GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (25): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA (III)

CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA – III –

La rivoluzione cartesiana

[É. Couvert, in: “La gnosi universale”, cap. III]

Nello studio precedente abbiamo mostrato come il filosofo Cartesio abbia giocato un ruolo di “lavaggio del cervello” sulle anime cristiane. Ci resta da precisare il fatto che questo filosofo sia stato considerato, in un gran numero di casi, portatore di una illuminazione improvvisa, una nuova religione, una saggezza luminosa e divina. – Qual fervore presso i nuovi convertiti! Pierre Varignon (1654-1722), legge Cartesio e viene colpito da questa « nuova luce diffusa nel mondo pensante ». egli insegnava la Scolastica, diventerà un matematico. Tournefort (1656-1702), all’uscita dal collegio dei Gesuiti di Aix, trova Cartesio nella libreria di suo padre, lo legge di nascosto « riconosce subito la sua dottrina come quella che egli cercava », rinuncia alla teologia e diventa botanico. Louis Carré abbandona anch’egli la teologia, e diventa segretario di Malebranche; « dalla filosofia Scolastica, fu man mano trasportato alla fonte di una filosofia luminosa e brillante; là egli vede cambiar tutto, di fronte ad un nuovo universo che gli si svela ». Pierre Cally era professore all’università di Caen ove si era impiegato come professore di aristotelismo. Ecco che egli si scuote, come punto da una tarantola, per la nuova saggezza e si impegna nella controversia con gli scolastici. Secondo il suo fedele amico, Daniel Huet, viene appena dal concludere il suo corso di filosofia presso i Gesuiti. Egli è giovane, ricco, intelligente, si mette  a “divorare” Cartesio: «quale ammirazione nella mia anima giovanile alla vista di questi principi così chiari e semplici, che spiegano tutti i misteri del mondo e l’origine stessa del mondo e della natura ». Ed ecco ora il più fedele, il più logico dei figli di Cartesio, egli ha 26 anni, appartiene all’Oratorio. Trova presso un libraio il “trattato dell’uomo” di Cartesio. « Colpito come da una luce che usciva tutta nuova ai suoi occhi », sospettando « una scienza della quale non aveva idea », compra il libro, lo legge con alacrità e trasporto tale da prendergli dei batticuori che lo obbligano talvolta ad interrompere la lettura. Eccolo, è Malebranche, il più pericoloso dei cartesiani. È proprio dalla sua lettura che Bossuet comprenderà più tardi la malvagità di Cartesio. John Locke, a 27 anni, dopo aver letto Cartesio e Gassendi, rinuncia allo stato ecclesiastico al quale si destinava, per diventare medico. – Tutti hanno trovato, nella lettura di Cartesio, come una … illuminazione divina, una iniziazione ad un mondo nuovo di pensieri espressi con facilità, in uno stile limpido e brillante, facile da comprendere quasi senza sforzo, e che sembra dare del mondo una spiegazione totale e seducente. Questa lettura provoca nella loro anima come una rivoluzione immediata, potente ed irresistibile. Tutto cambia volto, è lo svelarsi di un nuovo universo … non la Scolastica pesante, lenta, ardua!. – Daniel Huet, grande ammiratore di Cartesio, diviene Vescovo di Avranches, si rivela figlio dei grandi umanisti. Nella sua persona la religione « sprofonda nell’umanesimo pagano ». Egli aveva scritto una « Dimostrazione evangelica » nella quale si sforzava di dimostrare che Mosè è un personaggio equivalente agli dei del paganesimo: Apollo, Pan, etc. Egli dimostra con la storia santa non sia che un misto di leggende ed il giorno in cui gli si mostrerà che Mosè ed i suoi misteri giudaici sono posteriori alle religioni orientali, sarà portato al suo stesso gioco. Egli riceve molti complimenti da parte dei protestanti, felici di veder conciliati Cristianesimo e paganesimo.- Il 18 maggio 1689, egli riceve una lettera da Bossuet che lo mette in guardia contro la dottrina di Cartesio: « Essa ha delle cose che io disapprovo molto, perché in effetti sono contrarie alla Religione …. Cartesio ha detto certe cose che credo essere utili contro gli atei ed i libertini, e molto simili a quelle che ho trovate in Platone e, ciò che stimo molto più, in San Agostino, san Anselmo, e qualcosa pure in S, Tommaso ed altri autori ortodossi, anche spiegate bene e meglio che in Cartesio, e non credo siano divenute cattive dal momento che se ne sia servito questo filosofo … le altre opinioni di questo autore, che sono indifferenti, come quelle sulla fisica particolare ed altre di questa natura, mi divertono  e le uso per le conversazioni divaganti; ma per non dissimularvi nulla, io credo opportuno che, per il vostro ruolo di Vescovo, prendiate parte seriamente di tali cose ». – Infine Mgr. D’Avranches riflette, e diviene così il più risoluto avversario di Cartesio. Ecco una conversione filosofica che mostra come con la riflessione ed il coraggio si possa resistere alla seduzione delle nuova filosofia. – Cartesio vien condannato da Roma nel 1643. I protestanti olandesi egualmente condannano la Logica di Cartesio al sinodo di Dordrecht nel 1656, inquietati per le conseguenze che il “dubbio metodico” potesse provocare in essi, minacciando così il rimasuglio delle credenze che restavano ancora nella Riforma. – È  un giudeo di Amsterdam, Spinoza che, nei suoi “Principi della filosofia di Cartesio”, pone il piccone e la dinamite nella struttura religiosa e morale della società cristiana. Egli applica al concetto di Dio (lo stesso del “grande abisso”, di gnostica memoria), le regole del “Discorso del Metodo”. Cartesio aveva dichiarato che l’estensione ed movimento erano l’essenza dei corpi; Spinoza ragiona di conseguenza bene a partire da questo punto. «  Si chiama finito, nel suo genere, egli dice in “Etica”, ogni cosa che può essere terminata da un’altra di uguale natura. Ad esempio, un corpo è finito perché noi ne concepiamo sempre un altro più grande ». Ora, se con una serie di numerazioni intere, noi percorriamo tutta la gamma delle grandezze, arriviamo ad un essere assolutamente infinito, cioè alla sostanza dotata di infiniti attributi, dei quali ognuno esprime una essenza eterna ed infinita. È evidente che questa sostanza sia unica, perché essendo ogni determinazione una negazione, se vi fossero due sostanze, esse si “determinerebbero”, cioè si limiterebbero l’un l’altra, e di conseguenza si negherebbero e cadrebbero nel nulla. Ora questa sostanza unica, che non può esistere che a condizione di non essere limitata nello spazio e nel tempo, “è ciò che è in sé, ciò che è concepito da sé, il cui concetto non ha bisogno del concetto d’un altro per essere formato”. Essa dunque ha gli attributi del divino. L’importante è conoscere la sua essenza. Seguiamo sempre il metodo di Cartesio … egli ci insegna che si conosce chiaramente e distintamente l’essenza di una sostanza, dato che si è identificato il suo attributo principale. Qual è dunque l’attributo principale della sostanza divina? Il nostro spirito ed i nostri sensi percepiscono senza errore possibile ciò che è l’estensione. È dunque chiaro che tutti gli esseri di questo mondo, dal più piccolo al più grande, sono, in ragione della loro estensione, parte integrante di Dio, senza cui sarebbero finiti, limitati, determinati, vale a dire, dei “niente”. Questo panteismo abbatte, e Spinoza lo dichiara senza timori, tutte le religioni. L’uomo e il mondo, essendo fin dall’eternità in Dio, non sono potuti uscire da Lui con un atto creatore … cattolici, protestanti, giudei, turchi, cinesi, … questi poveracci, si figurano che Dio sia in cielo mentre Egli vive e respira in fondo a loro stessi. C’è una vera religione che consiste “nel perseverare nel proprio essere”, nel comprenderne con gesto sacro, eterno, assoluto, infinito ed a ridare, mediante gli effetti di una volontà sempre tesa, la pienezza della divinità. Ma questa è la cabbala, è la gnosi, la teologia di satana!. La si può legittimamente estrapolare, come naturale conseguenza, dai principi di Cartesio. – « Di   modo tale, conclude Bayle, nel suo “Dizionario”, le stesse persone che hanno dissipato nel nostro secolo le tenebre della Scolastica diffusa in tutta l’Europa, hanno moltiplicato gli spiriti forti ed aperto ai più la porta all’ateismo, o al pirronismo, o alla incredulità. Eccole come conseguenza, se non proprio forzata, ma certamente naturale: 1°) lo spinozismo, 2°) la visione di Dio di Malebranche, 3°) l’Idealismo di Berkeley, 4°) l’Armonia prestabilita di Leibnitz … Tale è la debolezza dello spirito umano. Si inizia con il metodo e si finisce con le ipotesi … » (in: “Storia della filosofia moderna”). Ma gli ammiratori di Cartesio (cabalisti, massoni illuminati, novatori teologici, modernisti ecclesiastici …) trionfano: « Spirito indipendente, novatore, genio ardito di singolare potenza! Cartesio amava troppo farsi da solo delle idee, affidarsi al suo intimo sentimento, per non riconoscere l’autorità della ragione individuale ed il diritto che ha di esaminare e giudicare ogni specie di dottrina. È la gloria di Cartesio l’aver proclamato e praticato questi principi, ed essere l’autore di questa riforma intellettuale che ha portato i suoi frutti nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, ed oggi più che mai esercita la sua influenza sul mondo filosofico, morale, teologio. Oggi in effetti, grazie a Cartesio, noi siamo tutti protestanti in filosofia, come siamo tutti, grazie a Lutero, filosofi in religione. »Non si poteva dire di meglio. Queste parole, tratte dal n° 147 del giornale liberal-massonico « Le Globe », comparso sotto la restaurazione, serviranno come conclusione dello studio.  –

Il metodo cartesiano, non è altro quindi che un intruglio gnostico di bassa lega, confuso, illogico, sostenuto dalle proprie fantasie, ritenute “verità di per se stesse”, giustamente non discutibili per … la loro assurdità, imperniate sulla conoscenza dell’anima-divinità della favola platonica del “mondo delle anime” preesistenti alla creazione del corpo, [… da qui alla metempsicosi, il passo è breve], delle scintille divine, etc. . Questa gnosi, scambiata per Cristianesimo “aggiornato”, sostenuta dalle cricche rosa+croce e giudaico-massoniche, si infiltrò, secondo i piani di “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”, nella Chiesa Cattolica, coinvolgendo moltissime intelligenze, ingenue sì, ma sprovvedute sul piano teologico, come la vicenda di Bossuet ci informa. Il veleno è sempre più penetrato nella gerarchia, oltre che nella civile società, e a poco valsero i richiami dei Papi agli ecclesiastici, sull’obbligo dello studio della dottrina, della Scolastica e di San Tommaso in particolare. Quando il bubbone si ingrandì, Papa Pio X pensò di denunciarlo con fermezza, ma il cancro era già troppo avanzato, in metastasi generalizzata, ed il bubbone era pronto per scoppiare, come successe effettivamente nel neo-modernismo gnostico tionfante tutt’oggi nella falsa “chiesa dell’uomo”, gestita dai “burattini” circensi. Ognuno che abbia ancora un minimo di “sale nella zucca” si chiede, sbigottito, come sia stato possibile obliare totalmente i principi del Cattolicesimo, e piombare d’un tratto nella totale apostasia di popoli e ancor più della gerarchia ecclesiastica! [oramai quasi totalmente falsa e sacrilega]. Il 26 ottobre del 1958 non è stato un evento improvviso ed inatteso, non è stato un colpo di fulmine a ciel sereno, ma il lavoro “sapiente”, preparato da secoli ed ordito nelle logge, nelle retrologge, dalle conventicole al servizio del baphomet-lucifero, e nella “quinta colonna” infiltrata in tutta la Chiesa; l’apostasia è stata lungamente preparata, filosoficamente e teologicamente, dalle idee del rosa+croce Cartesio e dai suoi epigoni, i quali non hanno che semplicemente “impupazzato” la vecchia e stantia, ma mai indomita. gnosi, con abiti e chincaglieria pseudo-scientifica e teologica, per abbindolare gli incauti, gli orgogliosi, gli ignoranti, gli amanti delle novità-falsità. Ancora una volta i “figli delle tenebre” sono stati scaltri, i serpenti hanno morso ed ucciso molte colombe che, non mettendo in pratica i consigli del divino Maestro, sono state semplici ed ingenue, pensando di giocare sulla buca di lombrichi e non accorgendosi di essere su quella di aspidi mortifere, ignorando la scaltrezza e la prudenza che avrebbe potuto salvarle. L’inganno perpetrato e nel quale viviamo oggi, per lo più inconsapevoli, è stato amplissimo, pressoché totale, ed umanamente non ribaltabile. Ma il Signore Dio-Trino, incarnato in Cristo-Gesù il Salvatore, saprà certamente cosa e come fare per mantenere la sua promessa, come in altre note (dalla Sacra Scrittura) circostanze. Non è stato forse anch’Egli nel Getsemani, non è stato forse nel sepolcro picchettato da carcerieri, creduto morto anche dai suoi che erano stati istruiti lungo tre anni di paziente predicazione? Quando il nemico già gongolava trionfante, il Figlio di Dio è risorto, ha incatenato il “principe di questo mondo”, sprofondandolo negli inferi. E la Chiesa, sua Sposa e Corpo mistico non ha Egli promesso che non sarà mai sconfitta dalle porte degli inferi? E non ha preannunciato che il calcagno della Donna schiaccerà la testa del serpente infernale? “… et, Ipsa conteret caput tuum” … Quindi tranquilli, non temiamo, il Re-Profeta in più occasioni ha sentenziato che, quando i malvagi avranno pensato di avere in pugno la vittoria … qui habitat in cœlis irridebit eos, et Dominus subsannabit eos.[Ps. II, 4] … Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus.]Ps. XXXVI, 13] … Et tu, Domine, deridebis eos; ad nihilum deduces omnes gentes. [LVIII, 9] .. Tu, Signore, ti riderai di loro, ridurrai tutte le genti a niente. Deo gratias! Ed anche Cartesio, con i suoi seguaci, dal loro probabile inferno grideranno, come Giuliano …  “hai vinto Galileo!”

 

 

 

 

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (24): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA -II-

CARTESIO CONTRO LA FEDE -II-

Le reazioni contro Cartesio.

Non bisogna credere, come si è già detto, che Cartesio abbia ricevuto la sua formazione filosofica dai Gesuiti di La Flèche; egli l’ha ricevuta dai Rosa+croce di Svevia. Il suo stesso professore di filosofia, il P. Veron, era un appassionato “ligueur” [aderente alla Lega cattolica] che aveva composto un’opera di violenta controversia contro i Protestanti, coloro che per Cartesio dovevano diventare i migliori amici [verosimilmente pure compagni di conventicola …]. – Durante tutto il Gran Secolo, i Gesuiti furono ardenti oppositori del cartesianesimo. Il padre de Valois scriveva allora: « I sentimenti di Cartesio sono opposti a quelli della Chiesa e conformi a quelli di Calvino », … cosa non malamente osservata. Per tutta la sua vita, Cartesio tenterà di sfuggire alla controversia con i Gesuiti, per paura di essere denunciato a Roma. Nel 1665, il P. Channerelle, Gesuita, scriveva: « In una sola parola, la dottrina cartesiana differisce dalla dottrina aristotelica, come la poesia dalla realtà, come l’immaginazione dall’intelligenza » … (Ricordate: cercare il principio della scienza non con la ragione dei filosofi, ma con l’ispirazione dei poeti, diceva lo stesso Cartesio). – Le opere di Cartesio furono messe all’indice nel 1663 « donec corrigatur », precisa il decreto, finché la sua filosofia non fosse stata corretta. Ahimè, non è possibile correggere ciò che è radicalmente erroneo, cioè falso sin dalla sua radice. – L’attitudine di Bossuet a questo riguardo, è molto suggestiva. Succede talvolta che le abilità del linguaggio, i travestimenti del pensiero, le mascherate verosimili, ingannino anche i più riflessivi. Bossuet, in un primo tempo, manifesterà soddisfazione, davanti alle affermazioni apparentemente spiritualiste di Cartesio e a certe pagine sulle prove dell’esistenza di Dio, pagine che sembravano riprodurre l’insegnamento tradizionale della Chiesa, così come si poteva trovare in Sant’Agostino o in San Tommaso. Noi sappiamo oggi che queste erano posizioni di prudenza destinate ad evitare le accuse di empietà o di ateismo che il nostro filosofo temeva fortemente. Quando Bossuet comprese, leggendo Malebranche, ove conducevano necessariamente le premesse del cartesianesimo [],  cioè all’inneismo gnostico, al mondo platonico delle idee, alle scintille divine, all’emanatismo, al panteismo, etc., il suo istinto di fede ed il suo robusto buon senso, presero il sopravvento. Egli scrisse questa lettera notevole ad un discepolo di padre Malebranche, che mostra a qual punto la sua chiaroveggenza fosse profetica: « Io vedo un grande combattimento preparato contro la Chiesa sotto il nome di “filosofia cartesiana”. Vedo nascere dal suo seno e dai suoi princîpi più di un’eresia, e prevedo che le conseguenze che si traggono contro i dogmi che i nostri padri hanno conservato, la rendono odiosa e faranno perdere alla Chiesa tutto il frutto che ne poteva sperare per stabilire nello spirito dei filosofi la divinità e l’immortalità dell’anima … Da questi stessi principi, un altro inconveniente terribile invade insensibilmente gli spiriti, perché, sotto pretesto che non bisogna ammettere se non ciò che si comprende chiaramente, cosa che ricondurrebbe a stretti limiti, è vero invece che ognuno si concede la libertà di dire ciò che vuole: io capisco questo, o non intendo quello, e su questo fondamento si approva o si rigetta tutto ciò che si vuole, senza addurre altro che le proprie idee “chiare e distinte”, ve ne sono di confuse e generali che non lasciano che si affermino verità sì essenziali che rivolgerebbero tutto  negandolo … Essi introducono, sotto questo pretesto, una libertà di giudizio che fa in modo che, senza riguardi per la tradizione, si proponga tutto ciò che si pensa. E giammai questo eccesso mi è sembrato più forte che nel nuovo sistema, ove io ritrovo tutti insieme gli inconvenienti di tutte le sette … Come voi, essi si sono dati un’aria di pietà  e, nominando spesso Gesù-Cristo, e parandosi con la sua Scrittura (nel doppio senso di “pararsi”: ornarsi e proteggersi), come voi, essi si sono vantati di proporre dei mezzi per ricondurre gli erranti alla fede della Chiesa (ad esempio le pretese di Cartesio di rispondere agli epicurei, agli atei ed ai libertini). Citare spesso le Scritture onde appoggiarsi su ciò che non serve nulla in tale materia, è ancora uno degli artifizi di cui l’errore si serve per attirare i pii.  … Non crediate che, comparandovi agli eretici, io voglia accusarvi di averne l’indocilità, né ciò che li ha infine portati alla rivolta contro la Chiesa, a Dio non piaccia! Ma io so che vi si giunge per gradi. Si comincia con la novità, si prosegue con l’intestardirsi. C’è da temere che la rivolta aperta non arrivi che in seguito, quando la materia sviluppata attirerà gli anatemi della Chiesa e dopo forse che essa si sarà uccisa per lungo tempo, per non darsi una reputazione di errore… » Lettera notevole in ogni suo punto, essa mostra bene il cammino dell’errore negli spiriti. Un nuovo principio (ad esempio il dubbio metodico, le idee chiare e distinte, il “cogito”, etc.) non può fare apparire tutto di seguito le conseguenze che vi sono implicate; soprattutto se l’autore, con abilità tattica, si sforza di sminuirne la portata per mezzo di restrizioni,  dichiarazioni di buona fede ed altri sotterfugi dei quali parla Bossuet. – Ma soprattutto Bossuet oppone alle idee “chiare e distinte”, quelle « confuse e generali che richiudono delle verità essenziali che non si possono negare senza ribaltare tutto ». Distinzione fondamentale. Ciò che Cartesio chiama “idee chiare e distinte” che sarebbero, secondo lui, le sole affettate del carattere dell’evidenza, non sono le forme degli oggetti conosciuti, sono gli esseri di ragione, principi o assiomi matematici, numeri, proposizioni dedotte da questi principi, composti dall’intelligenza secondo le convenzioni necessarie del nostro spirito. – Queste sono degli utensili logici, destinati a permettere la misura del reale, così com’è, “estensione e movimento”. Questi sono i concetti più universali, i più privi di contenuti, i più vuoti. Essi sono senza dubbio conosciuti immediatamente, senza il passaggio attraverso la percezione sensibile, e tuttavia il loro punto di partenza è certamente nel reale esteriore, ma nella sola misura in cui è quantificabile. Il numero due si legge nelle cose, … due niente, più due niente non fanno che quattro niente, cioè assolutamente niente. Ciò che è conosciuto dallo spirito con certezza, non è il numero, ma le cose numerate: due alberi più due alberi, fanno quattro alberi; sono gli alberi ad essere effettivamente conosciuti. – Quando il nostro spirito si applica al solo reale e non agli esseri di ragione, incontra un ostacolo  dimensionale: la materia, con ciò che in essa resta virtuale, potenziale, incompiuta, sfocata. Il nostro spirito non può tradurre fedelmente in “idee chiare e distinte” ciò che resta indeterminato, fluido, in movimento nell’essere. – Questo è il problema, ben individuato da S Tommaso e mal compreso da Cartesio, delle degradazioni continue dell’essere. Tra il “confuso” ed il “chiaro” dei passaggi insensibili, c’è il graduale. Il “chiaro” non è primo, ancor meno innato, ma è acquisito, si ottiene mediante una elaborazione, una espoliazione di un primitivo confuso pieno di ricchezze, in cui il nostro spirito deve cercare di veder  chiaro nel reale che gli viene dato globalmente. È ben evidente, come dice Bossuet, che le nostre idee “confuse e generali” siano un primo apprendimento di un reale ricco di forme che bisognerà estrapolare per astrazione: queste saranno verità certe, riproduzioni nel nostro spirito di idee già contenute nelle cose. – Così dunque, noi non potremmo mai giungere al substrato della natura intima di Dio, della nostra anima, o delle cose. Esse ci resteranno sempre nascoste sotto questa angolazione. Tuttavia, la nostra intelligenza è adatta a conoscere con certezza la forma, l’idea direttrice che è di essenza spirituale come la nostra anima. Questo è sufficiente ad affermare l’esistenza delle cose, quella di Dio con certezza. Il nostro spirito non deve fare un salto nell’ignoto, e lo scetticismo universale, che è contenuto implicitamente nella filosofia di Cartesio, e che professeranno i suoi discepoli fino al XIX secolo, non è fondato con ragione.

[] (Infatti dalla seconda metà del ‘600 il dibattito filosofico si accentra sugli aspetti problematici del pensiero di Cartesio: in particolare, la dimostrazione dell’esistenza delle idee innate, la possibilità di conoscere la realtà esterna al pensiero e gli altri uomini a partire dall’unica certezza del cogito (penso), il rapporto anima-corpo. L’occasionalismo di Malebranche (Parigi 1638-1715), nasce proprio dall’esigenza di spiegare il rapporto tra le anime e i corpi. Per Cartesio, infatti, le anime e i corpi appartengono a generi di sostanze assolutamente eterogenee e prive di comunicazione fra di loro: ma se per Cartesio l’interazione è un fatto del quale abbiamo certezza, anche se non possiamo darne una adeguata esplicazione, per gli occasionalisti il rapporto fra le due sostanze può spiegarsi unicamente con l’azione di Dio, il quale produce nell’anima una determinata sensazione o pensiero, allorché il corpo è modificato in una certa maniera: le creature forniscono dunque una causalità che è soltanto “occasionale”, ma non sono la causa né delle modificazioni corporee né degli avvenimenti materiali., che da questa impostazione trae la nozione della conoscenza come “visione delle idee in Dio”. Infatti Dio illumina le nostre menti e noi leggiamo in Lui le idee, che sono gli archetipi delle cose reali. – La dottrina occasionalista trae le sue origini dalla filosofia di Cartesio, il quale aveva teorizzato un dualismo pressoché irriducibile fra la res cogitans, ovvero la sostanza pensante, racchiusa nell’anima, e la res extensa, ovvero la materia corporea. Ben presto diversi pensatori criticarono questo dualismo cartesiano, soprattutto perché la spiegazione del collegamento fra le due sostanze, ideale e corporea, risultava piuttosto insufficiente: come può l’anima, incorporea, agire sul corpo, che invece è materiale? Sostennero dunque gli occasionalisti che non è l’anima, ad agire sul corpo, e che neppure all’interno dell’anima le idee, i pensieri, trovano la loro spiegazione e origine nell’anima stessa; l’unico Ente capace di creare e comandare, infatti, è solo Dio, mentre la volontà umana ha una sola funzione, quella, eventuale, di condurre l’uomo all’errore, quando essa si contrappone all’azione voluta da Dio. Pertanto, secondo queste teorie, sia gli atti conoscitivi – ovvero le idee, racchiuse in questo senso in un mondo superiore delle idee di stampo platonizzante – che le azioni pratiche – le quali si riducono a un mero assenso alla suprema volontà divina, che è l’unica ad essere libera – non sono che semplici occasioni per l’intervento di Dio.]

L’insegnamento di Cartesio nei collegi prima della Rivoluzione.

Fino al 1660, Cartesio è praticamente ignorato dappertutto, si insegna sempre Aristotele e San Tommaso. Nel 1661, il padre de la Chaise, insegna Cartesio al collegio della trinità, a Lione; il padre Lamy, ad Angers, nel 1674. Lo si discute, si enuncia il “cogito”, il “dubbio metodico”, l’intendimento, l’essenza dei corpi, etc.; ma è presente nell’insegnamento. A partire dal 1715, la maggioranza dei professori insegna Cartesio. A metà del XVIII secolo, l’idealismo cartesiano è utilizzato per lottare contro il materialismo, il sensualismo e l’empirismo filosofico ateo. – Nel 1690, il padre Gabriel, gesuita, scrive: « Non si stampa quasi più filosofia secondo il metodo della Scuola, e quasi tutte le opere di questa specie che compaiono oggi in Francia, sono dei trattati di fisica che presuppongono i principi della nuova filosofia … la filosofia delle classi ha cambiato volto … » Il corso di padre André, Gesuita, a la Flèche, nel 1706, è « cartesiano e malebranchista, sì chiaro e ben ordinato che si diffonde in tutti i collegi della Compagnia … » Si insegna la fisica, la meccanica alle dipendenza della metafisica. Dio è considerato come il “meccanico supremo”, il primo motore utile per dare mozione al mondo, non più fonte permanente di essere e di vita. Questo Dio “a schiocco”, come lo chiama Pascal, è l’orologiaio di Voltaire. Egli è soltanto causa efficiente, fabbricatore del mondo. Una volta lanciato nel suo movimento perpetuo, il mondo può facilmente fare a meno di Lui, come l’orologio può sopravvivere all’orologiaio e funzionare anche dopo la sua morte. Ecco Dio, diventato inutile. Ma le Congregazioni generali a Roma intervengono energicamente contro il castesianesimo, la 14° Congregazione generale dei Gesuiti a Roma nel 1696-1697, pubblica 30 proposizioni proscritte, contro la filosofia nuova, contro l’armonia prestabilita di Leibnitz, contro il dubbio universale di Cartesio. Condanne senza forza che bisognerà rinnovare, segno evidente della loro inefficacia sugli spiriti. La 16a congregazione generale, nel 1730-1731, rimette in vigore le condanne precedenti, decide che occorre restare fedeli alla filosofia di Aristotele. Nel 1732, il padre generale dei Gesuiti, proscrive 10 proposizioni da non insegnare, tutte estratte da Cartesio ed opposte alla Scolastica. Tempo perso! I professori dei collegi sono entusiasti della nuova filosofia e grandi adepti delle “idee chiare e distinte”. Nel XVIII secolo tutto l’insegnamento è cartesiano. – Due conseguenze importanti per gli spiriti: a) Il Deismo: è una forma religiosa bastarda che allontana gli piriti dal vero Dio, portandolo verso una idea vaga della divinità. Si sforza allora di allontanare Dio dal mondo, Egli è tropo grande e troppo lontano, gli uomini sono troppo piccoli ed insignificanti perché Dio possa pensare a loro: « Dio è un essere che non si occupa del bene e del male che si fanno gli uomini tra loro.  » È una blasfemia contro la Provvidenza. Si vedano “I viaggi di Gulliver” di Swift, “La pluralità dei mondi abitati” di Fontenelle, i “Micromega” di Voltaire, etc. « Il Cristianesimo, dice Fontanelle, è una favola. Non bisogna detestare le favole, bisogna sbarazzarsene dolcemente con l’efficacia della ragione. » Ecco la formula di tutti gli spiriti “illuminati” del XVIII secolo!

.b) Il Fideismo: è impossibile insegnare Dio con le idee “chiare e distinte”. È inconcepibile relegarlo nel “dubbio metodico” universale. Come dunque insegnare ciò che bisognerà continuare a chiamare delle verità, benché non rivestite dall’evidenza cartesiana? Il « Journal de Trévoux », redatto dai Gesuiti, sottolinea bene l’impotenza della nuova filosofia nell’insegnare la fede ed il passaggio insensibile al Fideismo. Esso scrive nel giugno del 1705 questo testo capitale: « Si teme di approfondire con essi (i bambini), la materie di religione. Ci si contenta di dar loro delle idee superficiali e di esigere da essi un attaccamento alla fede che li potrebbe persuadere … Siccome non si è posto alcun solido fondamento nel loro spirito, le esortazioni alla virtù le cui fatiche non fanno alcuna impressione se non quando il timore della vigilanza le rendono efficaci. Essi entrano nel mondo come in un campo di battaglia in cui la religione è attaccata da ogni parte e vi entrano senza armi, sempre battuti. Come potrebbero i giovani resistere? … » Riflessione sempre valida ancora oggi, attuale, ma vecchia di oltre tre secoli: il problema era già il medesimo. Si misura solo oggi la distesa del disastro. Nel 1706 si poteva già prevedere che il disastro sarebbe stato infinito. Ciò che effettivamente è stato esplodendo nel Modernismo e neomodernismo filosofico-teologico della falsa “chiesa dell’uomo”, la sinagoga di satana, casa comune ai rosa+croce, tugurio frequentato da Cartesio, adoratore dello stresso baphomet-lucifero, signore dell’universo del Novus ordo.

