SALMI BIBLICI: “DIXIT DOMINUS, DOMINO MEO” (CIX)

SALMO 109: “DIXIT DOMINUS DOMINO MEO ominus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 109

[1] Psalmus David.

    Dixit Dominus Domino meo:

Sede a dextris meis, donec ponam inimicos tuos scabellum pedum tuorum.

[2] Virgam virtutis tuae emittet Dominus ex Sion: dominare in medio inimicorum tuorum.

[3] Tecum principium in die virtutis tuae in splendoribus sanctorum; ex utero, ante luciferum, genui te.

[4] Juravit Dominus, et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech.

[5] Dominus a dextris tuis; confregit in die irae suae reges.

[6] Judicabit in nationibus; implebit ruinas, conquassabit capita in terra multorum,

[7] de torrente in via bibet; propterea exaltabit caput.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CIX.

Salute del regno di Cristo e del suo Sacerdozio. Cosiè inteso e spiegato in molti luoghi della Sacra Scrittura. — S. Matt., c. XXII; Att. II; Cor. XV; Ebr. I, 5, I., 10.

Salmo di David.

1. Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra; Fino a tanto che io ponga i tuoi nemici sgabello ai tuoi piedi. (1)

2. Da Sionne stenderà il Signore lo scettro di tua possanza; esercita il tuo dominio in mezzo dei tuoi nemici.

3. Teco è il principato nel giorno di tua possanza tra gli splendori della santità; avanti la stella del mattino io dal mio seno ti generai. (2)

4. Il Signore ha giurato, ed ei non si muterà: Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech.

5. Il Signore sta al tuo fianco; egli nel giorno dell’ira sua i regi atterrò.

6. Farà giudizio delle nazioni; moltiplica le rovine; spezzerà sulla terra le teste di molti.

7. (E dirà): Egli nel suo viaggio berrà al torrente; per questo alzerà la sua testa. (3)

***

( 1) Il titolo di Signore, di Sovrano, dato da Davide al Messia, prova la sua divinità.

(2) La parola ἀρκὴ significa nello stesso tempo principium e principatus. – Non c’è versetto che sia stato mai tanto diversamente interpretato, e comparando tutte queste versioni, risulta che siamo al cospetto di un testo che ha sofferto. La causa non è forse perché esprime molto chiaramente la generazione eterna, e di conseguenza la divinità del Salvatore? Noi pensiamo che il testo vero è quello che segue il traduttore greco. Noi diciamo greco, perché scriveva in questa lingua. Si sa che era giudeo. L’espressione ex utero non deve essere preso alla lettera; è una antropologia (S. Gerol.). – Nello splendore dei santi, nel giorno in cui i santi saranno circondati di splendore.

 (3) Agier e de Nolhac fanno qui notare, a ragione, che nei paesi caldi dell’Oriente, e specialmente in Palestina, l’acqua è rara. I viaggiatori ricchi prendono cura di far provviste con otri che vengo portati dai cammelli o dagli schiavi, mentre i poveri sono ridotti a contentarsi di quella che trovano lungo la strada, spesso fornita dai torrenti.  La scrittura fa menzione di un torrente celebre, il torrente del Cedron, in due circostanze notevoli. Davide oltrepassa questo torrente quando esce da Gerusalemme fuggendo davanti a suo figlio Assalonne, ed ebbe ben presto a sopportare le ingiurie e le maledizioni di Séméi (II Re, XXV, 23). Gesù-Cristo passò questo stesso torrente quando uscì da Gerusalemme per andare con i suoi discepoli ove il traditore Giuda doveva poi venire a consegnarlo ai Giudei (Giov. XVIII, 1).

Sommario analitico

È di fede che questo salmo abbia come autore Davide, non solo perché Nostro Signore Gesù-Cristo glielo attribuisce alla presenza dei farisei, alla credenza dei quali Egli lo avrebbe accomodato, ma perché l’argomentazione che fonda sulla citazione che ne fa, non avrebbe valore se questo salmo non fosse composto da Davide. – È ancora di fede che questo salmo abbia per oggetto il Messia e che si riferisca interamente a Nostro-Signore Gesù-Cristo: Egli infatti lo attribuisce a se stesso (Matth. XXII, 44); San Pietro lo ha commentato in questo stesso senso (Act. II, 34), e San Paolo in modo non meno esplicito (I Cor. XV, 25; Ebr. II, 13). – Il Re-Profeta vi annuncia e ne celebra la potenza, la generazione eterna nonché il Sacerdozio del Figlio di Dio:

I. – La sua potenza reale:

1° Nel cielo, il suo trono è comune con quello di suo Padre (1);

2° Sulla terra, aspettando la sottomissione completa dei suoi nemici, punto di partenza di questa potenza (2);

3° Nell’ultimo giorno, secondo il sentimento di diversi Padri, S. Crisostomo, Teodoreto, Sant’Agostino, San Atanasio, etc.

II. – La ragione e la fonte di questa potenza:

1° La ragione di queste vittorie: Tecum principium;

2° il giorno in cui trionferà nella maniera più eclatante;

3° il segreto di tanta potenza e gloria, è la sua generazione eterna (3).

III. – Gli attributi che derivano da questa generazione:

1° Il sacerdozio la cui eccellenza deriva, a) da quanto ha promesso con giuramento; b) dal fatto di essere di un ordine superiore a quello della legge; c) per essere Egli eterno (4);

2° La potenza vittoriosa del Cristo per il rovesciamento degli idoli, il giudizio ed il castigo dei re e dei popoli, e dei demoni, dei quali colmerà le rovine con delle ineffabili sostituzioni (5, 6).

IV. – Il Mezzo con il quale è arrivato a questo alto grado di potenza e di gloria, cioè il merito e la ricompensa.

1° Egli ha bevuto l’acqua del torrente, espressioni che nella Scrittura significano ordinariamente l’umiliazione, le afflizioni ed il dolore (7). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1. – Quanto questo salmo è breve per numero di parole, tanto più è grande e considerevole per i pesi dei pensieri. (S. Agost.). – Dio ha un Figlio, e questo Figlio è Dio come Lui, e questo Figlio è generato dal Padre suo eternamente, sostanzialmente; « Egli è lo splendore della sua gloria, l’immagine della sua sostanza. » (Hebr. I, 3). Tali sono la magnificenze che canta Davide in questo salmo: « il Signore ha detto al mio Signore. » È Dio Padre che parla a Dio Figlio, e gli ricorda l’ineffabile segreto della sua eterna generazione. – È bello che Davide, al quale il trono era stato promesso nella figura di Gesù-Cristo, fosse il primo a riconoscere il suo impero chiamandolo “mio Signore”, come se avesse detto: in apparenza è a me che Dio promette un impero che non avrà mai fine; ma in verità, è a Voi, o Figlio mio, che siete anche mio Signore, che esso è dato; ed io vengo in spirito per primo tra tutti i vostri assoggettati, a rendervi omaggio nel vostro trono, alla destra del Padre, come al mio sovrano Signore. Ecco perché non è detto in generale: il Signore ha detto al Signore; ma: « al mio Signore » (Bossuet, Med.). – Noi lo vediamo essenzialmente come Dio, e diciamo: « è qui il nostro Dio e non ce n’è altri. » Perché se è generato, Egli è Figlio, della stessa natura del Padre; se è della stessa natura, Egli è Dio, ed un solo Dio con suo Padre; perché nulla è più della natura di Dio che la sua unità. – Egli è Re; io lo vedo in spirito seduto in un trono. Dove è questo trono? Alla destra di Dio; lo poteva mettere in luogo più elevato? Tutto accoglie da questo trono: tutto ciò che è accolto da Dio e dall’impero del cielo, vi è sottomesso. Ecco il suo impero. (Bossuet, Med. LII, j). – «Sedetevi alla mia destra. » Questa espressione metaforica, “sedetevi”, significa due cose, dicono San Crisostomo e san Tommaso: la maestà ed il riposo; la maestà, qui c’è eguaglianza di onore; il trono è simbolo di regalità, e poiché non c’è che un solo trono, entrambi dividono l’onore della medesima Regalità. È ciò che faceva dire a San Paolo (Hebr. I, 7, 8): « Dio ha fatto degli spiriti i suoi inviati, e fiamme i suoi ministri. Ma al Figlio, Egli dice: « Il vostro trono, o Dio, sarà un trono eterno. » (S. Chrys.). – « Sedete alla mia destra, la divinità ci viene sottolineata molto chiaramente nella prima parte di questo versetto; e non lo è meno nella seconda: il Figlio seduto alla destra del Padre, è il segno della sua potenza, della sua perfetta eguaglianza con il Padre, Egli è Dio come il Padre. Ma se c’è uguaglianza perfetta tra il Padre ed il Figlio, c’è pure distinzione di Persone: il Figlio è generato dal Padre; « Egli siede alla sua destra. » – Si può anche dire che queste parole richiamino e suppongano l’umanità di Gesù-Cristo: Egli fa il suo ingresso nel cielo, vi è ricevuto come un ospite, e Gli è assegnato da Dio, suo Padre, un posto distinto. Il Figlio di Dio, è dunque anche il Figlio dell’uomo, perché gli si da il riposo, la potenza e la gloria; il riposo dopo i travagli ed i dolori della sua vita mortale. Egli divide ora il trono di suo Padre associato al suo impero come lo è alla sua divinità. È il Signore: Egli siede nel soggiorno della gloria, e nulla accade nel mondo senza il suo ordine o il suo permesso. « Sedetevi. » La sua potenza è indistruttibile, Egli è seduto! Ben diversamente dai re ed i principi di questo mondo, che sono per così dire in piedi sui loro troni, pronti a partire al primo colpo di vento e che non fanno che prendere e deporre la porpora ed il diadema; Egli è seduto: il suo trono è eterno; il suo regno non avrà fine, (Mgr PICHENOT, PS. du Dim. 29.). – Tutto ciò che è passato nel capo, deve, fino ad un certo punto, rinnovarsi nei membri: « Se siete resuscitati con Gesù-Cristo, cercate le cose del cielo ove il Cristo è seduto alla destra di suo Padre » (Coloss. III, 2). Al termine della nostra carriera, riconoscendo in noi la somiglianza che dobbiamo avere con suo Figlio, Dio Padre ci dirà: Buoni servitori, riposatevi, fermatevi, passate alla destra; gregge fedele, voi avete completato la vostra corsa, avete conservato la fede, avete trionfato del mondo, non vi resta che gustare il riposo, cingere la corona di giustizia e prendere posto sul trono stesso di mio Figlio. – Perché, ecco ciò che dice Colui che è la verità stessa, il testimone fedele e verace, che è il principio della creatura di Dio … « Colui che sarà vittorioso Io gli darò di sedere sul mio trono, come Io stesso ho vinto, e mi sono seduto con Voi, Padre, sul vostro trono. » (Apoc. III, 14-21). – « Finché avrò ridotto i vostri nemici a servire da marciapiede. » Questa espressione “fino a che”, non designa sempre nella scrittura un tempo limitato, è semplicemente un’affermazione che si applica, invero, ad una determinata epoca, e che nondimeno non ne esclude nessuna; perché se il regno di Gesù-Cristo si dovesse intendere al di là, ove sarebbe la verità di queste parole del profeta: « La sua potenza è una potenza eterna, il suo regno, un regno che non deve esaurirsi, e questo regno non avrà fine? » (Dan. VII, 14; Luc. I, 34) Non è sufficiente intendere queste parole, bisogna comprenderle ed entrarne nell’intelligenza anche delle cose che il Profeta ha in vista (S. Chrys.). – Tuttavia, questa maniera di esprimere è logica e fondata sulla ragione; questo “fino a quando” porta in effetti sul lasso di tempo in cui le cose che si affermano sembrano meno verosimili; e dà luogo, di conseguenza, ad un fortiori invincibile per giorni migliori e più felici. Se il Cristo è tranquillamente e gloriosamente seduto sul suo trono alla destra del Padre, anche nell’ora del combattimento, e quando i suoi nemici non sono ancora vinti, Egli deve regnare meglio che mai quando Dio li avrà circondati ed annientati. (Mgr PICHENOT, p. 35.). – Il Figlio di Dio, avrà dunque dei nemici, la Santa Scrittura e l’esperienza ce lo attestano. Essi devono essere come un segno di contraddizione universale: la storia di tutti i secoli non è che il triste e lamentevole commento di queste parole. I Giudei, i Gentili, i popoli civilizzati e quelli barbari, la spada dei Cesari, la penna dei sofisti, l’ascia dei carnefici, tutto è stato diretto contro di Lui, soprattutto ciò che lo richiama, soprattutto quelli che gli appartengono. – Come saranno trattati i nemici? « Essi saranno talmente vinti, umiliati, che Io li ridurrò a servirvi da marciapiedi. » Ciò che si mette sotto i piedi di qualcuno, lo eleva e lo ingrandisce. I nemici del Signore, circondati e confusi, con le loro fronti superbe, formeranno come il primo grado del suo trono e della sua potenza. – Applichiamole – queste parole – ai Giudei, portatori dei nostri titoli, testimoni non sospetti dell’autenticità delle nostre profezie, ai persecutori, ai carnefici, agli scismatici, agli eretici, ai nemici interni ed a noi stessi. – Voi siete il nemico del Signore, sarete un giorno sotto i suoi piedi, infallibilmente adottati o vinti. Vedete quale posto volete occupare sotto i piedi del Signore vostro Dio, perché voi me avrete necessariamente uno, o di grazia, o di castigo; o verrete da voi stessi, condotti dalla grazia, a fare la vostra sottomissione al Redentore, o sarete circondato e schiacciato sotto i piedi delle sue vendette (S. Agost.).

ff. 2. – Il regno del Messia doveva cominciare da Gerusalemme, i Profeti lo avevano annunziato; il Salvatore diceva Egli stesso, non era stato inviato che alle pecore smarrite della casa di Israele, e raccomanda ai suoi Apostoli di predicare innanzitutto nella Giudea. – Questo scettro della potenza divina, questo mezzo particolare di vittoria che Dio ha scelto, è la sua croce, lo strumento stesso del supplizio, alfine di far meglio brillare la sua gloria ed apparire sola nella conversione dell’universo. Essa è stata per gli Apostoli, ciò che altra volta era stata per Mosè la verga miracolosa alla quale Dio aveva comunicato una potenza divina: San Paolo non predicava se non Gesù-Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i gentili, ciò che era in realtà la saggezza e la potenza di Dio (S. Chrys.). –  « Dominate in mezzo ai vostri nemici, », vale a dire in mezzo alle nazioni frementi. È solamente più tardi, quando i santi avranno ricevuto la gloriosa ricompensa, e gli empi la loro dannazione, che il Cristo dominerà in mezzo ai nemici? Quale stupore che allora vi domini? Ma è ora che Voi dovete dominare in mezzo ai vostri nemici, ora, in questo passaggio dei secoli, in questa propagazione e successione della mortalità umana, in questo torrente di tempi che fuggono, che bisogna assicurare la vostra dominazione in mezzo ai vostri nemici (S. Agost.). Il regno del Messia è un regno legittimo, vero, un regno volontario, ma è un regno contestato, ecco ciò che lo distingue; ci sono sempre dei nemici, Egli ne è circondato da ogni parte: « Io vi invio, diceva Gesù ai suoi Apostoli, come pecore in mezzo ai lupi. » Qual prova più grande di questa vittoria eclatante degli Apostoli, l’aver elevato degli altari in mezzo ai loro nemici, essi che erano come pecore in mezzo ai lupi, … Egli non dice: uccidete, sterminate i vostri nemici, che siano forzati a riconoscere la vostra sovrana potenza (S. Gerolamo). – Egli non dice: Siate vincitori in mezzo ai vostri nemici, ma stabilite il vostro impero, “dominate”, per insegnarci che non è un trofeo che eleva dopo aver trionfato dei suoi nemici, ma un impero che stabilisce con autorità (S. Chrys.). – Tutti i vostri nemici, o mio Re, « devono essere lo sgabello dei vostri piedi. » Essi saranno ridotti, essi saranno vinti, saranno forzati a baciare i vostri passi e la polvere ove avrete camminato; cosa aspettiamo? Mettiamoci volontariamente sotto i piedi di questo Re vincitore, per timore che non ci si metta per forza, per paura che non dica dall’alto del suo trono: « per coloro che non hanno voluto che Io regnassi su di loro, che li si faccia morire davanti agli occhi miei, » davanti alla mia verità, davanti alla mia giustizia eterna; perché questo sarà il loro eterno supplizio, che la verità e la giustizia li condanneranno per sempre, e questa sarà la morte eterna. « Sedetevi, aspettando « nel vostro trono », o Re di gloria, « finché non verrà il tempo di mettere tutti i vostri nemici sotto i piedi, » cioè: dimorate in cielo finché non veniate ancora una volta a giudicare i vivi ed i morti …

II. — 3.

ff. 3. – È sempre il Signore che parla al Signore, è Jéhovah che si trattiene con Adonai fatto uomo. Perché il Figlio di Dio dominerà in mezzo ai suoi nemici? « La sovranità è in Voi dal giorno della vostra potenza, » cioè: essa non è sopravvenuta accidentalmente, essa essenzialmente vi appartiene da sempre. È questa stessa verità che Isaia esprime in questi termini: « Egli porta sulla sua spalla il segno del suo dominio, » (Isai. IX, 6); vale a dire: Egli la porta in se stesso, nella sua natura, nella sua sostanza; è una prerogativa che non hanno i re, la cui sovranità è interamente nelle loro numerose armate (S. Chrys.). – La sovranità è con Lui, essa gli appartiene, è un suo diritto, è il suo eterno patrimonio sulla terra come nei cieli, essa non lo lascia mai. Siete Re? Gli domanda Pilato. « Si, Io lo sono, Egli rispondeva; è per questo che Io sono nato e sono venuto in questo mondo. » (Giov. XVIII, 37). San Giovanni, con uno sguardo di aquila, l’ha posto nell’isola di Patmos: « Egli portava scritto sui suoi vestiti: Re dei re e Dominatore dei dominatori. » Ma ogni sua virtù è interiore, risiede nella sua stessa volontà, scaturisce spontaneamente dalle profondità della sua natura divina. – Non è così di coloro che si chiamano i padroni del mondo: la loro forza non è che un prestito, non è sempre in essi, e soprattutto non è in essi: essa è nel numero e nel coraggio delle loro truppe, nella devozione ed abilità dei loro generali, nell’affezione e le buona volontà dei loro soggetti; essa è nei loro tesori, nelle loro muraglie o nel loro nome … se tutto ciò viene loro a mancare, essi restano soli … (Mgr. Pichenot, Ps. du Dim.). – Il Figlio di Dio conserva questa Maestà suprema in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, ma ci sono dei giorni in cui si compiace di far risplendere con più splendore e che per Lui sono i giorni della sua forza per eccellenza. Tre grandi giorni ci sono, in cui la potenza del Figlio di Dio si manifesta: il giorno della Creazione, il giorno della Redenzione ed il giorno del Giudizio e della Resurrezione (S. Agost.- S Chrys.). – Il Re-Profeta dice: « nello splendore dei santi, » e non: nello splendore, perché le ricompense eterne sono numerose e varie. Ci sono più dimore nella casa del Padre (Giov. XIV, 2), diceva Gesù-Cristo, e san Paolo (I Cor., XV, 41): « … il sole ha il suo bagliore, la luna il suo, e le stelle la loro chiarezza, e tra le stelle l’una è più brillante delle altre. » Ne è lo stesso alla resurrezione dei morti. » (S. Chrys.). Chi è colui che sembrerà così grande? Da dove viene la sua forza? Da dove viene la sua maestà? Colui che è consustanziale al Padre e al quale suo Padre ha detto: « Io vi ho generato dal mio seno ». – Un essere non può trarre la esistenza da Dio che in due maniere: o per via di creazione, secondo le parole di san Paolo: « Per noi non c’è che un solo Dio, il Padre dal quale procedono tutte le cose, » (I Cor. VIII, 6); o per via di generazione, secondo le parole di Nostro Signore Gesù-Cristo; « Io sono uscito da mio Padre, » (Giov. XVI, 28); e queste altre del salmista: « Io vi ho generato dal mio seno prima dell’astro del mattino, » non senza dubbio che Dio abbia un seno come le sue creature, ma perché i figli veri e legittimi sono generati dal seno delle loro madri. Dio dunque impiega questa espressione: « Io vi ho generato dal mio seno, » per confondere gli empi, affinché considerandone loro pasto, essi apprendano che il Figlio è il frutto vero e legittimo del Padre poiché esce dal suo dal proprio seno (S. Basilio, Adv. Eunom., lib. V). –  « Io vi ho generato dal mio seno prima dell’aurora. » Ecco ciò che spiega tutto, ed il principio delle sue grandezze. Egli viene dal seno di Dio, è una emanazione della sua sostanza, un altro se-stesso … Egli non è stato creato, non è stato fatto, ma generato; Egli non è l’opera di Dio, è il Figlio suo consustanziale; è là la sua gloria incomunicabile. Il Padre non ha detto a nessuno: Voi siete mio figlio, Io vi ho generato. (Mgr PICHENOT, PS. du D.). – Dio Padre non ha bisogno di associarsi ad altra cosa per essere padre e fecondo; Egli non produce fuori di sé questo altro se stesso, perché nulla di ciò che è fuori di Dio, è Dio. Dio dunque concepisce solo in se stesso: Egli porta in se stesso suo Figlio che gli è coeterno. Ancorché non sia che Padre, e che il nome di madre legato ad un sesso imperfetto per sé, e degenerante non gli convenga, Egli tuttavia ha come un seno materno nel quale porta suo Figlio: « Io ti ho – Egli dice – generato oggi da un seno materno. » Ed il Figlio unico si chiama Egli stesso: « Figlio unico che è nel seno del Padre, è un carattere unico proprio del Figlio di Dio; » perché dove è il Figlio, Egli solamente, che è sempre nel Padre suo, e non esce mai dal Padre suo? La sua concezione non è distinta dalla sua nascita; il frutto che è perfetto, dal momento che è concepito e non esce mai dal seno che lo porta. Chi è portato in un seno immenso è innanzitutto così grande e così immenso, come il seno in cui è concepito, e non ne può mai uscire (Bossuet, Elev. 11, S. I, El.). – Queste parole: « Prima della stella del mattino, » non significano … prima che si levi la stella del mattino, ma … prima della creazione e la nascita di questa stella. La Scrittura distingue perfettamente queste due circostanze. Prima della natura, la creazione, e prima del levarsi (Sap. XVI, 28; Ps. LXXI, 17-5), (S. Chrys.). – La stella del mattino, il precursore è messo qui per tutti gli astri, designando la Scrittura il tutto con la parte, e tutti gli astri con l’astro più brillante (S. Agost.). – Cosa dunque? La sua generazione non ha preceduto se non la stella del mattino? No, senza dubbio, poiché infatti leggiamo: « il suo trono esiste da prima della luna. » E non solo prima della luna, poiché lo stesso Re-Profeta dice del Padre: « Prima della formazione delle montagne, prima della formazione della terra e del mondo, Tu sei Dio di tutti i tempi e per l’eternità. » (Ps. LXXXIX, 2). Dio non esiste solo dopo l’inizio dei secoli, ma prima di tutti i secoli (S. Crys.). – Tanto fu senza dubbio per ricordare questa generazione eterna, che il Figlio di Dio ha voluto nascere nel tempo, a metà della notte, prima dell’aurora.   

