché il diritto di unirsi in società l’uomo l’ha da natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe sé stesso, perché l’origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell’uomo. Si danno però casi che rendono legittimo e doveroso il divieto. Quando società particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all’onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile, legittimamente vi si oppone lo Stato, o vietando che si formino o sciogliendole se sono formate; è necessario però procedere in ciò con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini, e non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi non obbligano se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso alla legge eterna di Dio (Cfr. S. Th. I-II, q. 13, a. 3).

39. E qui il nostro pensiero va ai sodalizi, collegi e ordini religiosi di tante specie a cui dà vita l’autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli; e con quanto vantaggio del genere umano, lo attesta la storia anche ai nostri giorni. Tali società, considerate al solo lume della ragione, avendo un fine onesto, sono per diritto di natura evidentemente legittime. In quanto poi riguardano la religione, non sottostanno che all’autorità della Chiesa. Non può dunque lo Stato arrogarsi più quelle competenza alcuna, né rivendicarne a sé l’amministrazione; ha però il dovere di rispettarle, conservarle e, se occorre, difenderle. Ma quanto diversamente si agisce, soprattutto ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi lo Stato ha leso i diritti di tali comunità, avendole sottoposte alle leggi civili a private di giuridica personalità, o spogliate dei loro beni. Nei quali beni la Chiesa aveva il diritto suo, come ognuno dei soci, e similmente quelli che li avevano destinati per un dato fine, e quelli al cui vantaggio e sollievo erano destinati. Non possiamo dunque astenerci dal deplorare spogliazioni sì ingiuste e dannose, tanto più che vediamo proibite società cattoliche, tranquille e utilissime, nel tempo stesso che si proclama altamente il diritto di associazione; mentre in realtà tale diritto vieni largamente concesso a uomini apertamente congiurati ai danni della religione e dello Stato.

40. Certe società diversissime, costituite specialmente di operai, vanno oggi moltiplicandosi sempre più. Di molte, tra queste, non è qui luogo di indagar l’origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti, con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico; costoro con il monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi a loro, a pagar caro il rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due vie: o iscriversi a società pericolose alla religione o formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi coraggiosamente a sì ingiusta e intollerabile oppressione. Ora, potrà mai esitare sulla scelta di questo secondo partito, chi non vuole mettere a repentaglio il massimo bene dell’uomo?

3 – Favorire i congressi cattolici

41. Degnissimi d’encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo per migliorare onestamente le condizioni degli operai. E presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere individuale e domestico; di regolare, secondo equità, le relazioni tra lavoratori e padroni; di tener viva e profondamente radicata negli uni e negli altri il senso del dovere e l’osservanza dei precetti evangelici; precetti che, allontanando l’animo da ogni sorta di eccessi, lo inducono alla moderazione e, tra la più grande diversità di persone e di cose, mantengono l’armonia nella vita civile. A tal fine vediamo che spesso si radunano dei congressi, ove uomini saggi si comunicano le idee, uniscono le forze, si consultano intorno agli espedienti migliori, Altri s’ingegnano di stringere opportunamente in società le varie classi operaie; le aiutano col consiglio e i mezzi e procurano loro un lavoro onesto e redditizio. Coraggio e protezione vi aggiungono i vescovi, e sotto la loro dipendenza molti dell’uno e dell’altro clero attendono con zelo al bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente i cattolici benestanti che, fatta causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese per fondare e largamente diffondere associazioni che aiutino l’operaio non solo a provvedere col suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi ancora per l’avvenire un riposo onorato e tranquillo. I vantaggi che tanti e sì volenterosi sforzi hanno recato al pubblico bene, sono così noti che non occorre parlarne. Di qui attingiamo motivi a bene sperare dell’avvenire, purché tali società fioriscano sempre più, e siano saggiamente ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento vitale nasce da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni facilmente lo soffocano.

4 – Autonomia e disciplina delle associazioni

42. Questa sapiente organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria perché vi sia unità di azione e d’indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini, come l’hanno di fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere altresì uguale diritto di scegliere per i loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine. Quale esso debba essere nelle singole sue parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise, dovendosi determinare piuttosto dall’indole di ciascun popolo, dall’esperienza e abitudine, dalla quantità e produttività dei lavori, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto. In sostanza, si può stabilire come regola generale e costante che le associazioni degli operai si devono ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale. È evidente poi, che conviene aver di mira, come scopo speciale, il perfezionamento religioso e morale, e che a questo perfezionamento si deve indirizzare tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali associazioni degenerano facilmente in altra natura, né si mantengono superiori a quelle in cui della religione non si tiene conto alcuno. Del resto, che gioverebbe all’operaio l’aver trovato nella società di che vivere bene, se l’anima sua, per mancanza di alimento adatto, corresse pericolo di morire? Che giova all’uomo l’acquisto di tutto il mondo con pregiudizio dell’anima sua? (Mat XVI, 26). Questo, secondo l’insegnamento di Gesù Cristo, è il carattere che distingue il cristiano dal pagano: I pagani cercano tutte queste cose… voi cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e gli altri beni vi saranno dati per giunta (Mat VI,32-33). Prendendo adunque da Dio il principio, si dia una larga parte all’istruzione religiosa, affinché ciascuno conosca i propri doveri verso Dio; sappia bene ciò che deve credere, sperare e fare per salvarsi; e sia ben premunito contro gli errori correnti e le seduzioni corruttrici. L’operaio venga animato al culto di Dio e all’amore della pietà, e specialmente all’osservanza dei giorni festivi. Impari a venerare e amare la Chiesa, madre comune di tutti, come pure a obbedire ai precetti di lei, e a frequentare i sacramenti, mezzi divini di giustificazione e di santità.