L’insegnamento di Cartesio nei seminari del XIX secolo

Dopo il tormentone rivoluzionario, dopo le macerie prodotte bisognava pur ricostruire: Napoleone aveva riorganizzato l’Università sotto il monopolio statale. La Chiesa non aveva il diritto di aprire se non i Seminari per la formazione del clero. – Ora, i primi professori furono i sopravvissuti delle ecatombi rivoluzionarie, essi stessi formati sulla nuova filosofia. M. Emery, di cui il canonico Leflon ci ha raccontato precedentemente la vita movimentata, fu il negoziatore discreto ed efficace del concordato del 1801. Egli fu incaricato di ricostruire la società dei sacerdoti di San Sulpizio destinata a formare i futuri professori dei Seminari. Egli ne fu dunque il fondatore e il primo superiore, … ma ahimè, era cartesiano! – L’Abate J. Bellamy, nella sua opera. « La Théologie catholique au XIX siècle » riassume così la situazione nei Seminari: « In Francia, il cartesianesimo era tanto potente e, quando si sa quanto questa filosofia sia refrattaria ad ogni adattamento teologico, ci si stupisce della decadenza profonda in cui fosse caduta la scienza sacra nel nostro paese. Uno dei preti più distinti e più sapienti dell’epoca, M. Emery, credette di rendere un servizio alla teologia pubblicando diversi trattati di filosofia religiosa totalmente impregnati di spirito cartesiano, in particolare: “I pensieri di Cartesio sulla Religione e sulla Morale”. In tutti i Seminari si insegnava il cartesianesimo ed il manuale più in voga, la “Filosofia di Lione”, era l’opera dell’oratoriano Valla, autore di una teologia posta all’indice dal Papa Pio VI nel 1792. Le “Lezioni elementari di Filosofia”, dell’abate Fluttes, che si leggeva  pure nei seminari, tenevano in grande stima e seguivano su tanti punti Locke, Condillac e G. G. Rousseau. Come poteva con una filosofia così difettosa, prendere il volo la Teologia? » – La Sorbona era divenuta maestra del pensiero universale nella società francese … non c’era più una università cattolica libera. I professori dei Seminari, che volevano prendere i loro gradi universitari, dovevano passare davanti ai giurì di Stato. Se ne videro le conseguenze. – Renan, che era buon testimone in materia, ci dice che « l’insegnamento filosofico nei seminari era la Scolastica in latino, non la scolastica del XIII secolo, barbara ed infantile (quale giudizio sprezzante e senza fondamento di una filosofia che egli non aveva mai neppure studiato, evidentemente incapace!), ma ciò che si può chiamare la scolastica cartesiana, cioè questo cartesianesimo mitigato che fu adottato in generale dall’insegnamento ecclesiastico del XVIII secolo e fissato nei tre volumi conosciuti sotto il nome di “Filosofia di Lione” ». – “Cartesianesimo mitigato”: questo equivale ad una presentazione di Cartesio sbarazzato da ciò che sembrava allora incompatibile con l’insegnamento della Fede ed orientato verso il rifiuto degli atei e dei libertini. Si riconosceva a Cartesio la volontà di aver difeso l’esistenza di Dio, lo spiritualismo, l’immortalità dell’anima ed altre verità della Fede cattolica. Non si comprendeva però allora che queste verità egli le aveva idealizzate, rigettate fuori dal reale, le aveva … svuotate della loro sostanza. – I professori delle università anticlericali non si fecero ingannare. Essi insegnarono Cartesio come maestro di Razionalismo, precursore del libero-pensiero (quello sbarazzato del Reale e della Tradizione), come l’avversario trionfante della Scolastica, come il demolitore dei pregiudizi (quelli della Fede cattolica, ben inteso!), come l’adoratore della ragione, divenuta infallibile. – Noi vediamo così apparire nell’insegnamento, un doppio Cartesio, l’uno in apparenza cristiano e preteso difensore della Fede, l’altro maestro e precursore della nuova filosofia, quella che demolisce, abbattendolo, tutto l’edificio della cultura cristiana. – Quanto alla Scolastica, detta barbara ed infantile da Ernest Renan, essa è ben morta e sotterrata. Un giorno Victor Cousin, gran maestro della filosofia ufficiale, percorrendo le banchine della Senna, si mise ad osservare le esposizioni dei librai. Gli occhi caddero per caso sul libro di un certo “Aquinate” e fu sorpreso, egli dice, di trovarvi molto buon senso. Discreta orazione funebre!

Il cartesianesimo contro la Fede.  

 Andiamo allora a cercare nella corrispondenza di Ernest Renan gli effetti più eclatanti della nuova filosofia. Renan era entrato in Seminario con l’entusiasmo di un’anima appassionata di verità. Ahimè! Egli dovette rapidamente disincantarsi: gli si insegnava il “dubbio metodico”. Vediamone gli effetti: « Tutto l’effetto prodotto su di me da ciò che abbiamo visto fin qui, non è stato che l’aver trovato difficoltà dappertutto, anche là dove in precedenza non vedevo ombre … Del Pirronismo, in passato, ridevo di tutto cuore, non concepivo che vi fossero uomini così assurdi da concepire simili idee; ora non rido più. Questo non vuol dire che sono scettico … bisogna confessare che saremmo ben infelici se dovessimo rigettare tutti i sistemi contro i quali si possono fare delle obiezioni. … » – In questa prima lettera, si vede apparire già un rimpianto, una inquietudine davanti ad un insegnamento così negativo. Il profondo bisogno di certezza che dirige tutta la nostra intelligenza verso il vero, si ribella. Nel 1848, Renan scrive: « È proprio della filosofia almeno il dare delle nozioni ben sicure piuttosto che sollevare una folla di pregiudizi. Si è tutti sbalorditi quando si comincia a vedere che, fin là, si era stati il giocattolo di mille errori, radicati nell’opinione, nel costume, nell’educazione: è la morte del Bello ideale. Si vedono le cose così come esse sono (???) e si resta sorpresi di vedere i giudizi più certi posti sullo stesso piano dei problemi … » . – Si sente, in questa lettera a sua madre, che segue di poco la precedente, una reazione di buon senso, ma tutta provvisoria e che non persisterà lungo tempo al cospetto di una filosofia così negativa: « Figuratevi, mia buona madre, che vi si domanda seriamente: è vero che io esisto? Non è un sogno, una illusione? Io vedo una cara madre indignarsi: certamente che il mio Ernest esiste! Vorrei ben vedere qualcuno che si azzardi a negarlo. È che, vedete, i filosofi sono le persone più divertenti del mondo: essi dubitano di tutto. Ma non abbiate paura, cara madre, io non sono ancora giunto là … » . – Ma … non era lontano … L’intelligenza umana è ordinata alla certezza del Vero, non può riposare sul dubbio. Il dubbio non è che un passaggio provvisorio dall’ignoranza alla certezza, abbiamo detto. Ogni uomo, dal principio della vita, riceve un insegnamento, dei riti, delle abitudini radicate nella propria natura sociale, dunque delle tradizioni. Egli è debitore della sua famiglia e della società in cui cresce. Egli deve sapere, prima di comprendere: egli deve agire prima di conoscere le ragioni esplicite della sua azione. Egli ha bisogno, per questo, di una autorità protettrice che prevenga i suoi possibili errori, che gli tracci il cammino da seguire, freni le sue fantasie, che gli permetta di crescere senza troppe rotture. Dalla Chiesa egli riceve, prima di comprenderla, una Tradizione che è nel contempo rivelazione dell’inconoscibile e saggezza divina. – Ecco l’ordine di natura! Dio ha preposto delle autorità alle quali l’uomo deve sottomettersi. I principi del cartesianesimo sono invece una rivolta contro questo ordine. Il ruolo del maestro di filosofia è applicare l’intelligenza del suo discepolo a questo insieme di conoscenze più o meno confuse, di mostrarne il buon fondamento, farne risaltare l’ordine, marcare i legami logici e necessari: di aiutare dunque una intelligenza ancora tutta nuova, a mettere in ordine le molteplici conoscenze già acquisite dopo numerosi anni, di raddrizzarne le deviazioni esistenti, di insegnare così, a questa ragione che si sveglia, che ha pensato e riflettuto già molto tempo prima, di mostrare che i problemi che si pongono ad essa oggi, hanno, già nel passato, ricevuto delle risposte certe e decisive e che ogni intelligenza non deve ricostruire il mondo con il pensiero, ma comprenderlo alla luce dei grandi maestri della filosofia succeduti nel corso dei tempi. – Ahimè, Cartesio ha lavorato con accanimento a dissolvere l’intelligenza, a « trovare difficoltà là ove non c’erano », a « rigettare tutti i sistemi », a « eliminare una folla di pregiudizi », a mostrare agli uomini che essi sono « il giocattolo di mille errori » a schernire i costumi e l’educazione ricevuta, ad « uccidere ogni ideale », a « mettere le certezze sullo stesso piano dei problemi », etc. – È una bella demolizione dell’anima umana. Non si vede come la grazia divina possa far germogliare la Fede su tale terreno.  [2 – continua …].

É. Couvert è un autore francese che ha trascorso la vita nello studio della “gnosi”, comprendendone i meccanismi intimi e le “maschere” di cui si è servita in passato e di cui si serve ancora, per ingannare gli uomini di ogni epoca. Le sue opere sono di una chiarezza notevole, ed hanno il pregio indiscutibile di rendere intellegibile a qualsiasi mente, anche quella non particolarmente erudita e smaliziata, argomenti che in altri, autori di opere anche più robuste, restano complessi e scarsamente comprensibili. L’unico appunto che gli si possa muovere, nasce dalla domanda legittima: “… come è possibile che non abbia capito [… speriamo che lo comprenda al più presto] che nella “vera” Chiesa Cattolica, la gnosi non sia mai entrata nonostante tutti i tentativi, e mai potrà aver parte con la Dottrina evangelica di Cristo, con la Teologia o con il Magistero pontificio? Come è possibile che non abbia ancora capito, dall’alto della sua immensa cultura e sagacia al riguardo, che quella che egli reputa Chiesa “contaminata”, “infiltrata” [eresia palese che egli ben dovrebbe comprendere!!!], è nulla più che la “sinagoga di satana” spacciatasi per Chiesa dal 26 ottobre del 1958? … mentre la VERA CHIESA CATTOLICA, la Sposa Immacolata di Cristo, unica Luce di tutti i popoli, la  Madre che dispensa il latte della pura Verità ai suoi figlioli, sia “eclissata”, come annunciato dal 1846 dalla Vergine Maria a La Salette, ma ancora robusta e rocciosa nei suoi principi, fondata com’è sulla Roccia di Pietro, garante dell’unica VERITA’ affidatagli dal Capo, il supremo Fondatore del suo Corpo mistico, GESÙ-CRISTO?”. Preghiamo perché il Signore, con l’intercessione di San Tommaso, Sant’Agostino e tutti i Santi dottori della Chiesa Cattolica, possa finalmente illuminarlo, ricompensandolo del lavoro indefesso fatto in difesa della Sua Chiesa Cattolica,  tanto amata da lui, mortificato nell’immaginarla offesa e vilipesa. Ma sii lieto e gioioso, Étienne, la Chiesa che tu rimpiangi è oggi nel sepolcro, è vero, ma c’è, ancora viva, ed è pronta al risorgere più bella e splendente che mai, … Gesù ce lo ha promesso e, se promette, lo sai … non mente: “et portæ inferi non prævalebunt“. La Gnosi non prevarrà giammai sulla Chiesa, lucifero non prevarrà giammai su Gesù Cristo!  De fide!

LA GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (23): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA -I-

CARTESIO E LA FEDE CATTOLICA – I –

[Elaborato da: É. Couvert in “De la gnosi a l’Æcumenisme”]

Un CARTESIO segreto

Nella vita di Cartesio, vi sono diversi periodi durante i quali si perde la traccia dei suoi itinerari e della sua attività. Una vita perpetuamente errante, la sua, con amicizie equivoche e cangianti, fughe improvvise, spostamenti rapidi in Francia, una preferenza accordata all’Olanda ed ai paesi protestanti: tutto ciò richiede dei chiarimenti, delle spiegazioni. – Cartesio ha frequentato i rosa+croce, prima forma di massoneria nel XVII secolo (ancora oggi il “cavaliere rosa+croce” costituisce uno dei più infami gradi della massoneria: il 18°!]. I suoi più grandi e fedeli amici ne facevano tutti parte. Il matematico Faulhaber, rosa+croce esaltato, il suo amico Isaac Berckmann e diversi pastori protestanti erano degli aderenti alla setta e frequentatori assidui della conventicola. Il suo primo biografo, l’abate Baillet, ha cercato di … cristianizzare ed idealizzare il personaggio; tuttavia egli non ha potuto nascondere alcune verità che traspirano qua e là nella sua malconcia recita.  « Cartesio, egli dice, frequenta una confraternita di sapienti in Svevia, che si era stabilita già da qualche tempo sotto il nome di “Fratelli della Rose+Croix” ». Erano questi, si dice, delle persone che sapevano di tutto e che promettevano agli uomini una nuova saggezza, vale a dire la vera scienza che non era stata ancora scoperta … il soggiorno di Cartesio in Svevia ebbe come scopo quindi la ricerca di questi “nuovi sapienti” alfine di conoscerli egli stesso, conferire con essi ed acquisire … nuova saggezza. Uno dei loro statuti, ci dice sempre Baillet « era quello di non apparire per ciò che erano, di non distinguersi dagli altri uomini né per l’abito, né per i modi di vivere e di non manifestarsi nei loro discorsi … ». Altrimenti detto, di trasmettere il loro insegnamento con sufficiente discrezione per non svelare la loro appartenenza alla società [segreta …].  – E noi vediamo allora Cartesio osservare fedelmente ogni regola dei Rosa+Croce: vive da “lupo” solitario, vaga da città in città, rifugge dalla compagnia degli uomini e dalle agitazioni del mondo per occuparsi dello studio, assicurandosi la libertà del suo spirito. Moltiplica le prudenze, pubblica le sue opere dopo molte esitazioni in Olanda, comunica i suoi lavori ai rari e discreti  amici. Indubbiamente non troviamo in alcun luogo notizie circa la sua affiliazione a questa società segreta, così sarà sempre possibile il negarlo; ma la sua attività ed il suo insegnamento sono più eloquenti che una tessera o un numero e codice di iscrizione. – Dopo aver errato tra le armate protestanti, poi cattoliche, di Germania, dopo un lungo soggiorno in Svevia, sul quale ritorneremo, nel 1628, Cartesio si rifugia definitivamente in Olanda, e si iscrive alle università protestanti; i suoi migliori amici sono pastori. Sono questi ultimi che traducono in latino le sue opere. Egli ha un legame sentimentale, dal quale nasce una figlia, Francine che fa battezzare, naturalmente, da un pastore, a Deventer. Cartesio, ha reso egli stesso il senso della sua vita: « come i commedianti prudenti, perché non vedano l’onta che sale verso la loro fronte, si rivestono del loro ruolo, ugualmente nel momento in cui vado a salire sulla scena del mondo, di cui non sono stato finora che spettatore, io cammino mascherato ». è questa la formula satanica del “larvatus prodeo” (procedo nascosto).

Un Cartesio illuminato e prometeico

Si crede comunemente che il “metodo” cartesiano gli sia stato dettato dalle sue lunghe riflessioni filosofiche, e che sia dovuto ad una meditazione intensa, apparendogli infine con l’evidenza che segue una attività razionale. Ma non è affatto così! Cartesio fu, come tutti i grandi sovversivi, un “illuminato”. È nel corso del suo soggiorno presso i Rosa+Croce in Svezia che ha un “sogno”. Nel 1618 scrive infatti al suo amico e confidente. Isaac Berckmann: « Io dormivo e voi mi avete ridestato ». È la formula classica dell’illuminazione gnostica,ì. La sua nuova dottrina, egli non l’ha inventata, ma … ohibò l’ha … ricevuta. – Il 10 novembre 1619, sempre nel suo “focolare”  di Svevia, sogna che un vento impetuoso lo fa vacillare e lo distoglie dal suo proposito di andare a pregare nella cappella del suo collegio di La Flèche: « A malo spiritu ad templum propellabatur »: io ero spinto da un cattivo spirito verso il tempio, fortunatamente sono stato distolto da questo vento. Poi viene colpito da un colpo di fulmine che lo fa sussultare: « Questo è il segnale dello “spiritello” di verità che scendeva su di lui per possederlo ». Poi legge un verso: « Quod vitæ sectabor iter? » (quale cammino seguirò nella vita? E le parole «est et non », che sono, egli dice, il Si e No di Pitagora, rappresentante la verità e la falsità nelle conoscenze umane. Con questo sogno, egli dice, « … era lo spirito di verità che doveva aprirmi i tesori di tutte le scienze. » Questo fu « una brusca e rapida folgorazione! ». Egli vuole ribaltare tutti gli antichi sistemi e « … mettere a nudo il suo spirito ». Non è questa la forma classica di ogni sovversivo? – Cartesio aggiunge ancora che « in questa famosa notte in cui gli fu “rivelata” [senza osare dire … da chi!], la dottrina che è la pietra d’angolo della filosofia e che può riassumersi in questa doppia proposizione: il principio della scienza deve essere cercato in noi stessi, poiché esso è in noi, come il fuoco nella silice, e non bisogna ricercarlo con metodi e ragioni filosofiche, bensì con l’ispirazione dei poeti, cioè con l’intuizione ». Ecco la gran parola disvelata: “Intueor”, che vuol dire « guardare all’interno ». L’uomo non ha che da rivolgere il proprio sguardo al fondo della propria anima … vi vedrà la verità che già è in essa, egli la possiede in se stesso, … non gli viene dal mondo esterno. Paul Valéry ironizza giustamente: « Cosa c’è di più suggestivo del volere che dei sogni eccessivamente oscuri gli siano testimonianze in favore di “idee chiare”! » Ed aggiunge: « Cartesio chiede al cielo di essere  confermato nella sua idea di metodo che implica una credenza ed una fiducia fondamentale in se stesso, [… nei suoi sogni cioè! –ndr.] condizioni che gli sono necessarie per distruggere la fiducia e la credenza nell’autorità delle dottrine tradizionali ». Per meglio dire: la sovversione degli spiriti e la grande rivoluzione è cominciata nientemeno che con questa brillante “illuminazione”. – Cartesio cerca la « scienza ammirevole »;  “mirabilis scientiæ fundamenta”, quella che ingloba tutte le scienze particolari e che darà una conoscenza totale del mondo, una scienza innata, dispiego del nostro pensiero. Questa rivelazione per mezzo di un sogno [… nemmeno di mezza estate !!] è una “santa” intossicazione, una Pentecoste della ragione, scienza universale perfettamente una, come quella di Dio che vede tutto, costituita in un solo colpo, per uno solo (per lui, ovviamente: Cartesio!) senza il lento lavorio delle generazioni, lo sforzo continuo dei molti, e l’autorità magistrale di qualcuno. – Cartesio ci rivela finalmente, che « la scienza deve essere il lavoro di uno solo, che deve essere un’opera composta dalla mano di un unico maestro, … Cartesio divenuto Dio! È la grande opera, l’arte reale dei nostri franco-massoni, eredi dei Rosa+Croce. « Mi si dia la misura e il movimento ed io rifarò il mondo », egli dice ancora, nel suo delirio di onnipotenza. Qual pretesa esorbitante! Il mondo gli è stato dato già creato da Dio, ma … Cartesio lo considera mal fatto. « Benché la volontà di Dio sia giunta ad una potenza materiale incomparabilmente più grande della mia, non di meno essa non è spiritualmente più grande della mia, in quanto che la mia volontà è il poter fare una cosa o non farla, affermare o di negare, perseguire o fuggire … » Questo vuol dire che l’uomo è uguale a Dio con il suo spirito, ma che gli manca solo la forza materiale. Non oltrepassando l’uomo se non per la creazione della materia (ecco qui un pensiero propriamente gnostico!). questo vuole dire ancora  che lo spirito è ridotto interamente alla volontà, e questa volontà è riconducibile all’indifferenza del giudizio nei riguardi dei beni particolari, finiti e limitati che si presentano all’uomo … questa definizione della volontà non può applicarsi assolutamente a Dio … Cartesio non ha compreso qui l’analogia dell’essere, che è una similitudine (e non uguaglianza) nei rapporti, allorché i termini riportati sono radicalmente eterogenei, di natura diversa; il potere creatore di Dio non è di natura materiale e non è commensurabile al potere “fabbricatore” dell’uomo. Non c’è solo differenza di gradazione tra l’azione di creare e quella di fabbricare, c’è differenza di natura! Tuttavia l’analogia porta sulla relazione che c’è tra il Creatore e la sua creazione da una parte, tra l’operaio e la sua opera dall’altra parte. Di vede già qui prendere forma l’idea di un Dio demiurgo, l’orologiaio di Voltaire. Una prima forma di deismo … Ma qual orgoglio! Io sono capace, dice Cartesio, di rifare la creazione!

Il rifiuto del reale e della tradizione

« Con il nome di pensiero, dice Cartesio, io comprendo tutto ciò che è tale in noi, e di cui siamo immediatamente a conoscenza. Così tutte le operazioni della volontà, della comprensione, dell’immaginazione e dei sensi sono dei pensieri. » – Con il nome di idee, dice ancora, io intendo tal forma di ciascuno dei nostri pensieri con la percezione immediata della quale, noi abbiamo conoscenza di questi stessi pensieri. » Formula tautologica che si contenta di affermare l’identità del nostro pensiero con se stesso! Così, la Verità che era, secondo il senso comune, l’accordo dei nostri pensieri con le cose conosciute, è qui l’accordo di questo pensiero con l’idea-forma di questo stesso pensiero. Non è ciò che è quel che imprime la sua forma, ma è l’idea innata che si manifesta all’interno del nostro spirito. « Di modo che, dice Cartesio, la luce naturale mi fa conoscere evidentemente che le idee sono in me come dei quadri e delle immagini che possono in verità facilmente decadere dalla perfezione delle cose da cui esse sono state tratte (ecco una concessione, di pura forma, al realismo!) ma che non possono mai contenere nulla di più grande e più perfetto ». – Così dunque le idee sono per se stesse perfette, indipendentemente dalle cose alle quali esse corrispondono. Così, dunque, egualmente la luce non illumina le cose per farle vedere, ma rischiara l’interno del nostro spirito per farle apparire, svelare come quadri e forme che già vi sono contenute. Poco importano le cose in se stesse, delle quali non possiamo conoscere il grado di perfezione. – Cartesio doveva rigettare innanzitutto la filosofia tradizionale, perché essa era un ostacolo alla sua rivoluzione negli spiriti. « Si è talmente assoggettata la teologia ad Aristotele, egli dice, che è quasi impossibile spiegare un’altra filosofia senza che essa sia innanzitutto contro la fede ». Questo sarà veramente il problema contro il quale si andrà a cozzare nel XIX secolo: come insegnare la fede cattolica accanto alla filosofia cartesiana? Noi vedremo che ciò è impossibile, e che la filosofia nuova è di per se stessa distruttrice della fede. – La filosofia moderna è impotente a rendersi conto della metafisica. Cartesio ha modificato il vocabolario, ha soppresso e volatilizzato i termini della scolastica; nello stesso tempo, sono le stesse nozioni che sono state coinvolte da questa rivoluzione. – Un moderno sapiente, fisico, chimico, biologo, non fa che invertire le nozioni di forma, di essenza, di sostanza, etc.: egli si condanna così a non comprendere nulla del reale che osserva e misura con i suoi ausili matematici. Quando egli vuole per un momento dominare il suo soggetto, estendere la sua conoscenza all’universale, bruscamente deraglia, sragiona, non sa più cosa dice. Si è ben visto a proposito del trasformismo. Il biologo che cerca l’origine delle specie parla di “Evoluzione”, deifica la materia, ne fa l’essenza dell’essere, gli attribuisce un potere divino di creazione delle forme … etc. – Tuttavia la “chiesa” [quella falsa dell’uomo], continua ad utilizzare, per l’insegnamento del suo dogma, le nozioni metafisiche della scolastica, ma che non vengono più insegnate nella dottrina da quel tempo. Così il cristiano elevato nelle discipline moderne è spaesato davanti a questo linguaggio antico che gli sembra fuori moda ed inintelligibile. Egli è dunque privo dell’ausilio metafisico necessario ad una intelligenza profonda del reale. L’insegnamento della fede non si può fare che con l’aiuto dei concetti metafisici del tomismo, perché essi sono l’espressione elaborata del “senso comune”, al di fuori  dei quali è impossibile penetrare la natura delle cose. La filosofia moderna ne è invece radicalmente impotente; è in questo che essa è distruttrice della fede. – Cartesio vuole ancora una ragione tutta pura, allo stato naturale, se così si può parlare, privata del soccorso di un Magistero che trasmetta una tradizione ricevuta, l’insegnamento di una verità cercata e studiata da altri, davanti alla quale l’intelligenza di ognuno deve fare atto di umiltà; una ragione ancora priva degli “Habitus”, cioè delle virtù sviluppate dall’esercizio e da una ascesi intellettuale che predispone il nostro spirito a sottomettersi al reale.

Il Dio di Cartesio.

Quando Cartesio vuole introdurre il “Cogito” come punto di partenza della sua filosofia, deve dapprima rigettare tutte le conoscenze anteriori in un “dubbio metodico”, come egli lo chiama, vale a dire … artificiale e sistematico. Già in questa pretesa esorbitante, c’è un’attitudine assurda. Se ne fa con volontà, con una decisione arbitraria, un “vuoto di spirito”. Quando cominciamo a riflettere, a filosofare, noi abbiamo una materia sulla quale il nostro spirito lavora, dei dati primari, degli oggetti di conoscenza, sui quali possiamo elaborare una riflessione. Non si pensa il niente, bensì qualcosa. Questa posizione di dubbio metodico può dirsi a parole, ma non può praticarsi, perché la nostra anima spirituale è fatta per la verità e dunque per delle certezze; il dubbio non è che un passaggio provvisorio tra l’ignoranza e la certezza, supponendo già delle conoscenze certe alle quali appoggiarsi. Come mai Cartesio ha dunque provato il bisogno di escludere, da questo dubbio metodico, le verità della fede? Se possiamo dubitare, come pretende Cartesio, di tutti gli oggetti reali che ci circondano e di cui percepiamo l’esistenza nel corso del giorno, come potremmo non dubitare a maggior ragione, di un mondo soprannaturale di cui non abbiamo alcuna percezione diretta? La pretesa di Cartesio è insostenibile, ed i cartesiani del XIX secolo non faranno un grande sforzo per negare l’esistenza di questo sovrannaturale: questa ad esempio sarà l’attitudine di Renan. – Resta il fatto che Cartesio, contro ogni verosimiglianza, mantiene le certezze religiose fuori da ogni dubbio metodico. Si è detto che egli volesse sfuggire ai fulmini del Santo Officio. Forse e di fatto, dopo la sua morte, le sue opere saranno messe all’indice, come vedremo. – Ma c’è un’altra spiegazione. L’esistenza di Dio e le verità soprannaturale connesse a questa esistenza, non sono ricevute dall’esterno dalla percezione sensibile, né con l’insegnamento di un Magistero, tutte cose incapaci, ci dice Cartesio, di permetterci di raggiungere la certezza; sono verità evidenti per se stesse, idee “chiare e distinte”, percepite immediatamente dall’intelligenza dal suo esercizio immanente. Il “Cogito”, diviene allora questa formula: “Io penso Dio, dunque Dio esiste”. L’esistenza di Dio è tutta nel mio pensiero, è sospesa al mio pensiero. « È quasi la stessa cosa concepire Dio e concepire che Egli esista », ci dice Cartesio. Il “quasi” è ammirabile… vi si vede una esitazione prima di affermare una formula così assurda. Vi si potrebbe vedere una precauzione verso le critiche che non si sarebbero tardate a levarsi davanti ad una tal pretesa. Infatti, se è quasi la stessa cosa, non è dunque puramente la stessa cosa, non è dunque in tutto la stessa cosa. – Ma Cartesio prosegue il suo pensiero: « Tornando ad esaminare l’idea che avevo di un essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa, nello stesso modo che è compresa in quella di un triangolo in cui i tre angoli sono uguali a due retti » È l’argomento chiamato “ontologico” di San Anselmo, uscito da una comparazione evidentemente matematica. Se esiste un triangolo, i suoi angoli sono uguali a due angoli retti, dirà il senso comune, certo, ma … questo non prova l’esistenza del triangolo. L’esistenza non è un attributo che si può aggiungere ad un altro. La definizione del triangolo riguarda la sua natura, non la sua esistenza. L’idea di perfezione rientra nella natura di Dio, dunque nella sua essenza, non nella sua esistenza. Io non posso aggiungere alla perfezione di Dio l’idea di esistenza ed in modo tale che negandone l’esistenza, Dio non sarebbe più perfetto, perché gli mancherebbe qualcosa. In effetti se Dio non avesse l’esistenza non avrebbe alcuna delle perfezioni che gli si potrebbero attribuire: bontà, forza, amore, etc. Quando si dice « Dio è sovranamente giusto », ad esempio, l’esistenza è compresa nel verbo  “essere” e non si aggiunge come complemento alla sua giustizia per perfezionarlo, completarlo. Così, dunque, l’idea della perfezione con contiene l’idea di esistenza. – Bisognava, diceva Cartesio, riportare la nozione di Dio ad una definizione matematica: l’esistenza è compresa nell’idea, ma questa non pone l’esistenza nel reale fuori dal mio pensiero. È una prima formula dell’immanenza vitale che i modernisti non si faranno scrupolo di sviluppare. Essa era già contenuta nelle affermazioni del cartesianesimo “presunto” cristiano. Maxime Leroy, nella sua opera intitolata: « Decartes, filosophe au masque » ci dice che le sue dimostrazioni religiose sono diabolicamente polemiche e che era un’anima sfuggente, espressione applicata da san Pio X ai modernisti.

Una morale provvisoria.