III. — 4-6.

ff. 4. – Davide dà ora alla sua profezia la forma di un giudizio solenne, e si rivolge al Figlio di Dio stesso, segno evidente di un amore ardente, di una gioia straordinaria, di un’anima piena dello Spirito di Dio … Egli discende dalle altezze ove si era posto e tratta così di volta in volta della divinità o dell’umanità del Salvatore (S. Chrys.). –  Mistero d’amore e di condiscendenza, Dio fa, per così dire, il sacrificio della sua dignità e scende fino a prestare giuramento tra le nostre mani, se posso esprimermi così, fino a giurare per se stesso che ha detto la verità e che si possa credere alla sua parola. – Gli uomini giurano per Colui che è più grande di essi, ma l’Altissimo per chi dovrebbe giurare? Non trovando – dice S. Paolo – superiori o eguali, Egli giura per se stesso, così come ci afferma, ed il suo giuramento resta in eterno! – Cosa ha giurato? « Voi sarete sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek. » Gesù-Cristo è Sacerdote, è il Pontefice della Nuova Alleanza, il Vescovo delle nostre anime, è Lui e Lui solo che riconosce ed adora come esse meritano le grandezze di Dio, le ringrazia degnamente per i loro benefici, disarma la sua giustizia ed effonde su tutti i doni del Signore. – Egli è Sacerdote eterno; si può dire, a rigore, che il suo Sacerdozio non è cominciato e non finirà e che, fin nelle profondità di Dio, Egli celebra le sue ineffabili grandezze, riflettendole nella sua adorabile Persona. Ma il suo Sacerdozio propriamente detto non è cominciato che con il mondo. Dopo la caduta, in particolare, il Figlio di Dio preludeva al ministero ed alle funzioni sante del suo Sacerdozio. Egli è l’Agnello immolato fin dall’inizio del mondo … La Giudea, la terra intera, non è che un immenso altare ove tutto richiamava, figurava, questa grande Vittima. – Egli è Sacerdote soprattutto dopo la sua incarnazione ed in tutto il corso della sua vita mortale. È perciò che il Figlio di Dio, entrando nel mondo dice: Voi non avete voluto sacrificio né oblazione, ma mi avete formato un corpo: gli olocausti ed i sacrifici per il peccato non vi sono graditi, allora io ho detto: Eccomi (Ebr. X, 5-7). –  Egli è Sacerdote sulla croce, ove lo vediamo, con la mani stese al cielo, offrire il grande Sacrificio della preghiera … Egli resuscita e risale verso i cieli per continuarvi le auguste funzioni del suo Sacerdozio. Egli ancora è Sacerdote sulla terra e nei nostri santi tabernacoli, ove si immola ogni giorno, ove rinnova e perpetua il Sacrificio della croce. I Sacerdoti non sono che gli strumenti della sua potenza e come i veli con i quali ricopre le sue ineffabili operazioni (V. S. Paolo, Ep. ad Hebr.). –  Voi siete Sacerdote eternamente, secondo l’ordine di Melchisedek; come lui, non avete né precursori né successori; il vostro Sacerdozio è eterno; Egli non dipende dalla promessa fatta a Levi né ad Aronne ed ai suoi figli: « Venite Gesù, Figlio eterno di Dio, senza madre nel cielo, e senza padre sulla terra; nel quale noi vediamo e riconosciamo una discendenza reale; ma per quanto concerne il Sacerdozio, non lo avete se non da Colui che ha detto: « Voi siete mio figlio, oggi vi ho generato. » (Ps. II, 7). Per questo divin Sacerdozio, non bisogna essere che Dio, e Voi avete la vostra vocazione per la vostra nascita eterna. Voi venite anche da una tribù alla quale Dio non ha ordinato nulla circa il sacrificare: « la vostra ha questo privilegio di essere stabilita per giuramento », immobile, senza ripetizioni e senza cambiamenti; il Signore, Egli dice, « ha giurato, e non se ne pentirà mai. La legge di questo sacerdozio è eterna ed inviolabile. » Voi siete solo: Voi lasciate tuttavia dopo di voi dei Sacerdoti, che non sono che vicari, e non successori, senza poter offrire altre vittime se non quella che avete offerto sulla croce e che offrite eternamente alla destra di vostro Padre (Bossuet, Elev. XI+  II, S. VII, E.). Voi celebrate per Voi un ufficio ed una festa eternamente alla destra di vostro Padre, gli mostrate incessantemente le cicatrici delle piaghe che l’appagano e ci salvano; Voi gli offrite le nostre preghiere, intercedete per le nostre colpe, ci benedite, ci consacrate; dall’alto dei cieli, battezzate i vostri figli, cambiate dei doni terrestri nel vostro corpo e nel vostro sangue, rimettete i peccati, inviate il vostro Spirito-Santo, consacrate i vostri ministri, fatte tutto ciò che essi fanno nel vostro Nome; quando noi nasciamo, voi ci lavate con acqua celeste; quando moriamo ci sostenete con una unzione di conforto; i nostri mali diventano dei rimedi e la nostra morte una passaggio alla vita eterna. O Dio! O Re! O Pontefice! Io mi unisco a Voi in tutte queste auguste qualità; io mi sottometto alla vostra divinità, al vostro impero, al vostro Sacerdozio, che onorerò umilmente e con fede nella persona di coloro attraverso i quali vi piace esercitarli sulla terra (Bossuet, Médit. LII, J.). – Questa promessa che Dio Padre indirizzava a suo Figlio avanti i secoli, non si compie con meno splendore in seno alla Chiesa cattolica. Là pure, Gesù-Cristo è sempre vivente nel corpo augusto dell’episcopato e del sacerdozio; Egli non è solo il Principe dei pastori, ne è anche l’anima; la loro dignità sublime è il prolungamento del suo sacerdozio supremo attraverso il tempo e lo spazio. Sacerdote, « secondo l’ordine di Melchisedech, » cioè senza genealogia mortale. La volontà dell’uomo non vi ha parte; esso non è né nella carne né nel sangue che va ad affondare le sue radici e succhiare la linfa che l’alimenta; ma Egli è nato da Dio; la fede, la grazia e la celeste verginità lo propagano e lo perpetuano. Misterioso ed immacolato alla sua origine, è imperituro nella sua durata. L’impegno è preso: Colui che ha fatto questa importante opera non la distruggerà rimpiangendo di averla creata. Un Vescovo, un Sacerdote si estinguono; un altro Vescovo, un altro Sacerdote gli succedono, spariscono a loro volta, ma l’istituzione rimane. (Mgr PLANTIER, Mission remplie par l’Episcop.). – « Secondo l’ordine di Melchisedech. Come Melchisedech ha offerto a Dio una vittima non sanguinante, il pane ed i vino in sacrificio, e lo ha offerto al vincitore, così il Figlio di Dio istituisce il Sacrificio della Nuova Alleanza sotto le specie e le apparenze del pane e del vino. Questi semplici elementi scoprono ai nostri occhi i più profondi misteri ed i più ricchi doni. – « Avendo dunque per Sommo Pontefice Gesù, Figlio di Dio, salito nel più alto dei cieli, restiamo fermo nella fede; avviciniamoci a Lui con un cuore puro e devoto; andiamo dunque con confidenza davanti al trono della grazia, per ricevervi misericordia e trovarvi grazia in un soccorso opportuno (Hebr, IV, 14, 15).

ff. 5. – Il Re-Profeta si rivolge qui al Signore stesso che ha fatto questo giuramento: O Signore, voi che avete giurato ed avete deS per l’eternità è il Signore che sta alla vostra destra perché Voi stesso gli avete detto: «Sedete alla mia destra. »  Ma questo Cristo, il Signore seduto alla vostra destra, a chi avete fatto giuramento del quale non vi pentirete, che fa nella sua qualità di Sacerdote in eterno? Che fa, Egli che è alla destra di Dio, che intercede per noi (Rom. VIII, 34), e che entra come Sacerdote all’interno del Santo dei santi, nelle profondità segrete dei cieli, essendo il solo senza peccato e per questo anche purificante con facilità gli uomini dai loro peccati (Hebr. IX, 12, 14, 24)? « Stando alla vostra destra, ha distrutto i re nel giorno della sua collera. » Quali re? Avete dunque dimenticato queste parole: « … I re della terra si sono levati, ed i principi si sono riuniti contro il Signore e contro il suo Cristo? » (Ps. II, 2). Ecco i re che la sua gloria ha distrutti, Egli li ha gettati sotto i suoi piedi del suo nome, in maniera che non potessero fare ciò che volevano. In effetti essi hanno fatto mille sforzi per cancellare dalla terra il nome Cristiano, e non lo hanno potuto perché « chiunque urterà contro questa pietra, sarà distrutto. » (S. Matth. XXI, 44). Questi re si sono scontrati contro la pietra di inciampo, e sono stati distrutti, per essersi detti: Cos’è il Cristo? Io non so qual giudeo, qual galileo, morte in tal modo, ucciso in tale maniera. La pietra è davanti ai vostri piedi, essa è là come qualche cosa di oscuro e vile; voi vi scontrate contro di essa disprezzandola, cadete urtandola, e vi siete distrutti cadendo. Se dunque la collera del Signore è così terribile quando si nasconde, qual sarà il suo giudizio quando si manifesterà? …« Chiunque si scontrerà contro questa pietra sarà distrutto, e colui sul quale cadrà questa pietra, sarà schiacciato. » (S. Luc. XX, 18). Quando si urta contro di essa, che è come umilmente stesa a terra, ci si sgretola; ma se essa cade dall’alto, allora schiaccia. Con queste doppie espressioni: « essa distruggerà, ed essa schiaccerà, egli urterà contro di essa, essa piomberà su di lui … sono designate due epoche diverse, quella dell’abbassamento e della glorificazione del Cristo, quella del castigo nascosto e del giudizio a venire. » (S. Agost.). – « Nel giorno della sua collera; » espressione di cui la Scrittura si serve per mettersi alla nostra portata, a causa della similitudine degli effetti. Quando un uomo è spinto allo stremo, si riempie di collera, e nella sua giusta indignazione, getta e distrugge ciò che gli resiste. Così Dio, contrariato nei suoi disegni, disprezzato nel suo amore, colpisce rudemente tutti coloro che si ostinano a lottare contro di Lui e non voglio arrendersi; ma ciò che facciamo nella collera, Egli lo fa con un sangue freddo divino che è molto più terribile; Egli lo fa nella sua eterna calma, nella sua profonda ed inalterabile immutabilità; Egli è pieno di collera, non conosce altro. Che dire ancora: « Nel giorno della sua collera? » Dio non colpisce che al momento, ha dei rimpianti. La bontà è la sua natura, la giustizia è un’opera che gli è come estranea. Per se stesso, Egli non è che buono; siamo noi che armiamo le sue mani di fulmini, che lo forziamo ad essere giusto, severo, impietoso (S. Agost.) (Mgr PICHENOT, PS. du D..).

ff. 6. – « Egli eserciterà il suo giudizio in mezzo alle nazioni. » Dio governa tutto quaggiù, e nulla gli sfugge: Egli conduce i popoli e gli imperi come le famiglie ed i semplici individui, con la stessa cura e con la stessa facilità … c’è l’occhio della provvidenza, come c’è il braccio della giustizia, ed è per ciò che da Lui si rialzano tutti gli imperi, ed Egli li giudica con una sì perfetta equità. Gli uomini non vedono nel governo dei popoli che gli sforzi della politica, le combinazioni del genio o i semplici giochi del caso; il Cristiano sa che gli uomini per quanto facciano e si agitino, è Dio che li guida; invano i saggi propongano, Dio solo dispone e regola tutto con maestria. – « Egli moltiplicherà o li colmerà di rovine. »  Giudizio di Dio di due tipi: gli uni di rigore, gli altri di bontà e di misericordia. – La maggior parte degli interpreti traducono: Egli moltiplicherà le rovine, seminerà dappertutto la desolazione e la rovina, giungerà alla disfatta dei suoi nemici. Qualche altro, San Agostino, in particolare, spiega così: « Egli riempirà, colmerà le rovine fatte dalla sua giustizia, riedificherà ben presto su di un altro piano ciò che sarà obbligato a rivoltare dapprima. Quali rovine? Chiunque – egli dice – avrà temuto il suo nome, cadrà; quando sarà caduto, ciò che era sarà rivoltato, affinché ciò che non era, sia costruito.  Sappiatelo, voi ribelli al Cristo, voi elevate all’aria una torre che cadrà! Vi è più utile rivoltarvi da voi stessi, farvi umili, gettarvi ai piedi di Colui che è assiso alla destra del Padre, affinché si faccia di voi una rovina che possa essere rialzata. (S. Agost.). – Queste due interpretazioni possono essere adottate entrambe; si ha così il pensiero del profeta, e si legano facilmente queste parole alle due specie di giudizio indicato qui sopra. I salmi ci mostrano Dio di volta in volta in questi due grandi atti della sua sovrana dominazione, e la storia è là per attestare la successione e la perpetuità di questi giudizi sulla nazioni e sui popoli. – Nell’attesa che i suoi nemici siano lo sgabello dei suoi piedi, Egli non lascerà di esercitare il suo impero sulla terra; Egli schiaccerà la testa dei re; un Nerone, un Domiziano, attaccheranno la sua Chiesa, ma Egli schiaccerà la loro testa superba; un Diocleziano, un Massimiano, un Galero, un Massimino tormenteranno i fedeli, ma Egli li degraderà, li perderà, li batterà con una piaga irrimediabile, come fece con Antioco; un Giuliano l’Apostata gli dichiarerà guerra, ma perirà per mezzo di una mano sconosciuta, forse quella di un Angelo, certamente con un colpo ordinato da Dio. Tremate dunque o re, nemici della sua Chiesa! Ma voi, piccolo gregge non temete nulla: « il vostro Re metterà ai vostri piedi tutti i vostri nemici, fossero i più potenti tra i re » (BOSSUET, Médit, LII, j.).

