UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. S. PIO X -“JUCUNDA SANE”

Un Pontefice Santo canonizzato che tesse gli elogi di un suo “collega”, un altro Santo Pontefice canonizzato, con il quale condivide il 3 settembre, giorno della sua nascita al cielo e della ordinazione Pontificale del Magno Gregorio, il “Consul Dei”. È una lettera intensa, mozzafiato per il lettore impregnato dello Spirito di Dio. Prendendo spunto dalle vicende storiche dell’epoca gregoriana, epoca funesta per la Chiesa Cattolica, per la città di Roma e la terra italica, per gli imperi d’Occidente e d’Oriente, il Papa Pio X, sottolinea la situazione di pari, se non di peggiore gravità dell’inizio novecento, in cui il modernismo e le sette massoniche tentavano il loro ingresso nella Chiesa Cattolica con detrimento grande delle condizioni spirituali di milioni di anime (invasione solo rimandata, ma pienamente riuscita con il “golpe del 26 ottobre 1958 ed il Conciliabolo c. d. Vaticano II). Il richiamo ai chierici ed ai responsabili di governo a nulla servirono all’epoca ed a nulla servono ancor oggi, momento ancor più funesto per la Chiesa di Cristo che, eclissata, vive la sua Passione e la Crocifissione in attesa di essere dichiarata morta dalla setta ecumenico-massonica della controchiesa vaticana con i satelliti: gli pseudo tradizionalisti della loggia di Ecône e degli abominevoli sedevacantisti cani-sciolti. Nelle epoche citate il Signore suscitò questi grandi santi, San Gregorio Magno e San Pio X per l’appunto: il primo raddrizzò la barca di Pietro naufragante materialmente e spiritualmente, il secondo cercò di arginare la marea montante modernista, coacervo di tutte le eresie, e di restaurare “tutte le cose in Cristo”. Ma oggi ci vuole veramente la mano ed il soffio della bocca di Gesù Cristo Nostro Signore (2 Tess. II) per rimettere in sesto  una …”Nave vetusta e terribilmente squarciata; dappertutto infatti entrano i flutti e le tavole marcite; squassate dalla violenta e quotidiana tempesta, fanno presagire il naufragio” … Ma ecco che il Santo Pontefice è pronto a ricordarci … ” che la santa Chiesa è fondata sulla solidità del Primo degli Apostoli, il quale trasse nel nome la fermezza della sua mente al punto da chiamarsi, dalla pietra, Pietro? “. Ed ancora oggi è Pietro che dall’impedimento e dalla condizione di catacomba attuale, risorgerà, in virtù dell’azione di Cristo, a riprendere il timone impazzito e fatto roteare a casaccio dalle mani dei servi dell’anticristo, il baphomet signore dell’universo, già posto come abominio della desolazione sugli altari della chiesa-conchiglia, un mollusco di cui restano solo le valve esterne, come nello stemma di un recente antipapa. Invochiamo quindi il Signore per il bene della sua Chiesa e del popolo da Lui riscattato con il Sacrificio sulla croce e, dopo aver letto attentamente questa preziosissima enciclica, rivolgiamoci a Lui con le parole dello Spirito Santo: « … Miserere nostri, Deus omnium, et respice nos, et ostende nobis lucem miserationum tuarum:  et immitte timorem tuum super gentes quæ non exquisierunt te, ut cognoscant quia non est Deus nisi tu, et enarrent magnalia tua. Alleva manum tuam super gentes alienas, ut videant potentiam tuam. Sicut enim in conspectu eorum sanctificatus es in nobis, sic in conspectu nostro magnificaberis in eis:  ut cognoscant te, sicut et nos cognovimus quoniam non est Deus praeter te, Domine. Innova signa, et immuta mirabilia. Glorifica manum et brachium dextrum. Excita furorem, et effunde iram. Tolle adversarium, et afflige inimicum. Festina tempus, et memento finis, ut enarrent mirabilia tua. In ira flammæ devoretur qui salvatur: et qui pessimant plebem tuam inveniant perditionem. Contere caput principum inimicorum, dicentium: Non est alius præter nos. ».  (Sir. XXXVI, 1-12)

san Pio X

Iucunda sane

Lettera Enciclica

Gioconda certo torna la memoria, venerabili fratelli, di quel grande “incomparabile uomo” (Martyrologium Romanum, 3 sept.), il Pontefice Gregorio, primo di questo nome, la cui solennità centenaria, al volgere del secolo XIII dalla sua morte, stiamo per celebrare. Da quel Dio, che “mortifica e vivifica, … che umilia e solleva” (1 Re II, 6. 7), tra le cure quasi innumerabili del ministero Nostro apostolico, tra le tante angosce dell’animo per i molti e gravi doveri che il governo della chiesa universale C’impone, tra le insistenti sollecitudini di soddisfare nel miglior modo possibile voi, venerabili fratelli, chiamati a partecipare del Nostro apostolato, e i fedeli tutti affidati alle Nostre cure, non senza una particolare provvidenza fu disposto, così pensiamo, che il Nostro sguardo negli inizi del Nostro Sommo Pontificato si rivolga subito su questo santissimo e illustre antecessore Nostro, onore della Chiesa e decoro. L’animo infatti si apre a grande fiducia nella sua validissima intercessione presso Dio, e si riconforta nel ricordare sia le massime sublimi che inculcò con l’alto suo Magistero, sia le virtù santamente da lui praticate. E se per la forza delle une e per la fecondità delle altre egli impresse nella Chiesa di Dio un’orma sì vasta, sì profonda, sì duratura, che giustamente i contemporanei e i posteri gli diedero il nome di “Grande”, e oggi ancora dopo tanti secoli si verifica l’elogio della sua iscrizione sepolcrale: “egli vive eterno in ogni luogo per le innumerabili sue buone opere” (Apud IOANNEM DIACONUM, Vita Gregorii, lib. IV, c. 68),non può fare che ai seguaci tutti dei suoi mirabili esempi, col conforto della grazia divina, non sia dato di adempiere i propri doveri per quanto lo consenta l’umana debolezza. – Occorre appena ricordare quel che dai pubblici documenti è già a tutti noto. Sommo era lo scompaginamento dello stato allorché Gregorio ascese al Sommo Pontificato; l’antica civiltà era pressoché tramontata, e dilagava la barbarie in tutti i domini del cadente impero romano. L’Italia poi, abbandonata dagli imperatori di Bisanzio, era divenuta quasi preda dei Longobardi, che, non ancora assestati, scorazzavano per ogni dove, devastando ogni cosa col ferro e col fuoco, recando dappertutto desolazione e morte. Questa stessa città, minacciata all’esterno dai nemici, all’interno provata dai flagelli della pestilenza, delle inondazioni, della fame, venne ridotta a sì miserevole stato, che non si sapeva come più oltre mantenere in vita, non soltanto i cittadini, ma anche le dense moltitudini che vi si rifugiavano. Si vedeva uomini e donne d’ogni condizione, Vescovi e Sacerdoti recanti vasi sacri salvati dalle rapine, monaci e innocenti spose di Cristo, che con la fuga si sottraevano o alle spade nemiche o agli insulti brutali di uomini perduti. Gregorio stesso chiamò la chiesa di Roma: “Nave vetusta e terribilmente squarciata; dappertutto infatti entrano i flutti e le tavole marcite; squassate dalla violenta e quotidiana tempesta, fanno presagire il naufragio”.Ma il nocchiero suscitato da Dio aveva mano potente; e posto al timone, non solo tra l’imperversare dei marosi seppe toccare il porto, ma anche mettere al sicuro la nave dalle tempeste future. – Ed è cosa veramente ammirabile quant’egli ottenne nei poco più di tredici anni del suo governo. Fu ristoratore dell’intera vita cristiana, ravvivando la pietà dei fedeli, l’osservanza dei monaci, la disciplina del clero, la cura pastorale dei Vescovi. Quale “padre prudentissimo della famiglia di Cristo”,mantenne e accrebbe i patrimoni della Chiesa e largamente sovvenne, secondo la necessità propria di ciascuno, al popolo immiserito, alla società cristiana, alle singole chiese. “Divenuto” veramente “console di Dio”,spinse la sua azione feconda ben oltre le mura di Roma e tutta in bene della società civile. Si oppose energicamente alle ingiuste pretese degli imperatori bizantini; rintuzzò le audacie e represse le vergognose ingordigie degli esarchi e degli officiali imperiali, ergendosi a pubblico difensore della giustizia sociale. Ammansì la ferocia dei Longobardi, non dubitando di andare egli stesso in persona incontro ad Agilulfo alle porte di Roma, al fine di smuoverlo dall’assedio della città, come già aveva fatto con Attila il papa Leone Magno; né mai in seguito si trattenne dalle preghiere, dalle soavi persuasioni, dagli accorti negoziati, finché non vide quietare quel popolo temuto e ordinarsi a più regolare governo, finché non lo seppe guadagnato alla Fede Cattolica; per opera specialmente della pia regina Teodolinda sua figlia in Cristo. Perciò Gregorio può a buon diritto chiamarsi salvatore e liberatore dell’Italia, della “terra sua”,come egli soavemente la chiama. Per le incessanti sue cure pastorali si vanno spegnendo i resti dell’eresia in Italia e in Africa, si riordinano le cose ecclesiastiche nelle Gallie, si rassodano nella conversione già cominciata i Visigoti delle Spagne, e l’inclita nazione inglese, la quale “posta in un angolo del mondo, mentre finora rimaneva ostinata nel culto dei legni e delle pietre”,accoglie anch’essa la vera fede di Cristo. Il cuore di Gregorio sovrabbonda di gioia alla notizia di sì preziosa conquista, come quello di un padre che riceve tra le braccia il figlio suo dilettissimo e ne riferisce ogni merito a Gesù redentore, “per il cui amore”, come scrive egli stesso, “rintracciamo nella Bretagna sconosciuti fratelli, per la cui grazia troviamo quelli che ignari andavamo cercando” (Registrum Epistularum, XI, 36 (28), Ad Augustinum Anglorum episcopum). – E la nazione inglese fu sì grata al santo Pontefice che lo chiamò sempre: “maestro nostro, dottore nostro, apostolico nostro, Papa nostro, Gregorio nostro”, e considerò se stessa come il sigillo del suo apostolato. Per ultimo la sua azione fu così salutarmente efficace che la memoria delle cose da lui operate s’impresse profondamente negli animi dei posteri, particolarmente durante il Medioevo, che respirava, per così dire, dell’aria da lui infusa, si nutriva della sua parola, conformava la vita e i costumi a seconda dei suoi esempi, introducendosi felicemente nel mondo la civiltà sociale cristiana in opposizione a quella romana dei secoli precedenti per sempre tramontata. – “Questa è mutazione della mano dell’Altissimo”! E ben si può dire che nella mente di Gregorio non altro che la mano di Dio fu operatrice di sì grandi imprese. Di fatto, così scriveva egli al santissimo monaco Agostino a proposito della ricordata conversione degli angli e può applicarsi a tutto il resto nella sua azione apostolica: “Di chi è mai quest’opera, se non di Colui, il quale disse: Il Padre mio opera fino al presente e io pure opero? Per mostrare al mondo che voleva convertirlo, non con la sapienza degli uomini, ma con la sua virtù, elesse a predicatori del mondo uomini illetterati; e questo medesimo fece pur ora, essendosi degnato di operare fra la gente degli angli cose forti, per mezzo di uomini deboli”.Noi riconosciamo senza dubbio quel che la profonda umiltà del santo Pontefice nascondeva al suo sguardo: e la perizia negli affari, e l’ingegno accorto nel condurre a termine, le imprese, e la prudenza mirabile in ogni disposizione, e la vigilanza assidua e la sollecitudine perseverante. Ma è certo insieme, che egli non si fece innanzi con la potenza e con la forza dei grandi della terra, laddove invece nell’altissimo grado della dignità pontificia volle chiamarsi per primo: “Servo dei servi di Dio”; non si aprì la strada soltanto con la scienza profana ovvero con le “persuasive parole dell’umana sapienza” (1 Cor II, 4), non con le accortezze della civile politica, neppure con i sistemi di rinnovamento sociale abilmente studiati e preparati e quindi posti in esecuzione; neppure infine, e ciò è meraviglioso, col proporsi un vasto programma di azione apostolica da attuare gradualmente; mentre al contrario, come è noto, il suo pensiero era pieno dell’idea di una prossima fine del mondo e perciò del pochissimo tempo che rimaneva per le grandi azioni. Debolissimo e gracile di corpo, continuamente afflitto da infermità che più volte lo ridussero in fin di vita, egli possedeva una incredibile energia di spirito, la quale riceveva sempre nuovo alimento dalla fede viva nella parola infallibile di Cristo e nelle sue divine promesse. Inoltre con fiducia illimitata contava sulla forza soprannaturale da Dio data alla Chiesa per bene compiere la sua divina missione nel mondo. – Per questo il proposito costante della sua vita, quale è comprovato da tutte le sue parole e da tutte le sue opere, fu questo: di mantenere in sé e suscitare negli altri questa medesima viva fede e confidenza, operando tutto il bene che tornasse per il momento possibile in attesa del giudizio divino. – Ne seguiva in lui la volontà risoluta di adoperare per la comune salvezza l’esuberante ricchezza dei mezzi soprannaturali datida Dio alla sua chiesa, quali sono la dottrina infallibile delle verità rivelate, la predicazione efficace di tale dottrina in tutto il mondo e i Sacramenti che hanno virtù d’infondere o di accrescere la vita dell’anima, e la grazia della preghiera nel nome di Cristo che assicura la protezione celeste. – Questi ricordi, venerabili fratelli, ci tornano di indicibile conforto. Se dall’alto di queste mura vaticane volgiamo attorno lo sguardo, a somiglianza di Gregorio e forse più ancora di lui dobbiamo temere; tante sono le tempeste addensate da ogni lato, tanti gli eserciti nemici che premono, e tanto insieme è l’abbandono in cui siamo di ogni umano sussidio per ribattere le une e sostenere l’impeto degli altri. Ma se riflettiamo dove poggiano i Nostri piedi, dove questa sede pontificia è collocata, Ci sentiamo del tutto sicuri sulla rocca della santa Chiesa. “Chi infatti ignora”, scriveva s. Gregorio al patriarca Eulogio di Alessandria, “che la santa Chiesa è fondata sulla solidità del primo degli Apostoli, il quale trasse nel nome la fermezza della sua mente al punto da chiamarsi, dalla pietra, Pietro?”.La forza soprannaturale della Chiesa nel passare dei secoli non è venuta mai meno, né fallirono le promesse di Cristo; e come già consolavano il cuore di Gregorio, tali si mantengono, anzi per Noi acquistano maggiore forza nella riprova di tanti secoli, nel vario corso di tanti avvenimenti. – Passarono regni e imperi, tramontarono popoli fiorenti per nome e per civiltà, più volte le nazioni come accasciate dal peso degli anni si disfecero in se medesime. Ma la Chiesa, indefettibile nella sua essenza, unita con vincolo indissolubile al suo Sposo celeste, è qui fulgente di eterna giovinezza, forte del medesimo primitivo vigore, quale uscì dal cuore trafitto di Cristo spirato in croce. Uomini potenti del secolo si sollevarono contro di lei. Essi sparirono, ma ella rimase. Sorsero sistemi filosofici innumerevoli, d’ogni forma, d’ogni genere, superbamente vantandosene i maestri, quasi avessero finalmente sbaragliata la dottrina della Chiesa, rifiutati i dogmi della fede, dimostrato l’assurdo dei suoi insegnamenti. Ma quei sistemi l’un dopo l’altro si annoverano nelle storie, dimenticati, falliti; mentre dalla rocca di Pietro rifulge così sfolgorante la luce della verità, come quel giorno che Gesù l’accese al suo apparire nel mondo e le diede l’alimento della sua divina parola: “Passerà il cielo e la terra, ma le mie parole non passeranno” (Mt XXIV, 35). – Noi, nutriti di questa fede, resi solidi su questa pietra, sentendo nel fondo dell’animo tutti i doveri gravissimi che il primato C’impone, ma insieme tutto il vigore che per volontà divina in Noi deriva, attendiamo tranquilli che si sperdano al vento le tante voci che ci gridano intorno che la Chiesa Cattolica ha finito il suo tempo, che le sue dottrine sono per sempre tramontate, che da qui a poco essa si vedrà condannata o ad accettare i pareri della scienza e della civiltà senza Dio o a sparire dall’umano consorzio. Insieme però non possiamo fare a meno di ricordare a tutti, grandi e piccoli, come già fece il papa Gregorio, la necessità assoluta di ricorrere a questa Chiesa per avere la salute eterna, per battere la diritta via della ragione, per nutrirsi della verità, per conseguire la pace e la stessa felicità di questa vita terrena. – Perciò, per usare le parole del santo Pontefice, “volgete i vostri passi a questa pietra inconcussa, sopra la quale il Redentore nostro volle fondata la Chiesa universale, perché il cammino di chi è sincero di cuore non incontri ostacoli e si smarrisca”. Soltanto la carità della Chiesa e l’unione con essa “unisce la divisione, riordina ciò che è confuso, tempera le ineguaglianze, compie le imperfezioni”.Fermamente è da ritenere che nessuno può con rettitudine governare le cose terrene, se non sa trattare le celesti, e che “la pace degli stati dipende dalla pace universale della chiesa”.Nasca quindi l’assoluta necessità di una perfetta armonia tra i due poteri, ecclesiastico e civile, essendo ambedue per volere di Dio chiamati a sostenersi l’un l’altro. Di fatto, “la potestà sugli uomini tutti fu data dal cielo affinché siano aiutati quelli che aspirano al bene, perché la via del cielo si apra più largamente, perché il regno terrestre serva al celeste”. – Da questi princìpi proveniva l’invitta fermezza d’animo di Gregorio, che Noi, con l’aiuto di Dio, Ci studieremo d’imitare, proponendoci di volere ad ogni costo difendere i diritti e le prerogative, onde il Pontificato Romano è custode e vindice innanzi a Dio e innanzi agli uomini. Perciò il medesimo Gregorio scriveva ai patriarchi di Alessandria e di Antiochia: Quando si tratti dei diritti della Chiesa universale, “dobbiamo dimostrare anche con la morte, che per amore di qualche nostro particolare interesse, nulla vogliamo che torni a danno del bene comune”.E all’imperatore Maurizio: “Chi per vana ostentazione di gloria leva la sua cervice contro Dio onnipotente e contro gli statuti dei Padri, non piegherà a sé la mia cervice, neppure col taglio delle spade, come io confido nello stesso Dio onnipotente”. E al diacono Sabiniano: “Sono pronto a morire anziché permettere che ai miei giorni la Chiesa degeneri. E tu ben conosci le mie abitudini, che io sopporto a lungo; ma se io poi mi decido di non sopportare più oltre, vado incontro ai pericoli con animo lieto”. – Tali erano le massime fondamentali che andava annunziando il papa Gregorio, ed era ascoltato. Così nella docilità dei prìncipi e dei popoli alla sua parola il mondo riconquistava la salute vera e si rimetteva nella via della civiltà, tanto più nobile e feconda di beni, quanto meglio era fondata sui dettami inconcussi della ragione e della disciplina morale e traeva ogni forza dalla verità divinamente rivelata e dalle massime dell’evangelo. – Ma allora i popoli, sebbene rozzi, ignoranti, privi ancora di ogni civiltà, erano però avidi di vita. Nessuno poteva loro darla, se non Cristo per mezzo della Chiesa: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv X, 10). Ed ebbero veramente la vita e abbondante, appunto perché dalla Chiesa non potendo venire altra vita se non quella soprannaturale delle anime, questa racchiude in sé e rafforza tutte le altre energie della vita, anche solo di ordine naturale. “Se la radice è santa, santi saranno pure i rami”, diceva Paolo al popolo etnico “e tu pure essendo oleastro sei stato innestato in quelli e sei divenuto partecipe della radice e della fecondità dell’olivo” (Rm XI, 16-17). – Oggi al contrario, sebbene il mondo goda una luce sì piena di civiltà cristiana e sotto questo aspetto non possa neppur lontanamente paragonarsi a quello dei tempi di Gregorio, sembra però stanco di quella vita, che pure è stata ed è ancora fonte precipua e spesso unica di tanti beni, non soltanto passati, ma anche presenti. Né solo, come avvenne in altri tempi al sorgere delle eresie e degli scismi, taglia sé stesso fuori del tronco quasi ramo inutile, ma pone la scure alla radice prima dell’albero che è la Chiesa, e si sforza di inaridirne il succo vitale, perché la rovina di lei sia più sicura ed essa più non rigermini. – In questo errore, che è il massimo del nostro tempo e la fonte da cui derivano tutti gli altri, sta l’origine di tanta perdita dell’eterna salute degli uomini e di tante rovine in fatto di Religione che andiamo lamentando, e delle molte altre che temiamo ancora, se non si pone rimedio al male. Si nega cioè ogni ordine soprannaturale, e perciò l’intervento divino nell’ordine della creazione e nel governo del mondo e la possibilità del miracolo; tolte le quali cose è necessario scuotere i fondamenti della Religione Cristiana. S’impugnano perfino gli argomenti, con i quali si dimostra l’esistenza di Dio, rifiutando con inaudita temerarietà e contro i primi princìpi della ragione la forza invincibile della prova che dagli effetti ascende alla causa, che è Dio, e alla nozione dei suoi attributi infiniti. “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm I, 20). Resta quindi aperto l’adito ad altri errori gravissimi, ugualmente ripugnanti alla retta ragione e nocivi ai buoni costumi. – Di fatto la gratuita negazione del principio soprannaturale, propria “della scienza di falso nome” (1 Tm 6, 20), diviene il postulato di una critica storica ugualmente falsa. Tutto ciò che si riferisce in qualsiasi modo all’ordine soprannaturale, perché o gli appartiene, o lo costituisce, o lo presuppone, o perché solo in esso trova la sua spiegazione, è cancellato senz’altro esame dalle pagine della storia. Tale è la divinità di Gesù Cristo, la sua incarnazione per opera dello Spirito santo, la sua Risurrezione per virtù propria e in genere tutti i dogmi della nostra fede. Posta così la scienza sopra una falsa via, non c’è più legge critica che la trattenga, ed essa cancella a capriccio dai Libri Santi tutto ciò che non le garba o crede contrario alla tesi prestabilita che vuoi dimostrare. Tolto infatti l’ordine soprannaturale, la storia delle origini della Chiesa deve fabbricarsi su tutt’altro fondamento; e perciò i novatori rimaneggiano a proprio talento i momenti della Storia, traendoli a dire quel che essi vogliono, non quel che intesero gli autori. – Molti restano tanto presi dall’apparato straordinario di erudizione che si ostenta e dalla forza apparentemente convincente delle prove addotte, che o perdono la fede o se ne sentono gravemente scossi. Ci sono pure di quelli che, fermi nella loro fede, accusano la scienza critica come demolitrice, mentr’essa è per sé innocente ed elemento sicuro di ricerca, quando sia rettamente applicata. Né gli uni né gli altri si avvedono del falso presupposto, da cui pigliano le mosse, vogliamo dire la scienza di falso nome, la quale logicamente li spinge a conclusioni ugualmente false. Posto cioè un falso principio filosofico, torna viziata ogni cosa. Perciò la confutazione di questi errori non sarà mai efficace, se non si cambia la posizione; cioè se gli erranti non si traggono dal campo critico, dove si credono trincerati, in quello legittimo della filosofia, abbandonato il quale, attinsero l’errore. – Intanto però è doloroso dover applicare ad uomini, ai quali non mancano l’acutezza della mente e la costanza dell’applicazione, il rimprovero che Paolo faceva a coloro, che dalle cose terrene non ascendono a quelle che sfuggono allo sguardo: “Svanirono nei loro pensamenti e si ottenebrò lo stolto loro cuore: infatti, dicendo di essere saggi, diventarono stolti” (Rm I, 21-22). E davvero non altro che stolto deve dirsi colui che consuma tutte le sue forze intellettuali a fabbricare sulla rena. – Né meno lagrimevoli sono i guasti, che da quella negazione provengono alla vita morale degli individui e della società civile. Tolto il principio che nulla di divino esiste oltre questo mondo visibile, assolutamente non c’è più ritegno alcuno alle sbrigliate passioni, anche più basse e indegne, donde asserviti gli animi si abbandonano a disordini d’ogni specie. “Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi” (Rm I, 24). Voi ben vedete, venerabili fratelli, come veramente trionfi dappertutto la peste dei depravati costumi, e come l’autorità civile, laddove non ricorra agli aiuti dell’anzidetto ordine soprannaturale, non sia affatto capace di frenarla. Anzi l’autorità non sarà capace di sanare gli altri mali, se si dimentica o si nega che ogni potere viene da Dio. Il freno unico d’ogni governo è allora la forza; la quale però, né costantemente si adopera, né sempre può aversi alla mano; perciò il popolo si va logorando come per un occulto malessere, d’ogni cosa è scontento, proclama il diritto di agire a suo arbitrio, attizza le ribellioni, suscita le rivoluzioni degli stati, talvolta turbolentissime, mette sottosopra ogni diritto umano e divino. Tolto di mezzo Dio, ogni rispetto alle leggi civili, ogni riguardo alle istituzioni anche più necessarie viene meno; si disprezza la giustizia, si calpesta la stessa libertà proveniente dal naturale diritto; si giunge perfino a distruggere la compagine stessa della famiglia, che è il fondamento primo e inconcusso della compagine sociale. Ne segue che, ai tempi nostri ostili a Cristo, si rende più difficile l’applicare i rimedi potenti, dal Redentore messi in mano alla chiesa, al fine di mantenere i popoli nel loro dovere. – E nondimeno non c’è salvezza se non in Cristo: “Infatti non sotto il cielo altro nome dato agli uomini grazie al quale possiamo essere salvati” (At IV, 12). A Lui dunque occorre tornare. Ai suoi piedi conviene di nuovo prostrarsi per ascoltare dalla sua bocca divina le parole di vita eterna; poiché Egli solo può additarci la via della rigenerazione, egli solo insegnarci la verità, egli solo restituirci la vita. Egli appunto ha detto: “Io sono la via e la verità e la vita” (Gv XIV, 6). Si è tentato nuovamente di operare quaggiù senza di Lui; si è cominciato a costruire l’edificio, scartando la pietra angolare, come l’Apostolo Pietro rimproverava ai crocifissori di Gesù. Ed ecco di nuovo la mole innalzata si sfascia e ricade sugli edificatori e li stritola. Ma Gesù rimane pur sempre la pietra angolare della società umana, e di nuovo si verifica che fuori di Lui non c’è salvezza: “Questa è la pietra rigettata da voi che fabbricate, la quale è divenuta testata d’angolo, né in alcun altro c’è salvezza” (At IV, 11-12). – Di qui riconoscerete facilmente, venerabili fratelli, l’assoluta necessità che ci stringe tutti di risuscitare con la massima energia dell’animo e con tutti i mezzi di cui possiamo disporre, codesta vita soprannaturale in ogni ordine della società: nel povero operaio che suda da mane a sera per guadagnarsi un tozzodi pane e nei grandi della terra che reggono i destini delle nazioni. È da ricorrere anzitutto alla preghiera privata e pubblica, per implorare le misericordie del Signore e l’aiuto suo potente. “Signore, salvaci; siamo perduti” (Mt VIII, 25), dobbiamo ripetergli come già gli Apostoli sbattuti dalla tempesta. – Ma ciò non basta. Gregorio se la prende col Vescovo, che per amore della stessa solitudine spirituale e della preghiera, non scende in campo a combattere strenuamente per la causa del signore: “Egli porta privo di senso il nome di Vescovo”.E con ogni diritto; infatti conviene illuminare gli intelletti con la predicazione continua della verità, ribattendo efficacemente gli errori coi princìpi della vera e solida filosofia e teologia e coi mezzi tutti che provengono dal genuino progresso dell’investigazione storica. Più ancora è necessario inculcare convenientemente nella mente di tutti le massime morali insegnate da Gesù Cristo; perché ognuno impari a vincere se stesso, a frenare le passioni dell’animo, a fiaccare l’orgoglio, a vivere soggetto all’autorità, ad amare la giustizia, ad esercitare la carità verso tutti, ad attenuare con amore cristiano le dure disuguaglianze sociali, a staccare il cuore dai beni della terra, a vivere contento dello stato in cui la Provvidenza ha posto ciascuno, cercando in esso di migliorare con l’adempimento dei propri doveri, ad anelare alla vita futura nella speranza del premio eterno. Ma soprattutto è necessario che questi princìpi s’insinuino e penetrino fin dentro al cuore, affinché la vera e soda pietà vi metta profonde radici, e ognuno, come uomo e come Cristiano, riconosca, non a parole soltanto, ma coi fatti, i propri doveri e ricorra con fiducia filiale alla Chiesa e ai suoi ministri, per ottenere da loro il perdono delle colpe, ricevere la grazia fortificante dei Sacramenti e riordinare la propria vita secondo le leggi cristiane. – A questi fondamentali doveri del ministero spirituale è necessario congiungere la carità di Cristo, mossi dalla quale non vi sia afflitto che per noi non si consoli, non lacrime che dalle nostre mani non siano asciugate, non bisogno che da noi non sia sollevato. All’esercizio di tale carità consacriamoci totalmente; cedano ad essa tutte le nostre cose, ad essa si pospongano gli interessi nostri personali e le proprie comodità, “facendoci tutto a tutti” (1 Cor IX, 22) per guadagnare tutti al Signore, dando la stessa nostra vita, sull’esempio di Cristo, che ne impone il dovere ai pastori della chiesa: “Il buon pastore dà la vita per le sue pecore” (Gv X, 11). Questi preziosi ammonimenti abbondano nelle pagine che Gregorio ha lasciato scritte, e sono espressi con forza di gran lunga maggiore nei molteplici esempi della sua vita ammirabile. – Ora siccome tutte queste cose sgorgano necessariamente e dalla natura dei princìpi della rivelazione cristiana e dalle proprietà intrinseche che deve avere il nostro apostolato, voi ben vedete, venerabili fratelli, quanto siano in errore coloro che stimano di rendere servizio alla Chiesa e di fruttificare alla salute delle anime, allorché per una tale prudenza della carne sono larghi di concessioni alla scienza di falso nome, nella funesta illusione di poter così guadagnare più facilmente gli erranti, ma in verità nel continuo pericolo di andar perduti essi stessi. La verità è una sola e non può essere dimezzata; essa perdura eterna e non va soggetta alle vicende dei tempi: “Gesù Cristo ieri e oggi, egli (è) anche nei secoli” (Eb XIII, 8). – E così pure sbagliano gravemente coloro, che nell’occuparsi del pubblico bene, soprattutto sostenendo la causa delle classi inferiori, promuovono sopra ogni cosa il benessere materiale del corpo e della vita, tacendo affatto del loro bene spirituale e dei doveri gravissimi che ingiunge la professione cristiana. Non si vergognano di coprire talvolta quasi con un velo certe massime fondamentali dell’Evangelo, per timore che altrimenti la gente rifugga dall’ascoltarli e seguirli. Non sarà certo alieno dalla prudenza il procedere a poco a poco nella stessa proposizione della verità, quando si ha a che fare con uomini del tutto alieni da noi e del tutto lontani da Dio. “Prima di adoperare il ferro, occorre palpare con mano leggera le ferite”, diceva Gregorio. Ma anche questo espediente si ridurrebbe a prudenza della carne, se si proponesse come norma di azione costante e comune; tanto più che in tal modo sembra non tenersi nel debito conto la grazia divina, che sostiene il ministero sacerdotale e che è data, non solo a quelli che lo esercitano, ma anche ai fedeli tutti di Cristo, perché le nostre parole e la nostra azione facciano breccia nei loro cuori. Gregorio non conobbe affatto questa prudenza, sia nella predicazione dell’Evangelo, sia nelle tante e sì mirabili opere da lui intraprese a sollievo delle miserie altrui. Egli continuò costantemente quel medesimo che avevano fatto gli Apostoli, i quali, allorché si lanciarono la prima volta nel mondo a portarvi il nome di Cristo, ripetevano il detto: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i gentili” (1 Cor I, 23). Se v’era tempo in cui la prudenza umana pareva unico espediente ad ottener qualche cosa in un mondo del tutto impreparato a ricevere dottrine, sì nuove, sì ripugnanti alle umane passioni, sì opposte alla civiltà, allora ancor floridissima, dei greci e dei romani, certo era quello della prima predicazione della fede. Ma gli Apostoli disdegnarono quella prudenza; perché ben conoscevano il precetto di Dio: “Piacque a Dio di salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione” (1 Cor I, 21). E come fu sempre, così oggi ancora questa stoltezza per quelli che sono salvati, cioè per noi, è la virtù di Dio” (1 Cor I, 18). Lo scandalo del Crocifisso, come per l’innanzi, così sempre in seguito ci fornirà l’arma più potente di tutte; come altra volta, così di poi, in quel segno otterremo vittoria. – Tuttavia, venerabili fratelli, quest’arma perderà della sua efficacia o sarà del tutto inutile, se si trovasse in mano di uomini, che non siano assuefatti alla vita interiore con Cristo, non educati nella scuola della vera e soda pietà, non appieno infiammati di zelo per la gloria di Dio e per la propagazione del suo regno. Gregorio sentiva siffattamente questa necessità, che adottava la più grande sollecitudine nel creare vescovi e sacerdoti, animati da gran desiderio dell’onore divino e del vero bene delle anime. E tale intento si propose nel libro della Regola pastorale,dove sono raccolte le norme per la salutare formazione del clero e per il governo dei vescovi, molto utili non solo ai tempi suoi ma anche ai nostri. Egli, come annota il suo biografo, “a guisa di Argo luminosissimo girava intorno gli occhi della sua pastorale sollecitudine per tutta l’ampiezza del mondo”, per scoprire e correggere le mancanze e le negligenze del clero. Ché anzi tremava al solo pensiero, che la barbarie o l’immoralità potessero far presa nella vita del clero; e andava profondamente scosso e non si dava più pace, allorché avvertiva qualche infrazione alle leggi disciplinari della Chiesa, e subito ammoniva, correggeva, minacciando pene canoniche ai trasgressori, talvolta applicandole immediatamente egli stesso, tal altra senza dilazione alcuna e senza alcun umano riguardo rimuovendo gli indegni dal loro officio. – Inoltre inculcava molte massime, che in simile forma di frequente leggiamo nei suoi scritti: “Con quale animo prende l’officio di mediatore del popolo presso Dio, chi non è conscio di essere familiare della sua grazia per il merito della vita?”. – “Se nel suo operare vivono le passioni, con quale presunzione s’affretta a medicare il ferito chi porta la piaga in volto?”. Qual frutto si potrà sperare nei fedeli Cristiani, se i messaggeri della verità “combattono coi costumi, quel che predicano con le parole?”.- “Davvero non può togliere i delitti altrui, chi ne va guastato” (Regula pastoralis, I, 11). – Così egli intende e descrive l’immagine del vero sacerdote: “È colui che, morendo a tutte le passioni della carne, già vive spiritualmente; colui che ha posposto le prosperità del mondo; colui che non teme affatto le avversità; colui che brama soltanto le cose interiori; colui che non si lascia prendere dal desiderio delle cose altrui, ma è generoso nel dare del proprio; colui che, tutto viscere di pietà, è incline al perdono, ma nel perdono non devia mai più di quel che convenga dall’apice della rettitudine; colui che non commette mai cose illecite, ma le cose illecite altrui deplora come sue proprie; colui che con ogni affetto del cuore compatisce l’altrui debolezza, e della prosperità del prossimo si allieta, come del suo proprio profitto; colui che in ogni cosa sua così si rende modello agli altri, da non avere onde arrossire, nemmeno circa le azioni passate; colui che si studia di vivere in modo che possa anche irrigare gli aridi cuori del prossimo con le acque della dottrina; colui che per l’uso dell’orazione e per la propria esperienza conosce già di poter ottenere dal Signore quel che domanda” (Regula pastoralis, I, 10). – Quanto dunque, venerabili fratelli, ha da pensare il Vescovo seriamente con se stesso e innanzi a Dio, prima di imporre le mani ai novelli leviti! “Né per grazia di alcuno, né per suppliche che si facciano, ardisca mai di promuovere alcuno ai sacri ordini, se il tenore della vita e delle azioni sue non lo dimostri degno”.Quanto maturamente deve riflettere prima di affidare le opere dell’apostolato ai Sacerdoti novelli! Se non siano debitamente provati sotto vigile custodia di Sacerdoti più prudenti, se non consti nel modo più aperto della loro onestà di vita, del loro affetto per gli esercizi spirituali, della pronta loro volontà di seguire obbedienti le norme tutte di azione, o suggerite dalla consuetudine ecclesiastica, o comprovate dalla diuturna esperienza, o imposte da coloro che “lo Spirito santo pose Vescovi a reggere la Chiesa di Dio” (At XX, 28) eserciteranno il Ministero sacerdotale, non già in salute, ma in rovina del popolo cristiano. Infatti susciteranno discordie, provocheranno più o meno tacite ribellioni, offrendo al mondo il triste spettacolo di una quasi divisione d’animi tra noi, mentre in verità questi fatti deplorabili non sono altro che orgoglio e indisciplinatezza di alcuni pochi. Oh, siano del tutto rimossi da ogni officio gli eccitatori della discordia. Di tali Apostoli la Chiesa non ha bisogno; non sono apostoli di Gesù Cristo crocifisso, ma di se stessi. – Ci par di vedere tuttora presente al Nostro sguardo l’immagine di Gregorio nel Concistoro del Laterano, circondato da gran numero di Vescovi d’ogni parte e da tutto il clero di Roma. Oh come sgorga dal suo labbro feconda l’esortazione sui doveri del clero! Come si consuma di zelo il suo cuore! Le sue parole sono fulmini che schiantano il perverso, sono flagelli che scuotono l’indolente, sono fiamme di amore divino che soavemente investono il più fervente. Leggete, venerabili fratelli, e fate leggere e meditare al vostro clero, specialmente nell’annuale ritiro degli esercizi spirituali, quella stupenda omelia di Gregorio. – Con indicibile amarezza egli esclama tra l’altro: “Ecco, il mondo è pieno di Sacerdoti, ma è assai difficile trovare chi si impegna nella messe di Dio, perché abbiamo sì ricevuto l’ordinazione sacerdotale ma non ne adempiamo gli obblighi”.E invero, quale forza non avrebbe oggi la Chiesa, se in ogni Sacerdote potesse contare l’operaio? Quale larghissimo frutto non produrrebbe nelle anime la vita soprannaturale della Chiesa, se fosse da tutti efficacemente promossa? Gregorio ha saputo strenuamente suscitare ai tempi suoi questo spirito di energica azione, e per la spinta da lui data, ottenne che il medesimo spirito si mantenesse nelle età seguenti. L’intero Medioevo reca l’impronta, per dir così, gregoriana; da quel Pontefice infatti riconosceva pressoché ogni cosa: e le regole del governo ecclesiastico, e quelle molteplici della carità e della beneficenza nelle istituzioni ufficiali, e i princìpi dell’ascetica cristiana più perfetta e della vita monastica, e l’ordinamento della liturgia e l’arte del canto sacro. – I tempi sono di gran lunga cambiati. Ma, come più volte abbiamo ripetuto, nulla è cambiato nella vita della Chiesa. Essa ha ereditato dal suo divin Fondatore la virtù di offrire a tutti i tempi, sebbene diversi fra loro, quanto è richiesto, non solo al bene spirituale delle anime, ciò che è proprio della sua missione, ma anche quanto giova al progresso della vera civiltà, ciò che da quella missione discende come naturale conseguenza. – Non è infatti possibile che le verità dell’ordine soprannaturale, onde la Chiesa è depositaria, non promuovano altresì tutto ciò che è vero, buono e bello nell’ordine naturale, e questo con tanta maggiore efficacia, quanto più tali verità si riferiscono al princìpio supremo di ogni verità, bontà e bellezza, che è Dio. – La scienza umana guadagna di gran lunga dalla rivelazione, sia perché questa apre nuovi orizzonti e fa conoscere speditamente altre verità di semplice ordine naturale, sia perché apre la retta via all’investigazione o la tiene lontana dagli errori di applicazione e di metodo. Così un faro luminoso ai naviganti che solcano l’oceano nelle tenebre della notte addita molte cose che altrimenti non si vedrebbero, e insieme addita gli scogli, contro i quali sbattendo, la nave potrebbe naufragare. – E nelle discipline morali, poiché il divin Redentore ci propone quale modello supremo di perfezione il suo Padre celeste (Mt V, 48),cioè la bontà stessa divina, che non vede quanto impulso ne venga all’osservanza sempre più perfetta della legge naturale iscritta nei cuori, e quindi al sempre maggiore benessere dell’individuo, della famiglia, della società tutta? La ferociadei barbari fu così ridotta a gentili costumi, la donna fu liberata dall’abiezione, fu repressa la schiavitù, restituito l’ordine nella conveniente dipendenza reciproca delle varie classi sociali, riconosciuta la giustizia, proclamata la libertà vera delle anime, assicurata la pace domestica e sociale. – Le arti infine, richiamato l’esemplare supremo d’ogni bellezza che è Dio, dal quale deriva tutta la bellezza della natura, più sicuramente si ritraggono dai volgari concetti e più efficacemente s’innalzano ad esprimere l’idea, che d’ogni arte è vita. Il solo principio di adoperarle a servizio del culto, e quindi di offrire al Signore quanto nella ricchezza, nella bontà ed eleganza delle forme si stima più degno di lui, oh come è stato fecondo di bene! Esso ha creato l’arte sacra, che divenne ed è tuttora il fondamento di ogni arte profana. Abbiamo recentemente di ciò trattato in un particolare Nostro motu proprio, parlando del ristabilimento del canto romano secondo l’avita tradizione e della musica sacra. Ma quelle norme medesime si applicano anche, secondo la varia materia, alle arti, così che conviene alla pittura, alla scultura, all’architettura quel che si dice del canto, giacché di tutte queste nobilissime creazioni del genio la Chiesa è stata in ogni tempo ispiratrice e mecenate. L’umanità intera, nutrita di questo sublime ideale, innalza templi grandiosi, e quivi nella casa di Dio, come in casa sua propria, solleva la mente alle cose celesti, in mezzo alle splendide ricchezze di ogni arte bella, tra la maestà delle cerimonie liturgiche, tra le dolcezze del canto. – Tutti questi benefici, ripetiamo, l’azione di papa Gregorio seppe ottenere ai tempi suoi e nei secoli a lui seguenti; e tanto per l’intrinseca efficacia dei princìpi ai quali dobbiamo ricorrere e dei mezzi che abbiamo alla mano, sarà possibile ottenere ancor oggi, mantenendo con ogni studio il buono che per grazia di Dio ancora si conserva “ristorando in Cristo” (Ef I, 10) quanto per disgrazia dalla retta norma fosse deviato. – Ci piace metter fine a questa Nostra lettera con le parole medesime, onde Gregorio concludeva la sua memoranda esortazione nel concistoro del Laterano. “Riflettete con sollecitudine a tutto questo nel vostro intimo, o fratelli, e attuatelo al cospetto del vostro prossimo, rendendovi, così, pronti a presentare a Dio onnipotente i frutti del ministero che vi è stato affidato. A queste mete, di cui si è detto, si arriverà più con la preghiera che con la parola. Preghiamo: O Dio, che hai voluto chiamarci pastori fra il popolo, concedi a noi, ti supplichiamo, dipoter essere ai tuoi occhi come siamo chiamati dalla voce degli Uomini”. – E mentre per l’intercessione del santo pontefice Gregorio confidiamo di ottenere da Dio il benigno esaudimento della nostra preghiera, auspice dei celesti favori e testimone della Nostra benevolenza paterna, a voi tutti, venerabili fratelli, al clero e al popolo vostro, impartiamo con tutto l’affetto del cuore l’apostolica benedizione.

