MERCOLEDì DELLE CENERI

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco, Ivrea 1844 – Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843, Ferraris prof. Rev. Per la G. Cancell.]

NEL MERCOLEDI’ DELLE CENERI

“Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”

Un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o miei riveriti uditori; e vi confesso, che non senza una estrema difficoltà mi ci sono addotto, troppo pesandomi di avervi a contristar sì altamente fin dalla prima mattina ch’io vegga voi, o che voi conosciate me. Solo in pensare a quello che dir vi devo, sento agghiacciarmisi per grande orror le vene. Ma che gioverebbe il tacere? il dissimular che varrebbe? ve lo dirò. Tutti, quanti qui siamo, o giovani o vecchi, o padroni o servi, o nobili o popolari; tutti dobbiamo finalmente morire: statutum est hominibus semel mori (ad Heb. IX, 27) . Ohimè! che veggo? non è tra voi chi si riscuota ad avviso sì formidabile? Nessuno cambiasi di colore? nessun si muta di volto? Anzi già mi accorgo benissimo che in cuor vostro voi cominciate alquanto a ridere di me, come di colui, che qui vengo a spacciar per nuovo un avviso sì ricantato. E chi è, mi dite, il quale oggimai non sappia che tutti abbiamo a morire? Quis est homo, qui vivet, et non videbit mortem? (Ps. LXXXVIII, 49 ) Questo sempre ascoltiamo da tanti pergami, questo sempre leggiamo su tante tombe, questo sempre ci gridano, benché muti, tanti cadaveri: lo sappiamo. Voi lo sapete? Com’è possibile? Dite: e non siete voi quelli, che jeri appunto scorrevate per la città così festeggiante, quali in sembianza di amante, qual di frenetico, e quale di parassito? Non siete voi che ballavate con tanta alacrità nei festini? Non siete voi che v’immergevate con tanta profondità nelle crapule? Non siete voi che vi abbandonavate con tanta rilassatezza à dietro ai costumi della folle Gentilità? Siete pur voi che alle commedie sedevate sì lieti. Siete pur voi che parlavate da’ palchi sì arditamente. Rispondete: e non siete voi che tutti allegri in questa notte medesima, precedente allo sacre Ceneri, ve la siete passata in giuochi, in trebbj, in bagordi, in chiacchiere, in canti, in serenate, in amori, e piaccia a Dio che non fors’anche in trastulli più sconvenevoli? E voi, mentre operate simili cose, sapete certo di avere ancora a morire? Oh cecità! oh stupidezza! oh delirio! oh perversità! Io mi pensava di aver meco recato un motivo invincibilissimo da indurvi tutti a penitenza ed a pianto con annunziarvi la morte: e però mi era, qual banditore divino, fin qui condotto per nebbie, per piogge, per venti, per pantani, per nevi, per torrenti, per ghiacci, alleggerendomi ogni travaglio con dire: non può fare che qualche anima io non guadagni, con ricordare ai peccatori la loro mortalità. Ma, povero me! troppo son rimaste deluse le mie speranze, mentre voi, non ostante sì gran motivo di ravvedervi, avete atteso piuttosto a prevaricare; non vergognandovi, quasi dissi, di far come tante pecore ingorde, indisciplinate, le quali allora si ajutano più che possono a darsi bel tempo, crapulando per ogni piaggia, carolando per ogni prato, quando antiveggono che già sovrasta procella. Che dovrò far io dunque dall’altro lato? dovrò cedere? dovrò ritirarmi? dovrò abbandonarvi in seno al peccato? Anzi così assista Dio favorevole a’ miei pensieri, come io tanto più mi confido di guadagnarvi. Ditemi dunque: mi concedete voi pure d’esser composti di fragilissima polvere; non è vero? lo conoscete? il capite? lo confessate, senza che altri stanchisi a replicarvi: Memento„ homo, memento quia pulvis es? Questo appunto è ciò ch’io voleva. Toccherà ora a me di provarvi quanto sia grande la presunzione di coloro che, ciò supposto, vivono un sol momento in colpa mortale. Benché presunzione diss’io? audacia, audacia, così doveva nominarla, se non anzi insensata temerità; che per tale appunto io prometto di dimostrarvela. Angeli, che sedete custodi a lato di questi a me sì onorevoli ascoltatori: Santi, che giacete sepolti sotto gli altari di questa a voi sì maestosa Basilica; voi da quest’ora io supplichevole invoco per ogni volta ch’io monterà in questo pergamo, affinché vogliate alle mie parole impetrare quel peso, e quella possanza, che non possono avere dalla mia lingua. E tu principalmente, o gran Vergine, che della divina parola puoi nominarti con verità Genitrice! tu che, di lei sitibonda, la concepisti per gran ventura nel seno; tu che, xli lei feconda, la partoristi per comun benefizio alla luce; tu che, di nascosta ch’ella era ed impercettibile, la rendesti nota e trattabile ancora a’ sensi; tu fa che io sappia maneggiarla ogni dì con tal riverenza, ch’io non la contamini con la profanità di formule vane, ch’io non l’adulteri con la ignominia di facezie giocose, ch’io non la perverta con la falsità di stravolte interpretazioni; ma che sì schietta io la trasfonda nel cuore dei miei uditori, qual ella uscì dai segreti delle tue viscere. Sprovveduto vengo io di ogni altro sostegno, fuor che d’una vivissima confidanza nel favor tuo. Però tu illustra la mente, tu guida la lingua, tu reggi il gesto, tu pesa tutto il mio dire di tal maniera, che riesca di lode e di gloria a Dio; sia di edificazione e di utile al prossimo; ed a me serva per acquisto di merito, non si converta in materia di dannazione.

II.  È l’uomo comunemente di sua natura più inclinato a temere nei gran pericoli, che disposto ad assicurarsi. Però voi vedete, che nella nave di Giona, profeta indocile, uno solo era quegli, che al fracasso de’ tuoni, e al furor de’ turbini dormiva tranquillamente. Gli altri tutti o gridavano, o gemevano, o consultavano, o si affaticavano, affine di liberarsi dall’imminente naufragio. Homo enim (così trovo io presupporsi da san Tommaso) magis inclinata» est ad timorem, quo mala fugit, quam ad audaciatn, qua mala invadit (Abulen. In Matt. cap. XVIII, q. 27 ex 2. 2. q. 16!, art. 29 ad 3 ). Ma questo principio è verissimo, quando si tratti de’ pericoli temporali, i quali sono meno terribili, e meno atroci; non però quando trattisi dell’eterno, che è tanto più irrimediabile e più tremendo. In questo solo (chi’1 crederebbe?) i mortali sono inclinati comunemente a fidarsi; né solamente nol temono, ma lo sprezzano; nol solamente nol fuggono, ma l’incontrano. E che vi pare, amatissimi peccatori, del vostro stato? Già voi sapete che in quell’istante medesimo nel qual voi, o col pensiero, o con la parola, o con l’opera, consumaste il vostro delitto, fu tosto contro a voi fulminata sentenza orribile di eterna condannazione. Né si deve durar gran fatica ad effettuarla. Ardon già inestinguibili quelle fiamme, che debbon essere il vostro letto per tutta l’eternità. Ignis succensus est in furore meo ( Jer. XV, 14); sì dice Dio, super ros ardebit. Già son preparati i tormenti, già stan pronti i tormentatori. Però, che manca? Manca che strappisi solamente quel filo che vi tien come pendenti sopra la bocca di un baratro sì profondo: Super putum abyssi (Apoc. IX. 2). E voi con tutto ciò non provate timore alcuno, ma potete la sera cenar con gusto, potete cicalare, potete conversare, potete andare a pigliar poi placidissimi i vostri sonni? se non è questa temerità intollerabile, rispondetemi, qual sarà? È vero che quel filo di vita che or vi sostiene potrebb’essere ancora forte e durevole; ma potrebbe anch’essere logoro e consumato. E perché dunque in una egual incertezza più volete attenervi a quella opinione che vi animi a confidare con tanto rischio, che non a quella che vi esorta a temere con tanto prò?

III. Benché troppo ho errato dicendo, in una egual incertezza. Qual cosa v’è che mai vi possa promettere di sicuro un sol momento di vita. Non i bezzuarri orientali, non le perle macinate, non gli ori potabili, non i gislebbi gemmati, che son piuttosto rimedi tutti inventati dall’ambizione, perché neppure il morire sia senza lusso. Dall’altra parte quante son quelle cose, le quali possono levarvela ogni momento! Si lusingavano comunemente gli antichi con darsi a credere, che le loro Parche non fossero più che tre. Ma non così si lusingava anche Seneca, il quale diceva, che a lui piuttosto parevano innumerabili: Eripere vitam nemo non homini potest (In Theb. act. 1). Mirate pur quante creature mai sono nell’universo, tutte, per dir così, tutte son tante Parche col ferro in mano, ch’è quanto dire, tutte applicate, tutte abili a darci morte. So non che, chi non sa che a fin di morire non ci fa nemmen di mestiere aspettarlo altronde? Dentro di noi sta quanto basta ad ucciderci. Come il ferro si genera la sua ruggine, come il legno il suo tarlo, come il panno la sua tignuola; così l’uomo si genera pur da sé la sua morte in seno, e non se ne accorge: a segno tale, che un celebre capitano del secolo precedente, detto il Caldoro (Poter. Detti memor. 1. 1), mentre arrivato, con sorte rara tra le battaglie, all’età di settantacinque anni, passeggiava lieto pel campo, e si gloriava di essere tuttavia sì disposto della persona, sì vivace, sì vegeto, qual ora di venticinque, finì in un punto e di vantarsi e di vivere; perché repentinamente percosso fu d’un accidente di furiosissima gocciola, la quale allora allora era in atto di sopraffarlo; e così, morendosi in poco d’ora, mostrò quanto ciascun uomo sia sempre mal informato di ciò che passi nell’intimo di se stesso. Ma se così è, come dunque in uno stato d’incertezza sì orribile, qual è questo, avete ardire, o ascoltatori, di vivere un sol momento in colpa mortale? Questa dunque è la cura che voi tenete della vostra anima? questa è la stima del vostro fine? questa è la sollecitudine della vostra felicità? saper di stare in mezzo a rischi sì gravi, e non vi riscuotere! Alcuni si stupiscono molto come un Elia, perseguitato da una potente Reina, potesse mettersi in una aperta campagna a dormir sì posatamente:projecitque se, et obdormivit (3 Reg. XIX, 5). Ma io non me no stupisco. Non è certissimo ch’egli finalmente era un Santo? Poteva dormire. II mio stupore è veder dormire un Saule, dormire un Oloferne, dormire un Sisara, quantunque dormano sotto de’ padiglioni. E che sia di loro, se restino quivi còlti da chi gli insidia? Eppure piacesse al Cielo, che i loro esempi non si vedessero tuttodì rinnovati tra i Cristiani. Sono innumerabili quelli che vanno a letto in peccato mortale, senza por mente a tanti orrendi pericoli, che del continuo lor possono sovrastare da una corrente impetuosa di sangue, da un soffocamento di catarro, da una soppressione di cuore, da un solo animaletto pestifero che li morda. E questi possono giungere a chiuder occhio, tuttoché per breve momento? Oh stupidezza infinita! oh stoltizia immensa! Si trovano là nell’Africa certi animali fierissimi detti orìgi, somiglianti ai tori selvatici, i quali tanto si fidano di sè stessi, che si addormentano dentro le medesime reti dei cacciatori; e benché già d’ogni intorno non altro sentasi che annitrire cavalli, che abbaiar cani, non però si scuotono punto per procurare di scappare in tempo da’ lacci. Or non è questa veramente un’audacia meravigliosa? Ma tale appunto pare amo che sia quella de’ peccatori. Che dissi, pare? È certo, è certo. Sentitelo da Isaia: dormierunt in capite omnium viarum, sicut oryx illa queatus, pleni indignatione Domini (Is. LI, 20). Poteva dirsi più eccelsamente?. Coloro i quali, già colmi d’iniquità, pieni indignatione Domini, si tengono sempre a Lato le male pratiche; coloro che non restituiscono quella roba; coloro che non rendono quella riputazione; coloro che covano quell’odio occulto nel cuore, sanno molto bene di star conseguentemente negli alti lacci infernali. Eppur che vi fanno? Si scuoton forse, si affannano, si affaticano, per poterne uscir prontamente? Pensate voi. Vi dormono spesso a guisa di tanti orìgi: dormierunt sicut oryx illaqueatus. Oh cosa orribile! Dormierunt sicut oryx illaqueatus. Ed è possibile che mai giungasi a tanto di sicurtà? Chi vi fa certi, o meschini, che a danno vostro non sia già bandita una caccia universalissima di tutte le creature? che non siano lasciati i cavalli? lasciati i cani? E voi dormite, e dormite in qualunque luogo senza sospetto, in capite omnium viarum e dormite (può dirsi più?), o dormite talvolta, come un Sansone, anche in  seno alle meretrici? dormitis in lectis eburntis, et lascivitis! ( Amos. VI, 4).

IV. E qui dovete considerare, uditori, che se nessuno di noi non può mai promettersi un sol momento di vita (tanta è la gelosia con lo qual Dio fra tutti gli altri domin ha voluto a sé riserbare quello del tempo, molto meno promettere se lo può chi vive in peccato. Il peccato ha introdotta al mondo la morte; chi non lo sa? per peccatium mors ( ad Rom. V, 12): e però il peccato ha sempre ancor ritenuta questa possanza, veramente terribilissima, di affrettarla, di accelerarla, di far che giunga assai prima del suo dovere. Sono infiniti nelle Scritture que’ luoghi, in cui questa verità ci vien confermata. Ne impie agas multum: (Eccl. VII, 18); così appunto si dice nell’Ecclesiaste: non ti voler dare in preda all’iniquità: non vivere come vivi con tanta libertà, con tanta licenza: non fare, come suol dirsi di ogni erba fascio: Ne impie agas multum. E per qual cagione? ne moriaris in tempore non tuo (Ibid); per non aver a morire innanzi al tuo tempo. Imputi, antequam dies ejus impleantur, peribit ( Job. XV, 32); così pure in Giob si ragiona. Iniqui sublati sunt ante tempus suum ( Job 22 ,16); così pure in Giobbe si replica. Qui odit correptionem, minuetur vita (Eccli. XIX,5); così pur viene affermato dall’Ecclesiastico. E Salomone nei suoi Proverbi si protestò apertamente, che gli anni dei malvagi verrebbono dimezzati: anni impiorum breviabuntur (Prov. X, 27 ): cadendo i più di loro quasi lambrusche, prima fracide, che mature; o quasi loglio, prima inaridito, che adulto. Udite ciò che accedette allo scellerato imperatore Anastasio. Dormiva egli una notte agitato dalle solite faci delle sue furie, le quali più importune nel sonno, lo molestavano or con ombre orribili, or con pensieri ferali: quando apparendogli un personaggio di aspetto terribilissimo, con la penna nella destra, con un libro nella sinistra: mira, gli disse, come io per la tua empietà quattordici anni cancello della tua vita: En oh perversitatem fìdei tua quatuordecim tibi vita: annos deleo ( Baron. in Annal. t. 6, an. 518). Si destò a queste voci il misero Principe attonito ed angoscioso, né sapeva s’egli ciò dovesse temere come visione, o deridere come sogno. Quando indi a pochi giorni cominciò il cielo, di sereno ch’egli era, a rannuvolarsi, indi a lampeggiare ed a fremere, e a fulminare. Si colmò Anastasio di profondissimo orrore; e, quasi presagisse nell’animo esser lui quello, per cui concitavasi in cielo sì gran tempesta, si diede a correre, qual novello Caino, pel suo palazzo ora fuggendo d’una in un’altra sala, or d’una in un’altra stanza; ma tutto indarno. Scoppiò all’improvviso una rovinosa saetta, che a dirittura l’andò a trovare in un gabinetto segreto, dov’egli stava qual coniglio appiattato nella sua buca, ed ivi l’uccise: dando così chiaro a vedere che non v’è lauro, non dirò regio, ma neppure imperiale, che salvar possa da’ fulmini un capo iniquo. Ma voi frattanto che dite? Non vi par vero che gli anni de’ malvagi hanno ad essere dimezzati? anni impiorum breviabuntur. Eh non vi fidate, uditori, non vi fidate; perché quantunque voi vediate la morte sopra un cavallo spossato, squallido, scarno, qual era quello, su cui comparve là ne’ deserti di Patmos; contutto ciò vi so dire, che quando ella ha seco lo sprone, lo sa far correre. Ma non sapete qual è lo sprone? il peccato: Stimulus autem mortis peccatum est, così grida Paolo, Stimulus autem morti peccatum est (1 ad Cor. XV, 56). Alcuni, ahi quanto ingannati! si danno a credere che questo sprone siano anzi le penitenze; e però non prima essi mirano un lor compagno ritirarsi, raccogliersi, darsi alquanto alla vita spirituale, che subito fanno mostra dì compatirlo. Ed oh semplicetto! gli dicono: non vedete che voi vi volete ammazzare? Che semplicetto, che semplicetto? scusatemi s’io vi sgrido: semplicissimi siete voi, i quali non avete ancora imparato a conoscere bene lo stimolo della morte. Non è il digiuno quello che fa venir la morte sì rapida. Piuttosto io trovo promesso dall’Ecclesiastico, che qui abstinens est, adjiciet vitam (Eccli. XXXVII, 34). Non sono le discipline, non sono i silenzii, non sono i salmeggiamenti, non sono i letti assai duri. Se dicessimo questo, si leverebbe tosto su dalla tomba il gran Romualdo, penitente austerissimo di cento anni, e irato ci smentirebbe; ci smentirebbe un Girolamo, ci smentirebbe un Antonio, ci smentirebbe un Arsenio, ci smentirebbe un’infinità di mortificatissimi anacoreti, vissuti più d’ogni effeminato Lucullo. Ah! che lo stimolo della morte è il peccato: conviene intenderla: Stimulus autem mortis peccatum est. Sono quelle atroci bestemmie, che si lasciano alcuni con somma audacia scappar tutt’ora di bocca, sono i furti, sono le fraudi, sono le oppressioni dei poveri angariati, sono le confessioni sacrileghe, sono le comunioni sacrileghe, sono le tante ingratitudini orrende, che da noi si usano a chi ci ha donata la vita: essendo conformissimo a tutte le buone leggi spogliar del feudo, spogliar del fìtto, chi neghi l’ossequio debito al suo Sovrano (De feudis 1. 3, c. 1).

V. Ed oh così le angustie del tempo me lo permettessero, come io vi mostrerei volentieri con l’induzione perpetua di tutti i secoli, quanto sia negli empj frequente il perir di morti, non solo anticipate, come or dicevasi, ma parimente le più improvvise, le più impensate, che possano mai trovarsi. Ma per restringerci alle divine Scritture, pigliatele quante sono, ed esaminatele, vedrete, che di quei giusti, la cui salute non può rivocarsi in dubbio, niuno s’io non erro, si sa che mancato mai sia di caso fortuito, fuorché i figliuoli del pazientissimo Giobbe, rimasti oppressi dalle impetuose rovine di quel palazzo, che si cambiò loro subito in sepoltura. Eppure a questi medesimi quando accadde una tal disgrazia? Quando sedevano ad un allegro banchetto, ch’era l’ora appunto, in cui sempre il lor savio padre aveva in essi temuto di alcuna macchia, ben intendendo che a’ giovani tra i conviti nessuna cosa è più facile, che lordarsi. Nel resto, se riguardate a quei personaggi, che furono di giustizia più segnalata, a un Abramo, a un Aronne, a un Isacco, a un Giacobbe, a un Giuseppe, a un Giosuè, a un Samuele, a un Mosè, a un Matatìa, a un Tobia, e ad altri lor simili, vedrete, ch’essi morirono agiatamente nei lor letti, lasciando salutevoli documenti, quali alle loro proli, e quali ai loro popoli. Ma se per contrario vorrete dare agli empj una sola occhiata, almen di passaggio, oh come voi li vedrete miseramente rapiti, chi dall’acque, chi dalle fiamme, chi dalle fiere, e chi da cent’altre stranie guise di morti, tanto più orribili, quanto meno aspettate! Qunmodo facti sunt in desolationem! (gridò il Salmista atterritosi in contemplarli) subito defecerunt; perierunt propter iniquitatem suam (Ps. LXXII, 19). All’improvviso morì Faraone il superbo con tutte le sue milizie, assorbito dai gorghi dell’Eritreo. All’improvviso morirono quegl’ingordi, che sospirarono i carnaggi di Egitto. All’improvviso morirono quegli audaci, che biasimarono la terra di promissione; e all’improvviso morirono altri oltre numero nelle divine Scritture, i quali tutti, se fecero un egual fine, subito defecerunt, tutti parimente vedrete, che furon rei di qualche somigliante delitto: perierunt propter iniquitatem suam. Or che vi voglio, uditori, inferir di ciò? che gli empj sieno soli a mancar di morte sì orribile, qual è questa che chiamasi subitanea? Non già, non già. Sarebbe questo un errore manifestissimo, volendo Dio che alle pene proprie degli empi soggiacciano qui talvolta gli stessi Santi, o sia per purificarli, o sia per provarli, o sia per non dare a credere che finalmente sulla terra si termini ogni mercede. Dico bensì che, se dobbiamo dar fede all’induzione evidente delle Scritture, assai più frequente è nei peccatori un tal esito repentino, che non nei giusti. Udite da Salomone parole orribili: Viro, qui corripientem dura cervice contemnit, repentinus ei superveniet interitus (Prov. XXIX,1). Nè mancanoragioni ancor naturali da confermarcelo. Perocché spesso i peccatori procacciansìuna tal morte con la voracità delle crapule,di cui si gravano il ventre; con lasfrenatezza delle disonestà, in cui diffondonogli spiriti; con la libertà delle maldicenzeper le quali si acquistano de’ nemici; conle risse de’ giuochi, con la rivalità degliamori, con le facilità degl’impegni, conle malinconie delle invidie, con gli affannidelle ambizioni, e con altri tali disordini,da cui vive assai più lontano ogni giusto,a cui ben si può dir con l’Apostolo, cheogni cosa si volga in bene: omnia cooperantur in bonum (ad Rom. VIII, 28): mentrel’istessa mortificazione gli vale più di unavolta a tener lontana la morte. Comunquesiasi, sapete voi come Dio proceda congli uomini in questo affare? come appunto sifa co’ legni del bosco. Quando si va per reciderequalche legno da porre in opera, dafabbricarne uno scrigno, da formarne unostudiolo, da farne una bella statua, si vacon cento riguardi, e mirasi che sia saldo,sia stagionato, sia soprattutto reciso al suotempo proprio, qual è quello di luna scema.Ma non così quando si va per troncar legna solamente da ardere: allor si va d’ogni tempo. Peccatori indurati che legna sono? Legna da gettar sul fuoco. Chi non sa? Excidentur, et in ignem mittentur (Luc. III, 9). Però si tagliano ad ogni ora senza rispetto. Che tante cautele? Che tante circospezioni? non est respectus morti corum (Ps. LXXII, 4); non ci si guarda.

VI. Or se tanto è ancor più probabile a tutti voi, dilettissimi peccatori, il perir di una fine sì miserabile, la quale allora che voi meno il pensate vi soppraggiunga, o nel più profondo del sonno, o nel più bello del giuoco, o nel più lieto di alcun altro vostro piacevole passatempo; deh! vi prego, tornatemi a confessare: non è un’insensata temerità vivere un sol momento in colpa mortale? Che pegno avete, che fermezza, che fedi, sicché non succeda ancor a voi, come a tanti, i quali ducunt in bonis dies suos, aggravando il peccato col disprezzarlo, et in puncto ad inferna, descendunt? (Job. XXI, 13) tanto poi li fa rovinar presto il gran poso che giù li tira Ha forse Dio con qualche privilegio speziale rivelata a voi l’ora di vostra morte? o vi ha promesso almen di mandarvela, non come ladro che muova tacito il passo per non destarvi, ma qual corriere che suoni lontano il corno, perché gli apriate? Che c’è, che c’è, che vi rende sì baldanzosi? Cur quasi de certo extollitur, io vi dirò sbigottito con san Gregorio, cujus vita sub pœna incertitudinis tenetur? I Niniviti non prima udirono che la loro città fra quaranta giorni avevasi a subissare, che incontanente plenum terroribus pœnitentiam egerunt (Conc. Tr. sess. 14, c. 4): subito si vestirono di cilicio, subito si sparser di cenere; né si curarono di aspettar sopra ciò gli editti del loro Principe, il quale, come accade, fu l’ultimo a saper nuove così funeste, o fosse perché dava poco ardire, o fosse perché dava poco adito, o fosse perché ognuno, già quasi stolido, non badava se non che alla propria salvezza. Or donde mai così gran fretta, uditori? Non sapevano costoro di certo che ancor avevano una quadragesima tutta intiera di tempo? adhuc quadraginta dies (Jon. III, 4). Perchè non dissero dunque: aspettiamo un poco? A placar Dio non si richieggono molte ore, basta un momento. Un atto di contrizione presso l’aurora del quarantesimo giorno ci salverà. Così potevano certamente dir essi; e seguitare a mangiare, se erano a tavola; e finire il giuoco, se stavano a solazzarsi. Ma fingete che avessero proceduto così: qual giudizio voi ne fareste? Non vi par che sarebbero stati audaci, presuntuosi, protervi, e indegni di quel perdono, che riceverono mercé la loro prontezza? Ma quanto peggio, uditori, è nel caso nostro? I Niniviti potevano almeno universalmente promettersi una quarantina di giorni, concessi loro per termine perentorio alla penitenza; e però, dov’era maggiore la sicurezza, sarebbe stata minore la temerità, se persistevano ancor qualche ora di più nei loro peccati. Ma voi nemmeno siete sicuri di tanto; no. Dice Cristo: nescitis, quando tempus sit (Marc. XIII, 33). L’eccidio del vostro corpo non sol potrebbe esser prossimo, ma imminente. Potrebbe avvenire in questa settimana medesima che ora corre, in questa mattina, in questo momento, perché la morte se ne va sempre armata di spada e d’arco: Gladium suum vibrabit, arcum suum tetendit (Ps. VII, 13). Con la spada colpisce i vecchi, che più non si possono riparare; colpisce i delicati; colpisce i deboli: con l’arco i giovani, che superbi confidano nella fuga. E come dunque potrete giustificare la vostra temerità, se lascerete inutilmente trascorrere tempo alcuno, per minimo ch’egli sia? Che dite? che rispondete? come scusate in così gran pericolo il vostro ardire? Il cacciatore mai non potrebbe tenere in pugno il falcone con tanta facilità e con tanta franchezza, se non gli avesse ben prima serrati gli occhi. E così ha fatto il demonio con esso voi: vi ha chiusi gli occhi, uditori, vi ha chiusi gli occhi; però ne fa ciò che vuole.

VII. Un solo scampo veggo io pertanto che a voi rimaner potrebbe; e sarebbe il dire: che veramente voi non potete sapore di avere a vivere ancora più lungamente, ma che potete nondimeno sperarlo; che non ostanti tanti pericoli, quanti n’abbiamo contati, molti anche deI peccatori e campano, e ingrassano, e invecchiano, e muojono pacificamente CoI loro sensi; e che però voi volete anzi sperare una simil sorte, che temer di contraria infelicità. Ma piano di grazia; perché, se parlaste così, mi dareste a credere d’esservi già dimenticati affatto del punto di cui trattiamo. Sapete pure che trattiamo dell’anima: non è vero? e di un’anima, la quale è vostra, anzi è voi; e di un’anima, la quale è unica; e di un’anima, la quale è immortale; e di un anima, la quale è irrecuperabile? E di quest’anima Ah! memento, memento, io vi dirò con san Giovanni Crisostomo, memento quod de anima loqueris. E vi par questa così poco apprezzabile, che si debba commettere in mano al caso? Vi potrebbe sortire felicemente, su, si conceda: ma se non sortisse, ditemi un poco, uditori, se non sortisse? Che non vogliate mettervi sempre al sicuro in altri interessi umani, io me ne contento. Vi perdono che arrischiate la roba, che avventuriate la riputazione, che cimentiate anche spesso la sanità, perché tutte questo sono a guisa di merci, che finalmente, per troppo precipitosa risoluzione gittate in acqua, si possono ripescare dopo il naufragio. Ma l’anima? Ahimè! non è questa da premere così poco; perché dove la perdita, che si faccia, non ha riparo, chi non vede essere una somma temerità il non procedere con una somma cautela?