ff. 7. – Qual è questo cammino, è il mondo per il quale il Cristo ha camminato durante la sua vita mortale. Egli è disceso dal cielo per camminare nella via di questo secolo, ha bevuto dell’acqua dal torrente che scorre nel secolo. Un torrente non ha acque naturali il cui corso sia regolare e continuo, esso è formato dalle acque dei temporali e delle tempeste; un torrente non scorre mai sulle montagne, ma sempre nelle vallate, nei burroni e nei precipizi; esso si gonfia di acque straniere, e scorre portando con sé dappertutto la devastazione e la distruzione. Le acque dei torrenti non sono mai chiare e limpide, ma sempre torbide e fangose. Ora, volete sapere come il Signore ha bevuto da questo torrente fangoso? Sentitelo dire: « … la mia anima è triste fino alla morte. » (Matth. XXVI) « Ed Egli cominciò, dice l’Evangelista, a rattristarsi ed a turbarsi. »Nostro Signore ha dunque bevuto le acque torbide del torrente di questo secolo, acque tristi e che non portano gioia con loro. Egli ha preso il calice, lo ha riempito con l’acqua di questo torrente e vedendola così torbida, ha detto: « Padre mio, se è possibile si allontani da me questo calice. » Egli ha dunque bevuto l’acqua del torrente, ma l’ha bevuta non come nella casa, ma nella via, quando si accingeva a camminare verso il termine del suo viaggio. Egli ha dunque bevuto l’acqua del torrente, perché Egli era per la via. Ora, se nostro Signore ha bevuto l’acqua del torrente di questo secolo, quanto a maggior ragione, i Santi devono berlo dopo di Lui? Volete una prova che i Santi bevono l’acqua del torrente? « … la nostra anima, dice il Profeta, ha traversato le acque del torrente. » (Ps. CXXIII). Ma sentendo parlare dei torrenti di questo secolo, non perdete coraggio. Questi torrenti restano ben presto a secco: essi sembrano gonfiarsi, le loro acque sono abbondanti, ma si ritirano prontamente se avete la pazienza di attendere (S. Gerem.). –  « Egli berrà nel suo cammino l’acqua del torrente. » Tuttavia, qual è questo torrente? Il corso fuggitivo della mortalità umana. similmente, in effetti, ad un torrente – formato dal concorso di acque pluviali – si gonfia, muggisce, corre e scorre correndo, cioè finisce la sua corsa fino a seccarsi, così è del corso della nostra mortalità. Gli uomini nascono, vivono e muoiono; mentre alcuni muoiono, altri nascono; questi a loro volta muoiono ed altri nascono ancora; tutto in successione, arrivo, partenza, cambiamento. Cosa c’è di stabile quaggiù? Cosa c’è che non scorra come l’acqua? Cosa c’è che non sia precipitato nell’abisso, come un torrente d’acqua pluvia? In effetti, similmente ad un torrente che si forma improvvisamente dalla riunione di acque pluviali, ed innumerevoli gocce di pioggia, così la massa del genere umano si forma con mille elementi segreti, e prende il suo corso fino a che la morte la rigetti nel segreto da dove è uscita; tra questi due abissi, essa fa un po’ di schiamazzo e passa. È a questo torrente che il Signore ha bevuto. Egli non ha disdegnato di bere da questo torrente; perché, per Lui, bere da questo torrente, era nascere e morire. Questo torrente ha due termini: la nascita e la morte. » (S. Agost.). – Non ci sono che due cose, quaggiù: la culla e la tomba, la nascita ed il trapasso; Gesù-Cristo li ha presi. Colui che vive e regna nei secoli si è assoggettato ai tempi; il fiume del tempo li ha trasportati nel suo corso, come i maledetti figli di Eva. – Questa acqua del torrente ha ancora un altro significato e figura la vita umile, semplice, povera del Signore, che non aveva altro per spegnere la sua sete che le acque del torrente (S. Chrys.). – Nelle sante Scritture, le acque del torrente sono ancora il simbolo delle pene e delle tribolazioni di questo esilio. Ora, tutta la vita di Gesù, è stata una croce ed un martirio continuo; ma è soprattutto alla fine della sua triste carriera che Egli ha bevuto il calice fino alla feccia. È una circostanza che gli evangelisti non ci hanno consegnato, ma che la tradizione ci ha trasmesso: Gesù-Cristo, trasportato fuori dal giardino degli Ulivi a Gerusalemme, in piena notte, fu obbligato ad attraversare il torrente di Cedron. Le guardie impietosamente lo spinsero con brutalità e lo fecero cadere nel letto quasi secco del torrente. Il Figlio di Dio, tramortito dalla caduta, avvicinò le sue labbra alle acque fangose che bagnarono i suoi vestiti sanguinanti; Egli volle gustarne l’amarezza (Mgr PICHENOT). nello stesso senso aveva detto ai suoi Apostoli, che gli chiedevano i primi posti nel suo regno: « … potete bere il calice che Io berrò? » (Matth. XX, 22), che Egli intendeva manifestamente essere la sua passione, e quando fece per tre volte questa preghiera nel Getsemani: « Padre mio, Padre mio, se è possibile questo calice passi via da me. » (Ibid. XXVI, 39). Ecco perché Egli alzerà gloriosamente la testa. » Dunque, è perché ha bevuto nel cammino l’acqua del torrente, che Egli ha alzato gloriosamente la testa; vale a dire, « poiché si è umiliato, e si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Ecco perché Dio lo ha esaltato tra i morti e gli ha dato un Nome che è sopra ogni altro nome, affinché al Nome di Gesù si pieghino i ginocchi in cielo, sulla terra e negli inferi, e che ogni lingua confessi che il Signore Gesù è nella gloria di Dio Padre. » (Filipp., II, 8-11). – Il Figlio dell’uomo si è fatto uomo, si è umiliato, annientato, fino a prendere forma di schiavo; Egli è stato povero e nel lavoro ha passato la sua giovinezza; Egli ha sofferto alla sua nascita, durante la sua vita, alla sua morte; Dio ha posto in questo triplice grado di umiliazione il principio delle sue grandezze e della sua elevazione. – Gesù-Cristo è il nostro modello: occorrerà essergli trovati conformi – dice San Paolo – per prendere posto al suo fianco nei cieli. Non ci sono che coloro che soffrano con Lui che potranno sperare di essere glorificati con Lui. – La Chiesa anche, come il suo divino sposo, camminando sul Calvario, è stata spesso rovesciata nel cammino, ed ha bevuto l’acqua del torrente; ma all’indomani della sua caduta, e precisamente a causa della sua umiliazione della vigilia, ha sollevato la testa sempre più in alto. Essa è nata nel sangue di Cristo; essa ha posto il suo trono reale a Roma, sul corpo sanguinante di Simon Pietro, il primo Vicario di Cristo; la sua storia non è che una lunga scia di sangue versata per essa  (Mgr PIE, Elog. des vol. Cath., t. v, p. 55.).– È una legge stabilita, ci dice Bossuet, che la Chiesa non può gioire di alcun successo che non gli costi la morte dei suoi figli, e che per affermare i propri diritti, occorra che sparga del sangue. Il suo Sposo l’ha riscattata con il sangue che ha versato per essa, e vuole che essa compri con un prezzo simile le grazie che Egli le accorda. »  (BOSSUET, Panég. de S. Th. de Cant.). – « Egli berrà dal torrente nella via; » Egli berrà il calice della passione, « ma in seguito alzerà la testa. » Beviamo con Lui le afflizioni, le mortificazioni, le umiliazioni, la penitenza, la povertà, le malattie; beviamo da questo torrente con coraggio; che questo torrente non ci trascini, non ci abbatta, non ci inabissi come il resto degli uomini. Allora noi eleveremo la testa; le teste orgogliose saranno distrutte, noi lo vediamo; ma le teste umiliate con un abbassamento volontario, saranno esaltate con Gesù-Cristo. (BOSSUET, Médit, LII° Jour.)

IL MERITO DELL’UOMO

IL MERITO

[Encicl. Cattolica, Vol. VIII, C. d. Vatic. 1952 – col. 721-726]

MERITO DELL’UOMO. – Il merito, teologicamente, è l’opera buona che, compiuta dall’uomo in determinate condizioni, è degna di premio soprannaturale.

I. REALTÀ DEL M. DELL’U.

1. La S. Scrittura. – La parola « merito » manca nella Bibbia, ma non la cosa, poiché mercede, rimunerazione, corona, retribuzione delle buone opere sono concetti correlativi. Nel Vecchio Testamento la visuale è ancora poco aperta ai beni eterni e lo sguardo è rivolto piuttosto alla collettività che al singolo, cui però a mano a mano vien dato rilievo. Del resto, anche le sanzioni terrestri sono divine ed è logico pensare che il rapporto sia trasportato alla sfera superiore. – Nel Nuovo Testamento il Regno, cioè la beatitudine eterna, si presenta come dono che discende dalla gratuita compiacenza del Padre. Ma accanto all’iniziativa divina trova posto l’elemento umano che ne condiziona normalmente l’applicazione. Sono da ricordare il discorso della montagna con le beatitudini e la norma morale del Regno, le parabole dei talenti, delle mine, degli operai della vigna. – Il Regno, che inizialmente è puro dono, diventa soggettivamente, nella sua fase di progresso e di perfezione, anche conquista per mezzo delle opere: « Possedete il Regno; avevo infatti fame e m’avete dato da mangiare » (Mt. 25, 34). Ciò che Gesù aspramente condanna non sono le opere della legge, che compie il fariseo, ma il principio umano su cui esclusivamente le fonda; la vana ostentazione davanti agli uomini e la petulante davanti a Dio. « Han già ricevuto la loro mercede »; non rinnega però le opere con il loro diritto alla ricompensa; anzi insegna il modo di rendere tale diritto veramente certo ed efficace davanti al Padre, che vede nel segreto (Mt. VI, 4). – La dottrina degli Apostoli è in perfetta armonia conil Vangelo. S. Giacomo sa che « ogni buona donazione e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre dei lumi» (Iac. 1, 17); ma inculca le opere buone e ne mette in risalto il valore: « che gioverebbe, fratelli miei, se uno dicesse d’avere la fede mentre non ha le opere? forse che la fede lo potrà salvare? » (ibid. 14). S . Pietro parla de « l’incorruttibile corona della gloria » (1 Pt. V, 4), che all’apparire del Principe dei pastori riceveranno i « presbiteri » che avranno compiuto degnamente il loro ministero; la stessa ricompensa attende tutti i fedeli per le loro buone opere (II Pt. 1, 5-6). Secondo s. Giovanni, Dio scruta reni e cuori e darà a ciascuno secondo le sue opere (Apoc. 2,23) e la mercede ai suoi servi (ibid. 11, 18). « Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della vita » (ibid. 2, 10). La morte per coloro che muoiono nel Signore è riposo dalle fatiche; le buone opere tengono loro dietro (ibid. 13). S. Paolo, mentre sottolinea il compito principale della Grazia nell’ordine della salvezza e l’assoluta gratuità, afferma il valore delle opere buone compiute dal giustificato. « L’uomo mieterà quel che avrà seminato… dalla carne la corruzione, dallo spirito la vita eterna » (ibid. 6, 8). « Ciascuno riceverà la mercede secondo la propria fatica » (Cor. 3 , 8 ) e « dal Signore la retribuzione dell’eredità » (Col. III,23) « nel giorno della Rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Rom. II, 6-7). I giustificati sono come atleti gareggianti in corsa: « Correte così da fare vostro il premio, che sarà corona incorruttibile » (1 Cor. IX, 24-25) : « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminata la corsa, ho conservata la fede: del resto a me è serbata la corona della giustizia che il Signore, giusto Giudice, renderà a me in quel giorno, né solo a me ma anche a coloro che desiderano la sua venuta » (II Tim. IV, 7-8). Così la S. Scrittura insegna che il giustificato può, con la Grazia, fruttificare in opere buone, che deve compiere e che esse sono meritorie davanti a Dio.

2. La tradizione. – La fede della Chiesa nel valore meritorio delle opere buone si rileva dagli scritti dei secc. 1 e 11, nei quali, a giudizio del protestante Schutz, accanto alla Grazia di Dio, l’acquisizione d’una ricompensa per l’azione dell’uomo appare come una cosa naturale. – S. Giustino: « Abbiamo appreso dai profeti e manifestiamo per vero che le pene e i supplizi e le buone ricompense vengono ripartite secondo il merito delle opere di ciascuno » (Apologia I, 43: PG 6, 392). S. Ireneo: « Stimiamo preziosa la corona… che si acquista con la lotta… e tanto più preziosa quanto più attraverso il combattimento ci viene » (Adv. Hæres., 4, 37, 7: PG 7, 1104). Tertulliano fu il primo a introdurre la parola meritum, rimasta nell’uso teologico (Apologeticum, 18: PL, 434-35). S. Cipriano: «Puoi giungere a veder Dio, se avrai meritato Dio con la vita e le opere » (De opere et eleemosynis, 14: PL 4, 635). L’insegnamento dei Padri si determinò progressivamente soprattutto nella catechesi ordinaria e nelle omelie; p. es., s. Cirillo di Gerusalemme dice: « Radice d’ogni buona azione è la speranza della risurrezione, poiché l’aspettativa della mercede tonifica l’anima» (Cathech., 18, 1: PG 33, 107); s. Ambrogio: « Davanti ai singoli sta la bilancia dei nostri meriti; nel giorno del giudizio o le nostre opere ci saranno di aiuto o ci immergeranno nel profondo » (Epist., 2, 14, 16: PL 16, 883); s. Agostino: «avendo detto (Rom. VI, 23) salario del peccato la morte, chi non riterrebbe di soggiungere: salario poi della giustizia, la vita eterna? Ed è vero, poiché come al merito del peccato vien resa come castigo la morte, così al merito della giustizia come ricompensa la vita eterna» (Epist., 194, 20-21 : PL 33, 881; cf. Rivière, articolo cit. in bibl., col. 576 sgg).

3. La scolastica. – Il medioevo raccolse l’eredità patristica, l’assoggettò a rigorosa analisi, approfondendo le nozioni di naturale e soprannaturale e la « sinergia » tra Grazia e volontà libera, indagando l’essenza e il fondamento del m. dell’u., precisando i concetti di merito de condigno e de congruo. La distinzione è fondata sul diverso rapporto tra l’opera meritoria e il premio. Il merito de condigno importa una certa morale e proporzionale (non aritmetica) eguaglianza tra l’opera buona e il premio, così che, posta l’accettazione e la promessa da parte di Dio, il premio è dovuto secondo giustizia; quello de congruo non si fonda su eguaglianza e quindi il premio non è nell’ordine della giustizia, ma piuttosto in quello della convenienza (decentia) e della benignità; se vi si aggiunge la promessa divina, cui Dio è fedele, si ha il merito de congruo infallibile. Tra i due c’è solo analogia; merito vero, in senso proprio e stretto, è soltanto quello de condigno: con tale valore va preso, secondo l’interpretazione comune dei teologi, il termine « merito » nei documenti tridentini.

4. Il magistero ecclesiastico. — Nel 529, al termine della controversia semipelagiana, il secondo Concilio di Orange, al can. II (Denz – U, 191) affermò: « La Grazia non è prevenuta da merito alcuno. Alle buone opere, se vengono compiute, è dovuta la mercede, ma affinché esse siano fatte, precede la Grazia che non è dovuta ». Il Concilio di Trento trattò l’argomento con particolare chiarezza, specialmente nel cap. 16 e can. 32 della sess. VI: « Chi avrà detto che le buone opere dell’uomo giustificato sono talmente doni di Dio, da non essere anche meriti buoni dello stesso giustificato, o che il giustificato stesso con le opere buone, che da lui son compiute per la Grazia di Dio e per il merito di Gesù Cristo (di cui è membro vivo), non merita veramente l’aumento della Grazia, la vita eterna e della stessa vita eterna il conseguimento (se tuttavia sarà morto in Grazia) ed anche l’aumento della gloria, sia scomunicato » (Denz – U, 809, 842; cf. anche i cann. 2, 24 e 26: (Denz-U, 812, 834, 836). Nel 1567 s. Pio V condannò gli errori di Michele Bajo, il quale, misconoscendo la distinzione tra l’ordine naturale e soprannaturale, affermò che le opere dell’uomo danno diritto alla ricompensa celeste « in virtù d’una legge naturale » e negò che per veramente meritare l’uomo abbia bisogno della Grazia della filiazione divina e dello Spirito Santo inabitante (cf. propp. 2-18; Denz-U, 1002-18). – Nel 1653 Innocenzo X dichiarò e condannò come eretica la 3a proposizione di Giansenio: « Nello stato di natura decaduta, per meritare e demeritare non si richiede nell’uomo la libertà dalla necessità, ma basta la libertà da coazione » (Denz – U, 1094).

5. Battute polemiche. — Dopo questa rapida scorsa, si può concludere che quando la Chiesa alle negazioni della « riforma » oppose i memorabili capitoli e canoni della VI sessione tridentina, essa non altro esprima che la dottrina di Gesù. La « riforma » fu essenzialmente una lotta violenta contro il merito delle opere buone. È vero che alle prime radicali negazioni luterane furono aggiunti, subito e ancor più in seguito, dei correttivi, ma la sostanza restò e resta nei libri simbolici e nella concezione generale del cristianesimo protestante e riformato. Si pensò del tutto spenta per il bene la forza di volontà dell’uomo decaduto, così che resterebbe in sé inerte anche sotto la Grazia divina, mentre una giustificazione solamente esteriore e imputata non può certo recare uno stabile interno principio del vivere e dell’agire schiettamente umano e insieme divino. Si ragionò secondo ilfalso presupposto che la Grazia e l’opera dell’uomo sono come due rette originanti da due punti distinti, mentreè la Grazia che inizia, cui si allea, movendosi vitalmentesotto la sua continua spinta, forte e soave, la volontà libera. Il m. è il prodotto di due fattori, Grazia e libertà,ambedue realmente operanti e indispensabili alla realtà dell’effetto.L’opera meritoria dell’uomo sembra porre la creatura con diritti di fronte al Creatore, e ciò per di più suun terreno soprannaturale, di cui la gratuità è nota essensenziale. A tale obiezione si risponde concedendo di unaparte che tra Dio e l’uomo non vi può essere rapporto di rigorosa giustizia, e ricordando dall’altra la « coronadi giustizia » di s. Paolo e il detto di s. Agostino: « Dio si è fatto debitore non con il dovere ma con il promettere.Non possiamo dirgli: rendi quel che hai ricevuto, ma bene diciamo: rendi ciò che hai promesso » (En. in Ps.LXXXIII, 16: PL 37, 1068). Chese il Signore ha affermato: (S. Luc.XVII, 10) che ci si deve considerare « servi inutili », ha anche detto (S. Mt. XXV, 23): « Bravo! Servo buono e fedele. » Mala Scrittura dice che la vita eterna è eredità per i figli. È vero, ma dice anche che è mercede promessa ai figli operanti il bene. Si noti di passaggio come ancorauna volta l’eresia s’affermi come visione parziale, pretendente alla totalità. Per altro verso non reca ingiuria al merito di Gesù Cristo il m. dell’u., come non fa ingiuria alla vite il grappolo che pende dal tralcio. Faefficace il merito della passione e morte del Signoreda ottenere che l’uomo in lui potesse meritare. C’è poiil falso presupposto, molto comune, che in nome d’un purismo morale qualifica come grettamente egoistica ed interessata la dottrina cattolica del merito ove, si dice, domina la « mania della ricompensa ». Senza voler confutare a fondo tale posizione, si nota che esiste un rapporto oggettivo tra l’opera buona e il premio e che pertanto è morale che l’uomo, nel suo operare, positivamente intenda la retribuzione.

II. CONDIZIONI DEL M. DELL’U. –

1. Da parte dell’operante. — Questi deve essere : a) in statu viæ, perché al sopraggiungere della notte (la morte) nessuno può più operare » (Io. IX, 14); occorre compiere il bene « mentre abbiamo tempo » (Gal. VI, 10). B) in statu gratiæ (v. il Concilio Tridentino e la condanna degli errori di Bajo, sopra citati), deve cioè essere inserito vitalmente, come membro vivo di Cristo, da cui solo deriva nell’uomo l’operare cristiforme e meritorio. La dottrina cattolica non ipostatizza le opere, considerandole così avulse dal soggetto perante come avessero un valore in sé e per sé, come la moneta d’oro posseduta dal ladro, se non ripetessero tale valore meritorio de Condignoanche dalla dignità soprannaturale del soggetto operante, costituito per la Grazia abituale amico di Dio.

2. Da parte dell’opera. – Questa deve essere: a) libera, perfettamente, cioè non solo esente da costrizione esterna, ma anche da interna necessità (v. la 3a prop. di Giansenio dichiarata eretica): il merito è nell’ordine dei valori morali umani, la cui radice è la libertà; per questo il giustificato che muore prima di aver compiuto atti liberi ottiene la vita eterna solo come eredità; né il merito cessa ove l’opera sia obbligatoria: è comandamento evangelico l’amore dei nemici, eppure è detto che per chi li ama sarà grande la mercede » ( S. Lc. VI, 35); nel caso del precetto per cui l’opera è già dovuta a Dio, S. Tommaso ritiene che l’uomo ne ha il merito, « perché di propria volontà fa ciò che deve » (Sum. Theol., 1a – 2æ, q. 104, a. 1, ad 1); b) buona, ossia secondo tutti gli elementi richiesti per l’onestà dell’atto umano: l’opera cattiva merita il castigo; l’omissione di un’azione cattiva risulta meritoria quando richiede forza morale; c) soprannaturale: certamente per ragione del principio elicitivo prossimo, che è la facoltà elevata dall’abito infuso, che probabilmente dev’essere mossa dalla Grazia attuale. Che l’atto umano debba anche essere in qualche modo orientato verso Dio come autore della salvezzasoprannaturale è da ammettere; i teologi però non sono d’accordo nel precisare quale intenzionalità o motivooccorra. La Chiesa ha condannato alcune proposizioni di Quesnel tendenti ad affermare che solo l’atto di carità è meritorio (Denz – U, 1403 sgg.).

3.  Da parte di Dio. — Occorre la promessa di Dio di accettare l’opera buona e di premiarla. La ragione è che l’uono non può pretendere d’avere uno stretto diritto di fronte a Dio; occorre che Dio prenda graziosamente l’iniziativa d’ordinare a sé l’opera umana con la promessa del premio. La Rivelazione ha messo in chiaro questo punto in tutti i passi della Scrittura e dei Padri dove si dice che si può e si deve compiere opere buone. I teologi discutono sulla funzione che compete a tale ordinazione e promessa circa il m. dell’u. C’è chi pensa che l’opera, pure compiuta nelle condizioni richieste, non è in séaffatto proporzionata al premio senza la promessa divina; altri, all’opposto, ritengono che lo è intrinsecamente; molti affermano che tale opera ha in sé radicalmente e in actu primo la ragion di merito, che la divina promessa integra e compie in actu secundo, così che il premio le sia strettamente dovuto. Quest’ultima sembra la vera sentenza, poiché tiene in giusto conto e la dignitàintrinseca dell’opera e la trascendenza di Dio, che solo promettendo si fa nostro debitore. Da ultimo è da notare che per il merito de congruonon si esige lo stato di Grazia e che la promessa di Dio è solo richiesta per il merito de congruoinfallibile.

