QUARESIMALE XXI

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco,
Ivrea 1844 –

Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843,
Ferraris prof. Rev. Pe]

PREDICA VIGESIMA PRIMA

NEL VENERDI DOPO LA TERZA DOMENICA

Jesus ergo
fàtígatus ex itinere sedebat sic supra fontem hora est quasi sexta.
Venit mulier Samaria haurire aquam etc. [Jo. IV.6];

DUE contrarissimi affetti genera nel mio cuore questo successo della odierna Samaritana, ch’io già presuppongo notissimo ad ognun di voi, e sono appunto una fervente speranza, e un freddo timore. Perocché mentre profondamente io considero, da quanto poco dipende la salute di sì rea femmina, subito mi si sveglia nell’animo un ardito pensiero, il quale mi dice: Se cosi è poco dunque ci vuole afin di salvarsi. Ma, oimè, che si leva tosto in contrario un pensiero palpitante, il quale mi replica: Se così è, basterà dunque ancora poco a perire. E’ vero, che questa misera peccatrice non per altra ragione diventò santa, se non perché s’imbatte casualmente a quel pozzo, dov’era Cristo affaticato ed ansante, ed ivi interrogata da Lui, si contentò di reprimere quella voglia, la quale aveva, di cavare allora dell’acqua per udirlo alquanto discorrere di materie a lei salutari. Ma fate voi ragion, che vedutolo non gli avesse in verun modo voluto prestare orecchie, ma avesse detto: Adesso ho altro che fare, sono assetata, sono arsa, e poi l’ora è tarda: “ora est quasi sexta”; convien ch’io torni alle mie faccende domestiche; quanto è probabile che mai più non dovesse incontrare nell’avvenire una congiuntura sì comoda, quale ella ebbe, da rientrare in se stessa, e da ravvedersi! Da questa considerazione io sollevo sbigottito il mio spirito a domandarvi: Chi è tra noi, Signori miei cari, il quale faccia gran caso di un piccolo movimento interiore, il quale talor ci stimoli alquanto a mortificarci: di un piccolo impulso, di una piccola ispirazione, o di una azione minutissima di virtù? E pure, quell’azion di virtù sì minuta era forse il principio da cui doveva derivare la nostra beatitudine, e siccome trascurato il principio. Né meno. si ottiene il fine; così trascurata quella minuzia, né meno avviene, che ottengasi il Paradiso. Oh Padre (voi mi direte) com’è possibile? Volete dunque che da una minuzia dipenda la salute eterna di un uomo? Mentre parlate così, voi volete atterrirci. non istruire! Voglio atterrirvi? Ah sì. ch’io voglio atterrirvi (ve lo confesso) ma perch’io sono atterrito: Territus terreo, dirò tremante col Padre Santo Agostino. Non però voglio atterrirvi con vane esagerazioni, voglio atterrirvi con sodissime verità. Io vi prometto di non dirvi se non quello che mi fa riscuotere tutto da capo a piedi, quand’io vi penso, e che se ancora non è bastevole a rendermi meno iniquo, mi fa non essere almanco più incorreggibile. E che cosa è questa? Quella proposizione appunto che a voi pareva così strana, cioè, che da una minuzia talor dipenda la salute eterna di un uomo. Questa proposizione è quella che fa tremarmi, questa è quella ch’io qui mi accingo a mostrare, perché ognun veda una volta quanto sia vero che la buona opportunità vuole essere presa a tempo per li capelli, che son le piccole cose.

II. E primieramente io non credo, che vi parrà per altro strano di udire che da cose piccole possano derivare cose grandissime. Non ci predicano quasi altro i Naturali nelle loro considerazioni, i Politici nelle loro avvertenze, i Morali nelle loro massime. Basta dare un’occhiata d’intorno al Mondo per chiarirsene in un momento. Non è già solo il granellino di senape quello che nella Palestina si vanta di giungere a tanta altezza che agguagli gli alberi, non che avanzi le biade? Tutte quelle selve, le quali coi loro tronchi somministrano tante aste agli eserciti, tante navi all’Oceano, tanti sostegni alle case, tanti materiali alle macchine, tanti ricetti alle fiere, tanto nutrimento alle fiamme; ſe ci volessero fedelmente scoprire la l’oro origine, mostrerebbero alla fin altroche minutissimi semi stati talora, o spazzatura dei piedi, o scherzo degli uccelletti? Non accade, che scagliandosi un fulmine dalle nuvole faccia fracasso sì grande per ostentare la sua meravigliosa potenza… Abbatta pure le torri, percuota i gioghi, incenerisca i boschi, sgomenti i popoli: ben si sa da qual piccolo vaporetto egli ebbe i natali. E quei gran fiumi, che del continuo pellegrinando pel mondo ne vanno tanto orgogliosi, che vogliono porre i termini alle provincie, e togliere il nome al mare, e però anch’essi or portano sopra il dosso armati navigli, or contribuiscono dal seno grossissime pescagioni, ed ora infuriati uscendo dagli argini recano strage agli armenti, inondazione a campi, e sterminio alle biade, assedio alle case, solitudine alle Città, questi gran fiumi medesimi, se si potessero rivoltare talora indietro a mirare i loro principi, quanta cagione avrebbero di umiliarsi. mentre vedrebbero o che semplici villanelle vi guizzano entro per giuoco, o che stanchi pellegrini gli saltano per insulto! Tanto è comune alle cose ancora maggiori derivar dalle minime! Così son famosi gli incendi sorti da una favilla, così i contagi sparsi da un fiato, così i tremoti originati da un alito. Ma senza ciò, se si considera il corso degli avvenimenti morali, chi non sa come da cagione leggerissima può accadere che uno o da altissima dignità cada in un vilissimo stato, o da un vilissimo stato sia sollevato ad altissima dignità? Abigaille, di cittadina privata, arrivò ad essere tolta da un Davide per consorte, e così a cingere ancora un giorno la fronte di corona Reale; Ma ciò donde avvenne? Da una tal buona creanza, la qual ella usò coi servi di Davide, nel portar loro un rinfresco. Rebecca, di semplice garzoncella, arrivò ad esser data ad un Isacco per sposa; e così a divenire anche un tempo procreatrice del promesso Messia. Ma ciò donde accadde? Da una tal facile cortesia, ch’ella mostrò col messo di Isacco nell’offrirgli dell’acqua (Gen. XXIV). Laddove Aman, quel sì celebre favorito del Re Assuero, donde venne alla fine a cader di :grazia, a perder le dignità, a perdere le ricchezze, a perder la prole, ed a morir anche appeso qual pubblico malfattore sopra un patibolo? Non da altro venne, che dall’aver lui preso a piccarsi che un Mardocheo, uomo popolare, uomo povero non lo salutasse a suo modo: Non flecteret sibi genu (Esth. III, 5)? Che dirò della milizia? che del traffico? che delle lettere? Non fu per certo un accidente lievissimo, che Protagora divenisse in Grecia filosofo sì ammirato? Guardate donde accadde e meravigliatevi! Era già Protagora un vile contadinello, quando portando egli un dì sulle sue tenere spalle un fastello di legna al vecchio suo padre, si imbatté casualmente in Democrito, filosofo di gran nome, il quale vedendo quelle legne legate insieme con grandissima aggiustatezza, domandò al fanciullo, s’aveva fatte egli quel fascio. E rispondendo quegli di sì: Provati un poco, gli soggiunse Democrito, a scioglierlo, ed a ricomporlo all’istesso modo. Ubbidì Protagora prontamente, e con egual arte ed industria rilegando insieme le legne, se le recò di bel nuovo sopra le spalle. Dal che congetturando Democrito in quel figliuolo ingegno ed indole opportuna agli studi, l’invitò a vivere sotto la sua disciplina, lo educò, lo sostenne, lo addottrinò, e lo rendé filosofo non minore di tal maestro. Fate ora voi ragion che Protagora, o non avesse composto con tale aggiustatezza quel fascio, o non avesse incontrato in tali congiunture quel Savio; quanto è probabile ch’ei si fosse sempre rimasto a guidar l’aratro, in cambio di esercitare la penna? … e a solcar le campagne, in cambio di vergare le carte? E di somiglianti successi io potrei raccontarne quasi infiniti in qualunque genere, se non mi premesse di accostarmi più da vicino ad esemplificare nelle opere della grazia, senza vagar tanto per quelle della Natura.

III. Presupponete adunque che Dio, conforme allo stile, ch’Ei tiene nell’ordine della natura, proceda ancora nell’ordine della grazia; altrimenti da quello, che noi vediamo, non ci potremmo sollevare ad intendere quello, che non vediamo, come pur pretendeva S. Paolo ai Romani, quand’egli disse, che Invisibilia Dei, per ea quæ facta sunt, intellecta conspiciuntur (ad Rom. I, 20). Ha dunque Iddio, quanto alla sua volontà antecedente, non pur disegno (per favellar coi Teologi) ma ancora di beneplacito, destinata a tutti la gloria del Paradiso; e però veramente vorrebbe che la conseguissero tutti, che non la perdesse veruno: Deus vult omnes homines salvos fieri (I Tim. II 4). Ma essendo lo stesso il fine a cui tutti dobbiamo giungere, non son pero l’ istesse le strade da giungere ad un tal fine. Anzi nella vita di ciascun uomo Iddio vede, come le scuole c’insegnano, in numerabili connessioni, concatenazioni, o serie di avvenimenti, le quali, come tante strade maestre conducono, altre dirittamente alla gloria, altre dirittamente alla perdizione: Vias vitæ. Et vias mortis (Jer. XXI, 8). Ora, che l’uomo s’incammini piuttosto per una di queste strade che per un’altra, dipenderà talora da opere piccolissime. L’udire o il non udire una predica: il leggere, o il non leggere un libro; il parlare, o il non parlare con una persona: l’andare o il non andare a una veglia, può esser quello che, o c’incammini al Cielo, o c’incammini all’Inferno. Dissi “c’incammini”, vedete, perché non dipenderà la nostra salute immediatamente da tali azioni, ma dipenderanno remotamente in quella maniera medesima, onde abbiam detto, potere azioni anche minime incamminare naturalmente un mondano a gran perdite, o a grandi acquisti: In tantum ut, si priora tua fuerint parva, (come diceva quell’amico di Giobbe), novissima tua multiplicentrur nimis. Non si sgomenti, se a qualcuno non paja di avere ancor bene appresa una tal dottrina, perché io la renderò con gli esempi manifestissima a chicchessìa, benché digiuno d’ogni perizia scolastica. Pigliamo dunque per maggior’ intelligenza di ciò un nobile avvenimento, che vien descritto dal Padre Santo Agostino. Racconta il Santo. come dimorando l’Imperatore Teodosio nella città di Treviri a rimirare i famosi giuochi del Circo, due cortigiani si vollero appartar da quello spettacolo; ma non sapendo frattanto ciò ch’essi fare, si avviarono unitamente fuor delle mura, per goder la vista innocente della campagna. Passarono d’una in altra strada, d’uno in altro ragionamento, finché s’incontrarono in una solitaria boscaglia, dove abitavano sotto una rozza casuccia alcuni penitenti romiti. Entrarono per curiosità in quel tugurio, e mentre, come accade, ammiravano le angustie dell’abitazione, e la penuria dei mobili, videro un libro assai logoro, che giaceva sopra un tavolino . Uno di loro il piglia, l’apre, e s’avvede contenersi in esso le azioni del grand’Antonio. Comincia a leggerle, prima per curiosità, di poi per diletto, indi sente anche a poco a poco infiammarsi all’imitazione. Quando all’improvviso, avvampando tutto nel cuore di un amor santo, e nel volto di un vergognoso rossore, prorompe in un sospiro, e dice al compagno: Poveri noi, che seguitiamo una strada tanto diversa! Dic, quæso te, omnibus isti laboribus nostris, quo ambimus pervenire? quid quærimus? (S. Agost. Confess. Lib. VI). Ditemi un poco per vita vostra, o Signore, che pretendiamo noi con tante fatiche, con tanti servizi, con tanti corteggi, con tante umiliazioni; che pretendiamo? Possiamo mai sperar più, che di conseguir la grazia del Principe? Major ne esse poterit spes nostra, quam ut amici Imperatirissimus? Ma chi ne assicura che vi arriviamo? La vita è breve, la gioventù fallace, le forze manchevoli, i concorrenti molti, i carichi; pochi. E poi, quando ancor vi arrivassimo quid ibi non fragile, plerumque periculis? Che avremo noi fatto alla fine che cambiare fatica con fatica, servitù con servitù, pericolo con pericolo? Quante invidie ci assedieranno, quanti odi, quante persecuzioni quante calunnie! Non ci converrà vivere sempre in timore, e star sempre in guardia! All’incontro. per diventare amico di Dio, basta il volerlo niuno ce lo potrà mai contendere, e nessun levare: Amicus autem Dei, si voluero, esse non fio. Indi tornò a fissare gli occhi sul libro; e quasi assorto per la gran mutazione che lo agitava nell’animo, leggeva insieme, e gemeva, or nella faccia pallido, ed or acceso; ora pensieroso, ed or lagrimante. Finalmente richiude ad un tratto il libro, e battendo la mano sopra la tavola, dice risolutamente al compagno: Or quanto a me, io del tutto ho già stabilito di non mi partir più di qui. Da quest’ora ed in questo luogo io mi voglio consacrare tutto a Dio; però se voi non mi volete im itare, rimanetevi di sturbarmi: Ego jam Deo servire statui, et hoc ex hora hat, in hoc loco aggredior; te si piget imitari, noli adversari. Come? ripigliò l’altro, commosso da tal esempio, non piaccia a Dio, ch’io a me ritenga la terra, a voi lasci il Cielo. O ambedue ci ricondurremo alla Regia, o chiuderacci questo tugurio ambedue. E così risolutisi di nemmen prima tornare all’Imperatore, gli mandarono dentro un foglio l’avviso della lor concorde risoluzione; e deposti di subito gli ori, e gli ostri , si copersero di un sacco, si cinsero d’una fune, si chiusero in una cella; ed ivi in somma mendicità, sempre squallidi, sempre scalzi, menarono tutto il resto dei loro di, non mai però più famosi al Mondo che quando lo disprezzarono. Ora ditemi un poco, Signori miei; tante opere buone, che questi due novelli romiti dovettero di poi fare, tante vigilie notturne, tanti salmeggiamenti scambievoli, tante contemplazioni profonde, tanti digiuni severi, tante flagellazioni sanguinolenti con cui dovettero sicuramente acquistarsi la gloria del Paradiso, tutte queste cose, donde ebbero principio, chiamato già nei Proverbi (XVI, 5) Initium viæ bonæ? Mirate donde: dall’essersi ritirati da uno spettacolo. Quindi Iddio dispose che uscissero a camminare; dall’uscire a camminare, che incontrassero il romitaggio; dall’incontrare il romitaggio, che leggessero il libro; dal leggere il libro, che s’infiammassero di sentimenti devoti; quindi che aborrissero la Corte, che abbandonassero la Casa, che abbracciassero il chiostro, che camminassero sulla regia via della Croce. Laddove fingete voi, che si fossero trattenuti a quei giuochi, a cui forse potevano intervenire senza grave rimordimento: farebbe accaduto veruno di questi casi? E’ moralmente certo, che no: mercecché tutte le cose, se noi vogliamo dar credito all’Ecclesiaste, hanno una tal propria opportunità, a cui sono affisse Omnia negotia tempus est, et opportunitas (Eccl. VIII, 6). E però piuttosto saria seguita una serie di avvenimenti molto diversa, la qual Dio sa dove gli avrebbe condotti; perocché avrebbero probabilmente perseverato nel servizio del Principe, nella vanità delle signorie, ne’ vizi del secolo, e per conseguente ancor nei pericoli dell’Inferno. Debbono dunque riconoscere essi la loro eterna salute (non già come da cagione prossima, ma come da cagione remota) dall’aver lasciata una ricreazione non sì lodevole; Questa ſu a guisa di quella piccolissima fonte, veduta poi da Mardocheo convertirsi in fiume sì vasto (Esth. XI, 10). Questo fu a guisa di quel piccolissimo sasso veduto poi da Daniele cambiarsi in montagna sì smisurata. (Dan. II. 35).

IV. Ora figuratevi, che da sì lievi cagioni incominciassero quasi tutti coloro che noi sappiamo essere di presente arrivati ad eccelsissimi gradi di perfezione, di santità, di miracoli. Certamente pochissimi furono quei Santi, che nacquero Santi: nella Legge vecchia un Geremia, nella nuova un Giovanni. La maggior parte degli altri non nacquero Santi, ma diventarono. E che diventassero, qual ne fu la cagione? Ad uno fu l’aver gittate le cetere e le chitarre, per correre un poco dietro ad un uomo pio, che con grandissimo accompagnamento di gente passava per la via pubblica. come accadde a San Ranieri il Pisano; ad altri ſu l’aver contemplato attentamente un cadavere, come a San Francesco Borgia; ad altri fu l’aver perdonata Pietosamente un’ingiuria, come a San Giovanni Guarlberto; ad altri l’aver sovvenuto l’avvenuto cortesemente un mendico, come a San Francesco d’Assisi, ad altri l’aver tollerata innocentemente una prigionia, come a Santo Efrem Siro; ad altri l’aver udito casualmente una predica, come a San Niccolò di Tolentino; ad altri l’esser caduto vergognosamente nel loto come al Beato Consalvo Domenicano; ad altri l’aver ricevuto opportunamente un rimprovero dalla madre, come a Santo Andrea Corsini; e ad altri non più che l’aver servito caritatevolmente una Messa, come a Marcello Mastrilli, quel gran campione della mia fiera milizia, il quale giunto al sepolcro di San Francesco Saverio ricevé un chiarissimo lume di essere stato colà chiamato all’onore di combattere per Cristo, e di trionfare con tanta novità di stupori; perché una volta in Napoli ricercato, mentre egli ancora era studente, da un padre vecchio, in congiunture importune, ed in ora tarda, di ministrargli all’altare, egli con sembiante sereno, e con prontezza amorevole nel compiacque. Ma qual maggior santità si può figurare di quella alla quale giunsero, benché per diversissime strade, un Antonio Abate, ed un Ignazio Loyola?- Udite di grazia, se pure il parallelo in mia bocca non sia ambizioso. Furono ambedue patriarchi di numerosissima figliolanza, quantunque l’uno di gente solinga, e contemplativa, l’altro di persone trattabili ed attuose. Ambedue nei principi della loro conversione ebbero da’ demoni contrasti travagliosissimi. Perocché, se ad Antonio apparivano spesso in forma. di animali feroci, ad Ignazio comparivano ancor col volto di femmina lusinghevole. Ma esercitarono all’incontro ambedue sopra i demoni grandissima padronanza, perocché dove Antonio fugavali con la voce; spesso ancora Ignazio scacciavali col bastone. Ambedue arsero d’una voglia accesissima del martirio, per cui sfogare ne andarono, Antonio in Alessandria, Ignazio in Gerusalemme. Ma ambedue volle Dio, che fossero preservati per dare la vita a molti. Popolò pertanto l’uno le selve di santissimi solitari, l’altro riempie le città di zelanti predicatori, eletti ambedue da Dio per ristorare nella Chiesa le perdite ch’ella cominciava a patire, ne’ tempi di Antonio per l’eresia di Ario, nei tempi d’Ignazio per l’eresia di Lutero; opporsi al furore dei quali, lasciò l’uno per qualche tempo i deserti della Tebaide, l’altro per sempre la solitudine di Manresa. E siccome Antonio ancor vivo vide i suoi seguaci distesi; non solo nell’Oriente, ma ancora nell’Occidente; così vide Ignazio ancor vivo distesi suoi, non solo nell’Occidente, ma ancora nell’Oriente. Somigliante verso ambedue, fu la stima, e la venerazione che portarono loro i Principi, perocché e ad Antonio ricorreva per consiglio l’Imperator Costantino, e ad Ignazio l’Imperatore Ferdinando, il quale in confermazione di ciò aveva dato anche ordine al suo ambasciatore residente in Roma, che niun negozio trattasse mai col Pontefice senza averlo conferito prima col Santo. E finalmente è stata somigliante ancor la difesa, che ha Dio pigliata dell’onore di ambedue questi celebri personaggi, perché col fuoco ei represse i dispregiatori d’Antonio, col fuoco i detrattori d’Ignazio, facendo miracolosamente arder vivo uno, che aveva osato di dileggiarlo. Ora ditemi, la santità di ambedue questi grand’uomini donde ebbe il cominciamento, Initium vitæ bonæ, non pare che dovesse essere qualche gran seme quello, il qual produsse due piante sì generose, che molto più di quell’albero già veduto dall’addormentato monarca di Babilonia, hanno dilatata la pompa dei loo rami da un mare all’altro,, e dall’uno all’altro emisfero? (Dan. IV, 7 e 8). Eppure udite che fu. Nell’uno Initium vitæ bonæ fu l’ascoltare attentamente una Messa; nell’altro Initium vitæ bonæ, fu pure attentamente leggere un libro. Entra Antonio ancor giovinetto in una chiesa per udir Messa, e s’incontra in quel Vangelo, nel qual si dice: Se tu vuoi esser perfetto a va’, vendi ciò che possiedi, e poi seguimi. Lo reputa detto a sé, ed indi si risolve a far vita simile a Cristo. Domanda Ignazio convalescente alcun libro per passatempo, e gli è recato il Leggendario dei Santi in cambio dei volumi di cavalleria, ch’avrebbe voluti. Comincia a leggerlo, e quinci ſi determina di far vita simile alla loro. Ora, se non avessero l’uno udita quella Messa con attenzione, e l’altro letto quel libro; che vogliamo credere, che sarebbe stato di essi? Sarebbero ambedue divenuti quei sì gran Santi, che ora noi veneriamo? Io non lo so, perché tutto ciò si appartiene a’ giudizi occulti di Dio. che sono le acque di quel profondo torrente, in cui neppure un Ezechiele si attentò d’inoltrarsi troppo, per non vi restare annegato: Aqua profundi torrentis, qui non potest transvadari (Ezech. XLVII, 5). Ma potrebbe esser ancora molto probabile. che non fossero divenuti; Perché assai spesso Dio suole usare con gli uomini, come fece con Naman Siro lebbroso, non so dir più se di corpo, o d’anima, ogni cui bene, come sapete, egli affisse, a che operazione? ad una sommamente tenue, ad una sommamente triviale: al bagnarsi sette volte in un piccolo fiumicello a lui forestiero: Lavare septies in Jordane, et mundaberis (IV Reg. V, 10). Ma chi mai l’avrebbe creduto? Come? (diceva Naman) Perché non piuttosto venirmi incontro il profeta, e mettermi le sue mani sopra la testa? No: Dio vuol, che ti lavi. Ma s’ho a lavarmi, perché non anzi nell’acque del mio Damasco, che son sì elette? No: nel Giordano! Ma non è meglio nell’Abana? No: nel Giordano! Ma non è meglio nel Farfar? No: nel Giordano! Vuoi per forse tu mettere legge a Dio? Quis ei dicere potest: cur ita facis? (Job. IX, 12). Fa pure ciò che a te piace, che sei padrone del tuo libero arbitrio: nel resto è certo che qualunque tuo bene, non solo corporale, ma ancor spirituale, dovrà dipendere dal mortificare con quest’atto, il quale a te sembra men proporzionato, men proprio, la tua altezza. Lavare septies in Jordane, et mundaberis. – Ora in una forma medesima Iddio suole assai spesso determinare la santità, anzi la salvezza degli uomini, ad una tale opera buona molto ordinaria, la quale s’essi eseguiscono, egli poi comunica loro una grazia tanto soprabbondante, e una protezione tanto speciale, che infallibilmente giungono al cielo, come appunto fu di Naman; ma se non l’eseguiscono, gli priva di tali aiuti più liberali, i quali, come i Teologi sanno, non sono dovuti, né per legge di Provvidenza, né per legge di redenzione; e prove dandogli degli aiuti solamente consueti, lascia, che seguano i lor fallaci consigli, e così si perdano; come sarebbe parimente avvenuto a Naman medesimo, se contumace non s’induceva ad attuffarsi in quell’acque, da lui riputate sì vili.

V. E questo è quello che c’inculcano i Santi, qualora ci dicono, che da un momento dipende l’eternità: Momentum unde pendet eternitas. Alcuni pensano che questo momento sia solamente quel della morte, e però n’usano male tanti altri, quasi che basti impiegar bene quel solo. Eh non è così. Questo momento ad alcuni è nella fanciullezza; ad altri è nella gioventù, ad altri è nella virilità. ad altri è nella vecchiaia. Ed è quel momento al quale Iddio, terribilissimo nei consigli ch’Egli ha sopra i figliuoli degli uomini: Terribilis in consiliis super filios hominum, ci attende per così dire, come ad un varco, affin di provare la nostra cordialità, e la nostra corrispondenza, ch’è quello appunto che Mosè scoperse al suo popolo, quando disse: tenta vos Dominus, ut palam fiat, utrum diligatis eum an non, in tota anima vestra (Deuter. XIII, 3): non perché passato quel momento, non ci sia sempre egualmente possibile la salute o la dannazione (questo non si può dire) ma perché da quello dipenderà, che incontriamo nell’avvenire maggiori o minori difficoltà per ben operare, che abbiamo maggiori o minori forze, ed in una parola, che: Gratiam inveniamus, o non inveniamus, per usare la formula dell’Apostolo, in auxilio opportuno (ad Hebr. IV, 16). Vediamo di grazia questo in un singolarissimo esempio delle divine Scritture, il quale a meraviglia conferma l’intento nostro: e siccome reca seco grandissima autorità, così ancora merita d’essere da tutti ascoltato con gran tremore. Avendo le Tribù Ebree richiesto a Dio qualche Re , che le governasse invece de’ Giudici, condiscese Dio finalmente, quantunque di mala voglia, alle loro istanze, e destinò loro Saule. Era questi vilissimo di lignaggio. ma sceltissimo di virtù. Perciocchè il sacro testo afferma di lui, che nessuno di tutto quel popolo lo vantaggiava per merito di bontà: Non erat vir melior illo. E pure per tacer gli altri, fiorivano seco a quel medesimo tempo un Samuele, ed un Davide, personaggi sì segnalati. Ebbe la cura di eleggerlo il medesimo Samuele. L’unse, lo pubblicò. Indi perchè nel principio del suo governo doveva il novello Re offrire a Dio sacrificio, Samuele il chiama, e gli dice: va’ in Galgala, dove arrivato, mi aspetterai sette giorni, nel termine dei quali io verrò per sacrificare: Septem diebus expectabis, donec veniam ad te. Va Saule, lo aspetta: ma già scorre il settimo giorno, ed il buon Samuele ancor non appare. Or che deve fare Saule? Si vede accampato d’incontro un poderosissimo esercito di nemici che lo sfidano alla battaglia: ha le milizie in ordine per combattere: ha le vittime pronte per immolare; si risolve però, giacché è vicina la sera del dì prefisso, di offrire ei medesimo il sacrificio, come venivagli dalla legge permesso in assenza di sacerdote. Appena egli ha immolato le vittime, ed ecco vien Samuele. Saule l’incontra, e Samuele in vederlo: Ahi sfortunato (gli dice) di’, che hai tu fatto? Quid fecistis? Risponde Saule: io ti ho aspettato conforme all’appuntamento più, che ho potuto, ma frattanto i soldati nostri chiedevano la battaglia, i nemici la minacciavano: stimai scelleratezza l’uscir in campo senza aver prima placato il volto divino con sacrifici pacifici. Ho precorsa nell’offrirli la tua venuta. Avvisandomi che tu per qualche nuovo accidente non potessi giungere in ora. Sì eh (ripigliò allor Samuele) or sappi, che tu hai usato da stolto: Stulte egisti! Però ti denunzio, che siccome, se tu mi avessi aspettato pazientemente, Iddio avrebbe perpetuato il tuo scettro sopra il suo popolo, così ora non ti sporgerà successore dal tuo lignaggio … Si non fecisses, (ponderate bene quest’orrenda condizionale) jam nunc præparasset Dominus regnum tuum super Israel in sempiternum; sed nequam regnum tuum ultra consurget (I Reg, XIII, 13 e 14). – Ma poco fu per questa azione a Saule perdere il regno. Fu peggio perdere le virtù, fu peggio perder la grazia, fu peggio perder l’anima, ſu peggio perder il paradiso. Udite in qual modo. Non si dannò già egli precisamente per quest’azione: Signori no. Perocché molti autori insigni hanno infino voluto credere, ch’ei non peccasse in ciò gravemente, o perché egli stimasse d’esser tenuto ad aspettare solamente il principio del settimo giorno, o perché ei reputasse d’esser costretto a secondare finalmente il volere degli impazienti soldati, come par ch’egli volesse anzi accennare dicendo per sua discolpa: Necessitate compulsus obtuli holocaustum (Ibid. XIII, 12). Come si dannò nondimeno per quest’azione? Si dannò per questa, come per azione, che lo dispose alla perdizione. non come per azione, che ve lo determinò. Mi dichiaro. Per quest’azione di Saule Dio volle togliere il regno da tutta la sua prole e da tutta la sua prosapia, ch’era privarlo d’un benefizio temporale gratuito. Gli prepara però successore d’altro lignaggio, qual fu Davide. E perché Dio, secondo il nobile detto della Sapienza, soavemente dispone intorno di noi ciò che efficacemente risolve: cum magna reverentia disponit nos (Sap. XII, 18); fa cadere una congiuntura opportuna di trasferire Davide allor pastorello dalla greggia alla Corte. Saule stesso è il primo ad accoglierlo per lo bisogno ch’ei n’ha contro il ſier gigante; ma dalle vittorie, che vede lui riportare de’ Filistei, dagli applausi ch’ode a lui farsi dalle milizie, si accorge questo essere il successore a sé minacciato. Però d’innanzi il comincia a guardar con quell’occhio livido, con cui è proprio dei governanti mirare i loro successori. Si accende d’odio, si gonfia di veleno, cerca in mille modi d’ucciderlo, or con lanciargli l’asta sul viso, or con mandargli le birrerie sino in camera, or con tendergli agguati per le foreste, quindi comincia a prezzare assai gl’interessi del suo Reame, poco i comandamenti del suo Signore. E perché sa, che alcuni sacerdoti di Nobe hanno ricettato il suo emulo, ordina, che siano tutti scannati alla sua presenza. Onde si vede cader ai piedi, per mano di un vile servo Idumeo, ottantacinque Sacerdoti vestiti in abito sacro: né contento di questo ordina parimente che Nobe, loro città, sia mandata a ferro ed a fuoco, facendo in essa una confusissima strage di uomini, di donne, di giovani, di bambini, di vecchi, senza nè meno perdonare alle bestie, né meno ai sassi. E quinci passando d’una in altra barbarie, d’una in altra scelleratezza; vede finalmente morirsi insieme in battaglia ſu gli aspri monti di Gelboe tutti e tre quei figliuoli, sui quali ambiva di stabilire lo scettro: chiede disperato allora la morte: non trova chi gliela dia: egli però rivoltando il suo ferro contro il suo petto, l’apre, lo squarcia, s’uccide da sé medesimo: e così finalmente: Dum Samueli non obtemperavit, Paullatim, atque paullatim habens, non stetit, quousque ad ipsùm perditionìs barathrum seipsum, immisit, come poi scrisse San Giovanni Crisostomo ponderando sì fiero caso. (Hom. 87 in Matth.). Ora considero io, chi avesse detto a Saule, quand’egli stava in procinto di trasgredire il comandamento di Samuele: Sire, guardate bene ciò, che voi fate, perché da codesta azione dipende come in radice la vostra salute e temporale, ed eterna; crediamo noi, che a Saule sarebbe ciò parso possibile? Come? da un’azione sì minima? non può essere, non può essere; questi sono spaventacchi di scrupolosi, son timori di vecchierelle. E pur così fu: non perché egli (notate bene) … non perché egli poi non avesse potuto assolutamente ritrarsi da tutte le susseguenti scelleratezze; ma perché il farlo gli fu tanto difficile, ch’ei non lo fece: laddove sarebbe stato a lui facilissimo (come ad uomo di tanta bontà, che: Non erat vir melior illo) se senza contrasto con emulo, e senza sospetto di successore, goduto avesse tranquillamente il suo Regno, com’è di fede, ch’ei se l’avrebbe goduto. – Ora deduciamo da questo illustre racconto quel ch’è di nostro particolare interesse, ed esclamiamo tremanti con San Gregorio: En quam magna… perdidit qui, ut putabat, nulla contemsit. Per così poco perduto tanto? E che cosa è questa? Ah, che quel poco era, per così dire, quel passo augusto, al quale Iddio: Magnus consilio, incomprehensibilis cogitatu, come lo chiamò Geremia, voleva mettersi a provar l’obbedienza, l’ossequio, la fedeltà di Saule per veder s’egli riusciva ancora del numero di coloro di cui sta scritto, che: Deus tentavit eos, et invenit illos dignos se (Sap. III, 5). Saule a questo passo non tennesi, ma cadde: e Dio privandolo di quegli aiuti maggiori, che secundum propositum voluntatis suæ, avevagli apparecchiati, lasciò che a poco a poco andasse in rovina. Or non credete, Signori miei, che con ciascuno di noi Dio faccia molte volte ancora così? E quanto spesso accadrà, ch’Egli dica dentro il cuor suo: io voglio ispirare a quell’ammogliato. che vada ad ascoltar quella predica. S’egli v’andrà, lo verrò di modo a commuovere in auxilio opportuno, che finalmente abbandonerà quella pratica. Abbandonata quella pratica, non gli sarà più difficile accostarsi frequentemente alla confessione e alla Comunione. Con questa frequenza egli a poco a poco si svezzerà di molti abiti licenziosi, contratti nel giuocare, nel parlare, nel trafficare: quindi applicatosi a maneggiar la sua casa cristianamente, vivrà ritirato, si morrà salvo. Ma se non udirà quella predica seguirà a conversare con la sua pratica, entrerà in altri amori, s’allaccerà in altri impegni, s’abbatterà in altri rivali che gli toglieranno miseramente la vita. Ed a quel giovane io voglio parimente ispirare, ch’ei vada a confessarsi per la tale solennità. S’ei v’andrà, lo verrò di modo a compungere in auxilio opportuno, che finalmente abbandonerà quei compagni. Ritirato da quei compagni, non gli sarà più molesto di attendere applica talmente allo studio ed alla pietà . Con questa applicazione egli a poco a poco accenderà di molti desideri ferventi di mortificarsi, di orare, di ritirarsi. – Quindi risoluto di assicurare la sua anima interamente, entrerà in Religione, volerà al Cielo. Ma s’ei non farà la tal confessione, seguirà a praticare coi suoi compagni, piglierà peggior piega, passerà in peggiori tresche, cadrà in peggiori disordini, che il condurranno drittamente all’inferno. Signori miei cari, queste sono verità certissime, irreparabili, indubitate. le quali noi quì non possiamo capire, perché troppo folto è quel velo ch’abbiamo agli occhi: Contenebrati sunt oculi nostri; ma le capiremo il dì del Giudizio, quando cadutoci, per così dire, un tal velo, noi vedremo subito per quali strade, o Dio si sarà compiaciuto salvarci, o noi ci saremo voluti dannare vias vitæ et via mortis (Ger. XXI, 8). E allora ogni Giusto, impaurito, qual pellegrino ramingo, ch’abbia camminato di notte, senza avvedersene, su l’orlo sempre d’un orrido precipizio: Oh Dio buono, dirà, da che è dipesa la mia salute! Quanto poco mancò, che in vece di mettermi per la strada del Cielo, non inoltrassi per la via dell’Inferno! Nisi quia Dominus adjuvit me, Paulo minus habitasset in inferno anima mea (Ps. XCIII, 17). Quell’operetta buona ſu che salvommi; il tal giorno, nella tale occasione: e s’io lasciava di farla, oh che via diversa prendea da quella ch’io presi! All’incontro quanto fremeranno i dannati, quanto urleranno, in veder donde avvenne, ch’essi smarrissero la via dritta al cielo! Viam civitatis habitaculi non invenererunt (Ps. CVI, 4). Ah s’io udiva la tal predica, ah s’io lasciava il tal compagno, ah s’io non andava al tal giuoco, ah s’io mi rimaneva la tal sera d’intervenire a quella veglia, a quel ‘bagordo, a quel ballo, a quella commedia! Ora non c’è più rimedio in eterno, misero me! non c’è più rimedio in eterno: Quam magna perdidi, quam magnaperdidi, qui, ut putabam, nulla contempsi!