VIII. Eppure, oh stupidità! qual è quell’interesse, nel quale la cautela non usisi assai maggiore, che nell’eterno? L’imperadore Adriano ( Eutrop. 1. 8 ), perché seppe esservi oracolo, che ai dominatori di Roma sarebbe stato esiziale passar l’Eufrate, rendé spontaneamente ai Persiani tutta l’Armenia, tutta l’Assiria, tutta la Mesopotamia, conquistate già da Trajano, sol per assicurarsi di non avere, per qualunque evento, a varcare quell’acque infauste; e alle ripe d’esse costituì i termini dell’Imperio. Ma che star qui a mendicare successi illustri? Non sapete voi di voi stessi con quanto sicure regole vi guidiate in tutti gli affarucci privati di casa vostra? Se voi cadete in letto, non dite: lasciam di chiamare il medico, perch’io forse me ne rileverò senza medicina. Se voi andate alla guerra, non dite: lasciam di far testamento, perch’io forse me ne ritornerò con salute. Quando voi prestate buona quantità di danaro ad un vostro amico, non vi fidate sì subito; ma che fate? Fate come Tobia, il qual, quantunque conoscesse Gabelo per uomo retto, timorato, fedele, non però lasciò di richiedere da lui pure scrittura autentica: argenti pondus dedit sub chirographo ( Tob. 1 , 17 ). A seminare scegliete i giorni più atti; a litigare cercate gli avvocati più pratici; a trafficare eleggete i corrispondenti più accreditali; e, in una parola, non v’è negozio, nel qual vogliate, come suol dirsi, commettervi alla ventura, mentre voi potete procedere con certezza.E perché dunque in mano al caso verrete a porre un negozio il maggior di tutti, qual è quel della eternità? e potendo ora pentirvi, direte: no perché forse ancora avrò tempo a farlo di poi? Ah, Cristiani, credetemi ch’io non posso capire come ciò avvenga; e sono costretto con san Giovanni Crisostomo ad esclamare, estatico e forsennato per lo stupore : Incertis ergo eventibus te ipsum committis? Incertis ergo eventibus te ipsum committis? (Homil. 23 in ep. 2 ad Cor.) Voi non fidereste all’incertezza del caso una vostra lite, un vostro deposito, un vostro quantunque minimo interessuccio; e poi gli confidate l’anima vostra? Stupite, o cieli, sbalordite, o celesti, all’udir che fate di tanta temerità, perch’io sono certo non potere al mondo trovarsene la maggiore. Quis audivit talia horribilia, qum fecit nimis virgo Israel? (Jer. XVIII, 13).

IX. E tuttavia chi non vede che questa temerità stessa sarebbe più comportabile, se per qualche notabile emolumento si commettesse? Fu principio ricevutissimo in tutti gli affari umani quello di Appiano, che summm dementim est ob res leves discrimen ingens subire (De bello Hispan.). Un pericolo grande mai non deve eleggersi per un guadagno leggiero, perché ciò sarebbe come appunto pescar con un amo d’oro, il qual, perduto, reca tanto discapito, che non è compensabile con la preda che ci promette. Però se un agricoltore arrischia molte moggia di grano nella sementa; e se un banchiere avventura qualche numero di danaro nei cambj; e se un litigante consuma buona parte di rendite nelle mance; ciascuno il fa, perché molto più è quello che spera, che non è quello che arrischia: né, per quanto si volgano antichi annali, si troverà mai pilota si temerario, il qual sia scorso sino all’Indie remote a lottare con gli austri, a pugnare con gli aquiloni, per riportare di colà sul suo legno, in vece di un vello d’oro, sabbione o stabbio. Ma voi, Cristiani, che fate? Per qual emolumento vivete in così gran risico di perdervi eternamente? Per qual guadagno? Pare a voi che, messo in bilancia, preponderi il bene che vivendo in peccato voi ritraete, al mal che vi verrebbe, se moriste in peccato? Se nello stato presente di peccatori voi non morite, vi riesce, il concedo, di goder quel trastullo libidinoso, di accumular quel danaro, di acquistar quelle dignità, di arrivare a quella vendetta. Ma se morite? Se morite, si tratta di andar giù subito nel profondo a scontar così breve riso con un lutto infinito di tutti i secoli. E parvi comparabile il bene, che vivendo godete, al male che morendovi incorrereste? Ah uomini ingiusti? ah uomini irragionevoli! Omendaces filii hominum in stateris (Ps.LXI, 10). Com’esser può che del continuo preponderi presso voi un bene temporale, fugace, frivolo, vano, ad un male eterno? Non si troveranno in casa a verun falsario stadere tali, che possano giammai dire bugìe sì grosse, se non si fa sì che le dicano a viva forza. Però non sono mendaces stateræ in filiis hominum, ma mendaces filli hominum in stateris, perché voi siete, che date agli intelletti vostri il tracollo, come a voi piace, con ribellarvi a qualunque lume chiarissimo di ragione. Ipsi fucrunt rebelles lumini (Job. XXIV, 13).

X. Per le viscere di Gesù, non vi vogliate più lungamente ingannare da voi medesimi: Nolite decipere animas vestras (Jer. XXXVII, 8): riscuotetevi, ravvedetevi; e, cominciando da quest’ora stessa a rientrare dentro il cuor vostro, considerate un poco qual frutto voi ritraete dal vostro stato. E, s’è maggior l’emolumento che i1 rischio’, abbiate pure per nullo quanto io vi ho detto: ma s’egli è senza paragone inferiore, pietà, vi prego, pietà dell’anime vostre. Volete dunque avere a piangere un giorno, e a dir voi pure con Geremia tutto afflitto: Venatione ceperunt me quasi avem inimici mei gratis! (Thr. III, 52). Oh che amarezza sarebbe questa! oh che cruccio! oh che crepacuore! Parla qui il Profeta divinamente in persona di un peccatore, e si confonde di essersi appunto portato come un uccello, il quale si lascia bruttamente adescar dagli uccellatori: perché? per nulla, per nulla, gratis, per un vil grano di miglio. Venatione ceperunt me quasi avem inimici mei gratis. E voi volete pur essere di costoro? Ah Cristiani! e che mai sono tutti i beni terreni, paragonati non solamente al minore, ma ancora al minimo de’ mali eterni, a cui vi esponete peccando? Un grano di miglio? No, neppur tanto. E per sì poco vi contentate di andarvene mai sempre trescando intorno a tanti vostri terribili insidiatori, con gravissimo rischio di restar presi per tutti i secoli, di perdervi, di perire? O præsumptio nequissima, unde creata es? (Eccli. XXXVII, 3). dirò dunque con l’Ecclesiastico. Io non ho sensi che bastino a detestare così strana temerità. Convien che a forza rimanga qui come stupido ad ammirarla.

SECONDA PARTE.

XI. Se in un uomo, il qual, come polvere, può facilmente disperdersi ad ogni soffio, è somma temerità, come abbiam veduto, vivere un sol momento in colpa mortale; che mi potrete questa mattina rispondere a favor vostro, voi, che in simil colpa vivete non i momenti, ma i giorni, ma le settimane, ma i mesi, ma gli anni interi, diebus innumeris? (Jer. II, 32) Operate voi con prudenza? procedete voi con saviezza? Qual probabilità vi rimane di non dannarvi? Nemo se tuto diu periculis offerre tam crebris potest, diceva Seneca (Herc. fur. act. 2, se. 2). E perchè? Quem sape transit casus, aliquando invenit. Passare una volta sul trabocchetto, e non rovinare; dare una volta nelle panie, e non invischiarsi; succhiare una volta il tossico, e non perire non è gran fatto. O sia protezione del Cielo, o sia condizione della sorte, talora accade. Ma che non perisca chi vuol saziarsi di tossico, come d’acqua; che non s’invischi chi si vuol abbandonar su le panie, come su’ fiori; che non rovini chi vuol andare a ballare su i trabocchetti, come sopra saldissimi pavimenti, dove mei troverete? Se dunque è tanto insensata temerità l’esporsi una volta sola a pericolo di dannarsi, e l’esporvisi un sol momento; che sarà il dimorarvi sì lungo tempo, che siano molto più nell’anno quei giorni, ne’ quali siete evidentemente soggetti a un simil pericolo, che non quegli altri, in cui ne siete probabilmente sicuri?

XII. È curiosità cognissima fra’ Cristiani il domandare se nella Chiesa più siano quei che morendo vadano a salvamento, o più quei che trabocchino in perdizione. A me non tocca ora entrare arbitro in sì gran lite; e quando toccasse a me, inclinerei più volentieri alla parte più favorevole, e direi maggior essere fra i Cattolici il numero degli eletti che dei dannati. Ma benché molti concorrano ancor essi in questa opinione, non so però, se pur uno ne rinverrete, o fra’ moderni Teologi o fra gli antichi, il quale vi dica, che la maggior parte dei peccatori abituali si salvi. Oh questo no. San Gregorio (L. 25 in Job., c. 2), sant’Agostino (De ver. et fal. pæn. c. 17), sant’Ambrogio (Adhort. ad pœn.), san Girolamo (Relat. ab Euseh. in Epist. ad Damas.), che sono i quattro principali Dottori di Santa Chiesa, senton tutti concordemente l’opposto, e le parole precise di san Girolamo, le quali a me son parute le più espressive, son le seguenti; Vix de centum millibus hominum , quorum mala fuit semper vita, meretur a Deo habere indulgentiam Unus. Né sia chi se ne stupisca; perché così l’uomo muore generalmente com’è vissuto. Quando si sega un albero, da qual parte viene a cadere? da quella dalla qual pende. Se pende a destra, cade a destra; se pende a sinistra, cade a sinistra. Quei malviventi pendono sempre a sinistra; e poi, segati, pretendono di cadere ancor essi a destra, com’è de’ buoni? Bisognerebbe che si levasse su quel punto a pro loro una grazia tale, che qual furiosissimo vento li rispingesse con impeto prodigioso alla parte opposta.  Ma chi è fatto mai meritevole di tal grazia? Vix de centum millibus unus; di cento mila, a gran fatica, uno solo. Come dunque, sapendo voi di trovarvi in un tale stato, da cui con molto maggior verissimilitudine può inferirsi che voi dobbiate appartenere ai dannati più che agli eletti, non commettete un’insana temerità, persistendovi ancora più lungamente? Quando anche dei peccatori simili a voi avessero i più a salvarsi, e i meno a perire, dovreste nondimeno temere senza intermissione di non essere a sorte fra questi miseri. Or che sarà, mentre i più avranno a perire, e i meno a salvarsi? Arnolfo conte di Fiandra era travagliato una volta da’ dolori acutissimi della pietra. Trattarono i suoi medici e i suoi cerusici di procedere al taglio: ma egli volle vederne prima la prova in qualche altro corpo. Furono però ricercati tutti coloro, i quali nel suo stato pativano del suo male, e ne furon trovati venti. Furono aperti dagli stessi cerusici, furon curati da’ medesimi medici, e tanto felicemente, che di venti morì non altri che un solo. Tornarono però tutti festosi al Conte rincorandolo al taglio: ma egli, quando udì che pur era fallito in uno, in cambio di animarsi, s’impallidì. E chi di voi mi assicura, rispose loro, che a me non tocchi la sorte di questo misero? E così più timido per la morte di uno, che speranzoso per la salute di diciannove, non sofferse mai di commettersi a tal cimento. Ora fingete voi che dei venti infermi tagliati, non dicianove fossero stati i guariti, ed un solo il morto, ma diciannove i morti, e un solo il guarito: che avrebbe allora risposto il prudente Principe? Come avrebbe scacciati lungi da sé quei cerusici arditi, quei medici temerarj? Avrebbe mai sopportato di esporsi al taglio, con la speranza di dover essere egli quell’uno sì fortunato? Ah! Cristiani miei cari, quella temerità, che nella cura del corpo parrebbe sì intollerabile, è quella appunto la quale voi commettete, ma nel governo dell’anima. San Girolamo afferma, che non di venti o di trenta, ma di centomila peccatori abituali appena uno è quel che si salvi: Vix de centum millibus unus. Ed è possibile che voi più siate animosi per la sorte di uno, che timorosi per l’infortunio di novantanovemila novecento novantanove? Dieci erano quei fratelli, i quali andarono a Giuseppe in Egitto per gli alimenti: eppure, quando udirono ch’uno d’essi doveva restare ivi in prigione, fu nei lor cuori universale l’affanno. Dodici quei discepoli, i quali furono convitati da Cristo in Gerusalemme innanzi al morire: eppure, quando ascoltarono ch’uno d’essi doveva convertirsegli in traditore, fu ne’ lor volti comune la pallidezza. Ed il sapere che i tanti più di quegli, che vivono come voi, dovranno dannarsi, non recavi alcun timore? Ecco dunque avverato del peccatore quello che leggesi in Giobbe: Dedit ei Deus locum pœnitentiæ, et ille abutitur eo in superbiam (Job XXIV, 23). Oh che superbia! oh che superbia! sperare di dover esser quell’uno fortunatissimo che si salvi fra tanta strage! quel sì privilegiato! quel sì protetto! quel che un dì possa da tutto il Paradiso venire mostrato a dito come un prodigio! Tamquam qui evaserit, e sono appunto parole dell’Ecclesiastico, tumquam qui evaserit in die belli (Eccli. XL, 7); da che? da un’alta rolla campale universalissima. Lasciate eh’ io corra a’ piedi di questo Cristo, e che qui mi sfoghi.

XIII. Gesù mio caro, e donde mai tanta audacia nei cuori umani? Chi gli ha resi sì stupidi? Chi gli ha fatti sì sconsigliati? Forse è così grande il diletto che hanno in offendervi, che niente ad essi rilevi ogni loro danno, purché disgustino voi? Oh s’io sapessi qual via dovessi almeno io qui praticare in questa Quaresima per umiliarli, per umanarli, per renderli tutti vostri! Volete ch’io li preghi in omni patientia? (2 ad Timoth. IV, 2) li pregherò. Volete ch’io gli ammonisca? gli ammonirò. Volete che io gli atterrisca? gli atterrirò. Volete ch’io severo ancor gli sgridi, et increpem illos dure? (ad Tit. 1,13) gli sgriderò. Son qui per voi. Comandate, ch’io farò tutto: Omnia, quæ præcipies mihi, ego loquar, omnia, omnia (Jer. 1, 17). Non chiedo acclamazioni, non chiedo applausi: chiedo di piacer solo a Voi. Chi sa che questa non abbia ad esser per me la Quaresima ultima di mia vita? Ecco però che con lo ceneri in capo voglio andare altamente per Voi gridando: penitenza, o mio popolo, penitenza. Non più si tardi a smorbar tante oscenità; non più si tardi a sradicare tanti odi; non più si tardi a piangerò amaramente ogni reo costume. Non vuoi tu farlo? A quelli ceneri adunque, a

quelle ceneri appello, che abbiamo in capo. Eccole qua, discopriamole, dimostriamole. Non lo veggio io questa mano egualmente sparse e su le chiome canute, e su i crini biondi? Adesso dunque io mi riporto, esse dicano, esse sentenzino, se vi può essere temerità pari a questa: confessarsi mortale in ogni momento, e pur fidarsi di vivere alcun momento in colpa mortale.

CONOSCERE SAN PAOLO (51)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

IV. — LA PERFEZIONE CRISTIANA.

1. LA VIA DEI CONSIGLI. — 2. L’IMITAZIONE DI GESÙ CRISTO.  — 3.    L’ASCESI CRISTIANA. — 4. L’EUCARISTIA SIGILLO DELLA PERFEZIONE.

1 . Si è potuto constatare che la parenesi di san Paolo, oltrepassando di molto lo stretto obbligo, è molte volte un ideale più che una norma imperativa. E come potrebbe essere diversamente? Quando si dice ai fedeli: « Abbiate i sentimenti che furono nel Cristo Gesù », si spalanca loro la porta dei consigli evangelici. Dopo che si fece sentire quel si vis perfectus esse del divin Maestro, una moltitudine di anime generose si sono messe spontaneamente per quella via, e gli Apostoli ve le esortano senza farne loro un dovere rigoroso. Quando san Paolo colma di elogi la verginità e raccomanda la continenza di cui egli stesso fa professione, ha cura d i avvertire che essa è un dono di Dio e che richiede una chiamata speciale della grazia; ma questa grazia è largamente offerta, e spetta all’uomo il corrispondervi. Se l’anima nostra è la tela su cui si deve ricamare l’immagine vivente di Gesù Cristo, vi saranno certamente dei tratti proposti alla nostra imitazione senza essere imposti alla nostra coscienza: pagare i debiti è giustizia; rendere più del dovuto è generosità o riconoscenza; dare tutto senza contare, è amore. Bisogna pure che i protestanti qui si pronunzino; e qualcuno era lo fa con bel garbo. Uno di essi scrive, riguardo al consiglio di verginità del quale si è  parlato: « Il celibato cristiano nonmerita punto il nostro disprezzo; esso è — o può essere — degno di ammirazione; sotto il suo migliore aspetto, è di certo preferibile al matrimonio… Iprotestanti possono non sentire volentieri quest’asserzione; ma bisogna inchinarsi dinanzi ai fatti, ed è un fatto che san Paolo incoraggia la continenza. E il protestante stesso può, se lo desidera, scoprire delle ragioni per simpatizzare con la dottrina di Paolo (R.Mackintosh, Marriage probl. In Corinth. P. 350) ». Il Cattolico invece trova affatto naturale la dottrina di Paolo, perché in essa trova un’eco diretta dell’insegnamento di Gesù (Matth. XIX, 12; XIX, 21). La perfezione è una carriera che non ha limiti: a qualunque grado sia arrivato, il Cristiano può sempre aspirare a salire più alto, ed è compito del predicatore lo stimolarlo in questo nobile sforzo: « Noi predichiamo il Cristo, esortando e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per presentare (a Dio) ogni uomo perfetto nel Cristo (Col. I, 28) ». Ma passerà tutta la vita prima che lo scopo sia pienamente raggiunto, perché la misura proposta al Cristiano, come membro del Corpo mistico, è la perfezione del Capo, cioè di Gesù Cristo, ed è evidente che non vi arriverà mai.

2. A torto si è preteso che san Paolo, a differenza degli evangelisti, non proponga alla nostra imitazione il Cristo storico, ossia la Persona di Gesù Cristo considerata nella sua vita mortale. Senza dubbio nella vita terrena di Gesù vi sono molti tratti, come i miracoli e le manifestazioni della divinità, che sfuggono all’imitazione. È però imitabile, ed espressamente ci esorta ad imitarlo, quando si abbassa e si annienta, quando si mette in ginocchio dinanzi ai suoi discepoli per lavare loro i piedi, quando si lascia colmare d’ingiurie e di oltraggi, quando si carica della croce per nostro amore (Giov. XIII; Matth. XVI, 24). Questo pure è il modello che san Paolo ci presenta. Per indurci a piacere agli altri « in tutto ciò che è bene, per l’edificazione », invoca l’esempio del Cristo « il quale non si compiacque in se stesso (Rom. XV, 3) ». Per farci conoscere il merito e il valore della limosina, dell’abnegazione, dell’obbedienza, ci ricorda che il Cristo spontaneamente cambiò le ricchezze del cielo con l’indigenza della terra, che si annientò prendendo un corpo simile al nostro e spinse l’eroismo dell’obbedienza fino alla morte di croce (II Cor. VIII, 9; Fil. II, 5-11; I Piet. II, 21). Se tutta via la vita mortale di Gesù ha una parte abbastanza limitata nella morale di san Paolo, come anche nella sua teologia, bisogna ricordare che l’Apostolo preferisce considerare Gesù Cristo quale è presentemente nella sua vita gloriosa; ed egli non ci esorta soltanto a imitarlo, a modellarci su Lui, ma a trasformarci in Lui. Egli c’invita arivestire il Cristo, a riempirci dei sentimenti del Cristo, a vivere della vita del Cristo: « Io vivo, non più io, ma è Gesù Cristo che vive in me (Gal. II, 20) ». A che serve parlare d’imitazione, dal momento che l’Apostolo mira all’identità mistica? – È anche vero che nel darci Gesù Cristo come modello, Paolo suole interporre se stesso tra il Cristo e noi, come un’immagine vivente del Maestro: otto o nove volte nelle sue Epistole si trova questa formola in una forma poco diversa: « imitate me, come io imito il Cristo (I Cor. XI, 1) ». L’esempio è il più breve ed il più efficace degli insegnamenti: ora tutta la vita di san Paolo fu una continua morale in azione. Quello che vi è di curioso in questa predicazione muta, è che essa era un procedimento studiato e un complemento voluto della predicazione orale. Non vi era né ostentazione né vanagloria, ma quella condiscendenza paterna che sa adattarsi alla debolezza e che, per istruire meglio, si rivolge ora agli occhi, ora alla mente e ora al cuore. Egli diceva ai Tessalonicesi: « Voi stessi sapete come bisogna imitarci; poiché non siamo vissuti in mezzo a voi nel disordine, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma nel lavoro e nella pena, faticando notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi. Non già che non ne avessimo il diritto, ma volevamo darvi in noi medesimi un modello da imitare (II Tess. III, 7-10) ». La parola degli araldi della fede è davvero eloquente, quando la loro condotta dà un tale appoggio al loro insegnamento. – L’imitazione del Cristo apre alla perfezione orizzonti infiniti: è la morte dell’egoismo e della ricerca personale di sé. Ecco alcune delle massime che ispira a san Paolo: « Non guardare al proprio interesse, ma a quello degli altri. — Rallegrarsi con quelli che sono nella gioia, piangere con quelli che piangono. — Sopportare le debolezze altrui e sforzarsi di piacere a tutti per il bene, per dare edificazione. — Ricordarsi… che vi è maggiore felicità nel dare che nel ricevere (10) ». Nell’Epistola ai Romani san Paolo fa la teoria di questa rinunzia volontaria a vantaggio della carità. A Roma vi erano degli scrupolosi che si astenevano da certi cibi o da certe bevande, e che stabilivano delle differenze tra i diversi giorni dell’anno, del mese o della settimana. Quelle anime piccine non formavano un gruppo distinto e non avevano un sistema preciso, ma, come tutti gli scrupolosi, obbedivano a vane apprensioni o a ripugnanze irragionevoli. Essi non cercavano d’imporsi agli altri in nome di una dottrina. « Deboli nella fede », essi erano soprattutto deboli di carattere e per conseguenza esposti ad essere trascinati dall’esempio, anche in cose che avrebbero ferito la loro scienza male formata. Subivano forse, senza saperlo, l’influenza del giudaismo? Anche questo non è impossibile, benché sembri piuttosto che fossero stati sedotti da un ideale Ascetico inconsiderato, per quanto rispettabilissimo in se stesso (Rom. XIV, 1; XV, 4). Ad ogni modo non erano affatto giudaizzanti aggressivi, come quelli di Antiochia, di Gerusalemme e della Galazia, né dualisti dogmatizzatori come quelli di Colossi. L’Apostolo, così pronto a fulminare l’anatema contro tutti i campioni delle false dottrine, non li tratterebbe con tanta dolcezza e con tanto riguardo. Egli vuole che i forti, cioè iCristiani illuminati, sopportino i deboli, soggetti agli scrupoli, senza neppure importunarli con discussioni sterili; che si astengano dal giudicarli e dal condannarli; anzi evitino di urtarli e di contristarli con un modo di fare contrario al loro. Il mantenimento della pace e dell’unione vale pure questi sacrifici: « È bene (per te) il non mangiare carne, il non bere vino e il rinunziare a tutto ciò che potrebbe essere per tuo fratello un’occasione di caduta, di scandalo o di debolezza (Rom. XIV, 21)… Se mio fratello è scandalizzato per un alimento, io non mangerò mai più carne per non scandalizzare mio fratello (I Cor. VIII, 13) ».

3. Chi vuole camminare s u le orme di Gesù dev’essere pronto a qualunque sacrificio. Osserviamo Paolo suo imitatore fedele. Come araldo del Vangelo, potrebbe vivere del Vangelo; come Apostolo dei Corinzi, dovrebbe essere mantenuto da loro. Il soldato è mantenuto dal suo capitano, e l’operaio da colui che lo impiega; e per farci intendere questa verità di senso comune, Mosè proibisce di mettere la musoliera al bue che trebbia le messi nell’aia (I Cor. IX, 1-15). Eppure Paolo non si è mai valso di tale diritto: egli si affatica come un operaio nel lavoro manuale per non essere di peso a nessuno; si fa un vanto e un dovere di predicare gratuitamente la parola di Dio « per non mettere ostacolo al (la diffusione del) Vangelo (I Cor. IX, 12) ». Con questo scopo accetta in anticipo tutte le rinunzie: « Libero verso tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne un maggior numero… Mi sono fatto tutto a tutti per guadagnarne almeno alcuni (I Cor. IX, 20-22) ». Non è soltanto lo zelo che lo spinge: egli obbedisce a una considerazione più nobile: « I corridori dello stadio — non lo sapete? — corrono tutti, ma uno solo riporta il premio. Voi correte in modo da riportare il premio. Ora, chiunque prende parte alla lotta si astiene da tutto: essi per una corona peritura; noi per una imperitura. Per me, io corro, non già come alla ventura; io batto, non come se battessi l’aria. Ma io castigo il mio corpo e lo tratto da schiavo, per timore che, dopo di essere stato per gli altri araldo, non sia io stesso escluso (dalla palma) (I Cor., 24-27). -Si sa quanto fosse lunga e rigorosa presso gli antichi la preparazionealle gare atletiche. Per dieci mesi e più, un regolamento minuziosoe tirannico fissava al candidato le ore e la durata dei suoiesercizi, dei suoi pasti, del suo sonno che doveva prendere sopra ungiaciglio tanto duro da non conservare l’impronta del corpo. Dovevaagguerrirsi contro la fame e la sete, il freddo e il caldo, il sole e la polvere, la fatica e le intemperie. Non soltanto gli erano severamente vietati i piaceri della tavola e dell’amore, ma non doveva bere vino perché riscalda, né bevande fresche, col pretesto che indeboliscono. E tutto questo per la prospettiva di una corona di foglie, che doveva ornare la fronte del fortunato vincitore.San Paolo, paragonando la vita presente ad un’arena, paragona se stesso al lottatore che disputa il premio della corsa e del pugilato. Come il corridore dello stadio, egli ha continuamente gli occhi fissialla mèta e non la perde di vista un momento; come il pugilatore,mena colpi terribili al suo avversario il quale non è altri che lui medesimo.Per capire il realismo raccapricciante delle sue parole, bisognaessersi fermati a osservare quelle antiche statue in cui il pugilatore è rappresentato con le orecchie tumefatte, gli occhi gonfi, il labbro cascante, i denti spezzati, con tutta la faccia pesta e insanguinata. Quando uno degli avversari, ansante e mezzo morto, giaceva a terra, il suo rivale gli metteva il ginocchio sul petto per far constatare la sua sconfitta. Ecco il trattamento che l’Apostolo infligge al suo corpo: egli lo colpisce senza pietà come un nemico mortale e lo tiene sotto i suoi piedi come uno schiavo ed un vinto. Quanto il suo ministero gli dovette costare di fatiche, di pericoli, di privazioni e di patimenti, lo potremmo indovinare facilmente, ancorché non avessimo le sue confidenze discrete (II Cor. XI, 23-30). Egli sopportòtutto con rassegnazione, con allegrezza; egli infatti sa che l’apostolo, ad esempio del suo Maestro, è salvatore soltanto per mezzo della croce: « Mi rallegro nelle mie tribolazioni e compio nella mia carne quello che manca ai patimenti del Cristo per il suo corpo che è laChiesa (Col. I, 24) ». Alle prove suscitate dagli uomini o mandate da Dio,egli aggiunge le rinunzie volontarie. Tutta la sua ambizione è di« portare dovunque nel suo corpo la crocifissione di Gesù (II Cor. IV, 10) » e di« portare nella sua carne le stimmate (Gal. VI, 17) » sanguinose del Crocifisso. Questo atteggiamento verso le creature e verso se stesso, per quantosia generoso, non presenta ancora altro che il lato negativo della perfezione. Esso produce l’effetto di rompere tutti i vincoli che legavano l’anima alla terra, e di allontanare gli ostacoli che impedivano il suo slancio verso il cielo. Tale fu la disposizione di san Paolofin dal primo momento della sua conversione. « Le cose che erano per me vantaggi, io ho considerate come danno per causa del Cristo. Anzi io considero tutte le cose come una perdita, per causa dell’eccellenza della conoscenza del Cristo Gesù mio Signore, per il qualeho rinunziato a tutto, e le considero come fango, a fine di avere non già la mia giustizia che viene dalla legge, ma quella che è per mezzodella fede del Cristo, la giustizia che viene da Dio (fondata) sopra la fede (Fil. III, 7-9) ». Non contento di purificare l’anima sua dagli affetti terreni, si volge verso il modello inimitabile e si sforza di riprodurlo. Non che io abbia già raggiunto (la mèta) o che sia già perfetto; ma io corro per cercare di prendere quello per cui io stesso fui preso dal Cristo Gesù.No, fratelli, io non mi credo ancora arrivato. (Io miro soltanto a) una cosa: dimenticando quello che è dietro di me e tendendo tutti i miei nervi verso quello che mi sta davanti, io corro diritto alla mèta, verso la palma lassù dove Dio mi chiama nel Cristo Gesù (Fil. III, 12-14). L’allegoria della corsa qui è trasparente. Il guardarsi dietro le spalle, per il corridore dello stadio, è un atto altrettanto inutile che pericoloso: egli deve tenere lo sguardo costantemente fisso davanti a sé, per non deviare dalla linea retta e anche per prevenire le sorprese, gli accidenti e gli ostacoli che potrebbero ritardare la sua corsa o farlo cadere. Il desiderio di vincere gli dà le ali, ed egli tende verso la mèta tutti i suoi nervi ed i suoi pensieri, sapendo benissimo che un momento di tregua può fargli perdere la vittoria. Possiamo osservare nelle immagini antiche quei corridori agili che toccano appena col piede la terra, col busto proteso in avanti e le braccia tese verso la mèta che divorano con gli occhi. Nella via della perfezione non vi è né tregua né riposo: ecco perché san Paolo dimentica volontariamente quello che ha già fatto; lo cancella dalla sua memoria e ne distrugge il ricordo. La sua unica preoccupazione è di avanzarsi sempre, di avvicinarsi sempre più alla mèta, di diminuire gradatamente la distanza che lo separa dal suo modello sublime. Questo sforzo incessante verso il meglio, questa continua tensione della sua anima, Paolo la esprime con una forza intraducibile quando dice: ad ea quæ priora sunt extendens meipsum. – Però san Paolo prevede che non tutti i fedeli sono maturi per questa dottrina. Parecchi non l’intenderanno o la intenderanno a rovescio. Con tali spiriti, piuttosto lenti che indocili, egli sa temporeggiare e condiscende alla loro debolezza: « Noi tutti che siamoperfetti, egli dice loro, abbiamo questi sentimenti; e se voi in qualchepunto siete di parere diverso, Dio stesso vi illuminerà, al riguardo (Fil. III, 15-16) ».