Abbiamo detto che la posizione di “dubbio metodico” è insostenibile per una intelligenza normale; essa lo è ancor più per un uomo che ogni giorno è costretto ad agire, e dunque a riflettere sulle proprie azioni, in modo da conformarle al Vero e al Bene. « Affinché non restassi irresoluto nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligherebbe ad esserlo nei miei giudizi … » Grave problema! Ma è certo Cartesio che se l’è inflitto. Egli si vede costretto a forgiare una morale, detta provvisoria: bisogna agire come se si sapesse, poiché la nostra intelligenza non può darci dei criteri certi e veri della nostra azione. – Cartesio aggiunge: « Non seguire costantemente le opinioni meno dubbie, quando io mi ci sarei una volta determinato, come se fossero state sicurissime; ed è una verità certa (una verità certa, mentre tutto è dubbioso!) che quando non è ancora in nostro potere discerne le varie opinioni, noi dobbiamo seguire le più probabili, ed anche quando non notiamo maggiori probabilità alle une o alle altre, dobbiamo non di meno determinarci verso qualcuna e considerarle poi non più come dubbie e, riportandosi alla pratica, ma come verissime e certissime per il motivo che la ragione che l’ha determinata, si trova come tale » … ma come può dunque la ragione determinarsi a ciò che non ha ragione determinante nel nostro “far agire”? Non è dunque con la ragione sprofondata nel dubbio, dal quale non può uscire, che ci si conduce all’azione! Ed allora che cos’è? « E questo fu capace allora di liberarmi da tutti i pentimenti ed i rimorsi che hanno modo di agitar le coscienze di questi spiriti deboli ed oscillanti che si lasciano costantemente a praticare come buone le cose che essi giudica essere cattive. » Ecco dove si voleva arrivare! … liberare l’uomo dai rimorsi e dal pentimento! Liberarci dall’obbligo di giudicare prima di agire, obbligo penoso e fonte di conflitti interiori tra la ragione spirituale e le passioni sensibili, sforzo dell’intelligenza per ordinare in noi i differenti appetiti. E qual conclusione! … Agiamo, agiamo! I nostri dubbi diventeranno le nostre certezze: ciò che ho fatto è buono, per questa sola ragione che io l’ho giudicato così. È la mia azione che determina la verità! Cartesio è uno spirito forte che non si trova in imbarazzo nelle contraddizioni incontrate nel corso dell’esistenza tra i nostri desideri più o meno disordinati e la nostra conoscenza del vero. Il gergo ecclesiastico modernista utilizza molto l’espressione “fare la verità”. Essa era già in Cartesio. [1 – continua …]

ORAZIONI PER LA SERA

ORAZIONI PER LA SERA.

Adorazione.

Vi adoro profondamente, o mio Dio, alla cui presenza adesso e sempre mi trovo; e vorrei potervi rendere quegli omaggi che son degni di Voi, mio Creatore, mio Conservatore, mio Redentore, mio Padre.

Ringraziamento.

Vi rendo infinite grazie di tutto il bene che mi avete fatto dal principio della mia vita fino al presente, e specialmente d’avermi in questo giorno preservato da tanti pericoli, e distinto con tanti favori. Mi unisco con lo spirito a tutti i giusti della terra e a tutti i Santi del paradiso, per lodare infinitamente le vostre infinite misericordie; anzi vi offro quei medesimi ringraziamenti che tante volte per me vi rese il vostro divin Figliuolo.

Invocazione.

Illuminate, o Signore, le tenebre della mia mente; fatemi conoscere il numero e la gravezza delle mie colpe; e datemi grazia di detestarle sinceramente, onde ottenga da Voi misericordia e perdono.

Esame.

Considerate attentamente i peccati da voi commessi quest’oggi.

Riguardo a Dio: Se avete cioè, o trascurate, o malamente praticate le solite divozioni; se siete stato irriverente in chiesa, distratto volontariamente nella preghiera, se avete mancato di confidenza, di rassegnazione, o di retta intenzione nel vostro operare.

Riguardo al Prossimo: Come vi siete portato coi vostri superiori, eguali, inferiori; giudizi temerari, odio, invidia, mormorazioni, ingiurie, dispregi, vendette, ecc.

Riguardo a voi stesso: Come avete adempito i doveri del vostro stato, come custoditi i vostri sentimenti, specialmente gli occhi, le orecchie, la lingua; con qual diligenza avete procurato di correggere il vostro difetto abituale. Finalmente unite ai peccati di questo giorno quelli della vita passata e detestateli così:

Pentimento.

Gesù dolcissimo, io mi confondo dinanzi a Voi, conoscendomi sempre colpevole delle stesse mancanze. Voi mi avete concesso questo giorno, perché me ne servissi a vostra gloria e a mia salute; ed io invece non ho fatto altro che accrescere il numero dei miei peccati, e provocare sempre di più la vostra collera contro di me. Deh! fossi morto, o Signore, piuttosto che vivere per oltraggiarvi! Deh! potessi ora morire per risarcirvi di tante offese! Ma giacché tanto non posso, lavate, vi prego, col vostro sangue preziosissimo, tutte le mie colpe, che io abbomino e detesto di vero cuore, perché di tanta offesa a Voi bontà infinita, e di tanto danno all’anima mia: io vorrei aver impiegato questo giorno, così bene, come han fatto le anime a Voi più care: i loro meriti pertanto e i meriti vostri infiniti, o amabilissimo Gesù, vi offro in compenso delle mie mancanze; e con la grazia vostra propongo di non offendervi mai più, e di voler meglio impiegare quel tempo che a voi piacerà di concedermi ancora di vita.

Protesta.

Mio Dio, come non so quello che mi possa occorrere in questa notte, ma son certo che resterò tutta l’eternità nello stato in cui sarò trovato all’ora della mia morte, così fin d’ora vi protesto di credere fermamente l’Unità della vostr’Essenza nella Trinità delle Persone, distinte ed uguali, Padre, Figliuolo e Spirito Santo; la incarnazione, la vita, la passione, la morte, la risurrezione del vostro divin Figliuolo, la eternità delle pene minacciate ai peccatori, la beatitudine eterna promessa ai giusti, come pure tutte le altre verità che Voi, infallibile nella vostra parola, avete rivelato alla santa Chiesa. Spero per i meriti di Gesù Cristo dall’infinita vostra potenza, fedeltà e misericordia, il perdono dei miei peccati, la perseveranza finale e la gloria del Paradiso. Vi amo sopra ogni cosa, non tanto pei benefici che mi avete compartiti, quanto per Voi medesimo, perché siete un bene infinito, degno di tutto l’amore; e per amor vostro amo ancora il mio prossimo come me stesso, e perdono di vero cuore a chiunque fatto mi avesse qualche torto, pregandovi in corrispondenza, o Signore di misericordia, a concedermi un pieno perdono di tutte le mie colpe, che di nuovo piango e detesto; e darmi la grazia di viver sempre fedele alla vostra legge per morire tranquillamente nel vostro amore. Pat., Ave, Gl., Credo.

A Maria.

Maria santissima, che siete il sostegno dei giusti e il rifugio de’ peccatori, ricevetemi adesso nelle braccia della vostra misericordia. Abbiate, ve ne prego, verso di me quella tenerezza, e quell’amore che aveste per Gesù Cristo, quando ancora bambino riposava sul vostro seno. Vegliate accanto al mio letto, perché non intorbidi i miei sonni il tentatore nemico. Lodate intanto e glorificate Voi in mia vece la divina Misericordia, dalla quale imploro e spero una notte tranquilla ed una morte beata. E per i meriti vostri, uniti a quelli del vostro divin Figliuolo, ottenetemi che l’ultimo mio pensiero sia sopra la sua Passione, l’ultimo mio cibo sia la santa Eucaristia, l’ultima mia parola sia Gesù, Giuseppe e Maria. Salve Regina.

Per impetrare la virtù della Purità. Vi saluto, o immacolata Maria, Figlia dell’eterno Padre, Vergine innanzi al parto, e vi prego a darmi la purità nei pensieri. Ave.

Vi saluto, o immacolata Maria, Madre dell’eterno Figlio, Vergine nel parto, e vi prego a darmi la purità nelle parole. Ave.

Vi saluto, o immacolata Maria, Sposa dello Spirito Santo, Vergine dopo il parto, e vi prego a darmi la purità nelle opere. Ave e Gloria.

All’Angelo Custode.

Io vi ringrazio infinitamente, o santo Angelo mio Custode, di tutti i benefici che mi avete fatto finora. Vi domando perdono di tutti i disgusti che vi ho recati: vi prometto in avvenire una maggiore corrispondenza del vostro amore. Vi raccomando in questa notte l’anima mia ed il corpo mio. Voi difendetemi da ogni male, ed impetratemi una vita sempre conforme ai vostri santi suggerimenti. Angele Dei.

A tutti i Santi.

O santi dell’empir, pregate Iddio. Acciò con Voi possa goderlo anch’io.

Raccomandazione.

Mi ritiro nei vostri amabilissimi cuori, Gesù mio crocifisso, Madre mia dilettissima Maria; e vi raccomando l’anima mia e il mio corpo per questa notte, per tutto il tempo che mi rimane di vita, e per il punto estremo della mia morte. Deh! Non lasciate un sol momento senza il vostro aiuto questo povero vostro servo; e per pegno sicuro di questa grazia, concedetemi adesso la vostra santa benedizione. Benedite ancora i miei parenti e benefattori, amici e nemici, i giusti, i peccatori, gli eretici, gl’infedeli, e tutti quelli dei quali la giustizia,  la gratitudine, la carità m’impongono di pregare, affinché siano dalla vostra grazia illuminati, convertiti, salvati. Benedite poi specialmente,  e liberate dalle loro pene le povere anime del Purgatorio, a suffragio delle quali, unitamente ai meriti infiniti della vostra passione e della vostra morte, vi offro, o Gesù amabilissimo, quel poco di bene che ho fatto in questo giorno, e quello che sono per fare, mediante la vostra grazia, nel corso di questa notte. Pater, Ave, Gloria, De profundis.

Offerta.

Gesù dolcissimo, vi offro il mio sonno che, obbedendo alle vostre disposizioni, io prendo per ristorare le mie forze, affine di meglio servirvi. Ve l’offro in unione del vostro mistico sonno che prendeste per me sul duro letto della croce, pregandovi per esso che mi liberiate sempre dal sonno del peccato; e mentre, sopita la mente non potrà occuparsi di Voi, intendo che il mio cuore unito agli angioli e a tutti i giusti, mai non cessi di glorificarvi. E per glorificare ancora la vostra santa risurrezione, vi offro lo svegliarmi che farò domani, risoluto di voler anch’io con la vostra grazia risorgere a vita migliore.

Baciate il Crocefisso dicendo:

In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.

Nelle vostre mani, o Signore, io raccomando ed abbandono l’anima mia e tutti quelli della mia casa.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO … E NON SOLO: CANTATE DOMINO

CANTATE DOMINO

Cantate Domino è uno dei documenti più importanti prodotti dalla Chiesa Cattolica a sostegno della retta dottrina e delle cose da tenersi con fede certa dai fedeli cattolici. Il documento venne composto al Concilio di Firenze nel 1442 e approvato dal Santo Padre Eugenio IV. Era questo un momento burrascoso per la Chiesa Cattolica, appena uscita dallo Scisma d’Occidente, ma già coinvolta in subdole manovre di Cardinali, Re ed antipapi, come Felice V. Ma, esulando dai fatti storici ben risaputi, inerenti il Concilio “itinerante”, (da Basilea a Ferrara, di qui a Firenze, per poi concludersi a Roma), la questione dei Greco-Ortodossi ricomposta per breve tempo al Concilio, (finita malamente, a Costantinopoli, con il rigetto dei documenti firmati e la città rasa al suolo dall’invasione islamica), il problema del Conciliarismo (che considerava l’assemblea dei Cardinali prevalere sul parere del Santo Padre, questione risolta più tardi dal “conciliarista” Piccolomini, divenuto Pio II, con la bolla Exsecrabilis), si puntualizzarono dei principi sacrosanti che fin da allora hanno costituito la robusta ossatura della Fede Cattolica “matura”, ripresa anche dai successivi Concili (Trento e Vaticano) e da numerosi documenti magisteriali autentici, in pieno contrasto pratico con l’avvento del “modernismo” esploso con l’irrompere della setta del “novus ordo” nei palazzi vaticani ed in tutto l’orbe un tempo cristiano. Tra le diverse proposizioni vogliamo solo accennare alle seguenti: « … La Chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che nessuno di quelli che sono fuori della Chiesa Cattolica, non solo i pagani, ma anche i giudei o gli eretici e gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli (Mt XXV,41), », affermazione che condanna senza appello né cincischiamenti i deliri dell’ecumenismo massonico trapiantato nella falsa “chiesa dell’uomo”, aperta dai vari “ladri e briganti” Roncalli, Montini, etc. e resa “abominio della desolazione” dagli ebrei Woityla, Ratzinger e il “Ciccio” attuale. Per coloro che credono di andare ad una Messa Cattolica, quando si recano al culto del baphomet-lucifero, potrebbe interessare forse questo passaggio: « … ecco la formula usata nella consacrazione del corpo del Signore: Questo è il mio corpo. In quella del sangue, invece: Questo è il calice del mio sangue, per la nuova e eterna alleanza, mistero della fede, versato per voi e per molti in remissione dei peccati (Mt XXVI, 28; Mc XIV, 18; Lc XXII, 20; 1 Cor XI, 25). » formula ribadita dal Sacrosanto Concilio di Trento, modificata perché non consustanzializzasse un bel “niente” dal “massoncello” Bugnini e compagni di merenda della “retrologgia”, i 6 protestanti diretti dal Patriarca degli Illuminati di Baviera: il giudeo-marrano Montini! Vi è pure qui la professione di Fede Cattolica, con la descrizione dogmatica della Trinità, (a beneficio dei Greci scismatici, ma pure degli attuali apostati novusordisti), oggi desueta e sostituita dal credo deista-massonico del postmodernismo ratzingeriano. Seguono le scomuniche di tutte le eresie fino ad allora conosciute, ( … in particolare la “demenza dei Manichei” la stessa dei novusordisti massonizzati), tutte riprese dal modernismo, definito per l’appunto da SS. Pio X: “sintesi di tutte le eresie”. Pertanto i modernisti e postmodernisti del conciliabolo c. d. “vaticano 2°”, con i fallibilisti, tesisti e sedevacantisti vari (eretici e scismatici a vario titolo), sono tutti già anzitempo scomunicati [… anche] da questa bolla. Pure scomunicati e destinati all’eterna perdizione, coloro che praticano i riti dell’ebraismo mosaico, come ad es. la circoncisione! « … essa, quindi, denuncia come separati dalla fede del Cristo e esclusi dalla vita eterna, salvo che si pentano dei loro errori, tutti quelli che, dopo quel tempo, osservano la circoncisione, il sabato e le altre prescrizioni legali. [altro che “nostra ætate” …]. Ce n’è pure per i “vegani” moderni scizzinosi, “satanisti loro malgrado” … ci sarebbe da scrivere un’enciclopedia intera su questa bolla, ma ci fermiamo qui, anche per non sporcare la limpidezza del documento che costituisce una delle guide più sicure e luminose per camminare nel retto sentiero del Cattolicesimo, unica via di salvezza e speranza di vita eterna.

CANTATE DOMINO quoniam magnifice fecit …

PAPA EUGENIO IV

4 febbraio 1442 

CONCILIO DI FIRENZE (17° ECUMENICO)

26 febbraio 1439 – agosto (?) 1445

SESSIONE XI

[Bolla di unione dei Copti]

Eugenio vescovo, servo dei servi di Dio, a perpetua memoria.

Cantate inni al Signore, perché ha fatto cose grandiose, ciò sia noto in tutta la terra. Gridate giulivi ed esultate, abitanti di Sion, perché grande in mezzo a voi è il santo di Israele (Is XII,5-6). È davvero giusto che la chiesa di Dio canti e esulti nel Signore per questa splendida glorificazione del suo nome, che Dio clementissimo si è degnato di compiere oggi. Dobbiamo, infatti, lodare e benedire con tutto il cuore il Salvatore nostro, che ogni giorno dilata la sua santa Chiesa. – Benché i suoi benefici verso il popolo cristiano siano sempre molti e grandi, tali da mostrarci chiaramente la sua immensa carità verso di noi, tuttavia, se consideriamo più attentamente quali e quanti di tali favori in questi ultimissimi tempi si è degnato operare con divina clemenza, potremo certamente costatare che i doni del suo amore sono stati più numerosi e più grandi in questo nostro tempo che in molte età precedenti. – Ecco, infatti, che in meno di tre anni il signore nostro Gesù Cristo con la sua inesauribile pietà ha realizzato in questo santo sinodo ecumenico, la salvifica unione di tre grandi nazioni a comune e perenne gioia di tutta la Cristianità. Così è accaduto che quasi tutto l’Oriente, che adora il glorioso Nome di Cristo, e non piccola parte del settentrione, dopo lunghi dissidi, siano ormai riuniti nello stesso vincolo di fede e di carità con la santa chiesa romana. Prima infatti si sono uniti alla sede apostolica i Greci e le molte genti e nazioni di lingue diverse soggette alle quattro sedi patriarcali, poi gli Armeni, popolazione formata da molti popoli, e oggi i Giacobiti, grandi popoli d’Egitto. – E poiché niente potrebbe essere più gradito al nostro Salvatore e signore Gesù Cristo della mutua carità tra gli uomini, e niente più glorioso per il suo nome e più utile per la Chiesa dell’unione dei Cristiani, nella purezza della stessa fede, eliminata ogni loro divisione, giustamente noi tutti dobbiamo cantare per la gioia e esultare nel Signore, perché la divina misericordia ci ha fatto degni di vedere ai nostri, giorni una fede cristiana così splendente. – Annunziamo dunque con prontezza queste meraviglie in tutto il mondo cristiano, perché, come noi siamo stati colmati da ineffabile gioia per questa glorificazione di Dio e esaltazione della Chiesa, così anche gli altri partecipino di tanta letizia e tutti, con una sola voce, rendiamo gloria a Dio (Rm XV, 6) e ogni giorno ringraziamo la sua maestà per tanti e così mirabili benefici concessi in questo tempo alla sua santa Chiesa. – Inoltre chi compie con zelo l’opera di Dio non solo attende il compenso e la retribuzione nei cieli, ma anche davanti agli uomini merita gloria e lode in abbondanza. Per questo crediamo di dover meritatamente lodare insieme con tutta la chiesa il nostro venerabile fratello Giovanni, patriarca dei Giacobiti, ansioso di questa santa unione, e indicarlo, con tutta la sua gente, al plauso di tutti i cristiani. Egli infatui sollecitato per mezzo di un nostro inviato [Alberto di Sarteano] e di nostre lettere, perché mandasse a noi e a questo sacro concilio una legazione e si unisse con la sua gente alla Sede romana nella stessa fede, ha destinato a noi e al concilio il diletto figlio Andrea, egiziano, di grande pietà e onestà, abate del monastero di s. Antonio in Egitto, nel quale si dice sia vissuto e morto lo stesso Antonio. Egli, dal patriarca pieno di zelo, ricevette l’ordine e il compito, di accettare con venerazione, a nome del medesimo e dei suoi Giacobiti, la formulazione della fede professata e predicata dalla santa Romana Chiesa e di portarla, poi, allo stesso patriarca e ai Giacobiti, perché potessero conoscerla, approvarla e predicarla nelle loro terre. – Noi, quindi, incaricati dalla parola del Signore di pascere le pecore del Cristo (Gv 21,17), abbiamo fatto esaminare con ogni cura l’abate Andrea da alcuni insigni membri di questo sacro Concilio sugli articoli di fede, i sacramenti della Chiesa e tutto ciò che riguarda la salvezza; alla fine, dopo aver esposta allo stesso abate, nella misura che sembrò necessaria, la fede cattolica della Santa Chiesa Romana, e dopo che è stata da lui umilmente accettata, oggi, in questa solenne sessione, con l’approvazione del sacro Concilio ecumenico fiorentino, gli abbiamo consegnato, nel nome del Signore, la dottrina vera e necessaria, nella seguente formulazione.

– In primo luogo, dunque, la sacrosanta Chiesa Romana, fondata dalla parola del nostro Signore e Salvatore, crede fermamente, professa e predica un solo, vero Dio, Onnipotente, immutabile e eterno, Padre, Figlio e Spirito Santo; uno nell’essenza, trino nelle Persone, Padre non generato, Figlio generato dal Padre, Spirito Santo procedente dal Padre e dal Figlio; crede che il Padre non è il Figlio o lo Spirito Santo, che il Figlio non è il Padre o lo Spirito Santo, che lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio; ma che il Padre è soltanto Padre, il Figlio è soltanto Figlio, lo Spirito Santo è soltanto Spirito Santo. Solo il Padre ha generato il Figlio dalla sua sostanza. Solo il Figlio è stato generato dal solo Padre. Solo lo Spirito Santo procede nello stesso tempo dal Padre e dal Figlio. Queste tre Persone sono un solo Dio, non tre dei, poiché dei tre una sola è la sostanza, una l’essenza, una la natura, una la divinità, una l’immensità, una l’eternità, e tutte le cose sono una cosa sola, dove non si opponga la relazione. Per questa unità il Padre è tutto nel Figlio, tutto nello Spirito Santo; il Figlio tutto nel Padre, tutto nello Spirito Santo; lo Spirito Santo è tutto nel Padre, tutto nel Figlio. Nessuno precede l’altro per eternità, o lo sorpassa in grandezza, o lo supera per potenza. E eterno, infatti, e senza principio che il Figlio ha origine dal Padre, e eterno e senza principio che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Tutto quello che il Padre è o ha, non lo ha da un altro, ma da se stesso ed è principio senza principio. Tutto ciò che il Figlio è o ha, lo ha dal Padre; ed è Principio da Principio. Tutto ciò che lo Spirito Santo è o ha, lo ha dal Padre e dal Figlio insieme. Ma il Padre e il Figlio non sono due princìpi dello Spirito Santo, ma un solo Principio, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non sono tre princìpi della creazione, ma un solo Principio.

Essa condanna, perciò, riprova e colpisce con anatema tutti quelli che credono cose diverse e contrarie e li dichiara separati dal corpo di Cristo, che è la chiesa. Condanna quindi Sabellio che confonde le Persone e elimina completamente la distinzione reale delle stesse, condanna gli ariani, gli eunomiani, i macedoniani, secondo i quali solo il Padre è vero Dio, collocando il Figlio e lo Spirito Santo nell’ordine delle creature. Condanna anche chiunque altro introduca gradi o diseguaglianza nella Trinità.

Crede fermissimamente, professa e predica, che un solo, vero Dio, Padre, Figlio e Spirito santo, è il Creatore di tutte le cose visibili e invisibili, il quale, quando volle, creò per sua bontà tutte le creature spirituali e corporali, buone, naturalmente, perché hanno origine dal sommo bene, ma mutevoli, perché fatte dal nulla; afferma che non vi è natura cattiva in se stessa, perché ogni natura, in quanto tale, è buona.

La Chiesa confessa un solo, identico Dio come Autore dell’antico e del nuovo Testamento, cioè della legge e dei profeti, nonché del Vangelo, perché i santi dell’uno e dell’altro Testamento hanno parlato sotto l’ispirazione del medesimo Spirito Santo. Di questi accetta e venera i libri compresi sotto i seguenti titoli: I cinque libri di Mosè, cioè: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio; i libri di Giosuè, dei Giudici, di Rut, i quattro dei Re, i due dei Paralipomeni, Esdra, Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, i Salmi di David, i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Isaia, Geremia, Baruc, Ezechiele, Daniele, dei dodici Profeti minori, cioè: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia; i due dei Maccabei, quattro Evangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni; le quattordici lettere di s. Paolo: ai Romani, due ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, due ai Tessalonicesi, ai Colossesi, due a Timoteo, a Tito, a Filemone, agli Ebrei; le due lettere di Pietro, le tre di Giovanni, una di Giacomo; una di Giuda; gli Atti degli Apostoli; e l’Apocalisse di Giovanni.

– La Chiesa condanna con anatema la demenza dei manichei, che ammettevano due princìpi primi, uno delle cose visibili, l’altro di quelle invisibili e dicevano che altro è il Dio del nuovo Testamento, altro quello dell’antico. Essa crede fermamente, professa e predica che una delle Persone della Trinità, vero Dio Figlio di Dio, generato dal Padre, consostanziale e coeterno col Padre, nella pienezza dei tempi stabilita dalla inscrutabile profondità del divino consiglio, ha assunto la vera e integra natura umana dall’utero immacolato della Vergine Maria per la salvezza del genere umano e l’ha congiunta a sé nell’unità della Persona, con tale vincolo di unità che tutto quello che ivi è di Dio non è separato dall’uomo, e quello che ivi è dell’uomo non è diviso dalla divinità; ed è un solo Essere e indiviso, rimanendo l’una e l’altra natura con le sue proprietà, Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, uguale al Padre secondo la divinità, minore del Padre secondo l’umanità, immortale ed eterno per la natura divina, soggetto alla sofferenza e al tempo per la condizione umana che ha assunto. – La Chiesa crede fermamente, professa e predica che il Figlio di Dio nell’umanità che ha assunto è veramente nato dalla Vergine, ha veramente sofferto, è veramente morto ed è stato sepolto, è veramente risorto dai morti, è asceso al cielo, siede alla destra del Padre, e verrà alla fine dei secoli a giudicare i vivi e i morti. – Essa colpisce con l’anatema, maledice e condanna ogni eresia che professi dottrine contrarie. E, in primo luogo, condanna Ebione, Cerinto, Marcione, Paolo di Samosata, Forino e tutti quelli che proferiscono simili bestemmie, i quali, incapaci di comprendere l’unione personale dell’umanità col Verbo, hanno negato che Gesù Cristo, nostro Signore, sia vero Dio, riconoscendo lo stesso come semplice uomo; egli sarebbe detto uomo divino per una maggior partecipazione alla grazia divina ricevuta per merito di una vita più santa. – La Chiesa colpisce con l’anatema anche Manicheo e i suoi seguaci, i quali vaneggiando che il Figlio di Dio non ha assunto un corpo vero, ma solo apparente annullarono del tutto la verità dell’umanità nel Cristo. Inoltre condanna Valentino, il quale afferma che il Figlio di Dio non ha ricevuto nulla dalla Vergine Madre, ma che ha assunto un corpo celeste ed è passato attraverso l’utero della Vergine, proprio come l’acqua scorre attraverso un acquedotto. Anche Ario il quale, asserendo che il corpo assunto dalla Vergine mancava dell’anima, pretese che al suo posto vi fosse la divinità. Così pure condanna Apollinare, il quale, ben comprendendo che negando che l’anima informa il corpo non vi sarebbe più vera umanità nel Cristo, gli attribuì solo l’anima sensitiva, mentre la natura divina del Verbo sostituirebbe l’anima razionale. Essa colpisce con l’anatema anche Teodoro di Mopsuestia e Nestorio, i quali affermano che l’umanità è unita al Figlio di Dio per mezzo della grazia, e perciò in Cristo vi sono due persone, come ammettono esservi due nature; non riuscendo a comprendere che l’unione dell’umanità col Verbo è ipostatica, negarono che essa abbia ricevuto la sussistenza del Verbo. Secondo questa affermazione blasfema, il Verbo non si è fatto carne, ma per mezzo della grazia il Verbo ha abitato nella carne, cioè non il Figlio di Dio si è fatto uomo ma, piuttosto, il Figlio di Dio ha abitato nell’uomo. Colpisce con l’anatema, maledice e condanna l’archimandrita Eutiche. Questi comprese che secondo l’eresia di Nestorio veniva annullata la verità dell’incarnazione e che, quindi, era necessario che l’umanità fosse unita al Verbo di Dio in modo che vi fosse una sola e medesima Persona per la divinità e l’umanità; ma non potendo capire, data la pluralità delle nature, l’unità della Persona, come ammise in Gesù Cristo una sola Persona per la divinità e l’umanità, così affermò esservi una sola natura, volendo che prima dell’unione vi fosse una dualità di nature, trasformata in unità nel momento dell’assunzione, ammettendo con somma empietà che, o l’umanità si era trasformata nella divinità, o la divinità nell’umanità. Colpisce con l’anatema, maledice e condanna Macario di Antiochia e tutti quelli che seguono dottrine simili: Questi nonostante una giusta dottrina delle due nature e dell’unità della Persona, errò enormemente circa le operazioni del Cristo, dicendo che nel Cristo una sola era l’operazione e una sola la volontà di entrambe le nature. La sacrosanta Chiesa Romana condanna tutti questi con le loro eresie, affermando che nel Cristo due sono le volontà e due le operazioni. – Crede fermamente, professa e insegna che mai uno concepito da uomo e da donna è stato liberato dal dominio del demonio, se non per la fede nel mediatore tra Dio e gli uomini Gesù Cristo (1 Tm 2,5) nostro Signore. Questi, concepito, nato e morto senza peccato, ha vinto da solo con la sua morte il nemico del genere umano, cancellando i nostri peccati, ed ha riaperto le porte del Regno celeste, che il primo uomo a causa del suo peccato aveva perso con tutta la sua discendenza, questo di cui tutti i santi sacrifici, i sacramenti e le cerimonie dell’antico testamento prefigurarono il ritorno.

– La Chiesa crede fermamente, professa e insegna che le prescrizioni legali dell’antico Testamento, cioè della legge mosaica, che si dividono in cerimonie, sacrifici sacri e sacramenti, proprio perché istituite per significare qualche cosa di futuro, benché adeguate al culto divino in quell’epoca, dal momento che è venuto il nostro Signore Gesù Cristo, da esse prefigurato, sono cessate e sono cominciati i sacramenti della nuova alleanza. Essa insegna che pecca mortalmente chiunque ripone, anche dopo la passione, la propria speranza in quelle prescrizioni legali e le osserva quasi fossero necessarie alla salvezza, e la fede nel Cristo non potesse salvare senza di esse. La Chiesa non nega tuttavia che nel tempo che intercorre tra la passione del Cristo e, la promulgazione dell’Evangelo, esse potessero osservarsi, anche se non fossero ritenute necessarie alla salvezza. Ma dopo l’annuncio del Vangelo non possono più essere osservate, pena la perdita della salvezza eterna. Essa, quindi, denuncia come separati dalla fede del Cristo e esclusi dalla vita eterna, salvo che si pentano dei loro errori, tutti quelli che, dopo quel tempo, osservano la circoncisione, il sabato e le altre prescrizioni legali. Comanda dunque, senza eccezione, a tutti quelli che si gloriano del nome di Cristiani di non praticare la circoncisione sia prima che dopo il Battesimo perché, anche se uno non vi ripone alcuna speranza, non può in alcun modo essere praticata senza perdere la salvezza eterna.

– Quanto ai bambini, dato il pericolo di morte spesso incombente, poiché non possono essere aiutati se non col Sacramento del Battesimo, che li libera dal dominio del demonio e li rende figli adottivi di Dio, la Chiesa ammonisce che il Battesimo non sia differito per quaranta o ottanta giorni, secondo certe usanze, ma sia amministrato il più presto possibile, avendo cura che, in imminente pericolo di morte, siano battezzati subito senza alcun ritardo, anche da un laico o da una donna, in mancanza del sacerdote, nella forma prevista dalla Chiesa, come è indicato in modo completo nel decreto per gli Armeni.