Roma, presso S. Pietro, 12 marzo 1904, festa di S. Gregorio I, papa e dottore della Chiesa, nell’anno primo del Nostro pontificato.

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

Initium +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

R. Gloria tibi, Domine!
Joann. 1, 1-14.
Junctis manibus prosequitur:
In princípio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in princípio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt: et sine ipso factum est nihil, quod factum est: in ipso vita erat, et vita erat lux hóminum: et lux in ténebris lucet, et ténebræ eam non comprehendérunt.
Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Joánnes. Hic venit in testimónium, ut testimónium perhibéret de lúmine, ut omnes créderent per illum. Non erat ille lux, sed ut testimónium perhibéret de lúmine.
Erat lux vera, quæ illúminat omnem hóminem veniéntem in hunc mundum. In mundo erat, et mundus per ipsum factus est, et mundus eum non cognóvit. In própria venit, et sui eum non recepérunt. Quotquot autem recepérunt eum, dedit eis potestátem fílios Dei fíeri, his, qui credunt in nómine ejus: qui non ex sanguínibus, neque ex voluntáte carnis, neque ex voluntáte viri, sed ex Deo nati sunt. [Genuflectit dicens:] Et Verbum caro factum est, [Et surgens prosequitur:] et habitávit in nobis: et vídimus glóriam ejus, glóriam quasi Unigéniti a Patre, plenum grátiæ et veritatis.

PREGHIERE LEONINE

Oratio Leonis XIII

S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostræ. Amen.
S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostræ. Amen.
S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostræ. Amen.

O. Salve Regina,

Mater misericordiæ, vita, dulcedo, et spes nostra, salve. Ad te clamamus, exsules filii Evae. Ad te suspiramus gementes et flentes in hac lacrymarum valle. Eia ergo, Advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte. Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, nobis, post hoc exilium, ostende. O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.
S. Ora pro nobis, sancta Dei Genitrix.
O. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

S. Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus, populum ad te clamantem propitius respice; et intercedente gloriosa, et immaculata Virgine Dei Genitrice Maria, cum beato Joseph, ejus Sponso, ac beatis Apostolis tuis Petro et Paulo, et omnibus Sanctis, quas pro conversione peccatorum, pro libertate et exaltatione sanctae Matris Ecclesiae, preces effundimus, misericors et benignus exaudi. Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

O. Sancte Michaël Archangele,

defende nos in prœlio; contra nequitiam et insidias diaboli esto præsidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiæ Cælestis, satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute in infernum detrude. Amen.

S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.
S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.
S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.

COMUNIONE SPIRITUALE

COMUNIONE SPIRITUALE

ACTUS COMMUNIONIS SPIRITUALIS

164

Gesù mio, credo che Voi state nel santissimo Sacramento. Vi amo sopra ogni cosa e vi desidero nell’anima mia. Giacché ora non posso ricevervi sacramentalmente, venite almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io vi abbraccio e tutto mi unisco a voi; non permettete che io mi abbia a separare da voi (S. Alfonso M. de’ Liguori).

Fidelibus, qui spiritualis Communionis actum, quavis adhibita formula, elicuerint, conceditur:

Indulgenza trium annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem actus perfectus fuerit.

(S. Pæn. Ap., 7 mart. 1927 et 25 febr. 1933).

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2019)D

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum [Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]

Ps LXXVII: 1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.
[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum [Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 23-28
“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

I CARATTERI DELL’UOMO NUOVO

“Fratelli: Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. Perciò, deposta la menzogna, ciascuno parli al suo prossimo con verità: poiché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira siate senza peccato: il sole non tramonti sul vostro sdegno. Non lasciate adito al diavolo. Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno.” (Ef. IV, 23-28).

L’epistola è tolta dalla lettera di San Paolo agli Efesini. Nei versetti precedenti l’Apostolo aveva scongiurato gli Efesini a non imitare la vita dei pagani, tra i quali essi vivevano; ma a conformare la loro condotta alla santità inculcata da Gesù Cristo. Perciò, come segue a dire nell’epistola riportata, bisogna deporre il vecchio uomo con tutte le sue inclinazioni, come si depone un vecchio vestito; e bisogna, invece, come si indossa un nuovo vestito, rivestirsi dell’uomo nuovo, rigenerato dalla grazia nella verità e nella giustizia, non più deturpato dagli errori e dalle brutture di prima. Accenna ad alcuni peccati che devono deporsi e ad alcune virtù di cui bisogna rivestirsi: devono rinunciare alla menzogna per praticare la verità; rinunciare alla collera per praticare la dolcezza; rinunciare al furto per praticare il lavoro e l’elemosina. Da quanto è detto nell’epistola possiamo dedurre chi i caratteri dell’uomo nuovo sono:

1. Il bando alle cattive abitudini,

2. La pratica del bene,

3. La riparazione.

1.

Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo.

Nessuno vorrà farsi la domanda che S. Agostino pone in bocca a coloro che vogliono esimersi dal praticare ciò che dall’Apostolo viene inculcato. « Come mi spoglierò dell’uomo vecchio, e mi rivestirò dell’uomo nuovo? Forse io, come terzo uomo, deporrò l’uomo vecchio che possedevo, e prenderò l’uomo nuovo che non possedevo, e così si debbano intendere tre uomini?…» (En. in Ps. XXV, 1). Io dico: Rivestitevi dell’uomo nuovo, è lo stesso che dire « Rivestitevi di Gesù Cristo » (Rom. XIII, 14), chiamato anche: « Il secondo uomo», in opposizione ad Adamo «primo uomo» (1 Cor. XV, 47). Ma per rivestirci di Gesù Cristo, cioè, delle sue virtù, del suo spirito, della sua grazia, è necessario spogliarci dell’uomo vecchio, dell’uomo terreno. – Dopo la caduta di Adamo l’uomo andò attaccandosi sempre più alla terra. Alla terra sono rivolti i suoi pensieri, il suo cuore, le sue inclinazioni. I suoi discorsi, le sue opere non si staccano mai, o si staccano ben poco, dalla terra. Nella sua mente c’è l’errore, nel suo cuore ci sono le passioni, nelle sue opere c’è il disordine. In una parola, egli è l’uomo del peccato, è l’uomo che serve al peccato. – Perché possa piacere a Dio, rivestendosi di virtù, è necessario togliere il peccato. Le piante delle virtù non nascono dai semi dei vizio. Per innalzare un edificio nuovo, si toglie dal terreno ogni ingombro, in modo che il costruttore abbia la più ampia libertà di movimenti nell’seguire i suoi lavori. Per innalzare l’edificio d’una vita virtuosa, bisogna innanzi tutto sgombrare l’anima nostra dal peccato e dalle sue radici. Le abitudini d’una volta devono cessare: il modo di vivere d’una volta va cambiato, i gusti devono essere nuovi; gli idoli delle nostre passioni vanno abbattuti, e abbattuti generosamente. – Il voler rimanere attaccati anche solamente a una sola delle vecchie abitudini cattive è come rimanere attaccati a tutte. Il cuore andrebbe diviso tra la virtù e il vizio; tra Dio e l’idolo della propria passione, e questo è assolutamente inammissibile. « Chi non è con me, contro di me » (Matt. XII, 30), dichiara il Signore. Se tu avessi il cuore attaccato a un solo peccato grave, saresti sempre rivestito dell’uomo vecchio, privo della grazia, nemico di Dio.

2.

Per rivestirsi dell’uomo nuovo non basta deporre l’uomo vecchio col dare il bando alle cattive abitudini! L’astenersi dalle opere cattive non merita gran lode se non si praticano opere buone. « Infatti — nota il Crisostomo — non si è soliti lodare, anzi neppur menzionare alcuno per questo che non commette delitti… Poiché noi usiamo mai attribuire a lode la semplice astensione dalle cattive azioni; in vero ciò sarebbe ridicolo » (In Epist. ad Philipp. Hom. VI, 1). L’odiare il male è cosa assolutamente necessaria per praticare bene, poiché, « se non odiamo il male non possiamo amare il bene » (S. Gerolamo Epist. 125, 14 ad Eust.); ma questo non è tutto. – Il campo non si dissoda e non si libera dalle male piante pel semplice gusto di lavorare; ma per farvi una nuova piantagione, che ripaghi coi suoi frutti abbondanti il valore del terreno e la fatica. “Dimmi un po’, che giova — osserva ancora il Crisostomo — che si siano tolte tutte le spine se non vi si è sparso il buon seme? Se il tuo lavoro sarà rimasto imperfetto si finirà nello stesso danno di prima”. Perciò, anche il nostro S. Paolo, prendendosi cura di noi, non limita i suoi precetti alla amputazione ed alla estirpazione dei mali, ma esorta a far tosto la piantagione del bene (in Epist. ad Eph. Hom. 16, 2). E fa l’enumerazione delle buone opere che dobbiam coltivare, cominciando dalla semplicità, dalla schiettezza. Perciò, deposta la menzogna, ciascun parli al suo prossimo con verità, e continua, insegnandoci come dobbiamo usare della nostra lingua, guidare i moti del nostro cuore, diportarci nelle azioni esteriori. Sono insegnamenti che possono comprendersi tutti in uno: fuggite ogni vizio, e praticate ogni virtù. – La vita nuova, insomma, si riassume in questa norma, fare tutto l’opposto di quel che si faceva prima. San Agostino così commenta l’esortazione dell’Apostolo: Rivestitevi dell’uomo nuovo. « Ha voluto dir questo: Cambiate costumi. Prima amavate il secolo, adesso amate Dio » (Serm. 9, 8). Di questo mutamento di costumi ci dà un mirabile esempio Zaccheo. Zaccheo, capo dei doganieri incaricati di riscuotere le imposte a Gerico, ha la fortuna di ricevere in casa Gesù. Quella visita cangia totalmente il cuore del capo gabelliere. Prima era attaccato alle ricchezze che accumulava con angherie: ora se ne spoglia per prodigarne la metà ai poveri. Prima non badava tanto pel sottile, in fatto di giustizia: ora decide di restituire il quadruplo a chi avesse potuto recare qualche danno. Chi vuol condurre una vita nuova deve precisamente imitare Zaccheo. Se prima era bestemmiatore, ora lodi Dio; se era avaro, ora sia generoso; se era superbo, ora sia umile; se vendicativo, ora sia largo nel perdonare; se impudico, ora coltivi la castità. Pensieri, desideri, inclinazioni, discorsi, opere siano ispirate agli esempi dell’uomo nuovo, Gesù Cristo.

3.

L’Apostolo, parlando della condotta che deve tenere, chi, prima della conversione, rubava, così si esprime: Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno. Èchiaro da queste parole che S. Paolo non solo richiede che l’uomo nuovo, invece di rubare lavori e renda quel che ha preso ingiustamente; ma accenna al dovere di mettersi in grado di espiare, con l’elemosina, il male che ha fatto, togliendo ai legittimi possessori ciò che a loro apparteneva. Il pensiero di riparare il mal fatto, di dare buono esempio là dove si era dato scandalo, di dare gloria a Dio in cambio delle offese a Lui recate, fu sempre il segreto dal grande progresso nella via della santità da parte dei convertiti. Una vera riforma di noi stessi comincia col riconoscere la nostra miseria, e confessare con tutta schiettezza al cospetto di Dio: « Eccoci dinanzi a te col nostro peccato » (1 Esd. 9, 15). Poi prosegue, distruggendo in noi il regno del peccato, per mezzo delle buone opere; ma non si ferma qui. Cerca, non fosse che per riconoscenza a Dio, che con la sua grazia l’ha tratto dalla via della perdizione, di distruggere il peccato anche negli altri. Così ha fatto Davide. Alla parola del profeta Natan si scuote: riconosce la propria colpa: «Io conosco la mia prevaricazione, e il mio peccato mi sta sempre dinanzi»; e la confessa sinceramente davanti a Dio: « Contro di te solo ho peccato e ho fatto il male al tuo cospetto »; poi, domanda al Signore la grazia di divenire un uomo completamente nuovo: « Crea in me, o Signore, un cuor puro, e rinnova dentro di me uno spirito retto »; inoltre protesta di voler insegnare ai peccatori a rimettersi, come lui, sulle vie del Signore: « Insegnerò ai peccatori le tue vie, e i peccatori si convertiranno a te » (Salm. L, 4… 5… 11… 14). Chi ha rubato beni materiali, procuri per spirito dì riparazione di mettersi in grado di far l’elemosina ai bisognosi. Chi con i suoi discorsi, con le sue azioni, con la propaganda ha tolto o indebolito la fede, ha prodotto il rilassamento dei costumi, deve fare il possibile per ricondurre a Dio quelli che se ne sono allontanati. E se non gli sarà possibile ricondurre a Dio quegli stessi che furono allontanati da lui, glie ne riconduca degli altri. E cerchi di ricondurgli specialmente quelli che se ne sono allontanati maggiormente. Davide si propone di ricondurre a Dio gli iniqui e gli empi. Quanto più uno è avvolto nelle tenebre, tanto più ha bisogno di chi lo indirizzi pel retto sentiero; quanto più uno è immerso nel pantano, tanto più ha bisogno dell’opera di chi l’aiuti a uscirne. – E se non potrà fare quanto il suo cuore brama per riparare la vita passata, procuri di fare quel che può; e  se non gli è possibile di riparare direttamente, ripari indirettamente con la preghiera, coi patimenti, con le mortificazioni accettati e offerti a Dio con l’intenzione di riparare le mancanze della vita passata.