4. È possibile, senza l’Eucaristia, arrivare a questo ideale di perfezione? « Se non mangiate la carne del Figliuolo dell’uomo, disse Gesù, e se non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi … Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda ». Intese nel senso naturale, queste parole c’insegnano che il pane e il vino eucaristico sono tanto necessari al mantenimento ed al progresso della vita dell’anima, quanto è necessario il nutrimento materiale alla vita del corpo. Noi possiamo nascere alla vita della grazia senza l’Eucaristia, ed ecco perché il Battesimo, di fatto o di desiderio, è esso solo di necessità di mezzo; ma non possiamo conservare a lungo questa vita, fortificarla ed accrescerla, senza l’alimento eucaristico, eccetto un miracolo paragonabile a quello di un corpo umano che crescesse di statura e di vigore, benché privo di ogni nutrimento. L’Eucaristia è dunque necessaria, non soltanto come l’osservanza dei precetti di Dio e della Chiesa, per evitare la morte del peccato, ma come condizione normalmente richiesta per perfezionare in noi la vita del Cristo. San Paolo arriva al medesimo risultato per una via affatto diversa. Mentre san Giovanni considera il compito dell’Eucaristia nella vita dell’anima individuale, egli lo considera nei suoi rapporti col corpo mistico: « Il calice di benedizione che noi benediciamo non è la comunione al sangue del Cristo? e il pane che spezziamo non è forse la comunione al corpo del Cristo? Perché non vi è che un solo pane, noi formiamo tutti un solo corpo poiché tutti noi partecipiamo a questo medesimo pane (I Cor. X, 16-17) ». Il commento di san Giovanni Crisostomo è assai profondo: « Paolo non dice già partecipazione, ma comunione perché vuole esprimere una più intima unione. Infatti nel comunicarci noi non partecipiamo soltanto al Cristo, ma ci uniamo con Lui. E siccome questo corpo è unito col Cristo, così per mezzo di questo pane noi siamo uniti al Cristo… Ma che dico io di comunione? Paolo dice: Noi siamo identicamente questo corpo. Infatti che cosa è questo pane? È il corpo del Cristo. E Che cosa diventiamo noi ricevendo questo pane? Il corpo del Cristo: non parecchi corpi, ma un corpo solo ». – Sembra dunque che senza l’Eucaristia che è «il sacramento della pietà, il segno (efficace) dell’unità, il vincolo della carità », secondo la celebre frase di sant’Agostino, il corpo mistico non avrebbe tutta la perfezione che gli spetta. I cristiani non sarebbero uniti al Cristo né uniti tra loro con quella unione ineffabile che produce la comunione e che il Signore volle per la sua Chiesa nell’istituire l’eucaristia. Se la nostra incorporazione col Cristo, per mezzo della fede e del Battesimo, è sufficiente per la salvezza, la Comunione col Cristo è indispensabile per la perfezione sociale del corpo mistico ed anche, normalmente, per la perfezione individuale del Cristiano. La conseguenza è evidente per chiunque si ricordi che l’alimento eucaristico, a differenza del nutrimento ordinario, ha la proprietà di trasformare noi in Lui.

CONOSCERE SAN PAOLO (50)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

III. PRECETTI DI MORALE INDIVIDUALE.

1. LE TRE VIRTÙ TEOLOGALI. — 2. PREMINENZA DELLA CARITÀ. — 3. VIRTÙ E VIZI. — 4. LA PREGHIERA. — 5. VIRTÙ MINORI.

1. La fede, la speranza e la carità sono la base, il corpo e il culmine della vita cristiana: la fede comincia, la carità consuma, la speranza è l’anello di congiunzione. San Paolo vuole classificarle a parte e fa notare la distanza che le separa dalle altre virtù. Egli esorta i Tessalonicesi a rivestire « la corazza della fede e della carità, e l’elmo della speranza (I Tess. V, 8)», perché la fede congiunta con la carità rende il Cristiano invulnerabile, e la speranza gl’insegna a non temere nulla e ad osare tutto. Egli loda in essi « l’opera della fede, il lavoro della carità e l’appoggio della speranza (I Tes. I, 3)», perché la fede sincera è attiva, la vera carità è infaticabile, e la speranza soprannaturale è capace di soffrire tutto. Al contrario dei carismi che passano e il cui compito è transitorio, « la fede, la speranza e la carità rimangono ( I Cor. III, 13) ». Il numero dei casi in cui le tre virtù sfilano insieme è significativo e apparirà ancora più sorprendente se alla speranza si sostituisce uno dei suoi sinonimi o se si riflette che essa è virtualmente compresa nel binomio fede e carità che tante volte ritorna sotto la penna dell’Apostolo (Gal. V, 6). Quando viene associata alla carità e alla speranza, la fede non è più il primo movimento di accesso dell’anima verso Dio e la presa di possesso della giustizia: essa è allora un abito soprannaturale che dà alle diverse manifestazioni della vita cristiana il loro impulso, la loro orientazione e la loro tonalità. Questo carattere della fede stabile è molto più accentuato nelle Pastorali, dove la formula « nella fede » si trova stereotipata; non manca però neppure nelle altre Lettere. L’Apostolo raccomanda ai Corinzi di restare fermi nella fede, di provarsi per vedere se sono nella fede; ai Colossesi raccomanda di perseverare nella fede, di fortificarsi nella fede; si rallegra di vedere i Tessalonicesi fermi nella fede; egli stesso vive nella fede del Figlio di Dio. Evidentemente in tutti questi esempi la fede non è un atto che passa, ma una virtù. Per i classici greci, la speranza era l’attesa vana oppure motivata di un avvenimento o lieto o disgraziato. Tale significato è estraneo alla Bibbia: qui la speranza è sempre l’attesa sicura di un bene futuro:il male si teme, non si spera. La speranza ha sempre per oggetto le promesse divine: la salvezza, la vita eterna, la risurrezione; essa abbraccia tutto l’oggetto della fede in quanto ci riguarda ed è futuro (Ebr. XI, 1). Siccome essa dev’essere fondata nella ragione, appartiene soltanto ai Cristiani. I Gentili non hanno speranza (Ephes. II, 12; I Tess. IV, 13); la speranza degli empi, non essendo altro che un’illusione menzognera, perirà; invece quella dei Cristiani è certa, « essa non confonde (Rom. V, 5) » perché si appoggia sopra la fede; essa è dunque per loro una fonte inesauribile di coraggio, di gioia e di felicità intima. La speranza e la fede si aiutano a vicenda; se la fede agisce sulla speranza, la speranza reagisce sulla fede; l’una e l’altra trae dalla carità il suo valore e il suo prezzo, ma l’una e l’altra infiamma la carità e la stimola all’azione (Col. I, 4-5). Soprattutto la speranza che ha per simbolo l’elmo e il cui carattere distintivo è l’ardore, l’intrepidezza e l’audacia, non si lascia fermare da nessun ostacolo, né smuovere da nessun pericolo né stancare da nessun ritardo. La prova, invece di abbatterla, la rende più stabile: «  La tribolazione produce la costanza; la costanza, una virtù provata; la virtù provata, la speranza (Rom. V, 4) ». La speranza è ad un tempo il principio e il termine di questa evoluzione verso il meglio, poiché vi è compenetrazione parziale e causalità reciproca tra le virtù cristiane.

2. La fede, la speranza e la carità camminano volentieri insieme, ma la carità precede sempre le due sorelle. Bisogna leggere tutta di seguito la pagina meravigliosa che san Paolo consacra al suo elogio e che giustamente fu chiamata l’inno della carità: « Cercate i carismi migliori; ma io vi indicherò ancora una via più eccellente. Quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho la carità, non sono che un bronzo rumoroso o un cembalo squillante. E quando avessi il dono della profezia ed una fede capace di trasportare le montagne, se non ho la carità non sono nulla. Se io distribuissi (ai poveri) tutti i miei beni e sacrificassi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità tutto questo non mi serve a nulla. La carità è paziente, è benevola; la carità non invidia; la carità non si vanta, non si gonfia, non fa nulla di sconveniente, non cerca il suo interesse, non si adira, non imputa il male; non si rallegra dell’ingiustizia, ma simpatizza invece con la verità; essa scusa tutto, spera tutto, crede tutto, sopporta tutto. – La carità non perirà mai. Se (mi nominate) le profezie, queste svaniranno; le lingue cesseranno; la scienza avrà termine. Poiché noi sappiamo parzialmente e profetiamo parzialmente; ma quando verrà quello che è perfetto, svanirà quello che è parziale. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; quando sono diventato uomo, mi sono spogliato di ciò che era da bambino. Ora vediamo attraverso uno specchio, in immagine; allora (vedremo) a faccia a faccia. Ora conosco parzialmente; allora invece conoscerò come io medesimo sono stato conosciuto. Ora rimangono la fede, la speranza, la carità, queste tre (virtù capitali); ma la più grande di esse è la carità » (I Cor. XII, 31; XIII, 13). – Questo brano lirico è  la stessa chiarezza, e qualunque commento lo guasterebbe. Cerchiamo soltanto di raccoglierne le idee dominanti e di raggrupparle sotto tre capi.

La carità è la regina delle virtù. I carismi sono doni preziosi; bisogna stimarli al loro giusto valore, preferendo ai più vistosi i più utili. Ma vi è una via incomparabilmente più sicura e più alta, vi è la via regia dell’amore. Senza la carità, i carismi più eccellenti non sono nulla e non servono a nulla. Il dono delle lingue, vano rumore di parole; la profezia, bagliore passeggero che si eclisserà alla luce della visione beatifica. Soltanto « la carità non vien meno ». La fede e la speranza che dividono con essa il privilegio di avere Dio come oggetto diretto, svaniranno in Paradiso dove gli eletti vedono invece di credere e non possono più sperare quello che posseggono per sempre; mentre la carità è immortale e non cambia essenzialmente natura quando si trasforma in gloria.

La carità è il compendio dei comandamenti, perché comprende la sommissione implicita al volere divino in tutta la sua ampiezza. Il Maestro aveva detto: « A questi due precetti (l’amore di Dio e del prossimo) sta appesa tutta la Legge come pure i Profeti ». Il discepolo alla sua volta dice: Tutti i precetti « sono riassunti in una frase: Amerai il tuo prossimo come te stesso… La pienezza della Legge (cioè il suo perfetto compimento) è dunque la carità (Matth. XXI, 40 e Rom. XIII, 9-10) ». E ancora: « Tutta la Legge è racchiusa in queste parole: Ama il tuo prossimo come te stesso (Gal. V, 14) ». Oppure, con una concisione enigmatica: « Fine del precetto è la carità (I Tess. I, 5) ».

La carità è il vincolo della perfezione (Col. III, 14).È essa che tiene strettamente legate, come in un mazzo di fiori olezzanti, le virtù il cui complesso costituisce la perfezione cristiana. Oppure, per dare alla metafora un’altra forma, essa è la chiave di volta che deve tenere insieme tutte le pietre e le nervature del nostro edificio spirituale che senza dilei si sfascerebbe. – San Francesco di Sales ci dice, nel suo grazioso linguaggio, che « la carità non entra mai in un cuore senza condurvi con sé tutto il seguito delle altre virtù ». Il pio Vescovo di Ginevra sembra che si ispiri da san Paolo quando così descrive la scorta delle virtù minori che fanno corteo alla loro regina: « La carità è paziente », essa ha quella tollerante longanimità che la Scrittura attribuisce, come suo carattere proprio, alla paternità divina. — « Essa è piena di benignità » e pratica, nelle relazioni fraterne, quella dolcezza amabile di cui l’Apostolo ci dirà l’incanto. — « La carità non è invidiosa », perché è senza pretese, e la felicità o la fortuna degli altri non può offuscarla.

— « La carità non è millantatrice », non imita i farisei che vanno strombazzando i loro servizi o i loro benefizi. — « Essa non si gonfia di superbia », perché bada meno al bene che fa, che non a quello che non può fare. — « Essa non ha nulla di sconveniente » nel suo linguaggio e nel suo atteggiamento, evitando con cura tutto ciò che potrebbe ferire o urtare il prossimo. — « Non cerca il suo vantaggio », poiché ha bisogno di dimenticare se stessa per vivere, e l’egoismo la ucciderebbe. — « Non si adira », ancorché venga misconosciuta e calunniata, tanto è superiore alle preoccupazioni terrene. — « Non imputa a male » le indelicatezze. — « Non si rallegra dell’ingiustizia », neppure quando essa riesce bene e ne ha vantaggio. — « Mette invece la sua gioia nella verità » e applaude al suo trionfo. — « Scusa tutto », lasciando a Dio che scruta i cuori, la cura di giudicare le intenzioni segrete. — « Crede tutto » ciò che le dicono, con buona fede e con semplicità. — « Spera tutto » ciò che le viene promesso, senza sospetti e senza diffidenza. — « Sopporta tutto », anche l’indifferenza e l’ingratitudine (I Cor. XIII, 4-7). – Non tenteremo di classificare queste quindici virtù compagne della carità: per volervi cercare un ordine rigoroso, si sacrificherebbe l’esegesi al sistema. Paolo poteva benissimo allungare o abbreviare a suo talento la lista, e l’enumerazione è fatta piuttosto a titolo di esempio, che non per esaurire la materia.

3. Il posto sovreminente assegnato alla carità ha l’effetto naturale di mettere un po’ nell’ombra il gruppo delle virtù morali. Il loro scarso rilievo dipende anche da un’altra causa. Siccome esse entravano nella catechesi apostolica, e per conseguenza appartenevano ai rudimenti della fede, gli scrittori sacri non avevano quasi più occasione di tornarvi sopra. Quando Paolo crede opportuno il ricordarle, le sue liste di virtù e di vizi non sono né complete né metodiche, e ben poco è quello che c’insegnano. Rileviamo soltanto i tratti caratteristici del vocabolario paolino; l’umiltà e la bontà tra le virtù, la cupidigia e la discordia tra i vizi.

L’umiltà è una virtù specificamente cristiana che sembra non sia stata sospettata dai pagani. Per questi, « umile » (ταπεικός = tapeikos)ha per sinonimi « basso, vile, abbietto, servile e ignobile (Trench.)». Presso gli Ebrei non era affatto così. L’uomo oppresso che, conscio del suo nulla e della sua miseria, accettava la prova con pazienza, come un mezzo di espiazione, metteva la sua speranza in Dio e non aveva né odio né rancore contro i suoi persecutori, passava come l’ideale del giusto, ed era designato con una parola che vien tradotta ora con « povero, mite », ora con « umile ». Quando Gesù Cristo diceva di se stesso: « Io sono mite e umile di cuore », gli Ebrei che lo udivano non stentavano a capirlo (Matt. XI, 29).L’umiltà e la dolcezza sono i due aspetti di una medesima virtù: umiltà dinanzi a Dio, dolcezza verso gli uomini. San Paolo le unisce volentieri: egli vuole che « ciascuno, in tutta umiltà, consideri gli altri come superiori a sé » e raccomanda vivamente ai suoi neofiti di essere « pieni di dolcezza verso tutti gli uomini (Ephes. IV, 2) ». Così queste due virtù gemelle, delle quali l‘una era profondamente disprezzata e l’altra appena conosciuta dal mondo antico, diventano la pietra di paragone del vero Cristiano. – La bontà è pure caratteristica della morale di san Paolo. Essa è espressa con due parole che appartengono a lui solo, delle quali l’una (ἀγαθωσύνη = agatosune) è propriamente la « bontà », l’altra  (χρηστότης = krestotes) la « benignità » o la « mansuetudine (Rom. XV, 14; Gal. V, 22; Rom. II, 4, etc.) ». San Gerolamo ne comprese bene la differenza: « La benignità, egli dice, è una virtù soave, amabile, tranquilla, dal parlare dolce, dai modi affabili, fusione felice di tutte le buone qualità. La bontà le è assai vicina, perché anch’essa cerca di far piacere; ma ne differisce in questo, che è meno avvenente e di aspetto più severo; essa pure è pronta a fare il bene ed a rendere servizi, ma senza quella giocondità, quella soavità che guadagna i cuori (Comm. in Galat. V, 22) ». La bontà riguarda più la sostanza, la benignità più la forma della dedizione. La benignità comprende la bontà, ma le unisce qualche cosa che ne raddoppia il valore. Si può dire senza pleonasmo «la benignità della bontà »; ma non si direbbe « la bontà della benignità ». La benignità è specialità di Dio; perciò essa è l’impronta più riconoscibile del Creatore sopra la sua creatura. Però né la bontà né labenignità cristiana non degenerano mai in bonomia e in debolezza, come spesso avviene negli autori profani. – Fra tutti i vizi, il più odioso per san Paolo è lo spirito di discordia. Egli lo trova sui suoi passi quasi fin dal principio della sua carriera, che minaccia di intralciare il suo ministero e di distruggere l’opera sua. Lo ritroverà al termine della sua corsa, sempre turbolento, sempre inquieto, sempre invidioso. Egli lo flagella con una moltitudine di nomi, alcuni dei quali sono esclusivamente suoi: le dispute, idissensi, le combriccole, l’animosità, l’invidia, l’amore degli scismi e delle sètte. Egli ordina espressamente a Tito di fuggire l’eretico, cioè il fautore di discordie e di divisioni. Si direbbe talora che tutta la sua morale consista nel far regnare tra i suoi cristiani l’unione, il buon accordo, la concordia e la pace. Un altro vizio che ha molta parte negli scritti di san Paolo (πλεονέκτης = pleonectes) e che è caratteristico del suo vocabolario, è difficile a definirsi (II Cor. II, 11 etc.; I Tess. IV, 6). La Volgata lo traduce sempre per avaritia, ma è piuttosto la cupidigia che l’avidità. Infatti questo vizio è quasi sempre associato ai peccati d’impurità, e non si vede ben chiaro che cosa abbia da fare l’avarizia in tale compagnia. Inoltre esso viene presentato come la nota dominante del paganesimo ed è anzi una volta identificato con l’idolatria; ora non sembra che l’avarizia sia stato il vizio particolare dei pagani, mentre l’idolatria e la fornicazione o l’impudicizia erano sinonimi. Finalmente la proibizione fatta agli Efesini di parlarne: Fornicatio et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, s’intende assai meglio della cupidigia carnale. Non dobbiamo dimenticare che nella morale primitiva, prima che venissero differenziate le specie dei cattivi desideri, la stessa parola significava al tempo stesso cupidigia o appetito impuro, e avidità o avarizia. L’uso speciale di san Paolo ci riporta a quelle lontane origini: tale è la soluzione più naturale di un problema di linguistica il quale preoccupa gli esegeti.

4. Quello che precede basta a far vedere quale abisso separi la morale di Paolo dalla morale stoica. Come fu detto molto bene,« lo stoicismo è il frutto della disperazione »: disperazione in religione, al vedere mitologie caduche e assurde; disperazione in politica, quando la conquista macedonica ebbe dissipati tutti i sogni d’indipendenza; disperazione in filosofia, allo spettacolo di sistemi impotenti e contradittori(Lightfoot: Ep. Philip.). Ora il Cristianesimo è la Religione della speranza, e la morale di Paolo è la morale dell’amore. Tra queste grandezze non vi è misura comune. Siccome quasi tutti gli stoici erano di origine orientale, e molti di loro si erano stabiliti a Tarso o nella Cilicia, sipoté sospettare che il Dottore dei Gentili ne avesse subita l’influenza;e difatti compulsando faticosamente Epitteto e Seneca, si trova uncerto numero di massime molto simili, nel tono e nell’espressione,a quelle di Paolo. Ma queste somiglianze non devono farci illusione,perché sono soltanto esteriori e superficiali. Noi constatiamo anzituttol’assenza completa del vocabolario stoico; ma quello che piùdi tutto differenzia le dottrine, è lo spirito. Gli stoici consideravanocome sommamente ridicolo il domandare a Dio la virtù e il farglieneonore; ora nella morale di Paolo non vi è nulla di più caratteristicoche la preghiera e il ringraziamento.Le sue ingiunzioni a questo riguardo sembrano iperboliche: « Pregatesenza interruzione; ringraziate in tutto. — In ogni circostanza, esponete a Dio ivostri bisogni con preghiere esuppliche, con ringraziamenti. — Qualunque cosa diciate, qualunque cosa facciate, fate tutto nel nome del Signore Gesù, ringraziando per mezzo di lui Dio Padre. — Fate in ogni tempo per mezzo dello spirito ogni sorta di preghiere e di suppliche (1 Tess. V, 17; Fil. IV, 6; Ephes. VI, 18 ) ». Egli stesso ne dà l’esempio: ai nuovi cristiani scrive: « Noi preghiamo sempre per voi, con ringraziamenti… Non cessiamo di pregare per voi (i Tess. I, 2; Col. I, 9; etc. ) ». Gli Atti ce lo presentano che prega in tutte le circostanze più gravi della sua vita: quando sta per andare da Anania per essere battezzato (Act. IX, 11), nel Tempio, dopo la sua conversione (Act. XXII, 17), prima di ricevere l’imposizione delle mani (Act. XIII, 3), quando ordina degli anziani per le nuove cristianità (Act. XIV, 23), nella prigione di Filippi (Act. XVI, 25), a Mileto dinanzi agli anziani riuniti (Act. XX, 36), nel dare l’addio ai fedeli di Tiro (Act. XXI, 5), dopo il suo miracolo di Mitilene (Act. XXVIII, 8), alle Tre Taverne su la via di Roma (Act. XXVIII, 15). Egli prega per i suoi discepoli (Rom. I, 9-10; etc.) e per gli Ebrei (Rom. X, 1); egli prega anche per sé (II Cor. XII, 8); esorta i fedeli apregare sovente (Rom. XII, 13, passim) specialmente per lui (Rom. XV, 30-32; passim), efa assegnamento sule loro preghiere (Phil. I, 19). Noi sappiamo che, come tutti gli Ebrei pii, soleva pregare prima dei pasti (Act. XXVII, 35). Le sue lettere, interrotte da dossologie, cominciano generalmente con un atto di ringraziamento che talora continua per tutta l’Epistola e ne fa come la cornice. L’augurio finale ripete quasi sempre una formula di preghiera. – Se non insistiamo di più, è perché in questo non vi è nulla di singolare, essendo la pratica della preghiera frequente un’abitudine contratta da san Paolo in seno al fariseismo. Tutti i farisei devoti si compiacevano di seminare i loro scritti e i loro discorsi di preghiere e di dossologie. San Paolo non ne differisce se non per la serietà delle sue suppliche e per il fatto, già notato altrove, che egli, nelle sue invocazioni, associa il Figlio col Padre e fa dello Spirito Santo il maestro e l’agente principale della preghiera cristiana.

5. Ricordiamo, terminando, tre virtù modeste assai care all’Apostolo: il lavoro, l’ordine e il decoro. Appena arrivato in una nuova missione, s’installava in una di quelle bottegucce che fiancheggiavano l’agora e quivi riprendeva il suo mestiere di tessitore per bastare da sé ai suoi bisogni, per dare a tutti buon esempio e per salvaguardare la sua indipendenza. Agli anziani di Efeso venuti a Mileto per ricevere il suo addio, mostrava fieramente le sue mani callose, avvezze alle dure fatiche di giorno e di notte (Act. XX, 34). Ai Tessalonicesi, ossessionati dalla prospettiva della prossima fine del mondo, ricordava con insistenza la legge del lavoro: « Noi non stavamo in ozio presso di voi e non abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno (II Tess. III, 5) ». Era sua massima che « chi non vuole lavorare non deve mangiare (II Tess. II, 10) ». L’agiatezza che mette al sicuro dal bisogno, non è una scusa per l’ozio. Paolo vuole che si lavori per fuggire l’ozio e — se si vuole un motivo più cristiano — per poter fare più larghe limosine (Ephes. IV, 28-29). E lavoro per se stesso è un’opera buona, ma la carità ne accresce dieci volte il valore. L’ordine stava pure molto a cuore all’Apostolo che ne era un modello vivente. Egli prescriveva che nelle assemblee religiose tutto sicompisse con ordine (I Cor. XIV, 40); nessuna cosa gli piaceva tanto, quanto il contemplare in ispirito il bell’ordine di una comunità nascente (Col. II, 5). Egli esigeva che si riprendessero fraternamente gli scioperati che disturbavano e scandalizzavano gli altri, e che si sottoponessero anche, in caso di recidiva, ad una specie di scomunica benigna, capace di ricondurli al dovere (I Tess. V, 14). Il decoro era ai suoi occhi la, risultante dell’ordine e del lavoro: « Tutto si faccia con decenza, ripeteva spesso. Diportatevi convenientemente come nel pieno giorno della luce evangelica. Agite in modo conveniente con le persone estranee » alle nostre credenze (I Cor. XIV, 40). E convertito non deve esiliarsi dal mondo; egli può accettare gl’inviti degli infedeli; ma bisogna che lasci sempre un profumo di edificazione (I Cor. 27-28). È troppo poco non essere « una pietra d’inciampo per gli Ebrei e per i Greci (I Cor. X, 32) »; il Cristiano, nel suo contegno e in tutta la sua condotta, deve dare un alto concetto della sua fede e fare onore al Vangelo (Tit. II, 10). Elevate da tali motivi, anche le piccole virtù diventano grandi; esse si chiameranno devozione e apostolato. La morale di san Paolo è tutta piena di contrasti: con una facilità incomparabile, l’Apostolo associa la mistica più sublime con l’ascetismo più pratico; mentre il suo occhio penetra i cieli, il suo piede non perde mai il contatto con la terra. Nulla è sopra né sotto di lui. Nel momento in cui si dichiara crocifisso al mondo e vivente della stessa vita del Cristo, sa trovare per i suoi figliuoli delle parole che rapiscono per la giocondità e la grazia, e discendere alle prescrizioni più minuziose sul velo delle donne, sul buon ordine delle assemblee, sul dovere del lavoro manuale, su la cura di uno stomaco debole. Perciò la sua spiritualità offre ai cuori più umili un alimento sempre saporito, e alle anime più elette una miniera inesauribile di profonde meditazioni.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – MYSTICI CORPORIS CHRISTI (1)

Iniziamo oggi a leggere una delle Lettere Encicliche più importanti della storia della Chiesa, la Mystici Corporis Christi di Pio XII, con la quale viene descritto in modo dottrinalmente perfetto la Costituzione del Corpo Mistico di Cristo, cioè la Chiesa Cattolica, l’unica vera Chiesa che è stata divinamente fondata da Gesù-Cristo; viene trattata compiutamente “… la dottrina del Corpo mistico di Cristo e della unione dei fedeli con il divino Redentore nello stesso Corpo, ricavando al tempo stesso dalla medesima dottrina alcuni ammaestramenti, per cui una più alta investigazione di questo mistero produca frutti sempre più abbondanti di perfezione”. – La lettera, quasi una catechesi ottimamente strutturata è organizzata, secondo una progressione montante, in capitoli e paragrafi che sapientemente si succedono in stretta concatenazione: 1. La chiesa è un «corpo»: unico, indiviso, visibile; composto organicamente e gerarchicamente; dotato di organi vitali, ossia di Sacramenti; formato da membri determinati, non esclusi i peccatori. – 2. La Chiesa è il corpo «di Cristo»; a) Cristo fu il «fondatore» di questo corpo; con la predicazione evangelica, con le sofferenze della croce, con la promulgazione della Chiesa nel giorno di Pentecoste; b) Cristo è il «capo» di questo Corpo; c) Cristo è il «sostentatore» di questo Corpo; d) Cristo è il «conservatore» di questo Corpo. – 3. La Chiesa è il Corpo di Cristo mistico» (corpo mistico e corpo fisico; corpo mistico e corpo solo morale). – 4. La Chiesa giuridica e la Chiesa della carità. – Parte II: L’unione dei fedeli con Cristo: Vincoli giuridici e sociali. – 2. Virtù teologiche. – 3. L’inabitazione dello Spirito Santo. – 4. L’Eucaristia, segno di unità. – Parte III: Esortazione pastorale: 1. Errori della vita ascetica: falso misticismo, falso quietismo, errori circa la Confessione sacramentale e l’orazione. – 2. Esortazione ad amare la Chiesa: d’un Amore forte, vedendo Cristo nella Chiesa, imitando l’amore di Cristo verso la Chiesa. – Epilogo: La Beata Vergine Maria.