III. OGGETTO DEL M. DELL’U . –

Il Concilio Tridentino (sess. VI, cap. 16, can. 2, sopra riferiti) definisce gli oggetti che l’uomo, gratuitamente giustificato, con le buone opere merita veramente, cioè de condigno, e sono: 1) la vita eterna, oggetto principale;2) l’aumento della gloria, in quanto il Signore darà aciascuno secondo le sue opere e secondo la sua fatica: chi ha guadagnato dieci mine sarà costituito sopra dieci città, chi cinque, su cinque (S. Lc. XII, 16 sgg.). Epoiché il Regno di Dio, che è la vita eterna, s’inizia in terra nell’anima del giusto, dove la Grazia intrinsecamente aumentabile ne è il seme, la preparazione e la caparra, e poiché a un determinato grado di Grazia abituale corrisponderà un determinato grado di gloria, si deduce che anche l’aumento di Grazia è oggetto di merito. Il giusto merita pure il conferimento o soluzione della mercede eterna, che sarà però data a suo tempo e alla condizione ch’egli muoia in Grazia di Dio. – Non sono oggetto di merito de condigno: a) la giustificazione e le grazie per prepararvisi: s. Paolo lo afferma più volte e il Concilio di Trento lo ha definito (Sess. VI, cap. 8; Denz-U, 801); infatti la condizione per tale merito è l’esser giusto; qui pertanto vale il principio: « la prima grazia non può essere oggetto di merito »; b) ogni bene soprannaturale che il giusto intende ottenere per altri: Dio rende a ciascuno secondo le proprie opere, che sole, in quanto personali, valgono per la corona; è privilegio esclusivo di Gesù Cristo, l’unico mediatore, d’aver meritato de condignoper gli altri; c) la Grazia efficace in quanto tale: è sentenza comune dei teologi, fondata anche sulla mancanza, a questo riguardo, della promessa divina; d) il dono della perseveranza finale, che il Tridentino chiama magnum donum, circa il quale anche il giustificato deve sempre essere in salutare timore: lo stesso Concilio non lo elenca tra gli oggetti del merito vero, ma lo mette come condizione al meritato conseguimento della vita eterna; e) la propria riparazione, dopo la perdita della Grazia. La colpa mortale pone l’uomo nello stato di condannato a morte eterna, con sentenza immediatamente eseguibile: se Dio lo rifà suo figliolo, ciò è dovuto alla sola sua benignità. Quanto all’oggetto del merito de congruo, il peccatore può meritare: a) le ulteriori grazie attuali, con cui disporsi più da vicino alla giustificazione; questo merito, per la promessa di Dio, è infallibile; b) la giustificazione. E la sentenza più comune e meglio fondata nella Rivelazione e in alcuni incisi del Tridentino. Anzi quando si tratta dell’atto di contrizione perfetta il merito de congruoè infallibile. Il giusto può meritare: a) le Grazie efficaci e la stessa perseveranza finale; mancando però la promessa divina, il merito è fallibile: si osservi con il Suàrez (De Gratia, 12, 38, 14) che la perseveranza finale è meritata non con uno o più determinati atti o durante un certo tempo, ma con una serie di atti buoni svolgentesi per tutta la vita; il «gran dono» è oggetto infallibile della «supplice preghiera»; b) anche i beni temporali, in quanto sono d’aiuto per la vita eterna. Per gli altri, il giusto può meritare de congruo tutto ciò che in qualunque modo può meritare per sé, in più la prima Grazia soprannaturale e la prima Grazia efficace, s’intende fallibilmente. Tre grandi cose sono assolutamente e soltanto doni per chi li riceve: la prima Grazia soprannaturale, la prima Grazia efficace, e la predestinazione totale. L’ultimo tocco della misericordia divina è la reviviscenza dei meriti (v.).

BIBL.: I. Rivière, Mérite, in D Th C, X, coli. 574 – 785: id., La doctrine du mérite au Concile de Trente, in Revue des sciences religieuses, 7 (1927), PP. 262 – 98; id., St Thomas et le mérite «de congruo », ibid., pp. 641 – 49; id., Sur l’origine des formules «de congruo », « de condigno », i n Bullettin de la littérature ecclésiastique, 28 (1927). PP – 75 – 89; H. Lange, De Gratta, Friburgo in Br. 1929, pp. 123 – 29, 557 – 90; A. Landgraf, Die Bestimmung des Verdienstgrades in der Fruhscholastik, in Scholastik, 8 (1933), pp. 1 – 4 0; – E . Hugon, Le mérite dans la vie spirituelle, Juvisy 1 9 3 5 ; P. De Letter, De ratione meriti sec. s. Thomam, Roma 1939; P. Parente, Anthropologia supernaturalis, 2″ ed., Roma 1946, pp. 173 – 81; – B. Bartmann, Manuale di teologia dogmatica, II, trad. R. di N. Bussi, Alba 1949, PP. 347 – 57. Mario Ghirardi

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “ADEO NOTA”

L’Adeo nota, è una delle encicliche che il Santo Padre Pio VI scrive in occasione dei moti rivoluzionari francesi che miravano, sotto la direzione degli Illuminati e delle logge sataniche, a colpire la società francese, ma soprattutto la Chiesa e la Religione Cattolica. In realtà tutte le rivoluzioni dei tempi moderni del neopaganesimo risorgimentale hanno mirato unicamente, sotto coperture politiche o sociali, a destabilizzare il Regno di Cristo ed affermare il motto luciferino: “Non serviam”. Qui alla Santa Sede viene sottratto il territorio di Avignone e del contado annesso, ma le cose vanno ben oltre, nel senso che si mira allo scisma ed alla distruzione della giurisdizione gerarchica in seno alla Chiesa francese. Nulla di dissimile oggi, quando le forze della sovversione – mascherate da finta democrazia asservita alle logge e, attraverso di loro, a coloro che odiano Dio, la Chiesa di Cristo e tutti gli uomini – oltre ad aver posto il dominio su tutto l’ambito politico e finanziario internazionale, agiscono fomentando scismi a catena dalla vera Chiesa Cattolica, oggi eclissata e ridotta in anfratti e sottoscala. Cosa sono infatti i falsi vescovi delle sette scismatiche lefebvriane o sedevacantiste che non hanno alcuna missione canonica, né uno straccio di giurisdizione, sovrapponendosi fraudolentemente ad autorità anch’esse invalide perché non in comunione col vero Vicario di Cristo, perseguitato ed in cattività. È una epidemia di scismi ed eresie pronunciate in nome di una pseudo-tradizione che però si sgancia da ogni regola dottrinale circa la gerarchia ecclesiastica (oggi, visto il traballare delle prime linee, si sono chiamati a resistere alla vera Chiesa, anche – ridicoli – triari!!). Si è costituito un mondo totalmente sacrilego – quanti Malieri in giro – ed ancor più tenebroso del Novus ordo, chiaramente divenuto tentacolo della piovra oggi incoronata dal Kether Malkhuth, come ci fanno sapere i mass media satanico-mondialisti che ci propinano i successi nefasti e terrorizzanti della “Corona” luciferina (chi ha intelletto comprenda!). Abbiamo qui in questa lettera, la cronaca dolorosa del primo attacco frontale delle forze delle tenebre verso la Chiesa, attacco che poi è stato portato dall’interno di essa dalla quinta colonna gestita dalle logge Ecclesia & C. Il Santo Padre Pio VI, che avrebbe poi personalmente provato sulla propria pelle la violenza dei satanisti organizzati, protesta vibratamente contro le decisioni del direttorio insediato dagli Illuminati. Oggi una voce simile è stata silenziata e sostituita da quella di un fantoccio partorito dalle sette d’oltreoceano. Ma nessun problema, il Cattolico sa che, come Cristo, sarà perseguitato e martirizzato, e sa che tutto questo sarà di gran merito per lui, per cui noi del pusillus grex, ringrazieremo di cuore chi ci farà soffrire nel corpo e nell’anima, perché ci darà l’occasione di testimoniare il Nome del Redentore e così conquistare la vita eterna, come promesso infallibilmente dal Salvatore Gesù.

Pio VI
Adeo nota

1. Sono così noti e divulgati presso le Nazioni i delitti perpetrati contro le leggi del santuario sia ad Avignone sia nel Contado Venesino di Nostra giurisdizione, e contro i diritti di sovranità, tanto che non hanno bisogno di lunga e particolareggiata descrizione. – Gravemente infatti si è peccato contro di Noi da parte di ambedue i popoli; ma la defezione del popolo avignonese è assai peggiore di quella del popolo del Contado. Gli Avignonesi infatti, per nulla preoccupati d’aver seguito la malvagità di pochi uomini che, per Nostra clemenza, erano sfuggiti alle pene dovute per i loro delitti, come se avessero impugnato con le loro mani il vessillo della ribellione, hanno tanto progredito in prepotenza, da indurre quelli del Contado, anche a mano armata, a formare con loro una nefanda società e a costringere a seguire il loro partito sia quelli del Contado sia gli Avignonesi che si fossero opposti, convincendoli con ogni genere di minacce, di stragi e di supplizi.

2. Ma di codesto delitto, come di altri, non parleremo; possono essere di validissima prova i rispettabili cittadini e gli uomini di Chiesa rapiti a morte, la città di Chalon sur S. occupata con la forza e saccheggiata, le irruzioni ostili nella città di Carpentras, ed altri generi di sfrenata violenza, che macchieranno gli scellerati autori di eterna ignominia e d’infamia. Essi infatti, imitando la crudeltà di Giasone, nemico delle patrie leggi e di Dio, come le sacre pagine di lui attestano, al fine di allontanare i cittadini e quelli del contado dalle leggi della patria e di Dio, non risparmiarono di stragi i loro concittadini, né pensarono che la prosperità acquisita contro gli amici fosse il massimo dei mali, come se essi catturassero trofei di nemici, non dei concittadini: degni perciò che essi, non diversamente come fu di Giasone (II Macc. capp. IV-V), fossero dichiarati a tutti odiosi, dissacratori delle leggi e traditori della patria.

3. Fra il popolo cominciarono a diffondersi la causa e il peso di quelle ribellioni, dalle quali il popolo era oppresso sempre di più. Ma quando a ciascuno parve chiaro che la motivazione di tutto ciò era assolutamente fittizia e piena di calunnia, in quanto gli Avignonesi e il popolo del Contado, oppressi da nessun genere di tasse, usufruivano di un regime tanto leggero e temperato che le altre Nazioni invidiavano, non senza motivo, la loro felicità, apparve evidente che l’unica vera causa era il desiderio di una sfrenata libertà: per raggiungere la quale si dichiarò essere necessaria l’integrale Costituzione dell’Assemblea Francese che s’impegna tanto nelle materie politiche quanto in quelle ecclesiastiche e religiose, e porta ad una maggiore e più duratura felicità, e conseguentemente i popoli di Avignone e del Contado passassero sotto la sovranità francese.

4. Fra queste scellerate perversità non abbiamo cessato di manifestare all’uno e all’altro popolo quanta e quale sia la Nostra benevolenza di padre e di sovrano verso gl’ingrati. Fu infatti Nostra cura, non senza rilevante dispendio dell’erario pontificio, liberare tali popoli dagl’impegni incombenti con grande carità; e li abbiamo paternamente ammoniti di guardarsi dalle insidie occulte, che si offrivano loro, alla Religione e anche alla pubblica utilità sotto la chimera della libertà. Se tuttavia per la stessa varietà dei tempi, od anche per l’umana prevaricazione, fosse insorta qualche trasgressione contro le leggi, o si fosse introdotto qualche abuso particolare, abbiamo apertamente dichiarato che Noi, ascoltate le Comunità, avremmo prestato la Nostra opera e l’aiuto perché tutto ritornasse, con la debita correzione, al retto ordine. E affinché nessuno dubitasse che per quanto era in Nostro potere saremmo intervenuti con la Nostra autorità, abbiamo immediatamente deliberato di inviare costà il diletto figlio Giovanni Celestini, uomo ben noto a molti ad Avignone, gestore di affari del Contado Venesino, affinché al più presto raggiungesse Avignone e Carpentras, ed ivi, col Nostro pro-legato e con i più esperti e prudenti cittadini trattasse di quei capitoli, cioè di quei punti che soprattutto si desiderava conoscere, affinché con voti unanimi potessimo assecondare la determinazione di quelle cose che fossero giudicate convenienti ed opportune. In tal senso si espressero due Nostre lettere in forma di Breve, l’una scritta il 21 aprile dell’anno scorso ai diletti figli nobili e al popolo della Nostra città di Avignone, l’altra scritta il 24 febbraio dello stesso anno al Venerabile Fratello il Vescovo di Carpentras, e ai diletti figli designati dai comizi generali della stessa città.

5. Ma del tutto inutili furono i Nostri benefici, inutili le paterne ammonizioni, inutile il viaggio del delegato. Infatti, i cittadini di Avignone, costretti poco legalmente ad intervenire ad una riunione per sostenere quei decreti che avevano estorto al Nostro pro-legato, e che da Noi erano già stati dichiarati nulli e irriti, gli Avignonesi, diciamo, costretti alla riunione rifiutarono di accogliere il delegato e minacciarono persino che l’avrebbero ritenuto un perturbatore pubblico se avesse messo piede in città o nel territorio. Inoltre cercarono il modo di esautorare il diletto figlio Filippo Casoni, pro-legato, e gli altri Nostri ministri, fra i quali non mancò chi, per le insidie subite, fu costretto a darsi alla fuga; infine presero la decisione di sottomettersi alla giurisdizione e al comando del carissimo in Cristo figlio Nostro il cristianissimo Re delle Gallie, e a questo fine furono mandati deputati allo stesso Re e all’Assemblea Francese. Da questo momento per mezzo della Municipalità fu ordinato allo stesso pro-legato di allontanarsi da Avignone; ed effettivamente egli partì il 12 giugno 1790, avendo prima espresso le proteste del caso sia a voce davanti agli stessi ufficiali della Municipalità, che gli avevano ordinato di andarsene, sia con uno scritto davanti a testimoni, poiché ad Avignone non si trovò alcun notaio che registrasse quelle proteste. Pertanto lo stesso pro-legato, partito per Carpentras, rinnovò tosto le proteste il 16 e il 21 del medesimo mese davanti al notaio Oliveiro, cancelliere della Rettorìa, e ordinò che esse fossero conservate fra gli atti della Segreteria, affinché non morisse mai il ricordo di tale evento. Nello stesso tempo da parte dell’Assemblea di Avignone fu pensato all’adeguamento delle materie politiche ed ecclesiastiche con la Costituzione generale dell’Assemblea Francese, e per far questo rapidamente si operò con tale e tanto furore da ogni parte, che nulla di simile nessuno vide neppure nei comizi Gallicani.

6. Da questo derivò che da una parte al legittimo ed antico principato subentrò un misero stato di anarchia, e dall’altra furono tolte dai canoni leggi secolari, sì da sovvertire la sacra gerarchia, l’autorità della Chiesa e la stessa Religione Cattolica. Infatti le Chiese furono spogliate dei loro beni; le suppellettili d’argento furono rubate; i sacri vasi sottratti da mani sacrileghe e trasportati a Marsiglia col ricavo di ingenti somme di danaro; infranti i recinti dei monasteri; maltrattate le sacre vergini e costrette a bussare ad altri monasteri o a ritornare ai patrii lari. Inoltre con pubblico editto del 30 novembre dello scorso anno, sia al Venerabile Fratello Arcivescovo di Avignone, che si era ritirato a Villanova, località della sua Diocesi, sia a tutti i parroci e a tutti gli uomini di Chiesa si ordinava che nel più breve spazio di tempo si portassero ad Avignone ed ivi si vincolassero con giuramento alla civica religione: giuramento dal quale nacque la causa maggiore di tutti i mali. Se fosse stato altrimenti, tutti avrebbero dovuto ritenersi decaduti dal loro grado e le loro Chiese ugualmente, come se mancassero del loro Pastore. – Questo atto Ci richiama alla mente quello scellerato editto contro i buoni e legittimi Pastori emanato dall’imperatore Costante su consiglio e per iniziativa degli Ariani: il che tutti gli scrittori hanno condannato con giustificato orrore. Infatti, anche questo editto, mentre praticamente chiedeva un impegno dagli ecclesiastici, al contempo formulava minacce concepite con queste parole: “O firmate, o vi allontanate dalle Chiese“.

7. Alle minacce contenute nell’editto risponde un episodio pieno di profana scelleratezza e traboccante immane sacrilegio. – Infatti il 26 febbraio di quest’anno entrò nella Chiesa cattedrale un ufficiale municipale, di nome Duprazio, abile nell’uso delle armi, con la spada nella mano destra, seguito da un ingente reparto di soldati del Comitato. Egli osò costringere i Canonici della Chiesa, che stavano uscendo dal coro, ad entrare nella sala capitolare per eleggere, in nome della Municipalità, un Vicario capitolare, col pretesto che, secondo i decreti dell’Assemblea Gallicana adottati dagli Avignonesi, dovevano ritenere l’Arcivescovo civilmente morto e la sua Chiesa priva del pastore perché egli da qualche tempo non si trovava ad Avignone e non aveva prestato il giuramento civico.

8. I Canonici negarono di poter eseguire quell’ordine, contrario a tutte le regole della Chiesa, ma l’ufficiale minacciò che non li avrebbe lasciati muovere piede da lì finché non avessero eletto il Vicario. Allora i Canonici chiesero che si facesse venire un notaio, il quale recasse la testimonianza della violenza loro inferta. Ma, rifiutata la loro richiesta, l’ufficiale presentò loro una carta nella quale erano scritti otto nomi di uomini, fra i quali dovevano scegliere il Vicario, e nello stesso tempo fece chiamare ed introdurre il notaio Poncezio e il segretario della Municipalità Escuierio, affinché presenziassero alla elezione. Invano i Canonici si opposero nuovamente, ma, costretti a dare il proprio voto, le cose si svolsero in modo tale che nessuno potesse dirsi regolarmente eletto. Infatti, dei dieci Canonici presenti in capitolo, il Canonico della Cattedrale Malierio ebbe soltanto quattro voti, l’altro Canonico della Cattedrale Depretis due voti e altrettanti Messangeanio, Canonico della Collegiata di San Genesio; gli altri cinque nessun voto. Tuttavia Duprazio volle che siffatta elezione di Malierio, per il quale non la maggior parte del capitolo, com’è prescritto, ma solo quattro avevano votato, fosse ritenuta valida; volle inoltre che i canonici, sebbene contrari e riluttanti, la sottoscrivessero con la loro firma; e con la minaccia di gravi pene vietò ai notai della città, tanto ai presenti quanto agli assenti, di registrare nei loro atti qualsiasi protesta dei Canonici.

9. Quando l’ufficiale ebbe estorto ai Canonici questa fittizia elezione che i voti e i consigli della Municipalità chiedevano, simulò di non ricordare affatto se il civico giuramento fosse stato prestato dagli stessi Canonici. Pertanto si adoperò affinché lo prestassero. Ma rifiutando i Canonici di volersi vincolare con quel tipo di giuramento, come egli stesso aveva previsto, tosto, in nome della Municipalità, dichiarò che il Capitolo era estinto e che d’ora in poi i Canonici non potevano svolgere nessun ufficio nella Chiesa e in alcun modo formare un solo corpo e riunirsi.