Graduale

Ps CXV: 2
Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.
[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja
[L’’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV: 1

Alleluja

Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja. [Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium

Sequéntia ✠  sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XXII: 1-14
“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum cœlórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo. Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XLVII.

“In quel tempo Gesù ricominciò a parlare a’ principi dei Sacerdoti ed ai Farisei per via di parabole dicendo: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale fece lo sposalizio del suo figliuolo. E mandò i suoi servi a chiamare gl’invitati alle nozze, e non volevano andare. Mandò di nuovo altri servi, dicendo: Dite agl’invitati: Il mio desinare è già in ordine, si sono ammazzati i buoi e gli animali di serbatoio, e tutto è pronto, venite alle nozze. Ma quelli misero ciò in non cale, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio: altri poi presero i servi di lui, e trattaronli ignominiosamente, e gli uccisero. Udito ciò il re si sdegnò; e mandate le sue milizie, sterminò quegli omicidi e diede alle fiamme le loro città. Allora disse a’ suoi servi: Le nozze erano all’ordine, ma quelli che erano stati invitati, non furono degni. Andate dunque ai capi delle strade e quanti riscontrerete chiamate tutti alle nozze. E andati i servitori di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, e buoni e cattivi; e il banchetto fu pieno di convitati. Ma entrato il re per vedere i convitati, vi osservò un uomo che non era in abito da nozze. E dissegli: Amico, come sei tu entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo per le mani e pei piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridor di denti. Imperocché molti sono i chiamati e pochi gli eletti” (Matth. XXII, 1-14).

L’ora solenne, in cui Gesù Cristo avrebbe offerto il sacrifizio di se stesso al suo divin Padre, era già assai vicina. Non vi mancavano che quattro giorni. Ed Egli che era già entrato trionfante in Gerusalemme e in tale circostanza aveva rinfiammate le ire dei suoi nemici, continuava tuttavia con una maestà e serenità ammirabili a predicare agli uomini le grandi verità del Vangelo. Anzi poiché i principi dei Sacerdoti ed i Farisei, sempre però con un cattivo animo, venivano ancor essi ad ascoltarlo, ad essi medesimi, come si nota nel Vangelo di questa domenica, prese a parlare per via di parabole, studiandosi ogni modo di scuoterli se fosse stato possibile dalla loro malvagità, indurli a conoscere i loro errori e a ravvedersene. Ma pur troppo quegli uomini pieni di orgoglio e di malizia non volevano capire quelle preziose verità, che tanto li interessavano ed, anzicché dall’annunzio delle medesime trarre argomento per il loro bene, ne ricavavano pretesto per invelenire sempre più contro Gesù Cristo. Noi, per la grazia di Dio, vogliamo agire ben diversamente; epperò ascolteremo stamattina con grande attenzione la parabola del Santo Vangelo di oggi e vi faremo sopra salutari riflessi.

1. Disse adunque Gesù: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale fece lo sposalizio del suo figliuolo. E mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, e non volevano andare. Mandò di nuovo altri servi, dicendo: Dite agli invitati: Il mio desinare è già in ordine, si sono ammazzati i buoi e gli animali di serbatoio, e tutto è pronto, venite alle nozze. Ma quelli misero ciò in non cale, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio: altri poi presero i servi di lui, e trattaronli ignominiosamente, e gli uccisero. – E qui cominciamo adosservare che il re, di cui trattasi in questa parabola, non ò altri che Dio medesimo; lo sposo è il Figliuol suo Gesù, il quale si unì in mistiche nozze con la Chiesa; e il banchetto, a cui sono invitati dei commensali senza numero sono la dottrina di Gesù Cristo, i suoi Sacramenti, le sue grazie infinite. Dopo il peccato originale Iddio nella sua misericordia aveva promesso questo misterioso banchetto, lo aveva rivelato primieramente ai nostri colpevoli progenitori, invitandoli egli medesimo a rendersene degni coi travagli della loro penitenza e con le lagrime del loro pentimento. Tutti quelli poi, che hanno preceduto la venuta del Messia, erano chiamati a parteciparvi mercé la fede, la speranza e l’amore a Dio e al Redentore promesso. Ed affinché non lo dimenticassero, il Signore mandava loro a ricordarlo i suoi servi. Erano i patriarchi, coi quali Iddio degnavasi comunicare se stesso. Dopo le divine comunicazioni che ad essi venivano fatte, eglino radunavano i numerosi loro figliuoli intorno alla loro tenda e sotto i palmizi del deserto, ed ivi con voce solenne ripetevano le speranze dell’avvenire. Erano i profeti, uomini ispirati, che penetravano l’oscurità dei secoli. Iddio li collocava in certa guisa in faccia al suo divin Figliuolo incarnato. Essi lo vedevano pieno di bontà e di grazia, in tutti i particolari della sua nascita e della sua vita privata e pubblica. E poi lo scorgevano come l’uomo dei dolori e in tono lamentevole cantavano la sanguinosa sua passione ed il suo generoso sacrificio. E poi alzavano un grido di letizia, intonavano l’alleluia del trionfo; avevano veduto il Cristo risorto uscir dal sepolcro, divenuto glorioso. Questo vedevano i profeti suscitati da Dio, e quanto vedevano essi, tanto comunicavano agli uomini del loro tempo. E tutti quelli, che udivano l’inspirata loro voce, potevano eccitarsi al desiderio, alla speranza ed all’amor del prossimo Messia. In seguito Iddio, questo gran Re dell’universo, dopo di avere invitato gli uomini al banchetto della verità e delle grazie celesti per mezzo dei suoi servi, i patriarchi ed i profeti, li invitò parlando ad essi per mezzo dello stesso suo divin Figliuolo, e dopo la sua morte, la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, continuò e continua tuttora ad invitarli per mezzo degli apostoli, dei Sacerdoti e dei missionari, i quali se ne vanno sino agli estremi confini della terra per fare a tutti da parte di Dio questo invito: Venite, venite, o uomini tutti, al banchetto della grazia, dei Sacramenti, della dottrina celeste, che Iddio ha apparecchiato per tutti nella Chiesa Cattolica. E benché vi siano tanti fra gli uomini, i quali non ascoltino quegli inviti, che loro vengono fatti, Iddio continua sempre a mandare altri servi, altri apostoli, altri predicatori della sua divina parola a ripetere quegli insistenti inviti. Or bene, o miei cari, questa condotta di Dio verso gli uomini non è sommamente ammirabile per la sua bontà, per la sua misericordia e per la sua pazienza? Allorquando noi offriamo un benefìcio che è disconosciuto, non sentiamo forse nel nostro animo del disgusto per l’ingrato, che ci respinge? In questo caso non potendo punirlo, noi lo abbandoniamo almeno alla sua ingratitudine ed alla sua indifferenza, non vogliam più sentirne parlare, e cerchiamo altri cuori, che sappiano comprenderci ed apprezzarci meglio. Eppure Dio non agisce così. Disconosciuto, respinto, ingiuriato, non domanda alla sua giustizia quanto essa ha di più terribile. Potrebbe per lo meno abbandonare gl’ingrati, lasciarli in preda alla loro bassezza, aspettando il giorno del giudizio e dei suoi rigori. No, Ei non si allontana; ritorna, incalza, supplica, scongiura; direbbesi esser Lui obbligato; Lui che da tutta l’eternità è sovranamente beato nel soggiorno della sua gloria. Leggete la storia del popolo ebreo, e riconoscerete essere dessa la storia della pazienza, della misericordia, della longanimità di un Dio sempre tradito, sempre ingiuriato da un popolo sempre ingrato, sempre ribelle. Niente risparmiò: promesse, benefizi, perdono; ed anche allora quando era costretto a punire, uno era il suo pensiero: ricondur quel popolo sul sentiero del dovere e sulla strada della felicità. Con tutto ciò Iddio non vi riuscì, anzi gli Ebrei arrivarono all’eccesso di mettere in croce il Messia, di dare la morte ai servi di Dio, come a Santo Stefano e a S. Giacomo, e di perseguitare tutti gli altri Apostoli. Quale ingratitudine! Ma sgraziatamente non furono i soli Ebrei a trattare così coi servi inviati da Dio ad invitare gli uomini alla sua Chiesa. Per tre secoli continui gli imperatori romani si scagliarono massimamente contro gli inviati di Dio, e senza contare i Vescovi, i Sacerdoti, furono ben circa trenta i Sommi Pontefici, che essi misero a morte. Ed anche oggidì in alcuni paesi, persino Paesi cattolici, si continua a perseguitare, a massacrare i messi del Vangelo. Ma se Iddio è infinitamente paziente, non lascia di essere pure infinitamente giusto. Epperò che cosa fa egli?

2. Gesù continuando la parabola disse che il re, come ebbe udito la sorte a cui erano stati assoggettati i suoi servi, si sdegnò; e mandate le sue milizie, sterminò quegli omicidi, e diede alle fiamme le loro città. Or ecco quello che ha fatto e farà Iddio con tutti coloro, i quali oltre il non aver accettati i suoi inviti di entrar nella sua Chiesa, si fecero ancor a perseguitare coloro che, a nome di Dio facevano tali inviti. Si sdegna contro di essi, e levandosi nel suo furore li stermina. Contro di Gerusalemme e di tutti gli Ebrei mandò le milizie romane, che incendiarono e che rovinarono al suolo quella loro città, dopo di aver fatto patire agli stessi tutti gli orrori del più lungo e terribile assedio. Per riguardo poi agli imperatori Romani il celebre scrittore cristiano Lattanzio ha potuto scrivere un libro, nel quale appunto si dimostra, che tutti per aver perseguitato i servi di Dio, perirono miseramente. Difatti Nerone, che oltre a tanti Cristiani mise pure a morte S. Pietro e S. Paolo, alla fine perseguitato da tutto il popolo romano si rifuggì in una villa suburbana, dove sentendo avvicinarsi i soldati che lo cercavano, finì per cacciarsi un pugnale nella gola. Domiziano ricevette una pugnalata nel ventre. Settimio Severo morì di malinconia o di veleno. Massimino fu trucidato dai suoi soldati. Valeriano, fatto schiavo di Sapore, re della Persia, doveva servir come di staffa a questo re, quando montava sul cavallo ed alla fine per ordine del medesimo venne scorticato vivo. Massimiano da se stesso si impiccò. Diocleziano perì di fame e Galerio morì roso dai vermi. Che dire poi della fine miseranda della maggior parte degli eretici, i quali ancor essi così astutamente perseguitarono i servi di Dio? Quell’Ario che era riuscito a fare un danno così grande alla Chiesa co’ suoi errori, alla fine, proprio allora che egli credeva di aver ottenuto un completo trionfo su di Essa, e andava tutto glorioso per le strade di Costantinopoli, fu colpito da sì terribile malore, per cui nel modo più orrendo e disperato perdette tosto la vita. E Lutero e Calvino, gli autori scellerati del Protestantesimo e i nemici più accanititi dei Romani Pontefici come finirono? Alcuni dicono che il primo morisse fra i più acuti dolori di stomaco dopo un’enorme indigestione ed altri ultimamente dimostrano che egli siasi impiccato: del secondo poi si sa che morì chiamando i demonii, maledicendo a se stesso e mandando puzza insoffribile dalle sue piaghe. E finalmente, per tacere di ogni altro, come finì l’empio Voltaire? Venuto all’estremo della vita, chiese di un prete per confessarsi, ma poiché i suoi amici e seguaci erano là alla porta della sua stanza per non lasciarvi entrare il prete che desiderava, Voltaire preso dalla rabbia, urlando e bestemmiando…, morì disperato.Ecco in qual modo il gran Re del Cielo e della terra si sdegna e si vendica contro di coloro che, oltre a non ascoltare i suoi ministri, si fanno a perseguitarli. Egli li castiga e terribilmente: anzi è lì dove manifesta in tutto il suo fulgore, la sua giustizia e dove fa gravare tutto quanto il peso delle sue tremende vendette. Impariamo di qui ad avere noi sempre il massimo rispetto per i servi del Signore, quali sono presentemente per noi il Santo Romano Pontefice, i Vescovi, i Parroci e tutti i Sacerdoti. Che se pur qualche volta tra questi ministri del Signore, se ne presentasse dinanzi a noi qualcuno indegno, compatiamolo anzi tutto col ricordare che il carattere sacerdotale se impone al Sacerdote il dovere di vivere santamente e il Sacramento dell’ordine glie ne conferisce la grazia, non gli tolgono però il suo essere di uomo, epperò lasciano ancor lui nel pericolo di cadere; e poi imitiamo l’esempio del gran Costantino, il quale diceva: Un tal sacerdote vorrei coprirlo col mio manto, perché nessuno lo vedesse e nessuno ne parlasse male. Rispettiamoli, i servi di Dio, con l’obbedire ai loro comandi, col praticare i loro consigli e le loro esortazioni, con l’assecondare i loro affettuosi inviti. Rispettiamoli col credere fermamente tutte quelle verità, che a nome di Dio essi ci propongono a credere e con l’osservare quella santa legge che essi ci predicano; rispettiamoli infine con l’evitare ogni discorso, ogni insulto contro di essi, temendo sempre che mancando noi di rispetto ai ministri di Dio, Iddio faccia sentire anche su di noi il peso delle sue vendette. Ma più ancora che per timore rispettiamoli per amore, pensando che sono essi, questi servi del Signore, che col loro ministero, non solo ci hanno invitato, ma ci hanno accolti nella Chiesa e ci fanno godere del banchetto delle verità e dello grazie celesti.

3. Venendo il divin Redentore a narrare l’ultima parte della parabola soggiungeva: « Allora il re disse ai suoi servi: Le nozze erano all’ordine, ma quelli che erano stati invitati, non furono degni. Andate adunque ai capi delle strade, e quanti riscontrerete, chiamate tutti alle nozze. E andati i servitori di lui per le strade, radunarono quanti trovavano, e buoni e cattivi; e il banchetto fu pieno di convitati. Ma entrato il re per vedere i convitati, vi osservò un uomo che non era in abito di nozze. E dissegli: Amico, come sei tu entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo per le mani e pei piedi e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridore di denti. Imperocché molti sono i chiamati, e pochi gli eletti. – Or bene, o miei cari, che cosa indica questa seconda parte della parabola? Indica una verità assai terribile. Gesù Cristo vuol farci intendere che se per la sua immensa bontà sono senza numero coloro che sono ammessi in seno alla Chiesa, non per questo tutti costoro potranno un giorno partecipare al banchetto dell’eterna felicità del paradiso. Vi parteciperanno soltanto coloro che, nella visita che Egli farà di ciascuno nel giorno del giudizio, saranno trovati avere indosso la veste nuziale della fede animata dalla carità, vale a dire dalle buone opere. Imperciocché in quel dì del giudizio Egli farà passare quanto abbiamo fatto in vita nostra per vedere appunto se essendo stati chiamati per sua bontà nella sua Chiesa ad essere Cristiani, avremo pur vestito con la fuga del peccato e con l’adempimento delle buone opere l’abito della carità e della grazia. Chi sei tu, allora domanderà, chi sei tu? Cristiano, si risponderà. Se tu sei Cristiano, vediamo se hai portata indosso la veste del vero Cristiano, osservando la mia legge. Indi comincerà a rammentarci le promesse fatte nel santo Battesimo, con le quali rinunciammo al demonio, al mondo, alla carne; ci rammenterà le grazie concesse, i Sacramenti frequentati, le prediche, le istruzioni, le correzioni dei parenti e dei superiori, ogni cosa ci verrà schierata innanzi. Ma tu, dirà il Giudice, a dispetto di tanti doni, di tante grazie, quanto male corrispondesti alla professione di Cristiano. Appena hai cominciato a conoscermi, tosto hai cominciato ad offendermi. Crescendo poi in età, aumentasti il disprezzo della mia legge. Messe perdute, profanazione dei giorni festivi, bestemmie, confessioni mal fatte, Comunioni senza frutto e talvolta sacrileghe, ecco quanto facesti invece di servirmi. Si volterà poi il divin Giudice tutto pieno di sdegno verso lo scandaloso dicendogli: Vedi quell’anima che cammina per la strada del peccato? Sei tu che con i tuoi discorsi le insinuasti la malizia. Vedi quell’altra che è laggiù nell’inferno? sei tu che coi perfidi tuoi consigli la togliesti a me, la consegnasti al demonio e fosti causa della sua perdizione. E tu senza la veste nuziale, avendola anzi strappata di dosso ad altri, pretendi aver parte al banchetto dell’eterna felicità? Ma no, sciagurato! E poiché il misero a queste parole del divin Giudice, come quello della parabola, resterà muto, non trovando scusa alcuna per difendersi davanti alla realtà del male, che in tutta la sua schiettezza gli si farà innanzi; Iddio allora si volgerà agli Angeli suoi ministri e darà loro ordine, che preso il disgraziato lo piombino nel fondo dell’inferno. Dite, o miei cari, il pensare a questo caso non mette forse spavento? Eppure non c’è da tremare considerando come tanti Cristiani, chiamati da Dio a far parte della sua Chiesa, vi appartengano proprio unicamente pel Battesimo, ma non già per la grazia, per la carità, per le buone opere? Ah! miei cari, che nessuno di noi si trovi nel numero di questi sventurati. Iddio, senza che in noi vi fosse alcun merito, ci ha chiamati ad entrar nella sua Chiesa a preferenza di tanti altri. Corrispondiamo a questo sì grande benefizio; epperò procuriamo mai sempre di conservare candida quella veste di grazia, con la quale Iddio stesso ci ha rivestiti il dì del Battesimo: che se l’abbiamo macchiata, laviamola prontamente nel Sacramento della penitenza, e poi studiamoci di non lordarla più mai, affinché al termine della nostra vita, possiamo presentarci al tribunale di Dio con questa bella veste, ed essere perciò da Lui affettuosamente ammessi a godere per sempre del celeste banchetto.

Credo …

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Offertorium

Orémus
Ps CXXXVII: 7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua. [Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta

Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde. [Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

Comunione spirituale:

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Communio

Ps CXVIII: 4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas. [Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio

Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.
[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

Preghiere leonine:

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Per l’Ordinario vedi:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (82)

LO SCUDO DELLA FEDE (82)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO V.

COME SI DEBBANO DIPORTARE QUELLI CHE SONO TENTATI DAI PROTESTANTI CON BEI DISCORSI.

Abbiamo detto il gran male che sarebbe dove un Cattolico, fatto gettito del dono preziosissimo della S. Fede, si recasse ad abbracciare il Protestantismo. Resta ora a dire una parola ai Cattolici, i quali possono trovarsi tra pericoli di seduzione, oppure che fossero sventuratamente già stati sedotti. Il primo pericolo è quello che si corre dal vivo discorso dei ministri d’errore. Imperocché l’Apostolato diabolico che pur si fa per mezzo dei libri o del denaro non si può praticar tanto alla scoperta, né si può egualmente con tutti, ma ben si può con tutti impiegare il discorso e la persuasione: ed ecco in qual modo si procede da questi seduttori. Sulle prime testano il terreno solamente per vedere come risponde e si guardano bene dal manomettere le verità più riverite della Religione e dal profferir con che possa dannarsi come manifesta empietà. Fanno come il falco che vuol rapire i pulcini, prendono le volte larghe prima di avventarsi sopra la preda. Si contentano, per esempio, di intaccare la vita dei sacri ministri, di mettere in vista i falli, di cui come uomini non vanno esenti, di esagerarli, affermando che sono comuni a tutti egualmente e Sacerdoti e Religiosi. Poi passano a criticare le cerimonie del culto esterno, la sontuosità delle Chiese, la ricchezza degli apparati e degli ornamenti, a deridere le pratiche di pietà onde si nutrela divozione, burlando e beffeggiando come pinzochere e bacchettoni quelli che si esercitano in esse. Trovano sempre che dire sulla S. Chiesa. sui suoi diritti, sulle pretensioni come essi parlano della Corte Romana. e la mirano e ne parlano come di una tigre che sia sempre in atto di avventarsi sopra il Principato per usurparsene l’autorità. Di tutto che è religioso prendono noia o scandalo, e non possono patire che altri lodi ed esalti con fervore di devozione le cristiane osservanze, la gloria ed i trionfi di S. Chiesa. – Ora quando voi udite alcuno che parla a questo modo, e non una qualche volta di rado e per passione, ma parla così frequentemente ed a sangue freddo, e voi abbiatelo per un indizio sicuro che costui, sel sappia o no, è infetto di Protestantismo e maestro d’errore: epperò fuggitelo e non vogliate con lui mai trattenervi in conversazione, né averlo per amico, poiché a lungo andare vi contaminerebbe. Che se poi fosse di quelli che non solo tagliano i rami dell’albero della Fede, ma danno risolutamente al tronco mettendo in dubbio o condannando i dommi più sacrosanti della Fede, come la verità del Sacrifizio, la Confessione, la Comunione, il valore delle Indulgenze, l’autorità del Sommo Pontefice e simili, come allora non vi sarebbe più nessun dubbio che questi è un eretico Protestante, così allora non vi sarebbe abominio che fosse tanto al bisogno. – Nella Chiesa di Dio i Santi Apostoli ci ammaestrarono a fuggire come dal serpente ogni eretico. Tu fuggi, dice S. Paolo, dopo una o due riprensioni lo eretico (Tit. III, 10). – S. Giovanni Apostolo della carità non volle entrare in un bagno dove vi era un eretico per tema di contaminarsi. Il S. Vescovo Policarpo imbattutosi un giorno nell’eretico Marcione su una pubblica piazza, ed interrogato da lui se lo conoscesse: sì – rispose il Santo con ferma voce – sì io conosco il primogenito del diavolo: tanto era l’orrore che quel gran Santo aveva dicoloro che guastano la Fede. – Né i primi Fedeli ammaestrati da loro pensavano od operavano altrimenti. Nelle storie ecclesiastiche si legge di Sante Matrone, che non vollero più riconoscere i loro sposi, poiché questi avevano rinnegato la Fede, di mariti che non vollero riconoscere le spose per la stessa cagione, di sorelle che rinnegarono i fratelli i quali avevano disconosciuto Gesù. Come al contrario S. Cecilia riconobbe solo allora Tiburzio per suo cognato, quando questi ebbe abbracciata la Fede di Gesù Cristo: tanto era l’amore che queste grandi anime portavano alla S. Fede, che non sapevano e non potevano amare chi non la conoscesse e chi non l’amasse. Né questo amore era poi così raro e proprio solo di alcune anime più generose: i popoli interi Cattolici non volevano aver che fare per nulla con gli Eretici. Teodoreto narra che i Samosateni avendo risaputo che l’eretico Eunomio si era lavato nel pubblico bagno della loro città, non vollero più accostarsi a quello, finché levata tutta quell’acqua e condotta a perdersi in una fogna, non ne fu ivi rimessa dell’altra pura. Perfino i fanciulli Cattolici avevano orrore degli eretici, e negli Annali Ecclesiastici si legge che in Samosata, giocando a palla certi fanciulli sulla pubblica piazza e sfuggita loro di mano ed intrigatasi tra pie del giumento sopra cui cavalcava l’Eretico Lucio, quei fanciulletti Cattolici ne ebbero tanto orrore che non ardirono più toccarla se non dopo di averla purificata col fuoco. E di S. Francesca di Chantal è noto che ancor fanciulletta di poca età gettò prontamente sul fuoco un dono offertole da un signore eretico che frequentava la casa sua, dicendo con gran sentimento, che così brucerebbero nell’Inferno quei che non avessero la vera fede di Gesù Cristo. – Non mancherà alcuno a cui parrà soverchio quest’orrore e che crederà di esser tanto saldo nella sua fede da poter entrare in discorso con chicchessia senza pericolo. Se vi fosse alcuno che pensasse così, mostrerebbe di conoscer poco qual sia l’umana debolezza e quanto sia vero che chi si mette nel pericolo, rovina poi nel pericolo. Io vi darò solo un esempio di quel che può la seduzione, perché vi valga di ammaestramento. Margherita di Valois sorella di Francesco I, Re di Francia era donna, come scrive il Raimbourg, di eccelsi spiriti, di animo grande, di mente retta e salda, di ottimo cuore e di straordinaria accortezza negli affari. I Protestanti avendo fermo di trarla al loro empio partito, s’insinuarono cautamente nella sua corte, celati sotto l’apparenza di filologhi, letterati e filosofi, e col pretesto di zelare la purità della Religione, vennero a poco a poco scemando nel cuore di lei con critiche intemperanti il rispetto dovuto ai ministri e riti della Chiesa. Indi aggiungendo alle artificiose parole libricini non meno velenosi che leggiadri, e adoperandole intorno le già sedotte sue damigelle, fecero sull’animo dell’incauta principessa sì gagliarda impressione, che in breve l’ebbero non solo tutta loro, ma zelantissima a propagare le ree dottrine ed a proteggerne gli autori. E ben lo seppe il Bearn per lei ribellato alla Chiesa, anzi tutta la Francia col favore suo infettata sì largamente dall’eresia. Vero è che dopo più anni di errori accortasi dell’inganno in che era precipitata, se ne ritrasse ed amaramente lo pianse. Ma le sue lacrime, se valsero ad ottenerle pietà da Dio, non valsero certo ad estinguere il funesto incendio per lei massimamente acceso in Francia, né a cessarne le ree conseguenze, le quali furono trent’anni di guerra feroce, quattro grandi battaglie campali, da trecento sanguinose fazioni, il saccheggio o la distruzione delle migliori città, la ruina d’innumerabili Chiese, la violazione dei sepolcri dei re e dei Santi, e più di un milione di Francesi sgozzati senza processo (Pellicani I Compagni). – Andate adesso a fidarvi anime care, se potete, di voi medesime, mentre rovinano tanti grandi uomini. No no, chi ama il pericolo perirà in esso, dice lo Spirito Santo, e l’esperienza ogni dì lo conferma. Fate che non debba aggiungervi il tristo esempio della vostra persona.

PREGHIERE AL CUORE DI GESÙ

PREGHIERE AL CUORE DI GESÙ

[Enchir. Indulg.; Typis pol. Vaticanis MCMLII]

CORONCINA AL CUORE DI GESÙ

“Deus, in adiutorium, etc. Gloria Patri, etc.”

I. Amorosissimo mio Gesù, al riflettere sul vostro buon Cuore e vederlo tutto pietà e dolcezza per i peccatori, mi sento rallegrare il mio e colmare di fiducia d’essere da Voi ben accolto. Ahimè! quanti peccati ho commessi! Ma ora qual Pietro e qual Maddalena dolente li piango e detesto, perché sono offesa di Voi, sommo Bene. – Sì, sì, concedetemene il perdono; ed oh! muoia io, vel chieggo per il vostro buon Cuore, muoia prima che offendervi, e certo viva solo per riamarvi.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor del mio Gesù, fa’ che io ti ami sempre più.

II. Benedico, Gesù mio, l’umilissimo vostro Cuore e vi ringrazio che, nel darmelo per esemplare, non solo con forti premure mi eccitate ad imitarlo, ma a costo pur di tante vostre umiliazioni me n’additate ed appianate la via. Folle che fui ed ingrato! Ah quanto traviai! Perdonatemi. Non più superbia, ma con umil cuore tra umiliazioni seguir voglio voi, e conseguire pace e salute. Avvaloratemi Voi, e benedirò in eterno il vostro Cuore.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor, ecc.

III. Ammiro, Gesù mio, il pazientissimo vostro Cuore e vi ringrazio di tanti meravigliosi esempi d’invitta sofferenza a noi lasciati. Mi dispiace, che indarno mi rimproverano la strana mia delicatezza insofferente d’ogni piccola pena. Ah! Gesù mio caro, infondetemi nel cuore fervido e costante amore alle tribolazioni, alle croci, alla mortificazione, alla penitenza, acciocché seguendovi al Calvario giunga con voi alla gioia in paradiso.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor, ecc.