Leggiamola e meditiamola con estrema attenzione, dal momento che far parte della “vera” Chiesa Cattolica, seguirne tutti gli insegnamenti pedissequamente, è “condicio sine qua non” per accedere all’eterna salvezza.

PIO PP. XII

LETTERA ENCICLICA

MYSTICI CORPORIS CHRISTI

AI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E ALTRI ORDINARI AVENTI PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA:
DEL CORPO MISTICO DI GESÙ CRISTO
E DELLA NOSTRA UNIONE IN ESSO CON CRISTO

[Parte I]

VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Introduzione.

La dottrina sul Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa (cfr. Col. I, 24), dottrina attinta originariamente al labbro stesso del Redentore e che pone nella vera luce il gran bene (mai abbastanza esaltato) della nostra strettissima unione con sì eccelso Capo, è tale senza dubbio che, per la sua eccellenza e dignità, invita tutti gli uomini che son mossi dal divino Spirito a studiarla e, illuminandone la mente, fortemente li spinge a quelle opere salutari che corrispondono ai suoi precetti. Reputiamo perciò Nostro compito il trattenerCi con voi su questo argomento, svolgendo e dichiarandone quei punti specialmente che riguardano la Chiesa militante. Al che Ci muove non solo l’insigne grandezza di questa dottrina, ma anche lo stato presente dell’umanità. – Intendiamo infatti di parlare delle ricchezze riposte nel seno di quella Chiesa che fu acquistata da Cristo con il proprio sangue (Act. XX, 28) e le cui membra si gloriano di un Capo redimito di spine. Circostanza, questa, che è una prova evidente di come le cose più gloriose ed esimie nascano soltanto dal dolore; dobbiamo quindi godere per la nostra partecipazione alla passione di Cristo, affinché possiamo poi rallegrarci ed esultare quando si manifesterà la sua gloria (cfr. I Petr. IV, 13). Rileviamo sin dall’inizio che, come il Redentore del genere umano ricevette persecuzioni, calunnie c tormenti da quei medesimi la cui salvezza s’era addossata, così la società da lui costituita si assomiglia anche in questo al suo divin Fondatore. Non neghiamo, è vero, che anche in questa nostra età turbolenta non pochi, benché separati dal gregge di Cristo, guardano alla Chiesa come all’unico porto di salvezza (e lo riconosciamo con gratitudine verso Dio); ma sappiamo pure che la Chiesa di Dio è dispregiata e con superba ostilità calunniata da coloro che, abbandonata la luce della cristiana sapienza, ritornano miseramente alle dottrine, ai costumi, alle istituzioni dell’antichità pagana; spesso anzi è ignorata, trascurata e tenuta in fastidio da molti Cristiani, o allettati da errori di finta bellezza, o adescati dalle attrattive e depravazioni del mondo. Per dovere quindi di coscienza, o Venerabili Fratelli, e per assecondare il desiderio di molti, porremo sotto gli occhi di tutti ed esalteremo la bellezza, le lodi e la gloria della Madre Chiesa alla quale, dopo Dio, tutto dobbiamo. – C’è da sperare che questi Nostri precetti ed esortazioni, nelle presenti circostanze, produrranno nei fedeli frutti molto abbondanti, poiché sappiamo che tante sventure e dolori del nostro procelloso tempo dai quali sono acerbamente tormentati innumerevoli uomini, se vengono accettati dalle mani di Dio con serena rassegnazione, convertono per un certo impulso naturale gli animi dalle cose terrene e instabili alle celesti ed eterne, suscitando in essi un’arcana sete e un intenso desiderio delle realtà spirituali: stimolati così dal divino Spirito, vengono eccitati e quasi sospinti a cercare con maggiore diligenza il Regno di Dio. Infatti, a misura che gli uomini si distolgono dalle vanità di questo mondo e dall’affetto disordinato delle cose presenti, si rendono più atti a percepire la luce dei misteri soprannaturali. E forse oggi più chiaramente che mai si vede la instabilità e inanità delle cose terrene, mentre i regni e le nazioni vanno in rovina, ingenti beni e ricchezze d’ogni genere vengono sommersi nelle profondità degli oceani, città, villaggi e fertili terre son coperti di rovine e insanguinate di stragi fraterne. Confidiamo inoltre che neppure a coloro che sono fuori del grembo della Chiesa Cattolica saranno ingrate né inutili le verità che stiamo per esporre intorno al Corpo mistico di Cristo. E ciò non solo perché la loro benevolenza verso la Chiesa sembra aumentare di giorno in giorno, ma anche perché essi stessi, mentre osservano le nazioni insorgere contro le nazioni, i regni insorgere contro i regni, e crescere smisuratamente le discordie, le invidie e i motivi di odio, se poi rivolgono gli occhi alla Chiesa e considerano la sua unità d’origine divina (in virtù della quale tutti gli uomini d’ogni stirpe vengono congiunti da fraterno vincolo con Cristo), allora certamente son costretti ad ammirare questa grande famiglia fomentata dall’amore, e con l’ispirazione e il soccorso della Grazia divina vengono attirati a partecipare della stessa unità e carità. Vi è anche una ragione particolare, tanto cara e dolce, per cui questo punto di dottrina si presenta con sommo diletto alla Nostra mente. Durante il passato venticinquesimo anno del Nostro Episcopato, con grandissimo compiacimento osservammo una cosa che fece luminosamente risplendere in tutte le parti della terra l’immagine del Corpo mistico di Gesù Cristo: mentre cioè una micidiale e diuturna guerra aveva miseramente infranto la fraterna comunanza delle genti, dovunque Noi abbiamo dei figli in Cristo, tutti, con una sola volontà ed affetto, hanno elevato il pensiero verso il Padre comune che governa in così avversa tempesta la nave della Chiesa Cattolica, portando nel cuore le sollecitudini e le ansietà di tutti. In questa circostanza notammo non soltanto la mirabile unione della famiglia cristiana, ma anche questo fatto innegabile: che come Noi stringiamo al Nostro cuore paterno i popoli di qualsiasi nazione, così da ogni parte i cattolici, benché appartenenti a popoli fra loro belligeranti, guardano al Vicario di Cristo come all’amantissimo Padre di tutti, il quale, ispirato da assoluta imparzialità e da incorrotto giudizio per ambo le parti ed elevandosi al di sopra delle procelle delle umane passioni, prende con tutte le forze la difesa della verità, della giustizia, della carità. Né Ci ha apportato minore consolazione l’aver appreso ch’è stata raccolta spontaneamente e volonterosamente una somma per innalzare in Roma un sacro tempio dedicato al Nostro santissimo Predecessore e Patrono onomastico, il Papa Eugenio I. Pertanto, come questo tempio, da erigersi per volere ed elargizioni di tutti i fedeli, farà perenne ricordo di questo faustissimo evento, così desideriamo che questa Lettera Enciclica renda testimonianza del Nostro animo grato; poiché in essa si tratta appunto di quelle vive pietre umane, le quali, edificate sulla pietra angolare che è Cristo, vengono a formare quel sacro tempio di gran lunga più eccelso d’ogni altro tempio costruito dalle mani, l’abitazione cioè di Dio nello Spirito (cfr. Eph. II, 21-22; I Petr. II, 5). – La Nostra sollecitudine pastorale poi è il principale motivo che Ci fa trattare con una certa ampiezza di questa eccelsa dottrina. Molti punti sono stati messi in luce su questo argomento, né ignoriamo che parecchi si applicano oggi con grande attività al suo studio, donde viene anche fomentata ed alimentata la pietà cristiana. Il che sembra attribuirsi specialmente al fatto che il rinato studio della sacra liturgia, l’uso invalso di accostarsi con maggior frequenza alla Mensa eucaristica e il culto del Cuore sacratissimo di Gesù, che godiamo di veder più diffuso, hanno indotto gli animi di molti ad una più accurata indagine delle investigabili ricchezze di Cristo che si trovano nella Chiesa. A collocare poi questo argomento nella sua luce, molto influirono gli insegnamenti che in questi ultimi tempi furono pubblicati intorno all’Azione Cattolica, i quali resero più stretti i vincoli dei cristiani tra loro e con la Gerarchia ecclesiastica, particolarmente con il Romano Pontefice. Tuttavia, se a buon diritto possiamo godere di quanto abbiamo accennato, pure non si deve negare che circa questa dottrina non solo si spargono gravi errori da coloro che sono separati dalla vera Chiesa, ma si diffondono anche tra i fedeli teorie inesatte o addirittura false, che deviano le menti dal retto sentiero della verità. – Infatti, da una parte perdura il falso razionalismo il quale ritiene completamente assurdo ciò che trascende le forze dell’ingegno umano, e gli associa un altro errore affine (il cosiddetto naturalismo volgare), il quale non vede né vuol riconoscere altro nella Chiesa di Cristo all’infuori dei vincoli puramente giuridici e sociali; dall’altra parte si va introducendo un falso misticismo il quale falsifica la Sacra Scrittura, sforzandosi di rimuovere gli invariabili confini fra le cose create e il Creatore. – Intanto questi falsi ritrovati, opposti tra loro, conducono a questo effetto: alcuni, atterriti da un certo infondato timore, considerano una così elevata dottrina come cosa pericolosa e perciò indietreggiano davanti ad essa, come dal pomo del Paradiso, bello sì, ma proibito. Niente affatto: i misteri rivelati da Dio non possono essere nocivi agli uomini, ne devono restare infruttuosi come un tesoro nascosto nel campo; ma sono stati rivelati appunto pur il vantaggio spirituale di chi piamente li medita. Infatti, come insegna il Concilio Vaticano, “quando la ragione, illuminata dalla fede, indaga con pia e sobria diligenza, può raggiungere, concedendolo Iddio, sufficiente ed utilissima intelligenza dei misteri: sia per analogia con ciò che conosce naturalmente, sia per il nesso dei misteri stessi tra di loro e con il fine ultimo dell’uomo”; quantunque l’umana ragione, come lo stesso sacro Sinodo ammonisce, “non si rende mai atta a penetrarli con la stessa chiarezza di quelle verità che costituiscono il suo naturale oggetto” (Sessio III, Const. de Fide Catholica, c. 4). – Avendo pertanto maturamente considerato queste cose al cospetto di Dio: affinché la bellezza della Chiesa rifulga di nuova gloria, affinché la conoscenza della singolare e soprannaturale nobiltà dei fedeli congiunti nel Corpo di Cristo col proprio Capo, si diffonda, e inoltre affinché sia precluso l’adito ai molteplici errori su questo argomento, abbiamo creduto Nostro dovere pastorale esporre a tutto il popolo cristiano, con questa Lettera Enciclica, la dottrina del Corpo mistico di Cristo e della unione dei fedeli con il divino Redentore nello stesso Corpo, ricavando al tempo stesso dalla medesima dottrina alcuni ammaestramenti, per cui una più alta investigazione di questo mistero produca frutti sempre più abbondanti di perfezione.

PARTE PRIMA

LA CHIESA È IL CORPO MISTICO DI CRISTO

Considerando l’origine di questa dottrina Ci sovvengono sin dall’inizio le parole dell’Apostolo: “Dove abbondò il peccato, sovrabbonda la grazia” (Rom. V, 20). Risulta infatti che il padre di tutto il genere umano fu costituito da Dio in sì eccelsa condizione da tramandare ai posteri, insieme con la vita terrena, anche quella superna della grazia celeste. Sennonché, dopo la misera caduta di Adamo, tutta la stirpe umana, infetta dalla macchia ereditaria del peccato, perdette la partecipazione alla natura di Dio (cfr. II Petr. 1, 4), e tutti diventammo figli dell’ira divina (Eph. II, 5). Ma il misericordiosissimo Iddio “amò talmente il mondo, da dare il Suo unigenito Figlio” (Jo. III, 16), e il Verbo dell’eterno Padre con identico divino amore si assunse dalla progenie di Adamo l’umana natura, innocente però e senza macchia di colpa, affinché dal nuovo Adamo celeste scorresse la grazia dello Spirito Santo in tutti i figli del progenitore. I quali, dopo essere stati privati della figliolanza adottiva di Dio a causa del primo peccato, diventati per l’incarnazione del Verbo fratelli secondo la carne del Figlio unigenito di Dio, hanno ricevuto anch’essi il potere di essere figli di Dio (cfr. Jo. I, 12). E così Gesù pendente dalla Croce non solo risarcì la violata giustizia dell’eterno Padre, ma meritò per noi suoi consanguinei un’ineffabile abbondanza di grazie. Egli avrebbe potuto elargirla da sé a tutto il genere umano; ma volle farlo per mezzo di una Chiesa visibile, nella quale gli uomini si riunissero allo scopo di cooperare tutti con Lui e per mezzo di essa a comunicare vicendevolmente i divini frutti della Redenzione. Come infatti il Verbo di Dio, per redimere gli uomini con i suoi dolori e tormenti, volle servirsi della nostra natura, quasi allo stesso modo, nel decorso dei secoli, si serve della Sua Chiesa per continuare perennemente l’opera incominciata (cfr. Conc. Vat., Const. de Eccl., prol.). – Pertanto, a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che è la Chiesa Santa, Cattolica, Apostolica Romana) (cfr. ibidem, Const. de Fide cath., cap. l), nulla si trova di più nobile, di più grande, di più divino che quella espressione con la quale essa vien chiamata “il Corpo mistico di Gesù Cristo”; espressione che scaturisce e quasi germoglia da ciò che viene frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei Santi Padri.

LA CHIESA È UN «CORPO»


unico, indiviso, visibile

Che la Chiesa sia un corpo, lo bandiscono spesso i Sacri Testi. “Cristo — dice l’Apostolo — è il Capo del Corpo della Chiesa” (Col. I, 18) orbene, se la Chiesa è un corpo, è necessario che esso sia uno ed indiviso, conforme al detto di Paolo: “Molti siamo un solo corpo in Cristo” (Rom. XII, 5). Né dev’essere soltanto uno e indiviso, ma anche concreto e percepibile, come afferma il Nostro Antecessore Leone XIII di f. m. nella sua Lettera Enciclica “Satis cognitum“: “Per il fatto stesso che è corpo, la Chiesa si discerne con gli occhi” (cfr. A. S. S., XXVIII, pag. 170). Perciò si allontanano dalla verità divina coloro che si immaginano la Chiesa come se non potesse né raggiungersi ne vedersi, quasi che fosse una cosa “pneumatica” (come dicono) per la quale molte comunità di Cristiani, sebbene vicendevolmente separate per fede, tuttavia sarebbero congiunte tra loro da un vincolo invisibile. – Ma il corpo richiede anche moltitudine di membri, i quali siano talmente tra loro connessi da aiutarsi a vicenda. E come nel nostro mortale organismo, quando un membro soffre, gli altri si risentono del suo dolore e vengono in suo aiuto, così nella Chiesa i singoli membri non vivono ciascuno per sé, ma porgono anche aiuto agli altri, offrendosi scambievolmente collaborazione, sia per mutuo conforto sia per un sempre maggiore sviluppo di tutto il Corpo.

composto «organicamente» e «gerarchicamente»

Inoltre, come nella natura delle cose il corpo non è costituito da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse. Né altrimenti l’Apostolo descrive la Chiesa, quando dice: “Come in un sol corpo abbiamo molte membra, e non tutte le membra hanno la stessa azione, così siamo molti un sol corpo in Cristo, e membra gli uni degli altri” (Rom. XII, 4). – Non bisogna però credere che questa organica struttura della Chiesa sia costituita dai soli gradi della Gerarchia e, ad essi limitata, consti unicamente di persone carismatiche (benché Cristiani forniti di doni prodigiosi non mancheranno mai alla Chiesa). Bisogna, sì, ritenere in ogni modo che quanti usufruiscono della Sacra Potestà, sono in un tal Corpo membri primari e principali, poiché per loro mezzo, in virtù del mandato stesso del Redentore i doni di dottore, di re, di sacerdote, diventano perenni. Ma giustamente i Padri della Chiesa, quando lodano i ministeri, i gradi, le professioni, gli stati, gli ordini, gli uffici di questo Corpo, hanno presenti sia coloro che furono iniziati ai sacri Ordini, sia coloro che, abbracciati i consigli evangelici, conducono o una vita operosa tra gli uomini o una vita nascosta nel silenzio o una vita che l’una e l’altra congiunge secondo il proprio istituto; sia coloro che nel secolo si dedicano con volontà fattiva alle opere di misericordia per venire in aiuto alle anime e ai corpi; e infine coloro che son congiunti in casto matrimonio. Anzi, specialmente nelle attuali condizioni, i padri e le madri di famiglia, i padrini e le madrine di Battesimo, e in particolare quei laici che collaborano con la Gerarchia ecclesiastica nel dilatare il regno del divin Redentore, tengono nella società cristiana un posto d’onore, per quanto spesso nascosto, e anch’essi, ispirati ed aiutati da Dio, possono ascendere al vertice della più alta santità, la quale, secondo le promesse di Gesù Cristo, non mancherà mai nella Chiesa.

dotato di mezzi vitali di santificazione
ossia di Sacramenti

Come poi vediamo il corpo umano adorno di mezzi propri con cui provvedere alla vita, alla sanità e all’incremento dei suoi singoli membri, così il Salvatore del genere umano, per sua infinita bontà, provvide in modo mirabile il suo Corpo mistico di Sacramenti, con i quali le membra, quasi attraverso gradi non interrotti di grazie, fossero sostentate dalla culla all’estremo anelito e si sovvenisse con ogni abbondanza alle necessità sociali di tutto il Corpo. Giacché, per il lavacro dell’acqua battesimale, coloro che sono nati a questa vita mortale non solo rinascono dalla morte del peccato e divengono membra della Chiesa, ma sono altresì insigniti di un carattere spirituale, e sono resi capaci di ricevere gli altri Sacramenti. Con il crisma della Confermazione, viene infusa nei credenti una nuova forza, per difendere la Madre Chiesa e custodire quella Fede che da lei ricevettero. Con il Sacramento della Penitenza, si offre una salutare medicina ai membri della Chiesa caduti in peccato, non soltanto per provvedere alla loro salute, ma anche por rimuovere il pericolo di contagio degli altri membri del corpo mistico, ai quali si offrirà anzi un esempio incitante a virtù. Non basta: poiché con la Sacra Eucaristia i fedeli vengono nutriti e corroborati ad uno stesso convito e vengono uniti da un vincolo ineffabile divino fra di loro e col Capo di tutto il Corpo. Infine, agli uomini che si trovano nel languore della morte, la pia Madre Chiesa viene daccanto, e con la sacra Unzione degli infermi, se non sempre, perché così il Signore dispone, ridona al corpo la sanità, offre tuttavia una suprema medicina all’animo ferito, trasmettendo al cielo nuovi cittadini e procurando alla terra nuovi protettori, che per tutti i secoli godranno della divina bontà. – Alle necessità sociali della Chiesa, Cristo provvide in modo particolare con l’istituzione di altri due Sacramenti. Con il Matrimonio infatti, in cui i coniugi sono a vicenda ministri della grazia, si provvede ordinatamente all’accrescimento esterno del consorzio cristiano; e ciò che più importa, alla retta e religiosa educazione della prole, senza la quale un tal Corpo mistico andrebbe incontro a gravissimi pericoli. Con il sacro Ordine poi si consacrano per sempre al servizio di Dio coloro che son destinati a offrire l’Ostia eucaristica, a nutrire il gregge dei fedeli col Pane degli angeli e col pascolo della dottrina, a dirigerli con i precetti e i consigli divini, e a confermarlo nella fede con altri uffici superni. – A questo proposito, si deve aver presente che siccome Dio fin dall’inizio dei tempi formò l’uomo con un corpo fornito dei mezzi necessari a sottomettere le cose create, affinché moltiplicandosi, riempisse la terra, così fin dall’inizio dell’età cristiana provvide la Chiesa dei mezzi opportuni affinché superati innumerevoli pericoli riempisse non solo tutto l’orbe terrestre, ma anche i regni celesti.

formato da membri determinati

In realtà, tra i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che ricevettero il lavacro della rigenerazione, e professando la vera Fede, né da se stessi disgraziatamente si separarono dalla compagine di questo Corpo, né per gravissime colpe commesse ne furono separati dalla legittima autorità. “Poiché — dice l’Apostolo — in un solo spirito tutti noi siamo stati battezzati per essere un solo corpo, o giudei o gentili, o servi, o liberi” (I Cor. XII, 13). Come dunque nel vero ceto dei fedeli si ha un sol Corpo, un solo Spirito, un solo Signore e un solo Battesimo, così non si può avere che una sola Fede (cfr. Eph. IV, 5), sicché chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano (cfr. Matth. XVIII, 17). Perciò quelli che son tra loro divisi per ragioni di fede o di governo, non possono vivere nell’unita di tale Corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito.

senza esclusione dei peccatori

Neppure deve ritenersi che il Corpo della Chiesa, appunto perché e fregiato del nome di Cristo, anche nel tempo del terreno pellegrinaggio sia composto soltanto di membri che si distinguono nella santità, o di coloro che son predestinati da Dio alla felicità eterna. Infatti si deve attribuire all’infinita misericordia del nostro Salvatore che non neghi ora un posto nel suo mistico Corpo a coloro cui una volta non negò un posto nel convito (cfr. Matth. IX, 11; Marc. 11, 16; Luc. XV, 2). Poiché non ogni delitto commesso, per quanto grave (come lo scisma, l’eresia, l’apostasia) è tale che di sua natura separi l’uomo dal Corpo della Chiesa. Né si estingue ogni vita in coloro che, pur avendo perduto con il peccato la carità e la grazia divina sì da non essere più capaci del premio soprannaturale, conservano tuttavia la Fede e la speranza cristiana, e, illuminati da luce celeste, da interni consigli e impulsi dello Spirito Santo, sono spinti a concepire un salutare timore e vengono eccitati a pregare e a pentirsi dei propri peccati. – Aborriscano quindi tutti il peccato, con il quale vengono macchiate le mistiche membra del Redentore; ma chi dopo aver miseramente mancato, non si rende con la propria ostinatezza indegno della comunione dei fedeli, sia ricevuto con sommo amore, e in lui si ravvisi con carità fattiva un membro infermo di Gesù Cristo. È infatti preferibile, come avverte il Vescovo d’Ippona, “essere risanati nella compagine della Chiesa, anziché esser tagliati dal suo corpo a guisa di membra inguaribili” (August. Epist., CLVII, 3, 22; Migne, P. L., XXIII, 686). “Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi” (August. Serm., CXXXVII, 1; Migne, P. L., XXXVIII, 754).

[I – Continua …]

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2019)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA [2019]

Incipit 

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. – [In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus. Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

Omelia I

ECCELLENZA DELLA CARITÀ 

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

S. PAOLO

“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla migiova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”. (1. Cor. XIII, 1-13).

I diversi doni spirituali, di cui erano stati abbondantemente arricchiti i fedeli di Corinto, dovevano essere tenuti tutti nel medesimo pregio. Se alcuni avevano doni più appariscenti degli altri, li avevano avuti da Dio, che distribuisce le grazie come a lui piace. Questi doni poi, come le membra di un sol corpo, dovevano concorrere a vicenda nel promuovere il bene comune, della Chiesa. Nessuno, dunque, deve invidiare i doni degli altri. Del resto c’è un bene molto più desiderabile di tutti questi doni: la carità. Di questa l’Apostolo dimostra l’eccellenza nell’epistola di quest’oggi. Essa, infatti.

1. È necessaria più di tutti i doni,

2. È l’anima di tutte le virtù,

3. Dura nella vita eterna.

1.

Se parlassi le lingue degli. uomini e degli Angeli e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante.

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grandeimportanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro;intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita persalvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Ilpossedere uno solo di questi doni, il compiere una soladi queste azioni, basterebbe a formare la grandezza diun uomo.S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che. son superati daun altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità,per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaroche uno distribuisce agli altri, non serbando nulla persé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. Che giova a Balaam predire, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, la grandezza d’Israele, quando egli si fa ispiratore di prevaricazioni abominevoli, perché sopra Israele cadano i tremendi castighi di Dio? (Num. XXIV, 2 ss.) Che giova a Giuda aver avuto il mandato di predicare il regno di Dio e di risanare gli infermi? Anche coi doni più eccellenti, anche con le azioni più eroiche non cessiamo di essere iniqui agli occhi di Dio, se ci manca la carità. Gesù Cristo ci fa sapere che molti nel giorno del giudizio diranno: «Signore, non abbiamo noi profetato nel nome tuo, e non abbiamo nel tuo nome cacciato i demoni, e nel nome tuo non abbiam fatto molti prodigi?» Ma Gesù dirà loro: «Non v’ho mai conosciuti: ritiratevi da me, operatori d’iniquità» (Matt. VII, 22-23). Come possono essere operatori d’iniquità, coloro che compiono tali prodigi nel nome di Dio? Intanto uno è iniquo, in quanto non possiede la carità. «Chi non possiede la carità è senza Dio» (S. Pier Grisol. Serm. 53). E lontani da Dio non si può esser che suoi nemici, meritevoli della sua maledizione. Anche senza doni straordinari, anche senza l’opportunità di compiere atti eroici, a tutto basta, a tutto supplisce la carità. «Io credo — dice S. Agostino — che questa sia quella margherita preziosa, della quale sta scritto nel Santo Vangelo che, un mercante, trovatola dopo una lunga ricerca, vendette tutte le cose che aveva per poterla comperare. Questa preziosa margherita è la carità, senza la quale nulla ti giova di quanto possiedi: questa sola, se l’hai, ti può bastare. ((2) In Ep. Ioa. Tract. 5, n. 7).

2.

 La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, ecc.  – L’Apostolo, dopo aver dettoche la carità è più eccellente di qualsiasi dono, passaa mostrarne i caratteri. S. Gerolamo, riportata questadescrizione, conchiude : «La carità è la madre di tuttele virtù » (Ep. 82, 11 ad Theoph.). Per la carità noi amiamo Dio per se stesso e il prossimo per amor di Dio. Questo amore dev’essere necessariamente l’anima di tutte le nostre azioni, sia che riguardino Dio, sia che riguardino il prossimo. Così, la città spinse gli Apostoli alla conquista del mondo, e li rese forti e costanti a traverso tutte le difficoltà. La carità sostenne fino all’ultimo i martiri, rendendoli trionfatori dei più raffinati tormenti. La carità rese prudenti i confessori contro tutte le insidie, e li fece perseverare nella via retta dei comandamenti. La carità fa vivere sulla terra angeli in carne, e adorna questa misera valle di lagrime dei fiori d’ogni virtù. Essa stacca da questa terra il cuor dell’uomo e lo accende del desiderio di unirsi a Dio così da poter dire con l’Apostolo: «Bramo di sciogliermi dal corpo per essere con Cristo» (Filipp. 1, 23). Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. Ecco perché i Santi cercavano di progredire sempre più nella carità, anteponendola, nella stima, a tutte le grande azioni. Un giorno si vollero fare congratulazioni al Beato Bellarmino per tutto quello che aveva fatto in servizio della Chiesa. Ma il Beato respinge prontamente la lode con queste belle parole: «Una piccola dramma di carità val più di quanto io possa aver fatto» (Raitz. von Frentz. Der ehrw. Kardinal Rob. Bellarm. Freiburg, 1923, p. 141).