SECONDA PARTE.

VI. Veggo che non vi potete più contenere da una gagliarda opposizione, la quale vorreste addurmi. Parlate dunque animosamente, sfogatevi. Oh Padre (voi mi direte) se fosse vera la dottrina da voi predicata finora, poveri noi! ne seguirebbe che noi dovessimo vivere in un assiduo sgomento ed in una angosciosa sollecitudine. Perocché (sentiteci bene) se noi sapessimo per appunto qual fosse questa piccola azione da cui dovesse come in radice dipendere o la nostra miseria, o la nostra felicità, chi può dubitare che noi saremmo molto ben circospetti nell’eseguirla? Ma non sapendo di qual dobbiamo temere, converrà temere di tutte: e per tanto dovremo sempre far grandissimo conto d’ogni minuzia: non dovremo sprezzar mai nessun difetto, come leggero, mai nessuna ispirazione come non importante; anzi in ogni luogo, in ogni occasione, in ogni ora, in ogni momento, dovremo studiarci di assicurare con qualunque minima sorte d’opere buone il nostro incamminamento alla Gloria. Signori miei, troppo mi volete voi stringere i panni addosso con coteste vostre obbiezioni. Ma che volete voi, ch’io risponda? Io non posso finalmente trovar gran difficoltà in concedere certe proposizioni, le quali ha concesse prima dirne la Sapienza eterna. Però vi do per convinto che quanto avete opposto, tutto è verissimo: Concedo, sì torno a dire, concedo totum. E che altro volle intender San Pietro, quand’ egli, dopo lungo discorso, cavò quella formidabile conclusione: quapropter fratres, magis satagite, ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis; hæc enim facientes, non peccabitis aliquando (2 Petr. I, 10). Quasi voless’egli dire in brevi parole: Dilettissimi miei, voi vi credete che il negozio della vostra eterna salute sia negozio da trattarsi per passatempo, quando non riman altro che fare in tutta la giornata, o di che pensare. Eh non è così? Egli è un negozio gravissimo, un negozio geloso, un negozio tremendo, il quale dovrebbe tener sempre occupato il vostro pensiero: Satagite … satagite …; diligenza ci vuole, industria, fatica, finché arriviate a non peccare giammai né molto, né poco, se tanto vi sia possibile: Magis satagite, magis; quanto più fate, tanto stimatevi obbligati a far più. Ma la maggior parte non fa così. Concedo. E però larga è la strada che conduce alla perdizione: Spaziosa via est quæ ducit ad perditionem. (Matth. VII, 13). Ma sono pochissimi quei che faccian così. Concedo. E però angusta è la porta che introduce alla gloria! Angusta porta est quæ ducit ad vitam. (Ib. VII, 14). Che poss’io dirvi? Poss’io predicarvi diversamente da quello, che ha pronunciato l’infallibile Verità? Numquid aliud judex nunciat, aliud præco clamat? (S. Greg. Rom. 17 in Evang.) Poss’io cancellar gli Evangeli, per darvi soddisfazione? poss’io cambiarli? che posso io fare?

VII. E a dire il vero, se non fosse così troppo forsennati sarebbero sempre stati tutti coloro i quali sentitosi dire dall’Ecclesiaste che: Qui timet Deum nihil negligìt, (Eccl. VII, 19) facevano tanto caso di non commettere né pur piccole imperfezioni. Appena si sollevava un leggero dileticamento di senso negli animi d’un Bernardo, d’un Francesco , d’un Benedetto, che incontanente tutti ignudi correvano, chi a tuffarsi nei ghiacci, chi a seppellirsi tra le nevi, chi a ravvolgersi tra le spine. Un solo fantasma impuro, che passò in sogno come di volo per la mente d’un Francesco Saverio, l’atterrì, l’agitò; lo riscosse in modo che gli fece scoppiar dalle fauci una corrente impetuosa di sangue, poco men che bastevole a soffocarlo per l’alto orrore. Un passo poco misurato, un riso poco composto, una parola poco considerata recava tal crepacuore alle Agnesi Auguste, ed alle Marie d’Ognes, che non potevano pe’ singhiozzi parlare, qualora se ne accusavano; come della prima testifica il Cardinal Pietro Damiano, e della seconda il Cardinal Jacopo da Vitriaco, ambedue loro santissimi confessori. Che più? Leggeva un Eusebio Monaco il libro degli Evangeli, quando dal libro gli trascorsero gli occhi con qualche straordinaria curiosità, a rimirare dall’aperta finestra della sua cella alcuni lavoratori che faticavano nella vicina campagna. Non ebbero quegli occhi più pace, finché la morte medesima per pietà non venne a serrarli. Perocché da Eusebio, accortosi del suo fallo, furono tosto puniti con questa legge, che non mirassero mai più né selve, né prati, né montagne, né Cielo. Si legò pertanto al collo una catena di ferro d’immenso peso, che sempre lo costringeva a mirare al basso, e così curvo e cadente, finché egli visse, che furono ancor vent’anni, non schiodò le palpebre più dal terreno. Signori miei, dove siete? Pensate voi che per sì piccoli mancamenti questi sfortunati credessero di aver subito meritato l’Inferno, onde se ne volessero ricattare con supplizi sì atroci, con asprezze sì intollerabili? Eh che non erano i miseri sì ignoranti, che non sapessero ancor essi assai bene, quanto si richieda a dannarsi. Sapevano, che a dannarsi richiedesi colpa grave, e colpa ancora commessa ad occhi veggenti, con animo risoluto, con voglia piena. Ma nondimeno temevano d’ogni minuzia, perché intendevano quanto sia facile in materia di peccato il passare dal poco al molto! Qui spernit modica, paullatim decídet. E così appunto lo confessò di propria bocca. l’istesso Eusebio a coloro. che quasi si scandalizzavano di veder punita un’imperfezioncella sì piccola con una penitenza sì rigorosa. Non vi meravigliate, diss’egli loro, di questo, perch’io lo fo: Ne malignus dæmon de magnis bellum gerat, conans aufèrre temperamtiam, atque justitiam. Temeva egli, che l’avere guardato curiosamente un oggetto indifferente non lo dovesse a poco a poco condurre a guardarne un peccaminoso: e non si fidava, ammesso questo una volta, di non dover passar dal guardo al compiacimento, dal compiacimento al desiderio, dal desiderio al consenso, dal consenso all’operazione, e quindi all’ultimo sterminio totale di quello spirituale edificio, ch’egli aveva innalzato con tanta pena; conforme a quel bellissimo detto dell’Ecclesiastico: Si non in timore Domini tenuerí, te instanter, cito subvertetur domus tua (Eccl. XXVII, 4). Direte, che a voi dà l’animo di astenervi dal molto, dopo avere commesso il poco; e che però tal timore non è per voi. Ma come, se non dava l’animo ad uomini sì perfetti. È possibile adunque, che per loro soli fosse la natura tanto ribelle, la grazia tanto scarsa, il cielo tanto spietato, la virtù tanto faticosa, la salute tanto difficile? Essi vestiti di cilizio, sparsi di cenere, ricoperti di lividure, temevano d’ogni principio di colpa, come d’un principio di dannazione; e non ne temerete voi, che pure vivete ammantati di bisso, aspersi di odori, e sagginati nel lusso? Crudelissimo Dio (vorrei allor io gridare, se questo fosse) Dio crudelissimo! E che amore di padre è cotesto vostro, ch’egualità di Signore? Porgete aiuti tanto soprabbondanti a quei che ingolfati nei piaceri del secolo, concedono ogni sfogo ai loro capricci; e non li porgete a quei, che per cagione vostra son iti a confinarsi nelle boscaglie, dove non hanno altra compagnia, che le fiere; altri testimoni che le ombre; al tre stanze, che le caverne; altro refrigerio che i pianti; altro trastullo che la mortificazione. Debbono stare ognora questi sì timorosi di sé medesimi; e quelli ne potranno vivere sicuri? Meglio sia dunque, se così è, gettar via cilizi, incenerire flagelli, sbandir digiuni, dimenticar penitenze, mentre maggior pericolo corrono di perire quei ch’ogni leggiera colpa castigano con tanta severità, di quei che l’ammettono con tanta scioperatezza. Ma bene stolto io sarei se mai mi lasciassi in questo modo trascorrere a lamentarmi di Dio, mentre pur troppo verrà giorno, verrà, nel quale si vedrà chiaro, quanto ad ognuno o religioso, o mondano, sarà costato comunemente il salvarsi. Ahimè, che il Regno dei Cieli non è da tutti. Chi vuol entrarvi, si ha da rompere il passo, anche a viva forza, con la negazione di quegli appetiti scorretti, che glielo ritardano: Contendite intrare per angustam portam, sì, dice Cristo, contendite, contendite. E che vuol dire questo contendite? Vuol dire: affannatevi, vuol dire: affaticatevi. Queste è poco. Vuol dir ciò che San Luca espresse più orribilmente col suo Greco vocabolo: Agonizate; vuol sprezzare roba, sprezzare riparazione, sprezzare all’ultimo sin la medesima vita.

VIII. Io so, che queste cose non si ascoltano da ciascuno sì volentieri, e che più volentieri si corre comunemente ad udire quei predicatori i quali diano sicurezza, che non quegli altri i quali arrechino timore. Ma non vi diss’io da principio, ch’io non poteva darvi in questa. materia, se non timore? Non vi dovete però meco sdegnare, ma compatirmi .Forse che non ho ancor io comune la causa con tutti voi? Non solleticherei anch’io, quanto ogni altro, volentieri le vostre orecchie, non lusingherei il vostro genio, non mi cattiverei la vostra benevolenza, s’io non vedessi che ciò facendo vi tratterei da servitore infedele; mentre per darvi un breve contento, forse vi arrecherei un’eterna rovina? Però vi conchiuderò con Santo Agostino: Fratres, nimis timendum esse volo . Eh convien temere pur troppo, convien temere; perché di certo è molto più profittevole un timore santo, che una sicurtà baldanzosa: Melius est enim non vobis dare securítatem malam. Io quanto a me: Non dabo, quod non accipiam. Come posso a voi dare ciò ch’io non ho? S’io fossi sicuro, farei sicuro anche voi: Securo vos facerem, si securus ego essem. Ma io pavento, ma io palpito, ma io tutto mi raccapriccio, pensando all’anima mia. E come dunque poss’io farvi sicuri? Benché, sapete voi, qual è il modo da ritrovar nel negozio della salute qualche considerabile sicurezza? Trattarlo sempre con un immenso timore, sempre ricorrere a Dio, sempre raccomandarsi a Dio: Chi fa così, vada lieto: Beatus homo, qui semper est pavidus (Prov. XXVIII, 14).

 

CONOSCERE SAN PAOLO (55)

CAPO II

I Novissimi.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

IV. LA CONSUMAZIONE DELLE COSE.

1. IL REGNO DI DIO E DEL CRISTO. — IL TERMINE FINALE.

1. Il regno di Dio, questo punto così saliente della predicazione sinottica, prende nel resto del Nuovo Testamento, e particolarmente in san Paolo, un altro carattere: è una differenza di orientamento che facilmente si spiega. Al principio della nostra èra, si sapeva di essere alla vigilia del giorno in cui si dovevano compiere le profezie che annunziavano la venuta del re discendente di Davide, il quale avrebbe fatto rifiorire con un maggiore splendore la teocrazia d’Israele ed avrebbe fondato su la terra il regno della pace, della giustizia e della santità. Bisognava dunque che Gesù, se voleva farsi riconoscere per Messia, rivendicasse a sé la dignità regale, spiegando la natura spirituale del regno che veniva a stabilire. So benissimo che, quasi senza eccezione, gli scritti del rabbinismo, tutti posteriori al Vangelo, non mettono « il regno di Dio » in connessione diretta con le speranze messianiche; con questa espressione essi indicano il governo divino nel mondo e non tanto l’impresa di Dio su le anime, quanto la libera accettazione del « giogo della Legge » mediante la professione di fede ebraica (Lagrange: Le messianisme chez les Juifs, Paris, 1909). Ma di queste due cose l’una è la vera: o la disgiunzione del regno di Dio e del regno del Messia era generale nel fariseismo contemporaneo, e importava sommamente che Gesù Cristo correggesse quella falsa idea tanto pregiudizievole alla riuscita della sua missione; oppure essa fu suggerita più tardi ai rabbini dal loro spirito di ostilità contro il Cristianesimo, e allora si capisce meglio perché la dottrina evangelica del regno di Dio non sollevò, nei primi tempi, nessuna obbiezione di principio. In qualunque ipotesi, l’annunzio del regno doveva essere un articolo fondamentale della predicazione di Gesù, durante quella fase del ministero pubblico che è caratterizzata dall’insegnamento delle parabole e che i Sinottici espongono con cura speciale. – Ma questa dottrina passa in secondo ordine quando l’idea cristiana del regno di Dio si trova realizzata nella Chiesa. Se ancora si dice per abitudine « predicare il regno (Act. I, 3; VIII, 12, etc.) », come si direbbe « predicare il Vangelo », si bada ad evitare i malintesi e a non urtare le suscettibilità dell’autorità romana, trasportando il regno fuori della sfera in cui si agitano gl’interessi di questo mondo. Per questo san Paolo, pure facendo un uso frequente di tale espressione, le dà quasi sempre un senso escatologico. « Gli ingiusti, i ladri, non erediteranno il regno di Dio »; gl’impuri, gl’idolatri « non hanno parte nel regno del Cristo e di Dio »; la persecuzione ci « rende degni del regno di Dio », che « la carne e il sangue non possono ereditare ». Sotto questo aspetto, il regno di Dio comincia al ritorno trionfale del Cristo e s’identifica con la vita eterna. Ma non sempre è così: il regno di Dio esiste già per noi; noi lo possediamo anticipatamente, come possediamo la vita, la redenzione, la salvezza e la gloria, in uno stato d’imperfezione che non esclude la realtà. Si può prendere nel senso escatologico la vocazione con cui Dio ci chiama « al suo regno ed alla sua gloria », ma non l’atto con cui ci ha « trasferiti nel regno del suo Figlio prediletto ». Qualche volta il senso è più oscuro: « Il regno di Dio, dice l’Apostolo, non è il mangiare e il bere, ma è giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo (Rom. XIV, 17) ». Qui evidentemente non è la società dei fedeli, né molto meno la società dei santi del cielo, quello che Paolo vuole indicare; ma è piuttosto il regno di Dio come si presenta negli scritti dei rabbini: appena appena si modificherebbe il senso, se si sostituisse al regno il Vangelo o il Cristianesimo. Così pure « il regno di Dio non è in parole ma in (opere di) forza (I Cor. IV, 20) »; esso non consiste nel parlare molto, come facevano gli agitatori di Corinto, ma nell’agire con vigore, come Paolo si propone di fare al suo ritorno. Insomma, il regno di Dio indica ordinariamente la vita eterna dove i giusti regneranno con Gesù Cristo; più raramente, la Chiesa militante dove essi lottano per lui; qualche volta, l’essenza ed i princìpi direttivi del Vangelo. Per san Paolo, come per gli Evangelisti, il regno di Dio è anche il regno del Cristo. La fondazione del regno è lo scopo della missione redentrice; e raggiunto tale scopo, il mandato del Salvatore cessa: « Poi la fine, quando rimetterà il regno al Dio e Padre, dopo di aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e (ogni) virtù. Poiché bisogna che Egli regni finché abbia messo sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici. L’ultimo dei nemici resi impotenti sarà la morte… Ma quando tutto gli sarà stato assoggettato, allora il Figlio stesso si assoggetterà a suo Padre, affinché Dio sia tutto in tutti (I Cor. XV, 24-26) ». La fine di cui qui si parla non è lo scopo della risurrezione, senso che non è ammesso né dalla parola greca né dal contesto; non è neppure la fine della risurrezione, come pretendono molti esegeti; è invece il compimento dell’opera del Cristo e la consumazione di tutte le cose. Si può tenere questo punto come acquisito, anche senza fare appello ai passi paralleli, poiché san Paolo indica chiaramente e in due maniere l’istante preciso che segna questa fine: da una parte la consegna del regno al Padre, dall’altra il trionfo completo sopra tutti i suoi nemici. Finché durava la lotta, finché gli avversari erano in piedi, la missione del Figlio di Dio era incompleta; ora che tutti i suoi nemici sono caduti ai suoi piedi, non eccettuata neppure la morte che era restata l’ultima sul campo di battaglia, la sua dittatura finisce, ed Egli restituisce al Padre il mandato che da Lui aveva ricevuto, con il frutto delle sue vittorie, come un vassallo fa al suo sovrano l’omaggio dei regni conquistati. – Tale è il pensiero di Paolo, espresso abbastanza chiaramente; ma il timore che san Paolo sembri voler limitare il regno del Cristo, suggerì agli esegeti le soluzioni più sottili. Rimettere il regno al Padre sarebbe far contemplare Dio dagli eletti che formano questo regno; oppure condurli a sottomettersi a Dio; oppure organizzare il regno, estirparne gli abusi, bandirne i ribelli: tutte sottigliezze che non hanno consistenza. Il Cristo, come Dio, come creatore, regna eternamente col Padre. Come uomo, conserva il primato di onore e la dominazione universale conferitagli dall’unione ipostatica. Se la Chiesa è un corpo, Egli ne è sempre il capo; se la Chiesa è una società religiosa, Egli ne è sempre il pontefice; se la Chiesa è un regno, Egli ne è sempre il re. Sotto questo aspetto, il suo regno non può finire: Egli regnerà sempre, e sempre « noi regneremo con lui ». Ma Egli è inoltre capo della Chiesa militante, incaricato di vendicare l’onore di Dio, di condurre alla vittoria quelli che marciano sotto la sua bandiera, di punire i ribelli o di sottometterli. Questo vice-reame temporaneo cessa con le funzioni che lo costituiscono; il mandato di dittatore o di generalissimo spira nel momento in cui non vi sono più combattimenti né forze nemiche. Dio, nell’affidare a suo Figlio questo potere straordinario, aveva pensato ad assegnarne il termine: « Bisogna che egli regni finché abbia messo sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici ». Come capo della Chiesa militante, il Cristo godeva di una specie di autonomia ed aveva effettivamente un’autorità propria. Terminata la sua missione, altro non gli rimane che prendere il suo posto, posto alto assai sopra i suoi soggetti, ma basso molto in relazione con Dio. L’abbandono del suo mandato è spontaneo, come era pure l’atto con cui lo aveva preso: l’uno e l’altro sono regolati secondo l’ordine del volere divino. San Paolo parla così evidentemente del Cristo come uomo, che si stenta a capire perché mai tanti Padri — e dei più illustri — abbiano pensato o al Cristo sussistente nella natura divina, o al corpo mistico del Cristo. Il corpo mistico del Cristo non è mai chiamato « il Figlio di Dio » né molto meno « lo stesso « Figlio »; ed è fare violenza al testo il passare bruscamente dall’opera della redenzione, che è l’argomento di tutto questo passo, alle relazioni della vita intima del Verbo.

2. Il sentimentalismo teologico dei nostri giorni, rinnovando i sogni di Origene, prolunga l’azione redentrice del Cristo molto di là dal suo ritorno trionfale. La parusia porterebbe soltanto la risurrezione e la glorificazione dei giusti; per gli altri non ci sarebbe ancora nulla di definitivo. La fine verrà più tardi, quando il Cristo avrà compiuta la sua vittoria sottomettendo con la persuasione tutti i suoi avversari; quando Dio, effettuando i suoi disegni di amore, avrà fatto misericordia, a tutti gli uomini. Ma san Paolo non si può fare responsabile di un sistema che contraddice molte delle sue più precise affermazioni. Secondo lui, la volontà salvifica di Dio, per quanto sia universale, rispetta la libertà umana; la redenzione offerta a tutti non è imposta a nessuno, ed il Cristo, mediatore unico, associa alla sua vittoria soltanto quelli che accettano la sua mediazione e che gli sono uniti con la carità. Perciò i partigiani della restaurazione universale si trovano costretti ad abbandonare il terreno della teologia e dell’esegesi per stabilirsi sul terreno, secondo loro, più stabile, della filosofia razionale, dove noi non possiamo seguirli. – Quando l’uomo sarà giunto al termine dei suoi destini, che cosa diventerà la sua antica dimora? Un solo testo dell’Apostolo permette a questo riguardo, qualche induzione abbastanza incerta (7). Egli ci rappresenta la creazione che attende, con ansiosa impazienza, la glorificazione degli eletti, alla quale Dio le ha promesso di farla partecipe. Senza sforzare troppo questa poetica ipotiposi, è evidente che la creazione materiale — poiché qui si tratta di questa, in opposizione agli esseri ragionevoli — fu associata in qualche maniera alla caduta dell’uomo ed avrà parte, in qualche misura, alla sua glorificazione. Difatti essa geme per la sua condizione attuale, come di uno stato violento e contrario alle sue legittime aspirazioni; essa non accettò di essere sottomessa alla vanità se non per ottemperare agli ordini del Creatore e dietro assicurazione che questo giogo odioso le verrebbe tolto al momento della perfetta liberazione dell’uomo. Tutto sta nel sapere se si tratta di una decadenza fisica o di una decadenza morale, di una riabilitazione fisica o di una riabilitazione morale. Questo testo isolato non permette di rispondere con certezza. La maledizione pronunziata da Dio contro la terra colpiva direttamente l’uomo e toccava la terra soltanto di rimbalzo: ora perdette la terra la sua fertilità naturale, oppure perdette l’uomo l’aiuto provvidenziale che lo sottraeva alla dura legge del lavoro! E la terra ricupererà un giorno quella meravigliosa fecondità che le promettono gli Oracoli Sibillini e altri apocrifi, senza parlare dei redattori del Talmud! Non ne sappiamo assolutamente nulla: « Dio solo può dire quali saranno i nuovi cieli e la nuova terra. Sarà quello che vi è di più conveniente per manifestare la bontà divina e la gloria dei beati. È dunque superfluo il perdersi in vane congetture dove la ragione è impotente e la rivelazione è muta ». Queste sagge parole di Scoto avrebbero potuto risparmiare ai teologi molti sogni, ed agli esegeti molte divagazioni. A Paolo, meno che a qualunque altro, non bisogna domandare che ci descriva i destini della creazione materiale. Tutto il suo interesse si concentra su la storia dell’umanità; e anche questa storia, di mano in mano che progredisce, si va racchiudendo in un orizzonte sempre più stretto: prima il genere umano, poi la Chiesa militante, poi gli eletti associati al trionfo del Cristo, finalmente Dio, tutto in tutti.

CONOSCERE SAN PAOLO (54)

CONOSCERE SAN PAOLO (54)

CAPO II

I Novissimi.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

III. IL GIORNO DEL SIGNORE.

1 . LA PARUSIA. — 2. IL GIUDIZIO FINALE. — 3. LA SEPARAZIONE DEI BUONI E DEI CATTIVI.

1. Parusia, letteralmente « presenza » e per estensione « venuta », è un termine tecnico usato nel Nuovo Testamento per indicare la seconda venuta di Gesù Cristo, la quale è anche chiamata « la rivelazione » oppure « l’apparizione » o « il giorno del Signore ». Quando san Paolo scriveva le sue lettere, si chiamava « parusia » la visita solenne di un sovrano o di qualche gran personaggio, particolarmente dello stesso imperatore. Polibio ricorda in questo senso la parusia del re Antioco, ed un’iscrizione del terzo secolo prima di Gesù Cristo, ci dice che la parusia di Saitapharnes a Olbia costò agli abitanti novecento pezze d’oro (Polibio, Hist. XVIII, 31). Questa circostanza straordinaria celebrata con feste, giochi, sacrifici, perpetuata da statue, da fondazioni, da medaglie commemorative e talora dall’inaugurazione di un’era nuova, era tale da colpire la fantasia della gente e lasciava un ricordo duraturo nella memoria degli uomini. Nessuna espressione conveniva dunque meglio di questa per indicare il ritorno trionfale del Cristo che viene a inaugurare il suo regno. – La parusia attinge largamente dalle descrizioni profetiche del giorno di Jehovah, del quale essa è la realizzazione tipica. Da entrambe le parti, il Giorno del Signore chiude la storia dell’umanità e segna la fine dei tempi; da entrambe le parti appare vicino, senza che si possa dire se tale sia effettivamente oppure se l’illusione dipenda dallo stile profetico che, sopprimendo la prospettiva, proietta sul medesimo piano avvenimenti lontani tra loro; da entrambe le parti arriva circondato da un apparato terribile, si annunzia con convulsioni cosmiche e lascia l’intera natura purificata e rinnovata; da entrambe le parti finalmente il Signore si presenta come Giudice, Salvatore e Vindice: Giudice universale, Salvatore dei suoi e Vindice degli oppressi. Ma, diversamente dal Giorno di Jehovah, la parusia è sempre intimamente collegata con la risurrezione dei morti; il suo carattere è più spirituale; è il Cristo, piuttosto che Dio, che pronunzia il giudizio. – In ogni profezia ed in ogni apocalisse, la parte del tipo, del simbolo e dell’allusione a profezie anteriori è sempre difficile da definire nettamente. Né  la profezia si dovrebbe spiegare come un racconto storico, né l’apocalisse come una profezia ordinaria: questo genere letterario comporta simboli tradizionali che sarebbe pericoloso prendere alla lettera, e il cui senso, condizionato da una serie di predizioni più antiche, rimane sempre misterioso e indeciso. Come tutte le composizioni della stessa specie, l’apocalisse di Paolo si fa eco di altre apocalissi; vi si trovano in copia reminiscenze di Daniele, d’Isaia, di Ezechiele, dei Salmi, con diversi tratti presi dal discorso escatologico di Gesù. Una difficoltà poi tutta speciale è questa: essa si riferisce ad un insegnamento orale del quale noi ignoriamo il tenore. L’apparato esteriore della parusia è presso a poco il medesimo dei Sinottici. Lo squillo della tromba chiama i morti ed i vivi alle grandi assise dell’umanità; il Figlio dell’uomo si avanza con la scorta degli Angeli, avendo per cocchio le nubi; in un batter d’occhio si muta la faccia del mondo, e gli spettatori sono colpiti da sorpresa, da costernazione, da spavento. Lo sconvolgimento fisico dell’universo, sul quale insiste l’escatologia dei profeti, da Paolo è accennato appena, e non troviamo in lui nessuna traccia sicura del fuoco della conflagrazione, del quale ci è data una drammatica descrizione nella prima Epistola di san Pietro. Dei tre segni precursori della parusia — oltre ai fenomeni fisici — la conversione finale degli Ebrei è speciale di Paolo, l’apostasia generale è comune a tutti, e così pure, probabilmente, l’apparizione dell’Anticristo, benché i Sinottici parlino di una molteplicità di falsi Cristi, e san Giovanni sembri dividere tra più personaggi la parte assegnata da san Paolo all’Uomo dell’iniquità, al Figlio della perdizione. Siccome san Giovanni ci fa sapere che la venuta di un Anticristo unico faceva parte dell’insegnamento degli Apostoli, si può ammettere che gli anticristi molteplici fossero considerati come i ministri o i precursori del grande avversario.