IV. Innanzi al mansuetissimo vostro Cuore, caro Gesù, io m’inorridisco del mio sì diverso dal vostro. Purtroppo io ad un’ombra, ad un gesto, ad una parola in contrario m’inquieto e lamento. Deh! perdonate i miei trasporti e datemi grazia d’imitare nell’avvenire in qualunque contrarietà l’inalterabile vostra mansuetudine, e così godere perpetua santa pace.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor, ecc.

V. Si cantino pur lodi, o Gesù, al generosissimo vostro Cuore vincitore della morte e dell’inferno, che ben se le merita tutte. Io resto più che mai confuso al vedere il mio sì pusillanime, che teme di qualunque diceria ed umano rispetto; ma non sarà più così. Da voi imploro sì coraggiosa forza, che combattendo e vincendo in terra, trionfi poi lieto con voi in cielo.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor, ecc.

Volgiamoci a Maria consacrandoci vieppiù a lei, e confidando nel materno suo Cuore diciamole: Per gli alti pregi del vostro Cuore dolcissimo impetratemi, o gran Madre di Dio e Madre mia, Maria, vera e stabile devozione al sacro Cuore di Gesù vostro Figliuolo; onde io in esso racchiuso coi miei pensieri ed affetti adempia tutti i miei doveri, e con alacrità di cuore serva sempre, ma specialmente in questo giorno, a Gesù,

V. Cor Iesu, flagrans amore nostri,

R. inflamma cor nostrum amore tui.

Oremus.

Illo nos igne, quæsumus Domine, Spiritus Sanctus inflammet, quem Dominus noster Iesus Christus e penetralibus Cordis sui misit in terram, et voluit vehementer accendi: Qui tecum vivit et regnat in unitate eiusdem Spiritus Sancti Deus per omnia sæcula sæculorum. Àmen.

Indulgentia septem annorum. [7 anni]

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidiana coronæ recitatio in integrum mensem producta fuerit [indulgenza plenaria se recitata per un mese] (S. C. Indulg., 20 mart. 1815; S. Pæn. Ap., 10 mart. 1933).

VII

ACTUS REPARATIONIS ET CONSECRATIONIS

256

Actus reparationis

Iesu dulcissime, cuius effusa in homines caritas, tanta oblivione, negligentia, contemptione, ingratissime rependitur, en nos, ante altaria tua (1) provoluti, tam nefariam hominum socordiam iniuriasque, quibus undique amantissimum Cor tuum afficitur, peculiari honore resarcire contendimus. – Attamen, memores tantae nos quoque indignitatis non expertes aliquando fuisse, indeque vehementissimo dolore commoti, tuam in primis misericordiam nobis imploramus, paratis, voluntaria expiatione compensare flagitia non modo quæ ipsi patravimus, sed etiam illorum, qui, longe a salutis via aberrantes, vel te pastorem ducemque sectari detrectant, in sua infidelitate obstinati, vel, baptismatis promissa conculcantes, suavissimum tuæ legis iugum excusserunt. – Quæ deploranda crimina, cum universa expiare contendimus, tum nobis singula resarcienda proponimus: vitæ cultusque immodestiam atque turpitudines, tot corruptelae pedicas innocentium animis instructas, dies festos violatos, exsecranda in te tuosque Sanctos iactata maledicta atque in tuum Vicarium ordinemque sacerdotalem convicia irrogata, ipsum denique amoris divini Sacramentum vel neglectum vel horrendis sacrilegiis profanatum,  publica postremo nationum delicta, quæ Ecclesiæ a te institutae iuribus magisterioque reluctantur. – Quæ utinam crimina sanguine ipsi nostro eluere possemus! Interea ad violatum divinum honorem resarciendum, quam Tu olim Patri in Cruce satisfactionem obtulisti quamque cotidie in altaribus renovare pergis, hanc eamdem nos tibi præstamus, cum Virginis Matris, omnium Sanctorum, piorum quoque fidelium expiationibus coniunctam, ex animo spondentes, cum præterita nostra aliorumque peccata ac tanti amoris incuriam firma fide, candidis vitæ moribus, perfecta legis evangelicæ, caritatis potissimum, observantia, quantum in nobis erit, gratia tua favente, nos esse compensaturos, tum iniurias tibi inferendas prò viribus prohibituros, et quam convocaturos. Excipias. quæsumus, benignissime Iesu, beata Virgine Maria Reparatrice intercedente, voluntarium huius expiationis obsequium nosque in officio tuique servitio fidissimos ad mortem usque velis, magno ilio perseverantiæ munere, continere, ut ad illam tandem patriam perveniamus omnes, ubi Tu cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sœcula sæculorum.

Amen.

(1) Extra ecclesiam vel oratorium, loco: altaria tua, dicatur: conspectum tuum.

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si quotidie per integrum mensem reparationis actus devote recitatus fuerit.

Fidelibus vero, qui die festo sacratissimi Cordis Iesu in qualibet ecclesia aut oratorio etiam (prò legitime utentibus) semipublico, adstiterint eidem reparationis actui cum Litaniis sacratissimi Cordis, coram Ssmo Sacramento sollemniter exposito, conceditur:

Indulgentia septem annorum;

Indulgentia plenaria,

dummodo peccata sua sacramentali pænitentia expiaverint et eucharisticam Mensam participaverint (S. Pæn. Ap., 1 iun. 1928 et 18 mart. 1932).

NOTA. — Quoad versiones aliquas cfr. Ada Ap. Sedis,an. 1928, pag. 179 ss.

Atto di Consacrazione

Mio amabilissimo Gesù, io mi consacro oggi nuovamente e senza riserva al vostro divin Cuore. Vi consacro il mio corpo con tutti i suoi sensi, l’anima mia con tutte le sue facoltà, e interamente tutto il mio essere. Vi consacro tutti i miei pensieri, le mie parole ed opere; tutte le mie sofferenze e travagli; tutte le mie speranze, consolazioni e gioie; e principalmente vi consacro questo mio povero cuore, affinché esso non ami che voi e si consumi come vittima nelle fiamme del vostro amore. Accettate, o Gesù, mio amabilissimo Sposo, il desiderio che ho di consolare il vostro Cuore divino e di appartenervi per sempre. Prendete in tal maniera possesso di me, che d’ora in poi io non abbia altra libertà, che quella di amarvi, né altra vita che quella di soffrire e morire per voi. Metto in voi la mia illimitata fiducia e spero dalla vostra infinita misericordia il perdono dei miei peccati. Rimetto nelle vostre mani tutte le mie cure e principalmente quella della mia eterna salute. Vi prometto d’amarvi e di onorarvi fino all’ultimo istante della mia vita e di propagare, quanto più potrò, il culto del vostro sacratissimo Cuore. Disponete di me, o mio Gesù, secondo il vostro beneplacito; non voglio altra ricompensa che la vostra maggior gloria ed il vostro santo amore. – Concedetemi la grazia di trovare nel vostro divin Cuore la mia abitazione; qui voglio passare ogni giorno della mia vita; qui voglio dare il mio ultimo sospiro. Stabilite Voi pure nel mio cuore la vostra dimora, il luogo del vostro riposo, per rimanere così intimamente uniti; finché un giorno io vi possa lodare, amare e possedere per tutta l’eternità lassù in cielo, ove canterò per sempre le infinite misericordie del vostro sacratissimo Cuore.

Indulgentia quingentorum dierum semel in die (Leo XIII, Audientia 11 deC. 1902; S. C. Indulg., 7 ian. 1903; S. Pæn. Ap., 9 lui. 1935).

258

Actus consecrationis

a) Je N . N . me donne et consacre au sacre Cœur de Notre Seigneur Jésus-Christ, ma personne et ma vie, mes actions, peines et souffrances, pour ne plus vouloir me servir d’aucune partie de mon étre que pour l’honorer, aimer et glorifler. C’est ici ma volonté irrévocable que d’ètre tout à lui et faire tout pour son amour, en renonçant de tout mon cœur à tout ce qui lui pourrait déplaire. – Je vous prends donc, ò sacre Cœur, pour l’unique objet de mon amour, le protecteur de ma vie, l’assurance de mon salut, le remède de ma fragilité et de mon inconstance, le réparateur de tous les défauts de ma vie, et mon asile assuré à l’heure de ma mort. -Soyez donc, ò Cœur de bonté, ma justification envers Dieu votre Pére, et détournez de moi les traits de sa juste colere. O Cœur d’amour, je mets toute ma confiance en vous, car je crains tout de ma malice et de ma faiblesse, mais j’espère tout de votre bonté. Consommez donc en moi tout ce qui vous peut déplaire ou resister, que votre pur amour vous imprime si avant dans mon cœur que jamais je ne vous puisse oublièr, ni ètre séparé de vous, que je conjure, par toutes vos bontés, que mon nom soit écrit en vous, puisque je veux faire consister tout mon bonheur et toute ma gloire à vivre et à mourir en qualité de votre esclave.

(Ste Marguerite M. Alacoque).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria

suetis conditionibus, si consecrationis actus quotidie in integrum mensem devote repetitus fuerit (S. C . Indulg., 1 iun. 1897, 13 ian. 1898 et 21 apr. 1908; S. Pæn. Ap., 25 febr. 1934).

SALMI BIBLICI: “QUID GLORIARIS IN MALITIA” (LI)

SALMO 51: “QUID GLORIARIS IN MALITIA”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 51

In finem. Intellectus David, cum venit Doeg Idumæus, et nuntiavit Sauli: Venit David in domum Achimelech.

[1] Quid gloriaris in malitia, qui potens es in iniquitate?

[2] Tota die injustitiam cogitavit lingua tua; sicut novacula acuta fecisti dolum.

[3] Dilexisti malitiam super benignitatem; iniquitatem magis quam loqui æquitatem.

[4] Dilexisti omnia verba præcipitationis, lingua dolosa.

[5] Propterea Deus destruet te in finem; evellet te, et emigrabit te de tabernaculo tuo, et radicem tuam de terra viventium.

[6] Videbunt justi, et timebunt; et super eum ridebunt, et dicent:

[7] Ecce homo qui non posuit Deum adjutorem suum; sed speravit in multitudine divitiarum suarum, et prævaluit in vanitate sua.

[8] Ego autem, sicut oliva fructifera in domo Dei; speravi in misericordia Dei, in æternum et in sæculum sæculi.

[9] Confitebor tibi in sæculum, quia fecisti; et exspectabo nomen tuum, quoniam bonum est in conspectu sanctorum tuorum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LI (1)

Riprensione a Doeg Idumeo, che calunniò Davide e Achimelech Sacerdote presso il re Saulle, e divenne con ciò causa della strage dei sacerdoti di Nobe. (Vedi lib. 1 Reg., c. 21).

Per la fine: salmo d’intelligenza di David, quando Doeg Idumeo andò a dar avviso a Saul, dicendo: David è stato a casa di Achimelech.

1. Perché fai tu gloria della malvagità, tu che sei potente a far male?

2. Tutto il dì la tua lingua ha meditato l’ingiustizia; quale affilato rasoio hai fatto tradimento.

3. Hai amato la malizia più che la bontà; il parlare iniquo, piuttosto che il giusto.

4. Hai amato tutte le parole da recar perdizione, o lingua ingannatrice.

5. Per questo Iddio ti distruggerà per sempre; ti schianterà, e ti scaccerà fuori del tuo padiglione; e ti sradicherà dalla terra dei vivi.

6. Vedran ciò i giusti, e temeranno, e di lui rideranno, dicendo:

7. Ecco l’uomo, il quale non ha eletto Dio per suo protettore; ma sperò nelle sue molte ricchezze, e si fece forte nei suoi averi.

8. Ma io, come ulivo fecondo nella casa di Dio, ho sperato nella misericordia di Dio per l’eternità e per tutti i secoli.

9. Te loderò io pei secoli, perché hai fatta tal cosa e aspetterò l’aiuto del nome tuo, perché buona cosa è questa nel cospetto dei santi tuoi.

Sommario analitico

In questo Salmo, il cui titolo fa sufficientemente conoscere l’occasione ed il soggetto, ed in cui c’è Doeg, traditore di Davide e del gran sacerdote, per i suoi interessi temporali, c’è un’immagine viva di Giuda che tradisce e vende il suo divino Maestro.

I. – Davide mostra tutta l’iniquità e la malvagità delle calunnie di Doeg e ne descrive i caratteri principali:

– 1° la sua ostinazione nell’iniquità, della quale si glorifica (1), – 2° la sua malizia premeditata e continua (2); – 3° la sua affezione al male (3); – 4° i suoi discorsi che non hanno come scopo se non la rovina del prossimo (4);

II.Egli descrive il castigo che lo attende sotto la figura di un albero abbattuto e sradicato:

– 1° egli sarà divelto, abbattuto, sradicato (5); – 2° i giusti, testimoni della sua rovina, applaudiranno e rideranno di lui, a) perché egli non ha riposto la sua forza il Dio, b) si è affidato alle moltitudini delle sue ricchezze, c) e si è raffermato nella sua malvagità (6, 7).

III Egli descrive in opposizione la sua felicità e quella dei giusti, sotto l’emblema di un ulivo verdeggiante:

– 1° Che produce frutti abbondanti, – 2° che è piantato in un luogo ameno, la casa di Dio (8); – 3° i cui rami che si estendono in lontananza sono: a) la speranza in Dio (8); b) la lode di Dio; c) la longanimità; d) la contemplazione e la carità della comunione dei santi (9).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff. 1. – Glorificarsi delle proprie buone opere, è commettere una grave ingiustizia verso Dio, perché è come prendergli ciò che Gli appartiene come proprio, la sua gloria, che Egli stesso dichiara di non cedere a nessuno. Ma glorificarsi nella propria malizia, è fare a Dio l’oltraggio più sensibile, poiché è dichiararsi suo nemico. – « Perché colui che è potente si glorifica della propria malvagità? » Vale a dire, perché colui che è potente nel male si glorifica? L’uomo ha bisogno di essere potente, ma nel bene, e non nel male. È dunque qualcosa di grande glorificarsi della propria malvagità? Il costruire una casa è affare di pochi; nel distruggerla, ogni ignorante può venirne a capo. È concesso ad un piccolo numero di persone il saper seminare il frumento, coltivare le messi, attendere la maturazione del grano, e raccogliere con gioia il frutto di questo lavoro; ma il primo venuto può con una semplice fiammella, incendiare tutta una messe. Far nascere un bambino, nutrirlo, allevarlo, condurlo fino all’età della giovinezza, è un grande compito, ma non c’è nessuno che non possa ucciderlo in poco tempo. Tutto ciò che non tende che a distruggere è dunque molto facile. Colui che si glorifica, si glorifichi nel Signore (1 Cor. I, 31); colui che si glorifica, si glorifichi nel bene; voi vi glorificate perché siete potenti nel male; cosa farete dunque o potenti con tutta la vostra iattanza? Voi ucciderete un uomo? Uno scorpione fa altrettanto; una febbre fa altrettanto, un fungo velenoso fa altrettanto. Tutta la vostra potenza è così ridotta ad eguagliare quella di un animale o di una pianta velenosa? (S. Agost.).

ff. 2. – Il cuore del giusto è interamente nella legge di Dio, che egli medita giorno e notte (Ps. I, 2). Il cuore del malvagio è interamente nell’ingiustizia, e la sua lingua è sempre occupata a produrre all’esterno i suoi tristi frutti (Dug.). – Come spiegare ciò che qui dice il profeta, che la lingua pensa e medita l’ingiustizia, allorché i pensieri escono dal senso ragionevole dell’anima vivente, mentre la lingua non è che lo strumento materiale del pensiero? Un altro scrittore ispirato ci fa comprendere la giustezza di questa espressione: « il cuore degli insensati – egli dice – è nella loro bocca » (Eccl. XXI, 29), perché essi non fanno niente con il consiglio della ragione e secondo le deliberazioni della loro intelligenza, ma al contrario si lasciano andare allo scorrere precipitoso della loro lingua, e tengono i discorsi più sconsiderati e più temerari. Ecco perché l’autore sacro dice che il loro cuore è nella loro bocca, perché essi non dicono affatto quel che hanno pensato, ma ciò che hanno pensato e che hanno detto. Il salmista parla tutt’altrimenti della lingua del saggio: la lingua del giusto, egli dice, mediterà la saggezza (Ps. XLIV, 2), perché la lingua si forma ed è diretta sulla meditazione del suo cuore (S. Hil.). – Quanta pena ci si prende per aguzzare un rasoio, quanta cura per affilarlo, quante volte lo si fa passare sulla pietra? E questo per radere quanto più profondamente i peli della barba, e dare al viso tutta la sua pulizia, tutta la sua nettezza. Ma se in luogo di tagliare la barba, il rasoio taglia la pelle della persona, esso porta un colpo ingannatore e perfido, perché invece di contribuire alla bellezza del viso, produce una ferita. (S. Hilar.).

ff. 3. –  « Voi avete preferito la malvagità alla bontà » Uomo ingiusto, uomo senza regole, voi volete, nella vostra perversità, mettere l’acqua sopra l’olio; l’acqua sarà sommersa, e l’olio emergerà. Voi volete nascondere la luce sotto le tenebre, ma le tenebre saranno dissipate, e la luce sussisterà. Voi volete mettere la terra al di sopra del cielo, ma la terra, con tutto il suo peso, cadrà sul suo luogo naturale. Voi sarete sommersi dunque per aver preferito la malvagità alla bontà; poiché mai la malvagità avrà la meglio sulla bontà. « Voi avete preferito la malvagità alla bontà, ed il linguaggio dell’iniquità a quello della giustizia ». Davanti a voi è la giustizia e davanti a voi vi è pure l’ingiustizia: voi avete una lingua, la muovete come vi pare; perché dunque la volgete piuttosto dal lato dell’ingiustizia e non dal lato della giustizia? Voi non sapete dare al vostro stomaco un nutrimento amaro, e date alla vostra lingua un nutrimento d’iniquità? Come scegliete il vostro nutrimento, così scegliete anche le vostre parole. Voi preferite l’ingiustizia alla giustizia; voi la preferite, è vero, ma chi la spunterà, se non la bontà e la giustizia? (S. Agost.).

II. — 5 – 7.

ff.5. – La giusta retribuzione dovuta al peccato, spesso è esercitata sui peccatori in questa vita, e sempre nell’altra. – Essi cercano di distruggere gli altri e non vi riescono che troppo spesso; ma saranno essi stessi distrutti, saranno scacciati dai luoghi ai quali si erano attaccati più tenacemente, le loro dimore, ove si erano stabiliti come se non ne dovessero mai uscire e mai sradicarsi con la loro morte dalla terra dei viventi. (Dug.). – Ogni anno, per un gran numero di uomini, il tempo fugge rapido come il fulmine, ed allora, dopo effimeri successi, c’è lo sterminio assoluto; ed allora dopo una vana affermazione di potenza e di grandezza, arriva lo schiacciamento senza pietà: … l’espulsione e l’esilio in luogo delle superbe dimore; l’annientamento della discendenza in luogo di una numerosa posterità; ecco ciò che Dio riserva ai malvagi, ecco come punisce l’insolenza e l’orgoglio con cui avevano preteso di lottare contro di Lui (Rendu). – Noi dobbiamo dunque avere la nostra radice nella terra dei viventi. La radice è in un luogo nascosto: se ne possono vedere i frutti, non la radice: occorre che le nostre opere procedano dalla carità, ed allora la nostra radice è nella terra dei viventi (S. Agost.). – Ah, io comprendo Signore, che la buona radice è il vostro amore, e che quella dell’empio è il suo criminale attaccamento alle cose della terra. Voi strappate questa radice perversa dalla terra dei viventi, e ricacciate l’empio lontano dal vostro tabernacolo. Cosa diventerò io, Signore, se agite così con me? Come potrò vivere lontano da Voi? Lontano dalla terra dei viventi, e lontano dal tabernacolo dove si impara ad amarvi? Radicatemi, Signore, nel vostro amore, ai piedi del Tabernacolo eucaristico (Mgr. De La Bouil. Symb., p. 279). – Quando i giusti avranno timore? Quando rideranno? Comprendiamo e discerniamo questi due tempi nei quali sia utile temere o ridere. Mentre siamo in questo mondo, non è ancor tempo di ridere, per paura di avere poi da piangere. Coloro dunque che sono i giusti ora e che vivono della fede, vedono questo Doeg e ciò che gli debba accadere, e temono per se stessi la stessa sorte; essi sanno in effetti cosa sono oggi, ma non sanno cosa saranno domani. Ora, dunque « i giusti verranno e temeranno », ma quando rideranno di lui? Quando l’iniquità sarà trascorsa; quando sarà tolta, come è già tolta, in gran parte, questo tempo incerto; quando saranno dissipate le tenebre di questo mondo, in mezzo alle quali noi non camminiamo ora che alla luce delle sante Scritture, ciò che fa che noi temiamo come se fossimo nella notte (S. Agost.).

ff. 7. – Il Profeta non ha detto: ecco quest’uomo che era ricco, ma: « ecco quest’uomo che non ha cercato il suo appoggio in Dio, e che ha messo la sua speranza nella moltitudine delle sue ricchezze ». Non è perché ha posseduto ricchezze, ma perché vi ha riposto le sue speranze, non mettendo le sue speranze in Dio, che egli è condannato, ed è per questo che egli è punito; è per questo che è cacciato dalla sua tenda, non essendo che terra e movimento, come la polvere che il vento alza sopra la superficie della terra; è per questo che la sua radice è divelta dalla terra dei viventi (S. Agost.). – I giusti, così sensibili quaggiù alle calamità dei propri fratelli, così ingegnosi nello scusare le loro colpe, a coprirle con un velo di carità, e ad addolcirle agli occhi degli uomini, quando non possono trovare scuse apparenti; i giusti, spogliati nel giorno del giudizio, sull’esempio del Figlio dell’uomo, di questa indulgenza e di questa misericordia che essi avevano esercitato verso i propri fratelli sulla terra, sibileranno sui peccatori, dice il profeta, l’insulteranno e divenendo essi stessi i suoi giudici, diranno loro beffandoli. « … ecco dunque quest’uomo che non aveva voluto mettere il suo soccorso e la sua fiducia nel Signore, e che aveva amato meglio confidare nella vanità e nella menzogna ». Ecco questo insensato che si credeva il solo saggio sulla terra, che riguardava la vita dei giusti come follia, e che si compiaceva nel favore dei grandi, nella vanità dei titoli e delle dignità, nell’estensione delle terre e dei possedimenti, nella stima e nelle lodi degli uomini, degli appoggi del fango che doveva perire con lui » (Massil., Jug. Univ.).

III. — 8, 9.

ff. 8. – L’olivo sterile, come il fico del Vangelo che non produce nulla, è l’immagine del peccatore. Essi non sono buoni, l’uno e l’altro, che ad essere tagliati e gettati nel fuoco. L’olivo fertile, al contrario, che porta frutto in abbondanza, è l’immagine del giusto che merita un posto nella casa del Signore. Fondamento solido della salvezza eterna, è la speranza nella misericordia di Dio. Quale differenza con la speranza che il peccatore pone nelle sue ricchezze, nella vanità e la menzogna! – « Io ho messo la mia speranza nella misericordia del Signore ». Ma non sarebbe solo per il presente? Perché talvolta gli uomini si ingannano su questo punto. In verità essi adorano Dio; ma benché abbiano confidenza in Dio, non è che in vista della loro prosperità temporale che essi dicono: io adoro il mio Dio che mi renderà ricco sulla terra, che mi darà dei figli, una sposa. Questi beni, in effetti non li dà se non Dio, ma Egli non vuole che Lo si ami a causa di questi medesimi beni. Egli li dà spesso anche ai malvagi, per far comprendere ai buoni di chiedergli ben altri beni. In che senso allora voi dite: « io ho messo la mia speranza nella misericordia di Dio? » … non è per caso onde acquisire dei beni temporali? No, « per l’eternità, e per i secoli dei secoli » (S. Agost.).

ff. 9. – « Io vi glorificherò per sempre, per quanto Voi avete fatto ». È una confessione completa del Nome di Dio con queste parole « per quanto avete fatto ». Cosa avete fatto se non ciò che si sta dicendo, che cioè, grazie a Voi, io sono come un ulivo fertile nella casa del Signore, e che ho messo la mia speranza nella misericordia divina per l’eternità e per i secoli dei secoli? Questo Voi lo avete fatto. Io non mi glorifico per ciò che ho, come se non avessi ricevuto nulla, ma io me ne glorifico in Dio. « Ed io confesserò per sempre che Voi lo avete fatto »; vale a dire, in ragione della vostra misericordia e non in ragione dei miei meriti; perché per me, io cosa ho fatto? Se voi cercate nel passato, io sono stato un bestemmiatore, un persecutore, un calunniatore. E Voi cosa avete fatto? Per Voi io ho attenuto misericordia, perché avevo fatto il male per ignoranza (1 Tim. I, 13). – Il Nome di Dio è Dio stesso, così aspettare il suo santo Nome, è come aspettare la manifestazione di Dio, il momento in cui Egli scoprirà la sua essenza eterna. Noi tutti siamo sulla terra in attesa di questo momento; noi non vediamo il santo Nome di Dio che in enigma e per fede. Quando si rivelerà a noi senza mezzi e senza veli, noi sapremo pienamente ciò che Egli è, e saremo perfettamente felici (Berthier). « Ed io aspetterò il vostro Nome perché è pieno di dolcezza ». Il mondo è pieno di amarezza, ma il vostro Nome è pieno di dolcezza, e se pure nel mondo vi è qualcosa di dolce al gusto, la digestione ne è amara. Il vostro Nome è l’oggetto delle mie preferenze, non solo a causa della sua grandezza, ma a causa ancor più della sua dolcezza. In effetti « gli ingiusti mi hanno raccontato le delizie delle quali godono, ma esse, Signore, non erano dolci come la vostra legge » (Ps. CXVIII, 86). Se in effetti non ci fosse stata qualche dolcezza nelle sofferenze dei martiri, essi non avrebbero sopportato con tanta costanza le amarezze di queste sofferenze, ma non era facile per tutti gli uomini gustare la dolcezza che esse racchiudevano. Il Nome di Dio è dunque – per coloro che amano Dio – di una dolcezza che sorpassa tutte le altre dolcezze, « io attenderò il vostro Nome, perché è pieno di dolcezza ». E a chi dimostrare la dolcezza di questo Nome? Datemi un palato al quale questo Nome sia stato dolce, lodate il miele finché volete, esagerate la sua dolcezza con tutte le espressioni che potete trovare, un uomo che non sa ciò che il miele sia, non comprenderà quel che direte, finché non l’avrà gustato. C’è un altro salmo in cui il Profeta invita particolarmente a sperimentare questa dolcezza e vi dice: « Gustate e vedete come è dolce il Signore » (Ps. XXXIII, 8). Voi rifiutate di gustarlo e dite: Egli è dolce! (S. Agost.).

SALMI BIBLICI. “AUDITE HÆC, OMNES GENTES” (XLVIII)

SALMO 48: Audite hæc, omnes gentes

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 48 (1)

In finem, filiis Core. Psalmus.

[1] Audite hæc, omnes gentes;

auribus percipite, omnes qui habitatis orbem:

[2] quique terrigenæ et filii hominum, simul in unum dives et pauper.

[3] Os meum loquetur sapientiam, et meditatio cordis mei prudentiam.

[4] Inclinabo in parabolam aurem meam; aperiam in psalterio propositionem meam.

[5] Cur timebo in die mala? Iniquitas calcanei mei circumdabit me.

[6] Qui confidunt in virtute sua, et in multitudine divitiarum suarum gloriantur.

[7] Frater non redimit, redimet homo: non dabit Deo placationem suam,

[8] et pretium redemptionis animae suæ. Et laborabit in æternum;

[9] et vivet adhuc in finem.

[10] Non videbit interitum, cum viderit sapientes morientes. Simul insipiens et stultus peribunt; et relinquent alienis divitias suas;

[11] et sepulchra eorum domus illorum in æternum, tabernacula eorum in progenie et progenie; vocaverunt nomina sua in terris suis.

[12] Et homo, cum in honore esset, non intellexit. Comparatus est jumentis insipientibus, et similis factus est illis.

[13] Haec via illorum scandalum ipsis; et postea in ore suo complacebunt.

[14] Sicut oves in inferno positi sunt: mors depascet eos. Et dominabuntur eorum justi in matutino; et auxilium eorum veterascet in inferno a gloria eorum.

[15] Verumtamen Deus redimet animam meam de manu inferi, cum acceperit me.

[16] Ne timueris cum dives factus fuerit homo, et cum multiplicata fuerit gloria domus ejus;

[17] quoniam, cum interierit, non sumet omnia, neque descendet cum eo gloria ejus.