3.

L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita, L’Angelo sveglia S. Pietro nell’oscurità del carcere, lo guida a traverso le tenebre e le guardie, e scompare. L’Angelo Raffaele fa da guida a Tobia nel viaggio a Rages, lo libera nei pericoli, lo sostiene nella sua opera, ma un giorno dice: « Ora è tempo che io torni a Colui che mi ha mandato » (Tob. XII, 20). – La fede ci fa da guida in questa vita, mostrandoci la via che conduce al cielo. La speranza ci preserva dallo scoraggiamento, e, mostrandoci i beni della patria celeste, accende la nostra carità, la quale, a traverso a qualunque ostacolo, ci fa pervenire alla meta sperata. Qui, il compito della fede e della speranza è finito. Quando vediamo ciò che la fede insegna, essa cessa di sussistere: quando possediamo ciò che si sperava cessa la speranza. Solamente la carità non si ferma alla soglia della seconda vita. Essa vi entra con noi, ed entra nel regno suo proprio. Alla fede sottentrerà la visione di Dio; alla speranza sottentrerà la beatitudine: ma nulla sottentrerà alla carità, la quale, anzi, vi avvamperà maggiormente. Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

 Graduale:

Ps LXXVI:15; LXXVI:16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam. . [Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto: Ps XCIX:1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia, V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus. V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia. V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII:31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921] SPIEGAZIONE XIV

In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio. (Luc. XVIII, 31-43).

Il divin Redentore era ormai giunto al termine della sua vita privata e pubblica. Quanti sublimi esempi aveva egli dato agli uomini! Quante verità aveva loro insegnato! E quanti benefizi aveva loro compartiti! Eppure molti lo odiavano e lo cercavano a morte. Anzi in Gerusalemme i pontefici ed i farisei avevano mandato un ordine che chi sapesse dove si fosse, ne desse avviso, affine di averlo nelle mani. Tuttavia Gesù, sapendo che l’ora sua non era ancor venuta, si teneva nascosto in luogo appartato, dedicandosi interamente alla coltura de’ suoi discepoli. Ma avvicinandosi la festa di Pasqua, vedendo Gesù come pure avvicinavasi il tempo del suo sacrificio, con ferma risoluzione e con magnanima intrepidezza si mise in via per recarsi a Gerusalemme. E fu appunto in questo viaggio che il divin Redentore pronunziò le parole ed operò il miracolo, che si riferiscono nel Vangelo di questa mattina, e che noi considereremo alquanto per nostro ammaestramento.

1. Camminava adunque Gesù verso di Gerusalemme, e lungo la via sembrava più pensieroso del solito. Spesso camminava solo, davanti ai suoi discepoli; e questi lo seguivano spaventati senza osare di avvicinarlo ed interrogarlo. – Ma Gesù ad un tratto appressati a sé i dodici Apostoli, prese a dir loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto dai profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperciocché sarà dato nelle mani dei Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia: e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. –Così parlava Gesù durante il suo cammino. Non era certamente quella la prima volta che Gesù annunziava ai suoi discepoli i suoi patimenti e la crudeltà degli uomini che lo avrebbero fatto morire. Ma poiché il tempo della sua morte si avvicinava, Egli volle ancor un’altra volta entrare nei particolari, ridire le circostanze della sua passione, e fermare il pensiero sopra della morte che avrebbe incontrata. Egli per tal modo dava una importante lezione anche a noi. Egli ci insegnava ad occuparci anche noi della morte nostra, affinché con questo pensiero nella mente attendiamo a prepararvici in modo da assicurarci la beata eternità. Che se questo pensiero è salutarissimo in ogni tempo, quanto più lo è in questi giorni, in cui il mondo cerca di trascinare gli uomini nelle più pazze e nei più rei disordini! Ed è appunto perciò che la Chiesa, come a far cessare simili traviamenti, di questa settimana prendendo tra le sue mani le ceneri benedette e ponendocele sulla fronte ci invita a considerare la morte. E noi entrando nelle sue mire consideriamola un istante fin d’adesso. E per ben considerare che cosa sia la morte, andiamo col pensiero intorno al letto di un moribondo e in presenza di lui leggiamo il decreto, che Dio fa sentire a tutti gli uomini per bocca dell’Apostolo S. Paolo: È stabilito che tutti gli uomini debbano una volta morire. Tutti quelli che vissero dal principio del mondo fino adesso, tutti dovettero sottoporsi a questo decreto. Non vi è né scienza, né potenza, né sanità, né robustezza che possa resistere alla morte. Dice S. Agostino che si resiste al ferro, al fuoco, all’acqua, ma chi può resistere alla morte? Andiamo a cercare chi esista ancora di tanti re, monarchi, imperatori, che vissero ne’ tempi passati; tutti mutarono paese e se ne andarono all’eternità. Di essi più non rimane se non qualche iscrizione sopra la loro tomba, e se apriamo gli stessi loro sepolcri altro più non vediamo che un pugno di cenere, che in breve sarà dispersa coll’altra polvere della terra. Dice S. Bernardo: Dimmi, dove sono gli amatori del mondo? Ed egli medesimo risponde: Niente rimase di loro se non vermi e polvere. Almeno sapessimo il luogo e l’ora di nostra morte: ma no, dice il Salvatore, essa verrà quando meno ve lo pensate. Può essere che la morte ci sorprenda nel nostro letto, sul lavoro, per istrada od altrove. Una malattia, una febbre, un accidente, qualche cosa che cada addosso, un colpo di assassino, un fulmine, sono tutte cose che tolsero a tanti la vita e possono torla egualmente a noi. Ciò può essere da qui ad un anno, da qui ad un mese, ad una settimana, ad un giorno, ad un’ora, ad un’istante. Miei cari, se la morte ci colpisse in questo momento che sarebbe dell’anima nostra? Guai a noi, se non ci teniamo preparati; chi oggi non è preparato a morir bene, corre grave pericolo di morir male. Forse potremo lusingarci, che la morte non venga per noi? Niuno fu mai così stolto da credersi esente dalla morte. Il decreto di morte è per tutti. L’ora della nostra morte verrà, essa è certa. Verrà quel giorno, quella sera, in cui ci troveremo anche noi stesi su di un letto. Se Dio ci concederà un tal favore, avremo un sacerdote a noi vicino, il quale col santo Crocifisso in mano verrà raccomandandoci l’anima al Signore. I parenti e gli amici ne faranno corona piangendo. Oh se noi potessimo presentemente riflettere sui pensieri, che correranno alla nostra mente in quell’ultimo istante di vita! Ora il demonio per indurci a peccare copre e scusa le colpe, ma in morte ne scoprirà la gravezza e ce le metterà innanzi. Ma che fare in quel terribile momento, in cui dobbiamo incamminarci per la eternità? Terribile momento, da cui dipende la nostra eterna salute, o la nostra eterna dannazione. Vicini a quell’ultimo chiuder di bocca ci sarà accesa una candela quasi per far lume all’anima nostra ad intraprendere il cammino dell’eternità. Due volte ci si tiene accesa innanzi una candela: quando siamo battezzati e al punto di morte. La prima volta vediamo i precetti della legge di Dio; la seconda volta conosceremo se furono da noi osservati. Perciò, o miei cari, alla luce di questa candela vedrete se avete amato il vostro Dio, oppure se l’avete disprezzato; se avete avuto in onore il suo santo nome, o lo avete bestemmiato; vedrete lo scandalo dato, la roba non restituita, l’onore del prossimo non riparato; vedrete le confessioni fatte senza dolore, o senza proponimento… Ma oh Dio! tutto vedrete in un momento, nel quale agli occhi vostri si aprirà la vita dell’eternità. O punto, o momento, da cui dipende un’eternità di gloria o di pena! Capite, o miei cari? D a quel momento dipende l’andar per sempre in Paradiso, o per sempre all’Inferno; o sempre contenti o sempre afflitti; o sempre figli di Dio o sempre schiavi del demonio; o sempre godere con gli Angioli e coi Santi in cielo, o gemere ed ardere per sempre coi dannati all’inferno.

2. Ma ritornando ora al Santo Vangelo, vi troviamo scritto che gli Apostoli nulla compresero di quanto Gesù Cristo aveva detto riguardo alla sua passione, morte e risurrezione; che un tal parlare era oscuro per essi e non intendevano quel che loro

si diceva. Ora, come mai, si domanda S. Giovanni Crisostomo, gli Apostoli non intendevano quel cheloro diceva il Divin Maestro? Ecco, risponde lo stesso santo Padre: gli Apostoli vedevano bene, perché il Figliuol di Dio diceva loro che doveva morire; ma non vedevano ancora né il mistero di questa morte, né il bene che doveva derivarne a tutto l’universo; ben sapevano che dei morti potevano essere risuscitati da viventi, ma non capivano che un morto potesse risuscitare se stesso, e risuscitarsi per non più morire. Non sapevano quale doveva essere il genere della sua morte: ed oltreché questo parlare di morte li turbava in generale, le particolari circostanze di scherni, oltraggi e sferzate vieppiù li sorprendevano; è perciò che si trovavano in una grande angustia di spirito, ed ora credevano, ora non credevano, e non potevano ben capire ciò chelor si dicesse. Ma sapete, o miei cari, la gran difficoltà che arrestava gli Apostoli ed impediva lorol’intelligenza delle parole del Divin Maestro e lidava in balla ad una profonda tristezza? Era l’avversione che avevano al patire. Volentieri domandavano un trono al lato di Gesù nella gloria: ma il suo calice d’amarezza, ma le umiliazionie i suoi patimenti non si sentivano il coraggio di incontrarli.Or ecco la ragione per cui tanti giovani e tanti Cristiani rifuggono dall’intendere e riconoscere l’importanza della pietà cristiana; perché la sua pratica va incontro agli insulti, agli oltraggi, alle persecuzioni del mondo. Sì, certo, il disprezzo, l’insulto, la persecuzione è cosa che come a veri Cristiani non ci può mancare. Gesù Cristo, come predisse la sua passione, così predisse ancora quella, che sarebbe toccata ai suoi seguaci. Egli lo ha detto chiaro agli Apostoli, e nella persona degli Apostoli a tutti : « Vos in mundo pressuram habébitis: voi nel mondo patirete pressure (Joan. XVI, 33). Vi malediranno,vi perseguiteranno, vi metteranno le mani addosso, ve ne faranno d’ogni sorta: non est discipulus super magistrum (Matt. X, 24); il discepolo non sarà trattato diversamente dal maestro; e come ora i maligni si scagliano contro di me, così un giorno si scaglieranno contro di voi ».Così ha parlato Gesù Cristo, epperò l’Apostolo S. Paolo non è altro che l’eco fedele di Lui, quando dice « che tutti quelli che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo soffriranno persecuzioni: Omnes qui pie volunt vivere in Christo Iesu persecutionem patìentur (2 Tim. III, 12). » E difatti che non si dice contro quel giovane, quel Cristiano, perché frequentano la Chiesa e i Sacramenti, non bestemmiano e non partecipano a cattivi discorsi ed a male azioni? Che sono gente devota, imbecille, ignorante e mille altre cose. Ma intanto che accade in ciò? che molti giovani e molti Cristiani abborrendo da simili disprezzi, lasciano eziandio, non ostante la voce della coscienza, la pratica della cristiana pietà. Che ciò non avvenga mai di alcuno di noi. Riflettiamo bene: Gesù Cristo, che fu in su la terra il primo disprezzato, è ora in cielo il primo esaltato. E dopo Gesù sono pur anche per questa ragione esaltati i Santi, i quali, credetelo, se in cielo potessero ancora desiderare qualche cosa, desidererebbero certamente di poter venire ancora in terra per patire ed essere disprezzati di più di quel che lo siano stati. Or bene quella sarà pure la nostra sorte, se soffriremo ora volentieri le ingiurie, i disprezzi, le persecuzioni dei cattivi. Gesù Cristo lo ha detto, ed Egli non falla: « Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quoniam ipsornm est regnum cœlorum (Matt. V, 10). Beati quelli che soffriranno persecuzioni per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli ». Ora noi siamo i derisi, i disprezzati, i perseguitati, e i nostri avversari ridono, sghignazzano, trionfano. Ma verrà un giorno, nel quale le sorti saranno ben mutate. E sarà il giorno dell’universale giudizio, in cui i malvagi trovandosi alla sinistra e vedendo noi alla destra diranno: Ecco là coloro, che noi insensati chiamavamo stolti; le loro opere ci sembravano una vergogna; la vita, che essi menavano ci metteva orrore, tanto appariva miserabile agli occhi nostri; tenevamo per vili le loro persone e credevamo disonorarci coll’entrare in loro compagnia. Ma ora il fatto prova, che i saggi erano essi, e gli stolti noi, caduti adesso nella disperazione e nella infelicità. Disgraziati che siamo! Oh se fossimo stati virtuosi anche noi! Se anche noi avessimo fatto il bene come quei fortunati! Ma noi li abbiamo beffati in mezzo alle nostre passate delizie, ed ora eccoli essi circondati di fiori e coronati di gloria in mezzo ai Santi: « Nos insensati, vitam illorum æstimabamus insaniam et finem illorum sine honore: ecce quomodo computati sunt inter fllios Dei et inter Sanctos sors illorum est (Sap. V , 4) ». E mentre noi, se avremo patito volentieri le persecuzionie le maledizioni del mondo, ci sentiremo a benedire da Dio ed a invitare da Lui al possessodel regno dei cieli: « Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi (Matt. XXV, 34): i malvagi si sentiranno invece da Dio medesimo a maledire per sempre: Discedite a me, maledicti, in ignem æternum. (Ibid.41) ». In quel giorno adunque, in cui noi siamo insultati e perseguitati per la nostra fede, a somiglianza dei Santi « rallegriamoci, pensando che in Paradiso ci sta preparata una gran mercede per i nostri patimenti: Gaudete et erultate in illa die, quoniam merces vestra copiosa est in coelis (Matt. V, 12)».

3. Passa quindi il Vangelo a narrarci un bel miracolo operato da nostro Signore nelle vicinanze di Gerico. Ed avvicinandosi egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. Esclamò, e disse: Gesù Figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi, lo sgridavano, perché si chetasse. Ma egli sempre più sclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che glielo menassero dinanzi. E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio. – In questo fatto del santo Vangelo è certamente ammirabile il desiderio grande, che quel cieco di Gerico aveva di guarire dalla sua cecità, tanto che saputo che presso a lui passava Gesù, e credendo con vivissima fede che poteva guarirlo, si pose a gridare forte: Figliuolo di David, abbi pietà di me; e non lasciò di gridare mai, benché i circostanti gli dicessero di tacere, finché Gesù lo fece condurre a sé e lo guarì con la sua onnipotente parola. Ora questa brama così viva in questo cieco di guarire dalla sua cecità è uno strano contrasto con tanti altri ciechi, che si trovano in una cecità molto più deplorevole e dalla quale pensano poco o nulla a guarire. Questa cecità è quella cagionata in un’anima che si abbandona abitualmente al peccato. S. Giovanni Crisostomo arreca a questo proposito l’esempio scritturale di Giona. Egli riceve l’ordine da Dio di recarsi a Ninive; ma egli rifiuta di obbedire e quindi pecca. Il misero allora che risolve? S’imbarca a Ioppe per farsi trasportare a Tarso e fuggire dalla taccia del Signore. Possibile?! un profeta può cadere in errore sì grossolano? Doveva pur sapere che era cosa impossibile sottrarsi dalla vista e dalle mani dell’Onnipotente. Non aveva mai considerate quelle parole del Salmista: « Ove andrò io per nascondermi al vostro spirito, ed ove fuggirò per togliermi dalla vostra vista? .Nelle viscere della terra? Ma essa è tutta sotto il dominio del Signore. Mi sprofonderò negli abissi dell’inferno? Ma anche colà voi siete presente, o mio Dio. M’ingolferò nei gorghi del mare? Ma voi dappertutto tenete estesa la vostra mano sopra di me ». Tutto questo non poteva ignorare Giona; eppure fugge e calcola di sottrarsi dalla vista e dalla potenza di Dio sdegnato. Perché un’ignoranza tanto incredibile? Il misero è in uno stato di cecità prodotta dal suo peccato. Chi fa il male, dice Gesù Cristo, odia la luce. Come in una profonda oscurità non si distinguono gli oggetti, così nel peccato non si vede più nulla; tutto è tenebre e confusione; il peccatore si trova come in uno stato di ebbrezza. Non vede il pericolo di dannazione eterna che gli sovrasta, l’inferno che sta spalancato ai suoi piedi, la spada ultrice della divina giustizia, che pende sopra il suo capo e che da un istante all’altro può scaricare l’ultimo colpo. La fede è languida e fiacca, e va sempre più indebolendosi, finché a lungo andare si perde totalmente. Pur troppo questo è lo stato di cecità, a cui giungono certi peccatori, che si abusano della divina bontà. E quel che è peggio si è che giunti a questo stato non pensano punto a guarirne. Così vanno innanzi talora i mesi e gli anni senza darsi alcun pensiero della loro miserabile condizione. È bensì vero che Gesù si degna ancora di passar loro vicino con qualche ispirazione, con qualche buon suggerimento e persino alle volte con le turbe dei buoni Cristiani che, partecipando alle grandi manifestazioni religiose, fanno sentire la presenza di Gesù in mezzo agli uomini, contuttociò essi non si commuovono punto e non si risolvono di ricorrere a chi può ridonar loro la vista. Oh se caso mai vi fosse qui tra noi chi si trovasse in sì deplorevole stato di cecità, non tardi più a sollevare con viva fede e con umiltà profonda la sua voce sino a Gesù Cristo e a chiedergli che ne lo liberi e lo faccia vedere. E se vorrà davvero guarire dalla sua infermità, Gesù infinitamente buono non mancherà d’aiutarlo, di aprirgli la intelligenza per conoscere il suo stato, pentirsene e riacquistare la luce della grazia. Tutti poi domandiamo spesso al Signore che ci faccia vedere i doveri che abbiamo da eseguire, le virtù che abbiamo da praticare, i pericoli che dobbiamo temere, affinché tra gli splendori della sua luce, possiamo camminare diritti a quella meta, cui siamo destinati.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui. [Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo. [Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem … [Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

LO SCUDO DELLA FEDE (51)

LO SCUDO DELLA FEDE (51)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PREFAZIONE .

Gesù Cristo Signor nostro ci avvertì che vegliassimo di continuo e pregassimo per non essere sedotti dalle tentazioni: ci fece sapere che queste sarebbero state di più specie. e che non sarebbero mancate tra esse neppure le eresie. Bisogna, dice Egli, che vi siano eresie, affinché quelli che sono approvati, siano da voi riconosciuti (1 Cor. XI, 19.). Difatti, fino dai primi tempi non mancarono Simone il mago, Ebione, Cerinto, gli Gnostici ed altri di spargere il loro veleno; ed i SS. Apostoli ed i loro successori premunirono i fedeli a non lasciarsi corrompere da loro. Più tardi sorsero Ario, Nestorio, Eutiche, Macedonio ed altri, i quali lacerarono anch’essi il seno di Santa Chiesa e fecero sì che si scoprissero quali fossero i veri fedeli. Nei secoli ultimi sorsero Lutero, Calvino, Zuinglio, Arrigo VIII con altri senza numero i quali giungono infino a noi, e son quelli che chiamiamo Protestanti. Ora questi sono coloro con cui abbiamo da combattere noi, se vogliamo serbarci fedeli a Dio. – Vi meraviglierete forse che il Signore abbia permesso che nella sua Chiesa sempre vi fossero di questi mostri che pericolassero la nostra Fede e con la Fede la nostra eterna

salvezza: eppure è questo un consiglio profondissimo e savissimo dì Provvidenza. – Gesù non vuol dare il S. Paradiso agli oziosi, ai negligenti, a quelli che non combattono per suo onore e che non vincono con la sua grazia, e però permette che vi siano questi combattimenti, perché si vegga fin dove si stende la nostra fedeltà ed il nostro amore per Lui. Fintantoché tutto è in pace, non è gran merito mantenersi fedele alla Santa Chiesa: il merito è allora che vi sono delle turbazioni, che vi sono degli eretici che seminano l’errore e che fanno brighe con arti e seduzioni e libri perversi ed altre macchinazioni per indurci ad abbracciarlo. Allora si vede se noi siamo ben fondati sopra la pietra immobile che è la S. Chiesa, se noi ci fidiamo di lei, se noi resistiamo contro tutti questi nemici con gran coraggio e se li allontaniamo da noi con tutto l’orrore. Quando è che si vedeil valore del soldato? Quando tutto è in pace no, ma bensì nel tempo della guerra. Quando è che si vede la destrezza del pilota che guida la nave? Quando il vento è quieto ed il mare tranquillo no, ma bensì quando il mare è agitato ed infuria la tempesta. Quando è che il contadino mostra tutta la sua perizia della campagna? Nell’inverno quando non si può lavorare no, ma bensì quando viene la stagione in cui gli si moltiplicano le fatiche. – Il simile dite voi nel nostro caso; quando è che il Cristiano dimostra la sua virtù, la sua fedeltà a Dio e l’amore che gli porta? Quando tutto va in pace no, ma bensì quando insorgono gli eretici, quando da loro è tentato, è assalito, e messo al cimento di abbandonare la sua Fede. – Provata così la nostra fede, il nostro amore, che cosa fa Gesù? Quello che fate voi col grano che avete ventilato. Tutto quello che il vento ha portato via, perché non aveva peso né sodezza, come è la pula, come è la paglia, si getta al fuoco: quello che è rimasto sull’aia, come è il frumento eletto, si ripone nei granai per farne tesoro. Così Gesù condanna gl’infedeli al fuoco dell’inferno, mentre trapianta gli altri nel suo eterno giardino. Perché dunque non v’incolga la disgrazia di perdervi che sarebbe poi irreparabile per tutta l’eternità, io intendo prevenirvi degli errori a cui vi vorrebbero trascinare, mostrandovi la falsità del Protestantismo che essi vi propongono, le male arti con cui ve lo rendono credibile, ed i beni che verrebbero a rapirvi, ed i mali in cui vi precipiterebbero se riuscissero presso di voi nell’iniquo divisamento. Dopo di che vi suggerirò il modo con cui dovete difendervi da loro: perché dove essi speravano di vincervi si trovino vinti da voi, e voi mostrando a Dio la vostra fedeltà, gli diventiate più cari per quella via medesima, per cui essi vi volevano far diventare suoi  nemici. – Vero è che in questa trattazione io non posso valermi di molte ragioni con cui si può difendere la causa nobilissima della Chiesa e della verità: perché altre di esse richiederebbero ingegni avvezzi alla speculazione, o menti non digiune di erudizione, o almeno maggior copia di tempo per meditarle; tuttavia quelle che addurrò congiungeranno colla facilità e semplicità tal forza e tal saldezza, che con l’aiuto divino saranno bastevoli ad illuminare le vostre menti con sana dottrina, e ad infiammare i vostri cuori nell’amore di essa. – Mi sono studiato eziandio per quanto ho potuto di esporvele con ogni chiarezza aggiustando il modo di dire alla vostra capacità, imitando colui che mai non parlava senza parabole (Matt. XXIV, 34) per fare a tutti discendere la verità. Gesù che è la luce che illumina ogni uomo che vien sulla terra (Joan. I. 9.), si compiaccia di farsi luce nostra, e ci guidi per modo che declinando tutti gli errori e seguitando la verità scampiamo dalle tenebre sempiterne, e perveniamo a regnare un giorno nella luce pienissima della beata eternità.

PARTE PRIMA:

FALSITA’ DEL PROTESTANTESIMO

CAPITOLO PRIMO.

SI CONVINCE  FALSO IL P OTESTANTISMO DALLA PERSONA DE’ SUOI FONDATORI.

Il Protestantismo, ad abbracciare il quale vi invitano certi iniqui, è una religione che ha due parti, l’una è quella che mostra al di fuori, l’altra che serba al di dentro. L’esteriore è una maschera con cui inganna, l’interiore è un coltello con cui uccide; appunto come certe serpi che hanno una pelle tutta lucente d’oro e di argento, ma che hanno poi al di dentro un veleno micidialissimo. Nell’esterno finge un grande amore alla divina parola, una gran brama di onorare Iddio in ispirito e verità, un grande orrore ad ogni superstizione, una grande carità verso del prossimo etc. etc. Nell’interno è un grande atto di ribellione a sua Divina Maestà ed alla S. Chiesa, un gran dispregio di quello che appartiene al divin culto, una sorgente di libertinaggio e di mal costume, un atto di orgoglio più che diabolico. – Siccome però io non mi contento di affermare tutto ciò, così ne addurrò le prove cominciando dalle persone che gli diedero origine. I Protestanti affermano che essi sono stati suscitati da Dio nel secolo decimo sesto a riformare la Chiesa, poiché era tutta caduta in errore. Ora vogliamo noi credere che Iddio a riformare la S. Chiesa voglia adoperare gli uomini più iniqui che siano stati al mondo? Quelli che Iddio ebbe costume di mandare quando volle non riformare la Chiesa, ma riformare i Fedeli, furono sempre uomini della più segnalata bontà. Nell’antico Testamento mandava i suoi Profeti, nel nuovo mandava i suoi Apostoli, i suoi Santi, e fino a questi ultimi tempi furono celebri i grandi e veri riformatori del popolo Cristiano, S. Antonio da Padova, S. Bernardino da Siena, S. Vincenzo Ferreri, S. Francesco Saverio, S. Carlo, il B. Leonardo, S. Alfonso dei Liguori ed altri imitatori delle loro virtù. Imperocché per insegnare la virtù, la perfezione, la santità, per ritrarre dall’errore i popoli, bisogna prima esser Santi, illuminati, di vita incolpabile. Ora chi sono stati questi grandi riformatori Protestanti? Volete conoscerli? – Il primo e principale fu Lutero, uomo pieno di superbia in guisa che maltrattava tutti i Grandi della terra e che con diabolico orgoglio giunse ad anteporsi anche ai più gran Santi della Chiesa: uomo ripieno di ogni lascivia e bruttura, che rubò ad un monastero una sposa di Gesù Cristo per farla sua moglie: scostumato e bevitore sì che passava tutto il giorno crapulando e sbevazzando alla taverna dell’Aquila nera di Vittemberga sua patria: bestemmiatore fino al punto di chiamare il demonio nostro principe e dio: scandaloso a segno di allontanare tutti i Cristiani dal far opere buone. Neghino, se possono i Protestanti che questo sia stato il loro maestro ed il loro capo. – Emulo di Lutero fa Zuinglio superbo al pari di lui, corrompitore e falsificatore delle Sante Scritture così solenne che glielo rinfacciarono infino i suoi seguaci Protestanti. Dedito in tutta sua vita ad affari mondani e secolareschi, giungendo sino a propagare la sua dottrina con le armi, ancor egli sebbene sacerdote, sacrilegamente sposò una ricca vedova e menò una vita tanto libera, che gli stessi suoi ammiratori lo dissero morto in peccato e figlio dell’inferno. – Un altro gran corifeo dei Protestanti fu Calvino, uomo così superbo ed intrattabile, che gli stessi suoi seguaci dicevano che era meglio andare dannati con Teodoro Beza, che andare in Paradiso con Calvino: tanto era insopportabile per la sua arroganza e malignità. Con la superbia congiunse ancora la lascivia. Fin da giovane commise una colpa così nefanda, che dai pubblici tribunali fu stimmatizzato sopra una spalla con un ferro rovente, poi più tardi tuttoché fosse diacono, menò a moglie una tale Ideletta: fu tanto crudele che in Ginevra cacciò in esilio e fece bruciare vivi vivi tutti quelli che non la pensavano come lui, e finalmente fece una morte così disperata che mette orrore: perocché sentendosi marcire le carni indosso con tanto fetore che più niuno poteva sopportarlo, disperato e tra orrende bestemmie spirò l’anima. – Un altro gran Maestro dei Protestanti fu il Re d’Inghilterra Arrigo ottavo. Questi finché fu buono fu anche Cattolico. Quando poi diventò scostumato, ripudiò la Religione Cattolica: ma i suoi delitti mostrano qual sia la sua religione. Egli vivente ancora la sua legittima moglie, sposò un’altra donna Anna Bolena, poi fattala ammazzare, ne sposò una seconda di nome Seymour, poi fatta morire anche questa sposò Anna di Cleves, che sei mesi dopo ripudiò per surrogarle Caterina Howard, e finalmente uccisa anche questa sposò Caterina Parr che non fu più a tempo ad uccidere come ne aveva voglia, perché morì egli prima: uomo di tanta rapacità, che si usurpò tutti i beni della Chiesa per sostenere le sue passioni, di tanta crudeltà che faceva ammazzare tutti quelli che si opponevano ai suoi capricci. E come questi, così sono tutti gli altri Capi del Protestantismo, Giusto Giona, Amsdorf, Melantone, Carlostadio, Ecolampadio, etc. uomini ambiziosi, crudeli, disonesti, violenti e ripieni di tutti i vizi, siccome essi stessi si danno a conoscere nelle scambievoli ed interminabili questioni che hanno fra di sé. Chiedete ora ai Protestanti se sia vero o no che questi sono i principali loro Capi? Prima che sorgessero questi mostri non vi era il Protestantismo nel mondo, sono essi che lo hanno introdotto. È possibile che uomini così perversi fossero illuminati da Dio a conoscere la verità? Che questi fossero gli strumenti di Dio, gli organi dello Spirito Santo per riformare la S. Chiesa? E se non è possibile ciò, che cosa diremo noi del Protestantismo da loro introdotto, se non che esso è un’invenzione diabolica?