– La Chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie (1 Tm IV, 4); poiché, secondo l’espressione del Signore non quello che entra nella bocca rende l’uomo impuro (Mt XV, 11) e afferma che quella differenza della legge mosaica tra cibi puri e impuri riguarda le prescrizioni per le cerimonie, superate e annullate con l’annuncio del Vangelo. Anche il comando degli Apostoli di astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue e dagli animali soffocati (Atti XV, 29) era adatta a quel tempo in cui dai giudei e dai gentili, che prima vivevano secondo riti e costumi diversi, sorgeva una sola Chiesa. Conveniva perciò che i giudei e i gentili avessero osservanze in comune e l’occasione di trovarsi d’accordo in un solo culto e in una sola fede in Dio, eliminando la materia di dissenso, in quanto ai giudei per antica tradizione il sangue e gli animali soffocati sembravano cose abominevoli e potevano pensare che i gentili tornassero all’idolatria col mangiare cose immolate. Ma quando la Religione Cristiana si fu così diffusa da non esservi più in essa alcun Giudeo secondo la carne, ma anzi col passaggio alla Chiesa, tutti condividevano gli stessi riti proposti dal Vangelo, persuasi che tutto è puro per i puri (Tt 1, 15), essendo cessata la ragione di quella proibizione, ne cessò anche l’effetto. La Chiesa dichiara, quindi, che nessuno dei cibi in uso tra gli uomini deve essere condannato, e che nessuno, uomo o donna che sia, deve far differenza tra gli animali, in qualunque modo uccisi; tuttavia per la salute del corpo, l’esercizio della virtù, per la disciplina imposta dalla regola e dalle norme ecclesiastiche, molte cose, anche se non vietate, possono o debbono essere tralasciate. Secondo l’Apostolo, infatti, tutto è lecito! Ma non tutto è utile (1 Cor VI, 12; X,  22). – La Chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che nessuno di quelli che sono fuori della Chiesa Cattolica, non solo i pagani, ma anche i giudei o gli eretici e gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli (Mt 25,41), se prima della morte non saranno stati ad essa riuniti; crede tanto importante l’unità del corpo della Chiesa che, solo a quelli che in essa perseverano, i Sacramenti della Chiesa procureranno la salvezza, e i digiuni, le altre opere di pietà e gli esercizi della milizia cristiana ottengono il premio eterno: nessuno, per quante elemosine abbia fatto e persino se avesse versato il sangue per il nome di Cristo può essere salvo, se non rimane nel grembo e nell’unità della Chiesa Cattolica. – Essa abbraccia, approva e accetta il santo Concilio di Nicea dei trecentodiciotto padri, riunito ai tempi del beatissimo Silvestro, nostro predecessore, e di Costantino il grande, principe piissimo, nel quale fu condannata l’empia eresia ariana assieme al suo autore, e fu definito che il Figlio è consustanziale e coeterno al Padre. – Abbraccia anche approva e accetta il santo concilio di Costantinopoli, dei centocinquanta padri convocato al tempo del beatissimo Damaso, nostro predecessore, e di Teodosio il vecchio, che colpì con l’anatema l’errore di Macedonio, il quale asseriva che lo Spirito Santo non è Dio, ma una creatura. La Chiesa condanna coloro che i Concili condannano e approva quelli che essi approvano e vuole che tutte le loro definizioni rimangano intatte ed inviolate in ogni parte. – Abbraccia, approva e accetta il santo primo Concilio di Efeso, dei duecento padri, terzo nella serie dei Concili universali, convocato sotto il beatissimo nostro predecessore Celestino e sotto Teodosio il giovane. In esso fu condannata l’eresia dell’empio Nestorio e fu definito che è una sola la Persona del signore nostro Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo e che la beata Maria sempre Vergine deve essere proclamata da tutta la Chiesa non solo Madre del Cristo, ma anche di Dio.

– La Chiesa invece condanna, colpisce con anatema e rifiuta l’empio secondo concilio di Efeso, riunito sotto il beato Leone, nostro predecessore, e il suddetto principe, in cui Dioscoro, patriarca di Alessandria, difensore dell’eresiarca Eutiche e empio persecutore di s. Flaviano, vescovo di Costantinopoli, con astuzia e con minacce, portò quel sinodo esecrando ad approvare l’empietà eutichiana. – Essa abbraccia anche, approva e accetta il santo Concilio di Calcedonia, quarto nella serie dei sinodi universali, dei seicentotrenta padri, celebrato ai tempo del predetto predecessore nostro Leone e dell’imperatore Marciano, nel quale fu condannata l’eresia eutichiana col suo autore Eutiche e con Dioscoro, suo difensore, e fu definito che Gesù Cristo, nostro Signore, è vero Dio e vero uomo e che in una stessa identica Persona la natura divina e la natura umana sono rimaste integre, intatte, incorrotte, inconfuse e indistinte, poiché l’umanità opera quello che è proprio dell’uomo e la divinità, quello che è proprio di Dio. Quelli che esso condanna, la Chiesa li condanna, quelli che approva, li approva anch’essa. – Abbraccia pure, approva e accetta il santo quinto Concilio, il secondo celebrato a Costantinopoli al tempo del beato Virgilio, nostro predecessore, e dell’imperatore Giustiniano, nel quale fu confermata la definizione del Con­cilio di Calcedonia sulle due nature e l’unica Persona del Cristo e furono re­spinti e condannati molti errori di Origene e dei suoi seguaci, specie quelli ri­guardanti la penitenza e la liberazione dei demoni e degli altri dannati. Essa inoltre abbraccia, approva e accetta il santo, terzo Concilio di Costantinopoli, dei centocinquanta padri, sesto nella serie dei concili universali, celebrato al tempo del beato predecessore nostro Agatone e dell’imperatore Costantino IV, nel quale fu condannata l’eresia di Macario antiocheno, e fu definito che in Gesù Cristo, nostro Signore, vi sono due nature perfette ed integre, due operazioni, e anche due volontà, ma una sola e identica Persona, a cui competono le azioni dell’una e dell’altra natura poiché la divinità compie ciò che è proprio di Dio, l’umanità ciò che è proprio dell’uomo. – Abbraccia, approva e accetta anche tutti gli altri Concili universali, legitti­mamente convocati, celebrati e confermati dall’autorità del romano pontefice, e specialmente questo santo Concilio fiorentino, nel quale, tra le altre co­se, è stata realizzata la santissima unione con i Greci e con gli Armeni, e sono state promulgate molte definizioni portatrici di salvezza riguardanti l’una e l’altra unione, riportate estesamente nei decreti promulgati su questi argomenti, che seguono in questa forma: Lætentur cœli … Exultate Deo …

– Ma poiché nel decreto per gli Armeni, riportato sopra, non si parla della formula che la santa Chiesa Romana, confermata dalla dottrina e dall’autorità degli Apostoli Pietro e Paolo, ha sempre usato nella consacrazione del corpo e del sangue del Signore, abbiamo deciso di inserirla qui. Ecco la formula usata nella consacrazione del Corpo del Signore: Questo è il mio corpo. In quella del sangue, invece: Questo è il calice del mio sangue, per la nuova e eterna alleanza, mistero della fede, versato per voi e per molti in remissione dei peccati (Mt XXVI, 28; Mc XIV, 18; Lc XXII, 20; 1 Cor XI, 25). – Quanto al pane di frumento, che serve per il Sacramento, è del tutto indifferente che sia cotto quel giorno o prima; purché infatti, rimanga la sostanza del pane, non vi è alcun dubbio che esso si transustanzi subito nel vero Corpo di Cristo dopo le parole della consacrazione, pronunciate dal sacerdote con l’intenzione di fare ciò.

– Si dice che alcuni non ammettano le quarte nozze ritenendole condannate; ma poiché non si deve considerare peccato ciò che non lo è ricordando che, secondo l’Apostolo, per la morte del marito, la donna è libera e può sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore (Rm VII, 3; 1 Cor VII, 39) né fa distinzione tra la morte del primo, del secondo o del terzo marito, dichiariamo che in assenza di impedimenti canonici, si possono lecitamente contrarre non solo seconde e terze nozze, ma anche quarte e oltre. Riteniamo tuttavia più lodevole rimanere nella casata, astenendosi da altre nozze, perché come la castità è da preferirsi alla vedovanza, così una casta vedovanza è da preferirsi alle nozze, per lode e merito.

–  Dopo che furono esposte tutte queste cose, il predetto abate Andrea, a nome del ricordato patriarca e suo proprio e di tutti i Giacobiti, riceve e accetta con ogni devozione e venerazione questo decreto sinodale portatore di salvezza con tutte le sue prescrizioni, dichiarazioni, definizioni, insegnamenti, precetti, decisioni e ogni dottrina enunciata in esso, nonché tutto quello che crede e insegna la Santa Sede Apostolica e la Chiesa Romana. E accoglie con venerazione i dottori e santi padri approvati dalla Chiesa romana; considera invece come riprovate e condannate tutte le persone e dottrine che la stessa Chiesa Romana riprova e condanna, promettendo come vero figlio obbediente, a nome di quelli che rappresenta, di obbedire con fedeltà e costanza alle disposizioni e ai comandi della Sede apostolica.

Firenze, Sess. XI – Bolla di unione ai Copti. 4 febb. 1442

DOMENICA III dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA III dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:16; XXIV:18 Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus. [Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Ps XXIV:1-2 Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam. [A te, o Signore, elevo l’ànima mia: Dio mio, confido in te, ch’io non resti confuso.]

Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus. [Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

 Oratio

Orémus.

Protéctor in te sperántium, Deus, sine quo nihil est válidum, nihil sanctum: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, te rectóre, te duce, sic transeámus per bona temporália, ut non amittámus ætérna. [Protettore di quanti sperano in te, o Dio, senza cui nulla è stabile, nulla è santo: moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché, sotto il tuo governo e la tua guida, passiamo tra i beni temporali cosí da non perdere gli eterni.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet V:6-11 “Caríssimi: Humiliámini sub poténti manu Dei, ut vos exáltet in témpore visitatiónis: omnem sollicitúdinem vestram projiciéntes in eum, quóniam ipsi cura est de vobis. Sóbrii estote et vigiláte: quia adversárius vester diábolus tamquam leo rúgiens circuit, quærens, quem dévoret: cui resístite fortes in fide: sciéntes eándem passiónem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitáti fíeri. Deus autem omnis grátiæ, qui vocávit nos in ætérnam suam glóriam in Christo Jesu, módicum passos ipse perfíciet, confirmábit solidabítque. Ipsi glória et impérium in sæcula sæculórum. Amen”. [Carissimi: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti nel tempo della sua visita: e affidate a Lui ogni vostra preoccupazione, poiché Egli stesso ha cura di voi. Siate sobrii e vigilate, poiché il vostro nemico, il diavolo, vi circonda come un leone ruggente, cercando di divorare qualcuno: ad esso resistete forti nella fede; sapendo che le medesime sofferenze hanno i vostri fratelli sparsi per il mondo. Tuttavia, il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, ci perfezionerà dopo che avremo sofferto un poco, e ci confermerà nella fede, ci irrobustirà. A Lui gloria e impero nei secoli dei secoli. Amen.]

Omelia I

[Mons. Bonomelli: da “Omelie”, vol. III – Omelia VII, Torino 1899]

“Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi innalzi allorché verrà a visitarvi, abbandonando in lui ogni vostra affannosa cura, perché egli ha pensiero di voi”. Siate sobri e vegliate, perché il demonio, vostro avversario, come leone ruggente, gira intorno a voi, cercando chi divorare. A lui tenete testa, saldi nella fede, sapendo che le stesse tribolazioni incalzano i vostri fratelli sparsi pel mondo. Il Dio poi d’ogni grazia, che in Gesù Cristo ci ha chiamati alla eterna sua gloria, poiché avrete alcun poco sofferto, egli stesso vi perfezionerà e solidamente vi stabilirà. A lui sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen „ (I . di S. Pietro, v, 6-11).

In queste sentenze voi avete voltato nella nostra lingua, parola per parola, il tratto dell’epistola che la Chiesa ci fa leggere nella Messa di questa Domenica; tratto che si legge verso la fine della la lettera di S. Pietro. Esso è breve, ma, come voi stessi vi sarete accorti udendone la recita, contiene alcune verità morali d’una importanza altissima, ch’io mi ingegnerò di sviluppare e voi vi studierete di comprendere. – S. Pietro, prima di chiudere la sua lettera, divisa in cinque piccoli capi, con affetto paterno si rivolge ai pastori di anime e vivamente li esorta allo zelo, al disinteresse ed alla modestia, ponendo innanzi ai loro occhi la corona immarcescibile che un dì riceveranno dal Principe dei pastori, Gesù Cristo. Poi si rivolge ai giovani e li esorta ad essere docili e rispettosi verso i provetti ed umili tra loro, perché l’umiltà è cara a Dio, che la ricolma di grazia. Quindi, rivolgendosi a tutti, continua: “Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, „ “Humiliamìnì sub potenti manu Dei”. L’umiltà, come sapete, è figlia del conoscimento di se stesso (S. Bernardo) e, volentieri aggiungo, e del conoscimento di Dio, giacché il primo conoscimento si compie e perfeziona nel secondo, precisamente come le ombre d’un quadro hanno il loro risalto dalla luce. Raccogliamoci in noi stessi un istante e gettiamo uno sguardo sopra l’essere nostro. Che è questo corpo? Un po’ di terra, che presto ritornerà alla terra: un po’ di nebbia, che un raggio del sole abbellisce per pochi momenti e un soffio d’aria disperde: un fiore che al mattino sfoggia i suoi colori smaglianti e spande la sua fragranza, e la sera china il capo, inacidisce e muore. – Questo corpo, che sembra pieno di vita, di forza e di bellezza, è travagliato da mille infermità, invecchia, si curva sotto il peso agli anni, è calato nel sepolcro, si riduce ad un pugno di polvere. E l’anima che l’avviva? Legata a questo corpo, se lo trascina dietro penosamente, come la chiocciola si trascina dietro la sua casa; tormentata dalle passioni, si dibatte miseramente tra l’errore e la verità, tra il vizio e la virtù, troppo spesso schiava di quello, raramente amica e discepola di questa: la sua vita è un intreccio continuo di debolezze e di colpe, che fanno salire la vergogna sulla sua fronte: il rimorso la segue e l’incalza, l’orrore della morte e il terrore del divino giudizio l’arresta, la respinge. Se leviamo gli occhi a Dio, che vediamo? Quale confronto tra Lui e noi? Tutto ciò che abbiamo è dono suo: nulla che sia nostro, del peccato in fuori: Egli eterno, immenso, immutabile, sapientissimo, la stessa bontà; noi racchiusi in questo angusto circolo del tempo, in questo punto impercettibile del nostro essere, soggetti ad incessanti mutazioni, pieni di dubbi, di incertezze, di errori, di ree tendenze. – Chi siamo noi d’innanzi a Dio? Povere, miserabili creature, degne d’ogni disprezzo e d’ogni pena. Consci di noi stessi e delle nostre miserie estreme, sentiremo il dovere e la necessità di umiliarci sotto la mano potente di Dio, che tutto conosce e dispone a nostro bene. – Che se curveremo la nostra fronte e fiaccheremo il nostro orgoglio dinanzi alla potenza ed alla maestà di Dio e diventeremo piccoli e spregevoli ai nostri occhi, ecco la mercede, che infallibilmente ne avremo: “Egli, Iddio, ci solleverà nel giorno della visitazione, „ Ut vos exaltet in tempore visitationis. – E la gran legge, che brilla da un capo all’altro del Vangelo e che ha il suo pieno compimento nel nostro Capo divino, Gesù Cristo. Vuoi essere grande dinanzi a Dio? Abbassati agli occhi tuoi. Vuoi essere il primo nel regno dei cieli? Sii l’ultimo quaggiù sulla terra, perché sta sempre la sentenza di Cristo: “Chi si abbassa sarà esaltato: Agli umili Dio concede la sua grazia. „ E quando al tuo volontario abbassamento risponderà l’innalzamento tuo? In tempore visitationis, nel tempo che Dio verrà a te, il dì cioè della tua morte, il giorno nel quale si chiuderà la vita presente e comincerà l’eterna (La frase “In tempore visitationis„ si incontra più volte nei libri sacri, e vuol dire, ora la visita che Dio fa con la sua grazia ed anche con i suoi castighi, ed ora il giudizio, sia particolare, sia universale. È una forma di dire ebraica e poetica).Voi vedete, o cari, che i Libri santi per sostenere la nostra debolezza nelle dure lotte della vita, per confortarci in mezzo alle pene ed alle amarezze, inseparabili compagne di chi batte il cammino della virtù, ci fanno sempre brillare agli occhi della mente le gioie della Vita futura: Ut vos exaltet in tempore visitationis. Togliete all’uomo la speranza del premio nella vita futura, chiudetegli sul capo le porte del cielo, ditegli che tutto finisce quaggiù, nella fossa del sepolcro, e voi avrete gettato nel suo cuore la disperazione, voi lo costringerete a maledire la sua esistenza, la virtù come un sogno, come un tormento. Ah! Se non vi fosse altra vita che la presente, altro premio per la virtù tribolata, che quello che dà il mondo, la nostra esistenza quaggiù sarebbe un enigma insolubile, una contraddizione manifesta, e noi saremmo, come scrisse l’Apostolo, i più miserabili degli esseri.Vi sono anche al giorno d’oggi alcuni dotti, i quali pensano e insegnano che è cosa indegna dell’uomo operare il bene, praticare la virtù per la mercede promessa nella vita futura. Essi dicono che in tal guisa la virtù si trasforma in una merce, la si abbassa, la si avvilisce: affermano, la virtù doversi praticare per se stessa, né doversi aspettare un premio futuro quale che sia; i credenti con la loro speranza della ricompensa essere volgari mercanti. – Che si possa esercitare la virtù, prescindendo dalla mercede futura, per la sua bellezza intrinseca, per piacere solo a Dio, che la comanda, nessun dubbio: è virtù altissima, lo sappiamo: che sia cosa indegna e biasimevole esercitarla per la speranza della retribuzione, è grave errore, condannato dai Libri santi, che ci incoraggiano alla battaglia della vita, all’esercizio della virtù, proponendoci il premio; è anche cosa che ripugna alla natura stessa dell’uomo, che non può non desiderare il proprio bene e che, per vincere le passioni e superare gli ostacoli, ha bisogno di attingere forza nella speranza della ricompensa. Costoro mostrano di non conoscere la natura umana e sollevano la virtù a tanta altezza da renderla non solo difficile, ma impossibile almeno alla maggior parte degli uomini.Compresi del vostro nulla dinanzi a Dio, fisso lo sguardo della mente in Lui “abbandonate in Lui ogni vostra cura affannosa.Omnem sollicitudinem vestram projicientes in eum”. Come bella e cara è questa sentenza del Principe degli Apostoli! Voi, figliuoli miei, così sembra parlare, voi siete oppressi dai timori e dalle ansie che vi assediano e stringono da ogni parte: siete come poveri pellegrini che, camminando verso la patria, sentono gravate le spalle da enorme fardello. Quante cure moleste! Quante pene dello spirito, spesso più pungenti di quelle che affliggono il corpo! Ebbene: di tutte queste cure che vi affannano, di tutte queste pene del corpo e dello spirito alleggeritevi, fatene un fascio e gettatele in Dio: Projicientes in eum! La espressione qui usata da S. Pietro è piena di forza: non dice ponetele in Dio, offritele a Dio, rassegnatevi al volere di Dio, o alcun che di simile, ma, Projicientes: Gittatele in Dio, che significa il totale e perfetto abbandono d’ogni nostra cura ed ansia in Dio, a talché ne smettiamo al tutto ogni pensiero ed ogni timore.Dobbiamo noi dunque vivere spensierati? S. Pietro in questo luogo ci vieta forse di occuparci delle cose nostre e ci comanda di starcene neghittosi, con le mani in mano, il tutto rimettendo alla Provvidenza divina? No sicuramente; così facendo, offenderemmo la stessa Provvidenza di Dio, che vuole il concorso dell’uomo: sarebbe un tentar Dio e un trasformare la virtù in un vizio. S. Pietro in questa sentenza, vuole che cessiamo dalle sollecitudini eccessive, ma che dal canto nostro facciamo ciò che possiamo: condanna la cura smoderata, affannosa, che ripone ogni fiducia nei propri sforzi e dimentica che al di sopra dell’uomo vi è Dio, che governa ed ordina ai suoi fini altissimi. Facciamo tutto, come scrisse un santo, come se non vi fosse la Provvidenza, e poi governiamoci come se tutto avesse fatto la Provvidenza.E perché dobbiamo abbandonarci interamente fra le braccia della Provvidenza? “Perché risponde S. Pietro, Dio ha pensiero di voi” Quìa ipsi cura est de vobis. Dio non fa come l’architetto, il quale dopo avere fabbricato la casa, se ne va; come il pittore, il quale dopo avere ritratta sulla tela la figura, pensa ad altro lavoro: Egli è creatore e insieme conservatore e provveditore, e non perde di vista l’opera delle sue mani per un solo momento, e pensa e provvede a ciascuna come se fosse sola. Come dunque non dobbiamo riposare tranquillamente in questa paterna Provvidenza? Abbandonandoci in Dio, come figli nel seno del padre, noi lo onoriamo, riconoscendo la sua sapienza, la sua potenza e la sua bontà e, se è lecito il dirlo, lo obblighiamo a circondarci di cure più affettuose. Il figlio, che tutto si affida alle cure del padre amoroso, lo onora grandemente ed è sicuro, se è possibile, di accrescerne la tenerezza. Sì, o dilettissimi, gettiamo tutte le nostre sollecitudini in Dio, perché Egli ha pensiero di noi.E sì vero che S. Pietro, esortandoci a collocare ogni nostra cura in Dio, non intesa a scioglierci da ogni lavoro e sforzo dal lato nostro, che soggiunge: “Siate sobrii e vegliate, „ Sobrii estote et vigilate. Due cose accoppia tra loro e raccomanda l’Apostolo: la sobrietà e la vigilanza, perché non si possono separare. La sobrietà o temperanza in ogni cosa è madre della vigilanza, nutrice della scienza e tutrice della castità, come la gola e la crapula sono amiche del sonno, della pigrizia, dell’ignoranza, del basso sentire e della lussuria. “Sobrii estote” Siate sobri, che il cibo non sia mai soverchio, o soverchiamente delicato, che la bevanda estingua la sete, non solletichi il gusto: che l’uno e l’altra siano contenuti entro la giusta misura, né gravino il corpo ed oscurino la mente: soddisfino i bisogni della natura, non eccitino le passioni, né siano alimento del vizio. Come volete che vegli, che stia in guardia, che preghi, che pesi le parole, che regoli gli atti suoi, colui che è oppresso dal cibo, la cui mente è abbuiata dai vapori del vino? Come volete che si sollevi a Dio col pensiero e con l’affetto chi giace sotto il peso della crapula? Come volete che fissi l’occhio della mente nella luce sì pura della verità e della virtù chi l’ha pressoché chiuso per l’intemperanza del mangiare e del bere? Siate sobri e sarete vigilanti: e ciò è necessario, perché grandi pericoli e terribili nemici ne circondano. – Quali nemici? Udite: “Perché il demonio, vostro avversario, come leone ruggente, si aggira intorno, cercando chi divorare.„ Nemico nostro è il mondo, con le sue seduzioni, con i suoi inganni; nemico nostro è il corpo, che portiamo, con le passioni che in esso si annidano, quasi serpi velenose sotto un cespuglio di fiori; nemici nostri sono i tristi, che insidiano la nostra fede; ma il nemico principale, il nemico, che sotto la sua bandiera raccoglie tutti i nostri nemici, che li muove e scatena ai nostri danni, è il demonio, il nostro avversario per eccellenza; egli sedusse i nostri primi padri e continua in noi, loro figli, l’opera sua, opera di morte. Non ignoro, o dilettissimi, che parecchi anche credenti, all’udir nominare il demonio, si stringono nelle spalle, sorridono e quasi in aria di compatimento, dicono: Il demonio! chi ora ci crede? Chi l’ha mai veduto ? È una credenza, che si può lasciare alle pie donne del volgo. L’esistenza dello spirito malvagio, che troviamo in fondo a tutte le credenze religiose antiche e moderne, per noi Cattolici, è verità di fede: le pagine dei Libri santi ne sono ripiene e possiamo dire che tutta la divina rivelazione, dal Genesi all’Apocalisse, si svolge sotto l’azione della lotta tra gli spiriti maligni ed i figli di Dio. Essa comincia nell’Eden, prosegue fino al Calvario ed avrà fine al termine dei tempi, quando il principe delle tenebre sarà cacciato per sempre dalla terra. Non ascoltate dunque coloro che mettono nel numero delle favole o delle leggende, l’esistenza dei demoni; essa è un articolo di fede. – Il demonio odia Dio, a cui si ribellò e che lo punisce, ed odia fieramente noi, perché sue creature, portanti in noi stessi l’immagine di Dio, perché amati da Dio e da Lui chiamati a quel regno beato dal quale egli fu per sempre sbandeggiato. Vedetelo, dice S. Pietro, vedetelo il demonio, il vostro implacabile nemico, egli è simile al leone: il leone, il re della selva, è superbo, feroce, pieno d’ira e di rabbia: esso arruffa il pelo, con la coda si flagella i fianchi; dagli occhi balena una luce sinistra, con i suoi ruggiti fa tremare il deserto, si lancia sulla sua preda, la ghermisce, la dilania con le unghie poderose e coi denti la maciulla: esso non sa che uccidere e degli uccisi si pasce. Il demonio, come leone affamato, rugge, e si aggira intorno a voi, in cerca della preda, e guai al misero sul quale può stendere l’unghia terribile! Voi vedete che S. Pietro in poche battute ci descrive al vivo la forza, la crudeltà, la rabbia onde il demonio arde contro di noi, e quanto sia necessario vegliare per non cadere nelle sue fauci. – Prima condizione per non essere sua vittima è la vigilanza, perché quantunque questo nemico sia tremendo, per la forza e per la ferocia, esso è incatenato da Cristo, è come chiuso entro la sua gabbia, e soltanto coloro che incautamente gli si avvicinano, sono da lui afferrati e divorati. Lungi adunque, lungi dalla fiera belva: badate di non cercare il pericolo, di non esporvi alla tentazione senza necessità: chi cerca il pericolo, chi si espone senza motivo sufficiente alla tentazione è simile a quell’imprudente che si accosta alla gabbia del leone e scherza con esso; sentirà la forza dei suoi artigli e sarà suo pasto miserando. – Non basta star lungi, fuggire la tentazione, vigilare per non essere colto ed addentato; fa d’uopo al bisogno tenergli testa: Cui resistite fortes. Assai volte possiamo fuggire la tentazione, ma talora è impossibile fuggirla: talora è forza affrontarla, massime vivendo in questo mondo. Allora, o miei cari, noi siamo simili a coloro che sono costretti ad entrare nella gabbia, dove giace il leone e affrontarne il furore. Che fanno essi? Non è mai che gli volgano le spalle: fissano lo sguardo immobile e dominatore sul leone, e questo qua e là si aggira ruggendo, ma non osa assalirli, anzi diviene loro zimbello. Così noi, o carissimi, costretti a lottare corpo a corpo contro il demonio, il tentatore, teniamo fisso sopra di lui l’occhio illuminato dalla fede. Un raggio solo della luce divina, che per la fede si riflette nel nostro sguardo, farà sentire al nemico la presenza di Cristo, che lo vinse, lo soggiogherà, lo renderà impotente, ed allora, come cantava il Salmista, potremo camminare sul capo del leone e del dragone. È questo, che vuole insegnarci S. Pietro, allorché ci dice: “Tenete testa, forti nella fede, „ Cui resistite fortes in fide. – “Lo so, in questa lotta soffrirete assai, così S. Pietro; ma ricordatevi, che altri soffrirono come voi. Chi sono? I vostri fratelli, sparsi pel mondo”: Scientes eamdem passionem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitati fieri. Questa lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, sette anni circa prima della sua morte. I fedeli ai quali scriveva, non potevano certamente ignorare le sue tribolazioni, le persecuzioni che soffriva egli, Principe degli Apostoli, e con lui soffrivano tutti i fratelli suoi nell’apostolato, e più o meno tutti i Cristiani sparsi nel mondo. È un conforto, doloroso, se volete, ma è sempre un conforto, il sapere che altri patiscono come noi, come noi e per gli stessi motivi per i quali soffriamo noi. È un conforto, perché se soffrono altri come noi e per gli stessi motivi, perché non soffriremo ancor noi? La loro costanza, il loro esempio ci incoraggia e ci avvalora. L’essere soli a lottare e soffrire sconforta: guai al solo, dice la Scrittura: avere compagni sembra raddoppiare le nostre forze. È un conforto, perché la nostra fede si ravviva, si ravviva la nostra speranza, perché sappiamo che altri per esse soffrono con noi. I soldati, che sanno i loro commilitoni pugnare altrove valorosamente, sentonsi eccitati ad imitarli e più animosi si gettano nella mischia. Bene a ragione adunque S. Pietro rammenta ai fedeli dell’Asia che, se essi soffrono, soffrono pur altri, i loro fratelli, dovunque sparsi sulla terra. Da queste parole dell’Apostolo noi comprendiamo che fin d’allora tutti i credenti, benché lontanissimi tra loro, si consideravano come fratelli, formanti una sola famiglia, tantoché i dolori come le gioie erano comuni. – Questo spirito di solidarietà, dirò meglio, di mutua carità e fratellanza, è caratteristico della Chiesa di Gesù Cristo; allorché alcuni suoi membri soffrono per la fede, per la causa della giustizia, siano pure sulle ultime spiagge dell’Oriente, o tra le aride sabbie del deserto, o tra le selve d’Africa o d’America, gli altri soffrono con essi, pregano e li soccorrono, se possono. – Questa comunione delle gioie e dei dolori tra i figli della Chiesa, è frutto della stessa fede e della stessa carità, e ne è ad un tempo l’alimento. – Soffriamo tutti, dice in sostanza S. Pietro, soffriamo tutti in questa lotta col principe delle tenebre e con i suoi alleati: che posso dirvi? Io non fo che un voto, ed è questo: “Il Dio d’ogni grazia, che in Cristo ci ha chiamati alla gloria eterna, dopo il breve patire, vi perfezioni e solidamente vi stabilisca. „ Dio, che è fonte inesausta d’ogni grazia, per i meriti di Cristo, che ci ha redenti, compia l’opera sua in voi, vi perfezioni nella pazienza e nella carità, vi tenga saldi nella lotta contro il nemico e dopo i brevi patimenti della vita presente, vi stabilisca in quella gloria beata, alla quale ci ha chiamati. – Sempre questo lo spirito che informa l’insegnamento della fede e che brilla mirabilmente in tutti gli scritti del nuovo Testamento; noi siamo posti su questa terra per conoscere, amare e servire Iddio; siamo posti su questa terra, non per godere di questi poveri beni, ma per acquistarci con le nostre fatiche la immortalità beata; tutto il Vangelo di Gesù Cristo si riduce a questa semplicissima verità, vivere santamente sulla terra per meritare il cielo, patire nella vita presente per amore di Dio e godere con Lui per sempre nella vita futura. “È questo, diceva Lattanzio, il compendio d’ogni cosa, è questo il segreto di Dio, è questo il mistero del mondo” (Lact. lib. 7, c. 6). Ricordate questa verità, compendio di tutta la fede, S. Pietro sembra quasi rapito fuori da se stesso: fissando gli occhi della fede nella sempiterna felicità, che ci aspetta; considerando il poco che ci si domanda per guadagnarla, con l’anima riboccante di gratitudine e di gioia verso Dio, quasi fosse giunto al termine del suo pellegrinaggio ed immerso in quell’oceano di ineffabili godimenti, esce in questo grido, in quest’inno d’amore: “A Lui, cioè a Dio, a Gesù Cristo, gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen. „ Noi, miserabili creature, non possiamo dar nulla a Dio, perché nulla abbiamo di nostro e di nulla Egli abbisogna: eppure, in qualche senso noi possiamo dare a Dio alcun ché di nostro; anzi possiamo offrirGli un dono prezioso e tutto nostro e ch’Egli aspetta e che altamente lo onora. E quale ? La nostra volontà, la nostra libertà. Essa pure è dono, e dono di Dio; ma Dio l’ha data a noi per modo che è nostra, tutta nostra e noi possiamo restituirla a Lui e non restituirla ed usarne a nostro talento. Non v’è offerta, che maggiormente onori Iddio e che torni a Lui accettevole della nostra libera volontà, appunto perché libera ed è in poter nostro fargliene omaggio o ricusarglielo. Non dimenticatelo mai, o cari; un atto della libera libera volontà rende a Dio più onore che tutte insieme le creature irragionevoli del cielo e della terra. Offriamo dunque a Dio la nostra volontà, e la offriremo, facendo la volontà sua nella osservanza esatta della sua legge. A Dio non possiamo dar nulla, perché Egli di nulla abbisogna ed è il centro di tutte le perfezioni, è vero, ma possiamo godere della infinita sua grandezza e delle sue perfezioni; possiamo desiderare che il Nome suo sia santificato su tutta la terra, che la sua volontà sia dovunque adempiuta, cioè possiamo desiderare che gli uomini tutti Lo conoscano, Lo lodino, Lo esaltino, Lo glorifichino e da questa s’innalzi perenne il grido di S. Pietro: “A Dio gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen”. — Così sia.