2. Avendo già parlato dei due punti che sono particolari dell’apocalisse di Paolo — l’ostacolo misterioso che si oppone alla manifestazione immediata dell’Anticristo ed il privilegio dei giusti testimoni della parusia — non aggiungeremo che poche parole sul giudizio finale, dove del resto la teologia paolina non offre nulla di veramente originale. Il giudizio è così intimamente collegato con la parusia, che è impossibile separare queste due scene di un medesimo dramma, riunite dalla Chiesa in un medesimo articolo del simbolo. Gesù Cristo  viene, e viene per giudicare i vivi ed i morti. Gli apostoli non mancavano mai di far entrare questo dogma nei loro primi discorsi ai pagani, e san Paolo con maggiore insistenza che gli altri, perché, almeno da principio, dava alla parusia un grandissimo rilievo. Il giudizio sarà universale e fondato sopra le opere: « Noi tutti dobbiamo comparire dinanzi al tribunale del Cristo, affinché ciascuno vi riceva la retribuzione di ciò che ha fatto mentre era nel corpo, sia in bene, sia in male (II Cor. V, 10) ». Qui si tratta soltanto degli adulti, i soli capaci di azioni morali; e nonostante l’autorità di sant’Agostino che dietro di sé trascinò, come al solito, tanti altri interpreti, non vi si possono includere, senza fare violenza, i bambini; ma l’universalità assoluta del giudizio è espressa con una formula che non ammette equivoco: « Verrà a giudicare i vivi ed i morti (II Tim. IV, 1) », i morti risuscitati ed i vivi testimoni della parusia. In qualunque maniera s’intendano i vivi ed i morti, non vi è nulla di mezzo tra questi due termini che comprendono necessariamente tutti gli uomini senza eccezione. Ne segue che i santi, assessori del sommo Giudice, saranno giudicati anch’essi; anzi, « noi giudicheremo gli Angeli (I Cor. VI, 3) »; e non soltanto gli angeli decaduti, ma gli Angeli rimasti fedeli: gli angeli cattivi non ricevono mai il solo nome di angeli senza il qualificativo. Insomma, il giudizio avrà la stessa estensione del merito e del demerito: Angeli o uomini, tutti quelli che sono stati sottoposti alla prova, ne siano o no riusciti vincitori, tutti dovranno comparire al tribunale di Dio. – Ai catecumeni s’insegnava che il giudizio sarà « eterno (Ebr. VI, 2) », nei suoi effetti e nelle sue conseguenze, cioè definitivo e irrevocabile. Per i giusti, san Paolo non potrebbe essere più esplicito: essi saranno « sempre col Signore (I Tess. IV, 17) »; la vita eterna che essi si sono guadagnata li mette al sicuro da una seconda morte. La sentenza pronunziata contro i cattivi non è meno immutabile; essi sono votati « alla perdizione eterna (II Tess. I, 9) ». Coloro i quali pretendono che san Paolo, dopo le Lettere ai Tessalonicesi, avrebbe mutato parere, non hanno dato la prova di tale ritrattazione immaginaria. In tutti gli scritti apostolici la morte è presentata come il termine dei timori e delle speranze: la sorte degli eletti e dei riprovati non è dunque più soggetta a incertezze ed a vicende.

3. Un passo di san Paolo ricorda la drammatica separazione dei buoni e dei cattivi, descritta da san Matteo e dall’Apocalisse di san Giovanni. È un brano ritmico e lirico, una specie di inno o di salmo, che raccoglie come in un mazzo tutti i principali tratti dell’escatologia cristiana. L’Apostolo dice ai neofiti, per consolarli delle persecuzioni che subiscono: È una prova del giusto giudizio di Dio che vuol rendervi degni del suoregno per il quale voi soffrite; poiché è giusto agli occhi di Dio il rimandare l’afflizione a coloro che vi affliggono ed il dare a voi, afflitti, il riposo con noi; quando si rivelerà dall’alto dei cieli il Signore Gesù, con gli Angeli della sua potenza, in un fuoco fiammeggiante; per punire quelli che non conoscono Dio e quelli che non obbediscono al Vangelo di Nostro Signor Gesù Cristo: essi subiranno per castigo la rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza; quando verrà per essere glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti i credenti ( II Tess. I, 5-10). Paolo dimostra la necessità del giudizio con lo spettacolo del mondo attuale, dove così spesso gli innocenti sono vittime: questo momentaneo sconvolgimento dell’ordine deve cessare. Il mondo futuro sarà il contrappeso del mondo presente: ai persecutori, il dolore e la vergogna; ai perseguitati, il riposo e la gloria. Dio ci manda la prova per renderci degni della corona; nel darci la corona Egli fa un atto di giustizia; Egli fa un giudizio altrettanto giusto, quanto nel rifiutarla agli empi; da entrambe le parti vi è retribuzione (II Tess. I, 6-7). Non si potrebbe dire più chiaramente di così, che il regno di Dio si conquista, si guadagna, si merita. Certamente si traviserebbe il pensiero di Paolo se si supponesse che il merito, per quanto sia reale e personale, possa essere frutto dei soli nostri sforzi. È Dio che, dopo di averci messo in mano il potere di meritare, ci eccita e ci aiuta a farne uso, fa trionfare in noi la sua grazia e ci rende degni del regno. Non è però meno vero che il merito è nostro e ci dà un vero diritto presso Dio. « Nonmi resta altro, scrive l’Apostolo a Timoteo, che ricevere la corona di giustizia che mi assegnerà in quel giorno il Signore, il giusto Giudice; e non soltanto a me ma a tutti quelli che hanno amato il suo ritorno glorioso (II Tim. IV, 8) ». La corona di « giustizia » è un premio legittimamente guadagnato; e il « giudice », se è « giusto », è tenuto ad assegnarlo senza nessun arbitrio o sopruso. « Dio non fa accettazione di persone; perciò chi ha peccato senza la Legge, perirà senza la Legge; chi ha peccato nella Legge sarà giudicato dalla Legge; poiché non sono gli uditori della Legge che sono giusti presso Dio; ma sono gli osservatori della Legge che saranno giustificati (Rom. II, 11-13) ». Il giudizio si farà secondo i lumi degli uomini e secondo le loro opere; perciò il giorno della retribuzione, si chiama, relativamente ai cattivi, « il giorno dell’ira » e, in relazione a tutti, « la manifestazione del giusto giudizio di Dio ». Non occorre aggiungere che le « opere » che saranno la misura del giudizio, non sono le sole azioni esteriori, poiché l’occhio del sommo Giudice penetra fino nelle più intime pieghe della coscienza umana (I Cor. IV, 5). – Il supplizio dei cattivi consiste in due cose: essi sono banditi lontano dal Signore e privi della sua gloria — e questa si chiama oggi la pena del danno — e provano nei loro sensi l’afflizione e l’angoscia; la loro sorte è la rovina, la morte eterna (II Tess. I, 9). La ricompensa degli eletti è tutto l’opposto: è la quiete, il riposo e la calma derivanti dalla soddisfazione di tutti i desideri legittimi, ed è soprattutto il regno di Dio, l’unione con Gesù loro capo, nella pace e nella felicità senza fine (II Tess. I, 7). Del resto la parola umana è impotente a tradurre quelle meraviglie, perché « l’occhio dell’uomo mai non vide e il suo orecchio mai non udì e il suo cuore mai non provò le cose che Dio ha preparate a coloro che lo amano (I Cor. II. 9) ». Tutto quello che si può dire, è che la visione di Dio senza velo e senza intermediario di sorta, succederà per noi ai misteriosi bagliori della fede; noi vedremo Dio a faccia a faccia e lo conosceremo come noi stessi ne siamo conosciuti (I Cor. XIII, 12).

SAN GIUSEPPE PROTETTORE DEI CRISTIANI (4)

SAN GIUSEPPE, IL PROTETTORE DEI CRISTIANI (4)

[A. CARMAGNOLA: Il Custode della Divina Famiglia S. GIUSEPPE – Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1896]

RAGIONAMENTO I.

Della Santità eminente di S. Giuseppe e del grado di culto a lui dovuto.

Se noi gettiamo lo sguardo lassù in cielo in una notte serena ed osserviamo per poco le stelle, vediamo tosto che non tutte brillano del medesimo splendore, ma che le une risplendono di più ed altre risplendono meno. Così pure assai diversa dalla chiarezza delle stelle ci apparirà la chiarezza della luna. Ma quando sul mattino dalle balze d’Oriente vien fuori il sole, allora il suo splendore fa eclissare quello di tutti gli altri astri. Tant’è: altra è la chiarezza del sole, altra la chiarezza della luna, altra la chiarezza delle stelle ed ogni stella ancora differisce in chiarezza dalle altre: Alia claritas solis, alia claritas lunæ, alia claritas stellarum. Stella enim a stella differt in claritate(I Cor. XV, 41). È questa l’osservazione,che fa S. Paolo scrivendo ai cristiani diCorinto, servendosene come di comparazione perfar loro intendere anzi tutto la differenza chepassa tra il corpo dell’uomo mortale e quellodell’uomo risuscitato ed in secondo luogo ladifferenza dei gradi di gloria, che vi sarà neicorpi dei risuscitati.Ma noi possiamo valerci di questa osservazioneper comprendere un’altra verità, quella cioè checi insegna S. Agostino quando dice che i Santinon sono tutti santi alla stessa guisa, ma che visono di quelli che sono più Santi degli altri edegli altri migliori. Ed in vero al di sopra ditutti i Santi vi ha primieramente il Santo deiSanti, il tre volte Santo, Iddio, il quale è a guisadi sole che illumina tutto il Paradiso; vi ha poila Santissima Vergine, la quale risplende comela luna; vengono in seguito gli altri Santi, chesi possono paragonare alle stelle, le quali peròdifferiscono in chiarezza l’una dall’altra.Or bene quale sarà tra i Santi quello che lassùin cielo formerà la stella più brillante? O mieicarissimi, voi tutti l’avete già indovinato:egli è S. Giuseppe, Sposo di Maria Santissima eCustode di Gesù durante la sua vita mortale. Nondeve far dunque meraviglia se si vede la ChiesaCattolica prodigar tanti onori a questo Santo ese i Cristiani hanno presa la bella abitudine diconsacrare anche a lui un mese intero. Imperciocchése noi dobbiamo onorare tutti i Santi edonorarli tanto più quanto maggiore è la loro santità,non si dovrà da noi onorare S. Giuseppe aldi sopra di ogni altro Santo, essendo egli il piùgrande fra tutti i Santi? Sì, senza dubbio la cosaè chiarissima. Ma è poi egli vero che S. Giuseppesia il più grande di tutti i Santi? Ecco una domanda,alla quale, secondo il mio avviso, devesi prima chead ogni altra rispondere nel dar principio al mesedi S. Giuseppe; perché risposto che noi avremo affermativamentea questa domanda, riconosceremoaltresì come a S. Giuseppe si debba il maggiorgrado di quel culto che si dà ai Santi e quanto convenga per conseguenza di consacrare a lui un intero mese. – O S. Giuseppe! Eccomi qui per imprendere il canto delle vostre lodi. Voi lo sapete, il desiderio del mio cuore è grande, ma son poche le forze della mia mente. Come già ho fatto in privato, lasciate che ancora una volta in pubblico io invochi il vostro santo aiuto. Che in questo mese, a voi consacrato, almeno un poco io valga a farvi meglio conoscere, almeno un poco io possa accrescere la divozione per voi e nel cuor mio e nel cuore di questi miei carissimi uditori.

PRIMA PARTE.

A dimostrare che S. Giuseppe è il più grande fra tutti i Santi non è per nulla difficile, e si può dimostrare con molte ragioni. Tuttavia io ne scelgo una sola, che a me pare anche la più forte di tutte, ed è quella della perfetta corrispondenza che S. Giuseppe diede alla grazia da Dio ricevuta. Udite. È volere espresso di Dio che noi ci facciamo Santi, che cioè attendiamo ad osservare in questa vita la sua divina legge, a praticare la virtù, a fuggire il peccato per essere poi eternamente beati nella gloria del Cielo: Hæc est voluntas Dei sanctificatio vestra (I Tess. IV, 3). Ma possiamo noi colle sole nostre forze naturali operare la nostra santificazione? No. È dottrina di fede, insegnataci dalla Chiesa e ripetutamente scritta nei Santi libri che noi, da noi medesimi, non possiamo far nulla in ordine alla nostra eterna salute, neppure concepire nell’anima un buon pensiero. Or dunque Iddio, che ci comanda di farci santi, comanderà a noi l’impossibile? Sarà Egli perciò un Dio crudele, un Dio tiranno?…. Oh! lontane, lontane da noi tali supposizioni. Iddio che vuole la nostra santificazione, pieno di amore e di bontà, non lascia di darci i mezzi necessari ad operarla, ed il mezzo che tutti gli altri comprende è quello della sua grazia. Sì, è certo che Iddio dà a tutti gli uomini quella grazia, per mezzo della quale, se essi risolutamente il vogliono, possono salvarsi ed essere un giorno nel novero dei Santi. E se vi hanno pur troppo di quelli, i quali si dannano, ciò non avviene perché sia loro mancato l’aiuto della grazia di Dio, ma bensì perché a questo aiuto della grazia essi non hanno corrisposto; sicché se le anime dannate dal fondo dell’inferno, ove si trovano, osassero muovere lamento contro alla divina giustizia, il Signore potrebbe bene rispondere a ciascuna di esse: Taci là, che la tua perdizione è opera tua: Perditio tua ex te. Or bene come è certo che il Signore dà a tutti gli uomini la grazia sufficiente per operare la loro eterna salute, così è certo che Egli non dà a tutti la stessa quantità di grazia, ma a chi ne dà più, a chi ne dà meno. E forsechè si potrà perciò accusarlo di ingiustizia? Deve forse a qualcuno degli uomini qualche cosa? Egli deve un bel niente a nessuno. E non è egli forse il padrone assoluto della grazia? Dunque potrà distribuirla come e a chi gli piace. Tuttavia, benché Iddio sia liberissimo distributore della sua grazia agli uomini, dicono i Santi Dottori, tra i quali l’Angelico S. Tommaso, che Egli è solito dare la sua grazia in proporzione dell’ufficio, cui Egli elegge gli uomini, e che però quanto più alto è l’ufficio, cui un uomo è dalla divina Provvidenza eletto, tanto maggiore è la grazia, che da Dio riceve. – Or bene, venendo al nostro caro S. Giuseppe, quali erano gli uffici, cui Iddio l’aveva destinato? Anzi tutto egli era destinato al nobilissimo ufficio di Sposo di Maria Santissima, vale a dire di Colei che era la più pura, la più santa, la più grande fra tutte le creature, di Colei, che Iddio avrebbe sollevato alla dignità più sublime, alla dignità di sua Madre istessa, di Colei che perciò sarebbe stata la Regina del cielo e della terra, degli Angeli e degli uomini. E di Costei, di Maria, S. Giuseppe doveva essere lo Sposo! Doveva cioè vivere con lei e per lei, essere il suo capo, manifestare a lei i suoi pensamenti, i suoi desideri e persino i suoi ordini, essere il suo intimo confidente e ricevere da lei il deposito delle sue gioie e de’ suoi affanni, essere il suo sostegno, il suo aiuto, il suo scudo, la sua difesa, il suo visibile angelo custode. E quando S. Giuseppe non avesse dovuto esercitare altro ufficio in sulla terra che questo, non si richiedeva già per questo solo un tesoro immenso di grazia? Ma oltre ad essere eletto all’ufficio di Sposo di Maria, S. Giuseppe era eletto ad un altro ufficio anche più sublime, a quello cioè di essere quaggiù il vicepadre di Gesù Cristo, di Colui che da tutta l’eternità generato dal divin Padre nello splendore dei Santi si sarebbe incarnato e fatto uomo per opera dello Spirito Santo nel seno purissimo della Vergine e da lei sarebbe nato e poi vissuto e morto per la redenzione del mondo. Ora che avrebbe importato un tale ufficio? Avrebbe importato, che Giuseppe prendesse cura e sollecitudine di Gesù come suo figliuolo, che con le sue fatiche e con i suoi sudori pensasse a procacciare il sostentamento per Colui, che colla sua divina provvidenza lo procaccia a tutti gli uomini del mondo e persino a tutti gli uccelli dell’aria, a tutti i pesci del mare, a tutti gli animali della terra, che Giuseppe a costo di qualsiasi sacrificio scampasse Gesù dai pericoli della sua vita privata e diventasse per tal guisa il Salvatore del Salvator del mondo, che Giuseppe insegnasse a Gesù a lavorare e dirigesse per tal modo quelle mani che hanno creato e sostengono il mondo, che Giuseppe avesse soggetto ed obbediente a sé Colui, nel quale gli Angeli non osano di fissare lo sguardo, che tocca col dito i monti e li fa fumare, che fa un cenno del capo e trema la terra, che insomma Giuseppe fosse un’altra volta Angelo custode visibile e lo fosse dell’Uomo Dio! – Or dunque se tale era l’altro sublimissimo ufficio al quale S. Giuseppe era da Dio trascelto, chi non argomenterà, che a S. Giuseppe convenivasi una grazia smisurata? Per certo e in cielo e in terra dopo l’ufficio di Madre di Dio a cui venne eletta Maria, non vi era ufficio più alto di quello a cui venne eletto Giuseppe, Sposo di Maria e Custode di Gesù. Epperò siccome l’ufficio suo sorpassava di gran lunga quello di tutti gli altri Santi, e dei patriarchi, e dei profeti, e degli Apostoli, e dei Martiri, e dei confessori e dei vergini, così a lui si conveniva una grazia, che fosse pure di gran lunga superiore a quella ricevuta da tutti gli altri Santi. Ora chi potrà anche solo pensare che Iddio non abbia dato a Giuseppe una tal grazia? Ah! Quello che potrà più facilmente accadere in tutti si è di non sapere neppur pensare quanto grande sia stata la grazia di cui il Signore volle arricchire questo Santo. Epperò ormai non vi ha più alcuno che dubiti sopra di ciò, che, sebbene non sia di fede, tuttavia comunemente si ammette da molti sacri Dottori, che cioè San Giuseppe sia stato santificato insin dal seno materno, epperò sia venuto alla luce del mondo scevro dalla macchia del peccato originale. Imperciocché se un tanto privilegio venne concesso, come ci insegnano le Sacre Scritture, al profeta Geremia ed a S. Giovanni Battista, perché Iddio l’avrebbe negato a colui, che già abbiamo riconosciuto per il suo ufficio essere superiore ad ogni altro Santo? Ma che vuol dire questo privilegio della santificazione prima della nascita? Vuol dire non solo essere mondati, prima di nascere, dalla macchia del peccato originale, ma per soprappiù essere ammirabilmente invasi dalla divina grazia e per mezzo di questa essere fatti belli, santi, sommamente cari a Dio. Se adunque noi piamente riteniamo che S. Giuseppe sia stato santificato insino dal seno materno, riteniamo altresì che Iddio gli abbia allora riversato nel cuore una pienezza di grazia tutta conforme all’ufficio, cui lo aveva eletto da tutta l’eternità e che una tale pienezza di grazia fosse superiore a quella di tutti gli altri Santi. – Or bene, stabilita questa verità, a riconoscere secondo il nostro proposito, che S. Giuseppe è il più grande di tutti i Santi, bisogna ancor riconoscere se egli corrispose convenientemente alla grazia da Dio ricevuta. E per ciò non abbiamo bisogno di lunghe indagini: basta che ci appigliamo al Santo Vangelo e il Santo Vangelo, benché di Giuseppe ci parli pochissimo, a questo riguardo tuttavia ci dice quanto è basta. Di fatti, come mai il Vangelo chiama Giuseppe? Qual è la qualità, la virtù, che per eccellenza ci dimostra trovarsi in lui? Attenti bene: Joseph autem cum esset iustus: Giuseppe, dice il Vangelo, era giusto. Giusto? Ma che significa qui questo nome di giusto? Questo nome, dice S. Girolamo, il dottor massimo di Santa Chiesa, questo nome qui significa il possessore di tutte le virtù: Giuseppe è chiamato giusto propter omnium virtutum perfectam possessionem: per la perfetta possessione di tutte le virtù. Non per una virtù sola, non per molte, non per moltissime, ma per tutte; anzi nemmeno solo per tutte le virtù, ma per tutte praticate in perfetto grado: propter omnium virtutum perfectam possessionem! E che cosa può dirsi di più di un uomo, quanto il dire che egli possiede ogni perfezione e la possiede perfettamente? Non vi par questo un elogio sublime? un encomio sommo? E se è così qual dubbio si può avere che egli non abbia pienamente corrisposto alla grazia da Dio ricevuta? sì, vi corrispose; vi corrispose quanto poteva corrisponderle; è lo Spirito Santo che ce ne fa fede, e poiché la grazia a lui data da Dio, dopo quella data a Maria, fu una grazia  superiore a quella data a tutti gli altri santi. perciò S. Giuseppe anche solo per questa ragione della perfetta corrispondenza alla grazia, fu il più grande fra tutti i Santi. E come tale appunto lo riconoscono e lo predicano il celeberrimo cancelliere di Parigi, Gersone, i devotissimi Bernardino da Busto, Giovanni di Cartagena. Isidoro soprannominato Isolano, S. Leonardo da Porto Maurizio ed il piissimo Suarez, uomo il cui voto, al dire del padre Paolo Segneri, equivale quello d’una intera università. E tutti questi Santi uomini riconoscendo S. Giuseppe come il più grande fra tutti i Santi, sciolgono essi medesimi la difficoltà, che potrebbe nascere da quell’elogio. Gesù Cristo fece un giorno di S. Giovanni Battista, quando disse di lui che non surrexit major E dicono: Questa parola del divin Redentore a lode di S. Giovanni Battista non deve far difficoltà a riconoscere S. Giuseppe anche maggiore di S. Giovanni, perché S. Giuseppe non entra in rigacogli altri nati di donna, essendo che egli fu di un ordine sopra ogni ordine, fu nell’ordine supremo dell’unione ipostatica; epperò quando Gesù Cristo disse ad onor di Giovanni, che non era nato alcuno maggiore di lui, S. Giuseppe ne era totalmente escluso ed eccettuato. – S. Giuseppe adunque, ripetiamolo pure lietamente, è il più grande fra tutti i Santi e come il più grande fra tutti i Santi merita di essere onorato da noi col maggior grado di quel culto, che si dà ai Santi. – Il culto che noi rendiamo ai Santi è un culto di venerazione, che si differenzia da quello che rendiamo a Dio, in ciò che Iddio lo adoriamo come Creatore e Signore supremo di tutte le cose, mentre i Santi li veneriamo in quanto sono immagini della bontà di Dio, avendo in sé qualche cosa delle divine perfezioni e qualche somiglianza della divina eccellenza sopra le creature. Dal che si vede, per dirlo anche solo di passaggio, quanto la sbagliano i Protestanti, i quali per il culto che noi rendiamo ai Santi arrivano a tale da accusarci di idolatria. Ma forse ché noi adoriamo i Santi, come adoriamo Iddio! Niente affatto. I Santi li veneriamo soltanto. E venerare i Santi non è cosa al tutto conforme alla ragione! Poiché si onora i l re, non è giusto onorarne anche, sebbene in modo inferiore, i suoi amici! coloro che dal re istesso sono stimati ed onorati! coloro che ne sono la rappresentanza? E tali presso a poco sono appunto per rispetto a Dio i Santi, sicché il non onorarli sarebbe lo stesso che disprezzare Iddio. Epperciò la Chiesa, checché ne sembri ai Protestanti, ha sempre venerato i Santi fin dai tempi apostolici. – Or dunque se i Santi meritano di essere onorati, benché solo col culto di venerazione, e la Chiesa li venera qual più qual meno, secondo che in essi appare una maggiore o minore santità, non è egli vero che S. Giuseppe per essere il più grande di tutti i Santi merita di avere in questo culto di venerazione il maggior grado? Sì, senza dubbio. Epperò si doni pure a Maria, Madre di Dio, un tutto speciale, il culto della somma venerazione, che tenga come un posto di mezzo tra quello che si dà a Dio e quello che si dà ai Santi, ed a S. Giuseppe non si doni altro culto che quello della semplice venerazione, ma glielo si dia nel suo maggior grado, perché giustamente gli è dovuto. Così consacrisi pure a Gesù il mese di Giugno per esaltare le misericordie del suo divin Cuore, si consacri pure a Maria il mese di Maggio per disfogare l’animo ripieno di amore per Lei, ma sia pur bello consacrare a Giuseppe il mese di Marzo per manifestare viemeglio la divozione che si nutre verso di lui. Onorare con tanto alari S. Giuseppe non è far altro che seguire l’esempio della Chiesa; anzi non è far altro che seguire l’esempio di Maria Santissima e dello stesso nostro Signor Gesù Cristo, come vedremo dopo breve riposo.

SECONDA PARTE.

Onorare S. Giuseppe è anzitutto seguire l’esempio della Chiesa. Difatti non vi ha alcun Santo che la Chiesa onori tanto quanto S. Giuseppe. Gli altri Santi hanno nel corso dell’anno un solo giorno di festa, o tutto al più due. Ma S. Giuseppe ne ha tre; anzi tutto quel del 19 Marzo, nel quale comunemente si crede sia avvenuto il suo transito; e poi la terza domenica dopo Pasqua per onorare ed invocare il suo santo Patrocinio; e poi ancora il 23 Gennaio per ricordare il suo sposalizio colla Beata Vergine. Inoltre la Chiesa consacra a S. Giuseppe come fa per Maria, un giorno della settimana, il mercoledì, e persino un intero mese, il mese di Marzo, o quello che corre dal 18 Febbraio al 19 Marzo. Quante poi sono le chiese che ora si vanno innalzando ad onor di S. Giuseppe! e di tutte le altre dedicate ad altri Santi, manca forse un altare per S. Giuseppe? Si può dire ancora, che ogni qualvolta la Chiesa per ottenere da Dio grazie speciali interpone l’intercessione dei Santi in generale e di alcuni in particolare, non lascia mai di interporre quella di S. Giuseppe; per modo che chiaramente apparisce che non vi è Santo, che la Chiesa onori così come S. Giuseppe. Ma se così fa la Chiesa, è perché la Chiesa si modella per questo culto sulla stessa Santissima Vergine e sopra Gesù Cristo. Di fatti Maria quanto onorò il suo sposo quaggiù! Lo riguardò sempre come il suo capo, come colui al quale doveva essere sottomessa e lo trattò sempre con grande rispetto, non ostante che fosse a lui tanto superiore. E come l’onorò essa, così si adoperò per farlo onorare dagli altri ed è certo che anche dopo che avvenne la morte di lui, sempre portandolo scolpito nella memoria e nel cuore, ne parlava con venerazione ed affetto, studiandosi di far concepire nel cuore dei primitivi Cristiani una grande stima ed un grande amore per lui. E dopo averlo onorato qui in terra, l’onora anche presentemente lassù in cielo, poiché possiamo bellamente immaginare, che se Maria in Paradiso passando avanti a tutti gli altri Santi è da loro profondamente inchinata, passando anche dinnanzi a S.Giuseppe e riguardandolo sempre, come suo carissimo sposo, ella a lui si inchina con riverenza ed amore. Così adunque Maria ha onorato ed onora S. Giuseppe. E Gesù? Oh! in quanto a Gesù basta per tutto quel che leggiamo nel Vangelo. Là si dice che Gesù a Nazaret era soggetto a Maria ed a Giuseppe: et erat subditus illis. Soggetto anche a San Giuseppe? Ma quale onore più grande gli poteva rendere in sulla terra? E se tanto l’ha onorato qui in terra non l’onorerà altresì grandemente lassù in Cielo? Non vi può essere di ciò alcun dubbio. – Se pertanto onorare S. Giuseppe è fare quel che fa laChiesa, quel che fa Maria, quel che fa Gesù, onoriamolo grandemente anche noi, onoriamolo con grande slancio particolarmente in questo mese a lui consacrato; veniamo sovente dinnanzi al suo altare per pregarlo, veniamo a sentire le sue lodi, ad imparare le lezioni che egli ci dà; studiamoci altresì di guadagnargli ancora altri devoti, e per tal modo oltre al renderci sicuri della protezione di questo gran Santo, faremo ancora una cosa sommamente gradita alla Chiesa, a Maria ed a Gesù.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (36)

CAPITOLO XXXIV

(seguito del precedente)

Frutti dello spiritismo — Negazione sempre più generale del Cristianesimo— Libertà data a tutte le passioni — Pazzia — Suicidio — Statistiche — Ultimo ostacolo all’invadimento satanico: il papato— Grido della presente guerra: Roma o morte — Timore, generale sentimento d’Europa — Unico mezzo di calmarlo rimettersisotto il governo dello Spirito Santo — maniera di farlo.