10. Benedetto Francesco Malierio era così avanzato in età da somigliare ad Eleazaro, illustre vecchio della storia sacra: poteva anch’egli lasciare alla gioventù e a tutto il popolo un glorioso esempio, cercando di imitarlo mediante importantissime e santissime leggi. Ma egli si comportò molto diversamente da Eleazaro, il quale, reputando nel suo animo che più dell’età, della veneranda vecchiaia, della nobile canizie era preferibile una gloriosissima morte, piuttosto che abbracciare una vita odiosa, decise di non fare cose illecite per un breve tempo di vita corruttibile. -Invece Malierio, non solo davanti ai soldati presenti nell’aula capitolare non rifiutò l’ufficio di Vicario capitolare, che, essendo ancora vivo il suo Arcivescovo, le leggi della Chiesa e quelle più sante di Dio vietavano potesse essere trasferito a chicchessia, ma lasciato totalmente libero ringraziò pubblicamente la Municipalità, e il 6 marzo – dopo la Messa celebrata dal sacerdote dell’Oratorio, Mouvansio vestito dell’insegna municipale sopra i sacri paramenti – non esitò ad iniziare in Cattedrale, con un rito più solenne, l’ufficio che gli era stato affidato e a prenderne possesso in mezzo ai soldati. Inoltre non disdegnò ricevere gli elogi che gli venivano fatti, come se fosse la colonna della rivolta, sia da Ricarzio, prefetto della città, sia da Vinaio, sostituto procuratore della stessa; infine non tardò ad aggiungere a tutte queste cose un’altra scelleratezza. Infatti davanti a tutti si vincolò con il civico giuramento verso la Nazione, le leggi e il Re della Francia, usando tali parole che neppure i più sfrontati usavano in Francia, e promise di rispettare anzitutto la civile Costituzione del clero, qualsiasi ostacolo si frapponesse e qualsiasi critica venisse mormorata contro di lui, sia dai nemici che lo guardavano di traverso, sia dagli amici dai quali si vedeva abbandonato.

11. Per confermare ciò ancor più coi fatti, lo stesso giorno comandò che si facesse pervenire ai parroci un certo scritto in cui parlava di sede vacante, ed osava sciogliere il vincolo del precetto quaresimale. Il giorno 9 dello stesso mese, con un altro scritto simile, interdisse dai loro uffici tutti coloro che in qualsiasi modo presiedevano ai seminari, perché avevano rifiutato di prestare giuramento; eliminò due seminari; e infine con tanta temerarietà, quanta nessuno a stento possa credere, con lettera del 5 dello stesso mese Ci informò della sua elezione, pregandoci di non disapprovarla affatto. Che le cose stiano così nessuno dubiterà, senza che egli cerchi di attribuire la vergogna e il giuramento alla propria vecchiaia.

12. La città di Avignone si è comportata con Noi secondo codesto criterio. Per quanto riguarda la città di Carpentras e le altre comunità del Contado, Ci arrideva la speranza che sarebbero tornate in breve tempo ai loro doveri. Esse infatti, costrette ad un’assemblea rappresentativa, non solo accolsero il pro-legato espulso da Avignone e Giovanni Celestini mandato da Roma, ma il 27 maggio dell’anno scorso dichiararono apertamente che avrebbero abbracciato la Costituzione Francese solo in ciò che conveniva ai loro interessi, al loro paese e alle circostanze, e che potesse accordarsi con l’ossequio a Noi dovuto, ed affermarono di voler rimanere sempre sotto il Nostro governo e la Nostra giurisdizione. Ma poi, a seguito di violenze o di allettamenti o di insidie dei rivoltosi di Avignone, esse mostrarono apertamente che veneravano il Sommo Pontefice e onoravano i suoi ministri soltanto formalmente, ma in realtà i loro consigli a null’altro miravano se non che il Pontefice e i suoi ministri approvassero, sancissero ed eseguissero tutta la Costituzione Francese sia per gli affari ecclesiastici, sia per quelli politici.

13. Senza dire con inutili parole tutte le deliberazioni prese dall’Assemblea del Contado, basterà citare quei diciassette articoli dove i diritti dell’uomo erano pressappoco accolti come erano stati spiegati e proposti nei decreti dell’Assemblea Francese, ossia quei diritti che erano contrari alla Religione e alla società; essi venivano accolti come fossero base e fondamento della nuova Costituzione. Altrettanto basterà ricordare gli altri diciannove articoli, che erano i primi elementi della nuova Costituzione, presi e attinti dalla stessa fonte della Costituzione Francese. Pertanto, poiché non poteva assolutamente accadere che Noi sancissimo tali deliberazioni e che i Nostri ministri, dovunque fossero, le osservassero, avvenne che l’Assemblea rappresentativa tosto manifestasse quel furioso ardore di ribellione per il quale già da tempo combatteva e che fino ad oggi aveva nascosto.

14. Perciò, presa dall’odio nei confronti del Nostro pro-legato perché non aveva accolto le sue richieste né aveva prestato il giuramento civico, l’Assemblea lo spogliò di qualsiasi potere giurisdizionale e dichiarò che non poteva più considerarlo come Nostro ministro. Né diversamente si agì nei confronti del diletto figlio Cristoforo Pieracchi, rettore di Carpentras, e di tutti gli altri ministri pontefici. Poscia in luogo del pro-legato fu istituito un nuovo tribunale, furono nominati tre conservatori di stato, e furono mandati a Noi due deputati preparati secondo un preciso ordine pieno d’arroganza e d’insulti, indice di aperta defezione: questa la ragione per cui abbiamo negato qualsiasi udienza a deputati siffatti. – Esautorati così i Nostri ministri, Giovanni Celestini dovette ritornare a Roma, e gli altri delegati pontifici, allontanatisi di là, giunsero prima ad Aubignano, luogo vicino a Carpentras, poscia a Bucheto, vicino ai confini del Contado Venesino, quindi, crescendo il tumulto, a Montelimarzio, nel Delfinato, e infine a Camberiaco, ove il 5 marzo di quest’anno rinnovarono le opportune proteste, curando di farle inserire negli atti della cancelleria vescovile.

15. Chi mai avrebbe creduto che questa partenza dei Nostri ministri, determinata da nessun’altra causa se non che essi erano stati spogliati di ogni giurisdizione e vedevano la loro vita in pericolo, come dimostrano le loro ripetute e frequenti proteste, che questa partenza – ripetiamo – sarebbe stato l’appiglio per il Consiglio municipale di Carpentras e per altre comunità di raccontare e ripetere alla gente che i popoli erano stati abbandonati dal loro Principe? – Sciolti pertanto dal giuramento di fedeltà, potevano, se volevano, sottomettersi al Re cristianissimo, come in realtà essi decretarono di fare. – Il popolo Avignonese e del Contado si sottrasse alla Nostra sovranità osando violare le leggi umane e divine. Ma Noi mai pensammo di abbandonare quei popoli, e pertanto presteremo la Nostra opera e daremo il Nostro aiuto in futuro, come in passato, affinché ritornino a Noi. Per questa ragione a coloro che si fossero allontanati da Noi abbiamo perdonato, senza alcuna condizione. Ma questo singolare atto della Nostra clemenza, sia ad Avignone sia a Carpentras, fu accolto con sfrenata arroganza e furono anche adottate dall’una e dall’altra parte deliberazioni indegne, che è meglio passare sotto silenzio e coprire con le tenebre, piuttosto che metterle in luce.

16. Ma non per questo il Nostro amore venne meno. Non ignoriamo infatti, Venerabili Fratelli, che non v’è nessuno fra voi che non detesti con grande orrore i delitti fin qui commessi e da essi non si allontani, per meglio adempire al suo ufficio di pastore. Sappiamo anche che fra voi, diletti figli, canonici, parroci, ed ecclesiastici di Avignone e del Contado vi sono molte persone eccellenti per virtù, accese di fervore religioso, pronte per ciò a sopportare qualsiasi sacrificio per difendere la causa di Dio, della Chiesa e della Patria. Sappiamo infine, diletti figli, che nel vostro nobile e civico rango si trovano molti dotati di apprezzabile devozione verso la Chiesa e di ottimo animo verso di Noi, sia ad Avignone, sia molto di più nel Contado, dove intere comunità conservano intatte ed intemerate la Religione e la fedeltà. Da qui, ammaestrati dalla divina sapienza, deduciamo che abbiano ragione i probi e i giusti; conseguentemente sopportiamo con mansuetudine i cattivi. E quantunque scorgendo tanti delitti siamo afflitti da grandissimo dolore, vogliamo tuttavia parlare paternamente agli uni e agli altri, affinché i buoni perseverino nel proposito di bene, e i cattivi vi ritornino e, con la penitenza, purghino le loro colpe. Inoltre, giacché scriviamo per questo tempo, nulla è più santo di ciò che porta con sé il giorno della riconciliazione e della pace. – Non siamo pertanto inorriditi per le cose contrarie che sono avvenute sia costà che nel regno dei Galli, come se Dio Ci avesse abbandonato. Ma pensiamo e reputiamo che le cose siano accadute sia per i Nostri peccati, sia per quelli del popolo, e non per la morte, ma per la correzione della Nostra stirpe. Pertanto confidiamo che in futuro il Dio ottimo e massimo, davanti al quale tanto spesso Ci siamo prostrati per chiedere perdono a favore del popolo affidato alla Nostra cura, si riconcili con i suoi servi, non allontani mai la sua misericordia da Noi, ma, abbracciando nelle disgrazie il suo popolo, non lo abbandoni: chi è abbandonato nell’ira di Dio onnipotente, di nuovo sarà esaltato nella riconciliazione del grande Signore.

17. Ascoltate, Venerabili Fratelli e diletti Figli, le Nostre paterne parole, che, seguendo il consiglio dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali Santa Romana Chiesa, vi rivolgiamo come pastore universale e vostro principe sul divario delle cose ecclesiastiche e politiche. Per quanto riguarda il regime ecclesiastico, nei confronti di coloro che con giuramento lo abbracciarono e seguirono, o mai abbracceranno e seguiranno costì la Costituzione civile del clero, agiremo con la stessa benignità con la quale abbiamo agito nei confronti di coloro che fecero lo stesso nelle Gallie, ove nacque la medesima Costituzione, in parte eretica, in parte scismatica, e nel complesso lontana dalle regole e avversa alla disciplina ecclesiastica; così è Nostro proposito di non fare altro che comminare ed estendere le stesse pene canoniche che reca la Nostra lettera del giorno 13 di questo mese, mandata ai diletti Nostri figli i Cardinali di Santa Romana Chiesa e ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, ai diletti figli del capitolo, al clero e al popolo del regno delle Gallie. Di questa lettera mandiamo a voi molte altre copie, Venerabili Fratelli, affinché le facciate pervenire alle mani dei capitoli, del clero e dei popoli di codesta Nostra giurisdizione.

18. Pertanto, con la Nostra Autorità Apostolica, dichiariamo irriti, illegittimi e sacrileghi tutti gli atti che con qualsiasi nome, sia ad Avignone, sia a Carpentras, sia altrove siano stati compiuti per fare abbracciare o seguire, sia tacitamente, sia esplicitamente, tutta la Costituzione civile del clero od anche soltanto una parte, e tutti questi atti che diamo per espressi li condanniamo, respingiamo ed aboliamo.

19. Soprattutto annulliamo ed aboliamo l’editto dell’8 ottobre 1790, col quale il Consiglio municipale di Avignone, non solo temerariamente, ma anche empiamente, tentò di costringere il Venerabile Fratello Arcivescovo di quella città, i canonici, i parroci e gli altri ministri ecclesiastici ad unirsi a sé con civico giuramento, essendo proprio di qualsiasi indegno uomo cattolico, una volta promulgata la dichiarazione, considerare vacanti la sede arcivescovile, le parrocchie e tutti gli altri uffici se non viene espresso un giuramento di tal fatta: tale editto perciò è invalido, sacrilego, e per sua natura idoneo a favorire lo scisma.

20. Parimenti condanniamo ed annulliamo l’elezione di Malierio a vicario capitolare, e la dichiariamo empia, violenta, irrita e sacrilega poiché è del tutto ignorato nella Chiesa di Dio che si possa togliere al pastore legittimo ancora vivente il governo del suo gregge, se non per cause canoniche, previste dalla stessa Chiesa o da questa Santa Sede; e poiché manca dei necessari suffragi ed è priva di ogni libertà, così l’elezione non può essere considerata né canonica, né ecclesiastica, ma un atto militare ed ostile. Infatti la forza militare estorse i suffragi; con la forza militare avvenne che codesta fittizia elezione venisse presentata al popolo fra le giuste proteste dei canonici che precedettero e seguirono l’atto profano; si deve perciò ritenere che lo stesso possesso dell’eletto sia stato accreditato con la forza militare. – A questa vicenda si possono dunque applicare le parole che furono scritte dal Sinodo di Alessandria nella lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, quando Sant’Atanasio fu cacciato dalla sua sede nel conciliabolo di Tiro: “Quando il capo presiedeva, quando il capo parlava, gli altri stavano in silenzio, o piuttosto prestavano ossequio al capo; ciò che comunemente piaceva ai Vescovi, da lui era impedito; egli usava il comando, noi eravamo guidati dai soldati“. Ottimamente il Sinodo affermò che siffatta degradazione era da considerare “intrigo di comandanti, non atto sinodale“.Ugualmente si confanno le parole dette da San Giulio, quando al posto dello stesso Atanasio i Vescovi Ariani sostennero il dissipatore Giorgio, e lo mandarono ad Alessandria protetto dal braccio militare. – Egregiamente il Santo Pontefice scriveva che Giorgio era entrato in Chiesa “non con i sacerdoti e i diaconi della città, ma con i soldati… credetemi, carissimi, poiché parliamo con verità come se fosse presente Dio: codesto non è un fatto pio, né giusto, né ecclesiastico“.

21. La dichiarata nullità dell’elezione porta con sé la nullità di tutti gli atti compiuti da Malierio fin dall’inizio, senza giurisdizione, contro i rettori del seminario, contro i buoni pastori, contro i religiosi privati dei loro uffici per nessun’altra causa, se non perché rifiutarono di prestare il giuramento di osservare una Costituzione assolutamente acattolica.

A proposito della nostra questione, ancora San Giulio esclama: “Gli atti compiuti da Giorgio nel suo ingresso, mostrano quale sia stata la regola nella sua ordinazione; preti… indegnamente fatti… rapiti i sacri misteri per costringere con la forza alcuni ad approvare la costituzione di Giorgio. Queste cose ed altre simili dimostrano chi siano i prevaricatori dei canoni. Infatti… neanche con la prevaricazione della legge avrebbe costretto ad ubbidire coloro che legittimamente ubbidivano ad essa“.

22. Pertanto, quantunque siano gravi e molti i delitti commessi da Malierio, tuttavia, volendo lasciargli tempo e possibilità di ritirarsi e di purgare le sue colpe con pubblica e opportuna riparazione, Ci asteniamo dall’imporgli le pene canoniche più gravi e gli comminiamo la pena più mite di tutte, dichiarandolo sospeso dall’Ordine sacerdotale e colpevole d’irregolarità se osasse esercitare il predetto Ordine.

23. Ordiniamo inoltre al predetto Malierio, sotto pena di sospensione, di non osare da qui in poi di chiamarsi Vicario capitolare né di esercitare alcun ufficio inerente in qualche modo a questa dignità, alla quale è giunto né per diritto né canonicamente. Soprattutto vogliamo che gli sia interdetto mandare lettere dimissorie a coloro che si apprestano a ricevere gli ordini, e che non siano da lui nominati in alcun modo parroci, rettori di seminari, funzionari ed altri ministri ecclesiastici di qualsiasi genere, anche se eletti dal popolo, dichiarando nulli ed irriti tutti i provvedimenti e gli incarichi che fino a questo momento fossero stati disposti, con tutte le relative conseguenze, e qualsiasi altro atto che osasse fare in seguito.

24. Comminiamo la stessa pena della sospensione dall’esercizio dell’Ordine al predetto Mouvansio, prete dell’Oratorio, che celebrò la Messa quando lo pseudo-Vicario Malierio prese possesso, e per somma temerità aggiunse le insegne della Municipalità alle vesti sacerdotali che indossava.

25. Rivolgendoci a voi, diletti figli, canonici, ecclesiastici e cittadini tutti di Avignone, vi preghiamo nel Signore di non accogliere il predetto Vicario capitolare, o qualsiasi altro ministro che per vie tortuose e sotterrane e tentasse di occupare incarichi ecclesiastici; al contrario vi raccomandiamo di ubbidire anzitutto all’Arcivescovo ed ai vostri legittimi parroci; questi infatti saranno sempre i vostri pastori, anche se costretti ad allontanarsi contro la loro volontà; ciò anche se, con orribile sacrilegio, fosse eletto e consacrato un altro Arcivescovo o si designassero altri parroci. – Questo tipo di sacrilegio è stato da Noi denunciato e condannato con Nostra lettera ai Vescovi delle Gallie trasmessa anche a voi. -Sarà quindi compito dell’Arcivescovo guidare le sue pecore, e dei buoni parroci offrire aiuti spirituali al proprio popolo come meglio potranno. Ricordatevi che senza il giudizio canonico della Chiesa non potete, anche in condizioni di violenza e di necessità, sottrarvi o liberarvi da quel vincolo d’obbedienza con il quale siete legati all’Arcivescovo ed ai vostri parroci, come fu riconosciuto e dichiarato il 25 febbraio nel convegno straordinario tenutosi presso la celebre Università della Sorbona.

26. A questo punto riteniamo opportuno difendere sia il vostro Arcivescovo sia gli altri funzionari dalle accuse con le quali erano stati colpiti ingiustamente nell’editto del Consiglio municipale, come se gli stessi non potessero essere lontani da Avignone senza contravvenire a quanto prescritto dai canoni. Effettivamente, secondo i canoni, non possono essere senza colpa né l’Arcivescovo né gli altri ministri assenti, che per l’esercizio del loro dovere sono obbligati ad essere presenti alla Chiesa, sia quando l’Arcivescovo, per giusti e razionali motivi inderogabili, si reca fuori diocesi e quivi si ferma oltre il tempo consentito, sia quando gli altri ministri ecclesiastici si allontanano dal servizio della Chiesa cui sono addetti. Ma se ciò accadesse, gli autori dell’editto non devono affatto ignorare che a norma degli stessi canoni non è permesso ai laici sentenziare contro gli ecclesiastici e castigarli con l’estrema pena della privazione: ma devono essere lasciati alla Chiesa il libero diritto e la facoltà di trattare nei loro riguardi con gradualità e con diverse pene, o privandoli dei redditi dei benefici, o castigandoli con pene spirituali, o privandoli infine degli stessi benefici. Così come se si trattasse del Metropolitano assente, “il Vescovo residente più anziano, sotto pena dell’interdetto da incorrere immediatamente, è tenuto a denunciare entro tre mesi, per lettera o per mezzo di un ambasciatore, al Romano Pontefice, il quale, secondo la maggiore o la minore contumacia, con l’autorità della sua Sede suprema potrà riprendere gli assenti e provvedere le Chiese stesse di pastori più utili, così come riterrà più salutare nel Signore e come è stabilito con le stesse parole dal Concilio Tridentino“.

27. Per la verità sono conosciute da tutti quelle grandi masse, costì eccitate, che costrinsero i nobili e gli ecclesiastici ad abbandonare la patria e il domicilio per evitare di giurare o per sfuggire a quei danni che altri probi uomini miseramente subirono; quei danni ai quali non poterono essere sottratti neppure i loro patrimoni, come avvenne per la casa arcivescovile e per gli altri beni dell’Arcivescovo. Si giunse a questo ancorché l’Arcivescovo non avesse mai mosso un piede fuori della sua Diocesi; infatti Villanova, dove egli ha dimorato e tuttora dimora, si trova entro i confini della sua stessa Diocesi; così che per questo non si può dire che egli si sia scostato dalla disposizione Tridentina, che ordina ai Metropolitani di risiedere nella Chiesa arcivescovile o nella Diocesi. Del resto a Noi, cui spetta il giudizio su queste cose, consta per certo che niente più ardentemente desiderava l’Arcivescovo che ritornare costì e sarebbe già tornato da voi, anche con rischio della sua vita, se non avesse temuto che la sua morte, più che di utilità alle sue pecore, fosse di danno e detrimento in questi infelicissimi tempi.

28. Le cose che abbiamo detto al clero e al popolo di Avignone sull’ubbidienza dovuta all’Arcivescovo e ai pastori, ripetiamo anche a voi, diletti figli, canonici, ecclesiastici, e genti delle altre Chiese del Contado. State lontani da coloro che invasero le Chiese altrui o che tentano ancora di invaderle, evitateli, guardateli con orrore: amate invece i vostri legittimi Vescovi e Parroci, ossequiateli ed ascoltateli.