Graduale
Ps LIV:23; LIV:17; LIV:19 Jacta cogitátum tuum in Dómino: et ipse te enútriet. [Affida ogni tua preoccupazione al Signore: ed Egli ti nutrirà.]

V. Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam ab his, qui appropínquant mihi. Allelúja, allelúja. [Mentre invocavo il Signore, ha esaudito la mia preghiera, liberandomi da coloro che mi circondavano. Allelúia, allelúia]

Ps VII:12 Deus judex justus, fortis et pátiens, numquid iráscitur per síngulos dies? Allelúja. [Iddio, giudice giusto, forte e paziente, si adira forse tutti i giorni? Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

S. Luc. XV:1-10 “In illo témpore: Erant appropinquántes ad Jesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisæi et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in cœlo super uno peccatóre pœniténtiam agénte, quam super nonagínta novem justis, qui non índigent pœniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte”.

Omelia II

[Mons. Bonomelli, ut supra, om. VIII]

I pubblicani e i peccatori si andavano accostando a Gesù per ascoltarlo; ma i farisei e gli scribi ne mormoravano, dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con essi. E Gesù disse loro questa parabola: Chi è l’uomo tra voi, il quale avendo cento pecore, se ne perde una, non lasci le novantanove nel deserto e non corra dietro alla smarrita finché l’abbia trovata? E, avendola trovata, tutto lieto se la mette in sulle spalle; e, venuto a casa, raduna gli amici e i vicini e dice loro: “fate festa meco, perché io ho trovato la mia pecora, che era perduta”. Io vi dico, che così si farà più letizia in cielo per un peccatore penitente, che per novantanove giusti, che non hanno bisogno di penitenza. Ovvero, qual è la donna, che avendo dieci dramme, se ne perde una, non accenda la lucerna e non spazzi la casa e con ogni diligenza non cerchi finché l’abbia trovata? E, trovatala, raduna le vicine e le amiche, dicendo: “rallegratevi meco, perché io ho trovato la dramma, che avevo perduto”. Così vi dico, si farà festa tra gli Angeli di Dio per un peccatore penitente „ (S. Luca, xv, 1-10).

Nella lezione evangelica di questa Domenica si contengono due distinte parabole o similitudini, che dire vogliate: la parabola o similitudine del pastore, che va in cerca dell’agnella smarrita, e quella della donna che mette sossopra la casa per trovare la dramma perduta. Le due parabole sono distinte ma un solo ed identico è il loro fine, quello di mettere in piena luce l’amore cocentissimo di Gesù Cristo pei poveri peccatori e il desiderio e la gioia vivissima del suo amore per la loro conversione. – Se vi è argomento caro e giocondo a trattarsi è certamente questo, o dilettissimi, e ciò per due motivi principali; primieramente perché tra tutte le perfezioni divine la bontà tiene il primo posto, e questa bontà nel Vangelo d’oggi brilla in tutta la sua bellezza; in secondo luogo, perché peccatori come siamo  tutti, abbiamo sommo bisogno di meditare questa bontà di Dio, unica nostra speranza. – “I pubblicani e i peccatori si andavano accostando a Gesù per ascoltarlo. „ Non è a dubitare, che il discorso di Cristo a questo precedente, fosse inteso ad ispirare fiducia ai peccatori. In questo Vangelo di S. Luca non ne troviamo traccia, ma l’abbiamo bellissima nel luogo parallelo di S. Matteo che pur esso riferisce la parabola dell’agnella sbrancata. Gesù, come narra S. Matteo, aveva dichiarato di essere venuto a salvare tutto ciò che perito: Venit Filius hominis salvum facere quod perìerat; e questa verità l’avrà ampiamente sviluppata con quell’accento d’ inesprimibile tenerezza, che la sua carità gli poneva sulle labbra. Che avvenne? I pubblicani o riscuotitori dei pubblici balzelli, gente in mala voce ed odiatissima dagli Ebrei ed ogni sorta di pubblici peccatori, attratti e vinti dalla carità di Gesù, rapiti dalla sua parola piena di dolcezza e paterno compatimento, si avvicinavano a Lui con figliale confidenza per ascolarLo. – Due classi di persone, come apprendiamo dal Vangelo, si avvicinavano a Gesù, ma con fini affatto differenti: la classe dei farisei, degli scribi, dei sadducei, dei dottori della legge e dei sacerdoti, e la classe popolana, e in essa particolarmente quelli che qui si chiamavano pubblicani e peccatori. Quelli si avvicinavano a Gesù quasi sempre all’intent, non d’istruirsi, ma di muovergli questioni, di coglierlo in fallo, – “Ut caperent eum in sermone—, e svergognarlo davanti alla moltitudine ed accusarlo presso l’autorità; questi per contrario si accostavano a Gesù con umiltà di cuore, con semplicità di spirito, per udirlo ed imparare, — Ut audirent eum —. Quelli erano, se volete, dotti, ma superbi e maligni: questi erano ignoranti, ma schietti ed umili; quelli con tutta la loro scienza non conobbero la verità, anzi orgogliosamente la respinsero, dovecché questi, nella loro ignoranza, la conobbero e l’abbracciarono. Miei cari! Quello che avvenne intorno a Cristo si ripete costantemente anche ai nostri giorni, e potete accertarvene con i vostri occhi; anche al presente il povero popolo ascolta e riceve la verità della fede nella semplicità del suo cuore, e gli uomini della scienza e della ricchezza, pur troppo in gran numero, non se ne curano, la disprezzano e fors’anche la combattono. Quale la causa? Sempre la stessa, quella che balzò dal cielo gli angeli, che fece cadere i nostri protoparenti, quella che oscura la mente, indura il cuore e maggiormente offende Dio: l’orgoglio. – Ed è cosa che duole altamente e ci fa meravigliare, vedere non di rado persone che all’apparenza si direbbero religiose, uomini anche di Chiesa, che si lasciano trascinar da questo spirito di orgoglio e di critica e si fanno imitatori degli scribi e dei farisei. Mentre gli uomini del popolo, i poveri peccatori accorrono ad udire la parola di Dio e la ricevono con semplicità e docilità di cuore, certi uomini di Chiesa biasimano il modo con cui si annunzia e quelli che la annunziano, con arte finissima s’ingegnano di screditare  l’opera loro, perché non sono del loro partito, perché godono il favore popolare, perché si struggono d’invidia, simili ai farisei antichi ed a quei falsi fratelli che S. Paolo sfolgorò più volte nelle sue incomparabili lettere. Ad udirli è lo zelo della verità, della integrità della fede, l’amore delle anime, che li muove: ma in realtà sono dominati dalla superbia, dall’invidia, dallo spirito di parte, dalla smania di signoreggiare. No, no: costoro non amano le anime, ma se stessi, non cercano la gloria di Dio, ma la propria, non hanno lo spirito di Gesù Cristo, ma dei farisei, non edificano, ma distruggono: fuggiteli. – I farisei e gli scribi, vedendo questi pubblicani e peccatori notissimi far corona a Gesù Cristo e pendere riverenti dalla sua bocca, lungi dal rallegrarsene e sperar bene della loro conversione, se ne mostravano offesi, e guardandosi gli uni gli altri, crollando il capo, in aria di scherno, mormoravano e dicevano: “Costui accoglie i peccatori e mangia con essi – Hic peccatores recipit et manducat cum illis. Doppia accusa; accoglie i peccatori e mangia con loro! – la setta farisaica, osservante fino allo scrupolo tutte le cerimonie della legge e gli usi dei maggiori, tutta zelo per le pratiche esterne del culto, non curava l’interno pieno d’orgoglio, trattava con alterigia il povero popolo, e reputandosi santa, disprezzava e scacciava via da sé i peccatori. Isaia aveva dipinto a meraviglia questi superbi in poche parole:”Essi dicevano: Non mi toccare, perché io sono mondo. „ Per essi era colpa avvicinare i peccatori, parlare con loro, intrattenersi famigliarmente con essi. Ne abbiamo una immagine nelle caste superiori attuali dell’India, specialmente i Bramini, che reputano colpa comunicare con le caste inferiori o toccar cosa da queste toccata. Non par vero tanto e sì odioso accecamento in uomini. Ora Gesù era venuto per salvare tutti, ma più quelli che ne avevano maggior bisogno. Perciò Egli non solo lasciava che si accostassero a Lui i peccatori, i gabellieri, i pubblicani e tutta questa gente reputata perdutissima, ma Egli stesso andava a loro, sedeva con essi a mensa,  li trattava con dolcezza e con ogni carità. Siffatta condotta non è a dire quanto irritasse il partito farisaico: era la sua condanna, ne fremeva, ne menava rumore come d’uno scandalo enorme: Murmurabant pharisæi et scribæ, dìcentes: quia peccatores recipit et manducas cum eis. Nessuna cosa è tanto bella e sì cara come questa condotta di Gesù con i peccatori. Egli sta in mezzo a loro, li ammaestra, accetta gli inviti alla loro mensa, dissimula le loro miserie, i loro scandali, Egli, la santità in persona! Non mai una parola dura, acerba, un rimprovero amaro. Ecco il modello che dobbiamo imitar noi, sacerdoti: lasciamo agli scribi e ai farisei il fiero cipiglio, la durezza, l’alterigia con i peccatori; noi imitiamo la carità, il tenero compatimento di Gesù (S. Greg. M. Homil. 34 in hunc locum.). [Si, è zelo falso, nocivo, farisaico quello che ci fa essere duri e aspri con i poveri peccatori: è amor proprio mascherato di zelo. Si possono rimproverare anche fortemente i peccatori, e talora è necessario, ma senza dimenticare la carità che si sente anche nel più fiero rimprovero], e ricordiamo sempre quelle benedette parole uscite un dì dalla sua bocca: “Io voglio la misericordia, la compassione, e non la giustizia: „ Misericordiam volo et non judìcìum. È vero, anche Gesù ebbe parole terribili, le leggiamo nel Vangelo; ma per chi? Non mai, neppure una volta, per i peccatori, pubblicani, meretrici, gabellieri, ma per i farisei e per gli scribi, gente superba, senza cuore per gli erranti; questi, e questi soli flagellò e condannò con parole roventi, con una serie di formidabili “guai”, che fanno rabbrividire pure a leggerli, (S. Matteo XXIII, 13-33.). – Gesù udendo e conoscendo questo mormorare degli scribi e dei farisei per la domestichezza che usava coi peccatori, colse occasione di mostrare la natura della nuova dottrina, di far conoscere e far sentire quale sia lo spirito di Dio e, seguendo il suo stile, disse questa parabola: ” Chi è fra voi, il quale, avendo cento pecore, se ne ha perduta una, san lasci le novantanove nel deserto, per correre dietro alla smarrita, finché la trovi? „ La parabola od immagine è tolta da un fatto comunissimo, che tutti avevano sotto gli occhi giacché la pastorizia presso gli orientali e presso gli Ebrei era in grande uso non solo, ma anche in onore. Ponete, così Cristo agli scribi, ai farisei e alle turbe, ponete che uno di voi sia pastore ed abbia cento pecore. Egli le conduce per monti e per valli e in luoghi remoti e deserti per pascerle. La pecora, voi lo sapete, è semplice, mansueta, tranquilla, docile, sì, ma stordita. Essa facilmente si scorda del pastore e brucando i cespugli o l’erba a poco a poco si allontana dal pastore e dalle compagne e si caccia nel fitto della boscaglia e vi si smarrisce. Ebbene, dice Cristo, che fareste voi se foste il pastore di quelle cento pecorelle? Ah! voi, lascereste certo le novantanove nel deserto, affidate a buona custodia, e andreste subito in traccia di quell’unica, che si è sbrancata; voi la cerchereste per colli e per valli, per boschi e per burroni; voi tendereste l’orecchio por udire i suoi belati, la chiamereste col noto fischio, non risparmiereste fatica per ritrovarla e appena vedutala od uditala, correreste ad essa, e pigliatala, non la battereste, né la trascinereste per via, maltrattandola, come pur meriterebbe; ma la accarezzereste, la porreste sulle vostre spalle, la riportereste all’ovile tutto lieto e giulivo. E giunti all’ovile, continua Cristo, che fareste? Chiamereste gli amici pastori, i vicini, i conoscenti e dimentichi della fatica durata e del dispiacere avuto, direste loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecorella, che avevo perduto. „ Nulla di più semplice, di più ingenuo, di più amabile di questa scena pastorale, che Gesù Cristo ha tratteggiata in tre soli versetti. Vi è una naturalezza, un candore, una freschezza di immagini e di linguaggio che non solo pareggia, ma supera quanto di somigliante troviamo nei classici latini e greci. Ora chi è questo pastore? Chi raffigurano le agnelle rimaste fedeli al pastore nel deserto? Chi adombra l’agnella smarritasi che è riportata all’ovile? Chi rappresentano gli amici ed i vicini, chiamati a rallegrarsi col pastore? La similitudine è sì chiara e sì graziosa, che si spiega da sé, e il velo è sì trasparente, che non occorre levarlo per vedere ciò che esso copre. Nondimeno alcune osservazioni non saranno superflue. – Il pastore, non fa mestieri il dirlo, è Gesù Cristo; le novantanove agnelle, che non si sbrancarono e rimasero col pastore, secondo alcuni significano gli Angeli fedeli, che Cristo lasciò nei cieli per venire sulla terra e operare la salvezza degli uomini traviati; ma sembra più conveniente il dire, che quelle novantanove agnelle significano in genere i buoni, siano Angeli, siano uomini e si dicono novantanove, unicamente allo scopo di far risaltare maggiormente la bontà del pastore che corre dietro alla centesima. L’agnella smarrita significa il peccatore; gli amici ed i vicini rappresentano i buoni, Angeli e uomini, e forse sono posti nella similitudine come complemento della medesima e per abbellire il quadro. – Se in tutto il Vangelo non si incontrasse che questa sola parabola o similitudine, essa sarebbe più che bastevole a mostrarci la bontà del divino Pastore e l’amore che lo strugge per la conversione dei peccatori. Questo Pastore, che è l’Uomo-Dio, il quale lascia per qualche tempo i buoni per correre in cerca di un solo peccatore, che non guarda a stenti, a fatiche, a viaggi, a pericoli, che non si dà pace se non quando l’ha trovato, e guadagnato, che non lo rimprovera, ma fa festa dell’averlo ricondotto a sé, ci dipinge al vivo la sua carità e più che non farebbe un lungo ed eloquentissirno discorso. O peccatori fratelli, se mai qui foste a udirmi, uno sguardo a questo amabilissimo Pastore, che è Gesù Cristo! Voi vi siete allontanati dall’ovile, andate errando miseramente per boschi e per deserti, da un istante all’altro potete cadere tra le zanne di bestie feroci e divenir pasto del lupo infernale; voi correte dietro follemente alle vostre passioni, al mondo che vi seduce. Sappiate  che Gesù vi segue, vi chiama, vi prega ritornare a Lui; ascoltate la sua voce, fermate il passo, muovetegli incontro, gettatevi tra le sue braccia: Egli vi accoglierà, vi stringerà al suo seno, non vi rimprovererà, sarete ancora i suoi cari figliuoli e ancora vi farà sentire tutte le dolcezze della sua carità. – A taluno di voi potrà sembrare strano quel confronto che troviamo nella parabola tra le novantanove pecore e l’unica sbrancata, e vedere il pastore che lascia quelle e corre dietro a questa. Forseché d’innanzi a Gesù Cristo val più un peccatore che novantanove giusti? Dov’è mai quel pastore sì dissennato, che abbandonerà le novantanove pecore per cercare una che si è smarrita? Sarebbe mai che Dio amasse il peccatore più dei giusti? Ciò non è, né può essere, e voi lo comprendete bene.  Il paragone usato da nostro Signore vuolsi  intendere allo scopo di mettere in rilievo la contentezza, la gioia che la conversione del peccatore apporta, a nostro modo di dire, a Gesù Cristo e agli spiriti beati, non mai all’intento di mostrare che a Dio siano più cari i peccatori dei giusti. Una madre ha parecchi figli, li ama tutti teneramente: l’uno, e forse quello che talvolta la contrista, cade infermo e si riduce in termini di vita e poi risana: non é egli vero che questa madre fa più festa della guarigione di quell’uno che della sanità perfetta, di cui godono tutti gli altri? Chi  dirà mai che ella ama quel figliuolo risanato più degli altri? – Gesù passa ad una seconda similitudine, ma svolgendo sempre la stessa verità. ” Qual è quella donna, la quale, avendo dieci dramme, se abbia perduta una, non accenda la lucerna e non spazzi la casa e cerchi con diligenza finché la trovi? E trovatala, raduna le amiche e le vicine, dicendo loro: Rallegratevi meco, perché ho trovato la dramma perduta? „ Balza all’occhio di tutti che se nella similitudine precedente Cristo rappresenta se stesso nel pastore, qui si rappresenta nella donna, e se il peccatore era raffigurato nella pecora smarrita qui si raffigura nella dramma perduta. – Immaginate una povera donna, che possieda in casa dieci dramme, ossia dieci monete; la dramma o moneta, di cui parla in questo luogo l’Evangelista, ragguagliato il valore, rispondeva ad ottanta dei nostri centesimi. Ponete che la poverella ne perda anche una sola; per essa non è piccola cosa. Che fa? Vedetela tosto dar di piglio alla lucerna, accenderla, frugare per ogni angolo della casa, spazzarla e rimescolare quel pattume, tutt’occhi, per trovarvi la perduta monetuccia, e se le vien fatto di trovarla, la piglia, e tenendola in mano, tutta lieta, chiama le amiche e le vicine e, mostrandola loro, le invita a partecipare alla sua allegrezza, dicendo: Ho trovato la dramma che avevo perduta. – S. Gregorio Magno, spiegando questa parabola, dice molto graziosamente, che in questa donna dobbiamo riconoscere l’eterna Sapienza che ha creato l’uomo a sua somiglianza; nella moneta dobbiamo scorgere l’uomo stesso, che porta in sé l’immagine di Dio, come la moneta stessa porta l’immagine del re, che l’ha fatta coniare. L’uomo col peccato guastò in sé l’immagine di Dio: ecco la moneta perduta. Allora Dio, la divina Sapienza, accende la lucerna, ossia si incarna e nasconde la sua luce nella lucerna stessa, rischiara la casa, cioè il mondo, illumina la coscienza, la purifica e va ristorando in essa l’immagine sua svisata e bruttamente guastata, ed ecco trovata la dramma, cioè salvata l’anima peccatrice. La sostanza delle due parabole, non è d’uopo ripeterlo, è l’amore e la gioia di Gesù Cristo, e di quanti stanno con Lui, allorché un peccatore ritorna a penitenza. – Voi, o scribi e farisei, così il divino Maestro, mormorate di me, anzi vi scandalizzate, perché lascio che i peccatori vengano a me, perché li accolgo con amore e siedo a mensa con essi: ma è questo il fine della mia missione: son venuto per essi, perché sono gli infermi che han bisogno del medico, non i sani, e volentieri me ne sto con loro, affine di compiere in essi l’opera mia. Vi dirò di più: è poco per me accogliere i peccatori e mangiare con essi; io andrò a loro, li cercherò, come il pastore cerca l’agnella smarrita e una povera donna cerca la moneta perduta; non solo siederò alla loro mensa, ma Io imbandirò loro il banchetto e farò festa. Sappiatelo bene: quest’opera è cara a me, cara al Padre mio, cara agli Angeli, e voi stessi dovreste goderne ed aiutarmi. – Queste due parabole sono una sublime lezione per noi tutti sacerdoti e ministri di Gesù Cristo, e ci insegnano come dobbiamo sempre ed ovunque amare i peccatori, cercarli, trattarli con carità per condurli alla verità, alla Chiesa e salvarli. Esse insegnano anche a uomini, eredi dello spirito e della durezza degli scribi e dei farisei, come sia falsa la via che essi tengono e falso il loro zelo. Anche al giorno d’oggi, dopo l’insegnamento e l’esempio di Gesù Cristo, vi sono alcuni che biasimano la benignità con i poveri peccatori; che li vorrebbero tener lontani dalla Chiesa, che forse talvolta li cacciano con parole aspre, con modi duri, con invettive rabbiose e si meravigliano e fanno gli scandalizzati se altri loro si accosta e conversa con loro e li tratta come vuole la carità. Oh! costoro pensino all’esempio di Gesù Cristo, meditino le due parabole che disse agli scribi e ai farisei e che vi ho spiegato. Là soltanto è la nostra norma infallibile.

CREDO …

 Offertorium

Orémus: Ps IX:11-12 IX:13 Sperent in te omnes, qui novérunt nomen tuum, Dómine: quóniam non derelínquis quæréntes te: psállite Dómino, qui hábitat in Sion: quóniam non est oblítus oratiónem páuperum. [Sperino in te tutti coloro che hanno conosciuto il tuo nome, o Signore: poiché non abbandoni chi ti cerca: cantate lodi al Signore, che àbita in Sion: poiché non ha trascurata la preghiera dei poveri.]

 Secreta

Réspice, Dómine, múnera supplicántis Ecclésiæ: et salúti credéntium perpétua sanctificatióne suménda concéde. [Guarda, o Signore, ai doni della Chiesa che ti supplica, e con la tua grazia incessante, fa che siano ricevuti per la salvezza dei fedeli.]

 Communio

Luc XV:10. Dico vobis: gáudium est Angelis Dei super uno peccatóre poeniténtiam agénte. [Vi dico: che grande gaudio vi è tra gli Angeli per un peccatore che fa penitenza.]

 Postcommunio

Orémus. Sancta tua nos, Dómine, sumpta vivíficent: et misericórdiæ sempitérnæ praeparent expiátos. [I tuoi santi misteri che abbiamo ricevuto, o Signore, ci vivifichino, e, purgandoci dai nostri falli, ci preparino all’eterna misericordia.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XIV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LO SCUDO XIV.

NATURA DI DIO E SUOI ATTRIBUTI.

Dio esiste da sé. — È immutabile, semplicissimo e puro spirito. — Infinitamente perfetto ed immenso. — Sapientissimo ed onnipotente. – Obbiezioni contro la divina onnipotenza. — Delle altre perfezioni.

— Dio esiste; la stessa ragione me ne persuade; ma vorrei un po’ sapere come mai Iddio ha fatto ad esistere, cioè quando ha avuto principio e per virtù di chi o di che cosa.

Dio, per essere tale, non deve aver avuto mai alcun principio, né può aver cominciato ad esistere per virtù d’altri. Dio è per se stesso e da sé. Cioè: nessuno creò Dio, ed è sempre eternamente esistito senza alcun principio. Ed invero se Egli non esistesse da tutta l’eternità, ed avesse cominciato ad esistere in un punto determinato del tempo, bisognerebbe che qualche causa a Lui superiore lo avesse prodotto. E se fosse così, Dio sarebb’Egli ancora il supremo degli esseri?

— No, certamente, perché quella causa a Lui superiore, che lo avesse prodotto, starebbe al di sopra di Lui. Vuol dire adunque che è Egli stesso che si è creato?

Nemmeno. Affinché  una causa qualsiasi agisca, è necessario assolutamente che esista; l’agire suppone l’esistere. Per esempio se io parlo, scrivo, opero, mi muovo, faccio delle azioni, è perché esisto: se non esistessi non potrei farle. Pertanto dicendo tu che Dio si è creato Egli stesso, verresti a dire questo assurdo, che Dio è esistito prima di esistere, per dare a se stesso l’esistenza che già possedeva.

— Ho inteso. Dunque?

Dunque devi ritenere che Dio è per sua natura, che ha in se stesso eternamente la ragione della sua esistenza.

— E potrebbe Iddio non esistere o essere distratto?

No, assolutamente. Dio avendo in se stesso la ragione della sua esistenza deve necessariamente esistere da tutta l’eternità e per tutta l’eternità. In altri termini: Dio è necessario ed eterno.

— E non potrebbe per lo meno mutarsi, crescere o diminuire se stesso?

No, mai e poi mai. Dio non è solamente necessario nella sua esistenza, ma lo è ancora in tutto il suo essere. Egli ha quanto deve e può avere come Dio, cioè Egli è tutto l’essere, l’essere per eccellenza, l’essere assoluto, l’essere sommamente perfetto, l’essere che non ha alcun vuoto da riempire, che non ha potenze da svolgere, che non ha cognizioni da acquistare, che ha nulla insomma da aggiungere, epperò l’essere che non può crescere se stesso neppure in un etto. E come non può crescersi, così non può diminuirsi, perché se si diminuisse anche per poco, lascerebbe di avere tutto ciò che deve e può avere come Dio, ossia lascerebbe di essere Dio, di essere eterno, di essere sempre eguale a se stesso.

— Dunque Iddio avendo tutto ciò che deve e può avere, sarà Egli un composto di quanto di più eletto si può immaginare?

Tutt’altro. Egli è semplicissimo. Un essere composto risulta degli elementi, diversi, che lo costituiscono, ridotti all’unità da una forza superiore e precedente, che regga il moto e l’ordine. Se Dio fosse composto, sia pure di quanto vi ha di più eletto, bisognerebbe che qualche forza superiore e precedente a Lui fosse esistita per comporlo; e così Egli non sarebbe più l’essere che è da sé, essere eterno, indipendente da ogni altro, l’essere primo e la causa prima di tutto. Inoltre non sarebbe neppure più l’essere necessario, perché  ogni composto può scomporsi, risolversi negli elementi che lo compongono, e per tal guisa cessare di esistere. Pertanto quando immaginiamo Iddio, dobbiamo rimuovere qualsiasi idea di composto, sia di elementi corporei, sia di elementi spirituali, e riconoscerlo per uno spirito purissimo e semplicissimo, come ci insegna a riconoscerlo la dottrina cattolica.

— Ma io intendo sempre a parlare degli occhi di Dio, delle sue mani, del suo dito ecc. Che vuol dir ciò?

Sì, è vero, nelle Sacre Scritture si parla di quanto tu dici, e sull’esempio delle Scritture anche la Chiesa adopera simili espressioni. Ma tutto ciò non è già per negare quello che le stesse Sacre Scritture insegnano, che cioè « Dio è spirito », ma per adattarsi alla debolezza della mente nostra, la quale anche nelle più alte cognizioni non può far a meno che ricorrere ad immaginazioni sensibili.

— Per altro, benché Dio sia uno spirito purissimo e semplicissimo io lo vorrei conoscere.

A questo tuo vorrei potrei darti la risposta di Giobbe: « Che pretendi tu di fare? Non sai che Dio è più alto dei cieli, e più profondo degli abissi? Come lo vuoi tu conoscere? » Tuttavia siccome, pigliar cognizione di Dio, per quanto è possibile alla debolezza della nostra intelligenza, è cosa ottima, perciò mi studierò, nel modo più facile e adatto per te, di dartene qualche idea. Poni ben mente: allo stesso modo che dalle cose create abbiamo potuto arguire l’esistenza di Dio, così dalle bellezze e dalle perfezioni di queste cose possiamo salire in qualche guisa alle bellezze e perfezioni di Dio. Pigliamo a tal fine tutte le qualità o proprietà, che esistono nelle creature, e specialmente nell’uomo; spingiamole con la nostra mente all’infinito; leviamo da esse qualsiasi imperfezione, riduciamole alla massima unità, ed avremo così una idea lontana, meno imperfetta che sia possibile, di ciò che è Dio.

— Dunque la grandezza e la maestà, la vita e la fecondità, l’intelligenza, la scienza, la saggezza, la potenza, la libertà, la giustizia, la carità, la benevolenza, la misericordia, la felicità e tutti gli altri beni, che si possano concepire, vi sono tutti in Dio?