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (14): Le altre promesse del Sacro Cuore

DISCORSO XIV.

Le altre promesse del Sacro Cuore di Gesù.

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Ed. Torino,1920Imprim. Can. F. Duvina, Torino, 19 giugno, 1920]

La fecondità meravigliosa della parola divina, che trovasi nei Santi Libri, è tale che anche i racconti in apparenza insignificanti racchiudono in sé dei grandi misteri, e delle importantissime figure. Tale ad esempio è il fatto, che si legge nel libro dell’Esodo. Avviandosi il popolo ebreo per il deserto alla terra promessa, non trovava acqua per estinguere l’ardente sua sete. Ma Iddio mosso a compassione di quel popolo, non ostante i suoi grandi demeriti, disse a Mosè: « Accostati alla pietra di Horeb e percuotila con la verga, con cui un giorno percuotesti il fiume Nilo, cangiandone l’acqua in sangue, ed io sarò con te con la mia virtù e l’acqua scaturirà dalla pietra perché il popolo possa bere. » Mosè fece come il Signore gli aveva detto, e da quella pietra sgorgò una fonte di acqua così abbondante, che tutto il popolo ebreo poté dissetarsi. Ora in questo fatto bensì sommamente miracoloso, ma in apparenza di ben poco significato, l’apostolo S. Paolo ha invece ravvisato il più grande di tutti i misteri, il mistero di Gesù Cristo, Redentore del mondo, il quale siccome pietra collocata in mezzo a tutti i secoli, per sua propria virtù ha fatto da sé scaturire l’acqua di grazia per gli uomini di tutti i tempi. Perciocché è alla grazia che scaturisce da una tal pietra, che tutti dovettero e devono bere per non perire miseramente nel viaggio, che da tutti si compie alla terra promessa del Paradiso; gli uomini dell’antica legge con la fede, con la speranza e con l’amore in Lui che doveva venire, quelli della legge nuova con la fede, con la speranza e con l’amore in Lui già venuto. – Or bene, in sulla scorta di S. Paolo, noi possiamo altresì in questa pietra miracolosa riconoscere una figura particolare del Sacratissimo Cuore di Gesù. Ed invero non è forse toccando questo Cuore con la verga della sua divozione, che noi possiamo farne scaturire le grazie più abbondanti e quelle specialmente che ci abbisognano nel faticoso cammino verso la nostra patria? Sì, o miei cari, lo stesso Gesù Cristo ci ha ammaestrati di questa consolantissima verità. Con le promesse da Lui fatte ai devoti del suo Cuore, egli in certo modo ha detto loro quel che un giorno il Signore disse a Mosè: Percuotete col vostro amore, con le vostre preghiere, con le vostre pratiche di pietà la pietra tenerissima del mio Cuore, ed uscirà da essa la grazia di ogni più eletta benedizione. Ed in vero, oltre ai vantaggi già così grandi, che in questa divozione abbiamo riconosciuto ieri, dobbiamo oggi riconoscerne altri più grandi ancora, espressi in queste altre magnifiche promesse di Gesù Cristo ai devoti del suo Cuore:

Darò grazie convenienti ai peccatori, ai tiepidi, ed ai fervorosi.

Sarò loro rifugio in vita e specialmente nell’ora della morte.

Scriverò i loro nomi nel mio Cuore, onde non saran mai più cancellati.

I. — Anima della vita umana è la speranza. Se la bella luce del sole cessasse di illuminare la terra, che abitiamo, ei sembra che in questo mondo non potremmo più vivere. Eppure noi vivremmo più facilmente senza la luce del sole, che non senza quella della speranza. Di tutti i bisogni nostri speranza è il più profondo, il più forte, il più costante, il più universale. Se la speranza non risplendesse sopra la culla del neonato, si maledirebbe alla sua venuta al mondo; se la speranza non ci sorreggesse negli anni giovanili, rifuggiremmo con orrore dall’entrare nella virilità: se la speranza non ci confortasse nelle sventure e sul declinar degli anni, si spezzerebbe senz’altro la catena insopportabile della vita. Insomma, tale è il bisogno della speranza che, piuttosto che non averne accettiamo persino il suo fantasma, quello che ci viene messo innanzi dall’illusione; e tanto la speranza fa parte essenziale della nostra vita terrena, che il luogo dove essa è irrevocabilmente sbandita, non è più terra, ma inferno. Ma se il bisogno della speranza provasi così grave in ogni circostanza della vita, vi ha un caso poi, nel quale provasi più grande che mai, quando cioè l’uomo ebbe la sventura di commettere un delitto. Allora questo solo può recargli conforto, la speranza di essere perdonato se non del tutto, almeno in parte, perché quando questa speranza non anima più un colpevole, egli allora abbandonandosi alla disperazione si sente il più infelice degli uomini. Eppure, o miei cari, è questa una terribile verità, che con l’esperienza della vita si apprende, che tra gli uomini cioè, per quanto vi siano delle tanto più nobili, tanto più rare eccezioni, pochi assai perdonano e perdonano assai poco. Ti si ha un bel dire, che sei stato perdonato di tutto, tu hai un bell’adoperarti a riparare la tua colpa, nell’agire dell’offeso o del rappresentante della legge offesa, ahi! Troppo facilmente tu tocchi con mano, che il tuo delitto non fudimenticato, ciò che ti costringe ad abbassare umiliata la fronte. Ma viva Dio! se tale è il cuor degli uomini, tale non è il Cuore di Gesù Cristo. Hai tu peccato? E chi è che non abbia peccato? Se noi, dice l’apostolo S. Giovanni, se noi dicessimo di non aver peccato, faremmo bugiardo Iddio stesso, il quale ha asserito, che perfino il giusto cade nella colpa: Si dixerimus quoniam non peccavimus, mendacem facimus eum. (I Jo. I, 10) E se tu hai peccato, certamente devi paventare la divina giustizia, come la paventarono i Santi dopo una lunghissima vita passata nelle più aspre penitenze. Ma per quanto tu abbia peccato, avessi pure commesse tutte le colpe del genere umano da che esso esiste e fino a quando esisterà, pentendoti sinceramente delle tue colpe, più ancora che paventare la divina giustizia, tu devi confidare nella divina misericordia, e ritenere che Iddio è pronto a perdonarti di tutto ed a cancellare interamente ogni tua iniquità. Sì, non solo tu puoi avere una tale speranza, ma la devi avere, perciocché Iddio nella sua infinita bontà è arrivato a tal punto da comandartela espressamente. Ma quanto più viva ancora, o povero peccatore, deve farsi in cuor tuo la speranza, se prendi ad essere devoto del Sacro Cuore di Gesù. A tutti gli altri motivi che valgono a vivificartela, questo si aggiunge della parola da Lui data: « I peccatori troveranno nel mio Cuore l’inesauribile sorgente delle misericordie. » Or dite, o miei cari, non è questo uno dei più consolanti vantaggi della divozione al Sacro Cuore di Gesù? Animo adunque, o poveri peccatori, oppressi dal pensiero delle vostre passate e numerose colpe, datevi alla devozione del Cuore di Gesù Cristo, e per essa aprite il vostro cuore alla più dolce speranza del perdono. L’Apostolo S. Pietro, vinto dal timore, rinnegò tre volte il suo divino Maestro nella notte della sua passione. Ma Gesù Cristo, passando vicino a lui, non fece altro che volgergli un’occhiata amorosa e compassionevole. E quell’occhiata bastò a cangiare gli occhi di Pietro in due fonti perenni di lagrime, sì che il pianto gli venne formando come due solchi sopra le guance. Ora, se anche voi avete rinnegato Gesù Cristo e invece di tre volte, ben anche tre milioni di volte, con la divozione al Sacro Cuore di Gesù mettetevi vicini a Lui, sì che Egli possa guardare ancor voi, e non dubitatene, lo sguardo di Gesù misericordioso opererà anche in voi lo stesso effetto che in S. Pietro, ed anche voi vi darete volentieri a versare lagrime per i vostri peccati, anche voi li andrete espiando e rendendovi sempre più sicuri di essere stati perdonati. – Ma supponiamo ora, che dopo d’avere pur troppo commessi dei gravi peccati, abbiamo vinta ogni difficoltà, ci siamo gettati con fiducia nel Cuore Santissimo di Gesù Cristo, e con una santa Confessione ne abbiamo ottenuto il perdono. Non potrebbe essere tuttavia, che ci fossimo intiepiditi assai dal primo fervore, che accompagnò la nostra conversione? E questo non sarebbe per noi un grave pericolo? Lo stato di tiepidezza è quello, in cui un’anima per tranquillizzarsi sulle colpe che commette, dice a sé medesima, che se non fa tutto il bene che dovrebbe fare, non fa neppure tanto male; che se trasgredisce certi suoi particolari doveri, non giunge però sino a violare i precetti di Dio, e che se non ha grandi virtù, non ha neppure alcun vizio. In altri termini la tiepidezza è un stato di determinazione nella condotta a trascorrere leggermente sulle colpe comuni ed ordinarie, a commetterle senza pena, a moltiplicarle senza rimorsi, a parlare senza circospezione, a mormorare senza scrupolo, a confessarsi senza emendazione, e comunicarsi senza fervore ed a non darsene pena, non si vede altro male che di non ricavarne alcun frutto. Or chi sa dire quanto dispiaccia a Dio? Lo ha dichiarato Egli medesimo nella maniera più formale. L’anima tiepida, Egli disse, gli diviene così insopportabile, che lo provoca ad una specie di vomito. Quia tepidus es… incipiam te evomere ex ore meo. (Ap. III, 16) Egli non la rigetta ancora, ma comincia a rigettarla, allontanandosi da essa. Dal che si vede che la tiepidezza è un principio di riprovazione, che è uno stato infinitamente pericoloso, dal quale perciò importa sommamente uscir fuori. Or bene, ecco un altro vantaggio della divozione al Sacro Cuore di Gesù: per questa divozione, come promise il divin Cuore, « le anime tiepide diventeranno ferventi. » Coraggio adunque, o povere anime, che vi siete intiepidite nella via del bene. Cominciate da parte vostra a pigliare i mezzi necessari per liberarvi dallo stato di tiepidezza, in cui siete cadute; e cioè considerate il vostro pericolo, ricercate le cause del vostro male, datevi una santa scossa e risolvete di combatterle col primiero fervore; e poi affidatevi al Cuore Santissimo di Gesù e ditegli ripetutamente con tutta fiducia: « O Cuore Santissimo, voi che siete onnipotente, ben potete mutarmi. Mutatemi adunque, e da trascurato e tiepido, quale io mi sono nel vostro divino servizio, rendetemi secondo la vostra promessa tutto sollecito e ardente. Questa è ora la grazia, che vi domando; fatemi tutto vostro, perché  non pensi più ad altro che a vivere per voi. » Ed il Cuore di Gesù non lascerà certamente di esaudire la vostra preghiera. Se non tutto ad un tratto, a poco a poco vi darà la forza di vincere i vostri mancamenti, a poco a poco rinnoverà il vostro cuore ed il vostro spirito, sicché possiate di nuovo riprendere slancio nella via della virtù e camminarvi a passi di gigante. Ma supponiamo in fine di essere per la grazia di Dio nel numero di quelle anime fortunate, che si chiamano giuste. Crediamo perciò di avere già sicura nelle mani la palma dell’eterno trionfo? Per tal guisa noi ci inganneremmo a partito. Fino a che ci rimane un fiato di vita noi corriamo pericolo di venir meno anche nella più elevata santità e perdere ad un tratto i meriti più abbondanti. Ci è indispensabile la perseveranza, perché solamente colui che avrà perseverato sino alla fine sarà salvo. Anzi non solo ci è necessaria la perseveranza nel bene, ma ci è d’uopo crescere in essa ogni giorno più. Il nostro morale perfezionamento è una legge espressa chiaramente nelle Sante Scritture: Chi è giusto, si faccia più giusto; chi è santo si faccia ancor più santo: Qui iustus est, iustificetur adhuc, et sanctus sanctificetur adhuc. (Ap. XX, 11) E la pratica di questa legge è necessaria al punto, che la sua inosservanza può condurre alla più fatale rovina, perciocché chi non attende a rendersi più virtuoso, non resta nello stesso grado di virtù, ma indietreggia spaventosamente nella via del vizio. Lo diceva già Salomone: Iustorum semita quasi lux erescit usque ad perfectum diem; via impiorum tenebrosa, nesciunt ubi corruant. Il cammino dei buoni si avanza sempre, come si avanza la luce dell’aurora sino al giorno perfetto; all’incontro la via dei tristi sempre più diventa ingombrata da tenebre, sino a che i miseri si riducono a camminare senza sapere dove vanno a precipitarsi. (Prov. IV, 18) Anche S. Agostino disse chiaro, che il non andare avanti nel cammino della virtù è la stessa cosa che tornare indietro. E S. Gregorio spiegò questa verità col dire che come chi stando nel fiume dentro d’una barchetta, e non curando di spingerla contro la corrente, necessariamente va indietro, dalla stessa corrente trascinato, così l’uomo dopo il peccato di Adamo, rimasta naturalmente fin dal suo nascere inclinato al male, se egli non si spinge avanti, e non si fa forza per rendersi migliore di quello che è, dalla stessa corrente delle sue concupiscenze sarà portato sempre indietro. Ed ecco perché si videro alle volte dei giusti, i quali arrivati quasi all’apice della santità, rallentatisi poscia nella via del bene, a poco a poco divennero pessimi sino ad essere lo scandalo altrui. – Or dunque come potremo facilmente perseverare e perfezionarci nel bene? Con la divozione al Sacro Cuore di Gesù! Questo Cuore, così ricco di bontà, dopo aver promessa la misericordia ai peccatori, che si vogliono convertire, dopo aver promesso il fervore alle anime tiepide, promise ancora il progresso alle anime ferventi: « Queste anime, Egli disse, faranno rapidi progressi nelle vie della perfezione. » Ecco adunque, anime giuste, dove voi pure dovete riporre ogni vostra fiducia. Gettatevi nel Cuore Santissimo di Gesù Cristo e racchiuse in questa arca benedetta non solo non patirete alcun danno per la vostra giustizia, ma la renderete ogni giorno più grande.

II. — Se non che, domanderete voi, in quale maniera il Sacratissimo Cuore di Gesù darà compimento a queste sue promesse, fatte a vantaggio dei giusti, dei tiepidi e dei peccatori, suoi devoti? Con l’adempierne un’altra, vi rispondo io, espressa in queste dolcissime parole: « Sarò loro rifugio in vita e specialmente nell’ora della morte. » – Pur troppo, ben giustamente la nostra vita fu chiamata una milizia: Militia est vita hominis. (Iob. VII, 1) Non appena noi siamo giunti all’età, in cui si può discernere il bene dal male, sentiamo farsi viva dentro di noi una lotta. La parte superiore di noi medesimi ci dice essere nostro dovere praticare esattamente quella santa legge, che Dio stesso ha inserito nel nostro cuore e ci ha manifestata con la sua rivelazione. La parte inferiore invece, la nostra carne, i nostri sensi fanno di tutto per ribellarci alla legge divina e trascinarci al peccato, sì che fin d’allora ciascuno di noi deve esclamare con l’Apostolo Paolo: Video aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ et captivantem me in lege peccati, quæ est in membris meis. (Rom. VII, 23) Veggo un’altra legge nelle mie membra che si oppone alla legge della mia mente, e mi fa schiavo della legge del peccato, la quale è nelle mie membra. Ma per più a questa guerra interiore un’altra esteriore si aggiungeda parte del demonio. Vedendo che noi siamo destinati a possedere quella gloria, di dove egli fu precipitato con tutti i suoi seguaci, invidioso della nostra sorte, s’adopera con ogni tensione a trascinar ancor noi nella sua rovina; e a guisa di leone ruggente sempre ne circonda, cercando di divorarci. E non basta ancora! quasi fossero poco gagliardi i suoi assalti,per meglio riuscire nel suo intento, ei si serve dell’opera del suo più fidato ministro, il mondo, che mettendoci innanzi la sua gloria, i suoi onori, le sue ricchezze, i suoi piaceri, tenta ancor esso di indurci al peccato. Oh noi infelici! E potremo noi, con le sole nostre forze, superare tutti questi nemici e riportare vittoria? No certamente; non ostante tutte le brame più gagliarde della nostra santificazione, da cui possiamo essere animati, il certo si è, che la nostra vita per se stessa è da capo a fondo un intreccio ed un abisso spaventoso di debolezze, di miserie, di infedeltà e di incostanza; e se nell’ora del pericolo non abbiamo un rifugio sicuro, ove ripararci, miseramente cadremo. Or ecco dove specialmente i devoti del Cuore di Gesù troveranno non solo il rifugio nei pericoli, mail rinforzo efficace alla loro debolezza, onde poterli superare: nella divozione a questo Cuore Sacratissimo. Esso, come dice S. Bernardo, è il tempio della divinità, l’arca della nuova alleanza, il Santuario delle grazie, dove noi troveremo il riparo ad ogni nostra infermità, lo scampo da tutti i rischi, la forza e la sicurezza del vincere tutti gli assalti nemici. Esso può ben paragonarsi a quella torre di David, edificata coi baluardi, e dalla quale pendevano mille scudi, possente armatura dei forti: Sicut turris David… quæ aedificata est cum propugnaculis, mille clypei pendent ex ea: omnis armatura fortium. (Cant. VI, 4). – Ed invero, ecco quello, che Santa Margherita, così addentro al Cuore di Gesù Cristo, ebbe a scrivere in proposito:« Il cuore di Gesù Cristo è un abisso, dove troverete tutto: è un abisso singolarmente di amore in cui dobbiamo oseppellire ogni amor nostro e in ispecie il nostro amore proprio con i suoi mali affetti, che sono il rispetto umano e il desiderio di innalzarci e contentarci. Se voi siete un abisso di privamento e di desolazione, il divin Cuore è un abisso di ogni consolazione, entro al quale fa d’uopo, che noi ci perdiamo. — Se voi siete un abisso di aridità e di impotenza, andate ad internarvi nel Cuore di Gesù, abisso di potenza e di amore. — Se siete in un abisso di povertà spirituale e spogliati di ogni bene, gettatevi nel Cuore di Gesù: Egli è pieno di tesori, se lo lasciate fare vi arricchirà. — Se siete in un abisso di debolezza, di ricadute, di miserie, andate spesso al Cuore di Gesù, Egli è un abisso di misericordia e di fortezza, Egli vi rialzerà e fortificherà. — Se provate in voi un abisso di superbia e di vana stima di voi stessi, affondatela subitamente nelle umiliazioni profonde del Cuore di Gesù, quel Cuore è l’abisso dell’umiltà. — Se vi trovate in un abisso di ignoranza e dite tenebre, il Cuor di Gesù è un abisso di sapienza e di luce; imparerete singolarmente ad amarlo e far quel solo, che da voi Egli brama. — Se siete un abisso di infedeltà e di incostanza, Gesù lo è di costanza e di fedeltà; inabissatevi in Lui. — Se vi trovate in un abisso di ingratitudine, di agitazione, d’impazienza, di collera, di dissipazione, di malinconia, di turbamento, di timore, di pene. Sempre rifugiatevi nel Cuore di Gesù, e per ogni cosa sprofondatevi in quell’oceano di carità, e non ne uscirete più senza essere stati compenetrati dal fuoco, di cui esso è acceso, come il ferro nella fornace o la spugna caduta in mare è inzuppata dalle sue acque. » Così Santa Margherita. Epperò animati da queste confortanti parole, di che avremo ancora a temere anche nei più furiosi assalti del demonio, del mondo, delle passioni, se noi saremo sinceramente devoti del Sacro Cuore di Gesù? Ah! dobbiamo ben confidare, che Egli sarà sempre il nostro rifugio e la nostra virtù: refugium et virtus; (Ps. XLV, 2) né solamente in vita, ma specialmente al punto di morte. – Allora, dice la sacra Scrittura, sapendo il demonio, che gli rimane poco tempo per fare contro di noi le sue prove estreme, dispiega contro di noi tutto quanto il suo furore. Ci mette innanzi la vista dei peccati commessi nella passata vita, ci presenta il rigore dell’imminente giudizio, e tutto tentando ed ingrossando, cerca di trascinarci nell’abisso della disperazionee dell’impenitenza finale. Ma allora che temeremo noi se siamo stati veri devoti del Sacro Cuore di Gesù? Ah! inq quel pericoloso momento, Egli non solo si farà a soccorrere i suoi devoti moribondi, ma verrà loro spontaneamente dappresso ad essere il loro scudo e ad assicurar loro la vittoria. Perciocché avendoci Gesù lasciato il Sacramento di amore, mentre per noi già si incamminava alla morte, ha pur voluto che questo cibo di fortezza, di gioia e di vita eterna, ci fosse apprestano, quando noi pure fossimo giunti al gran passaggio dell’eternità. Ed allora penetrato ancor una volta nel nostro cuore o non permetterà, che abbiamo ad essere tentati, facendoci godere la calma e la tranquillità più perfetta, o se permetterà a nostro maggior merito la tentazione, ci darà forza as superarla gloriosamente. Consoliamoci adunque, che per quanto sia formidabile il demonio e terribile il suo assalto in quell’ultimo istante della nostra vita, il Cuore di Gesù, terribilis ut castrorum acies ordinata, più terribile di un esercito schierato a battaglia, sarà dentro al nostro petto, e la potenza del solo suo Nome varrà a far fuggire il demonio e a renderci vittoriosi.Ma consoliamoci anche di più, perché non contento di ciò, il Cuore di Gesù in quegli angosciosi momenti allevierà i nostri dolori e renderà meno grave il nostro passo all’eternità. E chi ha letto lo vita di un S. Bernardo, di un S. Luigi Gonzaga, di un S. Filippo Neri, di un S. Stanislao Kostka, di un S. Francesco di Sales, di un S. Alfonso de’ Liguori e di tanti altri Santi, chi ha assistito alla morte di qualche amante di Gesù, non ha bisogno di prove; allora si è toccato con mano, che al devoto del Cuore di Gesù Cristo è veramente dolce il morire. Or dunque è possibile ancora che non si studi ognuno di professare verso il cuore di Gesù la più tenera devozione?Chi trovi grave il fare quegli ossequi che gli tornano tanto graditi: come ascriversi alle sue associazioni, frequentare i Sacramenti, visitarlo ne’ suoi altari, ripararlo degli oltraggiche riceve, portare indosso la sua medaglia o il suo abitino;mettere in onore la sua immagine, consacrargli il venerdìe simili? Ah! fosse pure, ciònon è, che ci riuscissero gravosi tali ossequi, pur tuttavia noi dovremmo compierli conslancio perché riusciamo così ad assicurarci la sua protezionein quel punto, da cui dipende l’eternità!

III. — Ma siano grazie infinite al Sacro Cuore di Gesù! Mediante la sua divozione non riusciremo soltanto ad ottener il suo rifugio in vita e in morte, ma, ciò che è il massimo di tutti i vantaggi, una caparra sicura dell’eterna felicità. Se vi ha cosa, della quale noi siamo nella massima incertezza, senza dubbio quello, che riguarda la nostra eterna destinazione. I giusti ed i saggi, ha detto l’Ecclesiaste, sono sotto l’ombra di Dio e riposano con le opere loro sotto le protezione della sua mano. Ma sebbene sia vero, certo e notissimo, che Egli ama i giusti, è pur sempre dubbioso ed incerto, se un uomo sia veramente giusto dinnanzi a Dio, e per conseguenza, egli sia degno del suo amore o del suo odio, essendo troppo imperscrutabile a se medesimo il cuor dell’uomo; tutto rimane all’oscuro sino al tempo avvenire, cioè sino alla morte, quando Iddio illuminerà le tenebre e manifesterà i consigli del cuore: Nescit homo utrum amore an odio dignus sit, sed omnia in futurum servantur incerta. (Eccl. IX, 1-2). Epperò i Santi medesimi vivono su questa terra, anche con tutte le loro orazioni con tutte le loro penitenze, con tutto i loro digiuni e con tutte loro sante opere, devono sempre ripetere coll’Apostolo Paolo: Nihil mihi conteius sum, sed non in hoc iustificatus sum: qui autem iudicat me Dominus est; (I Cor. IV, 4) quantunque la coscienza non mi riprenda di alcuna cosa, non per questo ho un’infallibile certezza di essere giusto, molte cose potendo esservi nascoste alla mia ignoranza, per le quali, anzi che giusto, io sia peccatore innanzi a Dio. Non quindi è da meravigliarsi, se S. Bernardo, che pure al punto di morte chiese perdono al suo corpo d’averlo troppo maltrattato, così di spesso col capo chino, con la fronte abbattuta, con gli occhi lacrimosi, si andasse interrogando: Che sarà di me? mi salverò io, o mi dannerò? Sarò io cittadino del cielo, o tizzone dell’inferno? – È bensì vero che la Chiesa, affidata al Vangelo di Gesù Cristo ed ai meriti suoi infiniti, ha giustamente condannati quegli eretici crudeli, i quali negando che Gesù Cristo sia morto per tutti, ed asserendo, che una parte degli uomini sono positivamente da Dio destinati a perire per sfoggio della sua giustizia, gettavano l’animo del Cristiano nella più terribile costernazione. È vero ancora, che lo spirito della Chiesa è affatto contrario a quelle esagerate declamazioni, con cui dalle stesse cattedre di verità, interpretando assai poco esattamente le sentenze del Vangelo, sembrano taluni compiacersi di spaventare le anime, riducendo al numero più scarso possibile coloro che si salveranno. Perciocché la Chiesa in una sua bellissima orazione così prega il Signore: « O Dio, al quale solo è conosciuto il numero degli eletti da porre nella superna felicità, ne concedi di grazia, che per intercessione di tutti i tuoi Santi, il libro della beata predestinazione ritenga ascritti i nomi di tutti coloro che prendemmo a raccomandare nella preghiera, e quelli altresì di tutti i fedeli. » Ma sebbene sia verissimo tutto ciò, non lascerà mai di essere della somma importanza la raccomandazione dell’apostolo Paolo: Operate la vostra salute con timore e tremore: Cum metu et tremore salutem vestram operamini; (Philipp, II, 12) e quell’altra del Principe degli Apostoli: Applicatevi con la maggior sollecitudine a rendere certa con le buone opere la vostra vocazione ed elezione: Magis satagite ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis. (II Petr. I, 10). Or bene, desideriamo noi pure, praticando queste raccomandazioni, di vivere con la minore ansietà e con la maggior certezza possibile intorno al nostro supremo destino? Siam devoti del Sacro Cuore di Gesù, e quanto possiamo, con le parole e con l’esempio, animiamo altri ancora a questa divozione, ed allora sarà anche per noi questa rassicurantissima parola di Gesù Cristo: «Di tutti coloro, che si adopereranno a propagare questa divozione, scriverò i nomi nel mio Cuore, donde non saranno giammai cancellati. » Oh promessa la più bella, la più magnifica, la più consolante di tutte! Avere il nome scritto nel Cuore di Gesù per modo che non si cancelli più mai, non vuol dire forse essere già così sicuro del paradiso, come se già si fosse in paradiso? Non vuol dire anzi per di più essere per tutta l’eternità i figliuoli prediletti del nostro celeste Padre? goderne le dolcissime preferenze? Ah! perché non mi è dato di scrivere queste dolcissime parole del Sacro Cuore di Gesù sulle mura di tutte le case, negli angoli di tutte le vie, sui frontoni di tutte le chiese, e più ancora nel cuore di tutti gli uomini? Deh! stampiamole almeno in tutte le anime nostre, e con queste parole in cuore, se finora non fummo devoti del Cuore di Gesù, facciamo di esserlo per l’avvenire; se già lo amavamo ed onoravamo, continuiamo a farlo con un fervore ognor più crescente. Imperciocché il Cuore Gesù è veramente il cuore più generoso e più fedele, e tutte quelle grazie temporali e spirituali, ch’Egli ha promesso ai suoi devoti, le riverserà copiose sopra di noi. Infelice pertanto chi non conosce un Cuore così ricco e così buono, o conoscendolo non gli professa tuttavia quella devozione che esso brama! Ma felicissimo invece colui, che conosce questo Cuore e lo ama, lo risarcisce, lo imita, lo consola! Nella sua divozione avrà trovato la pace e la gioia, qui in terra, ma più ancora la pace e la gioia, che non verran meno giammai lassù in cielo.