29. Tutti gli abitanti di Avignone e del Contado formino unità di animi e volontà quando si tratta di argomenti religiosi: rivolgete sempre gli occhi alle leggi divine, alle leggi ecclesiastiche e a quelle di questa Sede Apostolica. La Chiesa infatti e la Sede Apostolica sono mosse dallo Spirito di Dio. Se così vi comporterete, come confidando sulla vostra pietà speriamo per il futuro, l’ira di Dio si convertirà in misericordia e da questo riporterete trionfo; coloro che combattono contro la Religione saranno costretti a dire di voi ciò che i nemici dei Giudei dicevano dei Maccabei, cioè che i Giudei avevano Dio quale protettore e per Lui erano invulnerabili perché osservavano le leggi da Lui stabilite.

30. Passando ora dal governo ecclesiastico a quello civile non possiamo comportarci con voi nello stesso modo con il quale Ci comportammo con i Galli. A questi, infatti, non abbiamo voluto parlare della nuova legge relativa alle cose civili approntata dalle Assemblee Generali e sancita dal Re per competenza. Al contrario non possiamo tacere con voi che da molti secoli siete sotto la Sede Apostolica, sotto il governo dei Sommi Pontefici, e che senza la Nostra suprema autorizzazione non potete cambiare la forma del regime temporale: ciò richiedono sia le leggi umane, sia quelle divine.

31. Perciò, usando la Nostra suprema e legittima potestà, in qualità di Principe, annulliamo tutti e i singoli atti compiuti contro i diritti del Nostro Principato sia ad Avignone, sia a Carpentras, sia in qualunque parte del Contado, e riproviamo innanzi tutto e annulliamo, in quanto irrite, le delibere piene di violenza e di sedizione adottate costà con il proposito di sottrarvi dalla Nostra sovranità per trasferirvi a quella Francese; delibere – diciamo – che il carissimo Nostro figlio in Cristo il cristianissimo Re insieme alla sua inclita Nazione non può approvare e neppure mettere in discussione senza ledere i sacrosanti diritti delle genti, come abbiamo specificato allo stesso Re con ripetute rimostranze.

32. Disapproviamo parimenti ed annulliamo le delibere ugualmente assurde e sediziose di vivere costì con ordinamento repubblicano; riproviamo e annulliamo anche le delibere con le quali per somma pazzia si accolgono le leggi civili straniere, sia emanate sia da emanare, e con le quali si antepongono leggi nuove, pericolose e incerte, alla Costituzione antica, domestica e legittima, sotto la quale voi ed i vostri antenati siete vissuti tranquillamente ed in pace per tanti secoli.

33. E, tralasciando altre innovazioni compiute in massima parte senza il Nostro consenso, nell’eccitazione degli animi e nello stesso calore della sedizione, per cui si debbono ritenere illecite come se a questo punto le avessimo ricordate singolarmente, annulliamo soprattutto gli indegnissimi atti di violenza, per i quali il Nostro pro-legato, il rettore e gli altri ministri sono stati prima esautorati e poscia costretti ad allontanarsi dai nuovi ufficiali e dai tribunali subentrati. E affinché non si possa mai dubitare che Noi conserviamo intatto ed integro il Nostro antico possedimento e custodiamo tutti i Nostri antichi, legittimi e tutelati diritti, con queste parole e nel modo più solenne possibile, con diritto confermiamo non solo le proteste sopra ricordate, spesso rinnovate per mezzo del Nostro pro-legato e che qui vogliamo siano ricordate come se fossero scritte parola per parola, ma anche i reclami che, seguendo l’esempio dei Nostri predecessori, e imitando il costume di altri principi, abbiamo curato di mandare al Re delle Gallie e ad altre assemblee cattoliche con l’intento e la volontà, se sarà necessario, di ricorrere a rimedi più forti, che sono in Nostro potere, per vincere la sempre più insistente pervicacia.

34. Ciò premesso, vi ammoniamo paternamente e vi esortiamo, Venerabili Fratelli e diletti figli che siete rimasti fedeli, affinché non solo con l’esempio, ma anche con la parola esortiate coloro che tanto ed in tanti modi si allontanarono, ad abbandonare quella sedizione, nella quale si sono miseramente avviluppati e a ritornare a Noi, che li abbiamo sempre portati nell’animo, in modo tale che, abbracciandoli nuovamente, non possiamo non accoglierli in seno. – Si ricordino che per il precetto stabilito da Dio, e che le sacre pagine tanto spesso ripetono, i sudditi devono ubbidire al loro Principe, e debbono eseguire le patrie leggi che da lui furono emanate. – Si guardino diligentemente dalla ricerca di cose nuove, che quantunque in apparenza sembrino utili, sono sempre collegate ad un sommo pericolo. Se nelle patrie leggi entrò qualche abuso (già altre volte abbiamo dichiarato e ancora dichiariamo) siamo pronti a sradicarlo e a toglierlo di mezzo, ascoltando, per quanto starà in Noi, i vostri desideri. – Cessino le fazioni e le discordie fra i cittadini; le cose tornino al loro posto; agli animi siano restituite la carità, la giustizia e la pace. Infatti sarete felici ovunque se, osservando le leggi di Dio, della Chiesa e del vostro Sovrano, godrete della pace, dal momento che il Dio della pace e dell’amore sarà con voi, come promise l’apostolo Paolo ai suoi fedeli. – Noi intanto, in pegno di quella pace che per tutti invochiamo dal Signore, a voi, Venerabili Fratelli, e a voi, diletti figli, impartiamo con affetto la Nostra Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 aprile 1791, anno diciassettesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA II DI QUARESIMA (2020)

DOMENICA II DI QUARESIMA (2020)

Stazione a S. Maria in Domnica

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica, chiamata così perchè i Cristiani si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum). Si dice che S. Lorenzo, distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri. Era una delle parrocchie romane del V secolo. Come nelle Domeniche di Settuagesima, di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina formano la trama delle Messe della 2a, 3a, e 4a Domenica di Quaresima. – Il Breviario parla in questo giorno del patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità. Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, il Dio di Giacobbe o d’Israele per mostrarlo come protettore. « Dio d’Israele, dice l’Introito, liberaci da ogni male ». La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono. Il versetto dell’Introito dice che « colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene ». L’Orazione ci fa domandare a Dio di guardarci interiormente ed esteriormente per essere preservati da ogni avversità ». Il Graduale e il Tratto supplicano il Signore di liberarci dalle nostre angosce e tribolazioni » e « che ci visiti per salvarci ». Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, « noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà » (4° Lez. Della 3° Domenica di Quaresima).  – Giacobbe fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè. Giacobbe significa infatti « soppiantatore »: egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne per sorpresa, la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù. Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse: « Le nazioni si prosternino dinanzi a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli ». Allorquando Giacobbe dovette fuggire per evitare la vendetta di Esaù, egli vide in sogno una scala che si innalzava fino al cielo e per essa gli Angeli salivano e discendevano. Sulla sommità vi era l’Eterno che gli disse: « Tutte le nazioni saranno benedette in Colui che nascerà da te. Io sarò il tuo protettore ovunque tu andrai, non ti abbandonerò senza aver compiuto quanto ti ho detto. Dopo 20 anni, Giacobbe ritornò e un Angelo lottò per l’intera notte contro di lui senza riuscire a vincerlo. Al mattino l’Angelo gli disse: « Tu non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele (il che significa forte con Dio), perché Dio è con te e nessuno ti vincerà » (Il sacramentario Gallicano (Bobbio) chiama Giacobbe « Maestro di potenza suprema »).Giacobbe acquistò infatti la confidenza di suo fratello e si riconcilia con lui.Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. – La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe — scrive S. Agostino — ha un significato simbolico perché le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri » (Mattutino). Quando il Vescovo mette i guanti nella messa pontificale, dice infatti, che « Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato ». « Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli « non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno » cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perché sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità (3° Notturno). Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse: « Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto,ascoltatelo ». Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe, rivestito delle pelli di capretto. E questa benedizione data a Gesù, è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito. Così il Vescovo mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera« Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, cosi, anch’io, nell’offrirti con le mie mani la vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore ».Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo; Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo. « Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più. Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perché  Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro » (Epist.). — In S. Giovanni (I, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi. « Come Esaù, dice S. Ippolito, medita la morte di suo fratello,il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa.Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa ». Alla fine dei tempi, questi due popoli si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe.La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare. Giacobbe vide il Dio della gloria, gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Orémus.

Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente. [O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodiscici all’interno e all’esterno, affinché siamo liberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.

1 Thess IV: 1-7.

“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

– LA PURITÀ –

“Fratelli: Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore, che, avendo da noi appreso la norma, secondo la quale dovete condurvi per piacere a Dio, continuiate a seguire questa norma, progredendo sempre più. Poiché la volontà di Dio è questa: la vostra santificazione: che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà, e non seguendo l’impeto delle passioni, come fanno i pagani che non conoscono Dio; che nessuno su questo punto soverchi o raggiri il proprio fratello: che Dio fa vendetta di tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e dichiarato. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità: in Cristo Gesù Signor nostro” (I Tess. IV, 1-7).

San Paolo, nel chiudere il cap. terzo della sua prima lettera ai Tessalonicesi, assicura che egli prega Dio, perché, togliendo gli ostacoli che finora vi s’erano frapposti, voglia concedergli di poter recarsi ancora a Tessalonica a completare il suo apostolato. E fa voti che Dio faccia abbondare nella carità i Tessalonicesi, a quel modo che egli abbonda nella carità verso di loro; affinché siano trovati irreprensibili per il giorno in cui Gesù Cristo comparirà con tutta la corte celeste. Adesso passa ad esortarli a cooperare da parte loro alla grazia, crescendo sempre più nella perfezione cristiana, secondo i precetti da lui dati da parte di Gesù Cristo. Precetti che rievoca cominciando da ciò che riguarda la purità. Parliamo anche noi di questa virtù la quale:

1. È voluta da Dio, che non chiede cose impossibili,

2. A lui ci avvicina,

3. E’ richiesta dalla nostra vocazione.

1.

La volontà di Dio è questa: la vostra santificazione; che vi asteniate dalla, fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà. – Queste parole dell’Apostolo sono una risposta a coloro che vanno dicendo essere impossibile condurre una vita pura. Se fosse impossibile, Dio non ce ne farebbe comando. L’esercizio di qualsiasi virtù incontra certamente delle difficoltà. Ogni comandamento della legge di Dio richiede i suoi sacrifici; e il sesto comandamento ne richiede non pochi. Si tratta, però, sempre non di impossibilità, ma di difficoltà da superare. Difficoltà, che chi ama Dio supera con l’aiuto della sua grazia. «Io posso tutto in colui che mi fortifica» (Filipp. IV, 13), dichiara l’Apostolo. La prima difficoltà da superare è la cattiva inclinazione dei sensi. Per viver casti non bisogna aver aperti gli occhi a tutte le curiosità, le orecchie intente a ogni sorta di discorsi, la gola sempre disposta alle crapule, non esser dediti al vino, «sorgente di dissolutezza» (Ef. V, 18). Bisogna vincere la tendenza all’ozio. Diciamo che l’ozio è padre di tutti i vizi. È padre di tutti i vizi in generale, e dell’impurità in modo particolarissimo. L’uomo nemico della parabola evangelica va a sparger la zizzania nel campo seminato di buon grano, mentre gli agricoltori dormono. Quando il corpo e lo spirito sono occupati, l’uomo nemico ha poco da fare. Le cattive inclinazioni non si fanno sentire, la fantasia non può far la sbrigliata; i desideri trovano chiusa la porta; non si commettono certe laidezze. Bisogna evitare le cattive compagnie. Chi va col lupo, impara ad urlare. Chi va con gente sboccata, a poco a poco diventerà sboccato; chi va coi libertini, diventerà presto libertino. E van considerati come pessimi compagni certi giornali e certi libri. La loro lettura comincia con attirare la curiosità, poi eccita la fantasia, turba l’animo, e finisce con guastare la mente, il cuore e anche il corpo di tanti incauti lettori. Chi non vede che cattive azioni, e non legge che di cattive azioni, misura tutto dalla propria debolezza e dalla debolezza degli altri e conclude: «E’ impossibile viver puri». Qui vengono a proposito le parole di S. Gerolamo: « Molti, giudicando i precetti di Dio non dalle azioni virtuose dei Santi, ma dalla propria debolezza, dicono essere impossibile ciò che vien comandato » (L. I Comm. in Matth. c. 5, v. 4). Mancano forse nella Storia Sacra e nella storia della Chiesa esempi luminosi di purezza? Nei primi tempi della Chiesa si poteva affermare dei Cristiani in faccia ai loro nemici: «Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne» (Lettera a Diogneto 5, 8). E la dottrina cattolica, che formava anime pure allora, le forma anche nei nostri tempi. Il Card. Massaia, nel suo ritorno in Europa, quando fu esiliato dall’Abissinia, ebbe parecchie conversazioni in Suakim con un ricco mercante arabo, Sciek Abdallàh. In una di queste conversazioni, l’arabo, ammirato della vita intemerata e delle virtù angeliche del Messia e dei suoi compagni missionari : « Allah Kerim! — esclamò — noi mussulmani camminiamo strisciando per terra, laddove voi Cattolici, stendendo le ali, volate sì alto che noi non possiamo raggiungervi neppure con lo sguardo » (Can. L. Gentile, L’Apostolo dei Galla, 2. ed. Torino 1910, p. 380). Anche nei secoli di maggior corruzione non mancano mai Cristiani, uomini e donne, di vita illibatissima, i quali si attirano l’ammirazione di coloro stessi, che ne scrutano le minime azioni per aver pretesto di combatterli. E ciò che hanno potuto far essi, perché non posso farlo io, con l’aiuto della grazia del Signore?

2.

San Paolo continua, dicendo che Dio non vuole che noi serviamo alla concupiscenza « come fanno i pagani che non conoscono Dio ». L’ignoranza della volontà di Dio e delle relative sanzioni, come era appunto il caso dei pagani, allontana sempre più l’uomo dal suo Creatore e lo lascia cadere nella depravazione. Al contrailo, l’uomo che conosce la volontà di Dio, e vuol metterla in pratica, cerca di purificarsi sempre più. Quanto più un’anima è pura, tanto più è disposta alle ascensioni verso Dio. L’anima è spirito, e solamente i piaceri dello spirito la possono soddisfare, «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio», dice Gesù (Matt. V, 8). La purezza del cuore, qui encomiata da Gesù, esclude ogni peccato o vizio che possa imbrattare l’interno dell’uomo, e che avrà completamente il premio promesso nella seconda vita, Ma coloro che vivono casti sono più atti ad occuparsi delle perfezioni di Dio, anche durante il terreno pellegrinaggio. L’occhio sano tanto più vede quanto più è limpido. Così il cuore quanto più è puro tanto più percepisce le cose di Dio. L’uomo quanto meno è attratto dal fango e dalle brutture di quaggiù, tanto più è inclinato a sollevarsi in alto fino alla bellezza increata. « La castità — dice S. Bernardo — unisce l’uomo al cielo » (Liber ad sor., De Modo bene vivendi, 64). E S. Atanasio insegna che « la mondezza dell’anima la rende atta a veder Dio per se stessa » (Or. contra Gentes, 2). L’anima pura sente di essere legata in modo particolare a Dio, purezza infinita. Chi è puro s’intrattiene volentieri con Dio per mezzo della preghiera e dei sacri cantici. Trova le sue delizie nello star vicino al tabernacolo del Dio vivente; passa momenti di paradiso quando si unisco a Lui nella santa Comunione. Il pensiero della presenza, di Dio, che tanti sgomenta e che da tanti è trascurato, è per essa un forte incitamento all’esercizio di tutte le virtù; e le dà la costanza di superare qualunque ostacolo. E il Signore, che si compiace delle anime caste, dopo averle sostenute nella lotta. Fa loro sentire tutto il conforto della sua vicinanza.

3.

Lontani da Dio si vive in ogni sregolatezza. Questa era la vita dei Tessalonicesi, prima che si convertissero al Cristianesimo. Adesso che sono seguaci di Gesù Cristo devono tenere una condotta affatto opposta, mettendosi a praticare ogni virtù. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità. Chi continuasse a vivere nell’immondezza, non sarebbe degno di appartenere ai seguaci di Gesù Cristo; verrebbe meno ai doveri della sua vocazione. Lo stesso mondo corrotto e corruttore, è giudice severo verso coloro che conducono una vita poco casta. Chiuderà gli occhi su tante mancanze; ma aguzzerà in modo straordinario la vista per scoprire, se coloro che si mettono a condurre una vita cristiana, mancano sotto questo rispetto. E se gli è dato di scoprire qualche mancanza, fa del rumore, crea dei pretesti per additare al disprezzo i Cristiani praticanti. Un Cristiano abbia pure le più belle doti di mente e di cuore, compia pure molte opere buone, si acquisti dei meriti svariati, se è schiavo dell’immondezza disonora la sua vita: e non sarà mai un apostolo che convince. Poca macchia guasta una bellezza: soprattutto quando si tratta della macchia dell’impurità. Al contrario, la purità compenetra, per così dire, tutte le altre virtù e ne rivela le bellezze. Ci sono certi fiori che, in un mazzo, attirano lo sguardo più degli altri, nello stesso tempo che accrescono grazia al mazzo intero. Nel mazzo delle virtù che adornano la vita cristiana, la purità è quella che maggiormente influisce su l’animo di chi osserva; e gli presenta tutte le altre virtù sotto un luce tutta particolare. Essa è « il fiore dei costumi » (Tertull., De Pudicitia,1). E la storia della Chiesa, antica e moderna, la storia dei nostri giorni, quella che si svolge sotto i nostri occhi, e quella che si svolge nei paesi delle Missioni, c’insegna che tanti e tanti, rimasti irremovibili davanti ai ragionamenti e alle esortazioni, a poco a poco si lasciano soggiogare e trascinare dal fascino che esercitano le anime pure. Questa bella virtù, che tanto ci innalza agli occhi di Dio, che tanta efficacia esercita sull’anima degli uomini, che è invidiata, se non osservata, anche da coloro che vivono immersi nelle passioni, deve essere dai Cristiani costantemente praticata e gelosamente custodita. I tesori, quanto più sono preziosi, tanto più esigono cure, perché non vadano perduti. Si devono sostenere lotte e privazioni per conservare il tesoro della purità; ma quanto più lotteremo e ci mortificheremo, tanto più diventeremo belli e preziosi all’occhio di Dio. Le vette nevose delle Alpi tanto più spiccano e affascinano con il loro candore, quanto più sono flagellate dalle bufere e dalle tempeste. Le lotte e le privazioni che si devono sostenere per conservare la purità avranno, del resto, il più felice coronamento; poiché di essa, soprattutto, è scritto nei Libri Santi, che « incoronata trionfa nell’eternità, avendo riportato il premio dei casti combattimenti » (Sap. IV, 2).

 Graduale

Ps XXIV: 17-18

Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,

[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]

Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.

[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]

Tractus

Ps CV:1-4

Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. [Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]

Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?

[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]

Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.