Sì, vi sono tutti, perfetti nel loro insieme e perfetti ciascuno nell’essere suo, senza l’ombra di alcun difetto, dimodoché Dio è l’essere infinitamente perfetto, vale a dire senza limite alcuno nella sua perfezione.

— Bicordo di aver appreso che Dio è anche immenso. Che vorrebbe dire ciò?

Ciò vuol dire che Egli è da per tutto e tutto da per tutto, né può esser contenuto in alcuno spazio. Come l’anima nostra è tutta in tutto il corpo e in ogni sua parte, così Dio riempie tutti gli spazi ed è tutto intero in tutte le divisioni dello spazio.

— E si trova Egli anche in cose non belle?

Senza dubbio.

— E ciò non gli torna di sfregio?

Mente affatto. Come la luce del sole illuminando il fango della terra non ne resta imbrattata, così neppure Iddio riceve sfregio alcuno dal trovarsi in cose anche non belle.

— E quando si dice che Dio è sapientissimo, s’intende di dire che Dio sa moltissime cose?

No, caro mio; ma si intende di dire che Egli sa tutto, conosce tutto, vede tutto. Dio vede immediatamente se stesso e vede tutto, tutto ciò che Egli è, tutto ciò che Egli può, penetrando fino ai più intimi nascondigli, della sua essenza, conoscendo tutto quanto l’infinito valore di ciascuno de’ suoi attributi, comprendendo in una parola se stesso. E conoscendo se stesso, conosce tutte le cose, perché essendo Egli la causa universale di tutto ciò che esiste, nell’atto che conosce se stesso non potrebbe ignorare ciò che Egli stesso produce. Epperò Egli sa il passato, il presente, il futuro, Egli conosce tutte quante le creature esistite, esistenti, che esisteranno, e quelle persino che possono esistere; Egli vede le nostre opere, le nostre parole, i nostri movimenti, i nostri pensieri, i nostri desiderii, i nostri affetti, Egli vede i destini dei popoli, delle città, dei paesi, del mondo intero; Egli vede tutto ciò che facciamo di bene e tutto ciò che facciamo di male e misura esattamente le nostre intenzioni, la nostra buona o cattiva volontà, insomma non v’è cosa alcuna che si sottragga al suo sguardo, alla sua conoscenza.

— Ho inteso. E quando si dice che Dio è onnipotente, si vuol dire che Dio può propriamente fare tutto ciò che vuole?

Precisamente, giacché un Dio, che non possa far tutto ciò che vuole, non è Dio. Noi diciamo talvolta a noi stessi per incoraggiarci all’opera che « volere è potere ». Ma la cosa non è così propriamente, e non fa bisogno di essere filosofi per capirlo. Invece in Dio volere è propriamente potere.

— Perché nel Credo, in cui si dice: « Credo in Dio Padre onnipotente », non si parla di altro attributo divino che di questo?

Perchè, se così posso dire, questo attributo è il più palpabile. Vedendo l’universo con tutte le meraviglie, che in esso vi sono, l’onnipotenza divina balza tosto innanzi alla nostra mente. E così la divina onnipotenza ci serve come punto di partenza per iscoprire l’una dopo l’altra tutte le perfezioni divine.

— Iddio però con la sua onnipotenza non potrà mai fare che un circolo sia quadrato, che uno più uno facciano tre.

E con ciò! Penseresti tu che la sua onnipotenza sia così abbreviata! L’assurdo, vale a dire ciò che è contrario alla ragione, non può certamente avere un’esistenza reale. Pretendere adunque che Dio, ad essere del tutto onnipotente, possa fare ciò che non può avere un’esistenza reale, come ad esempio che un circolo sia quadrato, che uno più uno facciano tre, è lo stesso che pretendere che Iddio crei il nulla. Ora pare a te che sia difetto d’onnipotenza il non poter creare il nulla?

— La risposta data alla mia obbiezione è limpidissima, e non me la sarei aspettata tale. Ma vorrei ancora sapere, se Dio essendo onnipotente possa fare anche il male.

Eh! no, certamente. Il poter fare il male non è effetto di onnipotenza, ma di debolezza. Tu, ad esempio, ti credi potente, perché puoi ammalarti?

— Tutt’altro. Mi crederei potente, se potessi star sempre perfettamente sano.

Dunque anche Dio è al sommo potente, perché non può perdere la potenza di fare il bene, perché non può fare il male, ciò che sarebbe difetto di potenza. Giacché la volontà di Dio è retta, è santissima, è indissolubilmente legata al bene, e non può e non potrà mai menomamente piegare al male. Se ciò potesse accadere, Dio non sarebbe più l’essere santissimo, che Egli è, anzi non sarebbe più Dio.

— Ho inteso.

E se hai inteso mi sembra che non ti occorrano altre spiegazioni intorno agli altri attributi o perfezioni di Dio, quali sarebbero la santità, la giustizia, la bontà, la misericordia, la veracità, la fedeltà ecc., perché facilmente comprendi da te quello che significano.

— Mi piacerebbe nondimeno che mi dicesse anche una qualche parola di essi.

Ebbene ti appagherò. L a santità è quella divina perfezione, per cui Dio vuole ed ama il bene, ed abborrisce il male. Il titolo di Santo è quello che si dà a Dio per eccellenza nelle Sacre Scritture: lo si dice tre volte Santo, cioè infinitamente santo.

La giustizia è la perfezione, per cui secondo il merito premia i buoni e castiga i cattivi, dando così a ciascuno ciò che è dovuto.

La bontà è quella, per cui Egli ci vuol sommamente bene e sommamente ci benefica, sicché ogni bene, che noi abbiamo, ci viene da lui.

La misericordia è la perfezione per cui, quasi col cuore dato alle nostre miserie, ci perdona facilmente e volentieri le nostre colpe, e ci sottrae a tanti mali, oppure ce ne libera.Dio poi dicesi ancora verace e fedele, perché Egli non potendo dir mai altro che la pura verità, non può né mentire, né ingannare, e sempre mantiene la sua parola. « Iddio, dice la Santa Scrittura, non è come l’uomo che può mentire; né come il figliuol dell’uomo che può mutarsi. Egli ha detto una cosa e non la farà? Ha parlato, e non manterrà la parola? » (Vedi il Libro dei Numeri, capo XXIII, versetto 19). Da ultimo, per tacere di altro, Iddio dicesi infinitamente provvido, perché Egli ha cura delle sue creature, le conserva nel loro essere, e le governa e dirige a conseguire il fine di loro esistenza, provvedendo ossia procacciando a tutte quel che loro fa bisogno. Ma ora basti di ciò per la nostra debolezza, memori di quel detto della Sacra Scrittura: « Colui, che si fa scrutatore della maestà di Dio, rimarrà sotto il peso della sua gloria ».

LA DEVOZIONE AL SACRO CUORE DI GESU’

La divozione al Sacro Cuore di Gesù.

[ A. Carmagnola: “Il Sacro Cuore di Gesù”; S.EI. Ed. Torino, 1920. – DISCORSO II.]

Purtroppo non pochi Cristiani dei nostri giorni, formandosi un Cristianesimo tutto a loro modo, al sentir parlare di divozione lasciano uscir di bocca un sorriso di scherno, e di compassione, come se la divozione non fosse altro che un’esagerazione di teste piccole e di nature meschine. Anzi nel linguaggio moderno quando si è detto di taluno che è un devoto, si è detto abbastanza per renderlo odioso e ridicolo, benché si tratti un’anima profondamente convinta, robusta di virtù, elevata di mente e generosa di sentimenti. E non pochi vi hanno, che preferiscono essere chiamati cristiani alla libera e secondo lo spirito del mondo, che cristiani divoti. Ma tutto ciò, che è altro mai, se non chiarissimo indizio del loro decadimento dallo spirito cristiano? Perché è egli possibile il possedere veramente questo spirito e non avere ciò che si chiama divozione? Se la divozione deriva il suo nome a devovendo dal dedicarsi che alcuno fa prontamente all’altrui servizio, che cosa è dessa altro mai se non la volontà pronta di fare quelle cose che appartengono al servizio di Dio? E tale essendo la divozione, non conviene riconoscere perciò che non solo non è una esagerazione, ma non è neppure un soprappiù di ciò che conviene ad essere vero cristiano, tanto che non si possa dire Cristiano vero colui che non è pure Cristiano divoto? – Ma se certi cristiani alla moda, eppur così ripieni di ignoranza per riguardo alle cose di Dio, già si fanno a deridere in genere la divozione, fanno peggio ancora intendendo a parlare della divozione al Sacro Cuore di Gesù. Per loro questa divozione, oltre che è una divozione tutta nuova, non è altrimenti basata che sulla immaginazione, e non deve servire ad altro che ad occupare gli animi delle religiose, che vivono racchiuse tra le mura di un monastero. Ora quanto grave sia il loro errore è ciò che si verrà conoscendo meglio di mano in mano che, svolgendo la sostanza di questa divozione, si verrà a conoscere più esattamente in che cosa essa consista e come più che ogni altra divozione sia basata, tutt’altro che sull’immaginazione, sulle più belle e più grandi realtà. Tuttavia fin da oggi contro le stolte declamazioni di certi spiriti leggieri ci faremo a considerare di proposito quanto questa divozione al Sacro Cuore di Gesù sia salda ed eccellente.

I. — La divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù, tutt’altro che essere una divozione nuova, è la divozione più antica e più costante. In un certo senso si potrebbe dire che è antica quanto è antico il mondo, e che ha cominciato in quel giorno in cui Adamo peccatore, intese insieme con la condanna della sua colpa promettersi da Dio misericordioso il Riparatore del suo male in un figlio della Donna. Perciocché fin d’allora Adamo riconoscendo l’amore, che il Messia Verbo Incarnato, avrebbe dimostrato agli uomini nel venire quaggiù a redimerli, in questo amore, frutto di un Cuore Divino, pose tutta la sua fede, tutta la sua speranza, e questo amore si studiò di ricambiare con l’amor suo e con la penitenza del suo peccato. In questo senso continuarono ancora i patriarchi e tutti i profeti a nutrirgli la loro divozione; e questi ultimi soprattutto ne celebrarono in mille guise la carità, la bontà, la tenerezza e tutte le altre sue perfezioni, tanto che la Chiesa anche oggidì non trova nulla di meglio per onorare questo Divin Cuore nel giorno della sua festa che valersi delle loro magnifiche espressioni. Tuttavia questa divozione al Sacro Cuore di Gesù nell’antica legge non era praticata che indirettamente. – Ma quando nostro Signore diede compimento alle sue promesse, ed incarnatosi e fattosi uomo, si cominciò dagli uomini a sperimentare di fatto la bontà immensa del Cuor suo, si può dubitare che a questo Cuore non si sia preso a tributare una divozione diretta? Quel che è certo si è che Gesù Cristo medesimo fin d’allora offerse il suo Cuore Sacratissimo alla devozione degli uomini. E per prova di ciò basta ricordare quel che fece nell’ultima cena con l’Apostolo suo prediletto san Giovanni. Stando questo Apostolo seduto a fianco di Gesù in modo, che comodamente poteva chinare la testa sopra il Cuore di Gesù Cristo, ve la chinò di fatto; e Gesù non solo glielo permise, ma in certa guisa lo volle, perché così avesse ad intendere i suoi palpiti, avesse a sentire l’ardore delle sue vampe amorose, e potesse un giorno, meglio di ogni altro evangelista, mettere in chiaro le prove infinite e supreme di carità, che questo suo Cuore diede per noi, ed invitare così più efficacemente gli uomini a ricambiarlo d’amore. Sì, dice S. Agostino: secreta altiora de intimo eius Corde potabat; san Giovanni attingeva a questo Cuore i più ineffabili misteri. E così pure asserisce Origene: Bisogna riconoscere che nel fondo del Cuore di Gesù Giovanni pigliasse i tesori della sapienza e della scienza: in penetrali Cordis Iesu thesauros sapientiæ et scientiæ requisisse dicendum est. Ma ecco finalmente che Gesù Cristo nel Getsemani dà principio alla sua Passione, e dal suo cuore risospinge il Sangue all’esterno, quasi per dirci che dal Cuore avevano principio tutti i suoi patimenti; e poscia morto sulla Croce, lascia che un soldato con una lanciata inflittagli con violenza nel fianco destro, vada fino al fianco sinistro a trapassargli il Cuore, come per dirci che lo stesso Cuore ai suoi patimenti poneva il colmo. Allora certamente la sua divozione dovette consolidarsi e stabilirsi più direttamente ancora. Ed in vero l’apostolo ed evangelista S. Giovanni non ci avrebbe notate tutte queste cose particolari intorno al Cuore di Gesù, avvenute nella sua passione e morte, se egli stesso non ne fosse stato ardentemente innamorato. E per altra parte queste cose medesime narrate e fatte conoscere ai cristiani non povano non accendere in loro questa divozione. – Difatti per tacere di molti martiri, nei cui atti si legge, che a questo Sacratissimo Cuore attingevano la forza necessaria a versare il loro sangue per la fede, quali stupende pagine non scrissero mai in suo onore e per la sua divozione i Santi Padri lei primi secoli della Chiesa? S. Agostino e S. Cipriano parlano del Cuore di Gesù nel modo più entusiastico, osservando come da esso ne vennero fuori la Chiesa e i Sacramenti, e in esso si aperse la porta della eterna salute, raffigurata dalla porta dell’arca costrutta da Noè, per la quale passarono gli animali, che non dovevano perire nel diluvio. Tertulliano e S. Giovanni Grisostomo magnificano in questo Cuore la misericordia divina, poiché nell’acqua e nel sangue che sgorgarono dalla sua ferita, veggono chiaramente indicati il Sacramento del Battesimo e della Eucarestia. S. Cirillo vi ritrova il compimento della nostra Redenzione, essendo esso l’indizio più certo della morte di Cristo. S. Efrem, S. Basilio, S. Gregorio Nazianzeno ed altri Santi Padri ancora esaltano altamente questo Cuore, chi chiamandolo fornace di amore, chi scampo sicuro, chi rifugio in tutti i pericoli, chi fonte di ogni grazia e benedizione. Ad imitazione di questi Santi Padri continuarono gli altri dottori e gli altri santi in ogni tempo a tributare i loro omaggi al Cuore Sacratissimo di Gesù. E qui, o miei cari, contentandomi di ricordare i nomi di S. Pier Damiani, dell’illuminato Taulero, di S. Bernardino da Siena, di S. Tommaso da Villanova, di S. Tommaso d’Aquino e di S. Bonaventura, di S. Luigi Gonzaga e di S. Francesco di Sales, di santa Geltrude, di santa Matilde, di santa Teresa, di santa Caterina da Siena, di santa Maddalena de’ Pazzi, di santa Margherita da Cortona, di santa Francesca Romana, tacendo di moltissimi altri santi e sante, faccio tuttavia speciale menzione di S. Bernardo, il quale scriveva intorno al Sacro Cuore pagine così tenere e così sublimi, che la Chiesa non trovò nulla di più adatto per comporre le lezioni della sua officiatura ad onore del Divin Cuore. Ed in vero: « Poiché, egli dice, siamo venuti al Cuore dolcissimo di Gesù, ed è per noi cosa buona il rimanervi, non lasciamoci facilmente allontanare da colui, del quale è scritto: Coloro che da te si allontanano saranno scritti in terra, mentre invece coloro, che a te si avvicinano, avranno i loro nomi scritti in cielo. Accostiamoci adunque a te, ed esultiamo e rallegriamoci in te, memori del tuo Cuore. Oh quanto è cosa buona e gioconda l’abitare in questo Cuore! il gettarvi entro ogni pensiero ed affètto! In questo tempio, in questo santuario, presso a quest’arca del testamento io pregherò e loderò il nome del Signore, dicendo con Davide: Ho trovato il cuore per pregarvi il mio Dio. Sì, ho trovato il cuore del re, del fratello, dell’amico benigno Gesù. E come mai, o Gesù dolcissimo, io non pregherò il mio Dio dentro a questo tuo e mio cuore? Ah! degnati soltanto di ammettermi in questo sacrario, in cui le mie preghiere saranno da te esaudite! Anzi, vogliami trarre tutto nel Cuor tuo. O Gesù, il più bello fra tutti gli uomini, lavami dalla mia iniquità e mondami dal mio peccato, affinché, per tua mercé purificato, io possa accostarmi a te che sei purissimo, e meriti abitare nel Cuor tuo in tutti i giorni della mia vita, e valga a vedere e fare ad un tempo la tua volontà. Imperciocché per questo è stato ferito il tuo fianco, perché a noi sia aperta l’entrata. Per questo fu ferito il tuo Cuore, perché sciolti dalle cure terrene, in esso ed in te possiamo abitare. Tuttavia questo Cuore fu specialmente ferito, affinché per la ferita carnale e visibile ci fosse manifesta la ferita spirituale ed invisibile dell’amore, che lo consuma. – Chi adunque non amerà un cuore così amante? Chi non abbraccerà un cuore sì casto? Amiamo, riamiamo, abbracciamo adunque questo Cuore, e stiamo in esso affinché si degni di stringere e ferire il cuor nostro ancor sì duro ed ostinato con la catena e con il dardo dell’amore. » Così adunque il mellifluo s. Bernardo scriveva e parlava del Sacratissimo Cuore nel secolo XII. – Tuttociò pertanto dimostra chiarissimamente che la divozione al Sacratissimo Cuore in sostanza non è una divozione nuova, come la vollero riguardare certi eretici dispettosi e superbi, ma una divozione antica quanto è antico il Cristianesimo, anzi il mondo, e costante quanto lo fu il corso dei secoli. Epperò per questa sola ragione della sua antichità già bene riesce manifesto, quanto essa sia salda ed eccellente. Ma qui osserviamo, almeno di passaggio, quanto siano stolti ed ignoranti coloro, che senza sapere e riflettere di che si tratti, giudicano senz’altro la divozione al Sacro Cuore di Gesù una divozione propria di teste piccole e di nature meschine. Oh! eran dunque nature meschine e teste piccole un S. Agostino, un S. Giovanni Grisostomo, un S. Bernardo, un S. Bonaventura, e un S. Tommaso d’Aquino? Comprendete perciò, o miei cari, quanto siano sventati e falsi i giudizi dei mondani, e per quel che riguarda la divozione al Sacro Cuore di Gesù, non dubitate punto di apprezzarla e di praticarla, sicuri di conformarvi in essa ai più grandi luminari della Chiesa. Ma sebbene nella sua sostanza la divozione al Sacro Cuore di Gesù non sia nuova affatto, tuttavia la forma speciale, cui la vediamo oggidì praticata in tutto l’universo cattolico, non ebbe principio che verso la fine del secolo decimo settimo, quando lo stesso Gesù Cristo si degnò esprimerne la sua volontà ad una sua sposa diletta. Udite. A Paray-le-Monial in Francia, in un monastero della Visitazione viveva una santa verginella per nome Margherita Alacoque. Fin dai primi anni della sua vita, illustrata dallo Spirito Santo ed arricciata delle benedizioni celesti, disprezzando gli allettamenti del mondo, si era consacrata a Dio col voto di verginità perpetua e aveva preso a praticare ogni più bella virtù cristiana. Ma perché il mondo non avesse a guastare menomamente la bellezza di questo fior di paradiso, quel Divin Padre, che Gesù Cristo stesso chiamò col nome di agricoltore, per opera della sua provvidenza, togliendola di mezzo al mondo, la trapiantava negli orti chiusi della religione, dove, per la maggior abbondanza di grazia e per la fedele corrispondenza alla stessa, cresceva meravigliosamente in spirituale bellezza, tanto da attrarre sopra di sé lo specialissimo sguardo di quel Gesù, che si pasce fra i gigli, e meritare non solo di godere sovente delle sue visite di paradiso, ma di essere eletta per stabilire quaggiù la divozione al suo Sacratissimo Cuore. Ed ecco come andò il fatto. – Volgeva tacita la notte del 16 Giugno dell’anno 1675, fra l’ottava del Corpus Domini, e Santa Margherita vegliava tutta sola appiè del santo altare e fervorosamente pregava. L’anima sua immersa nei divini misteri sentivasi come infuocata di carità, e tale un incendio la abbruciava, da non poter quasi più reggere per l’estremo dolore; quand’ecco si ode su per l’altare un muovere concitato di passi, ed una luce improvvisa balza fuori da quelle tenebre. Margherita leva gli occhi… ed oh! che non vide ella mai?… Le era apparso Gesù Cristo in persona e le dava a vedere il suo Cuore Sacrosanto. Era questo come sopra un trono di vive fiamme, circondato da una corona di spine, squarciato da una ferita, con una croce piantatavi sopra. Margherita lo mirava estatica, come immersa in un mare di gioia e quasi senza mandar un respiro, quando il Divin Redentore ruppe egli stesso il silenzio ed uscì fuori in questi amorosi accenti: « Margherita, ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini, sino a struggersi e consumarsi per dimostrar loro le sue grandi vampe. Ma in ricambio Io non ricevo dalla maggior parte di essi che ingratitudini, tanti sono i disprezzi, le freddezze, le irriverenze, i sacrilegi, che si commettono contro di me nel Sacramento di amore. E ciò che mi torna anche più penoso si è, che a trattarmi così vi sono pure dei cuori a me consacrati. Ti chieggo pertanto che il primo venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento sia dedicato a celebrare una festa particolare in onore del mio Cuore e con la santa Comunione si riparino in quel giorno gli indegni trattamenti, che Io ho ricevuto, mentre stavo esposto sopra gli altari. Io poi ti prometto, che il mio Cuore si dilaterà per spargere con abbondanza le influenze del mio divino amore sopra tutti coloro, che gli renderanno e procureranno che gli sia reso da altri questo onore. » Così parlò Gesù Cristo alla sua diletta Margherita, la quale tutta confusa e tremante per la grande missione che venivale conferita, si faceva umilmente a rispondere: « Ma, Signore amabilissimo, a chi vi volgete voi per una tanta impresa? E non vedete che io sono meschina e peccatrice? Vi mancano forse anime generose, a cui affidare sì grave incarico? » Ma Gesù Cristo nulladimeno, ricordando quella legge del suo governo, per cui si serve di mezzi in apparenza spregevoli per effettuare grandi opere, onde risplenda meglio la potenza del suo braccio, riaffermava la sua volontà e confortava quella santa verginella ad eseguirla. – Anzi, continuando in seguito ad apparirle, le faceva sempre meglio conoscere i segreti del suo Sacratissimo Cuore, le dichiarava il fine, che dovevano proporsi le anime generose che aspirassero a glorificarlo, le suggeriva Egli stesso le pratiche di pietà da Compiersi, le faceva conoscere le grazie che avrebbe compartite ai suoi adoratori, le assicurava che questa divozione si sarebbe mirabilmente dilatata non ostante tutte le opposizioni, con cui taluni l’avrebbero impugnata, e filialmente le inviava un suo fedelissimo servo, il padre La Colombière, della Compagnia di Gesù, perché le fosse di potente aiuto a promuoverla ed a spargerla ovunque. – Così adunque, o miei cari, voi lo avete inteso, è Gesù Cristo medesimo Colui che volle avere un culto pubblico al suo Sacratissimo Cuore. Epperò mirando a questa divozione, sparsa ornai per tutta la terra, ben a ragione dobbiamo esclamare: A Domino factum est istud, et est mirabile in oculis nostris. (Ps. CXVII, 22) E chi sarà pertanto, che nel considerare come Gesù Cristo, la divina Sapienza incarnata, ha Egli medesimo presentato il suo Cuore ad essere onorato dai fedeli, non riconoscerà la grande saldezza e la somma eccellenza, che vi ha nella sua divozione?

II. — Ma io so benissimo, che se qui vi fosse ad ascoltarmi taluno dei così detti spiriti forti, si riderebbe in cuor suo dell’aver dato io importanza alla rivelazione di Santa Margherita Alacoque. Perciocché, che cosa altro mai secondo la moderna incredulità sono le estasi dei Santi, le rivelazioni fatte da Dio a certe anime sue predilette, se non allucinazioni di mente esaltata, effetti di una malattia, che chiamano isterismo? Tuttavia, anche perché crederei tempo gittate il fermarmi a discutere sopra questo nuovo trovato della scienza atea e mostrarne la vanità, io mi accontento di osservare per voi che siete credenti, che senza dubbio le rivelazioni particolari fatte da Dio ai Santi non si hanno da accogliere se non in quella misura, che la Chiesa permette e stabilisce, ma che quando la Chiesa ce ne ha fatto ella medesima sicurtà, allora non dobbiamo più dubitarne. Perché la Chiesa accetta forse ed approva senz’altro qualsiasi particolare rivelazione? Tutt’altro! Essa non accetta e non approva alcuna di queste particolari rivelazioni, se non dopo lunghissimo, minutissimo e serissimo esame, in cui di tali rivelazioni siano prodotte le prove più autentiche. Or bene, queste prove, non altrimenti che nelle rivelazioni di altri santi, la Chiesa le ha pur volute nella rivelazione di Santa Margherita, ed avendole trovate specialmente nella santità della sua vita, essa ha creduto a tale rivelazione e con sicurezza la propose a credersi anche da noi. – Con tutto ciò, o carissimi, sbaglierebbe assai chi credesse che la divozione al Sacro Cuore di Gesù fosse basata unicamente sopra la rivelazione fattane da Santa Margherita. No, questa divozione, come ogni altra che vi ha nel seno della Chiesa, non è basata sopra una privata rivelazione, ma sopra la rivelazione per eccellenza che Iddio fece di tutta la sua religione, ed approvata perciò dalla autorità della Chiesa. – Ponete ben mente. Egli è certissimo che se Iddio non si fosse degnato di rivelarci egli stesso la massima parte delle verità, che a Lui si riferiscono e dei doveri religiosi e morali che a Lui ci stringono, noi non potremmo giammai né conoscerlo, né amarlo, né servirlo convenientemente, tanto da meritare di raggiungere il fine, a cui ci ha destinati. Ma anche in questo Iddio ci manifesta la sua misericordia infinita, nel parlarci e rilevarci tutto ciò che noi avremmo dovuto credere ed operare. – Egli, come ci dice S. Paolo, incominciò a fare la sua divina rivelazione ai padri nostri per mezzo dei profeti, e la compì poscia per opera dello stesso suo divin Figliuolo, Gesù. (Hebr. I, 12) In Gesù Cristo pertanto e negli Apostoli, che lo udirono, la divina rivelazione è perfettamente compiuta, e dopo Gesù Cristo e gli Apostoli non può ammettersi nessuna verità nuova riguardo al deposito della fede. È bensì vero che Iddio anche dopo la venuta del suo divin Figlio sulla terra ha continuato a fare delle particolari rivelazioni a grande numero de’ suoi servi prediletti, ma in nessuna di esse ci rivelò delle verità, che non fossero state già rivelate o ci propose un culto che non fosse già praticato. Ma senza rivelare alcuna nuova verità e senza introdurre alcun nuovo culto, è certo che Iddio in molte di queste sue particolari rivelazioni fece intendere agli uomini qualche suo speciale desiderio in relazione a qualche particolare verità e a qualche forma peculiare del culto già esistente. Così ad esempio, apparendo alla beata Giuliana da Liegi, le rivelò il desiderio vivissimo, che gli si desse una speciale manifestazione di fede, di amore e di gratitudine per l’istituzione del SS. Sacramento dell’Eucaristia, stabilendosi una festa particolare in suo onore, la festa del Corpus Domini. E fu appunto in seguito a questa particolare rivelazione che la Chiesa prese occasione ad istituire una tal festa, perciocché per una parte, esaminando seriamente la rivelazione fatta alla beata Giuliana, la trovò vera, e considerando per l’altra parte se era opportuna una nuova festa ad onore del SS. Sacramento dell’altare, vide che, tutt’altro che essere una novità pericolosa, era un mezzo efficacissimo a ravvivare la fede in una verità mai sempre creduta e a rendere più vivo e solenne il culto, che erasi mai sempre praticato ad onore del SS. Sacramento. La Chiesa adunque, anche per le rivelazioni più splendide che Iddio faccia ai santi, non introdurrà mai alcuna nuova verità da credere od alcuna pratica che non sia conforme alla religione completamente rivelata da Gesù Cristo. Tuttavia prendendo ad esaminare seriamente tali rivelazioni particolari, e trovandole degne di fede, suole da esse prendere occasione per mettere in maggior luce questo o quel mistero, per animare più efficacemente a questa od a quella divozione, conforme al desiderio manifestato da Dio e secondo lo spirito di sapienza e di opportunità, di cui è dotata dalla continua assistenza dello Spirito Santo. – Ora ecco appunto quello che accadde riguardo alla divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù. Questa divozione in sostanza, come dissi fin dal principio, non è mancata mai nel seno della Chiesa, perché, basati sulla divina rivelazione i Cristiani hanno creduto sempre che in Gesù Cristo, essendo la Persona divina unita alla natura umana, anche la sua umanità, di cui il Cuore è parte nobilissima, deve essere adorata. – Ma poiché Gesù Cristo si compiacque di apparire ripetutamente alla sua diletta serva Margherita Alacoque, e farle conoscere il desiderio vivissimo, che questa divozione al suo Cuore si dilatasse viemaggiormente fra i fedeli e si praticasse con pubblica solennità, la Chiesa che cosa fece? Anzi tutto esaminò lungamente e seriamente la condotta di quell’inclita serva di Dio, e ritrovatala santa, riconobbe altresì che per ragione della sua santità meritava fede alle sue rivelazioni. E considerando inoltre il gran bene, che ne sarebbe venuto a sé ed ai fedeli dalla pratica della divozione particolare al Sacratissimo Onore, senza punto introdurre una nuova verità da credere, od un nuovo culto da praticare, dalla celebre rivelazione dell’Alacoque prese occasione a concretar meglio e a dare maggior impulso a questa divozione istessa. Il che adunque vuol dire che la divozione al Sacro Cuore di Gesù è basata non già sopra la particolare rivelazione, che Gesù Cristo fece a Santa Margherita, ma sopra la rivelazione per eccellenza che Egli fece a tutto il mondo, e che la Chiesa in seguito alla particolare rivelazione di Santa Margherita ha con l’autorità sua confermata ed esplicata una tale divozione. E per tal guisa la Chiesa ci assicura nello stesso tempo della saldezza e della eccellenza della medesima, e noi la dobbiamo praticare con la massima sicurezza e con tutto l’impegno. È vero che vi sono dei Cristiani superbi, a cui le proprie viste sembrando più giuste che quelle della Chiesa, anche per ciò che riguarda questa divozione non credono di doversi fidare del suo giudizio. Ma noi certamente non saremo nel numero di questi sventurati. Ossequenti alla parola di Gesù Cristo, che disse, che chi ascolta la Chiesa ascolta Lui stesso, senza esitazione di sorta anche in questo ci affideremo a lei, pienamente sicuri che essa, maestra infallibile di verità, né si inganna, né può ingannarci. – Sebbene nel dire che la Chiesa ci assicura della saldezza ed eccellenza della divozione al Sacro Cuore di Gesù, ho detto assai poco; ben altro ha fatto e continua a fare in favore di questa divozione. Essa la raccomanda nel miglior modo possibile. Il Sacro Cuore di Gesù aveva fatto conoscere a Santa Margherita che nel diffondersi della sua divozione si sarebbero levati contro di essa dei grandi nemici, ma che Egli avrebbe regnato malgrado tutte le contraddizioni. E così fu veramente. La setta dei Giansenisti, che negli scritti di Giansenio avevano bevuto gravi errori, mentendo astutissimamente pietà e mortificazione cristiana, trascinava in inganno non pochi fedeli. Appoggiandosi ad uno dei suoi principali errori, che Gesù non è morto per tutti, né per tutti ha versato il suo sangue, si travagliava con diabolica malizia a restringere i benefizi della redenzione e ad impedire i fedeli dì attingere con gaudio le acque di salute alle fonti del Salvatore. Perciocché con speciosi pretesti negava ai fedeli di frequentare la SS. Comunione o vi esigeva condizioni così esagerate di santità, da togliere nel loro animo il pensiero di potervisi ancora accostare. Non era dunque possibile, che a questa nuova razza di Farisei tornasse gradita la divozione al Sacro Cuore, così atta ad allargare il cuore di tutti gli uomini alla speranza della eterna salute e così efficace a promuovere l’uso e la frequenza dei SS. Sacramenti. Epperò non è facile immaginare quanto essi fecero in privato ed in pubblico, affine di screditarla e farla cadere in dispregio. Essi arrivarono al punto da impedire in alcuni paesi della Francia, che si celebrasse la festa del Sacro Cuore e si onorasse la sua immagine. E di sì gran peso fu il loro cattivo esempio che, estesosi in Italia, l’anno 1789 tenevasi un conciliabolo nella città di Pistoia, in cui giungendosi al massimo dell’impudenza, osavasi condannare la devozione al Sacro Cuore siccome nuova, erronea e pericolosa. Ma non ostante una guerra così accanita, il Cuore di Gesù trionfò per opera della Chiesa. Perocché, all’opposto degli eretici, la Chiesa riconoscendo questa divozione utilissima, prese a difenderla, ad inculcarla, a promuoverla in mille guise. Ne stabilì la festa, ne ordinò la Messa, ne compose l’ufficio, ed annuì al desiderio dei fedeli di unirsi in devote congregazioni, che avessero questo scopo speciale di onorare il Sacro Cuore. Che dirò poi dei tesori innumerevoli di sacre indulgenze, che i Romani Pontefici sparsero sopra tali congregazioni, erette in onore del Sacro Cuore, e sopra i fedeli che con ossequi determinati lo onorassero? Che dirò del fervore veramente meraviglioso, con cui sul suo stesso principio una tal divozione fu accolta dai Vescovi non di una Chiesa o di una provincia, ma di cento o più sedi dell’Italia, della Francia, della Germania, del Belgio, della Spagna, della Boemia, della Polonia, ed ora di tutta quanta la Cristianità? Che dirò dello zelo ardente, con cui tutto il clero e secolare e regolare si adoperò a porre in estimazione ed onore questo divin culto? I religiosi ed i sacerdoti più amanti del bene delle anime lo promossero per modo nelle loro congregazioni, nelle loro chiese e parrocchie, che non v’ha più casa di Dio, ove non sia dedicato al Sacro Cuore un altare, ove non sia esposta almeno la sua immagine alla cristiana venerazione. Ma a tutte le prove già addotte non bisogna che io tralasci di aggiungerne una del massimo peso, voglio dire l’erezione di una basilica consacrata al Sacro Cuore di Gesù im Roma, nella sede del Successore di S. Pietro, nella capitale del mondo cattolico, nel centro e nella metropoli della religione cristiana. Perciocché per opera di chi quella basilica si innalzò sul colle Esquilino, splendida di marmi e di pitture? Sì, è vero, fu il Padre Maresca, Barnabita, che da principio ne suggerì e promosse l’idea: fu quel gran servo di Dio, Don Giov. Bosco, che coadiuvato dalla carità degli Italiani e di tutto il mondo cattolico la condusse ad effetto con uno zelo ed una operosità indicibile; ma chi benediceva alla grand’opera e ne comperava col suo proprio denaro il suolo necessario, era l’angelico Pontefice Pio IX, di santa e venerata