[18] Quia anima ejus in vita ipsius benedicetur; confitebitur tibi cum benefeceris ei.

[19] Introibit usque in progenies patrum suorum; et usque in æternum non videbit lumen.

[20] Homo, cum in honore esset, non intellexit. Comparatus est jumentis insipientibus, et similis factus est illis.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XLVIII (1)

Esortazione a seguir la virtù e scampar dal vizio.

Per la fine; ai figliuoli di Core.

1. Udite queste cose, o nazioni quante voi siete; porgete le vostre orecchie, tutti voi abitatori della terra;

2. E voi di stirpe oscura, e voi di nobil lignaggio: il povero insieme ed il ricco.

3. La mia bocca parlerà sapienza, e la meditazione del mio spirito parole di prudenza.

4. Terrò intente le orecchie alla parabola; esporrò sul salterio il mio tema.

5. Per qual ragione sarò io timoroso nel cattivo giorno? l’iniquità dell’opere mie mi premerà d’ogni parte.

6. Cosi quelli che si confidano nella loro potenza, e si gloriano dell’abbondanza dì ricchezze.

7. Il fratello non riscatta, e un altr’uomo riscatterà? nessuno darà a Dio cosa atta a placarlo,

8. Né il prezzo di riscatto per l’anima sua: ed ei sarà eternamente nell’afflizione,

9. E tuttavia vivrà perpetuamente.

10. Non vedrà egli la morte, mentre ha veduto che muoiono i saggi? L’insensato e lo stolto perirà egualmente.

11. E lasceranno le loro ricchezze ad estranei; e i loro sepolcri saranno le loro case in eterno. E i loro tabernacoli per tutte le generazioni; diedero essi i loro nomi alle loro terre.

12. E l’uomo, posto in nobile condizione, ha avuto discernimento; è stato paragonatp ai giumenti senza ragione, ed è divenuto simile ad essi.

13. Questo far di costoro è per essi uno scandalo, e quelli che vengono dopo, si compiaceranno de’ lor dettati.

14. Sono stati messi nell’inferno a gregge, come le pecore; saran pascolo della morte. E i giusti, al mattino, avran dominio sopra di essi; e dopo la loro gloria ogni soccorso verrà meno per essi nell’inferno.

15. Iddio pero riscatterà l’anima mia dal potere dell’inferno, quando egli mi prenderà.

16. Non ti faccia specie, quando un uomo sia diventato ricco e sia cresciuta in gloria la casa di lui.

17. Imperocché, morto che sia, non porterà nulla seco, e non andrà dietro lui la sua gloria.

18. Imperocché sarà benedetta l’anima di lui, mentre ei viverà; ti loderà quando tu gli avrai fatto del bene.

19. Andrà fin laggiù a trovare la progenie dei padri suoi, e non vedrà lume in eterno.

20. L’uomo, posto in nobile condizione, non ha avuto discernimento; è stato paragonato ai giumenti senza ragione ed è divenuto simile ad essi.

(1) – Questo salmo molto difficile secondo il giudizio di tutti gli interpreti, sarebbe secondo M. Le Hir (Les Psaumes, etc.), uno di quelli della vulgata che si allontana in più punti dal testo ebraico. Noi non di meno siamo rimasti fedeli alla traduzione della Vulgata, ed il senso che essa presenta è stata la sorgente delle idee più belle e delle più serie considerazioni, come si potrà giudicare dagli estratti dei Santi Padri che noi qui riportiamo.

Sommario analitico

Il Profeta considerando la breve durata della potenza degli empi, il loro giudizio e la loro rovina eterna,

I. – Propone il soggetto che vuol trattare:

1° invita tutti gli uomini, di ogni nazione, di ogni classe, ad intenderlo (1);

2° eccita l’attenzione del corpo e dello spirito – a) per la natura del soggetto che sta per trattare: egli è pieno di saggezza e di prudenza e avviluppato da una oscurità misteriosa (3); – b) per la maniera con cui lo tratterà; egli lo propone dopo averlo meditato ed aver prestato orecchio a Dio che lo istruisce (4).

II. – Mostra che i ricchi empi debbano temere:

– 1° a causa della morte, a) quando i loro peccati li circonderanno e li accuseranno (5); b) quando le speranze che avevano riposte nelle loro ricchezze saranno annientate (6); c) quando nessuno prenderà le loro difese, né i loro parenti o i loro amici, né Dio irritato, né le loro ricchezze, ed occorrerà necessariamente subire l’impero della morte (7-11). 

– 2° A causa delle sequele della morte: – a) le loro ricchezze perdute (10); – b) i loro corpi vittime della corruzione della tomba (11); – c) le loro case passate ad altri proprietari; – d) il loro nome caduto nell’oblio con le loro terre (11).

3° A causa dei castighi che li attendono nell’inferno: – a) essi riceveranno la giusta punizione per i crimini enormi che hanno commesso: 1) privando il loro spirito della luce della ragione; 2) turbando la loro volontà e corrompendo le loro azioni (12); 3) glorificando la loro condotta criminale (13). – b) Essi saranno rigorosamente castigati: 1) dai demoni che li precipiteranno negli inferi come un vile capro; 2) dalla morte di cui saranno preda e che li divorerà (14).

III. – Egli dimostra come gli empi non siano da temere:

1° Né nell’altra vita, ove a) il dominio degli empi farà posto a quelli dei giusti (14); ove b) i giusti saranno liberati e riuniti a Dio (15);

2° Né in questa vita, ove: – a) essi hanno beni ed onori in abbondanza, ma dei quali non gioiranno a lungo e non oltre la tomba (16, 17); – b) essi riceveranno quaggiù gli elogi e le lodi degli adulatori, ma questi elogi e queste adulazioni non li salveranno né dalla morte né dalla dannazione, e non li eleveranno al di sopra degli animali ai quali sono divenuti simili (18-20).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1-4.

ff. 1, 2. – Il Re-Profeta sta per darci in questo salmo delle grandi e misteriose lezioni; egli infatti non inviterebbe il mondo intero per venire ad ascoltarlo, non sceglierebbe l’universo come teatro, se non avesse da farci conoscere delle grandi ed importanti verità, degne di essere insegnate ad una sì vasta assemblea. Non solo ai Giudei egli parla come Profeta, ma si indirizza come Apostolo, come Evangelista, all’intero genere umano. La legge non indirizzava i suoi insegnamenti che ad una sola nazione, in un solo angolo della terra; ma la predicazione evangelica si è diffusa su tutta le superficie del pianeta, si è estesa fino alle estremità del mondo abitato ed ha percorso tante contrade quante il sole ne ha illuminato con i suoi raggi. La lezione è solenne, l’insegnamento è grave: Dio raduna la terra intera, tutte le fortune, tutte le condizioni devono egualmente ascoltare (S. Bas.; S. Chrys.). – Dopo questo richiamo, egli reprime l’orgoglio che la vista della loro grande moltitudine poteva ispirare. E come reprime la loro vana sufficienza? Con il ricordo della loro comune natura. « Voi tutti che abitate la terra », e che nei vostri sogni orgogliosi, misconoscete la vostra origine, la vostra vita effimera, la vostra morte sempre pronta, le forme mortali della polvere alla quale devono rapidamente ritornare, senza distinzioni di onore e di fortuna: considerate cosa sia la vostra madre, e questa considerazione smorzi in voi ogni sentimento di orgoglio. Abbassate ed umiliate questi pensieri superbi, considerate che « … voi siete polvere e tornerete nella polvere » (Gen. III, 49), e così stornerete da voi ogni arroganza, ed ecco l’uditore che mi abbisogna. Io vorrei ispirarvi sentimenti di moderazione, per rendervi più idonei a comprendere le mie parole, « ricchi e poveri ». Voi vedete qual sia la nobiltà e la generosità della Chiesa. E come negare questa nobiltà, quando la differenza di condizione non è punto per essa un motivo di eccezione di persona tra i suoi discepoli, ma che noi vediamo spandere indistintamente la sua dottrina sul povero e sul ricco, per farli sedere entrambi ad una tavola comune? Dopo aver mostrato il legame che li unisce, cioè l’aver mostrato la terra come origine comune, l’essere tutti figli degli uomini ed avere una medesima natura, occorre vedere che la distinzione che fuoriesce dalla differenza delle condizioni sociali sia nulla, chiamati come sono tutti indistintamente ad ascoltare le sue parole. Io vi invito tutti in generale, poiché noi abbiamo tutti una comune natura, perché la terra intera è la nostra comune città. Voi avete introdotto ancora un’altra distinzione, e con questa, un’altra ineguaglianza, fondata sulla povertà e la ricchezza; io le respingo ugualmente: io non ammetto che i ricchi respingano i poveri, e non ammetto affatto che i poveri respingano i ricchi, io li convoco tutti senza distinzione, e nel richiamo che faccio loro, non c’è né primo né ultimo: tutti sono chiamati nello stesso tempo. L’assemblea, il discorso, gli uditori, tutto è comune. Voi siete ricco, ma non siete uscito che dallo stesso fango, ed avevo avuto lo stesso ingresso nel mondo, la stessa origine del povero: voi siete figlio degli uomini, egli lo è ugualmente. Dappertutto allora io cerco inutilmente questa uguaglianza tra il ricco ed il povero: essa non esiste né nei tribunali, né nei palazzi, né nelle riunioni politiche, né nei banchetti; qui il ricco è onorato, il povero non raccoglie che disprezzo; l’uno ha ogni libertà, l’altro è coperto di onta. In questa assemblea non è affatto così: io non voglio queste distinzioni insensate, e propongo a tutti una dottrina comune (S. Chrys.). – Tutti sono semplicemente chiamati, perché la sorgente della saggezza è aperta abbondantemente a tutti; non la si compra affatto col denaro, perché essa è senza prezzo, superiore a tutti i tesori della terra. Così il ricco non è allontanato, il povero non è escluso; poiché la saggezza non distingue lo stato di fortuna, ma le volontà; essa non dà preferenza che a colui che è primo per l’afflizione del cuore e più vicino per la regolarità della vita (S. Ambr.).

ff. 3, 4. – Dopo aver detto: « la mia bocca pronuncerà delle parole di saggezza », per farvi comprendere che ciò che esce dalle sue labbra prende origine nel suo cuore, egli aggiunge: « … e dalla meditazione del cuore uscirà l’intelligenza » (S. Agost.). – Secondo la dottrina dell’Apostolo, « bisogna credere col cuore per ottenere la giustizia, e confessare con la bocca per ottenere la salvezza » (Rom. X, 10), e questi due atti uniti formano la perfezione. È per questo che il salmista aggiunge qui l’azione della bocca alla meditazione del cuore; perché se il bene non esiste dapprima in fondo all’anima, come colui che non possiede il buon tesoro nel segreto del suo cuore, potrà produrlo all’esterno con la sua bocca? (S. Bas.). – Il dottore che insegna agli altri non deve essere che l’organo della sapienza di Dio. Egli non deve dire niente che non abbia a lungo meditato nel fondo del suo cuore, e prima che scopra loro quel che vuole proporre, deve aver cura di rendere egli stesso le sue orecchie attente alle lezioni dello Spirito Santo, cioè a tutti i misteri della sua verità, coperti dai veli dell’allegoria (S. Bas.). – « … Io presterò orecchio alle parabole ». Ma dov’è il legame con ciò che precede? In luogo di un dottore, io vedo ora un discepolo. Voi ci chiamate per venire a ricevere degli insegnamenti utili e, quando abbiamo tutti risposto al vostro appello e siamo tutti riuniti intorno a voi, dopo averci promesso di farci ascoltare le parole di saggezza, in luogo di tenerci questo linguaggio, voi lasciate l’ufficio di dottore per prendere quello di discepolo: « Io presterò – egli dice – l’orecchio per ascoltare le parabole. » Cosa significano queste parole? Esse sono perfettamente in rapporto con ciò che le precede. Io voglio – egli ha detto – farvi intendere il linguaggio della sapienza, ma non immagini nessuno che sia un linguaggio umano, e che questa meditazione del mio cuore sia un’invenzione personale. Le parole che state per ascoltare sono divine; io non dirò nulla da me stesso e non vi trametterò se non gli insegnamenti che io stesso ho ricevuto. Io ho inclinato il mio orecchio per intendere le parole di Dio, e sono queste parole discese dal cielo nella mia anima che devo fare intendere tutte a mia volta. È ciò che Isaia esprimeva in questi termini: « Il Signore mi ha dato un linguaggio sapiente per distinguere il tempo in cui io devo parlare, ed ha preparato il mio orecchio per ascoltarlo » (Isai. L, 4; S. Chrys.). – Non siate dunque sorpresi da questa espressione. « La meditazione del mio cuore ». Il Re-Profeta meditava continuamente gli insegnamenti che aveva ricevuto dallo Spirito-Santo, e li ripassava nella sua anima, e solo dopo lunga meditazione li trasmetteva agli altri. (S. Chrys.). – Il predicatore può raccogliere qui delle lezioni molto importanti: – 1° Egli deve predicare la saggezza di Dio contenuta nelle sante Scritture, e non negli insegnamenti di una saggezza tutta umana. – 2° Se egli vuole che Dio lo riempia di questa saggezza, occorre che la distribuisca al popolo. Una sorgente che non si spande si corrompe e si esaurisce, ma al contrario più essa si espande, più diviene abbondante e pura. – 3° La meditazione è la madre della prudenza: essa è indispensabilmente necessaria al predicatore per riempire il suo spirito di luce divina, e fare che non gli sfugga alcuna parola imprudente o temeraria nel corso dei suoi insegnamenti.

II. — 5-14.

ff. 5. – Il giorno del giudizio: « giorno di collera, giorno di tristezza e di spasimi del cuore, giorno di afflizione e di miseria, giorno di tenebre ed oscurità, giorno di nubi e di tempeste »; in una parola: « Giorno cattivo », particolarmente per « coloro che si trovano avvolti nell’iniquità delle loro vie » (Dug.). Nei giudizi degli uomini, si può temere la seduzione, la frode, l’insidia, ma nel giudizio di Dio la sola cosa che sia spaventevole, è il trovarsi invischiati nel peccato. E perché il peccato è così terribile in questo momento? È perché esso condanna il peccatore alle pene eterne dell’inferno. (S. Chrys.). – Questo cattivo giorno, è il giorno della morte, il giorno del giudizio, nel quale ciascuno sarà come circondato dai suoi pensieri e dalle sue azioni. Se il dire spesso: « verrà per me un giorno cattivo nel quale alla mia apparente tranquillità della vita presente succederanno il dolore e l’angoscia, in cui il mondo sparirà tutto ad un tratto dai miei occhi, con tutte le sue illusioni che hanno così spesso abusato del mio spirito, e mi lascerà da solo di fronte alla morte. Che avrò allora da temere? Le tracce dell’iniquità che si sono attaccate alle mie vie. Durante questa vita essa mi seguiva, si nascondeva sotto le mie vie. In questo giorno funesto essa si svelerà e diventerà per la mia anima una veste che la circonderà da ogni parte. Non si presenterà alcun accusatore se non le opere della vostra vita, ciascuna con il proprio carattere e con le circostanze distintive » (S. Bas.).

ff. 6. – Il profeta non biasima qui il possesso della potenza e delle ricchezze, ma soltanto la falsa fiducia dei potenti e dei ricchi del secolo, che non conoscono come veri beni se non quelli della vita presente, come vere gioie, se non quelle dei piaceri della terra, che immaginano che le loro ricchezze siano sufficienti, che non serva loro nessun’altra redenzione, che la loro gioia sarà interminabile ed il loro avvenire assicurato. Il salmista ci insegna di conseguenza ad intravedere, nell’acquisizione ed nel possesso dei beni temporali, la fine dei nostri giorni, alfine di non dare a questi beni l’importanza che essi non meritano. Colui che pensa alla morte arricchisce senza ambizioni e possiede senza orgoglio; egli sa che un giorno lo splendore inseparabile dall’opulenza svanirà, e ricorda l’esempio di tanti ricchi che sono entrati nella notte della tomba, e hanno portato con sé se non ciò che non è stato rifiutato al più miserabile dei mortali, un sudario, una bara e sei piedi di terra. Il ricco pieno di questi pensieri cerca di osservare i precetti dell’Apostolo (Tim. VI, 17-19): di non essere orgoglioso, di non porre la sua fiducia nelle ricchezze incerte, ma nel Dio vivente, che ci dà con abbondanza ciò che è necessario alla vita; di essere caritatevole e benefattore, ricco in buone opere, di dare di buon cuore, di far parte dei propri beni i poveri, a farsi così un tesoro ed un fondamento solido per l’avvenire al fine di abbracciare la vera vita (Berthier).

ff. 7, 9. – Ci sono di coloro che presumono dei loro amici, di coloro che presumono dei loro fratelli, ed altri delle loro ricchezze. È la presunzione di ogni uomo che non mette in Dio solo la sua fiducia. Ciò che è detto della forza personale, quello che è detto delle ricchezze, è detto egualmente degli amici: « … se il fratello non redime suo fratello, un uomo forse lo redimerà? » Aspettate forse che un uomo vi riscatti dalla collera che giungerà? Se non vi riscatta un vostro fratello, vi potrà riscattare mai un uomo? (S. Agost.). – Dov’è qui la sequenza delle idee? Essa non potrebbe essere più stretta e lampante. Il Re-Profeta parlava del giudizio, del terribile conto che dobbiamo rendere, e di questa sentenza che niente può corrompere. Ora, come nei giudizi della terra ci sono molti che hanno corrotto la giustizia e che sono sfuggiti al supplizio comprando i giudici in cambio di denaro, egli proclama che la giustizia divina è inaccessibile ad ogni corruzione, ed accresce il timore che ha cercato di inspirare dimostrando di aver avuto ragione nel dire che non c’era che una sola paura legittima: quella che viene dal peccato! Perché davanti a questo tribunale, la giustizia non può essere corrotta al prezzo di denaro, le regalie non possono liberare dai supplizi dell’inferno, e non c’è protezione, né eloquenza, né alcun altro mezzo capace di salvarci. Sia che siate ricco, potente, o conosciuto da personaggi influenti, tutto questo sarà inutile: solo le vostre opere saranno qui la causa del vostro castigo o della vostra ricompensa (S. Chrys.). – Nessuna creatura è capace di riparare l’ingiuria infinita che è stata fatta a Dio con il proprio crimine. I teologi lo provano molto bene con ragioni invincibili; ma è sufficiente dirvi che è una legge pronunziata in cielo e resa nota a tutti i mortali dalla bocca del santo salmista: « nessuno può riscattare se stesso, né rendere a Dio il prezzo della propria anima! ». Egli può sottomettersi alla sua giustizia, ma non può ritirarsi dalla sua servitù (Bossuet, II Serm. Pour le Vendredi-Saint). – Il pensiero del Profeta è lo stesso di Gesù-Cristo nel suo Vangelo: « … Che darà l’uomo in cambio della sua anima? » Il mondo intero stesso non sarà sufficiente a suo riscatto (S. Chrys.). – In questo momento decisivo per la nostra eternità, nessuna protezione, nessun favore, nessuna opulenza, nessuna sapienza puramente umana potranno costituire un prezzo di riscatto. Solo l’uomo arricchito dalle buone opere potrà comparire con sicurezza presso il tribunale del Giudice sovrano (Berthier). – Dopo che l’anima sarà separata dal corpo, essa continuerà a vivere, perché essa non perirà con il corpo, ma le sarà conservata la vita per soffrire, fino a che, riunita di nuovo al suo corpo, essa sarà sprofondata con esso nei tormenti eterni. (S. Agost. – S. Girol.).

ff. 10. – Egli non comprenderà ciò che è la morte quando vedrà il saggio morire. Egli dice in effetti a se stesso: colui che era saggio, nel quale abitava la saggezza e che praticava la pietà verso Dio, non è forse morto? Allora io mi tratterò bene finché vivrò, perché se coloro che avevano altri gusti possedevano qualche potere, essi non sarebbero morti. Egli vede morire il saggio, e non vede ciò che cosa sia la sua morte (S. Agost.). – È l’accecamento deplorevole, ma ordinario dei ricchi attaccati ai beni di questo mondo. Essi vedono tutti i giorni i giusti, che sono i veri saggi, morire davanti a loro, e non credono che questa morte li riguardi. Essi la guardano in qualche modo, senza vederla, e così non lasceranno di perire per l’eternità (Duguet). – « L’imprudente e l’insensato periscono insieme ». Chi è l’imprudente? Colui che non sa provvedersi per l’avvenire. Chi è l’insensato? Colui che non comprende il cattivo stato in cui si trova. Quanto a voi, cercate di comprendere in quale posizione cattiva vi trovate, e sappiate per l’avvenire portarvi verso una posizione più felice. Comprendendo il vostro stato spiacevole, non sarete più insensato; prevedendo il vostro avvenire, non sarete più imprudente (S. Agost.). – Sembra che il Profeta consideri maledetti coloro i cui beni passano in mane estranee: quindi è felice colui che li lascia ai propri figli. Io vedo in effetti morire molti malvagi che hanno come successori i loro figli, e la scrittura non ha potuto eliminare, nelle sue parole, ogni idea di sofferenza da coloro dei quali riprova la vita; così, non pensate che ritenga che ogni malvagio lasci le proprie ricchezze a degli estranei? Come i figli di un uomo possono essere degli estranei per lui? I figli dei malvagi sono degli estranei per essi; perché noi troviamo che un estraneo sia divenuto il prossimo di un uomo solo per essergli stato utile. Se una dei vostri non vi serve a nulla, egli è un estraneo per voi. Perché il Profeta dice « … a degli estranei », benché siano dei figli ed eredi naturali? Perché questi eredi non possono essere utili in nulla, anche nelle cose che sembrano essergli utili (S. Agost.).

ff. 11. – Il Profeta dà alle loro tombe il nome di « case », perché esse sono dei veri edifici; infatti voi sentite il ricco dire: … io ho una casa di marmo che dovrò lasciare, e non penso a costruirmi la casa eterna che non lascerò mai. Quando egli pensa di costruirsi una tomba marmorea, riccamente scolpita, la concepisce come una dimora eterna, come se in essa dovesse abitarvi. Se egli vi restasse, non sarebbe bruciato negli inferi. Bisogna pensare al luogo ove dimora lo spirito di colui che fa il male, e non al luogo ove si depone il corpo materiale (S. Agost.). – In effetti il nome degli empi non è scritto nel libro dei viventi, non è contato nell’assemblea dei primogeniti che sono scritti nei cieli; ma siccome essi hanno preferito in questa vita breve e passeggera i tabernacoli eterni, i loro nomi dimorano nelle loro terre. Non vedete dunque che coloro che costruiscono città, piazze pubbliche, edifici, acquedotti, che tracciano strade, dànno i loro nomi a queste costruzioni? (S. Bas.). – « Essi hanno dato i loro nomi alle loro terre perché le loro opere erano corruttibili e terrestri »; i loro nomi sono dunque iscritti là dove essi hanno preferito vivere (S. Ambr.). – « Essi hanno dato i loro nomi alle loro terre », essi dànno i loro nomi e i loro titoli alle loro dimore, alle loro proprietà, ai loro luoghi. Questa vana soddisfazione è per essi di gran consolazione, e perseguono così l’ombra, invece della verità. Se volete immortalare il vostro ricordo, o uomo, non iscrivete il vostro nome o i vostri titoli sulle vostre case, ma elevate trofei composti dalle vostre buone opere, che preserveranno quaggiù il vostro nome dall’oblio, e vi meriteranno nella vita futura un riposo eterno. Questi monumenti al contrario, non solo non vi daranno alcuna celebrità, ma faranno di voi l’oggetto di risate generali e perpetueranno, nel corso dei tempi, il ricordo della vostra avarizia (S. Chrys.). – Gli adoratori delle grandezze umane saranno forse soddisfatti della loro fortuna quando vedranno che in un momento la loro gloria passerà al loro nome, i loro titoli alle loro tombe, i loro beni a degli ingrati e le loro dignità forse a coloro che li invidiano? (Bossuet, Or. fun. de la Duch. D’Or.).

ff. 12. – Che parole sanguigne contro gli uomini che non hanno compreso l’uso che dovevano fare delle loro ricchezze durante la loro vita, e si credevano felici per sempre, possedendo come dimora eterna una ricca tomba di marmo, e se i loro figli, eredi dei loro beni, avessero dato il loro nome alle loro terre. Il loro nome è iscritto sulle loro terre, ma è un nome senza calore e senza vita. Essi dovevano al contrario prepararsi, con le loro buone opere, una casa eterna, acquistare una vita immortale, farsi precedere dalle loro ricchezze, non entrare nella loro eternità se non con le buone opere. Ciò che non ha compreso l’uomo elevato da onori, cioè fatto ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo elevato ad un rango molto superiore a quello degli animali (S. Agost.). – Ecco dunque che è così che Dio punisce l’infedeltà di coloro che, essendo stati rigenerati dal Battesimo cristiano, essendo investiti dalla luce rivelata, avendo conosciuto infine Dio mediante il Vangelo del Figlio suo Gesù-Cristo, non vogliono di conseguenza glorificarlo…  Troppo spesso, dei gaudenti orgogliosi, dalla ragione fiera ed indipendente, cadono fino a grossolane voluttà. Non volendo slanciarsi fino alle regioni pure e serene alle quali li conduce la fede, essi scivolano nella direzione in pendenza, il preteso saggio cede alle passioni dell’ignominia; e colui che in pubblico proclama le massime più severe nell’ordine morale, ricadendo su se stesso, sporca il proprio corpo con il peccato, la sua anima con i cattivi desideri, ed a volte la mani con l’iniquità. E così si compie la parola del Salmista: « … l’uomo costituito in gloria, non ha compreso la propria dignità »; egli è caduto e nella propria caduta non ha potuto arrestarsi in una regione intermedia impossibile da abitare: « … egli è caduto fino al livello delle bestie che non hanno intelletto, ed è divenuto simile a loro », ed avendo vissuto della vita dei sensi, è stato trovato degno di morte, che consiste anche nella pena eterna del senso colpevole (Mgr. Pie, Inst. sur. les princip. erreurs, etc., t. II, p. 441). – L’uomo, l’immagine di Dio, quest’uomo marchiato dal sigillo di Dio, quest’uomo al di sopra della bestia per il dono dell’intelligenza e per il raggio della luce che Dio gli ha comunicato, dimenticando il carattere della sua grandezza, si è vergognosamente degradato da sé medesimo; si è ridotto al rango dei bruti insensati, e come? Per un vergognoso asservimento alla carne! (Bourd., Sur le Temp. chrét.). – Quando l’uomo si fa prendere dall’ambizione, è un uomo che pecca, ma pecca come un Angelo, e perché? Perché l’ambizione è un peccato tutto spirituale e di conseguenza, è proprio degli Angeli. Quando egli soccombe all’avarizia ed alla tentazione dell’interesse, è un uomo che pecca, che pecca da uomo, perché l’avarizia è uno sconvolgimento della lussuria che non riguarda che l’uomo. Ma quando si abbandona ai desideri della carne, egli pecca da bestia, perché segue il movimento di una passione predominante nelle bestie. Ora, se pecca da bestia, non ha più la luce dello spirito che lo distingue dalle bestie, è degradato dalla sua condizione, ed è anche al di sotto della condizione delle bestie, perché tra le bestie e lui non c’è alcun’altra differenza, se non che egli è criminale nel suo comportamento, cosa che le bestie non possono essere. È il ragionamento di San Bernardo, e l’esperienza lo giustifica tutti i giorni, perché noi vediamo questi uomini schiavi della loro sensualità, nel momento in cui la passione li sollecita, chiudere gli occhi a tutte le considerazioni divine ed umane. Non convengono più di cose di cui essi erano precedentemente persuasi, non credono più in ciò in cui essi credevano, non credono più in niente di ciò che temevano, non sono più capaci di rimostranze. Agire senza regole e senza condotta, è divenire brutali ed insensati (Bourd., Sur l’impur). – Il Re-Profeta dice che il peccatore si porta al livello delle bestie senza intelligenza. Ma, diciamolo con forza, per certi eccessi di crimini ai quali l’uomo si abbandona, l’espressione è troppo debole. Sì, egli è ancora più in basso, in un abisso più oscuro, in un fango più ignominioso, e discende più in basso del bruto, tenuto dal suo istinto nei limiti che la sua destinazione e le sue funzioni gli hanno fissato.