La novella religione dà i suoi frutti. È dote essenziale d’ogni dottrina concretarsi in fatti, che ne sono i frutti naturali. Sinora, fra i più palesi effetti dello spiritismo s’annovera, nell’ordine religioso, la negazione che si fa sempre più generale del Cristianesimo, come opera divina e come religione positiva; il diminuirsi del timore dei divini giudizi, la fede della metempsicosi, la quale portando in pieno secolo decimonono gli errori dello gnosticismo teorico, mena allo gnosticismo pratico, vale a dire allo sbrigliamento degli scorretti appetiti. E potrebbe forse accadere altrimenti? Venir fuori a proclamare in mezzo ad un mondo come il nostro, che le pratiche del Cattolicismo punto non sono obbligatorie; e che qualunque vita s’abbia menata, se ne potrà saldare i conti con pene transitorie; che queste pene medesime andranno sempre scemando, finché si giunga a perfetta ed eterna felicità; non è egli un gettar legna sul fuoco e stimolar le passioni in modo terribilmente efficace? « Le strade ferrate, dicono con ragione gli spiritisti, hanno fatto cadere le barriere materiali. La parola d’ordine dello spiritismo: senza carità non vi è salute, farà cadere tutte le barriere morali. Farà in special maniera cessare l’antagonismo religioso, cagione di tanti odi e sanguinosi conflitti; attesoché allora ebrei, Cattolici, protestanti, turchi, si stenderanno la mano, adorando, ciascuno alla sua maniera, l’unico Iddio di misericordia e di pace ch’é lo stesso per tutti.» [Rivista spiritistica, ivi, p. 23]. E in altro luogo: «Il principio della pluralità delle esistenze, ha soprattutto una singolare tendenza a entrar nell’opinione delle moltitudini, e nella filosofìa moderna. » [Ivi,, p. 5]. E noi lo crediamo facilmente. Di tutti questi errori più o meno seducenti, qual è il finale risultato? quello che il demonio ha sempre ambito e che unicamente ambisce: la perdita delle anime, cioè la separazione eterna del Verbo redentore: « satana, dice san Cipriano, non ha altro desiderio che di allontanare gli uomini da Dio e attirarli al suo culto, togliendo loro l’intelligenza della vera Religione. Punito egli cerca di farsi dei compagni del suo supplizio, di coloro che rende con i suoi inganni, partecipi del suo delitto. »[De idolorum vanit., c. VII] – E sant’Agostino: « I demoni fìngono d’essere costretti dai maghi a cui obbediscono volentieri, a fine di allacciarli essi e gli altri, più fortemente nelle loro reti e di ritenerveli. » [De cìvit. Dei, lib. II, c. VI. – « Il demonio, aggiunge Alfonso di Castro, finge d’esser preso per prenderti meglio; vinto, a fine di vincerti, sottomesso alla tua volontà, per sottometterti alla sua; prigioniero per metterti nei suoi ferri; finge d’essere attaccato, per le tue invocazioni ad una statua, ad una pietra (a una tavola) all’oggetto di attaccarti con le catene del peccato e di trascinarti nell’inferno. [Lib. I, de Inst. Hæretic. punit.] » E in mezzo a nazioni battezzate, si lascia tranquillamente propagarsi una simile religione? Nell’ordine sociale, i suoi effetti non sono punto meno funesti. Per ciò stesso che egli tende a distruggere il Cristianesimo, lo spiritismo prepara la rovina della società. Bisogna aggiungere che i principali agenti della Rivoluzione europea sono spiritisti, e che gli oracoli degli Spiriti, circa i futuri avvenimenti sono mandati da Garibaldi. Fra esso e i capi dello spiritismo vi è una attivissima corrispondenza. Nell’ordine civile o domestico, la nuova Religione si rivela con la pazzia e col suicidio. Cosi doveva essere. satana è l’implacabile nemico dell’uomo: chiunque scherza con esso, scherza col fuoco. Vittima della sua temerità, ei si trova con la pazzia quando credeva abbracciar la ragione: in seno alla morte, credendo andare alla vita: imperocché, uccidere l’uomo nell’anima e nel corpo, è il supremo intento del grande omicida. Son questi adunque i due grandi contrassegni del regno di satana, che si manifestano sul mondo presente, segni che lo Spiritismo ha resi più che mai chiari e spiccati. Ahimè! guardate che terribile forza ha la muta eloquenza delle seguenti cifre. Il numero de’pazzi in cura nei manicomi in Francia, era nel 1835, quando s’ebbe a farne per la prima volta il novero, di 10,539. Nel 1851, di pazzi o scemi, ricoverati nei pubblici ospizi, o dimoranti nelle loro case, se ne contarono 44,960. Nel 1856 il numero dei pazzi propriamente detti crebbe a 35,031; de’quali 11,714 nelle loro case, e 23,515 negli spedali. Nel 1861, negli 86 dipartimenti dell’antica Francia, si contarono 14,853 pazzi propriamente detti a domicilio, e quindi quasi 20 per cento più che nel 1856. Il l° gennaio del 1860, il numero de’pazzi negli spedali era di 28,706. « Siccome questo numero cresce incessantemente; noi non esitiamo punto a metterlo, pel giugno 1861, di 29;500: onde risulterebbe un totale di 44,353 pazzi, nei manicomi o a domicilio. Sommando insieme pazzi, scemi e cretini, si ha per l’antica Francia, nel 1861, un totale di 80,839 di cotesti infermi. » [Giornale della Società di statistica di Parigi. Del movimento dell’alienazione mentale, ecc., del signor Legoyt, capodi divisione e di statistica generale in Francia, marzo 1863.— L’Inghilterra segue lo stessa progresso. Al 1° gennaio 1864vi si contavano 44,695 pazzi per l’Inghilterra e il paese diGalles, e questo numero non rappresenta tutto che imperfettamente le reali proporzioni della pazzia in tutto il regno].Dal che si vede che nei ventisei ultimi passati anni il numero dei pazzi noverati in Francia si è quasi triplicato [Statistica della Francia. 2a serie, t. III, 2a parte — e Censimento del ministero dell’Interno, 1861]. –  Non è altrimenti un calunniare lo spiritismo, l’attribuirgli gran parte del merito di cotesto bel progresso. Or sono diebi anni, negli Stati Uniti, si calcolava che nei casi di pazzia e di suicidio ei ci entrava per un decimo. [Nampon, Disc. sullo spirit. p. 41]. In un suo ragguaglio sullo Spiritismo, considerato come causa di pazzia, e letto recentemente alla società degli studi medici di Lione, il Dott. Burlet cosi riepilogava le sue conclusioni: « L’influenza della pretesa dottrina spiritica è oggidì ben dimostrata dalla scienza. Le osservazioni che la mostrano vera e reale si contano a migliaia. Ci sembra cosa posta fuori di dubbio che lo spiritismo può venir collocato fra le più feconde cagioni dell’alienazione mentale » [ivi]. – E una lettera da Lione, posteriore a codesto ragguaglio dice: « E un fatto, che, dopo l’invasione dello Spiritismo nelle nostre mura, il numero di coloro che s’ebbero a chiudere nell’ospedale per cagione di pazzia, si è più che duplicato. » Somigliante progresso appalesasi dovunque pianta le sue tende lo spiritismo. L’arcivescovo di Bordeaux, in una sua pastorale per la Quaresima del 1863, diceva al suo clero: « Difendete la cattolica verità contro le pratiche misteriose, le evocazioni, le malie, cose che rammentano tristi epoche nella storia del mondo, e che, troppo sovente, hanno, fra gli altri loro lagrimevoli effetti, quello altresì di produr la pazzia. » E, notato che il numero dei pazzi si è in questi ultimi tempi triplicato, il cardinale soggiunge: « Sì è giunti, fra le congreghe, che noi crediamp dover nostro segnalare alla sollecitudine dei nostri padri di famiglia, al segno di formulare dottrine contrarie a quelle della Chiesa. State costantemente sulla breccia; allontanate i fedeli dai luoghi in cui si esercitano queste dannevoli superstizioni. » –

Segno manifesto dell’influenza del demonio si è, ancor più della pazzia, il suicidio. Suprema violazione della legge divina, negazione assoluta della fede del genere umano, questo disperato delitto non è in natura. Ogni essere ripugna alla sua propria distruzione: mortem horret, dice sant’Agostino, non opinio sed natura, di guisa che le bestie medesime non si uccidono volontariamente. – Il pensiero del suicidio, che rende l’uomo inferiore alle bestie, non può dunque venirgli che da suggestione fuori della sua natura. Ora, gli ispiratori del pensiero sono due soltanto: lo Spirito Santo, e satana. Non viene dallo Spirito Santo: che anzi lo vieta e condanna: Non occides. Viene dunque da satana, il grande Omicida, che, fin dal principio del mondo, non ha mai cessato, e non cesserà mai, di odiare l’uomo di mortalissimo odio. E se vien dal demonio il pensiero, che dire del delitto stesso del suicidio? Per spingere l’uomo a distruggere sé stesso, oh Dio! che dominio non bisogna mai che abbia sopra di lui! E l’uomo suicida, quanto più consuma l’orrendo delitto a sangue freddo, dà segno che è tanto meno libero di se stesso: proprio com’è il moderno suicidio. Pertanto, tutte le volte che sentirete dire che un uomo s’é dato a sangue freddo la morte, dite pure francamente, ch’egli era in balìa del demonio. Parimente se troverete nella storia tempo, in cui il suicidio si mostri più frequente, dite pure anche allora: il demonio in questo tempo volle avere una gran signoria. E se voi v’abbattete a trovar tempo in cui il suicidio sia più frequente che in altri mai; che lo si commetta a sangue freddo, per qualsisia motivo, in ogni età e condizione dell’uomo; in modo insomma che cessi d’incutere orrore e spavento, ahimè! quello sarà tempo di dover tremare. E si ha un bel negarlo, ma pur troppo si può dirlo ad alta voce, e senza paura di errare, che il demonio sul tempo nostro regna con signoria, quasi diremmo, sovrana: la storia è li pronta a confermarlo. Quando, nell’antico mondo, il suicidio desolava in miseranda guisa l’umana società, il regno di satana era al suo apogèo: [Vedi Storia del suicidio del sig. Buonafede]; cotesto delitto n’è il segno e la misura. Divenuto simile alla Bestia che adorava, l’uomo s’era abbrutito. E non credeva più a nulla, nemmeno a se stesso: a sanare il mondo, a purgarlo della profonda sua corruzione, ci voleva il ferro de’ barbari, e il diluvio di sangue. – Scacciato dal Cristianesimo, il suicidio ricomparve in Europa in un col Risorgimento [ibidem]; in modo che di mano in mano che questo andava recando i suoi frutti, il suicidio cresceva ancor esso; imperocché egli è uno di quei frutti. Presentemente s’è fatto tale che, in questa parte, i tempi nostri passano gli antichi. Lo si commette per i più leggieri motivi, da uomini e donne, da fanciulli e da vecchi, da ricchi e da poveri, nelle campagne, del pari che nelle città. Non fa più orrore né spavento: se ne leggono i casi come una novella della giornata. La, legge civile più non lo punisce: e sa male che la Chiesa il condanni: per la coscienza di molti non è più manco peccato. – Volete vedere, nel suo laido splendore, cotesto segno, del regno di satana sul mondo presente ? Nel 1783, Mercier scriveva nel suo Quadro di Parigi: « Da alcuni anni in qua, si contano circa venticinque suicidi per anno, in Parigi. » E nelle provincie, allora, era delitto quasiché ignoto, e sempre orribile; cosicché un solo caso che ne avvenisse, bastava a gettar lo spavento in tutto un paese. Mezzo secolo dopo il Mercier, Parigi fu spettatrice di cinquantasei suicidi in un mese. Del resto, ecco qui, per la’ Francia, la statistica ufficiale del suicidio nel 1861.

« Il numero de’ suicidi in Francia è, tratta una media, da 10 a 11 al di, cioè 3899 all’anno. « Figurano in cotesto numero 842 donne, e 3057 uomini: 16 fanciulli furono suicidi: 9 di 15 anni; 3 di 14: 2 di 13: 2 di 11, « 49 nonagenari di cui 38 uomini, e 11 donne. ». [Statistica pubblicata dal Ministero della giustizia. Nel 1866 il numero dei suicidi in Francia è stato di 5,119, cioè 173 di più che nel 1865. Statistica id. 1868]. Da quanto reca l’esattissimo e molto ben fatto libro intitolato: Del suicidio in Francia, pubblicato nel 1862, dal sig. Ippolito Blanc, capo d’ uffizio nel ministero dell’istruzion pubblica, il numero dei suicidi in Francia, dal 1827 al 1858, vale a dire in 32 anni, crebbe sino all’enorme somma totale di 99,662. – Gran Dio, in trentadue anni, nel regno cristianissimo, novantanove mila uomini volontariamente uccisi di propria mano! Sarà egli lo Spirito Santo che ha ispirato sì orrenda strage? E poi si nega l’operar di satana sul mondo! E si celia su d’esso! E si parla di miglioramento morale sempre crescente! E non è da pretermettere che la Francia, in cotesto satanico macello, punto non fa eccezione: anzi in tal progresso di nuovo genere non primeggia né anco. Da quanto ricavasi dai più recenti documenti ufficiali, i vari stati d’Eùropa danno; sovra un milione di abitanti, i seguenti numeri di suicidi :

Belgio ………… 57

Svezia…………………. 67

Inghilterra……………. 84

Francia ……….. 100   

Norvegia……………….108

Prussia…………………. 108

Sassonia…………… 202

Ginevra…………….267

Danimarca ……. 288

[Annali d’igiene pubblica, gennaio 1862, p. 85. Quanto alla Russia, ecco quel che ne dice il sig. D. K. Schedo-Ferroti ne’suoi Studi sull’avvenire della Russia, pubblicati in Berlino, 1863. « Si conta gran numero di sètte in Russia; eccone qui alcune, che più van segnalate per la stravaganza delle loro dottrine. « I Kapitoni, cosi detti dal loro capo, il monaco Kapiton, formano la più antica delle sètte, senza clero: essi considerano il suicidarsi per la fede come la più meritoria delle azioni. « I bespopowzì, della Siberia, credono che l’Anticristo è venuto e regna sulla chiesa russa, onde fa d’ uopo evitare ogni contatto con i suoi servi o aderenti. Come buon mezzo d’involarsi al pericolo di cader vittima delle astuzie del demonio, raccomandano specialmente il suicidio col fuoco; e tali raccomandazioni non sono punto vane; attesoché, in un dì, 1700 persone perirono volontariamente per via dell’immacolato battesimo del fuoco, implorato dal loro capo. – « I pomoreni e i filipponi professano la stessa credenza sull’efficacia del suicidio per la fede. – « Havvene de’ mostruosi, come per es. g li uccisori di bambini, i quali stimano atto meritorio mandare al cielo l’anima di un tenero bambino: i soffocatori, i quali credono che il cielo non sarà .aperto se non a coloro che muoiono di morte violenta, e si fanno un dovere di soffocare o accoppare quei de’ loro congiunti, ne’ quali una qualche grave malattia faccia temer la sventura d’una morte naturale. Anzi i più fanatici spacciano fin anco i loro amici vegeti e sani]. –  E in questo conto non entrano che i suicidi ufficialmente denunziati. Quanti ve n’ha che, per un motivo o per un altro, sfuggono alla pubblicità ufficiale! Tale si è la sanguinosa via in cui, da quattro secoli, cammina l’Europa, l’antica Città del bene. Al vedere il suicidio, abolito già dal Cristianesimo, tornato, col Risorgimento, endemico in Europa, che altro conchiuderne se non che il Risorgimento fu il ritorno del Satanismo in Europa: che il grande Omicida ha ricuperato parte del suo impero e regna sui nuovi suoi soggetti con signoria pari all’antica? che dico? con signoria ancora più estesa; attesoché la si vede, a certi segni, maggiore d’ assai dell’antica. – E lo spiritismo la va facendo crescere sempre più; – [Ecco alcune confessioni che abbiamo raccolte dalla bocca stessa di spiritisti avanzatissimi nelle pratiche dello spiritismo, e testimoni dei fatti che ci confidavano. « Lo spiritismo è pieno di pericoli per la salute ed anche per la vita. Dappertutto ove si sviluppa con una certa intensità, sorgono malattie anomali, un immenso numero di casi di pazzia e la deplorevole propagazione del suicidio, che vanno a colpire coloro che vi si danno con ardore. » Ravvedutisi non senza fatica dei loro errori, gli stessi spiritisti ci riferivano moltissimi casi di suicidi e di follia, avvenuti tra i loro fratelli in spiritismo. La loro testimonianza non faceva che confermare la nostra personale esperienza» A questo proposito la Vera buona novella racconta che a Firenze dove il magnetismo ed il sonnambulismo contano numerosi osservanti, un empio si è dato al mestiere dello spiritismo. Egli ha trovato per medium una povera giovane, e si è messo ad evocare gli spiriti infernali. A forza di essere chiamati, gli spiriti, che non sono sordi, sono venuti: son venuti così spesso che hanno stimato per la più corta di stabilirsi a dimora presso la giovane, la quale a quest’ora, è diventata ossessa e sul punto di morire], – imperocché lo spiritismo toglie il timor dell’inferno, anzi gli spiriti ben spesso invitano a venir con essi i viventi e ad entrare, per via della morte, in una nuova incarnazione più perfetta, od anche a godersi lo stato di puri spiriti. Da quanto confessano gli spiritisti medesimi, confermato dai molti fatti riferiti da’ giornali, dalle osservazioni dei medici, da’ ragguagli datine dalle famiglie, risulta pur troppo chiarissima l’influenza omicida della novella religione. – Si giudichi adesso se la Chiesa ha avuto ragione di condannare gli spiriti, i sonnambuli, i magnetizzatori, i loro libri e le loro pratiche. Sino dall’anno 1856, il Sommo Pontefice segnalava le pratiche diaboliche che avevano per fine di evocare le anime dei morti, e raccomandava a tutti i Vescovi del mondo cattolico di adoperare tutte le forze, per estirpare queste pratiche abusive. [Pii PP. IX ad omnes Episcopos sub die 4 A ugusti 1856. Denz. 1653]. – Quantunque il decreto non nomini lo spiritismo col suo proprio nome, attesoché a quest’epoca non erasi ancor bene smascherato, nulladimeno egli è chiaramente condannato con queste parole: evocare le anime del morti e ottenere risposte, è una cosa illecita ed eretica. Più tardi, avvenne più direttamente, allorquando lo stesso Pio IX, mediante il decreto della S. Congregazione del Santo Uffizio data del 20 aprile, e della Congregazione del Concilio del 25 dello stesso mese 1864 condannò tutte le opere di Allan Kardec, che trattano dello spiritismo, e tutte le altre opere concernenti le stesse materie: omnes libri similia tractantes. Infine il Padre Perrone, gesuita romano, stabilì teologicamente la proposizione seguente che è la condanna delle moderne pratiche diaboliche: « Il magnetismo animale, il sonnambulismo e lo spiritismo nel loro insieme non sono altra cosa che la restaurazione della superstizione pagana e dell’impero del demonio. [De Virt. relig. ecc., p. 351, n. 825]. – Una sola cosa impedisce tuttavia allo spiritismo di recare tutti i suoi frutti: il Cattolicismo. Or il Cattolicismo si personifica nel Papato; e satana lo sa molto meglio ancora di Garibaldi e Mazzini. Quindi i fatti di cui siamo spettatori: l’accanita sua guerra contro di Roma. Dal suo babelico concilio fino alla venuta del Messia, i perseveranti sforzi del principe delle tenebre mirarono ad un solo scopo: formare la sua gigantesca città, e stabilirne Roma capitale. Ci riuscì, imperocché con l’essere padrone di Roma, era padrone del mondo. Ed invero, non sì tosto comparvero gli Apostoli armati di Spirito Santo, Roma diventò l’oggetto del combattimento. Roma o Morte., era il grido della Città del bene e della Città del male, che per tre secoli echeggiò da Oriente ad Occidente; ed undici milioni di martiri attestano quanto grande fosse e tremendo il conflitto. Per il Verbo incarnato, Roma vuol dir l’impero: per satana, morte vuol dire perdita di Roma e dell’impero. Chi non resterà stupito al vedere, dopo diciotto secoli, Roma diventare un’altra volta oggetto della pugna; ed il grido di guerra Roma o morte servire di parola d’intesa ai due campi opposti? Fra tutti i segni dei tempi, questo, per nostro avviso, non è punto il meno degno di attenzione. Che Roma sia il grido del mondo attuale, il grido che passa ogni altro, è fatto che non ha bisogno di prova. Re e popoli, diplomatici e filosofi, scrittori e soldati, Cattolici e rivoluzionari, tutti agognano Roma per diversi motivi. Oggidì più che mai l’odio e l’amore si contendono Roma; e tutto ciò che parla di Roma scuote gli animi, ed eccita la duplice passione del bene e del male. – Questo dramma supremo, di che il mondo fu spettatore solo una volta, di che cosa è prova? Di quel medesimo che diciotto secoli fa. Prova che Roma è la regina del mondo; prova che satana, cacciato di regno, e stretto in catene dal Redentore, tenta spezzare quelle catene e rifare la sua città; città formidabile, in quanto che va composta di gran parte d’Europa, tolta al Cristianesimo. – Prova che, per ricostituirla qual era una volta, non gli resta più che renderle Roma, sua antica capitale; ch’ei la vuole ad ogni costo, e per conquistarla cammina alla testa d’immenso esercito di rinnegati, non facendo, come già altre volte, distinzione tra mezzo e mezzo, e ripromettendosi una non lontana vittoria, la quale, giusta il detto di Pio IX, ricomincerà l’era dei Cesari e dei secoli pagani, vale a dire farà ricadere il mondo nella morale e materiale schiavitù, da cui avevalo liberato il Cristianesimo. [Encycl. 8 dec. 1849 “Nostis et nobiscum”]. – Detto verissimo. Ora s’egli è chiaro che il mondo va sempre peggio sottraendosi all’influenza dello Spirito Santo, è chiaro non meno che ei cade, in pari misura, sotto l’impero dello Spirito maligno, e si sottopone per sua grande sventura a tutte le conseguenze della sua colpevole infedeltà. Il passato è storia dell’avvenire. Non ostante le lusinghiere predizioni dei loro falsi profeti, i popoli dei tempi nostri hanno un cotal presentimento di quel che li aspetta: essi hanno paura. È questo indefinibile sentimento, ignoto in tempi regolari, un contrassegno dei nostri. – L’Europa soggioga città reputate inespugnabili, e pure ha paura. Con pochi soldati ottiene, in lontani paesi, splendide vittorie su potenti nemici, e pure ha paura. Vegliano alla sua difesa quattro milioni di baionette, e pure ha paura. Doma gli elementi, annulla le distanze da popoli a popoli, vanta i prodigi della sua industria; l’oro scorre abbondante nelle sue mani; alle rustiche divise ha sostituita la seta; la natura tutta s’è fatta tributaria del suo lusso; la sua vita somiglia al convito di Baldassarre; e pure ha paura. Dappertutto regna la paura. Le nazioni hanno paura delle nazioni: i re hanno paura dei popoli, e i popoli hanno paura dei re. L’uomo ha paura dell’uomo. La società ha paura del presente, e più ancora dell’avvenire; ell’ha paura di qualcheduno, o di qualche cosa, il cui nome è un mistero. Perché ha ella paura? Perché l’istinto della sua propria conservazione l’avverte che non è più retta dallo spirito di verità, di giustizia, di carità, senza del quale non v’ha ordine possibile, né società durevole, né sicurezza per alcuno. E questo temere non è altrimenti vano. Per le nazioni sì come per gl’individui, tra la Città del bene e la Città del male, tra Cristo e Belial, non si dà punto di mezzo. Or, ritornando nel mondo, satana, checché ne dicono i suoi apologisti, ci ritorna qual è, fu, e sarà sempre: l’Odio. Lasciate che cotesto forzato dell’inferno, esca della sua galera, sciolto e libero della camicia di forza che si chiama Cattolicismo, e vedrete quel che farà. Padre della superbia e della crudeltà, della menzogna e della voluttà fallace, farà domani quello che ha fatto in tutti i tempi che fu dio e re, quel che seguita a far tuttavia in tutti i popoli ancor sottoposti al suo impero. La guerra sarà generale; la terra diventerà un campo di rovine; lagrime e sangue scorreranno a torrenti: il genere umano avvilito, sarà fatto segno ad oltraggi non rammentati ancor dalla storia, giusto castigo di una ribellione allo Spirito Santo, simile al quale la storia parimente non conta. Salvo un miracolo, tale si è, non accade dissimularlo, lo spalancato abisso, a cui camminiamo. Come arrestarci sul fatale pendio? Via tutti i mezzi di salvamento, che viene a proporre l’umana sapienza. No, cento volte no; l’Europa infedele allo Spirito Santo non sarà salvata né dalla filosofia, né dalla diplomazia, né dall’assolutismo, né dalla democrazia, né dall’oro, né dall’industria, né dalle arti, né dalle banche, né dal vapore, né dall’elettrico, né dal lusso, né dalle belle parole, né dalle baionette, né dai cannoni rigati, né dalle navi corazzate. Come dunque vorrà ella esser salvata, se lo dev’essere? La risposta è facile: perdutosi per essersi dato in braccio allo spirito del male, il mondo moderno sì come l’antico, non andrà salvo che col darsi allo spirito del bene. Il figliuol prodigo non risorge a vita se non ritornando nelle braccia di suo padre. Attesi gl’incalcolabili pericoli onde, nell’ora che corre, è minacciata la vecchia Europa, questo ritorno allo Spirito Santo, pronto, sincero, universale, è la prima necessità urgentissima. A fine di farla vedere financo ai ciechi, noi ci siamo indotti a rinfrescar la memoria dell’esistenza, dimenticata troppo, dei due spiriti opposti, che si contendono l’impero del mondo e con sovrana autorità lo governano: e abbiam posta in chiaro l’ineluttabile alternativa, in cui si trova il genere umano, di vivere sotto l’impero dell’uno o dell’altro. Finalmente la storia universale, riepilogata in breve nella descrizione parallela delle due Città, ci ha detto quel che ridonda all’uomo dall’essere cittadino della Città del bene, o cittadino della Città del male. – Ma il solo sapere quel che bisogna fare, punto non basta, e resta a indicare i mezzi corrispondenti. I quali tutti consistono e riduconsi nel conoscere lo Spirito Santo, al oggetto di amarlo, invocarlo, rimetterci sotto il suo impero, e restarvi. Finora abbiamo mostrata l’opera più che l’artefice: l’opera esteriore e generale, più che l’opera intima e particolare; il corpo piuttosto che l’anima. Or’è d’uopo far conoscere in se stessa quest’Anima divina dell’uomo e del mondo: questo Spirito Creatore, a cui il cielo e la terra van debitori del loro splendido ammanto: questo Spirito vivificatore, che ci nutre come l’aria, che ci circonda come la luce: questo Spirito santificatone, autore del mondo della grazia e delle sue magnifiche realtà. E si vogliono spiegare le moltiformi sue operazioni nell’ordine della natura e nell’ordine della grazia, si nell’Antico come nel Nuovo Testamento. – Teologica, acciocché sia esatta; semplice e in certo modo catechetica, acciocché la verità sia nelle mani del Sacerdote un pane più facile a rompere alle menti men forti e capaci, tale dev’essere la seconda parte del nostro lavoro. La quale, diciamolo schiettamente, è, più ancor della prima, superiore alle nostre forze. Vi ci accingiamo tuttavia, confortati nella nostra debolezza da due cose: cioè dalla benevola indulgenza delle persone illuminate, le quali intendono la difficoltà di tale lavoro; e dalla infinita bontà di Colui per cui lavoriamo: Da mihi sedium tuarum assistricem saptentiamut im eum sit et mecum làboret [Sap., IX, 4].

FINE DEL PRIMO VOLUME.

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2019)

ANNUNZIAZIONE DI MARIA

[A. Carmignola: La porta del cielo – S. E. I. ed. – Torino, 1895]

DISCORSO X

L’Annunziazione di Maria.

Il grande S. Agostino considerando la sublimità della prima pagina del Vangelo di S. Giovanni, ove è dichiarata l’eterna e inenarrabile generazione del Verbo, desiderava che una tal pagina fosse stata scolpita a lettere d’oro in tutte le chiese del mondo. Ma quella pagina così sublime ha un degnissimo riscontro in un’altra pagina del Vangelo di S. Luca, ove si narra del Divin Verbo la generazione umana, o dirò meglio in qual tempo, in qual luogo ed in qual modo il Figliuolo di Dio, che è generato dal Padre da tutta l’eternità, siasi incarnato nel seno purissimo di una Vergine per abitare in mezzo a noi. Questa pagina, che si potrebbe riguardare come la più bella tra le pagine infinite, scritte per narrare la storia umana, devesi senza dubbio riguardare come la più importante. Difatti la scena umile e sublime ad un tempo dell’Annunziazione di Maria, che ivi è narrata, è l’autentica rivelazione del più profondo consiglio della SS. Trinità, e l’avveramento di quell’unione tanto necessaria della misericordia con la verità, della giustizia con la pace, è il termine della prima alleanza ed il principio del nuovo Testamento. Le figure scompaiono per dar luogo alla realtà, le grandi profezie si adempiono, la religione assume in terra la sua forma più perfetta e Dio prendendo da Maria l’umana carne comincia a far apparire la luce, a diffondere la grazia, a portare la libertà, a vincere la morte e a donarci la vita. Ecco il complesso delle grandezze del mistero dell’Annunziazione, il primo e l’unico un po’ diffuso che il Vangelo ci presenti della vita di Maria. Noi tuttavia lasciando da parte ogni altra considerazione, ci contenteremo oggi di studiare questo mistero solo in relazione a Maria e ci adopreremo a conoscere l’infinita grandezza, che racchiude per lei:

1° Per l’onore che le vien reso.

2° Per l’ossequio che ella presta a Dio.

3° Per il ricambio che ne riceve.

I. — Pur troppo l’onore, che noi giustamente tributiamo a Maria, non solo è contestato dai poveri protestanti, ma eziandio da certi Cristiani, che, smarrita la fede, arrivano al punto di chiamare la nostra divozione per Lei follia e superstizione. Ciechi che sono! E chi dunque fu tra noi primo a darne l’esempio? Chi primo incominciò ad onorare questa Vergine Immacolata? Forse qualche femminetta, tratta dalla semplicità del suo cuore? Forse qualche tenera madre, che vedendo il suo pargoletto in pericolo si pensò d’implorare per la prima la Madre di Gesù, nella dolce illusione, che madre Ella stessa si sarebbe dato pensiero della sua materna afflizione? Forse fu un moribondo alle prese con la morte, che il primo pregò la madre del dolore ad assisterlo nell’ultima sua agonia? No; Egli è un ben più grande, un ben più alto personaggio. E quale? Un Padre della Chiesa? Un apostolo di Gesù Cristo? Un profeta inspirato dallo Spirito Santo? Più, più ancora. Egli non è già un debole mortale, un abitatore di questa terra di esilio, ma un abitatore del cielo, più che un santo Padre, più che un apostolo, più che un profeta, egli è uno di quegli spiriti beati, che veggono del continuo Iddio a faccia a faccia, una di quelle celesti intelligenze che notte e giorno ritte dinnanzi al trono del tre volte santo, cantano senza fine le sue eterne lodi. Egli è un Angelo dell’Altissimo, e non solo uno degli ordini inferiori, ma uno dei possenti capitani della milizia celeste, uno dei principi della corte del Re dei re, quegli che Iddio ha destinato ai più grandi annunzi, che cinquecento anni prima aveva ammaestrato Daniele intorno all’epoca precisa in cui nascerebbe il Messia, che da poco tempo aveva accertata a Zaccaria la nascita miracolosa del precursore di Cristo, in una parola egli è l’Arcangelo Gabriele. E in qual congiuntura questo principe degli eserciti del Signore presenta egli pel primo i suoi omaggi alla Vergine benedetta? Forse allora che ella entra trionfante nel cielo il giorno della sua gloriosa assunzione, quando le porte eternali si aprirono dinanzi a Lei come dinanzi alla Regina degli uomini e degli Angeli? No, ma allora, che Ella ancor viveva nella solitudine, ignota agli altri ed a se stessa, in una povera casa, in una città antica, sì, ma oscura e screditata. Ma forseché questo beato Arcangelo sia venuto ad onorare Maria di proprio volere o così alla ventura? No, egli viene in nome di tutti gli Angeli e gli Arcangeli; in nome di tutti i Troni e di tutte le Dominazioni, in nome di tutte le Virtù, di tutti i Principati e di tutte le Podestà, in nome di tutti i Cherubini e di tutti i Serafini. Che dico io? Egli viene in nome della santissima ed adorabile Trinità. Sì, egli è a nome di Dio e di tutta la corte celeste, che Gabriele si presenta a Maria. Fu mandato l’Angelo Gabriele da Dio, così narra S. Luca (I. 26), ad una città della Galilea chiamata Nazaret, ad una Vergine il cui nome era Maria: Missus est Angelus Gabriel a Deo, m civitatem Galilææ cui nomen Nazareth ad Virginem et nomen Virginis Maria. E finalmente come la saluta? Ecco. Ed entrato da Lei, prosegue l’evangelista, le disse: Ave, piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra tutte le donne: Ave, grafia piena, Dominus tecum, benedicta in mulieribus. « Ave » vale a dire ti riverisco, ti onoro, ti fo mille ossequi. « Piena di grazia » perché con unico privilegio fosti da Dio preservata da ogni peccato, persino dall’originale e sollevata a tale altezza di grazia da superare noi medesimi tutti. « Il Signore è teco »cioè come in nessun’altra persona per effetto di inaudita manifestazione di potenza, di sapienza, di bontà e di amore. « Benedetta fra le donne » vale a dire più benedetta di Eva innocente, di Sara, di Rebecca, di Anna, di Giuditta, di Ester, di quante grandi donne ti hanno preceduta e ti seguiranno, benedetta infine, perché tu stessa sei una benedizione, essendo che per te saranno benedette tutte quante le tribù della terra. Questo fu il saluto dell’Angelo. E dopo tutto questo vi sarà ancora chi ardisca di chiamare follia e superstizione l’onore, che noi rendiamo a Maria? Ma chi l’onora di più fra noi e Dio? Chi più la riverisce e la esalta? Riconoscendo pertanto l’onore altissimo, che Dio stesso per mezzo dell’Angelo ha reso a Maria in questo mistero della sua Annunziazione, gloriamoci di essere nel numero di coloro, che seguono un sì sublime esempio e non sia mai che lo scherno dei nostri infelici fratelli ci trattenga o ci impedisca dal rendere a Maria quegli onori, che ella si merita.