memoria, quel Pontefice, che soleva dire e scrivere: « Nel Cuore di Gesù sta riposta la mia speranza: in Corde Jesu spes mea; » e chi affidava il grande e importante incarico a Don Bosco era il S. Padre Leone XIII, di venerata memoria, e così devoto del Sacro Cuore, che sapientemente ne innalzava la festa al maggior grado di solennità. Se pertanto due Pontefici così insigni curarono essi medesimi l’edificazione di un tempio al Sacro Cuore di Gesù, in Roma istessa, da cui, come da elevato e splendissimo faro, parte la luce di verità che illumina tutto il mondo, vi vorrà ancor altro, non dico per assicurarci della saldezza, dell’eccellenza della divozione al Sacro Cuore, ma per stimolarci a praticarla con tutto l’ardore? – Se un figliuolo vuole amare non a parole, ma a fatti la propria madre, non è egli vero che non può avere altro impegno se non di formare con la madre stessa un sol pensiero, un sol desiderio, un solo affetto? Senza alcun dubbio egli approverà quello che la sua buona madre approva, apprezzerà ciò che ella apprezza, amerà ciò che ella ama; e se conosce osservi qualche opera, che torni a lei gradita, si porrà a compierla con la più viva sollecitudine. Se altrimenti facesse e si vantasse di affettuoso figliuolo noi diremmo che egli mentisce. Or bene lo stesso è di ogni Cristiano in riguardo alla Chiesa sua madre spirituale. È Cristiano sincero colui, che approva, apprezza, ama e compie ciò che approva, apprezza, ama, compie la Chiesa, ma non è veramente tale colui che fa diversamente. Se la Chiesa pertanto approva e raccomanda la devozione al Cuore Santissimo di Gesù, siccome quella che non si discosta per nulla dall’inalterabile tesoro delle sue sante dottrine, potrà dirsi sincero Cristiano colui, che non la credesse altro che frutto di una allucinazione mentale, epperò non l’apprezzasse, non l’amasse e non la praticasse? No certamente. Deh! non sia adunque, che alcuno di noi non si accenda ognor più in una divozione così salda e così eccellente. Imitiamo tutti l’esempio dei grandi santi che l’hanno praticata; assecondiamo il volere di Gesù Cristo che l’ha rivelata; conformiamoci al sentimento della Chiesa, che l’ha approvata e raccomandata. E nella stima e nella pratica di questa divozione ci sarà dato certamente di godere i più salutari vantaggi per le anime nostre. – E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, via, verità e vita di tutti gli uomini che vengono in questo mondo, siatelo specialmente per noi, che intendiamo di professarvi quella divozione, che meritate. Siate la nostra via e conduceteci diritti al vostro amore, al vostro servizio ed al vostro godimento. Siate la nostra verità ed illuminate cogli splendori indefettibili della vostra luce le nostre menti per conoscere sempre meglio i vostri pregi ineffabili. Siate la nostra vita, ed infondete nel cuor nostro lo spirito che vive in voi, affinché non vivendo più che in voi, con voi e per voi quaggiù sulla terra, possiamo un giorno venire a vivere in voi, con voi e per voi lassù in cielo.

G. FRASSINETTI: IL CATECHISMO DOGMATICO (XII)

Catechismo dogmatico (XII)

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

APPENDICE

SUL MODO D’INSEGNARE

LA DOTTRINA CRISTIANA AI FANCIULLI.

§ I .

Dell’importanza di questo insegnamento.

1. La cognizione di Dio e delle verità da Lui rivelate è il primo e il sommo bisogno dell’uomo: privo di essa, percorrendo la vita più infelice in questo mondo, va a terminare in una eterna miseria nell’altro. Questo suo primo e sommo bisogno, addiviene urgente tosto che il lume della ragione ne rischiara l’intendimento; quindi mentre ogni altra istruzione si potrebbe differire al fanciullo per gli anni appresso, questa della Religione non gli può essere ritardata. Per la qual cosa l’insegnamento della dottrina cristiana ai fanciulli è della più alta importanza, di assoluta necessità.

2. Inoltre è da notare che l’età della più verde adolescenza è la più adatta a tale istruzione, mentre che se le prime idee che sono comunicate al fanciullo quando perviene all’uso della ragione sono le idee cristiane, queste gli rimangono quasi naturali e profondamente impresse; quindi si trova Cristiano quasi nato e non fatto, né facilmente soffre che gli vengano alterate, o scambiate nelle età successive. L’istruzione cristiana cominciata ai primi albori dell’intelligenza, e continuata poi, com’è dovere, con paziente e solerte perseveranza, è la più grande guarentigia che possa aversi per la buona riuscita dell’adolescente, dell’uomo.

3. Egli è per questo che i Concili Generali, i Sommi Pontefici e i Vescovi prescrivono con gli ordini più pressanti e severi, che non si lasci mancare questa istruzione ai fanciulli: egli è per questo che gli uomini più eminenti in dottrina e in santità, l’hanno sempre promossa con indefesso zelo, e si pregiarono costantemente di amministrarla personalmente essi stessi.

§ II.

Del modo che sì deve tenere in questo insegnamento.

1. L’insegnamento deve essere uniforme. Perciò ai fanciulli si deve insegnare soltanto il Catechismo della Diocesi e, se è possibile, procurare che l’imparino tutto materialmente. Se si usassero catechismi diversi si produrrebbe una considerabile confusione; inoltre la materialità delle parole più facilmente si ritiene, e questa conserva nella memoria più lungamente la sostanza, ossia l’intelligenza delle cose.

2. Non si vuol dire però che si debba insegnare il catechismo solo materialmente. Lo devono mostrare soltanto materialmente le persone che non sono istruite nella teologia; queste bisogna si contentino d’insegnare il catechismo siccome sta senza sminuzzarlo, e spiegarlo, perché mancanti delle opportune cognizioni teologiche, insegnerebbero alle volte dei gravi errori; chi poi è istruito sufficientemente, procuri di sminuzzarlo, di spiegarlo secondo la capacità dei fanciulli, affinché meglio lo comprendano, e le verità che vi si contengono facciano più viva impressione nei loro animi.

3. Ma qui si avverta di non credere sempre cosa facile ed opportuna, lo sminuzzare molto sottilmente ai fanciulli le verità della Dottrina Cristiana; ella non è sempre cosa facile, perché nei misteri della Fede non si può sapere tutto ciò che si vorrebbe, ma soltanto quello che dei medesimi Dio ha voluto manifestare. Diceva Sant’Atanasio, a riguardo del mistero della Ss. Trinità, che noi ci dobbiamo contentare di saperne quel tanto che ce ne insegna la Chiesa, e che il rimanente lo coprono i Cherubini con le loro ali. Similmente nel mistero della Incarnazione, della Grazia e in tutti gli altri, non bisogna pretendere di dare ragione di ogni difficoltà che vi s’incontri, o di essere al caso d’intendere tutto e di tutto spiegare. Non è poi cosa opportuna, poiché quantunque chi insegna la Dottrina Cristiana fosse dottissimo, e al caso di trattare delle verità cattoliche con la maggior profondità e sottigliezza, non sarebbe questa cosa adattata per li fanciulli, i quali appena intendono le cose principali, e all’ingrosso. Si sminuzzi adunque la dottrina cristiana, ma non molto sottilmente, affinché apprendano le cose necessarie, e frattanto non restino più confusi che illuminati.

4. Un’altra importante avvertenza, è quella di non toccare quelle obbiezioni alle quali non si può dare una risposta che appieno soddisfi il grosso ingegno dei fanciulli, né quelle difficoltà che non si possano appianare con ragioni palpabili, e quasi direi materiali, delle quali soltanto è capace la loro mente. Ai fanciulli si devono dare quelle cognizioni che sono importanti a sapersi per tutti, e con la possibile chiarezza e semplicità: eglino non devono o confutare gli eretici, o salire le cattedre. – Questa avvertenza è necessaria ai chierici studenti, i quali alle volte vorrebbero insegnare ai fanciulli tutto ciò che essi vanno imparando nelle scuole.

5. Bisogna istruire i fanciulli gradatamente, cominciando dalle cose più necessarie a sapersi, e da quelle progredendo a tutte le altre; non si devono pertanto istruire sopra molte cose confusamente. Bisognerà, p. es., prima istruirli sull’esistenza di Dio, sopra i suoi Attributi, quindi sopra i misteri della Trinità, l’Incarnazione ecc., e progredire in tal modo di materia in materia, senza confusione. È ben vero però che spesso bisognerà ritornare sulle materie anteriori affinché non le dimentichino. E qui si osservi essere cosa importante, il far prendere ai fanciulli una idea grande di Dio, e la più grande che sia possibile spiegando loro i suoi Divini Attributi, giacché questa idea grande servirà molto, perché quindi facciano nei loro cuori maggiore impressione le massime del Santo Amore, e del Santo Timor di Dio. Si sa che Dio è poco amato e poco temuto da tanti Cristiani, perché hanno troppo poca cognizione della sua Bontà, e della sua Grandezza.

6. Si avverta che nell’istruire i fanciulli non si può pretendere da tutti la stessa riuscita. Perciò si deve procurare che i più svelti, d’ingegno pronto e di memoria tenace, imparino più cose, e conviene contentarsi che tanti altri, tardi d’ingegno e di poca memoria, imparino soltanto le cose più necessarie; si perde il tempo quando si vuole che un di questi impari molte cose come le imparano tanti altri di maggiore capacità, e non si fa che confonderne l’intendimento; laonde il prudente catechista non cercherà d’istruire i fanciulli di grossolano ingegno che intorno alle verità più importanti, e talora più indispensabili a sapersi.

§ III.

Delle massime che si devono instillare

ai fanciulli.

1. È insegnamento della Dottrina Cristiana: ai fanciulli non dev’essere un insegnamento nudo e secco delle verità della Fede, come sarebbe: vi è Dio, vi è l’inferno, vi è il Paradiso, i Sacramenti sono sette ecc., ma dev’essere un insegnamento sugoso il quale mentre illumina la mente, formi anche il cuore. – Si riesce a questo con l’insegnamento e la dilucidazione delle buone massime cristiane, e qui se ne metteranno per esempio e norma alcune principali. La prima massima è quella che Dio ci ha messo al mondo, non perché mangiamo, beviamo, ci divertiamo ecc., ma perché lo conosciamo, lo amiamo, lo serviamo e lo andiamo poi a godere in Paradiso; e questa massima come fondamentale bisogna spiegarla bene, e fare intendere ai fanciulli che chiunque non istà al mondo per conoscere, amare, servire Iddio e per guadagnarsi il Paradiso, al mondo sta male, e si merita di esserne levato, come si merita di essere tagliata nel campo quella vigna che non fa uva, quella ficaia che non fa fichi.

2. Che la grazia di Dio è il maggior tesoro, anzi l’unico vero tesoro che sia al mondo; che per conservarsi la grazia di Dio nel cuore, bisognerebbe gettar via un mondo intero quando fosse nostro, se per conservarla convenisse gettarlo via.

3. Che la peggior cosa è il peccato, il quale ci priva di quella grazia, e che sarebbe meglio tenersi un serpente vivo in seno, che un peccato mortale sull’anima; e siccome chi avesse un serpente vivo in seno non potrebbe né mangiare, né dormire, né divertirsi pel timore che da un momento all’altro gli desse la morte, così la persona, se ha un po’ di Fede, pare impossibile che possa mangiare, dormire, divertirsi, quando ha il peccato mortale sull’anima che da un momento all’altro la può precipitare all’inferno; che perciò quando uno avesse la disgrazia, la più spaventosa di tutte, di commettere un peccato mortale, dovrebbe fare subito vivi atti di contrizione, e poi confessarsene al più presto possibile.

4. Che chi ha compagnie cattive non ha bisogno di demonio che lo tenti per andare all’inferno; che un cattivo compagno alle volte, fa più danno all’anima di quello che non le farebbe un demonio. Che se non sono cattive compagnie, almeno sono sempre pericolose, e non piacciono agli Angeli Custodi, le compagnie promiscue di fanciulli e fanciulle insieme.

5. Che è meglio non confessarsi, che confessarsi male tacendo dei peccati; e a questo oggetto sarà cosa opportuna l’addurre qualche terribile esempio di confessioni mal fatte.

6. Che bisogna esercitarsi negli atti di amor di Dio, i quali al dire di Santa Teresa sono come le legna che mantengono e fanno crescere nel nostro cuore il santo fuoco dell’Amor di Dio. E qui sarà bene suggerire ai fanciulli la pratica di farne spesso tra il giorno, quali sarebbero: Mio Dio vi amo sopra ogni cosa. Signore vi amo con tutto il mio cuore. Convengono i teologi che i fanciulli tosto che arrivano all’uso della ragione sono obbligati a fare atti di amor di Dio; tuttavia, generalmente parlando, si trascura di ammaestrarli e di eccitarli all’adempimento di questo loro dovere, cui per la loro irriflessione badano poco o nulla. Per ottenere che prendano la consuetudine di fare spesso atti di amor di Dio, sarà bene di tempo in tempo interrogarli domandandone loro conto.

7. Che un vero devoto della Madonna non si è dannato mai; e qui bisogna avvertire ad instillare nel cuore dei fanciulli questa divozione tenera e fervente, procurando che tengano Maria in conto della più buona Madre, e a Lei ricorrano in tutti i loro bisogni. Tra le altre pratiche che loro si potrebbero suggerire questa sarebbe facile, e molto fruttuosa; che cioè recitassero tre Ave mattina e sera con questa breve orazione — Cara Madre, guardatemi dal peccato mortale. — Cara Madre piuttosto morire, che offender Dio.

8. Se queste ed altre massime s’instilleranno nel cuore dei fanciulli e dei giovinetti, ai quali s’insegna la Dottrina Cristiana, si formeranno al bene e alla pietà molto facilmente, e queste massime ben impresse nella prima età, non si scancelleranno mai più in avvenire.

§ IV.

Delle qualità che si deve procurare chi insegna la Dottrina Cristiana ai fanciulli.

1. Chi si mette ad istruire i fanciulli bisogna che sia paziente, grave, e manieroso. Bisogna in primo luogo che sia paziente, perchè i fanciulli, o per indole alquanto trista, o per rozzezza di educazione, o per inconsiderazione, e leggerezza sono alle volte difficili e tediosi: bisogna compatirli; tutto il male in loro non è malizia: di certi difetti alle volte non ne possono far di meno; diceva però bene quel Santo ai fanciulli: state savii se potete. Molte leggerezze o mancanze, che non sono d’altronde di gran conseguenza, conviene far mostra di non osservarle; bisogna sgridarli, o castigarli all’opportunità, quando le mancanze sono veramente considerabili, se il fanciullo si sente sempre sgridare, e si vede sempre castigato per ogni bagatella, non sapendo come evitare tanti gridi o castighi, non bada più né a questi né a quelli, e si forma di un’indole insensibile, e quindi incorreggibile.

2. Bisogna quindi che conservi la conveniente gravità, affinché i fanciulli abbiano sempre per lo maestro il necessario rispetto, senza cui non vi sarà né attenzione né profitto. Per tanto richiedesi che il Catechista si tenga sempre in certo decoro dì aspetto e di maniere, sicché i fanciulli lo rispettino. La quale avvertenza è necessaria in modo particolare, anche per altri titoli, a chi istruisce le fanciulle.

3. La gravità non deve essere disgiunta dalla buona maniera, affinché i fanciulli gustino di trattenersi con chi loro insegna la Dottrina. Chi usa aspre maniere e ributtanti, aliena gli animi dei fanciulli dalla Dottrina Cristiana; quei pochi che v’intervengono si tediano, si divagano, e nulla apprendono.

4. Quelli per altro, che insegnano la Dottrina Cristiana con vero zelo, non si trovano mai privi delle richieste qualità; perché l’amor di Dio lor insegna ogni modo opportuno per far profitto. Abbiano dunque molto amor di Dio, considerino quanto sia cosa importante istruire le menti, e formare i cuori dei giovinetti, e quindi sperino abbondante frutto dalle loro fatiche. Fatiche le quali, agli occhi di alcuni, sembrano poco onorevoli e poco stimabili, perché sono dirette alla tenera età, e il più delle volte ai fanciulli rozzi e malnati; ma che sono preziosissime agli occhi di Dio, il quale non riguarda le cose coi pregiudizi dell’umana vanità.

DOTTRINE NOTEVOLI PER L’AMMINISTRAZIONE DEI SS. SACRAMENTI AGL’INFERMI.

1. Riguardante la Confessione.

Qualunque Cristiano, sia uomo, sia donna in occasione d’infermità, anche non pericolosa di morte, per cui sia impedito di portarsi alla Chiesa, può confessarsi in casa: e ciò per più ragioni. Prima di tutto perché il Cristiano, potrebbe trovarsi in istato di peccato mortale, indi aver bisogno della Confessione per rimettersi in grazia di Dio. In secondo luogo, perché le malattie le quali sul principio non sembrano pericolose di morte, si aggravano alle volte improvvisamente, togliendo all’infermo anche l’uso dei sentimenti. Inoltre questa dottrina si rileva dai decreti del Concilio Lateranese sotto il Papa Innocenzo III e di S. Pio V. Questi decreti sono generali, tanto per gli uomini come per le donne, come sono generali le ragioni che indussero la Chiesa ad emanarli. Si noti che per ricevere questo Sacramento non fa bisogno della licenza del medico; che anzi sarebbe cosa ridicola chiedere licenza al medico di far ciò che non solo permette, ma ordina la Chiesa.

2. Riguardante il Ss. Viatico.

Come si può vedere in tutti i teologi, si può amministrare il Ss. Viatico ogni volta che la malattia è grave, ossia pericolosa di morte, quantunque vi sia ancora buona speranza di guarigione; e si dice grave, ossia pericolosa di morte, perché la gravità del male è necessariamente congiunta al pericolo della vita: anzi in tutte le malattie gravi, si possono sempre temere fatali peggioramenti anche precipitosi. Eccettuati i casi evidenti, di questa gravità e pericolo giudica il medico. Ma è da notare che, qualora l’infermo avesse argomenti da credere grave e pericolosa la propria malattia, purché seriamente il medico non gli asserisca il contrario, potrebbe esigere che gli fosse amministrato il Ss. Viatico, ancorché con tutta verità gli si dicesse non essere disperata la sua malattia, ed anzi dare buone speranze di risanamento.

III. Riguardante l’Estrema Unzione.

Primieramente si deve notare che questo Sacramento si chiama con tal nome, non perché debba darsi agli estremi momenti della vita; ma perchè è l’estrema, ossia l’ultima delle sacre unzioni che dà la Chiesa. In secondo luogo si deve osservare che l’Estrema Unzione si può amministrare come il Ss. Viatico, ogni volta che la malattia è grave, ossia pericolosa di morte, come si è detto. E poiché questo è un punto nel quale comunemente v’ha maggiore ignoranza, sarà bene sentire come ne parli s. Alfonso (Homo Apost. de Ex. Unct. n. 7). Ecco la fedele traduzione delle sue parole: « Comunemente dicono i Dottori che basta che l’infermità sia pericolosa di morte, almeno remotamente, cosi Suarez, Layman, Castropalao, Bonacina, Conninchio, i Salmanticesi ed altri. Basta perciò che vi sia un pericolo anche remoto. Prova quindi questa dottrina con le autorità dei Concili di Aquisgrana, di Magonza, di Firenze e di Trento; quindi segue: « Ma più chiaramente ciò si conferma da Benedetto XIV nella Bolla già citata, dove dice che il Sacramento dell’Estrema Unzione non si amministri a coloro che sono sani; ma soltanto a coloro che hanno una grave malattia: per il che dice rettamente Castropalao, che tutte le volte che si può dare il Viatico all’infermo non digiuno, si può dare, ed è espediente che si dia l’Estrema Unzione, « Per tanto l’infermo, ricevuto che abbia il Ss. Viatico, può domandare l’Estrema Unzione con diritto che gli sia data (A Parigi si costuma di dare l’Estrema Unzione immediatamente dopo il Viatico, come si legge nella Vita di Vittorina di Gallard morta nel 1836 – Vita, parte IV-). Queste avvertenze potranno servire di regola non solo agl’infermi, ma anche ai loro parenti ed ai medici.

PROFESSIONE DI FEDE CATTOLICA

Io N. N. credo e confesso con ferma fede tutti e ciascun articolo compreso nel simbolo di fede, del quale si serve la Santa Chiesa Romana, cioè:

Credo in un solo Dio Padre Onnipotente, Creatore del Cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili; e in un solo Gesù Cristo, Figlio di Dio unigenito, e nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, Lume da Lume, vero Dio dal vero Dio, generato e non fatto, consostanziale al Padre, per mezzo del quale furono fatte tutte le cose, che per amore verso noi uomini, e per la nostra salute è disceso dai Cieli, e ha preso carne dalla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo, e si è fatto uomo: che è stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, ha patito e fu seppellito, che è risuscitato nel terzo giorno, giusta le Scritture, ed è salito al Cielo, che è seduto alla destra dei Padre; e che verrà un’altra volta con gloria a giudicare i vivi ed i morti, di cui il regno non avrà più fine. Credo nello Spirito Santo, Signore e Vivificatore, il quale procede dal Padre e dal Figliuolo, e che è adorato e glorificato col Padre e col Figliuolo, che ha parlato per bocca dei Profeti. Credo la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica. Riconosco un solo Battesimo per la remissione dei peccati, ed aspetto la risurrezione de’ morti, e la vita del futuro secolo. Così è. – Ammetto ed abbraccio fermamente le apostoliche ed ecclesiastiche tradizioni, e tutte le altre osservanze e costituzioni della Chiesa medesima. Ammetto inoltre la Sacra Scrittura nel senso che ha sempre tenuto, e tiene anche oggi la Santa Madre Chiesa, alla quale appartiene di giudicare del vero senso e della vera interpretazione delle Sante Scritture, e non le intenderò, e non le interpreterò mai altrimenti, che secondo il consenso unanime dei santi Padri. Confesso altresì che vi sono propriamente e veramente sette Sacramenti della nuova legge, instituiti da Gesù Cristo Signor nostro, per la salute del genere umano, comecché non tutti siano necessari alla salvezza di ciascuno in particolare. Tali sono: il Battesimo, la Cresima, l’Eucarestia, la Penitenza, l’Estrema Unzione, l’Ordine, e il Matrimonio. Credo che questi Sacramenti conferiscono tutti la grazia, e che tra questi il Battesimo, la Cresima, e l’Ordine non si possono ricevere che una sola volta senza sacrilegio. – Accetto, ed abbraccio del pari i riti dalla Chiesa Cattolica ricevuti ed approvati nella amministrazione solenne di tutti i suddetti Sacramenti: accetto ed abbraccio ogni e qualunque cosa che è stata definita e dichiarata nel Sacrosanto Concilio di Trento circa il peccato originale e la giustificazione. Confesso similmente, che nella santa Messa si offre a Dio vero, proprio e propiziatorio Sacrifizio per i vivi e per i morti; e che nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia è veramente, realmente e sostanzialmente il Corpo e il Sangue in un con l’Anima e Divinità di nostro Signor Gesù Cristo, e che si opera una conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo, e di tutta la sostanza del vino nel Sangue, il qual cangiamento la Chiesa Cattolica chiama Transustanziazione. Confesso altresì che Gesù Cristo v’è tutto ed intero, ed il vero Sacramento ricevasi sotto l’una e l’altra delle due specie. Tengo costantemente esservi il Purgatorio, e credo che le anime quivi detenute sono sollevate ed aiutate dai suffragi de’ fedeli. Credo per egual maniera, che i Santi che regnano con Gesù Cristo debbono essere onorati ed invocati, e che offrono le loro orazioni a Dio in favor nostro, e che le loro reliquie devono essere venerate. – Affermo fermissimamente che le immagini di Gesù Cristo e della Madre di Dio sempre Vergine, siccome quelle degli altri Santi, debbono essere conservate, ritenute e onorate con la debita venerazione. Affermo anche che il potere di concedere Indulgenze, è stato lasciato da Gesù Cristo nella Chiesa, e che il loro uso è salutevolissimo al popolo Cristiano. Riconosco la Santa Chiesa Romana Cattolica ed Apostolica per madre e maestra di tutte le Chiese, e giuro e prometto una vera obbedienza al Pontefice Romano, Vicario di Gesù Cristo, successore di S. Pietro, principe degli Apostoli. Confesso e ricevo similmente, senza alcun’esitazione tutte le altre cose lasciate per tradizione, definite e dichiarate dai sacri Canoni, e dai Concili ecumenici, e segnatamente dal Sacrosanto Concilio di Trento, e similmente condanno, rigetto, ed anatematizzo tutte le cose contrarie e tutte le eresie, quali e quante mai sono state condannate, rigettate e anatematizzate dalla Chiesa. – Questa Fede vera e Cattolica, fuor della quale nessuno può salvarsi, che professo ora e di mia spontanea volontà, e che tengo fermamente e sinceramente, io N. N. giuro, prometto, e m’impegno di tenerla e di professarla col soccorso di Dio costantemente e inviolabilmente in ogni sua parte fino all’ultimo mio respiro, e di procurare, per quanto è da me, che sia predicata, insegnata ed osservata da tutti coloro che dipendono da me e da quelli tutti che saranno alla mia cura commessi. Così Dio mi aiuti, ecc.

Ha il Cristiano Cattolico in questa professione un eccellente Atto di Fede, e sicura norma per conoscere tutti i protestanti.

FINE

L’ORGOGLIO

ORGOGLIO

 [E. Barbier: “I Tesori di Cornelio Alapide”, S.E.I. Ed. Torino, vol. III, 1930]

1. Che cosa è e a qual segno si riconosce. — 2. L’orgoglio è accecamento e pazzia. — 3. L’orgoglio non soffre di essere ripreso. — 4. Differenza tra l’orgoglio e l’umiltà. — 5. Enormità dell’orgoglio. — 6. L’orgoglio è la causa di tutti i mali. – 7. La superbia è detestabile. — 8. Dio umilia i superbi. — 9. Castighi dei superbi. — 10. Diversi gradi d’orgoglio. — 11. Motivi e mezzi di fuggire la superbia

1. Che cosa è e a qual segno si riconosce. — L’orgoglio è la stima sregolata di se stesso. Avere orgoglio vuol dire preporci agli altri; attribuire a noi quello che ci viene da Dio. A quattro segnali si riconosce l’orgoglio : 1° l’orgoglioso crede che gli venga da se stesso quello che possiede; 2° crede di non esserne debitore ad altri che al proprio merito; 3° si gloria di quello che ha e si vanta di quello che non ha; 4° disprezza gli altri e desidera che tutti sappiano ch’egli ha molto.