ff. 13. – Questa strada per la quale essi marciano, queste cure frettolose, questi vani lavori, questa passione insensata per le ricchezze, questo amore insaziabile di gloria e di piaceri, ecco che, prima dei castighi dell’altra vita, divengono per essi quaggiù, occasione di scandalo e di rovina; « … questa via è per essi occasione di scandalo », cioè si incatenano da se stessi e creano degli ostacoli che impediscono loro di avanzare (S. Chrys.). – Questi attaccamenti eccessivi ai beni ed ai godimenti della terra è pietra d’inciampo per essi, perché questo attaccamento fa loro compiere delle cadute continue. Un ricco stordito dalla sua opulenza, non si rifiuta nessuna soddisfazione, e piomba in tutti gli eccessi che la passione gli suggerisce (Berthier). « … E non tralasciano di compiacersene ». Ecco per essi il colmo del dolore e la causa di ogni altro male. Coloro che si rendono colpevoli di questi vizi, si proclamano felici e degni di invidia, si compiacciono delle loro azioni malvagie, si gloriano dei loro smarrimenti e si vantano di ciò di cui dovrebbero umiliarsi (S. Chrys.). La loro indifferenza è ai loro occhi quasi una grandezza d’animo, la loro incredulità una prova di forza di spirito. La follia del loro linguaggio eguaglia la follia della loro condotta, « … Essi si compiacciono nelle loro parole » (S. Chrys.).

ff. 14. – « Essi sono come le pecore poste nell’inferno; la morte sarà il loro pastore ». Di chi la morte è il pastore? Di coloro che non hanno voluto Gesù-Cristo come pastore (S. Ambr.); di coloro per i quali la vita è occasione di caduta. Di chi ancora? Di coloro che non si preoccupano che del presente ed affatto dell’avvenire; di coloro che non curano che questa vita, la quale a buon diritto è chiamata col nome di morte. Non è dunque senza ragione che, simili a pecore rinchiuse nell’inferno, essi hanno la morte come pastore (S. Agost.). – Essi sono divenuti simili alle bestie, e saranno trattati come bestie. Essi saranno precipitati nell’inferno con la stessa facilità con la quale un pastore fa entrare le sue pecore nell’ovile; la morte li divorerà con la stessa facilità con cui un lupo affamato divora una pecora; essi saranno la preda eterna della morte, senza essere mai consumati, essendo, secondo la parola del Figlio di Dio (Marco, IX, 47), salati con questo fuoco come vittime eterne della divina giustizia (Duguet). – « … Essi saranno avviati come pecore ». Quale caduta per questi uomini così arroganti, sì fieri, sì dominatori. Essi regnano, essi sono opulenti, occupano i posti elevati, le loro volontà sono leggi, tutto si inchina davanti alla loro parola, tutto cede al loro potere assoluto; poi tutto ad un tratto, la morte li sconvolge, la morte diventa loro pastore; essa li caccia, li conduce senza resistenza, li dirige con tutti gli altri nella tomba. « Ed i giusti domineranno su di essi, quando sarà venuto il mattino »; questo vuol dire che la morte non sarà sola a dominarli: i giusti li domineranno prontamente e per sempre, e non avranno perciò bisogno né di tempo, né di sforzi, né di attesa; perché è nella natura delle cose che il vizio subisca l’impero della virtù che teme e da cui è terrorizzato, malgrado il trucco da cui è ricoperto ed i suoi numerosi camuffamenti, e quand’anche la virtù sarà spogliata dalle sue brillantezze esterne e ridotta alle sue proprie forze (S. Chrys.). – « I giusti saranno i loro dominatori, quando sarà giunto il mattino ». Lasciate passare la notte con pazienza, desiderate il mattino. Non crediate che la notte possegga la vita, e che il mattino non la possegga. I giusti ozieranno ancora nella loro sofferenza, ma perché? Perché è ancora notte. Che vuol dire: è notte? Il meriti dei giusti non appaiono, e non si parla per così dire che della felicità degli empi. L’erba sembra più bella dell’albero finché dura l’inverno. In effetti l’erba cresce durante l’inverno, mentre l’albero è come disseccato; ma quando al ritorno dell’estate, il sole produce il suo calore, l’albero che in inverno sembrava arido, si copre di foglie e produce i suoi frutti, mentre l’erba risecca; allora vedrete l’albero in tutta la sua bellezza, mentre l’erba è arida. Così i giusti soffrono finché non arriva l’estate. La vita è rinchiusa nella radice, e non sembra apparire nei rami. Ora la nostra radice è la carità. È notte, non si vede ancora cosa possediamo. Le nostre mani non siano dunque inattive nelle buone opere … il nostro lavoro apparirà al mattino, e con lui, al mattino, appariranno i frutti di questo lavoro, di modo che coloro che soffrono ora avranno allora il riposo, e coloro che ora si vantano e si inorgogliscono, saranno allora nella dipendenza (S. Agost.). –

« Ed il loro supporto invecchierà nell’inferno », cioè sarà ridotto all’estrema debolezza. Non solo saranno facilmente vincibili, in assenza di ogni soccorso ed appoggio, e saranno esposti ai colpi di tutti i loro nemici, ma non troveranno nessuno che li difenda, che porti loro soccorso, che tenda loro una mano e li consoli in mezzo alle sofferenze (S. Chrys.). – « … E la forza che era il loro soccorso invecchierà nell’inferno, dopo la gloria di cui avranno goduto ». Ora essi possiedono la gloria, ma invecchieranno nell’inferno. E qual era questa forza che faceva loro da soccorso? Il soccorso del loro denaro, dei loro amici, della loro potenza (S. Agost.).

III. 15-20.

ff. 15. – Ascoltate la voce di colui che spera nell’avvenire: « … ma Dio riscatterà la mia anima ». Forse è la voce di un uomo che desidera essere liberato dall’oppressione? Un uomo chiuso in prigione grida: « Dio riscatterà la mia anima ». E che dice ancora un uomo esposto ai pericoli del mare, sballottato dai flutti e da una tempesta furiosa? Dio riscatterà la mia anima. La liberazione che essi chiedono non concerne che questa vita. Tale non è il pensiero del Profeta: « Dio, egli dice, riscatterà la mia anima dalle potenze dell’inferno, quando mi avrà ricevuto ». Egli parla della redenzione di Cristo (S. Agost.). – « Il fratello non riscatta suo fratello, ha detto in precedenza, l’uomo estraneo forse lo riscatterà? » Ma Gesù-Cristo ci ha riscattato veramente dalla maledizione della legge (Gal. III, 13). Noi abbiamo la redenzione dal suo sangue, e con essa la piena remissione dei peccati (Efes. I, 7). Ecco dunque il fatto positivo, effettivo, della redenzione del genere umano in Gesù-Cristo: liberazione, guarigione, riscatto e remissione del peccato con il suo Sangue. – Io so, dice il Profeta, che il mio corpo dovrà entrare nella tomba, e che non ci sarà in questo nessuna differenza tra i peccatori e me; ma io so che il Signore salverà la mia anima, questa parte così essenziale di me e che la prenderà sotto la sua protezione. Io so che essa ha meritato la morte eterna allontanandosi dalle vie della giustizia; ma io ho un Redentore che ha pagato la mia cambiale, ed è in questo prezzo inestimabile che metto la mia speranza (Berthier).

ff. 16. – Perché dirvi: « non temete? » – « Perché quando egli morirà non porterà con sé tutti i suoi beni ». Voi lo vedete mentre egli vive; pensate a ciò che sarà quando morirà. Voi notate ciò che ora possiede, ma rimarcate anche ciò che porterà con sé. Cosa porterà con sé? Egli ha molto oro, molti soldi, molte terre e molte aziende; egli muore e lascia tutti i beni senza sapere a chi; perché se li lascia a chi vuole, non li conserva a chi vuole. Tutte queste cose restano dunque e cosa porta con sé? Egli porta con sé, direte voi, elevare una ricca tomba di marmo, destinata a perpetuare la sua memoria; ecco cosa porta con sé. Ed io gli rispondo: neanche questo porta con sé, perché queste cose sono date ad un essere insensibile … l’uomo alla morte non porta con sé tutti i suoi beni, e non porta nemmeno ciò che è dato alla sua sepoltura; perché dove c’è sensibilità, là c’è l’uomo; ove non c’è sensibilità, non c’è l’uomo. A terra è steso il vaso che conteneva l’uomo, la casa che racchiudeva l’uomo. Noi possiamo chiamare il corpo la casa dell’uomo e lo spirito l’abitante della casa. Lo spirito è tortutato negli inferi; a cosa gli serve il corpo avvolto in preziose lenzuoli, che riposa su profumi ed aromi? (S. Agost.). – La fortuna dei ricchi ispira spesso terrore, quasi sempre la gelosia, ma è un’illusione. Aspettate, dice S. Crisostomo, la morte viene, taglia fino alla radice e l’albero cade con tutti i suoi rami. Allora colui che aveva ammassato tanti tesori, che aveva tanti domestici a suo servizio, che possedeva tanti terreni, tante case, se ne va solo, nessuno lo accompagna; egli non porta neanche gli abiti di cui era coperto, e lascia ai vermi un cadavere ripugnante come cibo (S. Chrys.). – Meditate la forza di questa espressione: « la sua gloria non scenderà con lui ». La gloria del secolo non discende con il peccatore, ma la gloria della virtù sale con l’innocente. E per riassumere, la gloria dell’uomo sale con colui che sale e non discende con colui che scende. Quanto è il frutto della grazia e della virtù sale. Si sale in paradiso, si discende nell’inferno (S. Ambr.).

ff. 17. – È a coloro che lo spettacolo dell’ineguale distribuzione dei beni di questa vita scandalizza e fa talvolta dubitar questa potenza e del governo provvidenziale di Dio, particolarmente a coloro che quaggiù hanno come porzione le privazioni e la povertà, che il Salmista si indirizza qui: « non temete se vedete un uomo divenuto ricco ». I poveri in effetti, hanno soprattutto bisogno di consolazione e di incoraggiamento per non temere coloro che sono ricchi e potenti. Queste ricchezze, questa potenza non saranno loro di nessuna utilità, poiché non potranno portarle con essi; il solo beneficio che ne ricaveranno, sarà quello di essere considerati felici quaggiù dai loro adulatori. Ma alla morte lungi dal portare con sé tutta questa opulenza, avranno con sé appena un sudario per coprire il loro cadavere, ed ancora saranno alla mercè dei servitori che li seppelliranno. Sarà già molto per essi se si accorda loro un piccolo pezzo di terreno, per una commiserazione e per un certo ripetto per la nostra comune natura. Non abbiate dunque timore alcuno alla vista di queste cose presenti, ma attendete la vita eterna e felice. Allora vedrete la povertà, l’ignominia e la privazione delle gioie di questa vita, divenute per il giusto una fonte di felicità; voi sentirete il Signore dire al ricco: « voi avete ricevuto i beni durante la vostra vita » (Luc. XVI, 25), mentre voi poveri non avete che ricevuto male ed ora voi sarete consolati ed il ricco tormentato (S. Bas.).

ff. 18. – I ricchi cercheranno con alacrità gli applausi del popolo, gli sguardi e le attenzioni della moltitudine, le lodi del pubblico, gli elogi mentitori della folla. Essi stimano essere al colmo del benessere quando sono applauditi al loro ingresso in teatro, ai banchetti, ai tribunali; quando sentono il loro nome ripetuto da bocca a bocca, quando sono considerati oggetto di invidia. Ma vedete ancora come il Re-Profeta tolga ogni valore a queste gioie, a causa della loro breve durata. Durano la sua vita, egli dice, vale a dire che questo sguardi, queste lodi non vanno al di là di questa vita; esse spariscono con tutti gli altri beni, anch’essi di natura passeggera e deperibili. Ma ancora, a questi elogi puramente gratuiti succedono spesso dei sentimenti completamente opposti, quando la morte ha fatto cadere la maschera del terrore: “egli vi loderà quando gli farete del bene”. Vedete come ol Re-Profeta condanna finanche i loro benefici. Voi li lusingate, prodigate loro ogni sorta di onori, affettando per tempo sguardi esteriori e menzogneri. Essi ve ne saranno riconoscenti, compreranno da voi ben caro, il diritto di dettarvi ciò che a loro aggrada. Tale è il senso di queste parole: « egli vi loderà quando voi gli avrete fatto del bene ». Egli non dice: quando avrete per lui qualcosa di utile, quando gli avrete reso un servizio, ma: quando avrete fatto quel che a lui aggrada; azione che rende doppiamente colpevole e le testimonianze menzognere di riconoscenza ed i servizi pericolosi che ne sono la causa (S. Chrys.). « Perché la sua anima riceverà la benedizione durante la sua vita ». Finché è vissuto è stato bene. Tutti gli uomini parlano così, ma non è vero. Questo bene era nel pensiero di colui che credeva di trattarsi bene, ma non era così! Cosa dite in effetti di questo ricco? Che egli ha mangiato ed ha bevuto, che ha fatto tutto ciò che ha voluto, che si è compiaciuto nei suoi splendidi festini; che di conseguenza è vissuto bene? Io invece dico: egli si è fatto del male, e non sono io che lo dico ma il Cristo. Egli si è fatto del male. In effetti, questo ricco, ogni giorno si compiaceva dei suoi ricchi festini, credendo di farsi del bene; ma quando ha cominciato a bruciare negli inferi allora ha trovato che quel che credeva essere un bene, era al contrario del male … perché ciò che aveva mangiato sulla terra, lo doveva digerire negli inferi. Io parlo dell’iniquità che egli mangiava, dalla bocca del suo corpo, egli mangiava dei cibi di grande valore; dalla bocca del suo cuore, mangiava l’iniquità. Ciò che aveva mangiato sulla terra con la bocca del suo cuore, egli lo digerisce ora nei supplizi dell’inferno; e ciò che aveva mangiato in modo tutto passeggero, lo doveva digerire con dolori atroci in eterno (S. Agost.).

ff. 19, 20. –  « Egli entrerà nei luoghi della dimora dei suoi padri » ; vuol dire che egli imiterà i suoi vizi e riceverà l’eredità della loro perversità, come ha ricevuto da essi l’eredità della vita (S. Chrys.). – « Egli prenderà posto nella discendenza dei suoi padri », cioè imiterà i suoi padri. I malvagi di oggi hanno dei fratelli e dei padri; i malvagi dei secoli passati sono i padri del malvagi di oggi, e coloro che oggi sono i malvagi, saranno i padri dei malvagi avvenire (S. Agost.). – Razza di empi e riprovati che si saldano l’un l’altro e spesso cieca. Queste guide cieche cadono alfine dopo essi negli abissi delle tenebre (Dug.). – « E per tutta l’eternità non vedrà la luce ». Anche quando viveva quaggiù egli era nelle tenebre, ponendo la sua gioia nei falsi beni, non avendo amore per i veri beni, ed è per questo che, all’uscita da questo mondo, andrà nell’inferno, e dalle tenebre di questo sonno, passerà nelle tenebre dei supplizi. Perché questa sorte spaventosa? Il profeta ridice qui, alla fine del salmo, ciò che aveva già detto prima. « L’uomo nella prosperità non comprende, etc. » (S. Agost.).

ESAME DI COSCIENZA (2) – S. Alfonso Rodriguez

TRATTATO VII. (2)

CAPO VI.

Che non si deve mutar facilmente la materiadell’esame particolare; e quanto tempo starà bene il farlo sopra la stessa cosa.

Bisogna qui avvertire, che non abbiamo da mutar facilmente la materia dell’esame, prendendo ora una cosa ed ora un’altra; perché questo è un andare, come si suol dire, raggirandosi, e non far viaggio; ma abbiamo da procurare di proseguir una cosa sino al fine, e poi mettersi dietro ad un’altra. – Una delle cagioni per cui alcuni cavano poco frutto dall’esame particolare, suol essere questa; perché non fanno altro, per così dire, che dare certi furiosi assalti, facendo l’esame sopra una cosa per otto o quindici giorni, o per un mese, e subito si straccano e se ne passano ad un’altra, senza aver conseguito quello che pretendevano nella prima: e così danno un impetuoso assalto, e poi un altro. Siccome uno che pigliasse per impresa il tirar su per le coste d’un monte fino alla cima di esso una pietra grossa, e dopo averla tirata su un pezzo si straccasse, e libera la lasciasse rotolare sino al basso, e di poi tornasse una e più altre volte a fare l’istesso; giammai, per molto che s’affaticasse, non finirebbe di collocare la pietra nel luogo preteso; così avviene a coloro i quali cominciano a far l’esame d’una cosa, e prima di condurla al fine e di conseguire il primo intento, la lasciano, e ne pigliano un’altra e poi un’altra. Questo è straccarsi e non finir mai: Semper dìscentes, et numquam ad scientias veritatis pervenientes (II. ad Tim. III, 7). Questo negozio della perfezione non si acquista per via di certi impeti furiosi che presto finiscono; ma bisogna con molta perseveranza insistere e pigliare a petto prima una cosa e poi l’altra, facendo sforzo sino a riuscire con essa, ancorché ci costi assai. Il beato S. Gio. Crisostomo (D. Chrys. hom. 5 sup. Gen.) dice: Siccome quei che scavano cercando qualche tesoro, o qualche miniera d’oro o d’argento, non lasciano di scavare, di buttar fuori la terra, e di levare via tutti gl’impedimenti che trovano, e di affondar otto o dieci pertiche, sino al trovare il tesoro che cercano; così noi altri, che cerchiamo le vere ricchezze spirituali e il vero tesoro della virtù e perfezione, non abbiamo da riposarci sino ad averlo trovato, vincendo tutte le difficoltà, senza che da cosa alcuna ci lasciamo impedire. Persequar inimicos meos, et comprehendam illos, et non convertar, donec deficiànt (Psal. XVII, 38) : Perseguiterò i miei nemici, dice il Profeta, e non mi straccherò né ritornerò indietro fino a che non abbia riportata vittoria di essi. Questa santa e forte perseveranza è quella che vince il vizio e acquista la virtù, e non già il dare quegl’impetuosi assalti, e poi ritirarsi. – Facciamo ora i nostri conti. Di quante cose hai tu fatto l’esame particolare, da che ti sei dato a questo esercizio? Se sei riuscito in tutte, sarai già perfetto; ma se non riuscisti neppure in una di esse, perché la lasciasti? Mi dirai, che in quel particolare la cosa non ti riusciva bene: ma per questo non ti riesce bene perché vai mutando materia e non hai perseveranza nel condurre una cosa a fine. Se facendo esame di quella cosa e standovi su con particolar attenzione e vigilanza, dici, che non ti riusciva; peggio andrà il negozio, non facendo più esame sopra di essa. Perché, siccome dice quel Santo, se colui che propone, manca molte volle; che farà colui che tardi, o non mai, propone? Quel proporre la mattina, al mezzo giorno e la sera, ti servirà pure di qualche freno per non cader tante volte. E benché ti paia, di non finir mai d’emendarti, né di far cosa alcuna, non ti perder d’animo per questo, né lasciar l’impresa, ma umiliati e confonditi nell’esame, e torna a proporre e a cominciar di nuovo: che perciò permette Dio le cadute e che resti qualche Jebuseo nella terra dell’anima tua, acciocché finisca di conoscere, che non puoi niente colle tue forze, ma che ogni cosa ti ha da venire dalla mano di Dio, e così abbi ricorso a Lui e stii sempre dipendente da Lui. Molte volte con questo ha uno più fervore e usa più diligenza nel suo profitto, che se subito il Signore gli desse quello che desidera. Ma mi dirà qualcuno; quanto tempo sarà bene far l’esame particolare sopra una cosa? S. Bernardo ed Ugo di S. Vittore (D. Bern., Hugo de S. Vict, locis citatis, c. 1) trattano questa questione; quanto tempo sarà bene combattere contra un vizio? E dicono, che sin a tanto che il vizio stia tanto in declinazione, che subito che ricomincia a farsi vedere, tu lo possa facilmente reprimere e soggiogare colla ragione. Di maniera che non bisogna aspettare, che tu non senta più la tale o tal altra passione, la tale o tal altra ripugnanza; che questo sarebbe un non finir mai: ed Ugo di S. Vittore dice, che questa è più cosa da Angeli che da uomini. Basta che quel vizio, o passione, non ti sia più molesto né ti dia molto che fare; ma che subito che si muove tu la getti per terra e la scacci da te facilmente: allora potrai passar oltre a combattere e a far l’esame sopra qualche altra cosa. Per fin Seneca disse colà: Contra vìlia pugnamus, non ut penitus vincamus, sed ne vincamur (Seneca ad Lucili). Non è necessario, che giungiamo a non sentire più il vizio di sorta alcuna: basta che sia vicino ad esser vinto; sicché non ci sia d’impedimento né di disturbo per quello che ci conviene. Per affrontar meglio in questo particolare, il mezzo più espediente è, comunicarlo ciascuno col suo Padre spirituale; essendo questa una delle cose principali nelle quali fa bisogno di consiglio. Perciocché vi sono alcune cose sopra delle quali basta far l’esame poco tempo, come abbiamo detto di sopra (cap. 3); ed altre ve ne sono nelle quali è bene impiegato l’esame di un anno ed anche di molti. Se ogni anno, dice quel Santo, estirpassimo un vizio, presto diventeremmo uomini perfetti (Thomas a Kempis 1. c. 11, n. 5). E vi sono altre cose rispetto alle quali tutta la vita sarà molto bene impiegata in una di esse; quando questa è tale, che sola potrebbe bastare ad uno per acquistare la perfezione. E cosi abbiamo conosciuto alcuni i quali si presero a petto una cosa, e sopra di quella fecero esame particolare quasi tutta la vita loro, e con ciò diventarono insigni in essa; chi nella virtù della pazienza; chi in una profondissima umiltà; chi in una gran conformità alla volontà di Dio; chi in far tutte le cose puramente per Dio. Ora in questa maniera ancora abbiamo da procurare noi altri di farci eminenti in qualche virtù, insistendo e perseverando in quella sino ad averla perfettamente conseguita. Né questo toglie l’interrompere alcune volte questo esame; anzi conviene far così, tornando a far esame per otto o quindici giorni sopra il silenzio, sopra il far bene gli Esercizi spirituali, sopra il dir bene di tutti, sopra il non dir parola che possa offender alcuno in nessuna maniera, e sopra altre cose simili che sogliono tornare a germogliare e a rinverdirsi in noi altri, e poi ritornarcene subito all’esercizio di prima, e proseguir il nostro intento principale, sino a riuscire con quello che pretendiamo.

CAPO VII.

Come si ha a fare l’esame particolare.

La seconda cosa principale che abbiamo proposto di trattare, è, come s’ha da fare questo esame. Ha l’esame particolare tre tempi (D Ign. lib. Exerc. spirit. in prim. hebdom. titul. Exam.Partic.), benché poi l’esaminarsi si abbia a fare solo due volte. Il primo tempo è, subito che ciascuno si leva la mattina, e allora ha da proporre di guardarsi con ispecial diligenza da quel vizio, o difetto particolare, del quale si vuol correggere ed emendare. Il secondo tempo è al mezzo giorno, nel quale s’ha da fare il primo esame che contiene tre punti. Il primo è, domandar grazia al Signore di ricordarsi quante volte si è caduto in quel difetto del quale si fa l’esame particolare. Il secondo è, dimandar conto all’anima sua di quel difetto, o vizio, pensando da quell’ora in cui ciascuno si levò, e in cui fece quel particolare proposito, sino all’ora presente, quante volte è caduto in esso: e si hanno a far tanti punti in una linea d’un quadernuccio o librettino, che a quest’effetto ha da avere presso di sé, quante volte troverà esservi caduto. Il terzo punto è concepire un gran dolore d’esser caduto e domandarne perdono a Dio, proponendo di non cadervi più, particolarmente in quel resto del giorno, colla grazia del Signore. Il terzo tempo è la sera, prima di andare a letto, e allora si ha da far l’esame la seconda volta, né più né meno che al mezzo giorno, tenendo i medesimi punti, e riflettendo come sieno andate le cose dall’ultimo esame passato sin a quell’ora; e notando in un’altra seconda linea tanti punti, quante volte troverassi che si è caduto. E per poter estirpare più facilmente e più presto quel difetto, o vizio, sopra del quale facciamo l’esame particolare, il nostro S. Padre mette quattro avvertimenti ch’egli chiama Addizioni. La prima, che ciascuna volta che l’uomo cade in quel vizio, o difetto particolare, se ne penta, mettendosi la mano al petto ; il che si può fare ancorché si stia in presenza d’altri, senza che s’accorgano di quello che si fa. La seconda è, che la sera dopo fatto l’esame, confronti i punti dell’esame della mattina con quelli dell’altro esame della sera, per vedere se vi è stata qualche emendazione. La terza e quarta, che confronti anche il giorno d’oggi con quello di ieri, e la settimana presente con la passata per lo medesimo effetto. Tutta questa dottrina è cavata da’ Santi. Il beato Antonio abbate, come si riferisce nell’Istoria Ecclesiastica, dava per consiglio, che si notassero in iscritto i mancamenti che nell’ esame trovavansi di essere stati commessi; acciocché in questo modo l’uomo si vergognasse più, e più si impegnasse per l’emendazione, vedendo e considerando i suoi mancamenti. Il medesimo dice S. Giovanni Climaco (D. Jo. Clim. c. 4), il quale non solamente la sera e nel tempo dell’esame, ma a tutte le ore vuole che vada ciascuno notando il mancamento che commette subito che cade in esso, acciocché così possa far meglio l’esame: in quella guisa che il buon banchiere, o mercatante, e il buono spenditore, subito nota in un quadernetto di memorie quello che vende, o compera, acciocché non resti dimenticata cosa alcuna e la sera possa far meglio i suoi conti. S. Basilio e S. Bernardo espressamente notano e consigliano il confrontare un giorno coll’altro; acciocché in questo modo possa la persona conoscer meglio il profitto, o scapito, che fa, e procuri con diligenza di diventar ogni giorno migliore e più simile agli Angeli (2). S. Doroteo dà per consiglio il confrontare una settimana coll’altra e un mese coll’altro (D. Dorot. doc. 10). È il modo che ci propone il nostro S. Padre di farci a procurare l’emendazione del nostro mancamento e difetto, a tratto a tratto, e a poco a poco, da mezzo giorno a mezzo giorno, e non più, è un mezzo che mettono ancora S. Gio. Crisostomo, S. Efrem e S. Bernardo (D. Chrys. Berm. contra concubinarios; D. Bern. in quadam formula bene vivendi Canonico et Vicar. e 24.), come efficacissimo per isradicare qualsivoglia vizio, o difetto che abbiamo: e lo mette anche colà Plutarco (Plutarc. in dìal, de cohib. iracundia.), apportando l’esempio di colui il quale essendo per natura molto collerico e sentendo grandissima difficoltà nel ritenersi, si mise all’impegno di non adirarsi per un giorno, e così passò un giorno senza che si adirasse: e il dì seguente disse: Neanche oggi mi voglio adirare, l’osservò, perché nemmeno quel giorno s’adirò: il medesimo continuò a fare un altro e poi un altro giorno, sinché divenne molto mansueto e piacevole. Or questo è il modo che c’insegna e il disegno che ci propone il nostro S. P. nell’esame particolare, acciocché il combattere e vincere qualunque vizio ci riesca più facile. All’infermo che sta con nausea si dà il cibo a poco a poco, acciocché possa mangiarlo: se gli fosse posta innanzi tutta intera la gallina, gli parrebbe impossibile l’aver a mangiare tutta quella roba, e non potrebbe mandar giù boccone; ma gliene tagli un pochetto alla volta, e glielo porgi, tenendo nascosto il resto fra due piatti; e in questo modo, a poco a poco, bocconcino a bocconcino gli fai mangiare quanto gli basta. Nell’istessa maniera ci vuol guidare il nostro S. P. nell’esame particolare, come infermi e deboli, a poco a poco, da mezzo giorno a mezzo giorno, acciocché lo possiamo tollerare: perché, se pigliassi la cosa tutta insieme, dicendo, non voglio parlare in tutto l’anno, in tutta la vita mia voglio andare cogli occhi bassi, tanto raffrenato e con tanta modestia, solo a pensarvi potrebb’essere che ti straccassi, e ti paresse di non poterlo tollerare, e che sarebbe una vita mesta e malinconica; ma per un mezzo giorno, per una mattina, sin all’ora del pranzo, chi sarà quegli che non vada composto e tenga la lingua a freno? Di poi a mezzo giorno proponi solamente sino alla sera, perché il giorno seguente sa Dio quel che sarà: e che sai tu se vi arriverai? e quando bene vi arrivi, non sarà più d’un giorno, e non ti rincrescerà domani di esser proceduto oggi con questo riguardo, né ti troverai stracco per essere stato oggi accurato e diligente; anzi ti troverai di ciò molto allegro e più disposto a farlo tuttavia meglio e con maggiore facilità e soavità. Credo, che alle volte alcuni manchino in non far bene tutta la forza in questo, proponendo solamente per questo mezzo giorno; che se ciò facessero, molto ciò gli aiuterebbe a proporre con maggior efficacia. Nelle Cronache di S. Francesco (P. 2, lib. 6, c. 38 hist. Min.) si racconta di fraGiunipero, che, sebben egli parlava sempre molto poco, nondimeno una volta per sei mesi continui osservò perpetuo silenzio in questa maniera: il primo giorno propose di non parlare, e di farlo ad onore del divin Padre; il secondo ad onore del Figliuolo; il terzo ad onore dello Spirito santo; il quarto per amore della santissima Vergine: e così scorreva per tutti i Santi, osservando ogni giorno il silenzio con nuovo fervore e divozione per amore di alcuni di essi. In questa maniera la persona si anima maggiormente ad emendarsi di quella cosa sopra della quale fa l’esame particolare, e si vergogna anche e confonde più de’ mancamenti ed errori che commette; poiché per così poco tempo non ha potuto metter in esecuzione il suo proponimento. E così per ogni banda ci aiuterà assai questo mezzo.