[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]

Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo. [Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt XVII: 1-9

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”

[In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, e Giacomo, e Giovanni, suo fratello, e li menò separatamente sopra un alto monte; e fu dinanzi ad essi trasfigurato. E il suo volto era luminoso come il sole, e le sue vesti bianche come la neve. E ad un tratto apparvero ad essi Mosè ed Elia, i quali discorrevano con lui. E Pietro prendendo la parola, disse a Gesù: Signore, buona cosa è per noi lo star qui: se a te piace, facciam qui tre padiglioni, uno per te, uno per Mosè, e uno per Elia. Prima che egli finisse di dire, ecco che una nuvola risplendente, li adombrò. Ed ecco dalla nuvola una voce che disse: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra, ed ebbero gran timore. Ma Gesù si accostò ad essi, e toccolli, e disse loro: Alzatevi, e non temete. E alzando gli occhi, non videro nessuno, fuori del solo Gesù. E nel calare dal monte, Gesù ordinò loro, dicendo: Non dite a chicchessia quel che avete veduto, prima che il Figliuol dell’uomo sia risuscitato da morte.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Per la trasfigurazione del Signore s’intende quel cangiamento miracoloso, che Gesù Cristo fece della sua Persona, alla presenza di s. Pietro, s. Giacomo e s. Giovanni, sul monte Thabor, ove apparve nella più sfolgorante mostra della sua gloria, tra Mosè ed Elia. S. Tommaso prova che era conveniente che Gesù Cristo si trasfigurasse per rendere più ferma la fede e la speranza dei suoi Apostoli. L’una e l’altra dovevano essere stranamente provate alla vista degli obbrobri, dei patimenti e della morte ignominiosa del Salvatore. Gli Apostoli, prima della discesa dello Spirito Santo, non avevano che un’idea materiale della religione: imperfettissima era la loro fede e debole la speranza. I miracoli che il Figlio di Dio faceva erano un potente motivo di credenza; ma alla fine Mosè, Elia, e tanti altri profeti senza essere Dio avevano fatto di simili miracoli; vi bisognò qualche cosa di più splendido, che fosse una visibile prova della sua divinità, e porgesse loro una più giusta idea dell’eterna felicità che doveva essere la loro ricompensa: e questo è ciò che nella Trasfigurazione del Salvatore sensibilmente si trova. Gesù Cristo prese s. Pietro seco, dice s. Giovanni Damasceno, perché doveva essere il pastore della Chiesa universale, ed aveva già confessato la divinità del Salvatore, seguendo la luce ricevutane dall’eterno Padre. Prese s. Giacomo, perché esso doveva il primo confermar col suo sangue la divinità di Gesù Cristo: prese s. Giovanni, come quello de’ suoi evangelisti che doveva pubblicare nella maniera più chiara e precisa la sua divinità: Nel principio era il Verbo, e il Verbo era appresso Dio, e il Verbo era Dio. Ma se Gesù Cristo gli fa testimoni della sua gloria sul Thabor, vuole che siano ancora della sua agonia sul monte degli ulivi. Il Salvatore non fa parte delle sue dolcezze se non a quelli che prendon parte ai dolori della sua passione. In disparte e sopra un monte elevatissimo Gesù Cristo si mostra ai suoi discepoli nello splendore della sua trasfigurazione; così Egli si svela ancora tutti i giorni alle anime fedeli, che trae a sé nel ritiro, e che con l’orazione s’innalzano al di sopra di tutte le cose create. Le anime infingarde, che strisciano tutto il tempo di loro vita sulla terra, sono indegne di tali celesti favori, che Dio non fa se non a quelli che aspirano alla più alta virtù. Questo corpo sfigurato oggi, abbattuto, consunto dalle fatiche della penitenza, splenderà come un sole per tutta l’eternità. È un tal pensiero che sostiene tanti fervorosi Cristiani, tanti santi religiosi, nel rigore di una vita austera. Le dolcezze spirituali di questa vita sono i frutti della croce: in mezzo a questa gloria che brilla da ogni parte, in mezzo a questo splendido giorno, che può dirsi un giorno di trionfo della sacra umanità di Gesù Cristo, questo divin Salvatore non parla che delle umiliazioni della sua morte e de’ suoi patimenti: tutta la gloria di un Cristiano sulla terra dev’essere nella mortificazione e nelle croci. Absit mihi gloriari nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi, diceva l’Apostolo. Gesù Cristo proibisce ai testimoni della sua gloriosa trasfigurazione di parlarne prima della sua risurrezione: tanto Egli teme che la pubblicità di questa notizia non impedisca la sua morte! Cosa ammirabile! Gesù Cristo, per fare splendere la sua gloria, sceglie un monte in disparte; non prende con sé che pochi testimoni, e impone loro il silenzio su quanto hanno veduto; ma quando si tratta di soffrire una vergognosa morte, sceglie un monte esposto agli occhi di tutta Gerusalemme. Così, o mio Salvatore, voi confondete il nostro orgoglio.

Domanda. Padre nostro, che siete nei cieli, fate che noi ascoltiamo il vostro amatissimo Figlio, e custodiamo fedelmente i comandamenti vostri e della Chiesa, dei quali la vostra grazia ci rende l’osservanza non solo possibile, ma talvolta facilissima; e non permettete che mai prestiamo l’orecchio a perfide insinuazioni, tendenti a persuaderci che quanto esigete da noi è impossibile; insinuazioni ingiuriose alla vostra giustizia ed alla vostra bontà.

Omelia II

 [Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra l’abito del peccato, che è l’effetto del peccato

“Miserere mei, Domine, fili David, fìlia mea

male a dæmonio vexatur”. Matth. XXIII.

In questa guisa, fratelli miei, una donna Cananea domandava a Gesù Cristo la guarigione della sua figliuola ossessa. Fu la sua preghiera accompagnata da una fede si viva e da una fiducia sì costante, che ottenne quanto desiderava; la figliuola fu liberata dal demonio che l’invasava e fu renduta a sua madre. Era questo senza dubbio uno stato molto deplorabile; ma quello di un uomo in cui il demonio ha fissato la sua dimora col peccato è ancora più da compiangere, principalmente quando il demonio vi regna con un peccato abituale. Quando uno comincia a peccare, il demonio fa la sua entrata nell’anima, ed è facile il farnelo uscire. Ma quando uno è abituato nel male ed il vizio è radicato in un’anima con una lunga serie di peccati da essa commessi, il demonio fissa talmente la sua dimora in quell’anima e sì fortemente la incatena che è ben difficile lo scuoterne il giogo; si ricerca un miracolo della grazia per liberar quest’anima dalla trista schiavitù cui ella è ridotta. Ah! allora si è che il peccatore deve ricorrere a Gesù Cristo e chiedergli istantemente la propria liberazione. Signore (deve dire, alzando la sua voce come la Cananea del nostro Vangelo), quest’anima che è vostra figliuola, creata a vostra immagine e somiglianza, cui voi avete data una nuova vita morendo per essa sulla croce, che avete purificata nel vostro sangue prezioso; quest’anima è divenuta l’abitazione del demonio, essa è schiava di un cattivo abito che le ha portati colpi mortali: male a dæmonio vexatur; abbiate dunque pietà della sua miseria, spezzate le sue catene e mettete in fuga il demonio che se ne è reso padrone. Ecco, o peccatori, ciò che far dovete per uscire dalle vostre cattive abitudini: quanto a voi che non vi siete ancora involti, temetene le funeste conseguenze; e sì gli uni che gli altri imparate quest’oggi la condotta che dovete tenere o per correggervi o per preservarvi. Se voi non volete contrarre giammai cattivi abiti, conoscetene i perniciosi effetti. Primo punto. Se desiderate sinceramente correggervi dai vostri abiti viziosi, applicatevi a conoscerne i mezzi i più efficaci. Secondo punto. In due parole, ciò che l’abito fa contra l’abito ecco tutto il piano del mio discorso ed il soggetto della vostra cortese attenzione.

I . Punto. L’abito del peccato è una facilità di commetterlo, la quale si acquista con gli atti reiterati che si fanno. Questo abito può anche contrarsi con un solo peccato che venisse da una passione veemente e che lasciasse nel cuore gagliarde impressioni del male. Non è dunque sempre necessario, per giudicare che un abito sia formato, che gli atti ne siano sovente ripetuti; si conosce per mezzo dell’affetto a commettere certi peccati quando se ne presenta l’occasione. Cosi si può dire che un impudico, un intemperante che si abbandonano alle loro passioni, nelle occasioni in cui non si trovano che di rado, sono peccatori abituati, perché gli è sol per difetto di occasione e non d’inclinazione che non peccano frequentemente. Ora, di qualunque natura sia l’abito, in qualunque modo si contragga, egli è dannosissimo nei suoi effetti; egli rende il peccatore più colpevole, la sua conversione più difficile e la sua morte nel peccato più certa. – Quanto più la volontà è determinata al male e moltiplica i suoi mancamenti, tanto più ella è colpevole avanti a Dio. Or, siccome l’abito è l’effetto di una volontà ostinatamente attaccata al male ed è una sorgente feconda di peccati, convien conchiudere ch’egli rende il peccatore più colpevole. L’ignoranza, la fragilità, la sorpresa, una tentazione violenta, una occasione non preveduta, tutto ciò diminuisce l’enormità del peccato, perché tutto ciò suppone meno di determinazione nel peccatore: ma niente v’ha che scusi chi pecca per abito; perché lo fa con cognizione di causa; ben lungi di resistere alla tentazione, si abbandona spontaneamente al suo nemico; ben lungi di fuggir l’occasione, la cerca a bella posta, se ne fa una gloria ed un onore, pecca con disprezzo della legge di Dio; il che è il sommo della malizia. Pecca senza quasi alcuna resistenza; mentre l’abito una volta formato diventa la cagione di un’infinità di peccati, peccati dalla stessa specie, peccati di diverse specie. Niuno ve n’è che non si commetta da un abituato; l’abito è un tronco avvelenato dal quale escono mille funesti rampolli; un peccato ne tira un altro, si cade da abisso in abisso: abyssus abyssum invocat (Psal. XLI). Si ammassano, si accumulano peccati su peccati, desideri su desideri, azioni sopra azioni: con questo mezzo la passione si fortifica; la passione fortificata signoreggia al ragione e la conduce dove vuole: trangugia l’iniquità come l’acqua, senza quasi accorgersene; di modo che il peccatore si trova legato e come involto dalle catene del peccato, e fa tante cadute quanti passi: Iniquitates suæ capiunt impium, et funibus peccatorum suorum costringitur (Prov. 5). – Oh! chi potrebbe comprendere sino a qual eccesso l’abito conduce il peccatore? Chi potrebbe scoprire al giusto tutti i pensieri peccaminosi che un impudico rivolge nella sua mente, tutti i desideri iniqui cui abbandona il suo cuore, tutti gli sguardi lascivi che permette a’ suoi occhi, tutti i piaceri brutali in cui non ha vergogna d’immergersi? Chi potrebbe contare tutte le bestemmie che un bestemmiatore pronunzia solamente in un giorno? Non avvi alcuno de’ suoi discorsi che non ne sia infetto; egli stesso non potrebbe numerarle. Vedete quell’uomo abbandonato all’intemperanza, che non sa più serbare moderazione alcuna nei suoi pasti; egli si abbandona all’ubriachezza ogni qual volta ne trova l’occasione; la cerca anche con premura, e non è giammai più contento che quando può associarsi dei ghiottoni con cui passar le giornate intere a tavola e sovente una gran parte della notte; perversa e funesta società, ove si fa prova a chi berrà di più; quindi quali eccessi! La ragione n’è turbata, e la sanità alterata. L’abito è ancora cagione di molti peccati di diversa specie. Un uomo soggetto ad una passione mette in opera tutte le altre per soddisfare quella che in lui predomina: così un vendicativo impiega la maldicenza, la calunnia, l’ingiustizia, gli attentati per eseguire i neri disegni che la passione gl’inspira. Di quanti disordini l’impurità, l’intemperanza non sono esse cagione? Quante altre passioni non si tirano dietro per giungere al fine che si propongono? Non è forse l’abito cagione anche dei sacrilegi di cui un gran numero di peccatori si rendono colpevoli? Mentre, donde viene che, dopo tante confessioni e comunioni, si vedono sì pochi cangiamenti nella maggior parte di coloro che si accostano ai sacramenti? Perché non v’apportano le disposizioni necessarie, perché ricevono i sacramenti senza dolore del passato e senza buon proponimento per l’avvenire; quindi è che l’uso delle cose sante li la più colpevoli invece di santificarli. Infatti non hanno essi alcun dolore del passato, perché il loro peccato è un peccato che non vogliono togliere, e perché, ben lungi dal detestarlo, ne richiamano con piacere la rimembranza. Non hanno alcun buon proponimento per l’avvenire, perché non vogliono emendarsi. Quindi trovano essi un confessore zelante che tenta di guarirli con rimedi salutevoli? Se esso li mette alla prova, e se esige da essi savie dilazioni che la prudenza gl’inspira, si disgustano, non ritornano più al tempo loro assegnato, amano meglio marcire nei loro disordini che mettersi in istato di profittare della grazia dei sacramenti. Nulla di meno in un tempo di Pasqua, o nelle altre solennità, siccome vogliono salvar le apparenze, e conservare nel mondo la loro riputazione, vanno a cercare altri confessori sulla speranza di trovarli più indulgenti, e a cui celano il tristo stato della loro anima, per avere una assoluzione di cui sono indegni così è che per comparire Cristiani innanzi agli uomini, divengono sacrileghi avanti a Dio, e non essendo più trattenuti da alcun motivo, si abusano di ciò che la religione ha di più sacro. Perciocché, dopo aver profanato il Sacramento della riconciliazione passano arditamente dal tribunale alla sacra mensa, ove vanno ancora a profanare il corpo ed il sangue di Gesù Cristo, che ricevono in un cuore schiavo del peccato. Ecco, fratelli miei, qual è il disordine e la conseguenza dell’abito, ecco ciò che fa la vita di un gran numero di peccatori, una serie di sacrilegi; ed ecco forse il tristo stato di quei che mi ascoltano. Non v’ingannate su di ciò, bisogna interamente rinunziare ai vostri cattivi abiti, se volete ricevere degnamente i Sacramenti; altrimenti voi lo profanerete, e quel che servir deve alla santificazione vostra, non servirà che alla vostra condanna. Aprite dunque gli occhi e rimediate ad un sì gran male con una buona confessione che ripari tutto il passato e che vi liberi per sempre dal peso dei vostri cattivi abiti; voi tanto maggiormente far lo dovete, quanto che, se più tardate, renderete la vostra conversione più difficile. Non avrei io bisogno, fratelli miei, d’altre prove che la testimonianza medesima del peccatore abituato per far vedere quanto gli è difficile di convertirsi. Tutti i giorni non si lamentano forse i peccatori abituati di questa gran difficoltà? Io vorrei benissimo, dice quel bestemmiatore, correggermi di quelle bestemmie che offendono il mio Dio e danno scandalo al mio prossimo, ma non posso contenermi. Vorrei anch’io, dice quell’impudico, romper quell’affetto disordinato che ho per quella persona; ma la mia passione ha preso su di me un tal impero che non posso risolvermi ad abbandonarla. Non occorre, fratelli miei, essere sorpresi di questa difficoltà. Giudichiamo dell’abito del peccato come degli altri. L’abito dicesi esser una seconda natura; si fa con piacere e per una specie di necessità ciò che si ha per costume di fare. Questo è ancora più vero riguardo al peccato; tosto che uno s’abbandona alla sua passione, si passa al costume, dice s. Agostino, e dal costume ad una specie di necessità di fare il male: Deum servitur libidini, fit consuetudo; et dum consuetudini non resititur, fit necessitas. Necessità per altro che, non togliendo la libertà, non diminuisce punto la malizia del peccato; sia perché il peccatore si è impegnato di sua propria elezione in quella fatale necessità, sia perché non dipende che da lui opporsi alla sua malvagia inclinazione coll’aiuto della grazia e con gli sforzi che deve fare per resistervi; ma non facendo alcuno sforzo egli si mette quasi nell’impossibilità di convertirsi; mentre per convertirsi bisogna distruggere quel corpo di peccato che l’abito ha formato, bisogna ammollire un cuor indurito nella colpa: il che è tanto difficile, dice lo Spirito Santo, quanto far cangiare la pelle ad un etiope e il colore ad un leopardo: Si potest æthiops mutare pellem suam, et pardus varietates suas et vos poteritis bene facere, quam didiceritis mala (Jer. XIII). Ah! fratelli miei, se è già sì difficile resistere alla malvagia inclinazioni della natura quando l’abito non è ancora del tutto formato, se anco i più gran Santi hanno provata questa difficoltà; che sarà poi, allorché l’abito unirà le sue forze a quelle della natura e assuefatto si sarà a fare ciò a cui era già portato per sua inclinazione? Perciò vediamo sì pochi peccatori convertirsi. Invano, per svegliare quel peccatore abituato dal suo letargo, farete voi scoppiare il tuono sopra il suo capo e gli annunzierete il terrore dei giudizi di Dio: egli è sordo alla voce di queste minacce; come un altro Giona, rimane in un profondo sonno in mezzo delle tempeste da cui è agitato, o se è commosso, ciò non è che per un momento: simile, dice s. Agostino, ad un uomo che si risveglia e che si lascia ben tosto prender dal sonno. Invano vorrete ancora trarre quel peccatore con la bellezza delle ricompense che il Signore promette alla virtù; egli è insensibile a tutte le promesse che gli si fanno. Invano l’esorterete ad accostarsi ai Sacramenti; egli se ne allontana; o se si accosta a queste sorgenti di grazia, le sue malvage disposizioni ne arrestano il corso. Invano ancora impiegherete le ammonizioni, i rimproveri dei suoi amici che gli rappresentano i suoi disordini, che lo prendono per li sentimenti d’onore, nulla vuol egli ascoltare; la sua passione la vince su d’ogni cosa, il suo abito è come un torrente che rovescia quanto gli si oppone; né la vergogna né il timore né i rimorsi della coscienza han forza di ritenerlo: sono argini troppo deboli; possono bensì trattener certi peccatori che non sono ancora divenuti familiari con la colpa, ma il peccatore abituato si è fatto una fronte di bronzo: egli non sa più arrossire; niente è capace di contenerlo nel suo dovere: Frons meretricis facta est tibi (Jer. V). Quindi niuna conversione più difficile che quella dei peccatori abituati. Cerchi Dio medesimo di ricondurre questi peccatori, tagli la radice del male, togliendo loro l’oggetto delle loro passioni peccaminose: portano essi ben presto la loro mira altrove e, per cangiar d’oggetti, non cangiano punto d’inclinazione, Ah! che questi infermi sono in una trista situazione, poiché tanti rimedi a nulla loro servono! È necessario per guarirli un miracolo della grazia, che Dio di rado suol accordare. – Il che ha voluto Gesù Cristo rappresentarci nella risurrezione di Lazzaro nella tomba, coi piedi o con le mani legate; una grossa pietra ne chiudeva il sepolcro: il suo corpo cominciava di già a putrefarsi e spargeva un odore insopportabile. Ecco lo stato del peccatore abituato: egli è morto e sepolto nella tomba del peccato, attaccato a mille oggetti con legami d’iniquità, oppresso sotto il peso delle sue inclinazioni perverse; ha occhi e non vede, perde di vista il suo Dio, la salute, la sua eternità: ha orecchie e non ode; non ha gusto che per quello che può lusingarlo e non cangiarlo; invano la grazia batte alla porta del suo cuore per eccitarlo, attirarlo: il peso del suo abito lo trattiene e gli impedisce di sollevarsi a Dio. Oh! si richiede un altrettanto grande miracolo per trarlo da questo stato, quanto quello che fece Gesù Cristo per risuscitar Lazaro. Questo Dio Salvatore, che aveva già renduta la vita a molti morti con una sola parola, poteva nello stesso modo renderla a questo: ma fa più passi, si conturba, freme, piange, alza la voce e getta un gran grido: Lazare, veni foras (Jo. XI). Lazzaro, esci dalla tomba. Perché tutto questo? Per apprenderci, dicono i santi Padri, quanto è difficile far uscire un peccatore abituato dalla tomba del peccato; questo peccatore si ritrova anche in disposizioni che rendono il suo ritorno alla vita più difficile che quello di Lazzaro. Questi non fece alcuna resistenza alla voce di Gesù Cristo, uscì subito dalla tomba: statim prodiit (ibid.) Ma il peccatore di cui parliamo, che deve fare sforzi per risuscitare, si rende indegno non solamente di un miracolo della grazia, ma anche delle grazie comuni che Dio accorda agli uomini; così il suo stato lo conduce alle porte della morte eterna. – Ed ecco, o peccatori, il terzo e il più tristo effetto del vostro abito: egli rende la vostra morte nel peccato più certa; e ciò per due cagioni, che vi prego di ben osservare, perché far debbono su di voi salutevoli impressioni.

1. L’abito vizioso vi espone ad essere sorpresi dalla morte nello stato del peccato.

2. Quando voi non foste sorpresi e aveste il tempo di riconoscervi, voi non vi convertirete tuttavia e morrete nel vostro peccato: in peccato vestro moriemini, (Jo. VIII).