II — Il Mistero dell’Annunziazione di Maria grande anzi tutto per 1′ onore che le vien reso è grande in secondo luogo per 1’ossequio, che Ella presta a Dio. Ed invero se l’Arcangelo Gabriele è mandato a Lei da Dio medesimo non è solamente perché le faccia un onorifico saluto, ma per qualche cosa di ben più importante, per trattare cioè con Lei dell’esecuzione di quell’eterno disegno, che doveva riparare al passato, al presente, ed al futuro, fare stupire gli Angeli, gli uomini ed i demoni, consolare la terra, riaprire il cielo, e confondere l’inferno. È mandato a Lei per trattare dell’adempimento di quella promessa di misericordia, che formò l’unica speranza di Adamo e di Eva nella loro caduta, l’unico intento di tutti i desideri dei patriarchi, di tutte le predizioni dei profeti, l’aspettazione generale di tutte le genti, la gioia del cielo, il terrore dell’abisso, per trattare dell’Incarnazione del Figliuolo di Dio e della Redenzione degli uomini. Difatti a Maria, che per umiltà si turba per il suo saluto l’Angelo dice prontamente di non temere, poiché avendo trovato grazia presso Dio, ella concepirà e darà alla luce un Figlio che sarà il Salvatore del mondo. Ed a Maria, che oppone il voto di verginale purezza, col quale si è consacrata a Dio, scioglie ogni difficoltà rispondendole: « Lo Spirito Santo sopravverrà in te, e la virtù dell’Altissimo ti adombrerà: epperò quegli, che nascerà da te il Santo, sarà chiamato Figliuolo di Dio ». Ecco adunque Iddio e Maria, per così dire, faccia a faccia, cuore a cuore; da una parte Iddio, che guarda Maria e a lei si offre e cogli inviti e cogli stimoli, lasciandole tuttavia una piena libertà di accettare o no l’altissima dignità di essere Madre di Dio e per conseguenza il sublime sacrificio di cooperatore a redimere il genere umano, dall’altra parte Maria, che umiliata, attonita, raccolta sta per mandare dal cuore alle labbra la risposta, che sia più degna di Dio. Finché tace, tutto è sospeso. Alla proposta di Dio, fatta dall’Angelo, Ella può dire di sì, e può dire di no. E da questo sì e da questo no dipende tutto il compimento degli eterni consigli di Dio tutto il bene per il genere umano. Qual momento solenne e decisivo! Ah se l’umano genere sapesse che cosa succede e quali destini si trattino tra l’augusta Trinità e questa Vergine fanciulla, quale commozione lo sorprenderebbe e quali grida di supplichevole angoscia, di appassionato e ardente desiderio sfuggirebbero dalle sue viscere! O Vergine, o Donna, o sorella, tu hai nelle tue mani la nostra vita e la nostra morte, la nostra eterna felicità e la nostra disperata rovina. Tu sei adunque l’unica nostra speranza. Deh! Non ci illudere, non ci abbandonare. È vero la maternità, che t i viene offerta, ti impone carichi schiaccianti, fatiche senza pari e dolori insoffribili, ma

pure abbi pietà di noi. Di’, di’ adunque quel sì per noi indispensabile; apriti o porta del cielo; o stella del mattino brilla sul nostro orizzonte, ed annunziaci l’aurora del sole di giustizia! Così immagina S. Bernardo, che avrebbe gridato il mondo a Maria se avesse conosciuto quel che si trattava tra Dio e Lei in quell’istante. E Maria che risponderà Ella? Umile, serena, forte, soave e candida ella risponde col dire: Ecco l’ancella del Signore si faccia di me secondo la tua parola: ecce anelila Domini, fiat mihi seenndum verbum tuum. Oh risposta sopra ogni immaginazione ammirabile! Da quattro mila anni il cuore di Dio è oppresso; da quattro mila anni trattenuto dalla sua sapienzae legato dalla sua giustizia, il Signore aspettal’ora e il mezzo di avere pietà di noi e farci provare l’infinito suo amore e Maria col dire: « Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondola tua parola », pone in mano a Dio questo mezzo, e gli fa suonare quest’ora. No! giammai, né prima né dopo, né dall’uomo, né dall’Angelo, venne reso a Dio un ossequio, una gloria, una gioia più grande, perché giammai dalle sue creature venne fatto a Dio un’oblazione più grande, più libera, più totale di quella, che fece allora Maria nel pronunciare quel fiat, neldare quella risposta.

III. — Ma quale ricambio riceve Maria al suo ossequio! Non appena ella finisce di parlare che la Divinità le è sopra e la invade. In meno che il lampo squarcia la nube, lo Spirito Santo forma dal sangue di Maria un corpo umano perfetto sì animato da un’anima perfetta, creata in questo corpo dal Padre onnipotente; e il Figlio si unisce personalmente a quest’anima, che rende beata nella sua cima e a questo corpo, al quale conserva tutta la sua passibilità. Il mistero è dunque compiuto; la Vergine è madre, il Verbo è fatto carne ed abita in mezzo a noi; Dio è un uomo; un uomo è Dio. E così Iddio ha in Gesù Cristo il Figlio delle sue compiacenze ed in Maria ne ha la Figlia, la creazione ha in Gesù Cristo il suo Re ed in Maria la sua Regina, gli Angeli hanno in Gesù Cristo il loro sovrano, ed in Maria la loro sovrana, gli uomini hanno in Gesù Cristo il loro Redentore ed in Maria la loro Corredentrice, la Chiesa ha in Gesù Cristo il suo capo ed in Maria la sua protettrice, i miseri peccatori hanno in Gesù Cristo il loro avvocato ed in Maria la loro avvocata, insomma Gesù Cristo è il Figliuol di Dio ed il Figliol di Maria, Maria è la Madre di Gesù Cristo e la Madre di Dio. E qual ricambio maggiore poteva ricevere Maria dell’ossequio da lei prestato a Dio? Qual premio più grande poteva Ella toccare per l’umiltà, per la fede, per l’amore, per la conformità al divino volere, per la totale donazione di se stessa a Dio, addimostrata nella sua risposta all’Angelo? Non è egli vero insomma, che questo mistero dell’Annunziazione anche per l’ossequio che Maria presta a Dio e per il ricambio che Iddio ne fa a Maria, è per Lei un mistero sommamente grande? Ma tutto ciò, sebbene sia sempre per noi uno fra i più meravigliosi ed incomprensibili misteri, non deve tuttavia passare senza che ne abbiamo a ricavare un importante profitto. – Noi tutti, dal Papa e dal Monarca all’operaio della città e al pastore dei campi, benché esternamente di condizioni diverse ed eziandio ineguali, rimaniamo sempre uguali e simili in ciò che siam servi di Dio. Come tutti siamo fattura delle sue mani e di tutti Egli è il Fattore, perciò tutti senza distinzione di sorta gli apparteniamo e dobbiamo essere ai suoi cenni. Or bene riconoscendo questa verità, che ha da essere la legge maestra della nostra vita, noi dobbiamo eziandio essere sempre pronti a rispondere a Dio come fece la Vergine: Eccomi, si faccia di me secondo la tua parola. Signore, Voi con la vostra legge, col vostro Vangelo, con la vostra Chiesa, coi vostri ministri, con la vostra ispirazione, vi degnate di farmi sentire la vostra parola; ebbene si faccia di me, come Voi avete detto. Voi mi dite che io preghi, ed io pregherò; Voi mi dite che io lavori ed io lavorerò, Voi mi dite che io combatta ed io prenderò le armi somministratemi dalla vostra grazia e combatterò; Voi mi dite che io soffra e sebbene ciò mi costi sacrificio, dirò tuttavia: Eccomi, o Signore, son qua per bere il calice del dolore, per portare la croce della tribolazione. E quando infine voi mi direte, che io mi disponga a lasciare il mondo per entrare nel seno dell’eternità ed io vincendo tutte le ripugnanze della inferma natura mi disporrò. Sarà l’ultimo « eccomi » che io pronuncerò, sarà l’ultima oblazione, che io vi farò, dietro alla quale verrà il vostro ricambio, la vostra mercede ed oh quale mercede! quella stessa che è toccata alla Vergine, poiché voi l’avete solennemente giurato e il vostro giuramento non verrà meno in eterno: Ego… merces tua magna nimis(Gen. XV, 10). – Io, io stesso sarò la tua eterna ricompensa. Oh noi felici se ai voleri di Dio daremo sempre questa risposta. E sull’esempio di Maria e per amor di Maria noi la daremo senza dubbio, sicché l’anima nostra d’ora innanzi non ripeterà più altro a Dio che questo cantico: Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola: Ecce ancilla Domini, fiat mini secundum verbum tuum!

Esempio e preghiera.

Quella illustre Compagnia di Gesù, che rese mai sempre alla Chiesa tanto segnalati servizi, può ben a ragione ricordare la sua prima origine in quel giorno, che la Chiesa consacra ogni anno a ricordare il mistero dell’Annunziazione di Maria. S. Ignazio di Loyola fin dai più teneri anni aveva sentito desiderio di acquistar fama e gloria, poi si era dato alla milizia, aveva mostrato valore; ma pur troppo aveva ceduto al giogo della schiavitù dei vizi. Pur non tralasciava di praticare certe sue divozioni a Maria Santissima ed al principe degli Apostoli S. Pietro. Intanto nella carriera militare saliva di grado in grado, sino a che gli fu assegnato un posto assai onorevole per sostenere l’assedio di Pamplona contro le soldatesche Francesi di Francesco I. Ma né il valor delle milizie Spagnole, né il coraggio di Ignazio valse a sorreggere quella città e fortezza; e Ignazio, che si esponeva ai più ardui rischi, ebbe ferita la gamba sinistra da alcune scaglie di pietra e fracassata la destra da una palla. In tale stato fu dapprima recato al quartiere generale dei Francesi, fu medicato e poi trasportato a Loyola; ma le ferite parevano minacciar cancrena e si temé fortemente pe’ suoi giorni. Senonché la notte della festa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo provò un mirabile miglioramento, il che si ebbe per una grazia del Principe degli Apostoli. Quindi volle sottomettersi al taglio di un nodo osseo, che nella cura si era formato sopra il ginocchio destro e lo rendeva deforme; la quale operazione lo trattenne sebbene quasi sano nel resto della persona, lungamente a letto. Per passare il tempo, chiese che gli si portasse un romanzo o qualche narrazione cavalleresca; ma buon per luì, che in casa sua non si trovavano cotali libri! Sì che gli si recarono la vita di Gesù Cristo e le vite dei Santi. Ma Ignazio preso affetto a questa lettura si trovò mutato in un altro da quello che era; non più stimava la gloria mondana, ma anzi reputava indegni di un giovane Cristiano i mondani affetti: insomma aveva risoluto di farsi santo. Appena guarito sparì di Loyola, andò al famoso santuario della Vergine di Monserrato per ringraziarla di quel benefizio, che da Lei massimamente riconosceva. Ed ivi fatta la confessione generale delle sue colpe e ricevuto Gesù nella Santa Comunione, per pegno di addio al mondo appese la sua spada dinanzi all’immagine di Maria. Or bene quello era il giorno 25 Marzo del 1522, sacro all’Annunziazione di Lei. Dopo quel giorno il giovane Ignazio, che aveva corrisposto prontamente ed esattamente alla volontà di Dio, visse veramente da santo e fondata poscia la Compagnia di Gesù, operò mirabili cose per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime. Oh grazie veramente magnifiche, che suol fare la Vergine nei giorni a Lei consacrati! Ma e questo mese non è tutto sacro a Maria? Or dunque, per quanto gravi siano le nostre necessità, in questo mese rivolgiamoci con fiducia a Maria e dessa farà sentire anche sopra di noi la sua ammirabile bontà e potenza. A Voi dunque, o Santissima Vergine, noi ricorriamo pieni di speranza in questi bei giorni per implorare il vostro santo aiuto, e per essere ognor più certi di ottenerlo vi facciano oggi con maggior riverenza il saluto, che l’Angelo vi fece in quel giorno che vi annunziò l’Incarnazione del Verbo, e vi diremo perciò: Iddio ti s alvi, o Maria piena di grazia, il Signore è teco e Tu sei benedetta fra tutte le donne:

Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedieta tu in mulieribus.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – MYSTICI CORPORIS (4)

Questa parte della sublime enciclica, gemma magisteriale di S. S. Pio XII, scorre sapientemente tra elementi di solida dottrina e la confutazione di errori sottili, ma proprio per questo, ancora più perniciosi. Ci conviene quindi leggere, rileggere e meditare attingendo da questa fonte di acqua cristallina alla quale abbeverarci per accendere il desiderio della salute spirituale, della eterna felicità e dell’appartenenza al regno dei Cieli.

PIO PP. XII

LETTERA ENCICLICA

MYSTICI CORPORIS CHRISTI (4)

PARTE SECONDA

L’UNIONE DEI FEDELI CON CRISTO

Ci piace ora, Venerabili Fratelli, trattare in modo particolarissimo dell’unione nostra con Cristo nel Corpo della Chiesa. Questo argomento (come giustamente osserva Agostino: cfr. August. Contra Faust. 21, 8; Migne, P. L., XLII, 392) è cosa grande, arcana e divina, e perciò spesso avviene che da alcuni sia compreso e spiegato male. Anzitutto è chiaro che quest’unione è strettissima. Infatti, nella Sacra Scrittura, vien raffigurata nel vincolo d’un casto matrimonio e paragonata ora all’unità vitale dei tralci con la vite, ora alla stretta compagine del nostro corpo (cfr. Eph. V, 22-23; Jo. XV, 1-5; Eph. IV, 16). Si presenta inoltre nei libri ispirati talmente intima, che antichissimi documenti costantemente tramandati dai Padri e fondati sul detto dell’Apostolo “Egli (Cristo) è il Capo della Chiesa” (Col. I, 18) insegnano che il divin Redentore costituisce con il Suo Corpo sociale una sola Persona mistica, ossia come dice Agostino: tutto Cristo (cfr. Enarr. in Ps., XVII, 51 et XC, 11, 1: Migne, P. L., XXXVI, 154 e XXXVII, 1159). Anzi lo stesso Salvatore nostro nella sua preghiera sacerdotale non dubitò di paragonare tale unione con quella mirabile unità per la quale il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (Jo. XVII, 21-23).

Vincoli giuridici e sociali

Questa nostra compagine in Cristo e con Cristo nasce anzitutto dal fatto che la società cristiana, per volontà del suo Fondatore, è un Corpo sociale perfetto, per cui in essa l’unione deve consistere nel concorso di tutte le membra allo stesso fine. Quanto infatti è più nobile il fine cui questa cooperazione tende, quanto più divina è la fonte dalla quale essa procede, tanto più sublime diventa senza dubbio l’unità. Orbene, il fine è altissimo: continuare cibò la santificazione delle membra dello stesso Corpo, per la gloria di Dio e dell’Agnello che è stato ucciso per noi (Apoc. V, 12-1 3). La fonte è divinissimo: il beneplacito dell’eterno Padre, l’amabile volontà del nostro Salvatore, e specialmente l’interna ispirazione ed impulso dello Spirito Santo negli animi nostri. Se infatti senza lo Spirito Santo non si può produrre neppure un minimo atto che conduca alla salvezza, come possono innumerevoli moltitudini d’ogni popolo e di ogni stirpe aspirare con lo stesso intento alla gloria di Dio uno e trino, se non per le virtù di Colui che procede dal Padre e dal Figlio in un solo eterno amore? – Poiché, come abbiamo detto, questo Corpo sociale di Cristo deve essere visibile per volontà del suo Fondatore, quella cospirazione di tutte le membra deve anch’essa manifestarsi esternamente, sia per mezzo della professione d’una fede, sia per la comunione dei medesimi Sacramenti, sia per la partecipazione dello stesso sacrificio, sia per un’operosa osservanza delle stesse leggi. È poi assolutamente necessario che sia manifestato agli occhi di tutti il Capo supremo, cioè il Vicario di Cristo, dal quale venga efficacemente diretta la cooperazione dei membri al conseguimento del fine proposto. Come, infatti, il divin Redentore inviò il Paraclito Spirito di verità che per suo mandato (cfr. Jo. XIV, 16 e 26) governasse invisibilmente la Chiesa, così ordinò a Pietro e ai suoi Successori che, rappresentando in terra la Sua Persona visibile, governassero la società cristiana.

Virtù teologiche

Ai vincoli giuridici, tali in se stessi da trascendere quelli di qualsiasi altra società umana anche suprema, è necessario aggiungere un’altra ragione di unità proveniente da quelle tre virtù con le quali noi ci uniamo a Dio nel modo più stretto, cioè: la fede, la speranza e la carità cristiane. – Certo, come osserva l’Apostolo, “uno solo è il Signore, una sola la fede” (Eph. IV, 5), quella fede cioè con la quale aderiamo a Dio e a Colui ch’Egli mandò, Gesù Cristo (cfr. Jo. XVII, 8). Quanto intimamente restiamo congiunti a Dio con questa fede, lo insegnano le parole del discepolo prediletto: “Chiunque confesserà che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio” (I Jo. IV, 15). Né siamo meno congiunti tra di noi e col nostro Capo divino, mediante questa fede cristiana. Infatti, tutti i credenti, “avendo il medesimo spirito di fede” (II Cor. IV, 13), siamo illuminati dalla medesima luce di Cristo, siamo nutriti al medesimo convito di Cristo, siamo governati dalla medesima autorità e magistero di Cristo. Ché se fiorisce in tutti il medesimo spirito di fede, tutti anche “viviamo (la stessa vita) nella fede del Figlio che ci amò e diede Se stesso per noi” (cfr. Gal. II, 20). E Cristo nostro Capo, che per la viva fede abbiamo ricevuto in noi ed abita nei nostri cuori (cfr. Eph. III, 17), come è Autore della nostra fede, così ne sarà il perfezionatore (cfr. Hebr. XII, 2). . – Come per mezzo della fede qui in terra aderiamo a Dio, fonte di verità, così per mezzo della speranza cristiana lo desideriamo quale fonte di beatitudine, “attendendo quella beata speranza che è l’apparizione gloriosa del grande Iddio” (Tit. II, 13). Per quel comune desiderio poi del Regno celeste, per cui non vogliamo avere qui sulla terra una dimora permanente ma cerchiamo quella futura (cfr. Hebr. XIII, 14) e aneliamo alla gloria superna, l’Apostolo delle Genti non dubitò di asserire: “Un colpo solo, un solo spirito, come siete stati chiamati in un’unica speranza” (Eph. IV, 4); anzi Cristo risiede in noi come la speranza della gloria (cfr. Col. I, 27). – Ma se i vincoli della fede e della speranza, con i quali siamo congiunti al nostro divin Redentore nel suo Corpo mistico, sono di grandissima importanza, di non minore gravità ed efficienza sono i vincoli della carità. Infatti, se anche in natura è cosa eccellentissima l’amore, dal quale nasce la vera amicizia, che cosa deve dirsi di quell’amore soprannaturale che viene infuso nei nostri cuori dallo stesso Dio? “Dio è carità: e chi sta nella carità, sta in Dio e Dio in lui” (I Jo. IV, 16). La quale carità, quasi per legge istituita da Dio, fa sì che Egli, riamandoci, discenda in noi che Lo amiamo, conforme alle parole divine: “Se uno mi ama…. anche il Padre mio l’amerà e verremo a lui e faremo sosta presso di lui” (Jo. XIV, 23). La carità dunque, più strettamente di qualsiasi altra virtù ci congiunge con Cristo, dal cui celeste ardore infiammati, tanti figli della Chiesa tran gioito nel poter essere oltraggiati per Lui e nell’affrontare sino all’estremo anelito i più ardui sacrifici, anche l’effusione del sangue. Perciò il nostro divin Salvatore ci esorta ardentemente con le seguenti parole: “Perseverate nel mio amore”. E poiché la carità è una cosa inutile e del tutto vuota, se non è attuata e manifestata dalle buone opere, soggiunge: “Se osserverete i miei comandamenti, persevererete nel mio amore, come io stesso ho osservato i comandamenti del Padre e rimango nel suo amore” (Jo. XV, 9-10).

Amore verso il prossimo

È necessario però che all’amore verso Dio e verso Cristo corrisponda l’amore verso il prossimo. Come possiamo infatti asserire di amare il divin Redentore, se odiamo coloro ch’Egli redense col suo Sangue prezioso per farli membra del suo Corpo mistico? Perciò così ci ammonisce l’Apostolo prediletto: “Se uno dirà: io amo Dio e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti, chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede? E questo comandamento abbiamo da Dio: che chi ama Dio, ami anche il proprio fratello” (I Jo. IV, 20-21). Anzi, bisogna anche affermare che noi saremo sempre più uniti con Dio e con Cristo, a misura che saremo membri uno dell’altro (Rom. XII, 5) e vicendevolmente premurosi (I Cor. XII, 25); come d’altra parte, quanto più saremo stretti a Dio e al nostro Capo divino con un ardente amore, tanto maggiormente noi saremo compatti ed uniti mediante la carità.

Cristo ci ama con una conoscenza infinita
e una carità eterna

Il Figlio Unigenito di Dio, già prima dell’inizio del mondo, con la sua eterna infinita conoscenza e con un amore perpetuo, ci ha stretti a sé. E perché potesse manifestare tale amore in modo ammirabile e del tutto visibile, congiunse a sé la nostra natura nell’unione ipostatica donde avviene che “in Cristo la nostra carne ami noi”, come, con candida semplicità, osserva Massimo di Torino (Serm. XXIX; Migne, P. L., LVII, 594). – In verità, questa amantissima conoscenza, con la quale il divin Redentore ci ha seguiti sin dal primo istante della sua Incarnazione, supera ogni capacità della mente umana, giacché, per quella visione beatifica di cui godeva sin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina, Egli ha costantemente e perfettamente presenti tutte le membra del Corpo mistico e le abbraccia col Suo salvifico amore. O ammirabile degnazione della divina pietà verso di noi; o inestimabile ordine dell’immensa carità! Nel presepio, sulla Croce, nella gloria eterna del Padre, Cristo ha presenti e congiunti a Sé tutti i membri della Chiesa in modo molto più chiaro e più amorevole di quello con cui una madre guarda il suo figlio e se lo stringe al seno, e con cui un uomo conosce ed ama se stesso.

La Chiesa «pienezza» di Cristo

Da quanto detto fin qui si vede chiaramente, Venerabili Fratelli, perché l’Apostolo Paolo tanto frequentemente scriva che Cristo è con noi, e noi in Cristo. Il che egli dimostra ancora con una ragione alquanto sottile. Cioè: Cristo, come sufficientemente abbiamo detto sopra, è in noi per il Suo Spirito che ci comunica e per mezzo del quale Egli talmente agisce in noi, da doversi dire che qualsiasi cosa divina si operi nello Spirito Santo in noi, viene operata anche da Cristo (cfr. S. Thom. Comm. in Ep. ad Eph., cap. II, lect. 5).”Se uno non ha lo Spirito di Cristo (dice l’Apostolo), non è dei suoi: se invece Cristo è in voi…, lo spirito vive per effetto della giustificazione” (Rom. VIII, 9-10). – Per la medesima comunicazione dello Spirito di Cristo, avviene poi che la Chiesa sia quasi la pienezza ed il complemento del Redentore, perché tutti i doni, le virtù e i carismi che si trovano eminentemente, abbondantemente ed efficacemente nel Capo, derivano in tutti i membri della Chiesa e in essi si perfezionano di giorno in giorno a seconda del posto di ciascuno nel Corpo mistico di Gesù Cristo: quindi Cristo in certo modo e sotto ogni riguardo Si completa nella Chiesa (cfr. S. Thom., Comm. in Ep. ad Eph., cap. I, lect. 8) Con le quali parole tocchiamo la stessa ragione per cui, secondo il parere già accennato di Agostino, il Capo mistico, che è Cristo, e la Chiesa, la quale rappresenta in terra la sua persona come un altro Cristo, costituiscono un unico nuovo uomo, per il quale, nel perpetuare l’opera salutare della Croce, si congiungono il cielo e la terra: ragione per cui possiamo dire come in sintesi: Cristo, Capo e Corpo, tutto Cristo.

L’inabitazione dello Spirito Santo

Certo, non ignoriamo che nel comprendere e nello spiegare questa dottrina riguardante la nostra unione con il divin Redentore e, in modo particolare, l’inabitazione dello Spirito Santo nelle anime, vi sono velami che l’avvolgono come caligine, a causa della debolezza della nostra mente. Ma sappiamo anche che dalla retta ed assidua indagine di questa materia, dal conflitto delle varie opinioni, dal concorso delle diverse teorie, purché in tale indagine siamo diretti dall’amore della verità e dal debito ossequio verso la Chiesa, scaturiscono e balzano fuori preziosi lumi, per mezzo dei quali si fa un vero profitto negli studi sacri di questo genere. Non biasimiamo quindi coloro che intraprendono diverse vie e metodi per trattare ed illustrare con ogni sforzo l’altissimo mistero di questa nostra unione con Cristo. Però tutti abbiano questo per certo ed indiscusso, se non vogliono allontanarsi dalla genuina dottrina e dal retto insegnamento della Chiesa: respingere cioè, in questa mistica unione, ogni modo con il quale i fedeli, per qualsiasi ragione, sorpassino talmente l’ordine delle creature ed invadano erroneamente il campo divino, che anche un solo attributo di Dio eterno possa predicarsi di loro come proprio. Inoltre fermamente e con ogni certezza ritengano che in queste cose tutto è comune alla Santissima Trinità, in quanto tutto riguarda Dio quale suprema causa efficiente. – Devono anche aver presente che in questo argomento si tratta di un mistero occulto, il quale, in questo terrestre esilio, non può mai essere intravveduto libero da ogni velame, né può mai essere espresso da lingua umana. Si dice che le Persone divine inabitano, in quanto che, presenti in modo imperscrutabile negli esseri dotati di intelletto, questi si pongono con esse in relazione mediante la conoscenza e l’amore in un modo del tutto intimo e singolare che trascende ogni natura creata. Per tentare di comprendere alquanto questo modo, bisogna aver presente il metodo tanto raccomandato dal Concilio Vaticano nelle cose di tal genere, per cui si paragonano gli stessi misteri tra di loro e col loro fine supremo, sforzandosi di attingere quel tanto di luce che faccia almeno intravvedere gli arcani divini. Quindi opportunamente il sapientissimo Nostro Predecessore Leone XIII di felice memoria, parlando di questa nostra unione con Cristo e del divin Paraclito inabitante in noi, volge gli occhi a quella beata visione con la quale un giorno questa mistica unione otterrà il suo compimento nel cielo; e dice: “Questa mirabile unione, detta con nome suo proprio inabitazione, si differenzia da quella con cui Iddio abbraccia e fa beati i celesti, soltanto per la nostra condizione (di viatori sulla terra)”. In quella celeste visione, sarà concesso agli occhi della mente umana rinvigoriti da luce soprannaturale di contemplare in maniera del tutto ineffabile il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, di assistere per tutta l’eternità al procedere delle divine Persone l’Una dall’Altra, beandosi di un gaudio molto simile a quello con cui è beata la santissima e indivisa Trinità.- Quanto finora abbiamo esposto di questa intima unione del Corpo mistico di Gesù Cristo col suo Capo, ci parrebbe imperfetto, se qui non aggiungessimo almeno poche parole intorno alla santissima Eucaristia, con la quale una siffatta unione in questa vita mortale raggiunge il grado più alto.

L’Eucarestia segno di unità

Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai credenti in modo speciale per mezzo del Sacrificio eucaristico. In esso infatti i ministri dei Sacramenti non solo rappresentano il Salvatore nostro, ma anche tutto il Corpo mistico e i singoli fedeli; in esso i fedeli, uniti al sacerdote nei voti e nelle preghiere comuni, per le mani dello stesso sacerdote offrono all’eterno Padre, quale ostia gratissima di lode e di propiziazione per i bisogni di tutta la Chiesa, l’Agnello immacolato, dalla voce del solo sacerdote reso presente sull’altare. – E come il divin Redentore, morendo in Croce, offrì all’eterno Padre Se stesso quale Capo di tutto il genere umano, così “in quest’oblazione pura” (Mal. I, 11), non offre quale Capo della Chiesa soltanto Se stesso, ma in Se stesso offre anche le sue mistiche membra, poiché Egli nel Suo Cuore amantissimo tutte le racchiude, anche se deboli ed inferme. – Il Sacramento dell’Eucaristia, vivida e mirabile immagine dell’unità della Chiesa in quanto il pane da consacrarsi deriva da molti grani che formano una cosa unica (cfr. Didaché, IX, 4), ci dà lo stesso Autore della grazia santificante, affinché da Lui attingiamo quello Spirito di carità con cui viviamo non già la nostra vita ma la vita di Cristo, e in tutti i membri del Suo Corpo sociale amiamo lo stesso Redentore. – Se dunque, nelle tristissime circostanze in cui ora versiamo, vi sono moltissimi i quali aderiscono talmente a Gesù Cristo nascosto sotto i veli eucaristici da non poter essere separati dalla sua carità né dalla tribolazione né dall’angoscia né dalla fame né dalla nudità né dal pericolo né dalla persecuzione né dalla spada (cfr. Rom. VIII, 35), allora senza dubbio la sacra Comunione, non senza consiglio del provvidentissimo Iddio ritornata in questi ultimi tempi d’uso frequente anche per i fanciulli, potrà diventare fonte di quella fortezza che non raramente suscita e fomenta anche eroi cristiani.

PARTE TERZA

ESORTAZIONE PASTORALE

ERRORI DELLA VISTA ASCETICA

Venerabili Fratelli, se i Cristiani comprenderanno piamente e rettamente queste cose e diligentemente le riterranno, più facilmente potranno guardarsi anche da quegli errori che, con grande pericolo della fede cattolica e turbamento degli animi, scaturiscono dall’investigazione, da alcuni arbitrariamente intrapresa, di questa difficile materia.