5 – Diritti e doveri degli associati

43. Posto il fondamento degli statuti sociali nella religione, è aperta la strada a regolare le mutue relazioni dei soci per la tranquillità della loro convivenza e del loro benessere economico. Gli incarichi si distribuiscano in modo conveniente agli interessi comuni, e con tale armonia che la diversità non pregiudichi l’unità. E’ sommamente importante che codesti incarichi vengano distribuiti con intelligenza e chiaramente determinati, perché nessuno dei soci rimanga offeso. I beni comuni della società siano amministrati con integrità, così che i soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo i bisogni; e i diritti e i doveri dei padroni armonizzino con i diritti e i doveri degli operai. Quando poi gli uni o gli altri si credono lesi, è desiderabile che trovino nella stessa associazione uomini retti e competenti, al cui giudizio, in forza degli statuti, si debbano sottomettere. Si dovrà ancora provvedere che all’operaio non manchi mai il lavoro, e vi siano fondi disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non solamente nelle improvvise e inattese crisi dell’industria, ma altresì nei casi di infermità, di vecchiaia, di infortunio. Quando tali statuti sono volontariamente abbracciati, si é già sufficientemente provveduto al benessere materiale e morale delle classi inferiori; e le società cattoliche potranno esercitare non piccola influenza sulla prosperità della stessa società civile. Dal passato possiamo prudentemente prevedere l’avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella creazione della umana famiglia. Agli inizi della Chiesa i pagani stimavano disonore il vivere di elemosine o di lavoro, come tacevano la maggior parte dei cristiani. Se non che, poveri e deboli, riuscirono a conciliarsi le simpatie dei ricchi e il patrocinio dei potenti. Era bello vederli attivi, laboriosi, pacifici, giusti, portati come esempio, e singolarmente pieni di carità. A tale spettacolo di vita e di condotta si dileguò ogni pregiudizio, ammutolì la maldicenza dei malevoli, e le menzogne di una inveterata superstizione cedettero il posto alla verità cristiana.

6 – Le questioni operaie risolte dalle loro associazioni

44. Si agita ai nostri giorni la questione operaia, la cui buona o cattiva soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli operai cristiani la sceglieranno bene, se uniti in associazione, e saggiamente diretti, seguiranno quella medesima strada che con tanto vantaggio di loro stessi e della società, tennero i loro antenati. Poiché, sebbene così prepotente sia negli uomini la forza dei pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità del volere non ha spento in essi il senso dell’onesto, non potranno non provare un sentimento benevolo verso gli operai quando li scorgono laboriosi, moderati, pronti a mettere l’onestà al di sopra del lucro e la coscienza del dovere innanzi a ogni altra cosa. Ne seguirà poi un altro vantaggio, quello cioè di infondere speranza e facilità di ravvedimento a quegli operai ai quali manca o la fede o la buona condotta secondo la fede. Il più delle volte questi poveretti capiscono bene di essere stati ingannati da false speranze e da vane illusioni. Sentono che da cupidi padroni vengono trattati in modo molto inumano e quasi non sono valutati più di quello che producono lavorando; nella società, in cui si trovano irretiti, invece di carità e di affetto fraterno, regnano le discordie intestine, compagne indivisibili della povertà orgogliosa e incredula. Affranti nel corpo e nello spirito, molti di loro vorrebbero scuotere il giogo di si abietta servitù; ma non osano per rispetto umano o per timore della miseria. Ora a tutti costoro potrebbero recare grande giovamento le associazioni cattoliche, se agevolando ad essi il cammino, li inviteranno, esitanti, al loro seno, e rinsaviti, porgeranno loro patrocinio e soccorso.

 CONCLUSIONE

La carità, regina delle virtù sociali

45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono; e poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti stimati più efficaci, si dimostreranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l’opera sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà libera, e di questo devono persuadersi specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano tutta la forza dell’animo e la generosità dello zelo i ministri del santuario; e guidati dall’autorità e dall’esempio vostro, venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli, e soprattutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata dev’essere principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo dire quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l’orgoglio e l’egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle parole: La carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto: tutto soffre, tutto sostiene (1 Cor 13,4-7). Auspice dei celesti favori e pegno della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore impartiamo l’apostolica benedizione.

Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro pontificato.