O Cuore Sacratissimo di Gesù, quale balsamo soave sono mai all’agitato nostro spirito questi cari riflessi! Noi siamo miseri e deboli, ma voi siete ricco e forte e lo siete per soccorrere alla miseria e alla debolezza dei vostri devoti. Noi siamo circondati da mille pericoli nel corso di nostra vita, ma voi siete infinitamente sollecito nello scamparcene. Noi tremiamo di spavento alla vista della nostra morte, ma voi ci ingenerate nell’animo la più viva fiducia di essere da Voi in quel terribile punto visitati e difesi. Noi raccapricciamo al pensiero dell’eterna nostra sorte, ma Voi ci assicurate, che, essendo veri vostri devoti, ci porterete scritti dentro di Voi stesso e non ne saremo mai più cancellati! Chi di noi adunque non vi onorerà, non vi amerà, non v i servirà, con tutte le sue forze? Ah Cuore dolcissimo, noi ci diamo interamente a Voi, noi siamo tutti vostri: lo siamo ora e vogliamo esserlo per sempre; noi vi onoreremo, vi ameremo, vi serviremo con tutte le nostre forze, e mercé questa sincera divozione confidiamo di essere veramente da Voi soccorsi nella nostra miseria, scampati dai tanti pericoli della nostra vita, confortati e difesi al punto della morte, assicurati di essere uniti a Voi in Cielo, a lodarvi e benedirvi per tutta l’eternità. Così sia.

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MARZO (2019)

CALENDARIO LITURGICO MARZO (2019)

MARZO È IL MESE CHE LA CHIESA  DEDICA A SAN GIUSEPPE, SUO PROTETTORE

La Chiesa pertanto …  che ha fatto ella? Dopo di essersi nel corso dei secoli affidata al patrocinio della Beatissima Vergine, e continuando tuttora ad affidarvisi, in questi ultimi tempi si è pure particolarmente affidata al patrocinio di S. Giuseppe, dichiarando questo gran Santo, Patrono della Chiesa Cattolica, cioè universale … « Ecco il servo fedele e prudente, che il Signore stabilì sopra la sua famiglia; doveva ancor essere costituito sulla universale famiglia di Dio; e poiché fu trovato così sufficiente all’opera tanto eccelsa del custodire la divina famiglia, così doveva essere più che mai sufficiente alla custodia e patrocinio di tutto il mondo; perciocché chi fu bastevole al più, molto meglio è da credersi bastevole al meno …

… Il Pontefice dell’Immacolata e del Sacro Cuore di Gesù, il Papa dal cuore vasto come il mare, assecondando le suppliche ed i voti dei Vescovi e dei fedeli di pressoché tutto il mondo, per organo della S. Congregazione dei Riti proclamava di fatto S. Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica altro non faceva che assegnare ed assicurare a S. Giuseppe la gloria di quel terzo titolo, che giustamente gli competeva insieme con gli altri due di Sposo purissimo di Maria e di Padre putativo di Gesù. Perciocché lo stesso grande Pontefice prima ancora di aver promulgato un tanto oracolo, già alcun tempo innanzi aveva detto con gioia: Mi consola, che i due sostegni della Chiesa nascente, Maria e Giuseppe, riprendano nei cuori cristiani quel posto, che non avrebbero dovuto perdere giammai ». [A. CARMAGNOLA, S. Giuseppe; Tipogr. e libr. salesiana, Torino, 1896]

Ench. Indulg. N. 469:

Ai fedeli che davanti ad un’immagine di San Giuseppe, reciteranno devotamente un Pater, Ave, e Gloria con l’invocazione: Sancte Joseph, ora pro nobis, si concede:

Indulgentia trecentorum dierum:

Indulgentia Plenaria s. c. a coloro che avranno piamente perseverato nella recita, ogni giorno per un intero mese (S. Pænit. Ap., 12 oct. 1936).

Ench. Indulg. N. 466:

ai fedeli che nel mese di MARZO, o per giusto impedimento in altro mese dell’anno, praticheranno devotamente in pubblico, un pio esercizio in onore di San Giuseppe, Sposo della B. V. M., si concede:

Indulgenza di sette anni per ogni giorno del mese;

Indulgentia Plenaria, se praticato per almeno 10 volte nel mese, a coloro che, confessati e comunicati, pregheranno per le intenzioni del Sommo Pontefice.

Se poi nel mese di marzo, sarà praticata privatamente una preghiera o altra opera di pietà in ossequio a San Giuseppe Sposo della B. M. V., si concede:

Indulgentia di 5 anni ogni volta in ogni giorno del mese;

Indulgentia Plenaria, s. c. se si pratica per un mese (S. C. Indulg. 27 Apr. 1865; S. Pæn. Ap., 21 Nov. 1933)

Ench. Indulg. N. 467

Ai fedeli che praticheranno pubblicamente il pio esercizio della novena in suo onore, prima della festa di San Giuseppe, Sposo di B. M. V. si concede:

Indulgenza sette anni per ogni giorno della novena;

Indulgenza Plenaria, se confessati sacramentalmente, comunicati e pregando per le intenzioni del Sommo Pontefice, sarà praticato per almeno cinque giorni durante la novena. Se praticato privatamente, si concede:

Indulgenza di cinque anni per ogni giorno della novena;

Indulgenza Plenaria, suet. cond. al termine della novena, a chi sia legittimamente impedito al pubblico esercizio.  (S. C. Ind. 26 nov. 1876; S. Pænit. Ap., 4 Mart. 1935).

Ecco le feste del mese di MARZO 2019

1 Marzo 1° Venerdì

2 Marzo Sanctae Mariae Sabbato    Simplex

3 Marzo Domenica in Quinquagesima Semiduplex II. classis

4 Marzo S. Casimiri Confessoris    Duplex *L1*

6 Marzo Feria IV Cinerum    Duplex I. classis

7 Marzo S. Thomæ de Aquino Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

8 Marzo S. Joannis de Deo Confessoris    Duplex

9 Marzo S. Franciscæ Romanæ Viduæ    Duplex

10 Marzo Dominica I in Quadr.    Semiduplex I classis

12 Marzo S. Gregorii Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

13 Marzo Feria Quarta Quattuor Temporum Quadragesimæ    Semiduplex

15 Marzo Feria Sexta Quattuor Temporum Quadragesimæ    Semiduplex


16 Marzo Sabbato Quattuor Temporum Quadragesimæ    Semiduplex

17 Marzo Dominica II in Quadr.    Semiduplex I. classis

18 Marzo S. Cyrilli Episcopi Hierosolymitani Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

19 Marzo S. Joseph Sponsi B.M.V. Confessoris    Duplex I. classis *L1*

21 Marzo S. Benedicti Abbatis    Duplex majus *L1*

24 Marzo Dominica III in Quadr.    Semiduplex I. classis

25 Marzo In Annuntiatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. classis *L1*

27 Marzo S. Joannis Damasceni

28 Marzo S. Joannis a Capistrano Confessoris    Feria

31 Marzo Dominica IV in Quadr.    Semiduplex I. classis

CONOSCERE SAN PAOLO (49)

CONOSCERE SAN PAOLO (49)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

II. PRECETTI DI MORALE SOCIALE.

1. IL CRISTIANO E L’AUTORITÀ CIVILE. — 2. LA FAMIGLIA CRISTIANA. — 3. IL MATRIMONIO CRISTIANO.

1. La rigenerazione battesimale è una seconda nascita che rende i Cristiani uguali e Uberi: « Voi tutti che foste battezzati nel Cristo, avete rivestito il Cristo: non più Giudeo né Greco; non più schiavo né libero; poiché tutti siete uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 27-28) ». Le differenze di nazionalità, di condizione, di sesso, non contano più; esse scompaiono dinanzi a questa unità superiore che le concilia; esse sono in qualche modo assorbite dalla nuova forma specifica che il neofito riveste, la quale altro non è che il Cristo: questo per l’uguaglianza. La libertà cristiana nasce dai medesimi principi. Liberato dal Cristo, il Cristiano non appartiene più ad altri che al Cristo; la libertà ricevuta nel Battesimo è inalienabile: « Il Cristo vi ha concessa la Libertà; dunque tenete fermo e non ricadete sotto il giogo della schiavitù (Gal. V, 1) ». Si tratta del giogo della Legge; ma il valore dei principio è generale: « Voi foste riscattati con un (gran) prezzo; non diventate schiavi degli uomini (I Cor. VII, 23)». Si può pensare quale abuso potessero fare di queste massime gli spiriti mal disposti; e san Paolo e san Pietro dovettero egualmente protestare contro. i falsi interpreti del loro pensiero: Voi siete liberi, dice l’uno, ma siete anche i servi di Dio; non fate della libertà una maschera per coprire l a vostra malizia (I Piet. II, 16). « Voi foste chiamati alla libertà, dice l’altro; però la libertà non sia una scusa alla carne (Gal. V, 13) ». Non dovete pensare di essere esenti dai vincoli di subordinazione e di dipendenza, da impegni e da contratti, da relazioni stabilite dalla natura o create da un fatto contingente. L’eguaglianza cristiana consiste in questo, che sotto l’aspetto religioso tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, dipendono dallo stesso giudice supremo, trattano direttamente col medesimo Dio. Se la libertà cristiana libera dalla schiavitù del peccato e della Legge antica, non sopprime affatto le relazioni gerarchiche della società e della famiglia. La stessa fraternità, la nota più caratteristica dei cristiani, la quale si direbbe che abbia soltanto da portare privilegi, impone anch’essa dei doveri: la tolleranza vicendevole, l’obbligo di evitare lo scandalo. Così i doveri sociali del Cristiano sono in ragione diretta con i suoi diritti. La parola di Gesù: « Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio » ha una forma così incisiva, che si era dovuta scolpire profondamente nella memoria di tutti. Era tuttavia opportuno inculcare questo dovere e farne vedere la ragione di essere, e questo fa san Paolo nel capo XIII dell’Epistola ai Romani. – “Ogni anima si sottometta alle autorità superiori; poiché non vi è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono ordinate da Dio, di modo che resistendo a loro si resiste all’ordine di Dio stesso e quelli che resistono si attireranno una (giusta) condanna. Poiché i magistrati non sono da temere per le buone azioni, ma per le cattive. Vuoi tu non temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode; perché il principe è per te il ministro di Dio per il bene. Ma se fai il male temi; perché non invano egli porta la spada, essendo ministro di Dio per punire nella sua collera colui che fa il male. Bisogna dunque obbedire non soltanto per causa della collera, ma anche per causa della coscienza. Per questo pure voi pagate i tributi; poiché i magistrati sono ministri di Dio che compiono con zelo questo uffizio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi è dovuta l’imposta, l’imposta;  a chi il tributo, il tributo; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore”. – Molto si è discusso sul motivo che poté provocare queste raccomandazioni. Siccome gli Ebrei di Roma erano famosi per la loro turbolenza, e la liceità dell’imposta pagata agli stranieri era una questione scottante nei centri ebrei, si è supposto che i neofiti si fossero lasciati guadagnare dalle idee rivoluzionarie dei palestinesi. Ma né Svetonio né Arriano non ci lasciano capire che la turbolenza degli Ebrei di Roma avesse di mira ipoteri stabiliti; anzi gli Ebrei della Diaspora, ben lungi dal rivendicare l’indipendenza in nome del principio teocratico, come gli Zeloti della Palestina, si vantavano invece della loro fedeltà e della loro legalità: l’impero non ebbe mai sudditi più sottomessi. E poi l’elemento ebreo entrava in piccola parte nella composizione della Chiesa romana. Non è dunque il caso di cercare un motivo speciale in questo insegnamento dell’Apostolo il quale sembra adoperare a bella posta i termini più generici « ogni anima, il potere, le autorità superiori, i magistrati », evitando qualunque allusione a circostanze locali. Noi ci troviamo dunque dinanzi ad un regolamento teorico su l’atteggiamento dei Cristiani verso il potere civile. Paolo formula queste tre proposizioni: Per diritto e per principio ogni potere viene da Dio. — In fatto e in pratica, il potere stabilito deriva da Dio. — Anzi, il potere si esercita in nome di Dio. Le due prime proposizioni erano quasi assiomi per gli Ebrei contemporanei; perciò l’Apostolo si limita a enunziarle, distinguendole come conviene, e aggiungendovi questa conseguenza evidente, che resistere al potere stabilito da Dio è resistere all’ordine di Dio medesimo (Rom. XIII, 1-2). Egli insiste di più sopra la terza. Il principe è il « ministro di Dio » (διάκονος = diakonos), il luogotenente di Dio » (λειτουργός = leiturgos) per promuovere il bene della società; particolarmente per lodare ericompensare ibuoni cittadini, per incutere timore ai cattivi eper punirli. Se cinge la spada, questo fa in nome di Dio; se vendica il male, questo fa in nome di Dio. « Bisogna dunque obbedirgli, non solo per il castigo » da evitare, « ma anche per ragione di coscienza »; perché la collera di cui minaccia il ribelle è giusta e sancita da Dio. Per motivo pure di coscienza si devono pagare le imposte: nell’esigerle, il sovrano è sempre il ministro di Dio, preposto a tale uffizio per la difesa ed il buon ordine della società di cui ha la custodia (Rom. XIII, 3-6). – La parola che riassume tutto: « Rendete a ciascuno quello che gli è dovuto », dimostra che non si tratta di un semplice consiglio, ma di un vero obbligo. Nel tempo in cui san Paolo scriveva queste parole, l’autorità imperiale si mostrava dovunque nella sua luce più favorevole; ancora durava il famoso quinquennio di Nerone; il mondo era governato da saggi e da filosofi; nonostante gli abusi, le vessazioni, le esazioni di alcuni dei suoi delegati, Roma simboleggiava, nelle province, l’ordine, la giustizia, la libertà, e Paolo aveva quasi sempre avuto da lodarsi dei magistrati incontrati sui suoi passi. Ma quando mutarono le disposizioni del potere verso la Chiesa, l’insegnamento della Chiesa non mutò affatto: appunto allora Paolo ordinava a Timoteo di far pregare « per i re e per tutti quelli che hanno il potere (I Tim. II, 1-2)», e prescriveva a Tito di predicare la sottomissione e l’obbedienza ai poteri costituiti (Tit. III, 1). Appunto allora Pietro scriveva: « Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per il Signore; sia al re come a chi ha l’autorità suprema, sia ai governatori che sono da Lui delegati per punire i cattivi e per lodare ibuoni. Poiché tale è la volontà di Dio (I Piet. II, 13-17) ». Un commentatore moderno ha scoperto tra idue Apostoli questo curioso contrasto: Pietro sarebbe repubblicano, e Paolo monarchico! Il cittadino romano sarebbe imperialista in politica come in teologia, l’Ebreo invece della Galilea avrebbe le tendenze rivoluzionarie dei suoi compatriotti (Bigg. The Epis. Of St. Peter, edimbur. 1901). Per un commentatore critico, qui vi è  troppa fantasia. Si potrebbe egualmente sostenere il paradosso contrario; san Pietro infatti parla del « re » (nome dell’imperatore romano in Oriente) e dei suoi delegati, propretori o proconsoli, mentre san Paolo, per rendere il suo insegnamento indipendente dai tempi e dai luoghi, si astiene dal fare designazioni speciali. Una differenza meno illusoria è questa, che san Paolo, con un’eccezione quasi unica, qui sta costantemente sul terreno del diritto naturale e traccia ai fedeli il loro dovere in quanto sono cittadini e uomini, mentre invece il suo collega, mettendosi sul terreno del diritto cristiano, fa appello alla volontà di Dio e all’ordine del Signore. L’obbedienza alla legge civile ha per limite la legge divina; ma non conveniva presentare l’ipotesi di un conflitto tra la legge di Dio e la legge dell’uomo. Presentandosene il caso, i fedeli avevano per guida il precetto evangelico (Matt. XXII21; marc. XII, 17; Luc. XX, 25); la ragione diceva loro che l’autorità superiore deve essere preferita; la condotta degli Apostoli dinanzi al sinedrio, dettava loro la risposta da fare. Ma lasciando da parte questa eccezione che del resto non deroga affatto al principio generale di obbedire all’autorità, i Cristiani dei primi secoli si segnalarono sempre per la loro sottomissione. La loro deferenza verso i pubblici poteri fu il trionfo degli apologisti e la confutazione perentoria delle calunnie popolari circa una pretesa ostilità dei Cristiani contro le istituzioni imperiali. San Clemente di Roma, san Policarpo, san Giustino, Tertulliano ed Origene, per non citarne altri, c’insegnano con quanto zelo la Chiesa nascente si conformasse alle istruzioni di san Paolo. Se, fin tanto che l’impero rimase pagano, essa non favorì la partecipazione dei suoi membri alle funzioni pubbliche e soprattutto non fu mai favorevole alla professione militare, era perché tali impieghi, che erano del resto facoltativi, esponevano quasi sempre il neofito ad atti d’idolatria e lo mettevano sovente nell’alternativa di scegliere tra l’apostasia ed il martirio. Non dobbiamo poi neppure dimenticare che la Chiesa, fino dalla sua origine, ebbe coscienza di essere una società distinta, investita dal suo divino Fondatore, del potere di governarsi e di perpetuarsi. Su tale principio san Paolo giudica e punisce iCristiani scandalosi e biasima con tanta energia il ricorso aitribunali profani (I Cor. VI, 1-6).

2. Dio è Autore della famiglia come è Autore della società; ma nella famiglia cristiana Egli è il prototipo del padrone, del padre, dello sposo, mentre il servo, il figlio e la sposa hanno la Chiesa come simbolo e come modello. Il Cristianesimo non scioglie i matrimoni, ma li consolida col santificarli; non rallenta i vincoli naturali tra padri e figli, ma li sancisce e li restringe; esso rispetta le relazioni legittime tra padroni e schiavi, ma le soprannaturalizza. Il gran principio inculcato da san Paolo ai suoi neofiti, è di non mutare le condizioni esterne della loro vita, purché si possano mettere d’accordo con i precetti del Vangelo. La sua parola d’ordine e la sua consegna è questa: svestirsi del vizio per rivestirsi di Gesù Cristo, ma restare al posto assegnato dalla Provvidenza (I Cor. VII, 20). Questa raccomandazione riguardava soprattutto gli schiavi che accorrevano in folla tra le braccia aperte della Chiesa. Voi non dovete più inquietarvi del vostro stato, dice loro l’Apostolo; nel Cristo, voi siete i fratelli degli uomini liberi, ed uguali a loro; serviteli per amore di Gesù Cristo, senza asservirvi moralmente a loro. Con mano ferma egli indica ai padroni e agli schiavi i loro doveri reciproci (Gal. III, 22-25). Gli schiavi devono « obbedire ai loro padroni secondo la carne, in tutto ciò che non è contrario alla legge di Dio; devono farlo con un sentimento di timore ispirato dal timore del Signore, e non per paura dei castighi; « nella semplicità del cuore », senza ipocrisia e senza finzione; « dal fondo dell’anima », con spirito di fede e per un motivo soprannaturale; per piacere a Dio e non per adulare il padrone spiegando uno zelo maggiore in loro presenza. Essi devono rianimare la loro obbedienza con la prospettiva della ricompensa futura, e pensare che si tratta di giustizia, che la loro coscienza ne è impegnata, e che essi dovranno rendere conto della loro condotta al tribunale del Giudice supremo. Alla loro volta i padroni cristiani devono « osservare verso i loro schiavi il diritto » scritto e naturale; oltre lo stretto diritto, devono applicare le regole dell’equità »; astenersi da « quelle minacce » orribili e avvilenti di cui i pagani erano così larghi; finalmente ricordarsi del comune Padrone e del comune Giudice che non fa accettazione di persone (Col. IV, 1). Ecco il codice che deve d’allora innanzi regolare le relazioni tra padroni e schiavi. Ma quando l’Apostolo dimenticando il suo compito di legislatore, parla da consigliere e da padre, il suo cuore gli detta, in favore dello schiavo Onesimo, parole sublimemente patetiche e d’incomparabile tenerezza: il mondo non aveva mai udito una simile lezione di fratellanza. La posizione degli schiavi Cristiani presso un padrone pagano poteva diventare quasi intollerabile. San Paolo non si limita, come san Pietro (I Piet. II, 18), a ricordare loro che ne avranno maggior merito presso Dio. Tito è incaricato di ingiungere a quei neofiti « di essere sottomessi ai loro padroni, di compiacerli in tutto, senza contraddirli, senza danneggiarli in nulla, ma mostrando loro una perfetta fedeltà, per onorare in tutte le cose la dottrina di Dio nostro Salvatore (Tit. II, 9-10) ». I poveri schiavi sono trasformati in Apostoli; con la loro pazienza e la loro sommissione a tutte le prove, diventano i predicatori muti della fede. Chi potrebbe dire quanti furono guadagnati alla Chiesa nascente dall’eroismo degli schiavi Cristiani? Tuttavia certi schiavi, meno imbevuti dello spirito cristiano, erano più solleciti dei loro diritti che non dei loro doveri; alcuni servivano i pagani con mal garbo, credendo di fare loro troppo onore, e davano così occasione di bestemmiare il nome del vero Dio e di calunniare il Vangelo. Altri erano negligenti nel servizio dei loro padroni Cristiani appunto perché erano Cristiani; ma questo, dice loro l’Apostolo, è pagare con l’ingratitudine la dolcezza e la benignità dei vostri benefattori (I Tim. VI, 1). Intorno ai doveri reciproci dei genitori e dei figli non v i era molto da insistere. Se gli Ebrei, con una casistica perversa, eludevano talora il quarto precetto del Decalogo (Matt. XV, 3-6), non potevano però ignorarlo; ed i Gentili, quando mancavano all’obbedienza ed al rispetto verso i genitori, non potevano sfuggire al rimprovero della loro coscienza (Rom. I, 30). Perciò san Paolo è brevissimo su questo punto: «Figliuoli, obbedite in tutto ai vostri genitori, perché questo è gradito a Dio. Genitori, non irritate i vostri figli, affinché non si scoraggino (Col. III, 20) ». Nel rivolgersi a i figli, fa astrazione dal caso eccezionale e quasi impossibile, che genitori Cristiani comandino qualche cosa di contrario alla legge di ina. Nel passo parallelo, è citato il precetto del Decalogo, ma non tanto per dare maggiore autorità alle sue parole, quanto piuttosto per la promessa con cui lo accompagna il legislatore ebreo. Non era necessario comandare ai genitori l’amore dei figli, essendo questo un sentimento che la natura imprime nel loro cuore; bastava ricordare loro l’obbligo di educarli come si conviene a Cristiani (Col. III, 21). Tuttavia la fortezza non deve degenerare in asprezza, né la fermezza in rigore: un’educazione alla spartana non piace a san Paolo. Egli non vuole che si rendano pusillanimi i figliuoli con la troppa esigenza: soffocando in loro la spontaneità, la confidenza e l’abbandono, con una severità intempestiva, vi si fa nascere la dissimulazione, il timore servile e la falsità. – Non è possibile offrire agli sposi un ideale più nobile di quello che loro propone san Paolo. Egli aveva scritto ai Colossesi: « Donne, obbedite ai vostri mariti come si conviene, nel Cristo. E voi, mariti, amate le vostre spose e non mostrate loro nessuna amarezza (Col. III, 18-19) ». Se si fosse limitato a questo laconico precetto, nessuno mai ne avrebbe indovinata la ragione profonda; ma per fortuna egli stesso si commenta nell’pistola agli Efesini: « Donne, state sottomesse ai vostri mariti come al Signore; poiché il marito è il capo della moglie come il Cristo è il capo della Chiesa, (che è) il suo corpo di cui Egli è il salvatore. Come la Chiesa è soggetta al Cristo, così devono le donne stare soggette ai loro mariti in ogni cosa. Mariti, amate le vostre mogli, come il Cristo amò la Chiesa e si diede per lei, per santificarla, avendola purificata con l’acqua battesimale, nella parola, per condurla dinanzi a sé, questa Chiesa, gloriosa, santa e immacolata, senza macchia né ruga né altro di simile (Ephes. V, 22-28)». I doveri della moglie si riassumono nella sommissione ispirata da un motivo soprannaturale. L’obbligo del marito comprende l’amore, la devozione e la sollecitudine continua di assicurare la felicità della sua compagna, a imitazione del Cristo che s’immola per la sua Chiesa. Modello sublime per entrambi gli sposi cristiani! L’Antico Testamento si serviva volentieri dell’allegoria del matrimonio per rendere sensibile l’unione intima, unica nel suo genere, che vi era tra Jehovah e il suo popolo eletto; san Paolo invece vuole che l’unione ancora più stretta del Cristo con la sua Chiesa serva di regola e di misura all’intimità del vincolo coniugale.