Falso «misticismo»

Infatti non mancano coloro i quali non considerano abbastanza metaforicamente e senza distinguere (com’è assolutamente necessario) i significati particolari e propri di corpo fisico, di corpo morale, di Corpo mistico, e quindi danno di questa unione una spiegazione pervertita. Costoro fanno unire e fondersi in una stessa persona fisica il divin Redentore e le membra della Chiesa: e mentre attribuiscono agli uomini cose divine, fanno Gesù Cristo soggetto ad errori e a debolezze umane. Dalla falsità di questa dottrina ripugnano la fede cattolica e i precetti dei Santi Padri, rifuggono la mente e la dottrina dell’Apostolo delle Genti, il quale, sebbene congiunga tra loro con mirabile fusione Cristo e il Corpo mistico, tuttavia oppone l’uno all’altro come lo Sposo alla Sposa (cfr. Eph. V, 22-23).

Falso «quietismo»

Non meno lontano dalla verità è il pericoloso errore di coloro che dall’arcana unione di noi tutti con Cristo si studiano di dedurre un certo insano quietismo, con il quale tutta la vita spirituale dei Cristiani e il loro progresso nella virtù vengono attribuiti unicamente all’azione del divino Spirito, escludendo cioè e tralasciando da parte la nostra debita cooperazione. Nessuno certamente può negare che il Santo Spirito di Gesù Cristo sia l’unica fonte donde promana nella Chiesa e nelle sue membra ogni forza superna. Infatti, come: dice il Salmista, “il Signore largisce grazia e gloria” (Psal. LXXXIII, 12). Ma che gli uomini perseverino costantemente nelle opere di santità, che progrediscano alacremente nella grazia e nella virtù, che infine non soltanto tendano strenuamente alla vetta della perfezione cristiana, ma spingano secondo le proprie forze anche gli altri a conseguire la medesima perfezione, tutto questo, lo Spirito celeste non vuoi compierlo se gli stessi uomini non cooperano ogni giorno con diligenza operosa. “Infatti — come osserva Ambrogio — i benefici divini non vengono trasmessi a chi dorme, ma a chi veglia” (Expos. Evang. sec. Luc., IV, 49; Migne, P. L., XV, 1626). Poiché, se nel nostro corpo mortale le membra si corroborano e si sviluppano con ininterrotto esercizio, molto più ciò accade nel Corpo sociale di Gesù Cristo, nel quale le singole membra godono di una propria libertà, coscienza, azione. Perciò chi disse: “Vivo, non più io, ma vive in me Gesù” (Gal. II, 20), quello stesso non dubitò di asserire: “La grazia di Lui, cioè di Dio, verso di me non fu cosa vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non già io, ma la grazia di Dio con me” (I Cor. XV, 10). Quindi è chiarissimo che in queste fallaci dottrine, il mistero di cui trattiamo non sarebbe diretto allo spirituale profitto dei fedeli, ma si volgerebbe miseramente alla loro rovina.

Errori circa la confessione sacramentale e l’orazione

Da tali false asserzioni proviene anche che alcuni asseriscano non doversi molto inculcare la frequente confessione dei peccati veniali, poiché meglio si adatta quella confessione generale che ogni giorno la Sposa di Cristo con i suoi figli a sé congiunti nel Signore fa per mezzo dei sacerdoti sul punto di ascendere all’altare di Dio. È vero che in molte lodevoli maniere, come voi o Venerabili Fratelli, ben conoscete, possono espiarsi questi peccati, ma per un più spedito progresso nel quotidiano cammino della virtù, raccomandiamo sommamente quel pio uso, introdotto dalla Chiesa per ispirazione dello Spirito Santo, della confessione frequente, con cui si aumenta la retta conoscenza di se stesso, cresce la cristiana umiltà, si sradica la perversità dei costumi, si resiste alla negligenza e al torpore spirituale, si purifica la coscienza, si rinvigorisce la volontà, si procura la salutare direzione delle coscienze e si aumenta la grazia in forza dello stesso Sacramento. Quelli dunque che fra il giovane clero attenuano o estinguono la stima della confessione frequente, sappiano che intraprendono cosa aliena dallo Spirito di Cristo e funestissima al Corpo mistico del nostro Salvatore. – Vi sono inoltre alcuni i quali o negano alle nostre preghiere ogni vera efficacia d’impetrazione, ovvero si sforzano d’insinuare nelle menti che le suppliche rivolte a Dio in privato bisogna ritenerle di poco valore, mentre piuttosto quelle pubbliche usate nel nome della Chiesa realmente valgono come quelle che partono dal Corpo mistico di Gesù Cristo. Ciò è affatto erroneo: poiché il divin Redentore non ha a Sé strettissimamente congiunta soltanto la Sua Chiesa, quale amatissima Sposa, ma in essa, anche gli animi dei singoli fedeli, con i quali desidera ardentemente trattenersi in intimi colloqui, specialmente dopo che si sono accostati alla mensa eucaristica. E benché la preghiera collettiva, come procedente dalla Madre Chiesa, superi tutte le altre per la dignità della Sposa di Cristo, pure tutte le preghiere, dette anche in forma privatissima, non sono prive di dignità né di virtù e conferiscono moltissimo anche all’utilità di tutto il Corpo mistico, in quanto che tutto ciò che si compie di bene e di retto dai singoli membri ridonda anche in profitto di tutti, grazie alla Comunione dei Santi. Né ai singoli uomini, appunto perché membra di questo Corpo, si vieta di chiedere per se stessi grazie speciali anche per quanto riguarda la vita presente, serbando tuttavia la conformità alla volontà di Dio: essi infatti rimangono persone libere e soggette ai propri individuali bisogni (cfr. S. Thom. II-II, q. 83, a. 5 et 6). Quanto poi debbano tutti grandemente stimare la mediazione delle cose celesti, è comprovato non soltanto dai documenti della Chiesa ma anche dall’uso e dall’esempio di tutti i Santi. – Certuni infine dicono che le nostre preghiere non devono essere dirette alla stessa Persona di Gesù Cristo, ma piuttosto a Dio o all’eterno Padre per mezzo di Cristo, poiché il nostro Salvatore, in quanto Capo del suo Corpo mistico, dov’essere considerato semplicemente “mediatore di Dio e degli uomini” (I Tim. II, 5). Ma ciò non solo si oppone alla mente della Chiesa e alla consuetudine dei Cristiani, ma offende anche la verità. Cristo infatti, per parlare con esatto linguaggio, è Capo di tutta la Chiesa (cfr. S. Thom. De Veritate, q. 29, a. 4, c.) secondo l’una e l’altra natura insieme, la divina e l’umana, e del resto Egli stesso asserì solennemente: “Se mi domanderete qualche cosa in mio nome, Io lo farò” (Jo. XIV, 14). E sebbene le preghiere sian rivolte all’eterno Padre per mezzo del suo Unigenito di preferenza nel Sacrificio eucaristico, nel quale Cristo, essendo Egli stesso Sacerdote ed Ostia, compie in modo speciale l’ufficio di conciliatore, tuttavia non poche volte e persino nello stesso santo Sacrificio, si usano preghiere rivolte allo stesso divin Redentore, giacché tutti i Cristiani devono conoscere e comprendere chiaramente che l’uomo Gesù Cristo è lo stesso Figlio di Dio e il medesimo Dio. Anzi, mentre la Chiesa militante adora e prega l’Agnello incontaminato e la sacra Ostia, sembra che in certo modo risponda alla voce della Chiesa trionfante che canta in eterno: “A colui che siede sul trono e all’Agnello, la benedizione e l’onore e la gloria e il potere per i secoli dei secoli” (Apoc. V, 13).

DOMENICA III DI QUARESIMA (2019)

TERZA DOMENICA di QUARESIMA (2019)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam, [A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego. [I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde. [Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

OMELIA I

 [A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

L’IMPURITÀ’

 “Fratelli: Siate imitatori di Dio, come figli carissimi, e camminate nell’amore, come anche Cristo ha amato noi, e si è dato per noi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave odore. Della fornicazione, di ogni impurità, dell’avarizia non si faccia neppur menzione tra voi, come si conviene a santi: nessun turpiloquio, nessun discorso sciocco, nessuna scurrilità, tutte cose che disdicono; ma piuttosto il rendimento di grazie. Poiché, sappiatelo bene: nessun fornicatore, nessun impudico, nessun avaro, cioè idolatra, ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con dei discorsi vani; poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli della disubbidienza. Non vogliate dunque avere comunanza con costoro. Un tempo, invero, eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Camminate da figli della luce. E frutto della luce, poi, consiste in ogni sorta di bontà, di giustizia, di verità”. (Ef. V, 1-9).

Efeso, sul mare Egeo, era la capitale dell’Asia proconsolare. Era celebre pel commercio e più ancora per il tempio di Diana, ritenuto una delle meraviglie del mondo, e meta di frequenti pellegrinaggi. S. Paolo ne fece come il centro della sua attività apostolica nell’Asia minore. Lontano da Efeso, in prigionia. l’Apostolo non dimentica la Chiesa da lui fondata. Nella Chiesa di Efeso, come nelle altre dell’Asia minore, andavano infiltrandosi degli errori, che corrompevano la dottrina da lui predicata. L’Apostolo scrive una lettera, indirizzata agli Efesini, nella quale, a premonire i fedeli contro le sottigliezze dell’errore, espone il piano della Redenzione, trattando dei grandi benefìci comunicatici per mezzo di Gesù Cristo. Esorta inoltre gli Efesini a vivere secondo il Vangelo, e viene a parlare dei doveri generali e particolari dei cristiani. Dal capo V di questa lettera è tolta l’epistola odierna. Dio ha usato verso gli uomini una carità immensa, perdonando i loro debiti per i meriti di Gesù Cristo. Davanti a tanta dimostrazione di amore il Cristiano non può rimanere indifferente. Perciò San Paolo inculca agli Efesini che siano imitatori di Dio e di Gesù Cristo nella carità verso il prossimo e nel perdono delle offese ricevute. Fuggano, poi, l’avarizia e la disonestà, tanto nelle opere, quanto nelle parole, se non vogliono rimaner esclusi dal regno dei cieli. Non si lascino ingannare da chi insegna che questi peccati sono cosa da nulla. A ogni modo, essi sono figli della luce; pratichino, adunque, le opere della luce e non quelle delle tenebre. Tra le opere delle tenebre è certamente l’impurità, la quale:

1. È di una bruttezza tutta particolare.

2. Attira gravi castighi da parte di Dio.

3. È oltremodo sconveniente per un Cristiano.

1.

Della fornicazione, di ogni impurità, dell’avarizia non si faccia neppur menzione tra voi. Impurità e avarizia erano le due grandi piaghe della società pagana, dalla quale i novelli Cristiani provenivano. Era troppo forte, nelle circostanze in cui vivevano, la voce allettatrice al ritorno a questi vizi. E S. Paolo li mette in guardia.Se tra i pagani questi peccati sono detestevoli, tra i Cristiani, chiamati a una vita di santità, non si devono neppur nominare. Sull’impurità specialmente insiste l’Apostolo. Non solo si devono fuggire le azioni; ma se ne devono mantenere assolutamente puri la mente e il cuore. Perciò soggiunge: nessun turpiloquio, nessun discorso sciocco, nessuna scurrilità, tutte cose che disdicono.L’orrore che deve suscitare questo vizio si comprende benissimo se si considera la sua bruttezza. Dei peccati belli non ce n’è neppur uno, siam tutti d’accordo. Ma nell’uso generale, quando si dice peccato brutto, s’intende senz’altro il peccato impuro. È l’uso che si trova sulla bocca del popolo e dei letterati, nei libri sacri e nei profani. Voi nominate tutti gli altri vizi con il loro nome, senza sentir ripugnanza; ma il senso morale v’impedisce di parlar con disinvoltura di questo vizio. Voi sentite ilbisogno, se costretti a parlarne, di essere riservati più che sia possibile.L’impuro teme che le sue azioni siano rivelate, anche se non c’è nulla da temere da parte delle leggi umane. « Odia la purità, e nondimeno vuol comparir puro ». (S. Zenone, L . 1, Tract. 4, 2). E così accade e non di rado che uomini, i quali ti sembrano santi e retti, anzi angioli che conversano sulla terra, sono imbrattati dal vizio dell’impurità. È troppo chiaro. Quando di uno si dice: «è un dissoluto», si pronuncia una di quelle condanne che scalzano la riputazione di un uomo. Anche il solo sospetto, che altri possano sapere qualche cosa della sua condotta, mette l’impuro in agitazione; poiché anche il semplice sospetto lo rende spregevole agli occhi stessi del mondo. – La ragione fa l’uomo re dell’universo. E l’uomo che è nato a dominare, se si lascia prendere dalla passione impura, è il più abbietto degli schiavi. In luogo della ragione comanda la passione: comanda sempre, e la volontà si piega e ubbidisce, ubbidisce sempre. E queste continue sconfitte non gli mettono in mente alcun sentimento di riscossa: col tempo finisce a non veder più lo stato in cui si trova. La sua anima offuscata dalle tenebre delle passioni non riconosce più se stessa, non sa più che sia dignità. Dal mal uso è vinta, la ragione; e si avvera l’osservazione del Profeta: « L’impudicizia, il vino e l’ubriachezza tolgono il bene dell’intelletto». (Os. IV, 11). Se alcuno cerca di illuminare l’impudico, di scuoterlo, quasi sempre farà opera vana, e alla fine si adatterà all’esortazione di Michea: «Non state a far tante parole: esse non cadranno sopra costoro, né vergogna li prenderà ». (II, 6). Chi ha buttato via una volta la vergogna, non la riprende più, dice il proverbio. E questo si avvera specialmente dell’impuro.

2.

I pretesti non mancano a coloro che vogliono scusare questo peccato. Si va dicendo che non è poi un gran male; che Dio non vorrà castigarlo. Ma l’Apostolo ci mette sull’avviso: Nessuno vi seduca con dei discorsi vani; poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli della disubbidienza. L’ira di Dio si manifesterà specialmente nel giorno del giudizio. Ma coloro che non vogliono accettare la luce del Vangelo, che si ribellano alla dottrina della Chiesa e alle esortazioni dei suoi ministri, per esser liberi nella loro vita disordinata, proveranno l’ira di Dio anche su questa terra. Limitandoci, ora al peccato impuro, apriamo la Sacra Scrittura, e vediamo con quali tremendi castighi Dio l’ha punito. Ai tempi di Noè il mondo era immerso in opere e in pensieri di carne. «Non durerà per sempre il mio spirito nell’uomo, — dice Dio — perché egli è carne; ma i suoi giorni sono contati: 120 anni». (Gen VI, 3). E mantiene la parola. Passati i 120 anni, senza che gli uomini cessassero dalla loro depravata condotta, viene il diluvio. La fine degli uomini è decisa. Tutta la terra da essi abitata è coperta dalle onde. Le acque crescono continuamente; raggiungono e sorpassano la vetta dei monti più alti. Le risa, i motteggi, gli scherni che si rivolgevano aNoè, uomo giusto, retto, il quale, in mezzo a quella generazione perversa, viveva nel timor di Dio, ora si cangiano in lamenti, in pianti, in spasimi di morte. Noè con la famiglia e con gli animali introdotti nell’arca, è salvo, e tutti gli altri trovano la tomba nelle acque. La terra si era di nuovo popolata, e di nuovo dilagava il mal costume. Corrottissimi erano i costumi degli abitanti della Pentapoli, cinque città situate in luogo amenissimo. Dio manda i suoi Angioli a punirla. «Noi siamo per distruggere questo luogo, — dicono a Lot — perché grande è il loro grido al cospetto del Signore» (Gen. XIX, 13). Gli abitanti prendono per scherzo i castighi minacciati; ma, appena partito Lot con la famiglia, fuoco e zolfo, per voler di Dio, distruggono tutto quel distretto. Periscono gli uomini, la vegetazione scompare, le città sprofondano; e nel suolo abbassato entrano le acque, che formano il triste «Mar morto». Dio vuole che non resti più traccia né dei peccatori, né dei luoghi testimoni dei loro peccati.Quel Dio, che con questi ed altri tremendi castighi punì il peccato impuro allora, è ancora quello stesso che può punirlo e lo punisce anche adesso. Non siamo tanto folli da dire: «L’Altissimo non starà lì a ricordare i miei peccati». (Eccli. XXIII, 26). Anche nel tempo di Noè i viziosi dicevano così, e non facevano alcun conto dei castighi da parte del Signore. Ma i primi non poterono sfuggire alle onde; e i secondi dovettero subire la sorte delle loro città. Non sono già, del resto, un castigo l’affanno, l’agitazione, l’amarezza che riempiono l’animo di chi si dà a questi peccati?

3.

A dimostrare quanto sia disdicevole in un Cristiano l’impurità, l’Apostolo ricorda agli Efesini la diversità della loro condizione presente da quella d’una volta: Un tempo, invero, eravate tenebre, ma ora siete luce nel SignorePrima di ricevere il Battesimo gli Efesini era schiavi del demonio, principe delle tenebre: adesso, essendo uniti a Gesù Cristo, camminano nella pienezza della luce. Quale stoltezza allontanarsi da Gesù Cristo, luce del mondo, per assoggettarsi di nuovo al principe delle tenebre! È sempre disdicevole dimenticarsi della propria condizione per poter commettere azioni, che meritano biasimo. Ma la cosa è tanto più sconveniente, quanto più chi vien meno al proprio dovere è persona costituita in dignità. La medesima mancanza, commessa da una persona del volgo e commessa da un principe, assume unaspetto diverso. La condizione del Cristiano è una condizione veramente principesca, reale. Figlio adottivo di Dio, fratello di Gesù Cristo, erede del regno celeste, quando egli compie qualche cosa che non è conveniente è molto più riprovevole di un pagano, che non è illuminato dalla luce del Vangelo, che non vive la libertà dei figli di Dio; che rimane sotto la schiavitù di satana. Che conducano una vita impura i pagani, — dice il Crisostomo — è cosa detestabile, che in certo modo, però, si spiega; «ma che conducano ancora una vita impura i Cristiani fatti partecipi di tanti misteri, e in possesso di tanta gloria è cosa che sorpassa ogni sfacciataggine, e che non si può in nessun modo tollerare». (In Ep. ad Philipp. Hom. 7, 5). « Non sapete che siete tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio dimora in voi?» ricorda S. Paolo ai Corinti (I Cor. III, 16). Poter essere il tempio di Dio e l’abitazione dello Spirito Santo, e preferire d’essere l’abitazione dello spirito immondo, è tale demenza, che non si riesce a comprendere. Si racconta di reclusi, che, usciti dopo trenta o più anni di detenzione, si sentono come fuori di posto. L’aria libera, la vita libera, l’abito che li accomuna coi cittadini onorati, non contano più nulla per loro, e vogliono ritornare alla vita di catene e di disonore del carcere. Alcuni, interrogati se vogliono usufruire della grazia sovrana, dopo trenta o quarant’anni di ergastolo, vi rinunciano. Poveri infelici, veramente degni di compassione! Ancor più degni di compassione sono gli impudichi. Possono vivere della libertà che porta la grazia di Gesù Cristo, ma essi «convertono in lussuria la grazia del nostro Dio, e negano il solo Dominatore e Signor nostro Gesù Cristo». (Giud. IV). Salomone, considerando il misero stato a cui è ridotto il campo dell’uomo pigro, esclama: «Vedendo ciò vi feci riflessione, e tale spettacolo fu per me una lezione! » (Orov. XXIV, 32). Il Beato Salomone, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, si trova giovanetto a Boulogne a compiere gli studi commerciali. Considerando i gran pericoli per il corpo, e più per l’anima, ai quali si esponeva gran parte dei giovani della città col darsi alla vita marinaresca, pensa tra se: «Io non sarò marinaro… Esporsi a perdere il cielo per guadagnare in modo temerario le ricchezze è follia». E, nauseato della vita poco costumata di tanta gioventù, si decide a lasciare il mondo. (Comp. Della vita del Beato Salomone Martire. Valle di Pompei, 1927, p. 10-11). Se anche noi volessimo far riflessione sul misero stato a cui si riduce il Cristiano impudico, ne ricaveremmo una salutare lezione. Se riflettiamo che « la potenza del diavolo sul genere umano è cresciuta specialmente per la lussuria », (S. Greg. M.: Hom. 22, 9) dobbiam conchiudere, che è una vera follia esporsi a perdere il cielo per dei piaceri indegni. Se riflettiamo quanto sia abbietto lo stato di un Cristiano impudico, dobbiam sentir nausea del peccato d’impurità, e deciderci, con la grazia di Dio, di starcene sempre lontani, e di risorgere tosto, se ne siamo schiavi. Preghiera continua e fuga delle occasioni ci otterranno di riuscire nei nostri propositi.

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo. [Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua. [Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri, [E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis. [Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

Omelia II

[A. Carmagnola: Spiegazione dei Vangeli domenicali – S. E. I. Torino 1921, Spieg. XVII]

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliato. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche Satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub io caccio i demoni. Che se io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio” (Luc. XI, 14-26).

È certo che i malvagi vorrebbero operare il male, senza che alcuno li contrastasse menomamente e rinfacciasse la loro malvagità; ma poiché i buoni, anche senza volerlo direttamente, sono con la loro santa vita un contrasto continuo ed una continua riprensione alla vita malvagia dei tristi, perciò questi inveleniscono contro dei buoni e si fanno a perseguitarli in tutti i modi possibili. Difatti la storia sacra e profana ci mostra che la maggior parte delle ingiustizie, delle persecuzioni, delle scelleratezze, di tutti quanti i delitti che furono commessi lungo il corso dei secoli, furono l’effetto dell’odio dei malvagi contro dei buoni. Tuttavia al di sopra di tutte le prove somministrateci dalla storia di tutta quanta l’umanità vi è quella dataci dalla vita di Gesù Cristo, il quale essendo la bontà in persona fu tuttavia da tanti malvoluto ed odiato a morte. Il che lo potremo anche vedere dal tratto di Vangelo, che la Chiesa ci pone oggi dinnanzi.

1. Racconta adunque il Vangelo di oggi come Gesù stava cacciando un demonio, che aveva reso muto colui, nel quale era entrato. Il che, prima di passare innanzi ad altre considerazioni, ci deve tosto far venire in mente quello che tuttora va facendo il demonio con molti Cristiani. Non potendo più ora esercitare così largamente il suo impero sui corpi, come prima che fosse distrutto il regno dell’idolatria, esercita tuttavia una dispotica tirannia sopra delle anime, e la esercita specialmente coll’adoperarsi a rendere muti i Cristiani, quando stanno per confessarsi, ispirando loro una gran vergogna ed impedendo che eglino dichiarino sinceramente le loro colpe gravi al confessore.Narra S. Antonino, che un certo prelato vide una volta il demonio accanto a una persona, che si confessava, e gli domandò che cosa stesse lì a fare. Rispose il demonio: Pratico la legge della restituzione. Quando tirai questa persona a peccare, le tolsi il rossore; ora glielo restituisco, affinché non confessi il peccato. Ecco il gran tradimento del diavolo, come dice S. Giovanni Crisostomo: Iddio ha congiunta la vergogna col peccato e la confidenza con la confessione. Il demonio ha invertito l’ordine, e ha congiunta la baldanza col peccare, e la vergogna col confessarsi. E come il lupo afferra la pecorella per la gola acciocché, non potendo gridare, gli riesca di portarla via con sicurezza e divorarla, così fa il demonio con certe povere anime. Le afferra per la gola, affinché non confessino il peccato, e così poi le trascina miseramente all’inferno. E quante, pur troppo, quante anime infelici restano vittime di questo laccio fatale della vergogna! Per quanto adunque ci è cara l’anima nostra, stiamo ben in guardia per non cadere in questo laccio terribile dell’infernale serpente. Non ci lasciamo mai vincere dalla vergogna. Noi scopriremmo pure le piaghe del corpo, anche le più schifose, al medico, piuttosto che perder la vita; e perché poi non vorremo palesar al sacerdote le piaghe della coscienza al fin di salvare l’anima nostra? Quei peccati che più ci pesano, e pei quali sentiamo maggior pena e ripugnanza nell’accusarli, siano i primi che confessiamo. Per aver coraggio a farlo, pensiamo ai gravissimi danni che arreca la vergogna. Se vinti dal rossore tralasciamo di confessare i peccati o li confessiamo per metà smozzicando, diminuendo, scusando e mancando gravemente alla debita sincerità, commettiamo allora il maggior degli spropositi, ci facciamo rei di enormissimo sacrilegio, ci tiriamo sulle spalle la maledizione più tremenda di Dio, poiché ci abusiamo indegnamente della divina misericordia, ed in orribile maniera profaniamo il Sangue di Gesù Cristo. Così per nostra malizia troviamo la condanna e la rovina in quel Sacramento, che doveva recarci la vita e la salvezza. Di più, una confessione siffatta, in luogo di recarci la pace e la consolazione, ci lascerà malcontenti ed inquieti. Quei peccati, o nascosti, o confessati male, saranno come tanto spine, che pungono il cuore e lo fan sanguinare; e a guisa di vipere velenose, ci strazieranno di continuo l’anima coi più tormentosi rimorsi. Quella povera anima avrà così due inferni, uno di qua, e l’altro di là. Il demonio per tradirla e chiuderle la bocca, le va dicendo, che si confesserà poi in seguito, che rimedierà a tutto un’altra volta, che almeno in punto di morte farà una buona confessione. Tutte imposture ed inganni del diavolo!… E in tanto se in tale stato le capitasse una morte improvvisa?… E poi, se già si sa che il peccato bisogna confessarlo o una volta o l’altra, perché aspettare, perché differire? Col tirar in lungo non si fa che moltiplicare sempre più i sacrilegi, non solo con le confessioni ma, quello che è ancor peggio, con le comunioni. Quindi si moltiplica sempre più la maledizione di Dio, cresce ognor più il rossore e si fa sempre maggiore la difficoltà a rimediare. Quante povere anime abituate a tacere il peccato col dire: Quando sarò al punto di morte mi confesserò, non ebbero poi la grazia di farlo! Invano si lusinga di confessarsi bene in morte chi è avvezzo a confessarsi male in vita.Esaminato adunque lo stato dell’anima vostra, e se la coscienza vi rimorde di aver

gravemente mancato nelle confessioni passate, rimediate al più presto con una confessione straordinaria, che ripari a tutto. Quanto vi troverete contenti! La pace, la consolazione ineffabile che gusterete, vi compenserà ben largamente di quel po’ di violenza e di stento incontrato nel vincere la maledetta vergogna ispirata dal demonio traditore a vostra rovina, ed a vostra irreparabile perdizione. Ed allora, mercé la grazia di Dio, avverrà anche in voi quel gran miracolo operato da Gesù Cristo a pro di quel povero muto, di cui parla oggi il Vangelo, il quale, cacciato che fu il demonio, si mise a parlare.

2. Alla vista di questo stupendo miracolo “le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma egli avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno in contrari partiti diviso va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche Satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? poiché voi dite che in virtù di Beelzebub io caccio i demoni. Che se io caccio i demoni per virtù di Beelzebub: per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli (vale a dire, come spiega S.Girolamo, gli esorcisti di quella nazione, di cui si parla negli atti degli Apostoli, e che discacciavano i demoni coll’invocazione di Dio). Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quello, che egli possiede. (E voleva dire: Il demonio sin’ora come un forte armato ha tenuto tranquillamente il suo dominio su tutta la casa del mondo). Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie (cioè: essendo ora venuto io, più forte del demonio, lo atterro, gli tolgo dalle mani gli uomini, gli strappo le armi, con cui esso li vinceva e ne divido le spoglie, facendo servire allo stabilimento della mia Chiesa quelli che un tempo gemevano sotto il giogo di satana): Chi non è meco, è contro di me: e chi meco non raccoglie, dissipa.Voi vedete, o miei cari, quanto i Farisei fossero acciecati dall’invidia. Essi lo erano per tal modo da non avvedersi neppure della contraddizione delle loro parole. E può immaginarsi cosa più insensata? dice il Crisostomo. Il Salvatore non ha soltanto scacciato i demoni, ma ha sanato i lebbrosi, risuscitato i morti, ha placato i flutti di un mar furibondo, ha di sua propria autorità rimesso i peccati degli uomini, ha loro predicato la felicità eterna; insomma ha ricondotto al suo Padre coloro che ha convertiti; tutte queste cose sono forse di competenza del demonio? O qualora il demonio le potesse fare, vorrebbe egli farle? Di fatti, o miei cari, il demonio, in tutto quel che fa, altro non vuole che allontanare le anime da Dio e perderle; mentre Gesù Cristo in tutti i suoi passi cerca di ricondurle al suo divin Padre e salvarle. Epperò, voi lo vedete, Gesù confuse trionfalmente la malignità di quei Farisei, ai quali l’invidia ispirava sì strane parole. Ma noi intanto serviamoci di questa occasione per farci anche meglio l’idea del gran male che è questo vizio, il quale vien annoverato fra i sette vizi capitali.L’invidia è un colpevole dispiacere del bene del nostro prossimo. L’invidioso si offende dell’altrui merito; è dolente di vedere in altri qualità e virtù ch’egli non ha, o che egli solo vorrebbe avere. Se il bene, che vede in altri, gli ispirasse solo il desiderio di imitarli, non sarebbe invidia, ma nobile emulazione. Ma non è tale il sentimento che ha l’invidioso, il quale non desidera di acquistare siffatte stimabili qualità, ma di vederne gli altri privi: considera il bene altrui come un male a se stesso, gli altrui vantaggi come una sua perdita, l’altrui riputazione come una macchia che lo disonora. Questa misera disposizione del suo cuore è un verme che lo rode, un veleno che lo consuma; è il suo carnefice.Quanto è vile e detestabile questo vizio! e quali funesti effetti non produce! Primo effetto dell’invidia è il piacere, che cagiona l’altrui sventura. Se coloro che si invidiano, cadono in disgrazia, l’invidioso ne gode, e trionfa di loro caduta, sente un maligno piacere nel vederli umiliati, quantunque non abbia da questi ricevuto male alcuno. Un vendicativo attacca soltanto i suoi nemici, quelli da cui ha ricevuto cattivi trattamenti; ma l’invidioso odia coloro, a cui ha nulla da rinfacciare, se non le loro virtù. Tutto il delitto loro si è quello di aver meriti più di lui. Che mostruosità! Non sembra vero che il cuor dell’uomo sia capace di tanto!Il secondo effetto dell’invidia è la maldicenza e la calunnia. L’invidioso fa di tutto per oscurare la riputazione di coloro che lo vincono in merito; impicciolisce quanto può il bene, che se ne dice; dà maligne interpretazioni ad ogni loro azione, traveste in vizio ogni più pura virtù; la loro pietà agli occhi suoi è finzione ed ipocrisia, i loro fortunati eventi opera del caso, non frutto dell’ingegno.Terzo effetto dell’invidia è un’incessante brama di nuocere al prossimo. Dalle parole si passa ai fatti, si eseguiscono i malvagi disegni, si adoprano tutti i mezzi per far del male, per impedire il conseguimento di ciò, che altri desidera, o per togliergli ciò che ha conseguito. Talvolta si giunge a gravi eccessi e alle maggiori violenze. Caino per invidia uccise Abele; l’invidia ispirò ai fratelli di Giuseppe l’idea di farlo morire e poi divenderlo come schiavo. E l’invidia fece sì che i Farisei dapprima calunniassero, poscia perseguitassero ed uccidessero lo stesso Nostro Signor Gesù Cristo. Pertanto chiudiamo il cuore a questo detestabile vizio, facciamo ogni sforzo per acquistare l’opposta virtù, cioè una cristiana affezione, che ci faccia sensibili alle prosperità e alle sventure del prossimo, per amor di Dio e della salute dei nostri fratelli. Quest’affezione non è altro che la carità, e chi è dalla carità animato, prende parte a tutto ciò che accade ai suoi fratelli; gode con chi è nella gioia; piange con chi soffre; divide con loro il bene ed il male che provano, come se li provasse egli stesso.