2. L’orgoglio è accecamento e pazzia. — « Se noi diciamo che non abbiamo peccato, inganniamo noi medesimi e la verità non è in noi » (I Ioann. II, 8), scrive S. Giovanni, e « se qualcuno si tiene per qualche cosa, mentre è un nulla, costui inganna se stesso», ripete S. Paolo (Gal. VI, 3). Gli orgogliosi si compiacciono in se stessi e confidano in sé; si persuadono di essere virtuosi e vivono in una stolta sicurezza, come se non mancassero di nulla e non avessero nulla da temere. O stolto! tu dici: io sono ricco in meriti e non ho bisogno di nessuno, e non sai quanto sei misero, e infelice, e povero, e cieco, e nudo (Apoc. III, 17). L’orgoglioso crede di sapere anche quello che non sa…; non vuol saperne né di consigli né di avvisi; è caparbio; ed ecco perché vi è poca o nessuna speranza di vederlo volgersi a ravvedimento… Tali erano gli scribi e i farisei che, gonfi di se medesimi, non riconobbero il vero dottore Gesù. Cristo e ricusarono di ricevere da lui lume e istruzione… Tali sono i Giudei… Tali ancora tutti gli eretici ostinati…; non vogliono né istruirsi né vedere la verità e vogliono insegnare… Che cosa potete sapere voi, orgogliosi, se non conoscete; come può mai essere che, cenere e polvere, v’insuperbiate? L’orgoglio è la più forte e la più pericolosa delle seduzioni cui l’uomo possa cedere; esso lo precipita nelle più fitte tenebre… L’orgoglioso vede malamente tutte le cose… Vede là dove non c’è nulla da vedere; non vede nulla dove ci sarebbe da vedere qualche cosa… Sempre cieco e zimbello della sua seduzione, egli è convinto della sua chiaroveggenza e imparzialità. Il Crisostomo asserisce che l’orgoglio è somma pazzia e che non si dà uomo più insensato dell’orgoglioso. Difatti, dove trovare idea più pazza di quella di resistere a Dio e di fargli guerra? Vi può essere impresa più stolta che quella di privarci volontariamente del favore, della grazia e del soccorso di Dio da cui tutto dipende e al quale tutto appartiene? Può l’uomo commettere una pazzia più grande che quella di costituirsi antagonista e nemico non di un uomo, non di un angelo, non del demonio medesimo, ma di Dio in persona, così che osi sfidarlo a duello? « L’orgoglio nasce dalla demenza, dice il medesimo santo; non si dà orgoglioso che non sia insensato; il superbo è pieno di stoltezza ». L’orgoglioso, essendo un pazzo, e spregevole e disprezzato, è il caso di dire con S. Paolo: « Vantandosi saggi, sono divenuti stolti » (Rom. I, 22). « Avete voi veduto un uomo che si crede saggio? c’è più da sperare da uno stupido che da lui », leggiamo nei Proverbi (XXVI, 12); e un proverbio popolare dice: «Uomo che si stima, perde ogni stima». — Quelli che si credono accorti, sono facilmente ingannati dal demonio e si perdono. Chi invece riconosce la sua poca saggezza, cerca una guida illuminata, e con questo modo cammina sicuro e facilmente si salva. L’umiltà è la sapienza dell’anima; l’orgoglio ne è la stoltezza; infatti l’umiltà riposa su la verità, l’orgoglio non è che vanità, menzogna, errore. « Perché la terra e la cenere si leva in superbia? » dice l’Ecclesiastico (X, 9). « Perché mai ti gonfi, o uomo? dice S. Bernardo; di che t’insuperbisci tu, concepito nella colpa, nato nella miseria, la cui vita è un peccare, il morire è angustia?».

3. L’orgoglioso non soffre di essere ripreso. — Gli orgogliosi non vogliono mai aver torto… Di loro si può dire:  « Tocca i vulcani e fumeranno (Psalm. CXLIII, 5). Oh sì, dagli orgogliosi di cui i vulcani sono gli emblemi escono rombi di tuono, sordi muggiti, onde di fumo; essi vomitano lave di sarcasmi, di motteggi, di ingiurie contro l’uomo caritatevole che cerchi di riprenderli e condurli a più savi pensieri… Provatevi a correggere un superbo; empie l’aria di lamenti; quante scuse, quante false ragioni accampa!… Non lo si conosce…; s’inventa…; si esagera a suo danno…; tutti sono inveleniti…; nessuno lo tratta con carità… Perché mischiarsi de’ suoi affari…; egli sa regolarsi…; egli non fa male…; nessuno ha diritto d’imporgliene… È proprio vera la sentenza di S. Cirillo, che il rimprovero il quale migliora gli umili, riesce intollerabile ai superbi; e con ragione il Venerabile Beda dice: O quanto misera è la coscienza di colui che rimproverato dalla parola di Dio, se ne risente come di un affronto (Collett.). Quindi il Profeta pregava il Signore, che non permettesse che il suo cuore si volgesse a parole di malizia, per scusare le sue mancanze e i suoi peccati (Psalm. CXL, 4). « Siccome dalla radice dell’orgoglio nasce la disobbedienza, dice S. Gregorio, i disobbedienti ascoltano chi scopre l’enormità delle loro colpe, ma del ripararle per mezzo di un’umile confessione, non ne vogliono sapere. Desiderando grandeggiare, da nulla tanto si guardano, quanto dal lasciar vedere le loro cadute. Perciò vanno in cerca di scuse e pretendono di aver ragione, perché non vogliono apparire peccatori ». S. Bernardo, parlando della caduta di Adamo, cagionata dalla superbia, e della scusa con cui egli volle coprirsi dinanzi a Dio, scusa inspirata anch’essa dall’orgoglio, dimostra quanto grave e odiosa a Dio sia la difesa del male. « Vi è ragione di credere, dice, che quell’antica così famosa e così nocevole prevaricazione avrebbe ottenuto perdono, se l’avesse seguita un’umile confessione e non una difesa. Infatti non nocque tanto la trasgressione, quantunque fatta con animo deliberato, quanto l’ostinazione con la quale le si aggiunse una scusa premeditata ». L’orgoglioso somiglia al riccio; nel quale, se lo vedete correre, distinguete le orecchie, le zampette, il muso; ma se l’avvicinate e cercate di prenderlo, non è più che un gomitolo irto di punte che vi forano le mani. In qualunque modo, da qualunque lato prendiate il superbo, è un riccio che punge e ferisce.

4. Differenza tra l’orgoglio e l’umiltà. — S. Gregorio dice: « Fatto nella sua creazione superiore a tutte le creature, volle il demonio, nostro mortale nemico, gonfio di orgoglio, che lo si considerasse come dominante su tutto. Invece il nostro Redentore, infinitamente grande e superiore a tutto, si degnò farsi piccolo in tutto. L’autore della morte disse: Io ascenderò al cielo; l’autore della vita: L’anima mia è piena d’angosce, è come annichilita. Satana disse : Io porrò il mio trono al di sopra degli astri del cielo; Gesù Cristo disse al genere umano : Ecco che io vengo ad abitare in mezzo agli uomini. Lucifero disse : Io siederò sul monte dell’alleanza dalla parte dell’Aquilone; e il Salvatore: Io sono un verme e non uomo, l’obbrobrio degli uomini, lo scherno della plebe. Satana disse : Io salirò sopra le nubi e sarò simile all’Altissimo; e il Verbo di Dio si è annientato, vestendo la forma di servo {Moral. lib. XXXIV, c. XXI).

5. Enormità dell’orgoglio. — Sant’Ottato, Vescovo di Milevi, dice che è meno cattivo e fatale il peccato con l’umiltà, che l’innocenza con l’orgoglio (Contra Parmen.). Infatti, come osserva S. Bernardo, il superbo s’innalza sopra Dio e si mette con lui in aperta lotta. Dio vuole che si faccia la sua volontà, e il superbo pretende che si faccia la sua. Quindi S. Agostino diceva: « Colui che cerca, o Signore, di volgere i tuoi doni a sua gloria e non alla tua, è ladro ed assassino, è simile al demonio che volle prendere il tuo trono ». Lo stesso santo giunge a dire : « Io oso dire ai superbi che si serbarono continenti, che è utile per loro il cadere. Io oso asserire che è cosa vantaggiosa agli orgogliosi l’inciampare in qualche colpa manifesta e innegabile, affinché essendo caduti per aver cercato di troppo piacere a se stessi, si rialzino dispiacendo a se medesimi ». Ed osserva che « Dio, secondo lui, permise ai barbari che conquistavano e saccheggiavano le città dell’impero Romano, di violare le vergini cristiane, o perché erano orgogliose, o perché vi era pericolo che peccassero di orgoglio, invanendo della loro castità » (De Civit. 1. I, c. XXVIII). Il Profeta pregava: « Preservatemi, o Signore, dal cadere in orgoglio » (Psalm. XXXV, 11). « Chiunque sia, leggiamo nei Proverbi, l’uomo arrogante è abbominato da Dio » (XV, 5). E la ragione sta in ciò, che il superbo si mette come emulo e antagonista di Dio : nuovo Lucifero, vuole uguagliarsi a Dio, e mettere la sua volontà in luogo di quella dell’Onnipotente. « La superbia fa il suo volere, scrive S. Agostino, l’umiltà fa la volontà di Dio ». Gran male è l’orgoglio, perché assale Dio, lo schiaffeggia, lo provoca suo malgrado al combattimento. Enorme è agli occhi del Crisostomo il delitto della superbia; meglio, secondo lui, converrebbe all’uomo essere pazzo, piuttostochè orgoglioso. La pazzia è l’impedimento all’azione dell’anima, l’orgoglio è una pazzia volontaria. Il pazzo forma la infelicità a se solo, il superbo forma la disgrazia degli altri (Hom. XXXIX ad pop.). Spaventosa sentenza è quella dell’Ecclesiastico: « L’orgoglio dell’uomo comincia dal farlo apostatare da Dio; perché il suo cuore si allontana da colui che l’ha fatto e dalla superbia comincia ogni peccato » (X, 14-15). Quindi non c’è da stupire se, come dice S. Giacomo, Dio resiste ai superbi(Iac. IV, 6).

6. L’orgoglio è la causa di tutti i mali. — « La superbia è fonte di ogni male», dice il Crisostomo (Hom. XV, in Matth.). Difatti il primo atto del superbo è scuotere il giogo e la legge dì Dio… « L’orgoglio li ha invasi, leggiamo nei Salmi, ed essi si sono macchiati di ogni empietà (Psalm. LXXII, 6); Davide confessa di se medesimo, che non cessò di peccare se non quando fu umiliato (Psalm… CXVIII, 67). E Tobia ammoniva suo figlio che non si lasciasse mai comandare dall’orgoglio né nei pensieri né nelle parole; perché da esso ebbe origine ogni perdizione (Tob. IV, 14). « L’umiltà, scrive S. Bernardo, rende gli uomini simili agli angeli, l’orgoglio cambia gli uomini in demoni. L’orgoglio è il principio, il fine, la causa di tutti i peccati, perché non solamente esso è peccato in se stesso, ma nessun peccato né ha potuto, né può, né potrà mai esistere senza orgoglio ». No, non si dà peccato senza orgoglio, dice S. Prospero; perché chiunque pecca, preferisce sé e l’appetito a Dio e alla sua legge, il che è vero orgoglio (De Vita contemp. cap. XXV). Dalla superbia trae origine ogni peccato, dice il Crisostomo. Da lei il disprezzo dei poveri, da lei la cupidigia dell’oro, da lei l’ambizione del comando, da lei il desiderio di gloria umana. L’orgoglioso non può sopportare nessuna prova, da qualunque parte essa venga, sia dai superiori, sia dagli inferiori. – La superbia è chiamata da S. Gregorio, regina dei vizi (Moral. lib. III, c. XVIII). Ed in quel modo, continua questo Santo, che la radice di un albero sta nascosta, ma nutrisce il tronco e i rami, così la superbia si nasconde in fondo al cuore, e di lì alimenta molti vizi manifesti. Non vi sarebbe peccato pubblico, se l’orgoglio non possedesse l’anima in segreto (Moral. lib. XXXIV, c. XVII). Non si cade nel male se non per superbia, almeno segreta… L’orgoglio precede gli empi, portando dinnanzi a loro una fiaccola, per condurli al delitto… Agli orgogliosi in generale si adatta quello che S. Agostino diceva dei Pelagiani: «Perché non vollero essere discepoli della verità, divennero maestri dell’errore ». L’orgoglio produce le risse, le gare, le dispute, gli odi, le maldicenze, le calunnie, le liti, le guerre, gli scismi, le eresie, e via dicendo… L’umiltà, al contrario, è sorgente di pace, di concordia, di unione, di carità, di fratellanza… La superbia è la madre di tutti i mali e di tutte le malattie, poiché e quelli e queste sono frutto del peccato. Non vi è peccato che non sia infetto di superbia, perché il peccato è ribellione contro Dio, è disprezzo della sua legge: ora la rivolta e il disprezzo vengono direttamente dall’orgoglio. « Siccome la superbia è il principio di tutti i misfatti, dice S. Bernardo, così è la rovina di tutte le virtù. L’orgoglio cammina il primo per la via del peccato, ma viene l’ultimo per la va del pentimento ». E in altro luogo dice: « La superbia ha concepito il dolore nel cielo, ha partorito l’iniquità nel paradiso terrestre; il dolore figlio del peccato, l’iniquità madre della morte e di tutte le miserie. Solo tra i vizi, l’orgoglio fa guerra a tutte le virtù, e come veleno universale le corrompe tutte ». – Giovanni Crisostomo paragona l’orgoglio alle tempeste di mare; dice che questo delitto acceca lo spirito; fa dell’uomo un oltraggiatore, un bestemmiatore, uno spergiuro, un demonio; non vi è male che l’uguagli. Esso è la sorgente di tutti i vizi, come all’opposto l’umiltà è la fonte di tutte le virtù … È il peccato dei demoni…; è un peccato di cui ben raramente si trova chi si corregga… è tale peccato che conduce per l’ordinario al suo seguito la curiosità, la iattanza, l’ipocrisia, la caparbietà, l’ostinazione, le liti. Gli orgogliosi si nutrono di vento, dice S. Isidoro; la superbia è il più enorme dei delitti, è la causa della morte dell’anima, sia col dare morte a tutte le virtù, sia col generare tutti i vizi… Chiunque pecca è un orgoglioso, perché peccando calpesta i divini precetti (Epist. de forma bene viv.). L’orgoglio, scrive S. Gregorio, impedisce di giudicare con equità; porta alle grida e agli schiamazzi; inspira zelo amaro, gaiezza scomposta, tristezza furiosa, risposte pungenti, atti impudenti, contegno insultante. L’anima dei superbi è sempre forte per fare un oltraggio, sempre debole per tollerare un affronto; pigra ad obbedire, importuna a stimolare gli altri; tarda a fare quello che deve, pronta a quello che non deve. Nessuna esortazione può muoverla a favore di ciò che non le piace, cerca al contrario di essere obbligata a mettere mano a ciò che le piace ». L’orgoglio si caccia dovunque, s’insinua e si mischia in ogni cosa, a tal punto che, secondo l’avviso di S. Agostino, dobbiamo temerlo perfino nelle buone opere(In Medit.). E’ veleno che infetta le preghiere, le confessioni, le comunioni, l’ingegno, la bellezza, lo spirito, l’anima, il cuore… Male sommo, cambia in male perfino il bene. Si attacca a tutte le facoltà dell’anima, ad ogni senso del corpo: «Vi è l’orgoglio del cuore, dice S. Bernardo, l’orgoglio della bocca, l’orgoglio delle opere, l’orgoglio del portamento »… La superbia invade ogni più remoto angolo della terra; si trova in fondo al cuore di quasi tutti gli uomini… Siccome gli angeli cattivi furono perduti da questo vizio, perciò di questo a preferenza di ogni altro si servono per far perdere il genere umano… « Nessuna cosa, dice S. Giovanni Crisostomo, tanto allontana l’uomo dall’amore divino e più facilmente lo precipita nell’inferno, quanto la follia dell’orgoglio. Questo vizio insozza tutta quanta la nostra vita, per quanto splendida e ragguardevole la facciano le preghiere, le elemosine, i digiuni, il pudore, la verginità, la virtù ». L’orgoglio ha spinto gli angeli alla ribellione in cielo e ne ha fatto dei demoni; l’orgoglio ha scavato l’inferno e vi ha precipitato gli spiriti ribelli; l’orgoglio ha cambiato in supplizi eterni le delizie di cui dovevano godere… L’orgoglio ha fatto cadere Adamo; l’ha cacciato dal soggiorno della felicità e condannato al lavoro, alle cure, alle pene, alle ambasce, alla nudità, all’accecamento, ai dolori, alle malattie, alla morte, alla corruzione del sepolcro. « L’orgoglio ha rovesciato la torre di Babele, scrive Papa Innocenzo III, ha confuso le lingue, abbattuto Golia, innalzato il patibolo di Aman, fatto morire Nicanore, colpito Antioco, sommerso Faraone, ucciso Sennacherib. Donde viene questo fasto all’uomo? all’uomo, la cui vita si sviluppa sotto il peso che gli impone il lavoro come castigo che si chiude con la necessità della morte, pena ancor più grande; all’uomo, la cui esistenza è di un istante, la vita un naufragio, il mondo un esilio; all’uomo, cui la morte o già si avvicina, o minaccia di avvicinarsi? ».

7. La superbia è detestabile. — Dove trovare cosa più abbominevole e più degna di severissimi castighi che l’uomo superbo il quale s’innalza su la terra in faccia a un Dio fatto uomo? esclama S. Leone, e conchiude : « Intollerabile impudenza è questa, che un vermiciattolo si gonfi e si inorgoglisca dove la maestà suprema si annienta ». I superbi dispiacquero a Dio fin dal principio(Iudith. IX, 16); anzi tanto lui quanto gli uomini ebbero sempre in odio la superbia (Eccli. X, 7). L’orgoglioso disprezza tutti gli altri, li insulta e canzona, s’innalza al di sopra di loro col sarcasmo e col disprezzo. Ma il Signore dice : « Guai a te che disprezzi! Non sarai tu forse disprezzato a tua volta? » (Isai. XXXIII, 1). Il superbo si prepara dunque il disprezzo e l’umiliazione… L’orgoglio è la strada all’ignominia… A misura che l’orgoglio aumenta e ascende, l’uomo diminuisce e cala fin che si sprofonda nel fango. « Tra i superbi è un continuo rissare » (Prov. XIII, 10), dice il Savio. Ecco perché noi vediamo tra gli eretici tante sètte ed opinioni differenti, quanti sono individui… Gli orgogliosi si odiano a vicenda… Nulla per loro è sacro, ma pretendono di essere essi sacri a tutti. O condotta sommamente ingiusta e detestabile! «Parlare con disdegno ed arroganza, operare con insolenza è un rendersi simile al demonio », dice S. Basilio. S. Leone, parlando di Satana e di Adamo, osserva che « ambedue ambirono l’altezza; quegli della potenza, questi della scienza », ma il primo trovò nel suo orgoglio il sommo della degradazione, il secondo il sommo dell’ignoranza.

8. Dio umilia i superbi. — È sentenza perentoria di Gesù Cristo che « chi si esalta sarà umiliato » (Luc. XVIII, 14); Dio ha fatto dire a S. Giacomo ch’egli resiste ai superbi(Iacob. IV, 6); a tal punto che, come disse la Beata Vergine, impiega contro di loro la forza del suo braccio, per atterrarli, li balza dai loro seggi per collocarvi gli umili (Luc. I, 52). « Signore, esclamava Giuditta, voi non abbandonate quelli che a voi si affidano; ma umiliate quelli che confidano in sé e si vantano della loro forza » (Iudith. VI, 15). Ecco perché il Salmista trovava buono per lui che Dio lo avesse umiliato: (Psalm. CXVIII, 7). « I superbi, dice Giobbe, s’innalzano per breve tempo ma non la dureranno; saranno abbattuti e trebbiati come spighe mature. Si levi pure la superbia dell’empio fino al cielo, giunga anche a nascondere il capo nelle nuvole, egli finirà col perdersi nello sterco e quelli che l’avevano veduto diranno : Dov’è? » (Iob. XXIV, 24) (Ibid. XX, 6-7). Per avere un’idea del modo con cui Dio tratti e combatta i superbi, osservate quali armi e quali eserciti impiega contro gli orgogliosi Egiziani a favore d’Israele; sono rane, moscherini, cavallette… Il re Faraone è vinto da una cavalletta; colui che aveva osato levare la sua fronte contro Dio, è costretto a piegarla sotto una mosca. « Fiero della sua forza, dice S. Agostino, parlando di Golia, gonfio, pettoruto, comincia col riporre in sé solo la vittoria di tutta la sua nazione. E perché ogni orgoglio si palesa nella sfrontatezza, dalla percossa di un sasso in fronte egli è rovesciato a terra. La fronte che mostrava l’impudenza dell’orgoglio, fu spezzata; la fronte che portava l’umiltà della croce di Cristo, fu coronata del trionfo ». Studiate la storia di Aman che finisce col morire su di un patibolo alto cinquanta cubiti, da lui destinato al supplizio dell’umile Mardocheo, e imparerete in qual modo Dio resiste ai superbi. Inviperito quell’orgoglioso, che Mardocheo non piegasse il ginocchio davanti a lui, giura di vendicare nel sangue di lui e di tutti i suoi connazionali, il preteso affronto. Ma tutto a un tratto le cose cambiano. Mardocheo, destinato ad ignominiosa morte, è vestito da Aman medesimo del manto reale, e questi ascende il patibolo preparato per quello. Chi può dire il dispetto e l’umiliazione che prova Aman a questo mutare di scena? Infatti: 1° si vede tolto l’onore altissimo che nella sua superbia si era preparato; 2° vede dato quest’onore all’umile Mardocheo; 3° Aman medesimo deve servire di strumento al trionfo di Mardocheo; 4° quello stesso che poco prima si faceva adorare, ora non è più che lo staffiere, il banditore di un vile giudeo ch’egli detesta; 5° tutti questi affronti, queste inattese fulminanti umiliazioni gli piombano addosso tutte a un tempo, perché l’Altissimo atterra e stritola i superbi; 6° Aman è condannato a pendere da quel medesimo patibolo ch’egli aveva innalzato per Mardocheo. O giudizi di Dio contro i superbi come siete terribili! Le umiliazioni della carne accompagnano l’orgoglio dello spirito… Dio cambia in bestia l’orgoglioso Nabucco che si glorifica nella città di Babilonia; Dio abbatte lo sdegnoso Baldassarre e per umiliarlo e farlo tremare non si serve che di una mano, anzi dell’ombra di una mano; l’arrogante Antioco è divorato vivo dai vermi. « Piangendo e umiliandosi, Pietro si condannava e si salvava, dice S. Agostino, mentre, quando pago di se stesso confidava nelle proprie forze, si perdeva » {In Psalm XXXVII). Lo stesso pensiero aveva espresso il Salmista : « Copriteli, o Signore, d’ignominia, e cercheranno il vostro nome » (Psalm. LXXXII, 15).

9. Castighi dei superbi. — Terribile castigo sono già per i superbi le umiliazioni a cui li condanna Iddio, ma altre punizioni ancora egli loro riserva nella sua collera: 1° Egli si allontana da loro. « L’uomo, dice il Salmista, si esalterà in cuor suo, e Dio ascenderà ancora più in alto » (Psalm. LXIII, 7). « Dall’alto del suo trono il Signore fissa lo sguardo sugli umili, ma gli orgogliosi guarda da lontano », — (Psalm. CXXXVII, 7). – 2° Dio castiga il superbo abbandonandolo a se medesimo. Oggetto di scherno e di abbominio agli altri, l’orgoglioso si cruccia del disprezzo in cui è tenuto, ne è offeso e straziato. « Se tu sei superbo, dice S. Agostino, sarai punito e abbattuto. A Dio non mancano pesi per farvi discendere, e questi pesi saranno quelli dei vostri peccati. Egli ve li rinfaccerà e voi sarete annichilati » (Homil.). L’orgoglio è un carnefice che accompagna l’orgoglioso. In questo senso già diceva Seneca che Dio sta con la spada della vendetta alle spalle dei superbi (In Hercuule). 3° Dio ha rovesciato i troni su cui volevano sedere i superbi, scrive l’Ecclesiastico (X, 17). Lucifero e i suoi seguaci, Adamo, ecc. fanno testimonianza di questa verità… « Dio ha fatto seccare perfin la radice delle nazioni superbe » (X, 18), leggiamo ancora nel medesimo Ecclesiastico. Ne sono prova i sette popoli Cananei sterminati da Dio per il loro orgoglio e il medesimo popolo ebreo spogliato da lui di ogni grazia e di ogni gloria, dopo che respinse Gesù umiliato. 4 ° « Dio ha fatto scomparire la memoria dei superbi » nota il Savio (Eccli. X, 21), e il profeta Malachia annunzia che gli orgogliosi saranno come paglia data alle fiamme, e non ne rimarrà né germe né radice (Malach. IV, 1). 5° Se Dio non perdonò agli angeli superbi, dice S. Bernardo (Serm. I, de Ad.), come lusingarvi che risparmi voi, polvere e cenere? L’angelo non venne al fatto; egli non ebbe che un pensiero di orgoglio, eppure in un attimo fu precipitato senza remissione. Ah! fuggite, ve ne scongiuro, fratelli, fuggite l’orgoglio; schivate quella superbia che gittò così subitamente nelle tenebre Lucifero, più splendido degli astri; fuggite quell’orgoglio che cambiò un angelo, e il primo degli angeli, in un demonio. 6° La superbia ha fruttato la morte. « L’uomo, scrive S. Agostino, era stato fatto immortale; avendo ambito la divinità, non perdette no la qualità di uomo, ma l’immortalità; per causa dell’orgoglio della sua disobbedienza, è stato condannato alle malattie, ai patimenti, alla morte. Quindi la morte introdotta nel mondo dalla superbia, è essa medesima castigo alla superbia (Sentent. CCLX). 7° Rabano Mauro fa osservare che Iddio onnipotente e sommamente buono volendo ogni bene a tutti gli uomini, è stato in certo qual modo costretto ad assoggettare all’impero degli angeli orgogliosi le persone superbe, affinché perseguitate da loro comprendano la differenza infinita che vi passa tra il servizio di Dio e quello del demonio (De adept. virtut.). Il superbo che rifiuta di sottomettersi a Dio, diventa schiavo del demonio, delle concupiscenze carnali, delle passioni, castigo certamente spaventosissimo. 8° L’orgoglio inaridisce la sorgente delle grazie. « Voi farete, o Signore, zampillare fontane nelle valli, e le acque loro passeranno in mezzo ai monti » (Psalm. CIII, 11). Queste valli innaffiate sono gli umili colmi delle grazie del cielo; i monti che non profittano delle acque sono i superbi divenuti simili a macigni aridi e sterili… L’orgoglioso, pieno e gonfio di se stesso, non lascia più in sé luogo alla grazia (IV Reg. IV, 6). La privazione della grazia è prova dell’esistenza dell’orgoglio, come l’abbondanza di grazie è segno dell’esistenza dell’umiltà.. Chi dunque si vede privo della grazia e dei doni di Dio, sappia che vi sono in lui radici di superbia. L’orgoglio manda a male tutte le grazie. Vi è castigo peggiore di questo? 9° La superbia porta con sé l’accecamento spirituale, l’indurimento del cuore, l’impenitenza finale, una morte funesta, un giudizio formidabile, una condanna terribile, l’inferno eterno… Fra tutti i peccati, il più detestato e il più severamente punito da Dio è la superbia. Dio solo è grande, ed ogni orgoglio, assalendo questa grandezza, ben difficilmente ottiene misericordia. Dio dimentica e perdona facilmente le colpe di debolezza, ma ben di rado quelle di caparbietà e di superbia. « Noi apertamente conosciamo, dice S. Gregorio, che evidentissimo segno di riprovazione è l’orgoglio e sicurissimo indizio di predestinazione l’umiltà ». Così parlano unanimi i Padri ed i Dottori, così insegna la Chiesa e la S. Scrittura.

10. Diversi gradi di orgoglio. — L’orgoglio ha sette gradi: 1° non soffrire che gli altri ci guardino come poca cosa; 2° non essere contenti di vederci disprezzati; 3° non confessare che meritiamo di esserlo; 4° non sopportare l’insulto con eguaglianza di amore; 5° non tollerare con pazienza gli affronti; 6° incollerire delle umiliazioni; 7° ricusare di ammettere che non siamo buoni a nulla.

11. Motivi e mezzi per fuggire la superbia. — Ecco nove principali motivi che ci devono indurre a fuggire la superbia : 1° essa è odiosa a Dio ed agli uomini; 2° è causa d’ingiustizie, di rapine, d’inganni, d’insulti; 3° l’uomo, per quanto potente, è sempre di natura sua una misera cosa; 4° ogni uomo è un nulla, anche solo considerata la brevità e la vanità della vita; 5° dopo morte, diventa pasto ai vermi; 6° la superbia è un abbandono di Dio, un’apostasia; 7° è principio, radice, sorgente di ogni peccato; 8° il superbo cessa in certo qual modo di essere la creatura di Dio, per diventare creatura del diavolo; 9° si attira un rovescio di castighi.
Leggiamo nella Scrittura che Davide andando contro Golia, scelse nel torrente cinque pulitissimi sassi con i quali atterrare quel gigante (I Reg. XVII, 40). In quei cinque sassi S. Bernardo riscontra cinque mezzi con i quali noi possiamo battere il Golia dell’orgoglio : 1° la minaccia delle pene; 2° la promessa delle ricompense; 3° l’amor di Dio; 4° l’imitazione dei Santi; 5° la preghiera (Serm. sup. Missus)… Conoscere Dio, conoscere se stesso, ecco un altro rimedio efficacissimo contro l’orgoglio… Bisogna praticare, per quanto è in noi, la bella virtù dell’umiltà; essa è la mazza che atterra e uccide la superbia.