CAPO VIII.

Che nell’esame abbiamo da insistere e trattenerciprincipalmente nel dolore e nel proponimentodell’emendazione.

Quel che in particolare si deve grandemente avvertire circa il modo di far l’esame, si è, che de’ tre punti che ha, i due ultimi sono i principali; cioè il dolerci e pentirci delle nostre colpe e negligenze, e il far fermo proponimento di emendarcene, secondo quello che diceva il Profeta: In cubilibus vestris compungimini ( Psal. IV, s. 5): Compungetevi nei vostri letti. In questa compunzione e pentimento, e in questo fermo proponimento di non tornare a cadere, sta tutta la forza e l’efficacia dell’esame per emendarci: onde in questo s’ha da spendere la principal parte del tempo. Una delle cagioni principali per cui molti fanno poco frutto e poco si emendano cogli esami, è, perché tutto quel tempo se la passano nell’andare cercando quante volte sono caduti ne’ mancamenti e negli errori, e appena hanno finito questo punto, che finisce ancora il tempo dell’esame e fanno il resto superficialmente, né si trattengono nel dolore e pentimento delle lor colpe, né nel confondersi e chiederne perdono a Dio, né in far fermi proponimenti d’emendarsi la sera, o il dì seguente, né in domandare a Dio grazia e forze per farlo. Di qua procede, che quante volte sei caduto oggi, tante altre cadi domani; perché nell’esame non hai fatto altro che pensare e ridurti a memoria quante volte sei caduto: e questo non è mezzo per emendarti; ma è il primo punto dell’esame e il fondamento sopra del quale hanno da cadere gli altri due punti principali. Il mezzo efficace per emendarti è il dolerti e pentirti molto da vero delle tue colpe e il proporre fermamente l’emendazione con chiedere al Signore grazia per farlo: e se non fai questo non ti emenderai. Stanno tanto affratellate fra di sé queste due cose, dolor del passato ed emendazione nell’avvenire, che al passo che cammina una cammina anche l’altra: perché è cosa certa, che quando abborriamo una cosa da vero, usiamo diligenza per non incontrarci in essa. Ogni giorno diciamo e predichiamo questo a’ secolari: sarà cosa ragionevole, che lo pigliamo anche per noi medesimi. Qual è la cagione, diciamo noi, che quelli del mondo così facilmente tornano a ricadere ne’ medesimi peccati dopo tante confessioni? sapete qual è? questa comunemente, che non gli hanno odiati e abborriti da vero, né vengono alle confessioni con proponimenti fermi di non tornar mai più a peccare: e siccome il cuor loro non finisce mai di rivolgersi totalmente a Dio, ma solamente a mezza faccia, come suol dirsi; così facilmente ritornano a quello che non hanno mai lasciato affatto. Che se da vero fosse lor dispiaciuto e avessero avuto in odio e in abbominazione il peccato, e fatto avessero un fermo proponimento di non tornare mai più a peccare; non vi sarebbero tornati così facilmente subito usciti dalla confessione, come se non si fossero confessati. Or per questo ancora voi altri incorrete la sera ne’ medesimi mancamenti ed errori ne’ quali siete incorsi la mattina, e oggi nei medesimi di ieri, perché non avete avuto vero dolore di essi: non gli avete odiati di cuore: non avete fatto fermo proponimento di emendarvene: né vi siete trattenuti in questo: che se ciò aveste fatto, non sareste ritornati ad essi così facilmente né così presto: perciocché non siamo soliti noi altri di far tanto facilmente quelle cose che abbiamo abborrite, e che ci ha recato dolore e dato pena l’averle fatte. – Il dolore e il pentimento de’ peccati, quando è vero, non solo toglie via i peccati passati ma è anche medicina preservativa per l’avvenire, come abbiamo detto di sopra (Vide supra tract. 5, c. 5): perché chi sta odiando il peccato, sta anche lontano da ricader in esso. Per sin quel Filosofo (Da Demost. ref. Aulus Gollius; lib. 1, c. 8) colà conobbe l’efficacia e la forza di questo mezzo per non cader in peccato; poiché domandandogli una donna di mala vita certo prezzo eccessivo per peccare con essa, egli rispose: Ego tanti pœnitere non emo: Io non compro tanto caro il pentirmi e il dolermi. Notisi questa ragione, poiché è degna non solo di un Filosofo, ma anche d’un uomo Cristiano e Religioso. Mi metto alcune volte a considerare la sciocchezza e lo sproposito di quelli che ardiscono di peccare, con dire: Mi pentirò poi, e Dio mi perdonerà. Come e in qual cervello può mai entrare, che per soddisfar ora al tuo appetito e per ricevere un brevissimo gusto che passa via in un momento, ti elegga e ti compri per tutta la vita un perpetuo dispiacimento e pentimento d’aver soddisfatto ad esso? – Perché sebben è vero, che Dio ti perdonerà poi questo peccato, pentendoti tu di esso; nondimeno, acciocché ti perdoni, bisogna pur alla fine che tu ti penta e senta gran dolore d’averlo commesso. Ha gran forza questa ragione, anche di qua parlando, come suol dirsi, dal tetto in giù, benché non vi fosse di mezzo l’amor di Dio che ha poi sempre ad essere il motivo principale che ci ha a ritenere; ma solamente il nostro gusto e amor proprio. Non voglio far quello che so che dopo m’ha da cagionare gran dispiacere e gran dolore d’averlo fatto: il gusto di farlo passa via in un momento; e il dispiacere e il dolore di averlo fatto ha da durare per tutta la vita; di maniera che già mai non ne posso più avere né gusto né compiacimento: Ego tanti pœnitere non emo. Grande sciocchezza è eleggersi un sì grave e diuturno dispiacimento per un sì piccolo e momentaneo piacere. Lo disse anche meglio l’Apostolo : Quem fructum habuistis tunc in illis, in quibus nunc erubescitis (Rom. VI, 21)? Che frutto cavaste voi da quelle cose delle quali ora v’arrossite e vi vergognate? Che ha che fare quel gusterello che v’avete preso col disgusto e dispiacere che vi rimane ad avere di poi? Questo si ha da considerare innanzi tutto, prima di cadere; quando viene la tentazione, allora hai da far questo conto e dire: Non voglio far una cosa della quale mi ho poi da vergognare e a pentire per tutta la mia vita. Anche di qua, quando vuoi persuadere ad uno, che non faccia una qualche cosa, gli dici, Guarda, che poi ti pentirai d’averla fatta; e colui risponde: Non me ne pentirò: perché se pensasse, che se n’avesse a pentire, egli stesso vedrebbe, che sarebbe uno sproposito far quello che sapesse che dipoi gli avesse a dispiacere e a dar gran dolore. Ho detto questo, acciocché si vegga quanto efficace mezzo sia per non tornar a cadere nelle colpe il dolore e vero pentimento di esse, e acciocché si conosca quanto importi trattenersi in questo quando si fanno gli esami. È vero, che può uno aver dolore e proponimento vero d’emendarsi, e con tutto ciò tornar di poi a cadere; perciocché non siamo Angeli, ma uomini deboli e di creta, la quale si può rompere e disfare, e subito tornarsi a rifare: ma siccome quando uno, finito che ha di confessarsi, ritorna subito ai medesimi giuramenti e ai medesimi desideri e peccati poco prima confessati, siamo soliti comunemente di dire, che non ne dovette avere né vera contrizione, né vero dolore, né fermo proponimento d’emendarsene, poiché così presto è tornato a cadervi; così anche è grand’indizio e argomento, che a te non è dispiaciuto da vero quando hai fatto l’esame al mezzo giorno, o la sera, l’aver rotto il silenzio, e che non hai avuto fermo proponimento d’emendartene, il vedere, che subito la sera, o il giorno seguente, lo rompi nell’istesso modo come se non avessi fatto esame. E l’istesso dico degli altri mancamenti, errori e difetti, sopra dei quali fai l’esame. Anche alla presenza de’ tuoi fratelli hai vergogna di dire una colpa, o di essere per essa ripreso e penitenziato, quando l’hai già detta tre o quattro altre volte; quanto maggiormente avresti vergogna di comparire recidivo avanti di Dio, se da vero avessi detestata la tua colpa avanti di lui, pentendotene di cuore, chiedendogliene perdono, e promettendone l’emendazione, non tre o quattro volte, ma più di tre o quattro dozzine di volte. Non è dubbio, che ci emenderemmo d’altra maniera, e faremmo altro profitto, se ci pentissimo ed avessimo vero dolore, e facessimo fermo proponimento di emendarci.

CAPO IX

Che aiuta grandemente l’aggiungere all’esamequalche penitenza.

Né anche si contentava il nostro S. Padre del dolore, del pentimento e dei proponimenti interiori; ma di più, acciocché la persona possa riuscir meglio in quel che desidera, leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 10 Vitæ P. N. Ign.), che consigliava l’aggiungere all’esame particolare qualche penitenza, imponendoci da noi stessi certa pena ed eseguendola in noi tutte le volte che cadremo in qualche mancamento, o errore, sul quale facciamo l’esame. Il padre fraLuigi di Granata apporta esempi di ciò in alcuni servi di Dio che egli conobbe: d’uno dei quali dice, che quando nell’esame della sera trovava, che avesse ecceduto in qualche parola sconcia, si metteva una morsa alla lingua per penitenza di essa; e di un altro, che faceva una disciplina sì per questo come per qualsiasi altro difetto nel quale fosse caduto. Si dice del santo abbate Agatone, che per lo spazio di tre anni portò in bocca un sasso per acquistare la virtù del silenzio (Befert Bollaterr. lib. 1, Autroph.). Siccome usiamo di portare un cilicio per mortificar la carne, e perché ci serva di svegliatoio per conservare la castità; così portava quel Santo un sassetto sotto la lingua, acciocché fosse il suo cilicio, e gli servisse di ricordo e di svegliatoio per non parlar più di quel che era necessario. E del nostro S. Padre leggiamo (Lib. 5, c. 10 Vita P. N. Ign.), che essendo nel principio della sua conversione molto tentato di riso, vinse quella tentazione a forza di replicate discipline, dandosi ogni notte tante sferzate, quante volte aveva riso in giorno, per leggiero che fosse stato il riso. E suol essere di gran giovamento questo ingiungere qualche penitenza all’esame; perché con la penitenza l’anima resta castigata o intimorita di maniera, che non ardisce di commettere un’altra volta quella colpa. Collo sprone la bestia cammina, per pigra e lenta che siasi. Giova tanto lo sprone, che solo l’accorgersi ella, che v’è, benché non la pungano con esso, la fa camminare. – Se ciascuna volta che uno rompe il silenzio avesse da fare una disciplina in pubblico, ovvero avesse per tre giorni da star solamente a pane ed acqua, che era la penitenza che anticamente veniva ingiunta nelle Regole a quei che rompevano il silenzio, al sicuro che questo ci ritrarrebbe molto dal parlare. – Oltre di ciò, ed oltre il merito e la soddisfazione che suol essere in questa cosa, v’è un altro gran bene, ed è, che Dio Signor nostro veggendo la penitenza colla quale uno si castiga ed affligge, suol esaudire la domanda e il desiderio suo. E questo è uno degli effetti della penitenza e mortificazione esteriore che notano i Santi, e l’apporta il nostro S. Padre nel libro degli Esercizi (D. Ign. lib. Exerc. spir. in Addit.). Disse l’Angelo a Daniello: Ex die primo, quo posuisti cor tuum ad intelligendum, ut te affligeres in conspectu Dei tui, exaudita sunt verba tua (Dan. X, 12): Dal primo giorno che ti deliberasti d’affliggerti dinanzi al Signore, fu esaudita la tua orazione. Aggiunse il profeta Daniello all’orazione il digiuno e la mortificazione della sua carne, e così impetrò la libertà del suo popolo, e che Dio gli manifestasse misteri grandi, e gli facesse altri benefizi molto particolari. Onde vediamo, che ò ed è stato sempre molto usato nella Chiesa di Dio questo mezzo per impetrare e conseguire il favore di Dio nei travagli e nelle necessità. Quando il fanciullino chiede alla madre il latte del quale ha necessità, e lo chiede solamente col desiderio significato per mezzo di qualche segno, molte volte la madre glielo nega, o differisce il darglielo; ma quando lo chiede piangendo e affliggendosi, non si può la madre contenere dal darglielo subito. Così quando l’uomo chiede a Dio la virtù dell’umiltà, della pazienza, della castità, ovvero la vittoria di qualche tentazione, o altra cosa simile, se chiede orando solamente col desiderio e con le parole, molte volte non ottiene quel che domanda, ovvero gli è differito assai: ma quando con l’orazione si congiunge la penitenza e la mortificazione della nostra carne, e ci affliggiamo ancora nel cospetto di Dio, allora otteniamo molto meglio quello che domandiamo, e con maggior certezza e prestezza. Ama Dio grandemente i giusti, e vedendogli afflitti ed in pena per conseguir quello che chiedono, li compatisce e usa loro maggior misericordia. Dice la Scrittura divina del patriarca Giuseppe, che non si poté contenere, vedendo l’afflizione e le lacrime dei fratelli, ma si scoprì loro e li fece partecipi di tutti i suoi beni : Non se poterat ultra cohibere Joseph…. et dixit fratribus suis: Ego sum Joseph (Gen. XLV, 1). Che farà quegli che ci ama più di Giuseppe, e che è più che un nostro fratello, vedendo l’afflizione e il dolor nostro? Per ogni banda ci aiuterà grandemente questo mezzo. – S’accorda molto bene con questo quello che dice Cassiano (Cass. coll. 5, abb. Serap. c. 14), trattando dell’accuratezza e diligenza con cui abbiamo da procedere in questa guerra ed esame particolare. Se l’esame e il combattimento particolare ha da essere, come abbiamo detto (sup. cap. 2), in riguardo a quella cosa della quale abbiamo maggiore necessità; se ha da essere di sradicare quella passione, o cattiva inclinazione, che regna più in noi altri, e ci tira più dietro a sé, ci mette in maggiori pericoli, e ci fa cadere in maggiori mancamenti ed errori; se ha da essere di vincere qualche vizio, il quale ove sia vinto, resteranno vinti tutti gli altri; o d’acquistare quella virtù colla quale avremo fatto acquisto di tutte le altre; quanta sollecitudine e diligenza vorrà la ragione che usiamo in una cosa che tanto c’importa? Sai quanta? dice Cassiano: Adversus illud arripiat principale certamen, omnem curam mentis ac sollicitudinem erga illius impugnationem observationemque defigens, adversus illud quotidiana iejuniorum dirìgens spicula, contra illud cunctis momentis cordis suspiria crebraque gemituum tela contorquens, adversus illud vigiliarum labores ac meditationem sui cordis impendens, indesinentes quoque orationum ad Deum fletus fundens, et impugnationes sua; extinctionem ab illo specialiter ac jugiter poscens (Cass. ubi sup.). Non abbiamo da contentarci d’usar questa sollecitudine e diligenza solamente nell’esame; ma dobbiamo anche usarla nell’orazione: e non solamente nell’orazione mentale della mattina, ma molte volte fra giorno abbiamo da alzar il cuore a Dio Signor nostro con orazioni giaculatorie e con sospiri e gemiti del cuore: Signore, umiltà: Signore, castità: Signore, pazienza. A questo effetto abbiamo da visitare spesso il santissimo Sacramento, chiedendo al Signore con grande istanza, che ci conceda grazia di acquistare una cosa che tanto c’importa. Abbiamo ancora da ricorrere alla beatissima Vergine e ai Santi, acciocché siano nostri intercessori. – A questo abbiamo da indirizzare i nostri digiuni, i nostri cilicci, le nostre discipline, e aggiungervi alcune divozioni e offrire alcune mortificazioni particolari. Sempre abbiamo da portar quella cosa fitta nel cuore, poiché c’importa tanto. Se procedessimo in questo modo e usassimo questa sollecitudine e diligenza nell’esame particolare, ne sentiremmo presto il frutto; perché il Signore vedrebbe la nostra afflizione, esaudirebbe la nostra orazione e soddisferebbe al desiderio del nostro cuore. E si deve notar bene tutto questo, per valercene anche in altre tentazioni e necessità gravi che occorrono. S. Bonaventura dice, che la Madonna santissima disse a S. Elisabetta d’Ungheria, che nessuna grazia spirituale viene all’anima, regolarmente parlando, se non per mezzo dell’orazione e delle afflizioni del corpo (D. Bonav. in Vit. Christ. c. 3).

CAPO X.

Dell’esame generale della coscienza.

L’esame generale della coscienza ha cinque punti. Il primo è ringraziar Dio dei benefizi ricevuti. – Si mette nel primo luogo il ricordarci dei ricevuti benefizi, acciocché contrapponendo a questi i mancamenti e i peccati che abbiamo fatti noi in contraccambio di tanti benefizi, pigliamo da ciò motivo di maggiormente confonderci e di sentirne maggior dolore. Così Natan profeta rappresentò a David i benefizi che Dio gli aveva fatti, per fargli maggiormente conoscere e comprendere la bruttezza del peccato che aveva commesso. – Il secondo punto è, chiedere grazia al Signore di conoscere i mancamenti e i peccati nei quali siamo caduti. – Il terzo domandar conto all’anima nostra di quanto ha fatto, cominciando dall’ora in cui proponemmo di guardarci da ogni mancamento, ed esaminare come siano andate le cose, discorrendo primieramente per i pensieri, secondariamente per le parole, e terzo per le operazioni. .- Il quarto punto è, chiedere al Signore il perdono dei mancamenti ed errori che troveremo aver fatti, dolendocene e pentendocene. – Il quinto, far proponimento di emendarci con la grazia del Signore, e finire con un Pater noster. –Questo esame generale s’ha da far sempre insieme col particolare: perché subito che la mattina ci leviamo, abbiamo da offerir al Signore tutto quello che faremo quel giorno. Siccome dice il nostro S. Padre dell’esame particolare, che subito che ci leviamo abbiamo da far proponimento di guardarci da quel vizio particolare del quale ci vogliamo emendare, e questo è il primo tempo dell’esame particolare; così ancora abbiamo allora da offerire a Dio tutti i pensieri, parole e operazioni di quel giorno, che tutto sia a gloria sua, proponendo di non offenderlo, e chiedendogli grazia per questo: ed è ben conveniente, che tutti abbiano per costume il fare così. Di poi due volte il giorno, al mezzo dì e alla sera, abbiamo da fare l’esame generale insieme col particolare. E tale è l’usanza della Compagnia fondata nelle nostre Costituzioni, e l’abbiamo espressamente nella prima delle Regole comuni: Ciascuno dia ogni giorno con ogni diligenza nel Signore ai due esami di coscienza quel tempo che gli sarà ordinato (4 p. Const. c. 4, § 3 et 4, et reg. 1 com.). Siccome s’accomoda l’oriuolo e s’alzano i suoi contrappesi due volte il giorno, la mattina e la sera, acciocché vada giusto; così abbiamo da accomodare l’oriuolo del nostro cuore con l’esamela mattina e la sera, acciocché vada sempre concertato e ben ordinato. Di maniera che siccome al mezzo giorno ci esaminiamoe a noi stessi domandiam conto di quante volte abbiamo mancato in quella cosa sopra della quale facciamo l’esame particolare, cominciando da quell’ora che proponemmo di non fare mancamenti circa essa, che fu subito che ci levammo dal letto, sino a quell’ora del mezzo dì in cui ci esaminiamo; così ancora abbiamo da esaminarci e domandar conto a noi stessi di quello che abbiamo mancato, o errato, circa i nostri pensieri, parole ed opere, d’allora che ci levammo sino a quella, in cui facciamo l’esame; e indi abbiamo da confonderci e pentirci di tutto quello in cui troveremo di aver mancato, o errato, tanto circa la materia dell’esame particolare, quanto circa la materia del generale; e di tutto insieme abbiamo a fare fermi proponimenti di emendarcene per tutto il rimanente di quel giorno sino alla sera. Allo stesso modo dobbiamo la sera fare l’esame generale insieme col particolare, cominciando però questo nuovo scrutinio di noi medesimi solamente dall’esame precedente del mezzo giorno.La principal cosa che si ha d’avvertire circa il modo di far questo esame generale, è l’istessa che abbiamo detta del particolare, cioè, che tutta la forza ed efficacia di esso sta in quei due ultimi punti; l’uno di pentirci e confonderci delle colpe nelle quali siamo caduti, l’altro di far fermo proponimento dell’emendazione per la sera, o per la mattina. E in questo consiste il far bene l’esame e il cavarne frutto. Il P. Maestro Avila (M. Avil. c. 62 de Audi filia), trattando di questo esame, dice così: Hai da far conto, che ti sia stato dato in governo il figliuolo d’un principe, acciocché tu abbia continua cura di esso, e di educarlo nei buoni costumi, e tenerlo lontano dai cattivi, con fargli ogni giorno i conti addosso. Se tu avessi questo carico, è cosa chiara, che la forza per la sua emendazione non la metteresti nel dirti egli quante volte sia oggi caduto e quante abbia errato; ma nel suo errore e mancamento, nella riprensionee nei ricordi che gli daresti, e nel ricavare da lui fermi proponimenti, procurando, che ti desse parola, da quel figliuolo che egli è, di emendarsi. Or in questo modo hai da aver cura dell’anima tua, come di cosa della quale Dio ti ha dato il carico, e così hai da procedere con essa nel domandarle conto dei suoi portamenti: in questo hai da mettere la forza del tuo esame e della tua emendaizione, non in ridurti a memoria gli errori e i mancamenti commessi, e quante volte sei caduto; ma in confonderti, e in pentirtene, e riprendertene, come riprenderesti un’altra persona della quale tu avessi cura; e in fare fermi proponimenti di non tornare a cader più in quelle colpe. E per ciò fare molto ci gioverà il riflettere, che l’esame generale è la disposizione e preparazione propria e legittima per la confessione: e questo è il titolo che gli dà il nostro S. Padre nel libro degli Esercizi spirituali: Examen conscientiæ generale ad purgationem anima; et ad peccatorum confessionem utilissimum (In lib. Exerc. spir. hebd. 1, timi. Exam. conscient.). E la ragione è manifesta; perché due sono le cose principali che si ricercano per la confessione: la prima è l’esame delle colpe; la seconda il dolor di esse: e queste si fanno compiutamente nell’esame della coscienza; onde se faremo bene questo esame, faremo anche bene la confessione. E bisogna avvertire, che il dolore necessario per la confessione, siccome dicono il Concilio di Trento (Sess. XIV, c. 4) e quello di Fiorenza, include due cose; dispiacere e pentimento di quel che è passato, e proponimento di non tornar più a peccare; e o l’una o l’altra che manchi, non vi sarà bastante disposizione per la confessione. Si pensano alcuni, che solamente quando lasciano di confessar qualche peccato per vergogna non sono ben confessati; ma io credo, che siano molto più le confessioni mal fatte, sacrileghe e nulle, per mancamento di vero dolore e di vero proponimento dell’emendazione. Ecco quanto è necessaria questa preparazione, e quanto importa l’assuefarci e far bene l’esame, e l’esercitarci e il trattenerci in questo dolore delle colpe, e in questo proponimento di non tornar più a cadere in esse. E così dico, che di tre punti principali che sono nell’esame, che gli altri sono come preamboli: la principal parte del tempo l’abbiamo da spendere nei due ultimi, cioè nel chiedere perdono a Dio, pentendoci e confondendoci delle nostre colpe, e nel fare proponimenti di emendarci; e la minor parte s’ha da spendere nel discorrere e ridurci a memoria i mancamenti ne1 quali siamo caduti. Per questo, che è uno dei tre punti, basta la terza parte del tempo dell’esame; e le altre due parti siano per questi altri due punti; poiché sono i principali e nei quali sta la forza ed efficacia dell’esame, e il frutto di esso. – Ma mi dirà qualcuno, come potremo in tanto poco tempo, quanto è la terza parte d’un quarto d’ora, discorrere pel numero delle volte che siamo caduti nella materia dell’esame particolare, e anche per i mancamenti ed errori commessi nelle materie del generale, co’ pensieri, parole ed opere, che anche tutto il quarto d’ora per ciò fare par poco? Il miglior mezzo per questo è portarsi già fatto il primo punto quando andiamo all’esame. Si dice del nostro santo P. Ignazio (Lib. 5, c. 5 Vita P. N. Ign.), che ciascuna volta che mancava in quella materia della quale faceva l’esame particolare, faceva un nodo in una coreggiuola che per questo effetto portava attaccata alla cintura; e di poi dal numero dei nodi sapeva il numero delle volte che aveva mancato, senza aversi a trattenere in questo più che tanto: e per quel che toccava l’esame generale, non lasciava passar ora del giorno nella quale non si raccogliesse entro di sé ed esaminasse la sua coscienza, licenziando ogni altra cosa. E se per sorte gli occorreva qualche negozio tanto grave, o qualche occupazione tanto urgente, che in quell’ora non gli concedesse di poter soddisfare a questa sua divozione, suppliva nella seguente, ovvero subito che l’occupazione glielo permetteva. Molto buona divozione sarebbe questa di dare un’occhiata alla nostra coscienza ogni volta che l’oriuolo suona l’ora. Alcuni ancora sogliono esaminarsi dopo ciascuna loro operazione. Ma se parrà troppo il far questo a ciascuna ora, o dopo ciascuna operazione, sarà bene farlo almeno dopo ciascuna delle principali operazioni che facciamo tra giorno; e di alcune già abbiamo ordine, che subito che le abbiamo finite, ne facciamo l’esame, come abbiamo detto di sopra (Vide enpra tract. 5, c. 27). – S. Bonaventura dice, che il servo di Dio s’ha da esaminare sette volte il giorno. E se nell’esame particolare osserveremo quell’Addizione di metterci la mano al petto ciascuna volta che facciamo mancamento, o errore, facilmente ci ricorderemo per questa via quante volte saremo caduti. Sebbene il nostro S. Padre non mette quest’Addizione, acciocché ci ricordiamo dei mancamenti, ma acciocché subito ci pentiamo di essi: e perciò vi pone questo segno, di mettersi la mano al petto, che è quanto dire: Signore, ho peccato. Ma in fine se osserveremo quest’Addizione, ci aiuterà assai a poterci poi ricordar facilmente quante volte siamo caduti. S’aggiunge a questo, che quando uno ha buona cura di se stesso, ed è sollecito in quel che tocca il suo profitto, subito che fa qualche mancamento, o errore, sente un certo rimorso di coscienza, che è il migliore svegliatoio che possa avere per ricordarsene. – Con questo si è risposto a due sorta di persone: perché ve ne sono alcune alle quali par anche poco tempo tutto il quarto d’ora per ricordarsi delle colpe nelle quali sono cadute; e a queste già abbiamo dato il rimedio di portarsi quasi fatto questo primo punto; acciocché così facendo resti loro tempo da occuparsi negli altri due ultimi. Altre poi al contrario ve ne sono alle quali par lungo il quarto d’ora dell’esame, e non trovano in che spenderlo; e a queste possiamo più facilmente soddisfare. Perché già abbiamo detto, che sì al mezzo giorno, come la sera, s’ha da far l’esame generale insieme col particolare, e dopo aver veduti i mancamenti e gli errori nei quali siamo caduti sì nell’uno come nell’altro esame, ci abbiamo da trattenere in confonderci e pentirci di essi, in chiederne perdono, in far fermo proponimento d’emendazione, e in domandar al Signore grazie per questo: nel che quanto più ci tratterremo, tanto meglio sarà. – Aggiunge qui S. Doroteo un ricordo molto giovevole, dicendo, che nell’esame non solo si ha da tener conto dei mancamenti ed errori nei quali cadiamo; ma anche, e molto più, della radice di essi, esaminando le cagioni e occasioni delle cadute, per istar avvertiti e guardarcene per l’avvenire (D. Doroth. serm. 12). Come sarebbe, se per uscir della mia stanza io ruppi il silenzio, o mormorai; ho da proporre di non uscirne più nell’avvenire senza necessità; ed allora uscirne coll’andar sull’avviso e preparato: e così di altre cose simili. Perché altrimenti ci avverrà come a colui che inciampa in un sasso, e perché passa oltre senza far riflessione nell’occasion dell’inciampo, vi inciampa anche domani; o come a colui che si pensasse di rimediar ad un albero guasto con levar solamente da esso alcuni rami e i frutti marci e verminosi. Se faremo in questo modo gli esami, non ci parrà lungo, ma corto, il tempo assegnato per essi.