3.  Il divin Redentore concludeva il suo discorso dicendo: Quando lo spirito immondo è uscito da un’anima, cammina per luoghi deserti, cercando requie; e non trovandola dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio. Con questo racconto il divin Redentore ci fa apprendere chiaramente quanto sia grave il pericolo di dannarsi che proviene dalle ricadute nel peccato. Colui che non ostante l’uso che fa della confessione ricade negli stessi peccati ad ogni tratto con la stessa frequenza e facilità, a sangue freddo, con poca o nessuna resistenza, senza impiegare le debite cautele, le preservazioni, i mezzi necessari per premunirsi contro le ricadute, ha certo gran motivo di tremare sullo stato dell’anima propria. Queste sue deplorabili ricadute non solo fanno molto temere della sincerità della sua penitenza, ma lo mettono in evidentissimo pericolo di eterna dannazione; e ciò primieramente da parte del demonio, come appunto ci insegna oggi il divino Maestro. Il peccatore recidivo, dice il Crisostomo, è più stolto delle stesse bestie. Un uccelletto o un cervo caduto nel laccio, se giunge a liberarsene, non vi si lascia più prendere. Il peccatore invece, che ebbe la grazia di uscire dai lacci del demonio, se torna al peccato, di nuovo vi si lascia pigliare, e quindi il suo stato diventa peggiore di prima. Se al demonio riesce di ripigliarlo, non entra solo in quell’anima infelice, ma mena seco altri compagni per ben custodirla; le raddoppia le catene, le rinforza le ritorte, le chiude tutti gli aditi, le sbarra tutti i passi, perché di nuovo non abbia a sfuggirgli di mano; e così la misera va di male in peggio, perché questa seconda rovina sarà per lei più grande della prima. Dice S. Anselmo, che il demonio acquista una tal padronanza sopra i recidivi, che li fa cadere come vuole. Quest’infelici diventano simili a quegli uccelli che servono di giuoco ai fanciulli. Essi li lasciano di quando in quando alzarsi a volo, ma intanto li tengono ben legati ad un filo, e quindi tornano, quando lor piace, a farli ricadere a terra. – Ma ciò non è tutto, perciocché il pericolo della dannazione per un peccatore recidivo, proviene ancora da lui stesso. Qualsiasi malattia è cattiva, ma il ricadere di nuovo nella stessa malattia, dice S. Cirillo, è cosa assai più pericolosa e funesta, e che produce quasi certo la morte. L’aggiungere un nuovo peccato al peccato commesso è lo stesso che aggiungere ferita a ferita. Se alcuno riceve la ferita in un membro, certamente quel membro non ha più il primiero vigore. Ma se poi riceve la seconda, quello perderà ogni forza, ogni moto, con poca o nessuna speranza di ricuperarlo. Ecco il gran danno, che apporta il peccato. Rende l’anima così debole, che poco potrà più resistere alle tentazioni, perché, come nota S. Tommaso, ogni peccato, sebben perdonato, lascia sempre la ferita fatta. Ma se poi all’antica vi si aggiunge una ferita nuova, questa rende l’anima così debilitata, che senza una grazia speciale e straordinaria del Signore le è impossibile il superare le tentazioni; ed allora succede un’altalena continua di penitenza e di ricadute finché nasce un accecamento straordinario, ed insieme una durezza spaventosa del cuore. Giunto a tale stato, il peccatore non vede più il male che fa, e la rovina che gli cagiona. Egli vive come se non vi fosse né Dio, né Paradiso, né inferno, né eternità. S. Pietro paragona quest’infelice ad un animale, che si ravvoltola nel brago, poiché invece di rattristarsi e vergognarsi delle sue sozzure, giunge persino a rallegrarsene e menarne vanto. Perduto così il lume della fede, non pensa ad altro che a sfogar le sue infami passioni, e a somiglianza di una bestia priva di ragione non cerca, non desidera che quello che piace ai sensi. Diventa insaziabile di peccare, e ad ogni costo vuole sfogare le sue brutali passioni. – Un peccato chiama un altro peccato; egli pecca di continuo, e di giorno e di notte, e solo e in compagnia, e in casa e in campagna, senza freno, senza ritegno. Chiuso in quella fossa di tenebre, non vede più nulla; né la perdita dell’onore, né quella della sanità, delle sostanze e persino della vita. Disprezza tutto, come dice la Scrittura. Disprezza prediche, disprezza rimorsi, chiamate di Dio, correzioni, lagrime, castighi, preghiere, censure, inferno, eternità. – Ma qui bisogna aggiungere che il più grave pericolo, per un peccatore recidivo, gli vien da parte di Dio stesso. Ed in vero se un suddito, dopo aver congiurato contro il proprio principe, ottenutone poscia un generoso perdono, tornasse ancor di nuovo alle ribellioni e ai tradimenti, non meriterebbe un castigo cento volte più rigoroso di prima? Or questo appunto fa con Dio il peccatore, che, dopo aver ottenuto il perdono, ritorna ancora ai peccati. Egli è un perfido, un ingrato, che si abusa indegnamente della divina misericordia. Egli provoca allora sul suo capo la giusta collera di Dio col voltargli di nuovo le spalle, coll’offenderlo dopo il perdono ottenuto, e resterà colpito dalla divina giustizia. Iddio si ritira da quest’anima ingrata, la priva delle sue grazie efficaci, e il misero resta accecato e abbandonato nelle sue colpe, che lo tirano in perdizione. Quanto importa adunque di ben guardarsi dal cominciare nel male, dal dare i primi passi sul lubrico sentiero dell’iniquità! E questo vale in modo particolarissimo per voi, o cari giovani, perché si conferma pur troppo dall’esperienza l’oracolo dello Spirito Santo, che il giovane, anche invecchiato, calcherà la strada medesima, che avrà battuta nei suoi verdi anni. Tuttavia, o miei cari, se mai foste caduti in grave peccato, rimediate al più presto. Non gli date tempo di gettar profonde radici nell’anima, ma strappatelo prontamente con una santa confessione.

Credo

Offertorium

Orémus Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea. [I comandamenti del Signore sono retti, rallégrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adémpie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santífichi i corpi e le ànime dei tuoi servi, onde pòssano degnamente celebrare il sacrifício.]

Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te. [Il pàssero si è trovata una casa, e la tòrtora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli esérciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che àbitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei sécoli dei sécoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes. [Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

LO SCUDO DELLA FEDE (54)

L[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murte, FIRENZE, 1858]

FALSITA’ DEL PROTESTANTESIMO

CAPITOLO IV.

IL PROTESTANTISMO SI CONVINCE FALSO DA CIÒ CHE I PROTESTANTI NON HANNO ALCUNA MISSIONE.

Avete da sapere che nella vera Chiesa niuno può predicare che non abbia avuta la missione legittima di predicare. Questa missione è di due sorta: è ordinaria quando uno è mandato da colui che ne ha il potere da Dio, secondo l’ordine consueto posto nella Chiesa. Così per esempio fu mandato S. Dionisio in Francia da S. Clemente e Timoteo da S. Paolo. Si dice missione straordinaria, quando Iddio stesso riveste uno del suo potere da sé e con segni straordinarii, come di miracoli o di profezie, fa conoscere che Egli è che lo manda. Così Gesù Cristo mandò gli Apostoli, dicendo loro: andate e predicate il Vangelo a tutte le Creature ((Marc. XVI. 45). – Dovete sapere in secondo luogo che non si può ricevere verun predicatore che non abbia questa missione, perché quelli che si presentano nella Chiesa ad insegnare, si presentano come ambasciatori, e non si possono ricevere ambasciatori senza che presentino le loro patenti, le loro credenziali. Come predicheranno se non sono mandati? Domanda S. Paolo (Rom. X, 15). Noi non crediamo neppure negli affari terreni ad ogni persona ignota che ci si presenta, e crederemmo poi ad una persona sconosciuta, in affare tanto rilevante, quanto è quello della Religione? Bisogna che siano accreditati da qualcuno che abbia autorità. – Perché dunque noi crediamo ai Vescovi ed ai Sacerdoti nella Chiesa Cattolica quando c’insegnano? Ecco il perché. Noi sappiamo che Gesù Cristo è stato mandato dal suo Padre come ce lo assicura Egli stesso dicendo: il Padre mandò me (Joan. XX, 21). In prova di questa sua missione egli ne allegò le opere che faceva, gli storpi che raddirizzava, i ciechi che illuminava, i sordi cui dava l’udito, i muti ai quali scioglieva la lingua, i morti che risuscitava, i miracoli di ogni maniera e strepitosissimi che faceva. Se non credete a me, diceva Egli stesso, credete alle mie opere (Joan. X, 38). Le mie opere sono quelle che mi rendono testimonianza. Credere adunque che Gesù era mandato da Dio, non era davvero imprudente. Egli poi dopo consumata la sua divina missione, autenticò quella dei suoi Apostoli e questi, con la missione di Gesù, si sparsero per tutta la terra. Ecco che Io mando voi, disse Gesù, ecco che Io mando voi (Joan. XX, 21). – Gli Apostoli poi a mano a mano mandarono altri, e così per una successione continua gli inviati pervennero infino a noi: giacché siccome sopra Pietro e suoi successori fu fondata la Chiesa, nessun Vescovo, nessun Sacerdote nella Chiesa Cattolica si ritrova che non provenga da successori di Pietro e che quindi non abbia missione legittima. Sarà lo stesso dei Protestanti? No certo. Essi non hanno missione da veruno né ordinaria, né straordinaria. Niuno vi è che ci assicuri che essi sono Pastori legittimi i quali abbiano tali uffìzi da esercitare con noi. Non hanno la missione ordinaria, poiché questa si deve ripetere dai Vescovi che hanno legame con la Cattedra di S. Pietro. Ora Lutero, Calvino e tutti i primi Riformatori, non furono davvero inviati dai loro superiori a predicare una dottrina nuova. Tutt’all’opposto: appena si fecero lecito di proporla, furono ripresi, contraddetti, condannati, scomunicati, e tutti i fedeli furono avvertiti, che se ne sguardassero come da una vera peste. E però con quale diritto vengono nella Chiesa di Dio ad insegnare, a cambiar la dottrina? Chi è che li manda, chi è che ha loro conferita l’autorità? E se perfino Gesù Cristo che era l’eterna verità, diceva: se Io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla (Joan. VIII, 54); è il Padre quello che mi rende testimonianza (Joan. IV, 32): ed altrove allegava che il Padre era quello che l’aveva mandato (Joan. XX, 21), chi sono costoro che senza alcuna testimonianza presumono di essere creduti? Costoro che n’hanno per altro tanto bisogno, posta la loro corruzione, vanità, superbia ed immondezza? – Non hanno neppure la missione straordinaria, cioè Iddio non li ha resi cospicui per miracoli che abbiano operati, per Profezie che abbiano fatte, per altri segni di Santità. Tutto all’opposto. Quanto ai miracoli essi stessi hanno detto che non erano necessari, perché non li avevano, come la celebre volpe della favola la quale non potendo prendere l’uva, perché era in alto, disse che non la voleva perché era acerba. Profezie non ne hanno, mentre piuttosto tutte le sciocche predizioni loro che il Papato sarebbe finito con Lutero, che la Chiesa Cattolica sarebbe stata distrutta, si sono riconosciute apertamente false. Altri segni straordinari di Santità niuno li ha mai veduti in loro ed essi medesimi non li hanno saputi mai trarre fuori. Dunque che cosa ne conchiuderemo? Che invece di essere ambasciatori veri di Gesù Cristo, sono impostori che si fingono mandati e non lo sono. – Alcuni Protestanti stretti da questa ragione hanno immaginata una risposta: ma sarebbe stato loro più utile, almeno per cessarsi la vergogna, di stare zitti; tanto essa è ridicola ed assurda. Dicono che la vera Chiesa di Gesù Cristo, da cui essi hanno ricevuta la missione, vi era, ma che era invisibile: e che sono stati mandati da questa Chiesa invisibile. Potevano essi dirla più grossa? Sarebbe come se uno dicesse che ha ricevuto cento scudi, ma che sono invisibili: ed a che cosa servono, ripiglieremmo noi, se non si possono né toccare, né spendere. Ma poi se questa Chiesa era invisibile, come hanno fatto a vederla essi per unirsi a Lei? Oh che privilegio hanno essi di vedere l’invisibile, e che occhiali o canocchiali v’hanno adoperato intorno? Se questa ragia si mena buona, tutti gli eretici che vengono fuori, avranno bell’e pronta la propria difesa; ch’essi appartengono ad una Chiesa invisibile, e questo basterà ad autenticare tutti gli errori di Ario, di Nestorio, di Eutiche, di Pelagio ed altri eresiarchi: cosa che neppure i Protestanti ammetterebbero. E tuttavia se basta a loro il dire che appartengono ad una Chiesa invisibile, perché non basterà a tutti gli Eretici? Finalmente se questa Chiesa da cui essi hanno ricevuta la missione era invisibile, dunque non era la vera Chiesa di Gesù Cristo, perché Gesù disse espressamente per i suoi Profeti che la sua Chiesa sarebbe stata visibile a tutte le genti, che tutti l’avrebbero potuta riconoscere, che sarebbe stata come una montagna elevata sopra tutte le montagne (Isai. II, 2), e perciò bisogna conchiudere che il ricorrere a questa spiegazione è lo stesso che confessare che essi non hanno missione per insegnare. Che se non hanno missione, si contentino che noi non abbandoniamo la Chiesa Cattolica, la quale ha la missione chiara, innegabile, evidente di Gesù Cristo; e che rigettiamo tutti gl’insegnamenti di questi arroganti che senza essere chiamati si mettono ad insegnare da sé errori e falsità. – Se si presentasse da voi uno sconosciuto e vi dicesse che il vostro padrone lo manda ad esigere cento scudi che voi gli dovete, sareste voi tanto stolido da consegnarglieli così buonamente? Ei potrebbe giurare e spergiurare che è davvero mandato dal vostro creditore, che non avrebbe un quattrino finché non lo conosceste. Ma e voi prestereste poi fede a questi sconosciuti che vi domandano, non cento scudi, ma le anime, la Fede e la eternità, senza che vi diano niuna sicurezza e guarentigia di quello che sono e di chi li abbia mandati?

QUARESIMALE -XV-

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco, Ivrea 1844 – Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843, Ferraris prof. Rev. Per la G. Cancell.]

XV. NEL VENERDÌ DOPO I.A SECONDA DOMENICA.

… Malos male perdet.

(… farà morire quei malvagi).- Matth, XXI, 41.

I. È per intimare castighi ad una città meritevole d’ogni bene son io stamane comparso su questo pulpito? Ah no, Signore. Se pur volete che anch’io vi serva di Giona, mandatemi a qualche Ninive, a città scellerate, a città sacrileghe, ch’io vi volerò volentieri; no dubitate ch’io colà non annunzi ogni più ferale sterminio, come a voi piace. Ma mentre voi mi avete fatto venire ad una città cattolica, quali altri auguri volete voi ch’io qui faccia, se non di prosperità, di vita lunga, di stagioni propizie, di messi liete? Così vorrei certamente che succedesse. Ma chi fia che me n’assicuri? l’iniquità pur troppo vedo che da per tutto si dilata, s’inoltra, si impadronisce; e però temo, o mia N., che ancora in te possa ormai giungere a segno, che provochi a tuo gran danno il divin furore. Comunque siasi, ecco l’espressa denunzia, la qual Dio vuole che assolutamente io ti faccia: malos male perdet. Non si riguarda ad antichità di natali, non si riguarda a merito di antenati; chi è reo, convien che porti a lungo andare la pena del suo delitto. E qual città più gradita al Cielo una volta di Gerosolima? se l’era Dio, qual cara vigna, piantata per suo diporto su gli amenissimi colli di Palestina; le aveva data la sua legge per siepe, le aveva aggiunta la sua protezione per maceria, l’aveva nettata da que’ virgulti spinosi che la ingombravano, da’ Cananei, dagli Ammoniti. dagli Amorrei, e da altri simili popoli a lei molesti; vi avea per torre collocato il suo tempio, vi aveva per torchio costituito il suo altare, e nulla aveva risparmiato o di spesa o di arte ch’egli vi potesse impiegare. Quid debui facete vinea mea, et non feci! (Is. V. 4) Eppur che n’è di presente? Andate, e miratela. Ella è tutta insalvatichita. E per qual cagione? Per non avere già voluto la misera prestar fede all’odierna intimazione evangelica: malos male perdet. Ché tante minacce? non veniet super nos malum (Jer: V. 12). Quest’erano le parole che fin da’ tempi di Geremìa sempre avevano su la lingua gl’increduli Israeliti. Profetæ fuerunt in ventum locuti (Ibid. 13). Questi predicatori pretendono spaventarci; badiamo a campare, badiamo a conversare, attendiamo a ridere. Ah contumacissimi Ebrei! Numquid super gentem hujuscemodi noti ulciscetur anima mea? Dicit Dominus (Ibid. 29). Date un poco di tempo al furor divino, e di poi vedrete. Ma perché frattanto, uditori, di esempio tale non ci vagliamo per nostro ammaestramento? Non manca forse nel Cristianesimo ancora chi sprezzi Dio come inabile alla vendetta, e chi sempre dica: non veniet super nos malum, non veniet super nos malum? [non ci accadrà nulla di male]. Però mi sono risoluto stamane, sapete a che? a confondere questi increduli, ed a mostrar loro da parte di Dio sdegnato, che se non vogliono in tempo dar fede ai tuoni, non tarderanno ancor essi a provare il fulmine.

II. Uno dei maggiori argomenti, che forse abbiamo della misericordia immensa di Dio, sono, a mio credere, le minacce orrendissime, con le quali Egli è stato sempre solito di tonare sopra de’ peccatori. E che altro mai ha preteso egli con esse, se non dare agio ai peccatori medesimi di salvarci? Non ha volontà di ferire chi molto prima si stanca nel minacciare; conciossiachè (conforme il detto acutissimo di colui) la minaccia altro non è che uno scudo del minacciato, siccome quella che gli dà sempre tempo o di mettersi in fuga speditamente, o di porsi in guardia. Quindi asseriva santo Agostino (Ser. 38. de Sanctis), che si nos Deus noster punire vellet, non nos tot ante sæcula commoneret. Invitus quodammodo vindicat qui quomodo evadere possimus, multo ante demonstrat; non enim te vult ferire qui libi clamat: observa. [ se Dio volesse punirti, non ti avviserebbe secoli prima … non ti vuol ferire che grida: sta’ attento!]. Chi prima di ferirti ti dice: guardati, non ha volontà di ferirti. E però (replica il Santo) se Dio avesse diletto di castigarci, non farebbe precedere il tuono al fulmine, non farebbe precorrere il lampo al tuono. Eppure nessun castigo quasi leggiamo aver esso mandato al mondo innanzi di minacciarlo, non solo in genere, ma ancora in particolare; tanto che questa una fu delle principali cagioni per cui spedì varj profeti al suo popolo in varj tempi. Sentite. Volle denunziare al suo popolo l’universale saccheggiamcnlo de’ beni; e che fece? Fece andare per la città Isaia tutto ignudo dei vestimenti (Is. XX. 2). Volle denunziare al suo popolo la cattività lagrimosa delle famiglie; e che fece? Fece andare per la città Geremia tutto carico di catene (Jer. XXVII. 2). Volle parimente al suo popolo denunziare l’orribilissima fame, la quale già preparavasi agli assediati; e fece che Ezechiele) per trecento novanta giorni, nei quali si stette sempre a giacere sopra di un medesimo lato, non si cibasse mai d’altro che di sterco secco di bue, sfarinato in polvere e cotto in pani (Ezech. IV,8 ad 12). E nella stessa maniera ha poi seguitato a predire diversi flagelli in diverse forme. Il che non è altro che un intimare ai popoli, che si guardino, che piangano le lor colpe, che riformino la lor vita, che fuggano dalla faccia del suo furore; al che pensando, prorompeva il buon Davide in quegli affetti: dedisti metuentibus te significationem, ut fugiant a facie arcus: ut liberentur dilecti tui (Ps. LIX. 6). Eppure chi il penserebbe!’ non poté Dio conseguir con tante proteste che gli uomini gli credessero. Onde quanto più egli stanca Vasi in minacciare che malos male perdet, tanto più essi attendevano ad oltraggiarlo; quasi che ciascuno degli uomini portasse impresso nel cuore a note indelebili quel perfido sentimento: s’io non veggo, non crederò: nisi videro, non credam (Joan. XX 25). E che si è fatto, Cristiani miei, con questa incredulità, se non costringere Dio a fulminar quei castighi ch’Ei minacciava, per non giungere all’atto di fulminarli? Questa incredulità sommerse il mondo scorretto nel diluvio dell’acque, quando non die fede a Noè che lo prediceva (Gen. VII). Questa chiamò sopra i perfidi Sodomiti piogge di fuoco, quando derisero la parola di Lot che lo significò (Gen. IX. 24). Questa condusse i contumaci Egiziani a naufragare nell’Eritreo, quando si indurarono ai portenti del Cielo che precederono (Exod. XIV). Questa condannò innumerabili Israeliti a morir nella solitudine, quando sprezzavano le proteste di Mosè che lo presagiva (Num. XIV, 10). Questa costrinse debellati gli Assirj a perire sotto Betulia, quando si sdegnarono della libertà di Achior che Io denunziava (Judith V. ad XV). E piaccia a Dio che non sia questa, uditori, quella che nel secolo nostro ci fomenta nel seno tante calamità, ci sottopone il dorso a tanti flagelli. Eh (diciam noi) che non bisogna spaventarsi si presto: non veniet super nos malum, non veniet super nos malum. Si? E che vorresti veder tu, peccatore, per credere che Dio, sedendo come in suo trono nel Cielo, ha occhi da rimirarle tue colpe, ha cuore da offendersene, ha braccio da castigarle? Vorresti vedere che com’egli minaccia di castigarle, così le castiga? Vedilo: io son contento. Né voglio io già che, per chiarirti di ciò, tu trasporti il pensiero negli altrui secoli; voglio che lo fissi nel nostro, giacché gli oggetti presenti più forza di muoverci, che i passati.

III. Di’: in questo secolo stesso, toccato a noi, non ha Dio chiaramente dato a conoscere che le sue minacce non sono altrimenti fallaci, quali tu pensi, ma infallibili, quali tu non vorresti? Non veniet super nos malum? E non hai tu forse occhi in fronte da rimirare tanti rivi di sangue, tante cataste di ossa, tanti cumuli di cadaveri? Basterebbe che tu passeggiassi un poco pel mondo, e li vedresti. Che alto vestigia di furor militare non sono ivi stampate per ogni parte! Evvi nella misera Europa o regno, o provincia, o principato o città, la qual non abbia in questo secolo udito su le sue porte strepito di tamburi, fragor di trombe, rimbombo di artiglierie? Non l’Italia, non la Spagna, non la Francia, non la Germania, non la Fiandra non l’Inghilterra hanno potuto godere in veruna parte ozj piacevoli, ovvero sonni sicuri. Quant’anime però credi tu che siano mancate in questi universali tumulti? Chi può contarle? Basta dire, che la prima impresa, seguita entro a questo secolo (che fu la presa di Ostenda), non costò meno di ottantamila persone sacrificate con alto lutto alla morte. Ora da questo solo fa tu argomento delle stragi avvenute in luoghi sì varj, in fazioni sì numerose, da spiriti sì feroci, in tempi sì lunghi. Ma che serve parlar di quello che non si sa, mentre possiam trattar di quel che si vede? Quanti poderi si mirano, dianzi deliziosi, ed ora diserti! quante campagne, dinanzi verdeggianti, ed or arse! quanti villaggi, dianzi popolati, ed or solitari! quante città, dianzi intere, ed ora distrutte! E sono altro questi, che adempimenti delle minacce che fece Dio quando disse: si spreveretis leges meas, evaginabo post vos gladium, eritque terra vestra deserta et civitates vestræ dirutæ (se disprezzerete le mie leggi, sguainerò la spada dietro di voi, … la vostra terra sarà deserta, le vostre città distrutte – (Levit. XX. 15 et 33). O meschino, che dici? non veniet super nos malum? – Apri pur gli occhi, tuo malgrado, e rimira in breve giro di anni le sollevazioni sì strane di tanti popoli, giacché continue sono state ai dì nostri le rivolte or di Germania, or di Portogallo, or di Catalogna, or d’Inghilterra, or di Parigi, or di Napoli, ordi Polonia. A chi per queste confiscate le rendite, a chi tolti gli onori, a chi imprigionata la libertà, a chi atterrati i palazzi, a chi troncata la vita, a chi infamata ancor la memoria. In qual altro secolo si raccontano litigi più pertinaci o più frequenti, tradimenti più ingiuriosi o saccheggiamenti più ingiusti, uccisioni più barbare o crudeltà più nefande? A noi forse nella nostra Italia è toccata la maggior parte di tali disavventure, benché qui ancora debbano essere lungamente famosi i desertamenti del Monferrato, i desolamenti di Mantova, e le calamità lacrimevoli di Torino. Ma chi, girando un poco, andasse a credere quel che altrove hanno patito i Cattolici dagli Eretici, i Cristiani dagli Etnici, e, quel ch’è peggio, i Cristiani medesimi da’ Cristiani, non si raccapriccerebbe per l’orrore? che direbbe in vedere ancora stampate per le campagne polacche l’orme di ben trecentomila soldati tra Turchi e Tartari, condotti là dal Sultano? eppure peggiori ancor de’ Turchi e dei Tartari, sono di poi stati a’ Polacchi i Polacchi stessi, nonché solamente i Cosacchi ribelli alteri. Infelice Germania! Miransi nel tuo seno ancora fumanti gli avanzi di quell’incendio sollevato in te da quel tuo nemico trionfale, dico Gustavo, quando per le tue provincie scorrendo, a guisa di un folgore, veloce ma rovinoso, si impadronì in breve tempo d’Erbipoli, di Bamberga, di Magonza, d’Augusta, e di quasi tutta la Franconia, la Svevia, il Palatinato. E il Turco fattosi possessor novello di Varadino, di Nitria, di Novarino, e di tanto già d’Ungheria, in quante altre parti della combattuta Cristianità anela di portar, se riescagli, le catene di misero vassallaggio? Quindi continuamente egli infesta ora i nostri mari con le scorrerie, ora i nostri porti con li saccheggiamenti, ora i nostri domini con le conquiste. Che però se la Candia, caduta al fine sotto il suo barbaro giogo, potesse far interi qui giungere i suoi lamenti, senza che l’alto strepito di quei flutti, che la circondano, glieli assorbisse per via, non ci spremerebbe dagli occhi a forza le lacrime? Evvi secolo, il quale abbia veduto, nondirò tanti principati vagabondi o quasi venali, non dirò tanti principi prigionieri o almeno fuggiaschi (perché questi ormai sono esempi comuni a molti), ma dirò un Re di sì antica sorte, qual era quel d’Inghilterra, giustiziato pubblicamente sopra d’un palco per sentenza di sudditi usurpatori di una autorità non più scorta su l’universo? Non veniet super nos malum? – E che? chi ha scampato dal ferro, ha potuto forse difendersi dalla fame? Ah che mi pare di poter anzi di esclamare con Geremia: Si egressus fuero ad agros, eoce

occisi gladio: et si introiero in civitatem, ecce attenuati fame (Jer. XIV, 18). Parlinotante famiglie spiantate in ogni città pellegravezze antiche già di tanti anni; tantecomunità desolate, tanta mendicità vagabonda.E forsechè non erano per sé solebastanti queste gravezze, se il Cielo stessonon concorreva ad accrescerlo con la sterilità?Non ha molt’anni che in Buda, cittàd’Ungheria, in cambio di piover acqua vi piovve piombo, per avverare in essa letteralmente quella minaccia; sit cœlum, quod supra te est, œneum; et terra, quam calcas, ferrea [Il cielo sarà di rame sopra il tuo capo e la terra sotto di te sarà di ferro – Deut. XXVIII, 23]. Non così tra noi, dove con flagello contrario la sterilità è proceduta quasi sempre dalle orride inondazioni: quindi si è veduto per tutto il volgo famelico marcire, consumato dall’inopia ed inabile alla fatica. Mi ritrovai pur io stesso nella città regina del mondo, quando giornalmente morivano per le strade i mendici, altri assiderati dal freddo, altri languidi dalla fame, non potendo supplire il numero, benché grande, di quei che porgevano loro soccorso, alla moltitudine assai maggiore di quei che lo richiedevano. Or che sarà stato in quelle terre, in quei villaggi, in quei campi, dov’era eguale il bisogno, minor l’ajuto? Non si sarà ivi veduta adempir manifestamente quella denunzia: Percutiet te Dominus egestate et frigore? – Il Signore ti colpirà con l’arsura e il freddo (Deut. XXVIII. 22) et populi erunt projecti in viis pæ fame?Gli uomini ai quali essi predicono saranno gettati per le strade di Gerusalemme in seguito alla fame (Jer. XIV. 16 ) Non veniet super nos malum? Oh cecità, che non hai voluto mirare icontagi, le pestilenze, le mortalità sì comunia tutta l’Europa! E chi sa che di questasollecita annunziatrice non comparisse quella prima orribil cometa, che in questo nostro secolo occupò il cielo per lo spazio intero d’un mese? Furono attribuite ad essa le morti, succedute in breve, d’un sommo Pontefice, di due Re, uno di Spagna e uno di Svezia, d’un figliuolo d’Imperatore, e di una madre d’Imperatrice, un gran Soldano de’ Turchi, e di altri potentati assai, che mancarono dentro un anno. Ma io non credo che per sì pochi parli il Cielo, quando egli muove la lingua: il volgo, che non l’intende, interpreta il suo linguaggio a disfavore solo de’ Principi, da’ quali ha diverso lo stato: non l’interpreta a danno ancor dei plebei, co’ quali ha comune la sorte. E non si vide ben tosto, dopo quella comparsa, scoppiar quella pestilenza, che ha assorbito finora e ancor assorbisce tante fiorite parti d’Europa? In questo momento medesimo, chi potesse girar un poco per essa, troverìa le fauci ancora fioche alle madri ch’hanno singhiozzato di fresco per i loro figliuoli, le trecce ancora scarmigliate alle spose ch’hanno deplorati di breve i loro consorti. Che orrore è stato vedere città, dianzi si adorne, sì allegre, sì popolate, riempirsi ad un tratto di squallore, di urli, di solitudine! Dovunque tu volgevi lo sguardo, tu rimiravi d’intorno o malati senza speranza, o moribondi senza conforto. Le carra de’ cadaveri accumulati giravano ogni giorno per la città, quasi portassero in trionfo la morte, quanto più pallida, tanto più baldanzosa. Ogni cosa concorreva pronta a gettare dalle finestre il suo doloroso tributo. Chi dava amici, chi padroni, chi mogli, chi sorelle, chi padri, con timor forse di dover ancor essi seguire a sera quei che sul mattino inviavano. Che se tu mi domandassi dove in questo nostro secolo ha scorso principalmente sì trionfante la peste, che dovrei fare? Prima ti dovrei mostrar la Sicilia, d’ond’ella uscì; e di poi tutta affatto la nostra Italia, la quale ad una fiera sì ingorda non si valuta avere contribuito ai dì nostri meno di pascolo, che un milion di cadaveri. Indi ti dovrei mostrar la Francia e la Spagna, la Dalmazia e la Candia: ed oltre a queste, l’Inghilterra, la Polonia, la Corsica, la Sardegna, la Catalogna, in cui per lungo tempo son poi rimaste le vestigia dell’ampia mortalità, come nel maro dianzi fremente i contrassegni dei numerosi naufragi. E questo non è stato un vedere chiaramente compite quelle minacciose proteste: Augebit Dominus plagas vestras, plagas magnas et perseverantes, infirmitates pessimas et perpetuas – allora il Signore colpirà te e i tuoi discendenti con flagelli prodigiosi: flagelli grandi e duraturi, malattie maligne e ostinate (Deut. XXVIII, 59), desertæque fìent viae vestræ – le vostre strade diventeranno deserte ( Lev. XXVI, 22). Or che dici? Sei tu però ostinato nel tuo incredulo sentimento: non veniet super nos malum? E che vorresti veder tal di vantaggio per chiarirti che Dio malos male perdet? Vorresti vedere terre ingoiate dall’acque? Domandane alla Fiandra. Vorresti vedere campi divorati dal fuoco? Chiedine a Napoli. Vorresti vedere popoli sprofondati dai gran terremoti? Interrogane la Calabria. Che spettacoli di spavento non si sono aperti in queste provincie agli occhi della curiosa posterità! Nuvole caliginose di fumo, piogge portentose di cenere, gragnuole strepitose di sassi, torrenti bituminosi di zolfo, fiumi bollenti di fuoco, rovine precipitose di case, ingojamenti orribili di bestiami. Che dissi sol di bestiami? D’interi popoli; mentrecchè solo a un alto aprir di fauci, che là faceva di tratto in tratto, quasi affamata, la terra, restavano a mille a mille le genti assorte. Ma che più dissimulo ornai? Non sono forse assai fresche le orrende stragi e di Ragusi e di Rimini? Ambedue questi popoli, nel dì d’oggi, pochi anni sono, ogni altro mal si temevano, che quello il qual poi seguì: trattavano, trafficavano, e si credevano di dover lieta celebrare ancor essi la loro Pasqua. Eppure oh quanto ambedue la sortirono luttuosa! Si ode fin ora quasi il rimbombo di quelle strida, quando non trovando i miseri terra che li volesse sostenere, fuggivano dall’abitato nei campi, dai campi nell’abitato, portando sempre frattanto sotto a’ lor piedi il tremuoto, presso alle loro spalle la morte, e dinanzi a’ lor occhi la sepoltura. E non è chiaro che nel ferale spavento di questi popoli videsi puntualmente adempita quella intimazione divina: timebis nocte et die non credes vitæ tuæ. Mane dices: Quis mihi det vesperum ? et vespere : Quis mihi det mane? propter cordis lui formidinem, qua terreberistemerai notte e giorno e non sarai sicuro della tua vita. Alla mattina dirai: Se fosse sera! e alla sera dirai: Se fosse mattina!, a causa del timore che ti agiterà il cuore e delle cose che i tuoi occhi vedran (Deut. XXVIII, 66 et 67). Va pure dunque, va pure, e di’ baldanzoso: non super nos malum, non veniet super noi malum. Quel ch’io t’ho detto, l’hai pur veduto tu con i tuoi occhi, o almeno l’hai tu pur letto dentro i pubblici fogli, o per lo meno hai tu pur udito da numerosissimi testimoni; che la fama n’ha così colme le sue cento bocche, che il saperlo non è di gloria veruna, ma ben sarebbe d’ignominia grandissima l’ignorarlo.