3. La rivelazione di giustizia e di perfezione che il Cristianesimo portava al mondo e che doveva metterlo in rivoluzione, non appare in nessun luogo con maggiore splendore, che nel nuovo concetto del matrimonio. La mostrano fin da principio quattro progressi i quali non mancheranno di influire sui mutui rapporti dei coniugi: l’unità, l’indissolubilità, l’uguaglianza dei diritti e la santità. Sotto l’influenza della legislazione romana che la proscriveva, la poligamia tendeva allora a scomparire; è però troppo il dire che in quei tempi non si faceva più questione di bigamia né di poligamia tra i veri Ebrei ». Né il Talmud né il Vangelo ci hanno conservato il ricordo di quei veri Ebrei che si sarebbero fatto scrupolo di valersi della tolleranza legale. Giuseppe riferisce minutamente le disposizioni mosaiche senza accennare che fossero cadute in disuso e senza sentire il bisogno di farne una difesa. Pare anche che non si sia fatto un rimprovero speciale ad Erode che aveva contemporaneamente nove mogli. In realtà, per gli Ebrei di allora, come per i musulmani dei nostri giorni, la pluralità delle mogli, pure essendo lecita, era un lusso che soltanto i ricchi si potevano permettere. Essa era invece opposta ai principi del Cristianesimo: Gesù l’aveva abolita ricordando che, nei disegni del Creatore, l’uomo e la donna erano destinati a diventare una sola carne (Marc. X, 8).Questa unione così intima escludeva ogni divisione; ed il significato simbolico del matrimonio cristiano che rappresenta l’unione della Chiesa e del Cristo, la escludeva ancora di più. – Pertanto la storia ecclesiastica non presenta neppure un esempio di bigamia ufficialmente tollerata; bisognò arrivare alla Riforma del secolo XVI per vedere sanzionato tale mostruoso abuso. Neppure la dottrina dell’indissolubilità non è una specialità di san Paolo, come non è la dottrina dell’unità del matrimonio: egli altro non fa che promulgarla nel nome del Signore (I Cor. VII, 10);ma forse egli la insegna più chiaramente che gli stessi evangelisti; infatti al coniuge separato dall’altro per qualsiasi ragione, egli lascia soltanto questa alternativa: o riconciliarsi, o rinunziare ad altre nozze (I Cor. VII, 11), il che suppone, in ogni ipotesi, che il primo matrimonio dura. L’eccezione che egli sembra fare nel caso detto « privilegio paolino » non è una vera eccezione, poiché non si tratta del matrimonio cristiano (I Cor. VII, 12-16). Più caratteristico è l’insegnamento che si riferisce all’uguaglianza dei diritti tra gli sposi. Non si tratta di una eguaglianza assoluta che distruggerebbe la subordinazione essenziale all’unione coniugale: il rapporto tra la testa e il corpo è un rapporto di disuguaglianza (I Cor. XI, XI, 3). La soggezione naturale della donna all’uomo, soggezione simboleggiata dal velo, appare in diverse maniere nel racconto della creazione (I Cor. XI, 5-10). Non fu tratto l’uomo dalla donna, ma la donna dall’uomo (I Cor. XI, 8); l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo (I Cor. VII, 9); la donna è il riflesso dell’uomo, come l’uomo è il riflesso di Dio (ivi, 7). Si può stabilire questa gradazione ascendente: la donna, l’uomo, il Cristo, Dio (ivi, 3). Aggiungiamo ancora, per seguire san Paolo fine alla fine, che l’uomo fu creato per il primo e che fu sedotto dopo la donna (I Tim. II, 13-14). Vi sono però dei compensi: se la donna ha bisogno dell’uomo, anche l’uomo ha bisogno della donna, e se la prima donna fu tratta dall’uomo, ora l’uomo nasce dalla donna (I Cor. XI, 11-12). Ma i diritti e i doveri coniugali sono i medesimi; il privilegio paolinoriguarda qualunque sposo convertito, così l’uomo come la donna (I Cor. ,VII, 12-13); e i due coniugi sono egualmente tenuti a conservare la stabilità della famiglia cristiana, benché la formola che enunzia questo dovere insinui con delicatezza la subordinazione della donna (I Cor. Ivi, 11). Il capolavoro morale del Cristianesimo sta nell’aver santificato il matrimonio. Il dovere coniugale è pienamente lecito — ed è questa la dottrina di san Paolo — ed il solo nome di dovere ne dimostrerebbe la liceità (ivi, 3). Se il matrimonio in sé è buono come istituzione divina, il matrimonio cristiano è santo come segno sensibile di una cosa santa. Certamente la verginità è migliore (ivi, 1); ma è una grazia che Paolo è lieto di aver ricevuta, che augura agli altri fedeli (ivi, 7), ma che non impone a nessuno. Non soltanto la verginità è migliore, ma è preferibile anche la vedovanza (ivi, 40): le seconde nozze fermano il candidato alle soglie del chiericato (I Tim. III, ; Tit. I, 6). Vi sono tuttavia dei casi in cui il matrimonio e le seconde nozze sono consigliabili: tutto dipende dalle circostanze e dalle persone; purché non vi sia, naturalmente, qualche impegno precedente, poiché è delitto mancare alla fede giurata (I Tim. V, 11-12). È tale la santità del vincolo coniugale, che nei matrimoni misti essa si riversa sul coniuge pagano e sui figli nati da questa unione (I Cor. VII, 14). Il matrimonio cristiano prepara reclute al Battesimo e candidati per il cielo. L’Apostolo incorona il suo insegnamento con queste consolanti parole: « La donna sarà salva diventando madre — per il fatto che diventa madre (διὰ τεκνογονίας = dia tecnokonias)— purché perseveri nella fede, nella carità e nella santità, congiunte con la modestia (I Tim. II, 15) ».

CONOSCERE SAN PAOLO (48)

CONOSCERE SAN PAOLO (48)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

I. I PRINCIPI DELLA MORALE.

1  — FONDAMENTI DELLA MORALE CRISTIANA. — 2. L A VOLONTÀ DI DIO. — 3. LA RIGENERAZIONE BATTESIMALE. — 4. RELAZIONI NUOVE.

1. Invece di svolgersi in periodi lunghissimi, intralciati da incisi e da congiunzioni causali, ripieni di digressioni e di parentesi che non danno tregua alla mente e all’occhio, come sono le parti dommatiche, le sezioni morali delle lettere di Paolo, tagliate, sminuzzate in brevissimi incisi, trascorrono per lo più come una monotona litania senza nesso apparente, senza legami grammaticali, senza una relazione con l’idea principale. Non vi è nulla di più sconcertante che tale contrasto. Il lettore si sente talora respingere da quella parenesi scucita che si direbbe fuori proposito e che pare adatta a tutte le situazioni ed a qualunque destinatario. Se la morale delle due Epistole agli Efesini ed ai Colossesi forma un piccolo codice familiare abbastanza ordinato, se quella dell’Epistola ai Romani riassume i principali doveri dei cittadini verso l’autorità e verso i loro simili, non si vede perché l’Apostolo le metta in queste lettere piuttosto che nelle altre. Soltanto nell’Epistola ai Galati la morale scaturisce dal dogma; ma anche qui non vi è nulla che ricordi l’arte perfetta dell’Epistola agli Ebrei, dove il dogma e la morale si fondono armonicamente. Quasi sempre troviamo delle litanie di consigli e di precetti come questi:

Riprendete gl’indisciplinati;

incoraggiate i pusillanimi;

sostenete i deboli;

siate sempre tolleranti con tutti

Non estinguete lo spirito;

non disprezzate le profezie;

provate tutto, attaccatevi al bene;

evitate ogni apparenza di male

(I Tess. V, 14; 19-221).

Questo fenomeno non è affatto speciale delle lettere minori, e anche le maggiori ce ne danno molti esempi:

Dare l’elemosina con semplicità,

aiutare gli altri con sollecitudine,

fare misericordia con allegrezza.

Carità senza ipocrisia.

Abborrite il male, attaccatevi al bene…

Allegri per la speranza,

pazienti nella tribolazione,

perseveranti nella preghiera.,

provvedendo alle necessità dei santi,

praticando l’ospitalità.

Benedite i vostri persecutori;

benedite e non vogliate maledire.

Rallegrarsi con quelli che sono nella gioia,

piangere con quelli che piangono

(Rom. XII, 8-15).

In questa lunga serie di frasi senza nesso grammaticale e senza unità logica, è difficile scorgere un principio direttivo d’insegnamento morale. Ecco precisamente il punto delicato — stavo per dire il punto debole — della morale di Paolo: dopo che ha fatto tabula rasa della Legge mosaica, non dice mai chiaramente con che cosa intenda sostituirla. La Legge di Mosè è abolita per sempre: il Cristo ne è il fine, lo scopo al quale essa certamente tende, ma ne è anche il limite dove essa spira (Rom. X, 4). Il codice del Sinai è stato lacerato, inchiodato sopra la croce (Ephes. II, 15; Col. II, 14). — I cristiani sono morti alla Legge, e la Legge per loro è morta (Rom. VII, 4, 6; Gal. II, 19; Col. II, 20). Figli della donna libera, e non della schiava, essi hanno il diritto e il dovere di perseverare nella libertà che Gesù Cristo ha loro acquistata (Gal. IV, 21, 31; V, 1). Nel vedere Paolo che si accanisce a distruggere tutto l’edificio della legge antica, senza che sembri darsi pensiero di ricostruirlo, si domanda con inquietudine dove mai si fermerà tale opera di demolizione e su quale base poggerà l’obbligazione della nuova economia. Poiché la distinzione immaginata da certi esegeti, tra la legge morale e la legge cerimoniale, delle quali l’una sopravviverebbe e continuerebbe a servire di norma, mentre l’altra sarebbe colpita di morte dal Cristo che essa per la prima avrebbe ucciso, tale distinzione sottile è sconosciuta all’Apostolo. Per lui il codice del Sinai è indivisibile, è un edificio che resta o che cade tutto di un pezzo. Non occorre neppure esaminare se il suo atteggiamento verso la Legge si sia venuto modificando con l’età, o nel senso dell’intransigenza, o nel senso della conciliazione: le sue idee già pienamente determinate fin dalla riunione apostolica dell’anno 50, prima che egli scrivesse una sola riga delle sue lettere (Gal. II, 3-7, 14-21), non si mutarono mai in seguito. In ogni tempo egli seppe mostrarsi condiscendente, tollerando pratiche indifferenti consacrate dall’uso e dai ricordi religiosi, imponendole anche a se stesso, quando occorreva (Act. XVI, 3); ma dal principio alla fine della sua carriera egli sostenne sempre come tesi fondamentale l’abolizione totale della Thora, così per gli Ebrei come per i Gentili. – Siccome la luce sempre più viva, proiettata su la legge naturale dalla rivelazione, è un fatto indiscutibile, si potrebbe tentare di ricostruire, sopra le rovine della Thora, un codice nuovo il quale altro non sarebbe che la legge naturale illuminata, nei suoi punti oscuri, dalla rivelazione divina. Questo sistema, per quanto possa essere ingegnoso, non è quello di Paolo. L’Apostolo riconosce benissimo l’esistenza della legge naturale; dichiara che sono inescusabili i pagani per averla violata (Rom. I, 32); descrive la coscienza che cita l’uomo al tribunale e, secondo i casi, lo assolve o lo condanna (Rom. II, 14-15); ma a questa norma interna non dà il nome di legge (la Legge di S. Paolo è sempre la legge positiva), perché la legge è per lui l’espressione di una volontà positiva. E poi egli non ammetterebbe mai che il Cristiano, liberato dal giogo della Legge, venga retrocesso allo stato di natura: la Legge mosaica segna necessariamente una tappa nell’ascesa dell’umanità e, se deve scomparire, bisogna che venga sostituita con qualche cosa di meglio. Perciò nel momento stesso in cui oppone il regime della Legge a quello della grazia, insinuando che questi due stati sono incompatibili tra loro, protesta energicamente di essere sciolto da ogni legge ed afferma di dipendere dalla legge del Cristo. Questo è il paradosso: il Cristiano è così essenzialmente libero, che non può essere sotto il giogo della Legge, ed è tuttavia soggetto a una legge. La ragione è che l’economia nuova è una vera legge, se si considera il suo carattere obbligatorio, e non è una legge, se si pensa alle imperfezioni della Legge mosaica: se la chiamiamo legge di grazia, siamo nello spirito dell’Apostolo; se la chiamiamo legge del Cristo, ci conformiamo al suo linguaggio. (Ga. VI, 2).

2. La libertà dei figli di Dio non è la licenza, e la liberazione dal giogo mosaico non è l’esenzione da qualunque freno (Gal. V, 13). Paolo dovette protestare mille volte contro la falsa interpretazione del suo pensiero (Rom. III, 8; VI, 1-15); lo capivano male: egli non disse mai che Dio abbia abolito l’economia antica senza sostituirne una più perfetta. Nel momento in cui Gesù aboliva il regime della Legge, poneva le basi del regime della grazia (Matt. V, 7).Non vi fu soluzione di continuità: il Nuovo Testamento prende per conto suo la legge morale dell’Antico che esso soppianta: non contento di sanzionarla, la perfeziona e la completa: « Tutto ciò che è vero, scrive san Paolo ai Filippesi, tutto ciò che è onorevole, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è puro, tutte ciò che è amabile, tutto ciò che è di buona fama, virtuoso e degna di elogio, formi l’oggetto delle vostre meditazioni ». Ecco tutta la legge naturale, sotto i suoi diversi aspetti, proposta ai fedeli; ma essa non obbliga più soltanto come legge naturale: « Tutto questo, soggiunge l’Apostolo, voi l’avete appreso e ricevuto (da noi); voi lo avete sentito dire da noi e l’avete visto fare da noi; praticatelo (Fil. IV, 8-9) ». In grazia della rivelazione evangelica, la legge naturale — coma pure il codice sinaitico nella sua parte morale — torna ad essere una legge positiva. La relazione però tra la legge e l’uomo non è più la medesima. Il difetto capitale della Legge antica era quello di essere esteriore all’uomo e poco proporzionata al nostro stato attuale di decadenza (Rom. VII, 14). Per ristabilire l’equilibrio, bisognava o abbassare la Legge fino al livello dell’uomo caduto, oppure innalzare l’uomo fino all’altezza della Legge divina. Essa era stata imposta agli Israeliti, col doppio intermediario di Mosè e degli Angeli, in mezzo ai terrori del Sinai (Gal. III, 19); nascendo soggetto alla Legge, come membro del popolo eletto, l’Ebreo fin dal primo destarsi della sua ragione, ne subiva, volere o no, il fardello reso più pesante dal sentimento della sua impotenza (Rom. VII, 5-11); nulla di spontaneo, di libero, di generoso, di filiale: lo schiavo della Legge non poteva nutrire altri sentimenti che quelli dello schiavo, timore, diffidenza e noia. Ben diversa è la condizione del cristiano: con l’atto di fede e col Battesimo che ne è il sigillo, egli si ò messo liberamente al servizio di Dio e si è fatto soldato del Cristo. Egli si libera dal giogo della Legge soltanto col rinunziare alla sua indipendenza: la volontà di Dio, accettata di cuore e nella misura in cui si manifesterà, diventa la sua regola di condotta: « Non sapete che dandovi a qualcuno come schiavi per obbedirgli, voi diventate schiavi di colui al quale obbedite! … Ora, liberati dal peccato ed asserviti a Dio, voi avete come frutto la santificazione e come fine la vita eterna. Poiché lo stipendio del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna nel Cristo Gesù nostro Signore (Rom. VI, 13-23) ». Si può quasi essere sicuri che Paolo, nello scrivere queste parole, pensava allo schiavo ebreo ed al soldato romano. Presso gli Ebrei, la schiavitù era poco diversa dalla servitù ordinaria; per i compatrioti non poteva mai prolungarsi oltre i sei anni, senza l’espresso consenso dell’interessato; dato poi questo consenso, lo schiavo entrava di pieno diritto e per sempre nella casa del suo padrone, ma la sua condizione non aveva nulla di umiliante e di degradante; egli faceva parte della famiglia, godeva dei privilegi religiosi della nazione, era uomo e cittadino, e non già, come presso i Gentili, una bestia da soma. Perciò Paolo che con tanta energia respinge ogni sospetto di bassezza e di servilismo, non esita  a chiamarsi lo schiavo del Cristo e persino lo schiavo dei suoi fratelli, peramore del Cristo. Schiavo del Cristo, egli è pure soldato del Cristo. È noto che le legioni romane assoldavano soltanto uomini liberi: l’arruolamento dei servi, anche quando erano stati fatti liberi e nei casi di forza maggiore, era sempre considerato come un fatto da non imitarsi e cosa poco compatibile con la maestà delle aquile romane. Le reclute, nel prestare il giuramento, votavano la loro vita all’imperatore e si obbligavano ad un’obbedienza assoluta, molte volte più dura che quella della schiavitù, ma elevata e nobilitata dalla loro qualità di cittadini e dal sentimento di un dovere abbracciato spontaneamente. Per questo l’Apostolo adopera tanto volentieri il linguaggio militare che gli ricorda l’impegno contratto col Battesimo e lo stato di dipendenza in cui volontariamente si è messo con l’atto di fede che lo ha fatto Cristiano. Al suo discepolo prediletto dà il titolo di soldato del Cristo (II Tim. II, 3), il titolo più onorevole che egli conosca; scongiura i Tessalonicesi a rivestire l’armatura delle virtù teologali, la corazza della fede e della carità, e l’elmo della speranza (I Tess. V cfr. Is. LIX, e Sap. V, 17-20); in una famosa panoplia egli descrive agli Efesini tutta l’armatura del legionario, la corazza e l’elmo, la spada corta a due tagli e lo scudo lungo coperto di pelle, e non dimentica neppure la calzatura ed il cingolo di cuoio, ein tutto questo vede altrettanti simboli di virtù cristiane (Ephes. VI, 13-17). Se le metafore di armi, di combattimento, di stipendio, di milizia e altre simili ritornano continuamente sotto la penna dell’Apostolo, è perché egli ha sempre in mente il giuramento col quale si è votato al Cristo, giuramento che lo obbliga a « non impacciarsi nelle sollecitudini di questa vita, per pensare unicamente a piacere al suo capo (II Tim. II, 3-4) ». Soldato del Cristo e schiavo volontario, il Cristiano non appartiene dunque più a se stesso: la regola da cui dipende, poiché l’ha accettata liberamente, è la volontà di Dio, la volontà del Signore (Rom. XII,; Ephes. VI, 6). Tale è pure la norma esteriore che nessun Cristiano può ignorare. Uno dei fatti più certi dell’età apostolica, benché i critici abbiano impiegato assai tempo a constatarlo, è l’esistenza di una catechesi morale abbastanza uniforme nel suo contenuto. San Paolo vi allude chiaramente quando scrive ai Corinzi: « Timoteo vi ricorderà le mie vie nel Cristo, come io insegno dappertutto ed in ogni chiesa (I Cor. IV, 17) ». Le vie di Paolo non sono la sua condotta, ma come indica abbastanza la parola e come lo mette fuori di dubbio l’inciso esplicativo, la sua dottrina morale soprannaturale. Si facciano pure le meraviglie, se si vuole, perché un carattere così libero e di primo impeto si sia legato ad un metodo d’istruzione regolare e per così dire stereotipato; ma qui vi è la sua testimonianza formale: egli insegnava « dappertutto, in ogni Chiesa », le stesse cose e nella stessa maniera, tante che più tardi gli bastava mandare uno dei suoi discepoli per rinfrescarne la memoria. Ma vi èdi più: questa catechesi esiste anche nelle altre chiese, e san Paolo scrive ai Romani che non sono stati evangelizzati da lui: « Voi avete obbedito al tipo di dottrina che vi è stato trasmesso », o forse con maggior forza: « al tipo di dottrina al quale foste dati (Rom. VI, 17) ». Tutto il contesto fa vedere che questo tipo di dottrina è un insegnamento morale, e il nome stesso di tipo dice che la trasmissione non era abbandonata al capriccio o all’ispirazione individuale. Paolo interdice ai Tessalonicesi ogni relazione coi fratelli che si allontanassero dalla tradizione ricevuta da lui; la stessa ingiunzione fa ai Romani riguardo ai fedeli che trasgredissero la dottrina che loro fu insegnata (II Tess. III, 6 e Rom. XVI, 17). Via, tradizione, dottrina, tipo di dottrina, didascalia — e persino la parola con cui si è formata catechesi (Gal. VI, 6) — sono tutti termini che con sorpresa si trovano negli scritti dell’Apostolo, ed in un senso assai vicino a quello delle generazioni seguenti. Dunque la volontà di Dio, proclamata dal Cristo, promulgata dagli Apostoli (II Cor. V, 20), destava nei neofiti un’idea abbastanza concreta. Quando Paolo diceva laconicamente: « Non fate come i Gentili che non hanno Legge, né come gli Ebrei che hanno soltanto la Legge; la vostra condotta sia degna dei santi, degna della vostra vocazione, degna del Vangelo, degna del Cristo, degna di Dio (Rom. XVI, 2) »; queste brevi parole dicevano molto: esse riportavano il neofito al momento in cui, abbracciando la fede, l’aveva rotta col passato, si era abbandonato a Dio e sottomesso alla legge del Cristo; esse riassumevano con una frase la catechesi apostolica della quale certamente nulla ci può dare un’idea più approssimativa che le Vie, ossia il piccolo compendio morale inserito in due dei più antichi monumenti della letteratura cristiana, la Dottrina degli Apostoli e l’Epistola di Barnaba.

3. All’obbiezione che noi con un sotterfugio mettiamo il Cristiano sotto il giogo della Legge da cui il Cristo lo aveva liberato, e che la condizione del bambino battezzato che eredita degli obblighi prima di averli conosciuti, è identica a quella del bambino ebreo che nasce soggetto alla Legge, rispondiamo che ciò non è vero affatto. Certamente l’Apostolo, rivolgendosi a convertiti di data recente, parla della fede attuale degli adulti; ma la sua dottrina si può applicare anche alla fede abituale del bambino Cristiano. La fede, attuale o abituale, ha sempre la medesima tendenza; essa è per sua natura uno slancio spontaneo della mente e del cuore, col quale l’uomo rinunzia nelle mani di Dio la sua intelligenza e la sua volontà. Se vi è qualche differenza, questa è tutta a vantaggio della fede abituale, perché qui lo Spirito Santo opera da solo, e non vi è nulla che ne ostacoli l’azione. Ora l’impulso intimo dello Spirito Santo non si può paragonare ad una costrizione esteriore; essa solleva e non opprime l’uomo; essa toglie all’obbedienza il carattere servile. Col Battesimo il Cristiano diventa soggetto alla legge della grazia, come nasce soggetto alla legge di natura; ma parlando propriamente, egli non è sotto la legge perché non è, come Israele, sotto il giogo della Legge. Nessuno infatti vorrà sostenere che la legge naturale, inerente al nostro essere, sia per l’uomo un giogo estraneo: ora la legge del Cristo è per il Cristiano quello che è per l’uomo la legge naturale. La nostra incorporazione col Cristo mistico non è soltanto una trasformazione e una metamorfosi, ma è una vera creazione, la produzione di un nuovo essere (II Cor. V, 17), soggetto di nuovi diritti e perciò di nuovi doveri: « Non sapete dunque che tutti noi i quali fummo battezzati nel Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte? Noi fummo con Lui sepolti col Battesimo nella sua morte, affinché, come Egli è risuscitato da morte per la gloria del Padre, così noi camminiamo nella novità della vita. Poiché se fummo innestati su Lui dalla somiglianza della sua morte, lo siamo anche da quella della sua risurrezione; sapendo benissimo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui, affinché il corpo del peccato sia annientato, perché non serviamo più al peccato (Rom. VI, 3-6) ». Per chi è familiare col pensiero di Paolo, questo periodo intraducibile non ha nulla di oscuro. Il rito del Battesimo, operando quello che significa, ci genera alla vita divina; ci fa morire a noi medesimi immergendoci nella morte del Cristo; c’infonde il succo divino innestandoci su Lui; ci avvolge della sua grazia e del suo spirito immergendoci nel suo corpo mistico. E allora « non sono più io che vivo, ma è Gesù Cristo che vive in me ». È evidente che questo essere nuovo richiede operazioni nuove: Operatio sequitur esse. Per conoscere la natura e l’estensione dei nostri obblighi, ci basta che riflettiamo al mistero della nostra nascita soprannaturale. Che cosa vediamo nel Battesimo? Una morte, una risurrezione, una sepoltura, un ritorno alla luce: e queste quattro cose prodotte dal rito sacramentale che le simboleggia, sono destinate a durare sempre, e non solo a durare, ma a crescere ed a svilupparsi. – La morte al peccato è per se stessa consumata e definitiva; perché Gesù Cristo morendo spezza lo scettro del peccato e, facendoci morire con Lui, ci associa alla sua vittoria; ma a differenza della morte fisica, la morte al peccato è suscettibile di più e di meno: non basta mantenerla, ma bisogna condurla alla perfezione: « Voi siete morti e la vostra vita è nascosta col Cristo in Dio… mortificate dunque le membra terrestri: fornicazione, impurità, passione, desideri cattivi (Col. III, 5) ». L’ideale è questo: portare sempre più lontano lo stato di morte di Gesù. La vita della grazia, eterna di sua natura, vuole anch’essa essere continuamente fortificata e rinnovata: « Se voi siete risuscitati col Cristo, cercate le cose dell’alto… aspirate alle cose dell’alto, non alle cose della terra (Col. III, 1-2) ». La nostra sepoltura nel Cristo deve seguire un progresso analogo; perciò l’Apostolo, dopo di aver detto: « Voi tutti che foste battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo », soggiunge: « Rivestite il Signore Gesù Cristo (Gal. III, 27; Rom. XIII, 14)», perché taleatto ammette dei gradi indefiniti. Finalmente Paolo implora per i neofiti illuminati dal Battesimo, lumi sempre più vivi, e li invita a camminare di chiarezza in chiarezza (Ephes. I, 18; II Cor. III, 18).

4. La morale di Paolo, come si vede, sta su basi salde: essa si appoggia, da una parte, sopra la volontà positiva di Dio, proclamata da Gesù Cristo, promulgata dagli apostoli, liberamente accettata dai neofiti nel primo atto di fede; e dall’altra parte, sopra la rigenerazione battesimale e sopra le nuove relazioni che questa produce; poiché dall’essere soprannaturale ricevuto nel Battesimo, derivano speciali relazioni con ciascuna delle tre Persone divine:

Relazione di filiazione verso il Padre;

Relazione di consacrazione verso lo Spirito Santo;

Relazione d’identità mistica con Gesù Cristo.

Analizzare queste tre relazioni e dedurne i corollari equivarrebbe adesporre minutamente tutta la morale dell’Apostolo, enon è questo il nostro scopo: noi vogliamo soltanto tracciare la via; ma questo rapido sguardo ci farà vedere a quali altezze Paolo innalzi se stesso e innalzi anche noi con sé. Tra la filiazione adottiva del Nuovo Testamento e la filiazione teocratica dell’Antico corre un abisso. Quest’ultima era collettiva ed arrivava all’individuo soltanto mediante il popolo eletto; il figlio di Dio era propriamente Israele, e non l’Israelita. Se qualche personaggio dell’antica alleanza riceve eccezionalmente questo titolo, è perché porta su la sua fronte un riflesso profetico del Figlio per eccellenza. Il Cristiano invece è figlio di pieno diritto e personalmente; lo Spirito Santo gli mette su le labbra il nome di Padre che indica le sue nuove relazioni con Dio; ma con le prerogative di figlio egli ne riceve pure i doveri di gratitudine, di fiducia e di amore (Rom. VIII, 15-17). La presenza dello Spirito Santo che ci consacra come un santuario, crea tra lui e noi un nuovo vincolo che è difficile a definirsi, ma che è impossibile negare. Ora ogni nuova relazione è fonte di nuovi obblighi: di qui, per il Cristiano, il dovere di non contristare lo Spirito (Ephes. IV, 30), di non estinguere lo Spirito (I Tess. V, 19), e soprattutto di non distruggere o profanare il suo tempio (I Cor. 16-17; VI, 19; II Cor. VI, 16; Ephes. II, 21). Ma qui abbiamo anche la fonte di privilegi gloriosi: ospite dell’anima giusta, lo Spirito non vi rimane inoperoso, ma in essa produce i carismi, i doni, le grazie dello stato; versa in essa l’unzione e la luce; vi scolpisce la legge di Dio in caratteri indelebili. Così si spiega quella espressione che sembrerebbe enigmatica: « Se siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge (Gal. V, 18) ». Il Cristiano può obbedire alla legge senza essere sotto la legge, perché la legge per lui non è più un giogo esterno che l’opprime, ma un principio interno che lo guida e lo spinge innanzi: ben lungi dall’asservirlo e dall’opprimerlo, « la legge dello Spirito di vita lo libera dalla legge del peccato e della morte (Rom. VIII, 2) ». La dottrina del corpo mistico, il capolavoro di Paolo, non è meno feconda per lamorale che per il dogma. La prima volta che la propone, egli stesso ne fa l’applicazione con una chiarezza che non lascia nulla adesiderare. Nel dimostrare che la diversità delle membra e l’unità di vita sono essenziali a questo corpo di cui Gesù Cristo è il capo e lo Spirito Santo è l’anima, egli ne deduce i doveri reciproci di carità, di giustizia, di solidarietà, con l’obbligo, per ciascun membro, dicollaborare al bene generale (I Cor. XII, 12-27). È tutto un programma di morale sociale compendiato, la cui originalità consiste nel conciliare le esigenze del bene comune non certamente con l’egoismo, ma con la ricerca istintiva dell’interesse personale. Non pare che si possa attribuire al caso ilfatto che le altre tre descrizioni del corpo mistico servano precisamente come di prefazione alla seconda parte delle lettere in cui la morale è nettamente separata dal dogma (Rom. 4,5; Ephes. IV, 12-16; Col. II, 19). L’intenzione appare manifesta nell’Epistola ai Romani, e allora non fanno più meraviglia le raccomandazioni eteroclite di cui abbiamo dato sopra un saggio. Precetti e consigli, in apparenza disparati, trovano la loro unità in questo principio: « Noi siamo un solo corpo nelCristo e, individualmente, le membra gli uni degli altri ». Non è allora evidente che questo principio ha come corollario il dovere « di amarsi con amore di fraternità » e di « prevenirsi a vicenda con l’onore (Rom. XII, 10) ». La dottrina del corpo mistico si presenta sotto un aspetto alquanto diverso nelle Epistole agli Efesini ed ai Colossesi. L’obbligo che ne deriva per ciascun membro è quello di aspirare alla perfezione del capo (Col. II, 19), perché ciascun fedele, affinché vi sia armonia e perfezione, deve sforzarsi di crescere secondo la misura del Cristo.