CAPO XI.

Che l’esame della coscienza è mezzo per metterein esecuzione tutti gli altri mezzi, ricordi eavvertimenti spirituali: e che la cagione dinon far profitto è il non far l’esame comesi deve.

Il beato S. Basilio dopo aver dato ai Monaci molti ricordi e avvertimenti spirituali, conchiude con questo: che ogni sera, prima d’andar a dormire, facciano l’esame della coscienza, parendogli, che questo lor basterebbe per osservar tutto quello che avea detto loro e per perseverare in esso (D. Basii, homil. 5 de instit. Mon.). Ora con questo vorrei anch’io conchiudere questo trattato, raccomandando a tutti grandemente questo esame; perocché questo solo, con la grazia del Signore, basterà per mettere in esecuzione tutti gli altri ricordi e avvertimenti spirituali, e per rimediare a tutti i nostri difetti. Se allenterai nell’orazione, se ti trascurerai, o sarai negligente nell’obbedienza, se ti dissiperai nel parlare, se comincerai a pigliarti un poco di libertà; subito, mediante il favor del Signore, con l’esame si troncherà e si rimedierà a tutto questo. Chi farà ogni giorno quest’esame della coscienza ben fatto, potrà far conto d’aver seco un aio, un Maestro de’ Novizi, un Superiore, che ciascun giorno e in ciascun ora gli stia domandando conto e avvisandolo di quello che ha da fare, e riprendendolo subito che erra in qualche cosa. Il padre maestro Avila (M. Avila de Audi filia, c. 62) dice così: Non potranno durar molto i tuoi difetti, se durerà in te quest’esame, e questo rivedere i tuoi conti, e riprenderti ogni giorno e ogni ora: e se i difetti durano, e a capo di molti giorni, e forse anche anni, ti trovi tanto mal mortificato, e tanto vivo e risentito nelle tue passioni, quanto al principio; la cagione, perché non usi come devi questi mezzi che abbiamo per nostro profitto: perché se da vero pigliassi a petto il voler levar da te un difetto, o il voler acquistare una virtù, e procedessi in ciò con sollecitudine e diligenza, facendo buoni proponimenti tre volte il giorno almeno, la mattina, il mezzodì e la sera, confrontando ogni giorno i mancamenti e gli errori della sera con quelli della mattina, e quei d’oggi con quelli di ieri, e quei di questa settimana con quelli della passata, pentendoti e confondendoti d’esser tante volte caduto, e chiedendone aiuto a Dio e ai Santi per emendarti; come sarebbe possibile, che a capo di tanto tempo non ti fosse riuscito il migliorarti in qualche cosa? Ma se la persona se ne va all’esame per usanza o per complimento, senza aver vero dolore delle sue colpe, e senza far fermi proponimenti d’emendarsi, questo non è esame, ma cerimonia e trattenimento. Quindi è, che gli stessi vizi e gli stessi mali abiti e le male inclinazioni che uno portò seco dal secolo, ritiene anche per molti anni dopo. Se era superbo, superbo è adesso; se era impaziente e iracondo, il medesimo è adesso; se era avvezzo a dir parole aspre e mortificative, le dice anche adesso: di così mala natura è al presente, come il primo giorno: tanto voglioso, tanto capriccioso e tanto amico delle sue comodità; e piaccia a Dio, che anche in cambio di profittare e di crescere in virtù, non sia cresciuta in alcuni la mala natura; e che con l’anzianità non sia cresciuta la libertà; e che dovendo esser più umili, non abbiano maggior presunzione e non cadano in quella perversità che dice S. Bernardo: Quodque perversum est, plerique in domo Dei non patiuntur haberi contemptui, qui in sua nonnisi contemptìbiles esse potuerunt (D. Bern. hom. 4 sup. Missus est.): vi sono molti dei quali colà nel mondo non si sarebbe fatto conto alcuno, e qui vogliono essere stimati;  e i quali colà non avrebbero avute le cose necessarie, e qui cercano le delicate. – Da quello che si è detto si può ancora vedere quanto frivola scusa sia quella che allegano alcuni dei loro mancamenti e difetti, dicendo, tal essere il lor naturale. Anzi questa è cosa degna di maggior riprensione, che sapendo uno d’aver questa, o altra cattiva qualità naturale, quando dovrebbe aver applicata ogni sua sollecitudine e diligenza in corroborare questa parte debole, acciocché non s’abbia da perder per essa, se ne stia in quella a capo di tanto tempo così vivo e immortificato come il primo giorno. Rientri dunque in sé chiunque tratta di servir Dio; che con tutti parliamo qui; e cominci come di nuovo e da capo, procurando per l’avvenire di far tanto bene l’esame della coscienza, che se ne possa vedere in lui il frutto. Siamo uomini e abbiamo de’ difetti, e n’avremo finché staremo in questa vita: ma abbiamo da procurar con l’esame tre cose. La prima, che se i difetti erano assai, per l’avvenire sian pochi. La seconda, che se erano grandi, siano minori. La terza, che non siano sempre i medesimi: perché il reiterare molte volte un istesso difetto, o errore, arguisce gran trascuraggine e negligenza. – Narra Eugenio in un libro che fa della conversazione e degli esercizi corporali dei Monaci, che un santo Monaco diceva: Io non so che i demonii m’abbiano colto due volte in una medesima colpa (Refertur in Hist. Eccles. p. 2, lib. 6, c. 1). Costui faceva bene l’esame della coscienza, si pentiva da vero, e faceva fermi proponimenti di emendarsi: or così abbiamo da fare noi altri. Per questo mezzo Dio guidò il nostro santo padre Ignazio e l’alzò a tanta perfezione. Leggiamo di lui nella sua Vita (Lib. 5, cap. 1 Vitæ S. Ign.), che confrontando egli il giorno di ieri con quello d’oggi, e il profitto presente col passato, andava ogni giorno profittando più, e guadagnando terreno, o per dir meglio, cielo, in tal grado, che in sua vecchiaia venne a dire, che quello stato nel quale visse in Manresa e il quale nel tempo de’ suoi studi egli soleva chiamare la sua primitiva Chiesa, era stato come il suo noviziato; e che ogni giorno andava Dio nella sua anima colorendo, abbellendo e perfezionando quel disegno di cui in Manresa non aveva fatto altro che in lui tirarne i primi lineamenti. Usiamo dunque noi altri come dobbiamo questo mezzo che il Signore in sì particolar modo ci ha dato; e abbiamo gran fiducia, che per esso ci condurrà alla vera perfezione che desideriamo.

[Fine]

SALMI BIBLICI: “MAGNUS DOMINUS, ET LAUDABILIS NIMIS” (XLVII)

SALMO 47: Magnus Dominus, et laudabilis nimis

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 47

Psalmus cantici. Filiis Core, secunda sabbati.

[1] Magnus Dominus et laudabilis nimis,

in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[2] Fundatur exsultatione universæ terræ mons Sion; latera aquilonis, civitas regis magni.

[3] Deus in domibus ejus cognoscetur cum suscipiet eam. (1)

[4] Quoniam ecce reges terræ congregati sunt, convenerunt in unum.

[5] Ipsi videntes, sic admirati sunt, conturbati sunt, commoti sunt.

[6] Tremor apprehendit eos; ibi dolores ut parturientis:

[7] in spiritu vehementi conteres naves Tharsis. (2)

[8] Sicut audivimus, sic vidimus, in civitate Domini virtutum, in civitate Dei nostri: Deus fundavit eam in æternum.

[9] Suscepimus, Deus, misericordiam tuam in medio templi tui.

[10] Secundum nomen tuum, Deus, sic et laus tua in fines terræ; justitia plena est dextera tua.

[11] Lætetur mons Sion, et exsultent filiæ Judæ, propter judicia tua, Domine.

[12] Circumdate Sion, et complectimini eam; narrate in turribus ejus. (3)

[13] Ponite corda vestra in virtute ejus, et distribuite domos ejus, ut enarretis in progenie altera. (4)

[14] Quoniam hic est Deus, Deus noster in æternum, et in sæculum sæculi; ipse reget nos in sæcula.

[Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XLVII

Il sabbato era presso gli Ebrei l’ultimo giorno della settimana, ed era la loro festa. Il giorno prima il sabbato, si dicea il primo del sabbato; il secondo si dice il secondo del sabbato. Argomento è: lode a Dio per la riedificazione di Gerusalemme la città santa, e più ancora per l’edificio della Chiesa di Cristo, di cui Gerusalemme era figura.

Salmo del cantico; ai figliuoli di Core; per il secondo giorno della settimana.

1. Grande il Signore e laudabile sommamente nella città del nostro Dio, nel suo monte santo.

2. Con giubilo di tutta la terra è fondato il monte di Sion, la città del gran Re dal lato del settentrione.

3. II Signore nelle case. di lei sarà conosciuto allorché egli ne prenderà la difesa. (1)

4.Imperocché, ecco che i re della terra si son raunati, hanno fatto congiura.

5. Questi stessi, al vederla, restarono stupefatti, si conturbarono, si commossero, li prese il terrore.

6. Quindi dolori come di una donna che partorisce;

7. Col soffio veemente tu fracasserai le navi di Tharsis. (2)

8. Secondo quello che avevamo udito, cosi abbiam veduto nella città del Signore degli eserciti, nella città del nostro Dio; il Signore l’ha fondata per l’eternità.

9. Abbiam ricevuto, o Dio, la tua misericordia, in mezzo al tuo tempio.

10. Come il tuo nome, o Dio, cosi la tua gloria sino ai confini della terra; la tua destra è piena di giustizia.

11. Rallegrisi il monte di Sion, ed esultino le figlie di Giuda a causa dei tuoi giudizi, o Signore.

12. Girate intorno a Sionne, e disaminatela per ogni parte, contate le torri di lei. (3)

13. Considerate coll’animo vostro quanto ella è forte; e distinguete le case di lei per raccontare alla stirpe che verrà. (4)

14. Come questi è Dio, il nostro Dio in eterno, e nei secoli dei secoli; ei ci governerà in perpetuo.

(1) La montagna di Sion si presta agli applausi di tutta la terra. Essa è il vero polo nord. I pagani, gli antichi, ritenevano il polo nord essere il punto più elevato della terra, il soggiorno dei loro dei. Questo voleva dire: è la vera dimora di Dio, la città del grande Re (Le Hir).

(2) I vascelli di Tharsis erano delle navi di lungo percorso che potevano compiere un viaggio da Tharsis. Qualcuno ha pensato che questo versetto abbia un senso metaforico. “Voi avete sconfitto i vostri nemici con la stessa facilità con la quale avete infranto i vascelli scatenando il vento d’oriente”. Ma nulla ci indica che sia una comparazione, ed è più probabile prendere questo versetto alla lettera ed intendere che Dio abbia distrutto una flotta nemica sulle coste della Giudea. Non è affatto una congettura azzardata. Nel passaggio spesso citato nei Paralipomeni, XX, versetto 2, noi vediamo, tra i congiurati, dei popoli al di là del mare.

(3) I figli di Giuda, cioè le città che circondano Sion, le altre città di Giuda.

(4) Vale a dire, fatte attenzione … esaminate nei dettagli.

Sommario analitico

In questo salmo il profeta, sotto figura della città di Gerusalemme, nel rendere a Dio delle azioni di grazie dopo una vittoria eclatante, manifesta la grandezza e l’eccellenza della Chiesa per questi tre motivi:

I.Per la sua magnifica costruzione:

– 1° Essa ha come architetto il Dio grande e degno di ogni lode (1), – 2° essa è situata mirabilmente (2); – 3° è governata dal grande Re, che sarà conosciuto nei suoi palazzi e prederà le sue difese (3); – 4° ha come cittadini dei re potenti venuti da ogni parte del mondo e uniti dai legami di una carità perfetta (4); 5° è saldamente stabilita contro i nemici che la minacciano da terra e da mare, e che saranno atterriti e dispersi (5-7); – 6° è fondata per l’eternità, secondo le predizioni antiche confermate dagli avvenimenti (8).

II.Per lo splendore di cui Dio l’ha circondata:

1° la misericordia di Dio abita in mezzo ad essa (9); 2° la rinomanza delle meraviglie che si compiono nel suo seno e l’equità dei suoi giudizi si espandono fino alle estremità della terra. (10, 11).

III.per la potenza di cui Dio l’ha rivestita, potenza che si manifesta:

– 1° nella forza delle sue torri e dei suoi bastioni (12); – 2° nelle opere dei suoi cittadini ed il bell’ordine dei suoi edifici (13); – 3° nella perpetuità della Provvidenza divina che la governa (14).

Spiegazioni e Considerazioni

I — 1, 8.

ff. 1, 3. – Cosa dite, o Profeta? A questo Dio così grande, così degno di elogi, voi restringete le sue lodi ad una città sola, ad una sola montagna? No, egli risponde, io parlo in tal sorta perché noi abbiamo conosciuto la grandezza di Dio prima di tutti gli altri popoli, ed i miracoli che si sono compiuti in questa città fanno risplendere la sua gloria (S. Chrys.). – Il Signore è grande e degno di ogni lode! « In quale ambito? » Nella città del nostro Dio e sulla montagna santa; è questa città, posta sulla montagna, che non può essere celata: essa è la lampada a cui il roveto non toglie la vista, ma che è come di tutti, che si manifesta agli occhi di tutti. Questa montagna è questa pietra distaccata da una certa montagna e che, secondo il profeta Daniele (Dan. II, 34), è cresciuta fino a divenire una grande montagna per coprire tutta la faccia della terra. In una parola è Gesù-Cristo e la sua Chiesa (S. Agost.). – E non è forse Dio degno di ogni lode in tutti i luoghi? Si, la sua grandezza e la sua potenza si espande dappertutto, ma il nostro spirito, troppo rinserrato, non può comprendere da quaggiù la grandezza e la potenza della grazia divina. Più la nostra conoscenza si avvicina a Dio, più ci appare la sua maestà sotto un giorno di luce più brillante. Pertanto è in Sion che conviene cantare un inno a Dio, è in Gerusalemme che renderemo i nostri voti. Cosa c’è dunque di stupefacente che la città celeste e questo splendido soggiorno della felicità sia il luogo in cui la sua potenza è proclamata con maggior forza? (S. Ambr.). – Non si conosce veramente il Signore, non Gli si rendono gli omaggi degni dei suoi attributi e dei suoi benefici, se non nel seno della Chiesa; se non lo si riconoscerà, lo si loderà perfettamente solo in cielo, che è la sua città santa per eccellenza. Gerusalemme fu la figura della Chiesa, e la Chiesa è la figura dell’eternità beata (Berthier). – Dio è grande, mirabile e degno di ogni tipo di lode in tutte le sue opere, ma particolarmente nella fondazione della sua Chiesa. La casa di Dio, le chiese cristiane costruite in suo onore, sono i luoghi privilegiati in cui Egli è particolarmente conosciuto e prende le difese di coloro che Lo invocano (Dug.).

ff. 4, 7. – Questi tentativi dei nemici di Gerusalemme, rappresentano i vani complotti dei nemici della Chiesa contro Gesù-Cristo, il suo Capo, contro i suoi Apostoli, contro i suoi martiri, contro i suoi dogmi, e gli sforzi del mondo, dell’inferno e delle passioni contro le anime determinate a servire Dio in spirito e verità. Tutto dovrà naufragare da parte di questi avversari, perché il Signore dissipa tutti i loro complotti (Berthier). – Dopo lo sbigottimento causato dai miracoli e dalla gloria del Cristo, cosa è sopraggiunto? « … Essi sono stati turbati, sono agitati e presi da tremore ». Perché li ha presi il tremore, se non a causa della coscienza dei loro crimini? Che i re corrano dunque dietro al Re; che i re riconoscano il Re. I re devono dunque temere di perdere il loro reame, come temeva il miserabile Erode, che per colpire un solo bambino, fece uccidere tanti bambini, e che, temendo di perdere il suo reame, non ha meritato di conoscere il Re? Non temete dunque che il reame di questo mondo vi sia tolto, al contrario vi sarà dato un reame, quello dei cieli, dove c’è il Re. E cosa hanno fatto essi? « Là hanno sofferto dolori come della donna che partorisce ». Cosa sono questi dolori? I dolori della penitenza! Vedete come si concepiscono questo dolore e questo parto! Noi abbiamo concepito, dice Isaia, per il timore che avete inspirato ed abbiamo partorito lo Spirito di salvezza (Is. XXVI, 18). È dunque così che, per il timore che hanno sentito del Cristo, i re hanno concepito e prodotto la salvezza, credendo a Colui che essi temevano. Dove sentite le grida di un parto, aspettatevene il frutto. L’uomo vecchio partorisce e l’uomo nuovo viene al mondo. – « Con un colpo di vento violento, abbattete le navi di Tharsis ». Voi frantumate l’orgoglio delle nazioni. E tutti coloro che inorgogliscono per i beni effimeri di questa vita, siano dunque abbattuti, e tutto l’orgoglio delle nazioni sia sottomesso al Cristo, che frantuma i navigli di Tharsis. E come li distrugge? Con un colpo di vento violento, per il vivo terrore che Egli ispira… è così in effetti, che ogni orgoglio ha temuto il suo giudizio ed ha creduto in Lui nella sua bassezza, per non temerlo nella sua elevazione (S. Agost.). Noi abbiamo ascoltato fuori dalla città, ed abbiamo visto nell’interno della città di Dio che è la luce eterna, dove il giorno brilla senza aver bisogno della luce dei re, dove la notte non è illuminata dalla luna, … città eterna le cui fondamenta sono eterne (S. Ambr.). Beata meraviglia nel vedere ciò che prima non si vedeva! Sconcerto salutare che fa concepire il disgusto della vita passata! Emozione straordinaria nella prospettiva di abbracciare una nuova vita! Tremore utile, terrore salutare alla vista dei terribili giudizi di Dio! Beati dolori che soffre l’uomo vecchio per generare il nuovo; dolori salutari di un vero pentimento e di una solida penitenza! Soffio di vento impetuoso, figura di questa operazione divina, interiore, sollecita e onnipotente dello Spirito Santo, che rimescola ed agita il cuore, lo penetra, lo purifica, lo eleva al cielo e vi spande la pace ed il vero riposo. Il peccatore rinunci a queste navigazioni lontane e pericolose sull’oceano tumultuoso delle sue cupidigie e dei suoi vizi, per fissarsi sulla terra ferma della verità e della virtù (S. Thom. – Duguet).

ff. 8. – O Chiesa beata! In un tempo, voi avete ascoltato, ed in un altro tempo avete visto. Essa ha inteso le promesse, e ne vede il compimento. Essa ha ascoltato belle profezie, essa ha visto nel Vangelo. In effetti, tutte le cose che si compiono ora sono state profetizzate in precedenza. Elevate dunque i vostri occhi e dirigeteli sul mondo intero; vedete l’eredità del Cristo, che si intende già fino alle estremità della terra; vedete compiersi ciò che è stato detto: « Tutti i re della terra Lo adoreranno, tutte le nazioni Lo serviranno » (Ps. LXXI, 11). Vedete compiute già queste altre parole: « O Dio, elevatevi al di sopra dei cieli e la vostra gloria si espanda su tutta la terra » (Ps. CVII, 6). Vedete Colui i cui piedi e le cui mani sono state inchiodate, le cui ossa, sospese sul legno della croce, sono state contate, la cui veste è stata tirata a sorte (Matth. XXVII, 35); vedete regnante nella gloria, Colui che hanno visto sospeso al patibolo; vedete anche nei cieli, Colui che hanno disprezzato quando Egli camminava sulla terra; vedete pertanto attuarsi questa predizione: « Tutti i popoli, fino all’estremo limite della terra, si ricorderanno del Signore e si convertiranno, e tutte le nazioni Lo adoreranno, prosternate davanti a Lui » (Ps. XXI, 28). Alla vista di tali meraviglie, gridate con gioia: « … ciò che abbiamo ascoltato, noi l’abbiamo visto » (S. Agost.). – Degno è della grandezza di Dio regnare sugli spiriti, o catturarli con la fede, o contentarli con la chiara visione. L’una e l’altra sono degne di Lui, Egli farà l’una e l’altra, ma ogni cosa deve avere il suo tempo. Tutte e due nondimeno sono incompatibili: io voglio dire l’oscurità della fede e la chiarezza della vista. Come ha fatto? Ecco il mistero del Cristianesimo; esso ha diviso queste due cose, tra la vita presente e la vita futura; l’evidenza nella patria, la fede e la sottomissione durante il viaggio. Un giorno la verità sarà scoperta, nell’attesa, per prepararsi, occorre che l’autorità sia riverita; l’ultima farà il merito, e l’altra è riservata per la ricompensa. « Là abbiamo le stesse cose che abbiamo sentito ». (Bossuet, Div. De la Rel.).

II.— 9, 11.

ff. 9. – È sempre alla misericordia di Dio che noi siamo grati per i lumi che Egli ci dona, e delle consolazioni che infonde nel nostro cuore. È in mezzo al suo tempio che questa misericordia diffonde i suoi favori. L’universo è il tempio di Dio, e noi possiamo adorarlo dappertutto, ma ci sono due luoghi di preghiera dove si manifesta più abbondantemente (Berthier). La meditazione delle bontà di Dio è cosa dolce e soave dappertutto; ma essa ha una attrazione particolare nel tempio, ove si pone ad intendere, ad ascoltare, ad esaudire i suoi servi. Le chiese cristiane, testimoni continue delle meraviglie più grandi della potenza divina, testimoni giornaliere dei rinnovi dell’adorabile Sacrificio, hanno per il peccatore che domanda la grazia, per il giusto che mostra la sua riconoscenza, qualche cosa di penetrante e di sublime. È la casa paterna, il santuario della divinità, il vestibolo del cielo, e in certi momenti il cielo stesso (Rendu). – È là che le nostre tenebre si dissipano, le nostre debolezze si fortificano, la nostra pace si riconquista, i nostri dolori sono leniti; è là che le nostre gioie più pure e più solide fioriscono, e le nostre preghiere sono più potenti.

ff. 10. – Non c’è che Dio la cui gloria eguagli il Nome, cioè che meriti tanta gloria, onore, adorazione tanto il suo Nome è grande, augusto ed ineffabile. Sulla terra, i grandi sono rivestiti da titoli e non meritano spesso alcuna considerazione. I loro nomi sono brillanti e le loro persone spregevoli; essa posseggono l’eredità di ancestri illustri con marchi di onore e dignità eminenti, ma disonorano tutto con la bassezza dei loro sentimenti. In Dio al contrario, il Nome e la gloria sono all’unisono, se possiamo così esprimerci. Dio riempie tutta l’estensione dei nomi che la Scrittura Gli dà. Tutta la gloria dovuta a questi Nomi, a questi titoli è egualmente dovuta a Dio; la misura della sua gloria è la stessa di quella del suo Nome, o piuttosto occorre dire che il suo Nome e Se stesso, il suo Nome e la sua gloria, sono una cosa sola! (Berthier).

ff. 11. – O montagna di Sion! O figlia di Giuda! Voi soffiate ora in mezzo alla zizzania, in mezzo alla paglia, soffiate in mezzo alle spine, ma datevi all’allegria nell’attesa dei giudizi di Dio. Dio non si sbaglia nei suoi giudizi. Vivete distaccati, benché nati nella massa comune, e non sarà inutilmente che direte con la bocca ed il cuore: « Non perdete la mia anima con quella degli empi, né la mia vita con quella degli uomini sanguinari » (Ps. XXV, 9). Libratevi alla gioia, o figlia di Giuda, a causa dei giudizi infallibili di Dio, ed ora guardatevi dall’esprimere giudizi temerari. A voi il raccogliere, a Dio il separare (S. Agost.).

III. — 12 – 14.

ff. 12-13. – Vedete questa città che aveva perso ogni speranza, che era stata distrutta e non formava più che un mucchio di rovine; come è stata ristabilita in uno stato più brillante? Considerate dunque con attenzione la sua ricostruzione, il suo splendore, il suo fulgore, e riconoscerete che è la potenza di Dio che ha elevato così in alto questa città che non aveva più speranze, raccontate ai vostri discendenti le opere della potenza divina e della provvidenza continua di Dio da cui provengono, e che non cessa di vegliare su di noi, di dirigerci, di difenderci. E noi anche non cessiamo di considerare e contemplare in noi stessi Gerusalemme, la nostra vera città. Abbiamo sempre davanti agli occhi lo splendore di questa città, che è la metropoli del Re dei secoli, e che riunisce nel suo seno lo spirito dei giusti, i cuori dei patriarchi, degli apostoli, e tutti i santi, in cui la mobilità delle cose della terra fa spazio all’immutabilità ove ogni bellezza è invisibile ed immortale (S, Chrys.). – Coloro che comprendono la città di Sion la circondano, l’abbracciano nei pensieri del loro spirito, per non lasciarsi scappare la conoscenza speculativa della virtù che essi hanno acquisito. Ora questi spiriti elevati che abbracciano così la cinta di Sion e che, per gli sforzi della loro intelligenza, sono pervenuti alla sommità delle sue torri, istruiscono da lì coloro che non hanno potuto seguirli su queste altezze, su ciò che devono fare o evitare (S. Ambr.). – Lavoriamo, ognuno secondo la propria vocazione, a fare la torre di Sion della Chiesa, questa città santa, per annunciare le meraviglie di Dio, raccontarle dall’alto delle sue torri, renderle pubbliche dappertutto in modo da farle intendere da tutti; bisogna lavorare a costruire le sue mura, a fortificarle sempre più. Distribuiamo e dividiamo gli uni con gli altri queste opere, affinché, occupandosi ognuno della costruzione spirituale di questo divino edificio, coloro che vedranno in seguito apprendano gli uni dagli altri questa meraviglie (Duguet). – « Applicatevi a considerare la sua forza », distribuite le sue case, cioè le dimore celesti assegnate a ciascuno degli eletti nell’ordine dei loro meriti. Ci sono dei precetti più sublimi e più elevati nei quali si trovano nascosti i misteri della perfezione, e tutta la divina teoria della dottrina celeste. Sull’esempio di San Paolo distribuite queste verità secondo l’intelligenza di ciascuno ed in modo proporzionato alla capacità di ogni spirito (S. Ambr.). – Se Egli è nostro Dio, è anche nostro Re: Egli ci protegge, perché è Dio, affinché non moriamo più; ma nel reggerci non ci distrugga, in modo tale che Egli distrugga coloro che non regge. « Voi li governerete, dice allora il salmista, con verga di ferro, e li frantumerete come vaso di argilla » (Ps. II, 9). Questo è degli uomini che Egli non regge; Egli non li risparmia, e li frantuma come vasi di argilla. Speriamo dunque che Egli ci regga e ci liberi, perché Egli è il nostro Dio per l’eternità, e che il suo regno su di noi non finisca mai, come quello degli altri principi che si chiude nello spazio di qualche anno o di qualche secolo, ma che si estenda, senza limiti, per tutti i secoli avvenire. (S. Agost.).