IV. Ma, sciocco me! Perché tanto io qui mi sono stancato a fin di confondere la nostra incredulità? Eh che bisognerebbe esser cieco, per non vedere i così strani flagelli ch’ogni dì vengono. E però tengo per certo, signori miei, di non essermi apposto nel dire che non vogliamo credere fino a che non vediamo: dovevo io dire, che quantunque vediamo, non vogliamo credere. E questo appunto è l’eccesso maggior di incredulità che trovar si possa, conforme a che diceva Geremìa: flagellasti eos, nec valuerunt ut credere. Quasi egli dica: Ecco come procedono i peccatori: finch’odono solamente il tuono delle minacce, se ne beffan dicendo, che se non vedono, essi non vogliono credere, quando poi sentono il fulmine del castigo, si ostinano imperversando che non vogliono credere, benché vedano: flagellasti eos, nec voluerunt credere (Jer. V, juxta s. Cypr. ad Demetr.). Ma come può star questo, o santo Profeta? non hanno essi il flagello dinanzi agli occhi? non lo toccano? non lo palpano? Non lo provano? Come dunque può stare che non lo credano? Sapete come? Negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse!Hanno rinnegato il Signore, hanno proclamato: “Non è lui! (Jer. V, 12). – Credono bensì essi che quello sia veramente flagello, e flagello atroce; ma non credono che quello sia flagello di Dio. Non credono esser Dio quello che manda lor quelle guerre, quelle carestie, quelle pestilenze, quelle inondazioni, quegl’incendi, quei turbini, quei terremoti: negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse. Venite qua. Non vedeva Faraone chiarissimamente tanti castighi che piovevano del continuo sopra il suo capo, le tenebre, che gli rubavano il giorno, le grandini che gli schiantavano gli alberi, le locuste che gli divoravano i seminali, le piaghe che gli ulceravano gli uomini, le pesti che gli consumavano gli animali? Certo le vedeva. – Eppure quanto fece il protervo per non si arrendere a quella proposizione che i suoi cortigiani medesimi confessavano: Digitus Dei est hic! (Exod., VIII. 10). Convocò d’ogni parte tutti i più celebri incantatori a consulta, per definire se quei portenti potevano attribuirsi a qualch’altra mano, almanco diabolica; cercò, studiò, specolò; procurò ch’anch’essi facessero prove eguali, di cambiar verghe in serpi, di colorire acque in sangue, di assoldare rane da’ fiumi, di adunare mosche nell’aria. E ben vedendo che questi ancora si davano alfin per vinti, cede egli però, appagossi, arrendettesi? Anzi non volle trarsi giammai di capo, che quei prodigi non fossero arti malefiche di Mosè: tanta è la ripugnanza che provano i peccatori in riconoscere un solo Dio per autore di tutte le avversità. Io non dico già che i Cristiani arrivino comunemente alla stupidezza di Faraone, che sarìa troppo; ma nondimeno quando mal volentieri s’inducono anche i Cristiani a riconoscere, benché percossi, la mano che li percuote! Voi lo sapete. Entra nel vostro ovile un lupo famelico a divorarvi la greggia? Voi l’ascrivete alla negligenza del guardiano. S’appicca nel vostro campo nn fuoco capace

ad incenerirvi le biade? voi n’incolpate la malignità de’ vicini. S’ostina nel vostro corpo una febbre lenta a logorarvi la vita? voi l’attribuite all’ignoranza del medico. Tutte quelle guerre quasi che accadono, non si appongono o all’avidità ch’hanno i Principi d’ingrandir la dominazione, o al desiderio ch’hanno i vassalli di alleggerire la servitù? Alla licenza dei soldati si ascrivono i disertamenti delle campagne ed i saccheggiamenti delle città; all’imperizia dei capitani le rotte degli eserciti, e la moltitudine delle stragi; alla inavvertenza dei marinari i fracassamenti dei vascelli, ed il getto delle merci; alla rapacità dei ministri le estorsioni de’ tributi e lo oppressioni dei popoli; alla ingiustizia dei giudici la perdita delle liti e lo scapitamento dei patrimoni. Né contenti di ciò, noi siamo anche andati ad inventar vocaboli vani, di disastro, di disavventura, di caso. Disgrazia chiamiamo il precipitar da una rupe, disgrazia l’affogarsi in un fiume, disgrazia il perdersi in un incendio, disgrazia il perire sotto una rovina. Anzi, avanzandoci anche più oltre con l’incredulità pertinace, abbiamo fin tentato di leggere nelle stelle gli annali delle nostre calamità, per attribuirle piuttosto a creature insensate, che a Dio vivente. Oh cecità! oh stoltezza! oh deliri di uomini imperversati! i quali, giacché non possono negare di vedere il castigo, non voglion giungere a confessarne l’autore; Flagellasti eos, ncc voluerunt credere: negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse.

V. Eh non c’inganniamo, Cristiani, non c’inganniamo, che questo è errore gravissimo. Né parlo or io solamente quanto allo stelle, che non cagioni, ma segni al più possono essere, e ancor fallaci, degli effetti pendenti dal nostro arbitrio; onde saviamente Geremia ci confortò a non farne stima: a signis cœli nolite metuere quæ timent gentes(Jer. X. 2 ); ma parlo di tutto l’altre creature, o ragionevoli, o sensitive, o insensate. Non sappiamo noi bene che tutte queste non altro sono, se non che meri strumenti del divino furore? Questo è certissimo, so noi crediamo a Isaia: Virga furoris Domini, et baculus ipsa sunt(Is. X. 5). Adunque perché questo abuso di guardare alla verga che ci percuote, e di non badare alla mano? Evvi rozzo che, ferito dall’inimico con una spada, dica: la spada mi ha ferito; e non dica: m’ha ferito il nemico? Evvi fanciullo che, battuto dal maestro con una sferza, dica: la sferza mi ha battuto; e non dica: m’ha battuto il maestro? E se un reo, per sentenza del principe, riceve la morte dalla mano del manigoldo, l’attribuisce alla mano del manigoldo, o alla sentenza del principe? Adunque perché, quando ancora Dio ci castiga, noi non vogliamo riconoscere che sia Dio? dicimus: Non est ipse; o facciamo come i cani, inetti, ignoranti, che si rivoltano incontanente rabbiosi a morsicare quel sasso che li colpì, e non fanno caso del braccio che scagliò il sasso? – Volete ch’io ve lo dica, Cristiani? ve lo dirò. Noi facciamo questo, perché non vorremmo altrimenti avere occasione di rientrare un poco in noi stessi, di ravvederci, di riconoscerci. Perché fintantoché ascriviamo quei mali ad altre cagioni, non consideriamo la gravezza del vizio per cui tolleriamo quei castighi; non riflettiamo alla severità del Signore, dal quale li tolleriamo; e veniamo quasi a poco a poco a spogliarci di un naturale timore, che Dio sia al mondo, rimiri ogni nostra azione, e che registri ogni nostra scelleratezza; che è quel timore che finalmente ogni peccatore vorrebbe sbarbicarsi dall’animo, se potesse, conforme a quollo: dixit insipiens in corde suos: Non est Deus(Ps. XIII, 1). Che però (se voi non lo sapete ) nel testo ebreo corrisponde qui a quella voce Deus il vocabolo “Elohim”, che significa Dio in quanto osservatore,» quanto giudice, in quanto castigatore: Quasi dicat insipiens in corde suo, non est ultor. Perché al peccator dà un gran fastidio il credere che ci sia Dio, non in quanto provvido, non in quanto buono, non in quanto benigno, ma in quanto revisor severo dei conti. Questo lo cuoce, questo lo crucia: e però in faccia ai suoi flagelli medesimi s’imperversa. In cambio di ascrivergli al loro autore principale, ch’è Dio, gli ascrive agli uomini; dove non può ascrivergli agli uomini, gli ascrive al caso; dove non può ascrivergli al caso, gli ascrive alle stelle; e così il misero si lusinga sempre e si adula nella propria malvagità: Flagellasti eos, nec voluerunt credere; negaverunt Dominum. et dixerunt: Non est ipse.

VI. E come mai potrebbe essere, o ascoltatori, che noi credessimo vivamente esser Dio quello che si ci castiga per i nostri peccati, e che nondimeno continuamente accrescessimo quei peccati, per li quali sì ci castiga? Ecce irrogantur divinitas plagæ, et nullus Dei metus est (convien dire lagrimando con san Cipriano); Ecce verbera desuper et flagella non desunt, et nulla trepidatio est, nulla formido (ad Demetr.). Non si vede ciò tutto giorno per esperienza? Quanto pochi sono che renda punto migliori la vista delle presenti calamità! Anzi ov’è che piuttosto non crescano per la peste le rapacità e le sfrenatezze,  per la fame l’ingiustizie e le usure, per la guerra le dissoluzioni e le disonestà? Ego dedi vobis stuporem dintium in cunctis urbibus (diceva Dio per Amos al popolo), et non estis reversi ad me, dicit Dominus. Percussi vos in aurigene, et vedistis ad me. Ascendere feci putredinem castrorum in nares vestras, et non redistis ad me, dicit Dominus Eppure, vi ho lasciato a denti asciutti in tutte le vostre città ho fatto salire il fetore dei vostri campi fino alle vostre narici: e non siete ritornati a me, dice il Signore.  (Amos IV. 6 ad 10). – Chi di voi mi sa dire, signori miei, in quale circostanza di tempo facesse Baldassar quel convito solenne, anzi così scellerato, così sacrilego, descrittoci da Daniele? Balthassar rex fecit grande convivium optimatibus suis (Il re Baldassàr imbandì un gran banchetto a mille dei suoi dignitari  – Dan. V, 1). Credete per ventura che fossea ragion di nozze, o in congiuntura con qualche insigne ricevimento di principi, di pace stabilita, di popoli sottomessi? Pensate voi, risponderà san Girolamo, (in Dan. cap. V): fu quando egli era attualmente stretto da Ciro con un terribile assedio. In tantam renerat Rex oblivionem sui, ut obsessus vacaret epulis. Allora fu che, stando il perfido assiso in mezzo ad una gran mandra di concubine, s’imbriacava ne’ vasi rubati al tempio; e che, non badando punto alle grida di tanti miseri, i quali precipitavano dalle mura, faceva brindisi a tutti i suoi dii paterni, dii di metallo, dii di marmo, dii fatti di atli di legno vile: bibebat vinum, et laudabat Deos suos, aureos et argenteos, aereos, ferreos, ligneosque et lapideos(s. Jo. Chr. homil. 28 in Gen.). Che fiera scena veder quel diluvio d’acqua che Dio versò su la terra, sol per purgarla di tante sue laidezze eccessive! Eppure a vista di quell’acque vi fu un figliuolo di Noè, che non temé di pensare a diletti impuri (Gen. IX, 22). Che funesto spettacolo veder quel diluvio di fuoco che Dio scaricò sopra Sodoma, sol per punirla di tanto sue lascivie esecrande! Eppure a vista di quel fuoco vi furono due figliuole di Lot, che non dubitarono di venire ad atti incestuosi (Ib. XIX, 32). –  Ma per non insultare alle altrui miserie, dove possiamo tanto piangere su le nostre, ditemi il vero, uditori: si è veduta tra voi riforma notabile dopo quei solenni castighi, di cui ben sapete esser toccata a voi pure la vostra parte? Ah che mi pare che possiam dire anzi al Signore con Isaia: Ecce tu iratus es, et peccavimus(Is. LXIV, 5 ). Ma come ciò? So dicesse peccavimtis, et iratus es, io lo capirei; ma dire: iratus es, et peccavimus, questo è troppo. Eppure è così. Uscite nelle piazze, ed ivi guardate se, dopo tanti castighi, sono minori o la inverecondia nel tratto, o le iniquità nelle vendite. Entrate nelle case, ed ivi informatevi se sono minori o le dissensioni tra i fratelli o le persecuzioni tra le famiglie. Inoltratevi nello camere, ed ivi attendete se sono minori o l’impurità nei ragionamenti, o le dissolutezze nei talami. Visitate le veglie, ed ivi considerate se sono minori o le maldicenze nei racconti o la petulanza nei motti. Passate alle ville, ed ivi chiaritevi se sono minori o lo ingordigie nelle crapule, o le rilassazioni nei giuochi. Trattenetevi un poco ancor nelle chiese, ed ivi osservate se sono minori o lo irriverenze nelle chiacchere, o le profanità nei vagheggiamenti. Ecce tu iratus es, et peccavimus; ditelo, ditelo, che ne avete ragione, ecce tu iratus es, et peccavimus. –  E noi crediamo poi che tali peccati ci abbiano da Dio meritati tanti flagelli? Non può essere, signori miei, non può essere; lo direm con la lingua, ma non lo crederemo col cuore. Flagellasti eos, nec voluerunt credere; negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse (Jer. V. 3 et 12). E crediamolo, signori miei, sì, crediamo, ch’egli è vero pur troppo. Confessiamo che Dio ci è giudice, ci è severo, ci è fulminante: né sia mai vero che lasciamo trascorrere ornai più tempo senza pensare a placarlo.

VII. Lo so che alcuni molto ben vi pensano. Ma chi sono? Son quegli, i quali hanno appunto la minor colpa di tante calamità, i più irreprensibili, i più immacolati, i più pii: quei che v’han colpa, misero me! non vi pensano, non vi pensano. E così sapete voi ciò che accade in questa materia? Quel che succedeva nel vascello del disubbidiente profeta Giona. Tutti i marinari e tutti i passeggieri, i quali erano gli innocenti, in veder sollevata improvvisamente quella rovinosa burrasca che si rammemora nelle divine Scritture, si empierono di spavento: si affaticavano in ammainare le vele, in votar la sentina, in alleggerire la carica; chi dava ordine, chi consiglio, chi aiuto: altri correva al timone, altri si metteva al remo, altri s’appigliava alle sartie; piangevano, gridavano, sospiravano. E frattanto? frattanto chi era il delinquente dormiva riposatamente nel fondo del combattuto naviglio, senza riscuotersi punto ai fischj de’ venti, ai muggiti dell’onde, agli urli dei tuoni, ai fracassi dei fulmini, alle grida dei marinari. Et Jonas dormiebat sopore gravi (Jon. 1. 5). Tanto che bisognò che il pilota stesso andasse a chiamarlo, ad iscuoterlo, ad isvegliarlo, fin coi rimproveri. Et accessit ad eum gubernator, et dixit ei: Quid tu sopore deprimeris? surge, invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de nobis, et non pereamus  (Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse: Che cos’hai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo – Job. I. 5). – Oh quanto spesso io temo, signori miei , che torni a verificarsi questo successo ancora tra noi! Il Cielo minaccia contanti segni: si adira, s’infuria, s’inferocisce, mostra di volerci talvolta anche inabissare. E v’è chi frattanto attenda a placarlo? Vi saranno alcuni; ma sapete voi chi? Vi saranno quegli innocenti che patiscono per altrui. Questi si affaticheranno, i meschini, or con lagrime, or con limosine, or con cilizi, or con digiuni, or con discipline; e non lasceranno mezzo acconcio a sedare tanta burrasca. Ma quei che sono i colpevoli, quegli usurai, quei vendicativi, quei carnalacci? Ahimè che questi, in cambio di risentirsi attendono neghittosi a dormirsene in seno all’ozio, anzi in braccio all’iniquità. – Cristiani miei, v’è nessun Giona addormentato fra voi, per cui si possa dubitare che almeno in parte si vadano suscitando di tempo in tempo quelle strepitose procelle che ci assorbiscono? Deh se vi fosse, fatemelo di grazia sapere, perché io mi vorrei avvicinare ad esso, e riscuoterlo con le parole, di quel zelante giudizioso pilota: quid tu sopore deprimeris? Vorrei dirgli: surge, surge, invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de nobis, et non pereamus. – Ah peccatore, qualunque tu ti sia, ch’io non lo so, quid tu sopore deprimeris? che sonnolenza è codesta tua? che stupore? che stolidezza? Ogni poco ritornano a noi dal Cielo nuovi castighi, e tu dormi? Sopore deprimeris! Ancora non ricorri al tuo Dio? ancora non ti raccomandi? ancora non ti ravvedi? Surge, surge, Sorgi, peccatore mio caro, sorgi una volta, e riscuotiti da letargo sì pernicioso. Surge, ed abbandona quella pratica, giacché Dio per le disonestà c’imputridisce lo carni con terribili pestilenze. Surge, e conchiudi  ormai quella pace, giacché Dio per le nostre rabbie ci stermina le provincie con sì formidabili stragi. Surge, e restituisci ormai quelle usure, giacché Dio per la nostra avarizia diserta i poderi con sì continuate sterilità. Surge, finalmente, surge, et invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de non pereamus. È verisimile che Dio non voglia piegarsi molto a pietà, infine a che non vegga a sé supplichevoli quelli stessi che l’han provocato allo sdegno.

VIII. Benché non vorrei che, mentre predico agli altri, foss’io quello sfortunato Giona che dorme nelle tempeste, e non mi commuovo. Ah mio Signore, se voi scorgete ch’io sia colui che tengo acceso il vostro divin furore, che posso dirvi? Son  qui, gittatemi in acqua: mitte me in mare (Jon. I.12), purché frattanto salviate che vi servono fedelmente. Io tutto mi capriccio in considerare che un san Domenico stesso (quegli a cui tanto è tenuto il genere umano, per aver lui sostenuta su le sue spalle la Chiesa tutta, già quasi pericolante), quando nondimeno arrivava a qualche città, temeva poter lui esserle di rovina. Ond’è che, prima di entrare in essa e fermavasi e ginocchione supplicava il Signore con vivo affetto, che non volesse per le sue colpe scaricare di subito in quel luogo qualche insinuato flagello. E s’è così, che dovrò dunque dir io, peccator miserabilissimo? Non posso dubitar giustamente se io sia quel Giona che or or si andava cercando? Sono, non nego, venuto a questa città  con intendimento di recarle alcun bene con le mie prediche. Ma piaccia a Dio ch’io non le rechi più facilmente alcun male con le mie colpe. Signor, non lo permettete! Prima morire, prima morire. Eccomi qui ai vostri sacratissimi piedi: qui mi consacro per vittima al vostro sdegno. Se i miei difetti non sono più sopportabili sulla terra, feritemi, fulminatemi; ma non sia vero ch’altri ancora ne abbia a portar le pene. Io certamente desidero quant’ognuno di vivere per servirvi; ma no che non voglio vivere, se la mia vita ha da servir solamente a moltiplicare le umane calamità.

Seconda Parte

IX.  Poco sarebbe che la nostra incredulità ci dovesse trarre addosso i castighi della vita presente, i quali al fine tutti son transitori: il peggio è ch’ella ci trarrà addosso anche quelli della futura. Perciocché dimmi, che scusa avremo dannandoci, o popolo cristiano, che scusa avremo? Narra, ti dirò con la formula di Isaia, narra, si quid habes, ut justificeris– (Parla tu, se hai da giustificarti – Is. XLIII, 26) . Potremo forse giustificarci con dire che Dio non ci abbia denunziato a tempo pericolo sì tremendo? Anzi quanti mezzi opportuni Egli ci viene a suggerir del continuo affinché ce ne guardiamo, quanti consigli ci dà, quante ispirazioni ci manda, in quante forme ci stimola a porci in salvo! Se noi però saremo voluti a suo dispetto perire, di chi  fia la colpa? Finora voi siete stati come uditori ad attendere: non è vero? Ora vi vorrei come giudici a sentenziare. Ma contentatevi di voler prima ascoltare un successo illustre. L’imperator Valente, ingratissimo a quell’Iddio che l’aveva da esule tramutato in regnante, stabilito ch’ei fu nel trono, pigliò di modo a perseguitare i Cattolici, ed a favorire gli Ariani, che già tutta la Chiesa, sbranata e lacera come dalle zanne di un lupo, inconsolabilissimamente ne lagrimava. Intenerito però Dio finalmente da tanti gemiti, suscitò contro l’Imperio di Oriente la barbarie del Settentrione, per cui reprimere fu costretto Valente ad uscire in campo con esercito poderoso. Riseppe questo un sant’uomo, chiamato Isacio, romito abitatore dei monti, e per impulso divino abbandonando a gran passi la solitudine, scese a incontrar l’imperator, che marciava con grosso nervo di cavalieri e di fanti; ed appressatosi a lui, gridò ad alta voce: Imperatore, comanda aprirsi le chiese dei Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. L’udì Valente; ma tenendolo per un pazzo, senza rispondergli, seguitò a camminare. Isacio, non però perduto di animo, ritornò il giorno seguente ad incontrare il principe, come prima; e di nuovo alzata la voce, gli replicò: Imperatore, comanda aprirsi le chiese de’ Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. Turbossi a questa iterata denunzia l’empio Valeste; e combattuto da affezioni contrarie, da una parte gli pareva  debolezza badare a simili voci, dall’altra parte il disprezzarle pareagli temerità. Finalmente per buona ragion di Stato volle tener quel giorno istesso consiglio su tanto affare; ma i consiglieri più principali, i quali erano anch’essi Ariani, facilmente lo persuasero anzi a castigare quel Monaco, che ad udirlo, se gli fosse altra volta comparso innanzi. Ed ecco appunto il terzo dì viene Isacio più animoso che mai; e rompendo in mezzo alle truppe, che seguivano il loro viaggio, va addirittura a pigliare in mano le redini del cavallo imperiale, e fermatolo: Torno a dirti, o Imperatore (gridò), che tu lasci aprire le chiese de’ Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. Presso la strada, dov’egli allora parlò, era un’orribile fossa, tutta ingombrata di cardi e di pruni altissimi; onde sdegnato l’Imperatore ordinò che, pigliato il Monaco, vi fosse precipitato; e così persuasosi d’averlo tutto a un tempo e ucciso e sepolto, proseguì il suo cammino, non però senza qualche interiore agitazione di animo, malcontento de’ suoi furori. Ma che? non prima l’esercito fu passato, ch’ecco tre bellissimi giovani, vestiti tutti di bianco, calarono nella fossa, e ne trassero Isacio non solo vivo, ma prosperoso ed intatto. Conobbe egli all’improvviso sparire di quei tre giovani, ch’erano stati tre angelici spiriti in forma umana; onde prostratosi a terra, ne rendè subito a Dio le dovute grazie; indi con quell’ale, che ai piè gli posero il zelo e la carità, raggiunse per un sentiero più compendioso l’Imperatore, e con sembiante di fuoco: Che ti credevi (gli disse) ch’io dovessi morire tra quel veprajo? Eccomi per avvisarti di nuovo, che tu tu ravvegga, che apri le chiese dei Cattolici chiuse, se vuoi riportar la vittoria; altrimenti resterai morto: m’intendi? resterai morto. Chi il crederebbe? Neppur a questa quarta denunzia l’ostinato Valente volle ammollirsi; anzi intimò che, fatto Isasio prigione, fosse consegnato subito in mano a due senatori, Saturnino o Vittore, perché lo custodissero fintanto ch’egli, tornato da quella impresa, ne prendesse il meritato castigo. Si ripigliò Isacio allora con le parole che in somigliante occasione disse al perfido Acabbo il giusto Michea: Tu tornato a gastigar me? or va; e se tu ritornerai, tien per certo non aver Dio favellato per bocca mia. Presenterai tu la battaglia ai nemici; ma, non potendo loro resistere, cederai, fuggirai, e finalmente caduto nelle lor mani morirai arso d’incendio non aspettato. Quanto Isacio predisse, tanto seguì. Andò l’Imperator, combatté, ma presto fu rotto; e volgendo le spalle con tutto il campo sbaragliato e disperso, s’appiattò dentro una casuccia di paglia, per occultarsi alle genti che l’incalzavano; ma queste, fattene accorte, incontinente attaccaron fuoco alla paglia, e vi bruciarono l’Imperator vivo vivo: pel qual successo disciolto Isacio dai ceppi con somma gloria, ebbe dai due senatori due monasteri, che incontanente gli fabbricarono a gara. – Ora che avete, o signori, udito il successo, contentatevi un poco di sentenziare. E se l’Imperatore Valente nel giorno estremo dell’universale Giudizio pretendesse pubblicamente di muovere lite a Dio, e di sostenere ch’egli cadesse in quel fuoco non per sua colpa, ma per colpa divina, che pare a voi? Non vi pare che un solo Isacio sarìa bastante a farlo di repente ammutire? Taci, direbbe Isacio, taci, arrogante; non venni io ben quattro volte a proporti un mezzo, e questo assai facile, con cui potevi salvare la vita e l’anima? E se tu imperversasti contro di Dio, e se tu infellonisti contro di me, come ora ardisci, o ribaldo, di lamentarti? Ditemi pure, o signori miei, francamente quel che vi pare. Chi avrìa ragione? Isacio, o Valente ? Non sarìa la causa divina giustificata abbastanza con tal difesa? Ma s’è così, dove siete, ohimè, peccatori, ohimè, dove siete, ch’è data ancor la sentenza contro di voi! Voi pretenderete di poter per ventura ascrivere a Dio quella dannazione nella quale andate dirittamente ad incorrere per cotesta via che tenete; e non vedete quanti Isaci avrete, che faranno ammutolire bruttamente e confondere? Se non fossero altri che i soli predicatori, non basterebbero a turarvi bocca? Perdonatemi, che fin io stesso, io dico, io verme vilissimo, sarò costretto ad uscir in campo quel giorno a difendere anch’io la causa divina, e a depor contra voi e ad attestare ch’io, qual Isacio, ne venni sui vostri pulpiti, e vi ho denunziato più volte a nome di Dio, che se non volete cadere nel fuoco eterno, lasciaste, o libidinosi, quelle pratiche licenziose, fuggite o giovani, quelle conversazioni profane; terminate, o negozianti, quei mali acquisti; restituiste, o mormoratori, quella fama tolta; e voi concedeste, o vendicativi, una volta quella pace desiderata. Ma se voi non avrete voluto apprezzare avvisi sì salutevoli, come potrete lamentarvi di Dio? come giustificarvi? come fiatare? Non ha Egli appieno soddisfatto al suo debito sol con queste nuove denunzie ch’ io torno a farvi questa istessa mattina, mentre vi replico che malos male perdet? Perdet nella vita presente, e, quel ch’è peggio, anche perdet nella fatura. – Né mi dite che subito adempireste i consigli ch’io qui vi do, se foste certi di dovervi dannare, non gli adempiendo; ma che a me non prestate fede. Perché ancora Valente, se fosse stato certo di morir arso, non restituendo le chiese, le avrebbe restituite; ed intanto lasciò di farlo, in quanto riputò vergognosa cosa dar fede a un povero scalzo, ch’ei non sapeva chi si fosse, d’onde venisse, o come vivesse. Contuttociò non gli suffragherà questa scusa; perché  quando il consiglio è conforme alle leggi divine e a’ libri sacri, e alle dottrine evangeliche, basta questo: poco rilieva se porgalo un uomo dotto, o se un ignorante; se un santo, o se un peccatore, lo son peccatore, o signori, io sono ignorante, e sono il minimo di quanti ora aprono bocca con tanta lode sui vostri pergami; ma l’Evangelio m’assicura di questo, che se migliorerete la vostra vita corrotta, voi schiverete l’inferno; altrimenti no: m’intendete? Altrimenti no! – Che cercate altro dunque? Bisogna bensì che assai tosto si metta la mano all’opera, perché questo forse per alcuno di voi potrebbe essere l’ultimo avviso: novissima tuba: sì, sì, novissima tuba. Già i vostri Isacj sono ritornati per voi, non solamente le due volte e le quattro, ma le dieci e le dodici; sicché può essere che il fuoco sia già vicino alla vostra paglia. Presto, dunque, presto, che forse dopo questa denunzia non ne resta altra; e dacché Dio già tante volte ha tuonato, se scaglierà poscia il fulmine, vostro danno.