Noi vediamo talvolta morti subitanee cagionate da accidenti improvvisi o da qualche malattia occulta, cui non si può metter riparo. Ma la morte, benché subitanea, non è sempre improvvisa. Un uomo può esser sorpreso dalla morte e trovarsi nel felice stato della grazia che ha avuto cura di conservare, dopo di averla ricuperata con la penitenza: in questo caso la morte non è improvvisa, benché sia subitanea. Chi per conseguenza pecca di rado, che si rialza prontamente e persevera nella grazia, ha minori motivi di temere d’esser sorpreso dalla morte nello stato di peccato, che un peccator abituato il quale non è quasi mai in grazia di Dio. Perciocché tale è, peccatori, lo stato funesto cui vi riduce il vostro abito, di potere appena trovare un sol giorno nella vostra vita in cui non siate in peccato. Se per un colpo miracoloso della grazia o per qualche sforzo straordinario dal canto vostro, qualche volta vi rialzate, quanto tempo state voi in piedi? Ohimè! Sovente lo stesso giorno che vi ha veduti rialzarvi vi vede anche ricadere. La vostra vita è dunque una serie di delitti che non ha quasi mai interruzione. Se dunque voi dovete morire di morte subitanea, non è egli verisimile che la morte vi sorprenderà nel peccato, poiché il vostro abito vi tiene in esso quasi sempre legati? Or, chi può assicurarvi che voi non morrete di qualcuno di quei generi di morte che avete veduto accadere a tanti altri che non hanno avuto il tempo di ravvedersi? E se questo vi accade, non è egli evidente che voi siete eternamente perduti? Come, fratelli miei, sono dieci, venti anni che voi siete nel peccato; dappoicchè voi avete contratto quest’abito, tutti i vostri giorni sono d’iniquità; e sperereste che quello di vostra morte fosse un giorno di santità? Strano accecamento! io non comprendo come voi possiate viver tranquilli, stando continuamente sull’orlo del precipizio. Se un sì grande pericolo non vi fa rientrare in voi medesimi, voi avete perduta la fede e la ragione. Ma suppongasi ancora che non siate sorpresi dalla morte, che abbiate il tempo su cui contate per convertirvi, io sostengo ancora che voi non vi convertirete né in età avanzata né all’ora della morte. La ragione ne è molto sensibile, io voglio convincervene per voi medesimi. Voi non potete, mi dite, rompere ora quel cattivo abito a cagione dell’impero che esso ha preso su di voi, e come romperete le vostre catene, allorché saranno divenute più forti? Voi non potete sgravarvi di un peso che vi opprime; come ve ne sgraverete, allorché sarà divenuto più pesante? Voi non avete voluto sradicare quei cattivi abiti allorché erano ancora alberi giovani che si possono facilmente svellere; come li sradicherete voi quando saranno divenuti grossi alberi che avranno gettate profonde radici nel vostro cuore? Perciocché non credete che il tempo, la caducità del temperamento snervi la forza del cattivo abito; voi sarete nella vostra vecchiezza quali siete stati nella vostra gioventù e porterete in un corpo caduco e languido tutto il vigore delle vostre passioni, voi avrete alla morte le medesime inclinazioni che durante la vita; voi non vi separerete dall’oggetto delle vostre passioni che vostro malgrado; e se Dio prolungasse i vostri giorni, voi prolunghereste le vostre iniquità; così il vostro attaccamento per li beni del mondo niente affatto diminuirà alla morte. Se voi fate allora alcune pie disposizioni, ciò sarà o per disgusto contro coloro che pretendevano ai vostri beni o perché non potrete portarli con voi. Voi non avete voluto perdonare al vostro nemico durante la vita, voi non lo farete alla morte che per salvar le apparenze: in una parola, voi morrete come siete vissuto, voi siete vissuto nel peccato, e nel peccato morrete: in peccato vestro moriemini. Tali sono, fratelli miei, le funeste conseguenze dell’abito vizioso; chi di voi non temerà? Se voi non siete soggetti al peccato d’abito, temete di cadervi, e che questo timore vi renda più vigilanti, se voi vi siete soggetti, temete di morirvi e che questo timore v’induca a correggervene. Mentre a Dio non piace che noi disperiamo della salute di questi peccatori! Benché difficile sia la loro conversione, ella non è impossibile. Ma bisogna per questo servirsi dei mezzi che sono per loro prescrivere nel secondo punto.

II. Punto. Per correggersi di un cattivo abito è necessario soprattutto una buona volontà; nulla avvi di cui non si venga a capo quando veramente si vuole e il successo da noi dipende. Dio, la cui misericordia è infinita, invita i peccatori abituati, come gli altri, a ritornare a Lui, loro offre il suo aiuto, non vuole che rimangano nella schiavitù; è dunque in poter loro di uscirne. Non si sono forse veduti e non si vedono ancora uomini schiavi delle passioni più violente e soggetti agli abiti più inveterati scuoterne il giogo e diventare modelli di conversione ai più gran peccatori? Testimonio un s. Agostino, che si può proporre per un vero modello di penitenza. Chi fu mai più soggetto all’impero dell’abito, di quel che fosse egli prima della conversione? Con tutto ciò fratelli miei, benché dure fossero le sue catene, venne a capo di romperle, e benché inflessibile fosse l’inclinazione che lo dominava, ne seppe trionfare: D’allora un amor sommo pel Creatore regnò nel cuor suo invece di quello che aveva per le creature, e si fece un dovere di rinunziare sinceramente per sempre a tutti i piaceri che aveva gustati secondo le sue passioni. E perché, o peccatori, non potrete trionfare dei vostri abiti, come quel gran Santo, e rompere come egli le catene che vi tengono avvinti? Voi non avete che a volerlo tanto efficacemente come egli, e ben tosto ne verrete a capo. Or per venirne all’effetto, fa d’uopo primieramente andar all’origine del male. O gli abiti vengono dall’occasione, oppure sono l’effetto delle vostre cattive inclinazioni: se vengono dall’occasione, convien allontanarvene, perché l’occasione manterrà sempre l’abito: se i vostri abiti vengono dalle vostre inclinazioni, conviene ricorrere ai rimedi capaci di operare la guarigione, quali sono l’orazione, la penitenza, i Sacramenti; convien combattere queste inclinazioni con gli atti della virtù loro contrarie. Ed in vero fratelli miei, se per rompere un’abitudine si richiedono grazie forti e potenti, l’orazione ve l’otterrà. Dio non vi deve queste grazie, bisogna dunque meritarle con l’orazione. La Cananea del Vangelo ci dà una prova dell’efficacia di questo mezzo; ella s’indirizza a Gesù Cristo per chiedere la liberazione della sua figliuola; e benché da principio rigettata, non cessa punto di pregare, e sempre grida, clamat post nos, e merita con la sua perseveranza nella orazione la grazia ch’ella domandava. Fu per mezzo della preghiera che le sorelle di Lazzaro ottennero la risurrezione del loro fratello. Indirizzatevi dunque al Signore con fervore e confidenza: Egli solo può guarirvi e risuscitarvi; nulla ricusa ad una preghiera che parte da un cuor umiliato. Elevate, come il re-Profeta, la vostra voce dal profondo dell’abisso, ove siete immersi; De profundis clamavi ad te, Domine (Psal. CXXIX). Ovvero dite con la Cananea: Signore, abbiate pietà di me, la mia anima è crudelmente tormentata dal demonio, che la tiene soggetta sotto il suo impero; filia mea male a dæmonio vexatur. O finalmente, come le sorelle di Lazzaro: Signore, colui che amate è infermo, Ecce quem amas infirmatur (Jo. XI). Non solamente egli è infermo, ma si trova nelle ombre della morte, è nella tomba oppresso sotto il peso di un cattivo abito; venite dunque a rendergli la vita, che ha perduta col peccato: ecce quem amas infirmatur. – Ma l’orazione sola non opererà la vostra guarigione né vi scioglierà dai legami della morte, se voi non vi aggiungete un altro mezzo che è la Penitenza. Perciocché evvi questa differenza tra la risurrezione dei morti e quella del peccatore, che la prima si fa senza cooperazione da parte loro, laddove, per risuscitare il peccatore, Dio domanda la sua cooperazione. Il che Gesù Cristo ha voluto farci conoscere nelle circostanze della risurrezione di Lazzaro. E perché questo Dio Salvatore versò lagrime e fremette prima di fare quel miracolo, se non per insegnare al peccatore che deve piangere, gemere, che il suo cuor deve spezzarsi pel dolore dei suoi peccati? Perché Gesù Cristo ordinò che si slegassero le bende da cui era legato? Per apprendere al peccatore che deve rompere le catene che l’attaccano alla creatura: osserviamo ancora die Gesù Cristo volle che gli Apostoli slegassero le bende che tenevano legato Lazzaro, per insegnare ai peccatori ad indirizzarsi ai ministri della penitenza, che hanno ricevuta la potestà di sciogliere nel Sacramento da lui instituito a questo effetto: Solvite eum. – L’uso frequente del Sacramento della Penitenza è dunque un eccellente mezzo per guarire dei cattivi abiti, sia per le grazie ch’egli comunica, sia per gli avvisi salutari che si ricevono da un saggio direttore. Venite dunque, o infermi venite ad immergervi in questa piscina salutevole, che deve rendervi la sanità. Ma prima di presentarvi, fate un serio esame di tutta la vostra vita; almeno da poi che il vostro abito ha cominciato, per riparare con una confessione generale tutte quelle che avete fatte in tempo del cattivo abito, che rende per l’ordinario le confessioni nulle o sacrileghe. Non aspettate anche per correggervi, che vi accostiate al sacro tribunale; venite dopo avere rinunziato di cuore ad ogni abito malvagio: questo è il primo passo che far dovete verso Dio; mentre, non saprei dirvelo troppo, il santo ministero di cui siamo incaricati non ci permette di dispensare le cose sante agli indegni: quantunque muniti della potestà di sciogliere i peccatori, pure abbiamo noi medesimi lo mani legate, quando non sono disposti a ricevere la grazia del nostro ministero: ora l’abito che non è ritrattato né corretto, è un ostacolo a questa grazia. Provatevi dunque voi medesimi prima di presentarvi al Tribunale della riconciliazione: o se ve ne accostate, chiedete di esser provati durante qualche tempo per mettere in pratica gli avvisi che vi si daranno. Noi non domandiamo, fratelli miei, che d’immergere i peccatori nei sacri bagni, che debbono purificarli; ce ne dispiace quanto ad essi di rimandarli; risparmiateci adunque questo fastidio togliendo gli ostacoli che ci arresterebbero, di modo che possiate dire quando vi confesserete alla Pasqua, che da poi un certo tempo, almeno durante questa quaresima, voi non siete caduti nei vostri peccati; allora noi vi riceveremo a braccia aperte, o piuttosto Gesù Cristo vi riceverà nel seno delle sue misericordie. Ora per distruggere i vostri abiti viziosi fa d’uopo, come ve l’ho detto, produrre atti delle virtù contrarie. Mirate dunque quali sono le malattie della vostr’anima, quali sono le vostre cattive inclinazioni; opponete loro le virtù che le combattono; opponete all’orgoglio che v’innalza, l’umiltà che vi abbassa; all’avarizia che predomina, la liberalità che ama a comunicarsi; a quell’invidia che vi affligge del bene altrui, la carità che se ne rallegra; a quell’ira che vi trasporta, la mansuetudine che vi ritiene; a quell’intemperanza che vi disordina e vi toglie il senno, la sobrietà, il digiuno, l’astinenza che vi mortificano; mentre Dio, che vuole la vostra santificazione, come dice l’Apostolo, pretende che voi evitiate tutto ciò che può oscurare la bellezza di questa virtù: Hæc est voluntas Dei, sanctificatio vestra; ut abstineatis a fornicatione (1Tess., IV). Opponete finalmente all’accidia che vi rende effeminati, il fervore che vi anima a riempir tutti i vostri doveri di Cristiano. Imperciocché se vi sono abiti che portano al male, ve ne sono altri che allontanano dal bene; dai primi nascono i peccati di commissione, e dagli altri i peccati di omissione. Si combattono i primi reprimendoli, privandoli degli oggetti che li lusingano, e si combattono gli altri con le violenze che ci facciamo per operare, per far il bene che Dio ci comanda. Voi siete negligenti a far le vostre orazioni, a frequentare i sacramenti ed assistere ai divini uffizi, a compiere gli obblighi del vostro stato; per vincere questa negligenza si richiede dell’attività, della puntualità a fare ciò cui vi siete obbligati. Per quel che riguarda certi abiti che sono difficilissimi a correggere, come quelli di bestemmiare, di mettersi in collera, richiedono molti sforzi; ma si viene a capo di tutto, quando uno è ripieno di buona volontà e di zelo per. la sua salute. Se vi fosse qualche profitto a fare, se la vostra fortuna dipendesse dalla vittoria di un cattivo abito, voi ne verreste sicuramente a capo; prova certissima che la vittoria dipende da voi.

Pratiche. Per riuscire a correggervi di qualsisia abito, imponetevi qualche penitenza ogni qual volta cadrete in quel peccato, come di dare una limosina ai poveri, di fare alcune mortificazioni: subito che vi accorgerete della vostra caduta, gemetene avanti a Dio, fate un atto di contrizione che parte da un cuore che desidera sinceramente la sua conversione; ogni mattina ritrattate il vostro abito e proponetevi di passar il giorno senza peccato; fate lo stesso l’indomani, verrete a capo di correggervi interamente: ogni sera fate il vostro esame di coscienza, e se scoprite qualche infedeltà nella giornata, punitevi severamente dei minimi mancamenti. Vorreste voi, fratelli miei, all’ora della morte essere carichi del peso di un cattivo abito, che vi strascina nell’abisso se lo portaste con voi al giudizio di Dio? Non aspettate dunque alla morte di correggervene, fate in modo che vi sia un intervallo tra i vostri disordini e la vostra ultima ora, e che possiate dire in quel momento: dopo un tal tempo, dopo tanti anni io mi sono corretto, io ho cominciato a viver meglio, ciò sarà per voi un gran soggetto di consolazione. – Ma il più sicuro mezzo di preservarsi dalle conseguenze di un cattivo abito, si è di non impegnarvisi, si è di prevenirlo evitando il peccato, si è di soffocarlo sin dal suo principio reprimendo i suoi primi movimenti. Non date entrata alcuna al peccato nel vostro cuore, ma fatevi regnar la virtù; assuefatevi per tempo alla pratica del bene, siate assidui all’esercizio delle virtù cristiane, formate in voi i santi abiti, voi li contrarrete facilmente con l’aiuto della grazia: un buon abito dipende qualche volta da un atto eroico che voi farete in certe circostanze o ve avrete una forte tentazione a superare. Si arriva anche a grandi virtù per via della fedeltà nelle piccole cose; si tratta di farsi un poco di violenza: non è che con la violenza, dice Gesù Cristo che si guadagna il regno dei cieli. Io ve lo desidero. Così sia.

Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 47; CXVIII: 48

Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi. [Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]

Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps V: 2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine. [Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]

Ultimo Evangelio e preghiere leonine:

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LO SCUDO DELLA FEDE (102)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA – (12)

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XII.

Testimonianza che rendono di Dio gli animali, da Lui provveduti a stupore.

I. Robusta senza dubbio fu la difesa che di sé fece Sofocle, accusato in giudizio da’ suoifigliuoli medesimi, come inetto a governare la casa in età decrepita per mancamento di senno volle egli, che a favor suo perorassero le opere, non le lingue. Che però subito pose in mano de’ giudici una tragedia che egli stava allor componendo. Mirassero dall’argomento di essa, dall’invenzione, dall’intreccio, dallo scioglimento del nodo, dal costume di tanti interlocutori, dalla proprietà dello stile, dal peso delle sentenze, se quello fosse lavoro di un uomo scemo. Ora gli ateisti, per quanto si aiutino a scancellare in sé le sembianze del loro padre, sono pur figliuoli di Dio, ma figliuoli sì sconoscenti, che gli contendono l’essere, non che il senno. Ecco però, che a terminare tanta lite egli cava fuori, non un solo volume, ma mille emille, di opere stupendissime che Egli ha fatte eche va tuttora facendo. Ardiranno eglino contuttociò di negare all’Autore di esse l’intendimento? Se quei figliuoli avessero opposto a Sofocle, che una tragedia sì bella non era in lui contrassegno infallibile di giudizio, mentre ella poteva così essergli scorsa a caso; credete voi, che quei giudici avrebbero punto ammessa sì sciocca replica? Piuttosto l’avrebbero ributtata da sé colle derisioni. Ne altrimenti avrebbero proceduto, se coloro avessero opposto, che la beltà di quell’opera poetica poteva venire dalla natura della tal pergamena, della tal penna, o del tale inchiostro adoperatosi in farla, non dalla virtù di colui che lo adoperò. E perché trattando di Dio volete dunque voi che si giudichi in altra forma? Via via, chi di Lui non confessa, l’opere sue tutte essere testimoni di mente altissima? Date un sol guardo alla considerazioni dei bruti. Questa è più che bastevole a farci dire: Chi li formò, chi li pasce, chi li provvede, oh di quanto accorgimento conviene che soprabbondi! Io mi ristringo a due pensieri, per dir così, che egli di loro sì prende. A quello di mantenerne gl’individui, ed a quello di mantenerne le spezie. Tratteremo prima dell’uno, dappoi dell’altro, al pari divini (A questi due pensieri dell’ autore pare a me doversene opportunamente e logicamente aggiungere un terzo, che ambedue gli altri contempera insieme, siccome quello, che abbraccia il vincolo necessario, il quale stringe gli individui con la specie, cui appartengono. L’essenza specifica è una ed identica in tutti gli individui della medesima classe; questi per contro sì differenziano all’infinito, tantoché non se ne danno due onninamente gli stessi. Ora, come mai la specie, pur rimanendo una, può moltiplicarsi in una pluralità di individui senza fine; e come conciliasi l’identità e l’unità delle specie con la diversità e moltiplicità degl’individui?Forsechè tutto questo non argomenta l’unità di una mente suprema ed infinita, che sia come la ragion d’essere e la cagione efficiente delle creature infinitamente varie e molteplici, che compongono l’universo?)

I.

II. E quanto al mantenimento degl’individui, abbiamo sempre dianzi agli occhi un miracolo sterminato, eppure lo passiamo senza avvertenza. Non è forse un grande stupore, che albergando nell’aria, nell’acqua, e sopra la terra, tanti animali di generi sì diversi, a nessuno mai, dentro uno stuolo sì folto, manchi da vivere; sicché la fame, la qual sì frequentemente scappa dagli abissi, qual furia per consumare le popolazioni degli uomini e le provincie, se la prenda si di rado co’ bruti nelle foreste: massimamente dovendo quivi la loro provvigione riuscire proporzionata non solo al numero, e però vasta, ma ancora alle inclinazioni, e però varissima? Da ciò si scorge, non essere altri Chi da principio li fece, altri Chi dipoi li conserva, mentre sa tanto per appunto conoscere i loro gusti, esa soddisfarli.

III. Quindi è,che a maggiore dimostrazione d’ingegno non si vuole egli diportare con tutti i bruti, come con leconchiglie, cui va stillando dalle nuvole il pascolo fino in gola. Vuole, che i più. s’industrino a procacciarselo da se stessi con mille modi. E però chi può esprimere gl’istrumentidi cui li guernì a tale effetto? I principalissimi sono i sensi esterni ed interni, che specialmente negli animali più piccoli accrescono a dismisura la meraviglia.

IV. Ora sugli esterni voi dovete osservare, come due sono gli ordini di animali. Alcuni sono atti ad andar vagando; e tali sono tutti quegli che vivono fuor dell’ acque: altri non danno mai passo, e tali dentro l’acque son le ostriche, le ortiche, le spugne marine, stimate insieme piante, insieme animali. Di questi può dubitarsi, se oltre al tatto, comune a tutti, ed al gusto, abbian altro senso, quasi non necessario, mentre il medesimo scoglio, sul quale nacquero, tiene loro all’intorno dispensa aperta. Ma quanto agli altri non se ne può dubitare. E però né di vista, né di udito, né di odorato èmancante qualsisia degli insetti, ancora tenuissimi. Or come dunque nel corpicino medesimo di una pulce trovò l’Artefice tanto spazio da collocare gli ordigni di cinque operazioni così diverse? Un oriuoletto formato dentro un anello parve già meritevole delle dita di Carlo V, tanto quanto era meritevole della sua destra lo scettro di un mondo intero. E noi distribuiremo gli affetti nostri sì iniquamente, che ammirando ad ogni poco i lavori dell’arte umana, che èla discepola, non ammireremo mai quelli della divina, che èla maestra? Eppure tali sono i lavori della natura, tra cui i soli peluzzi che spuntino dallo gambe di un vil meschino contengono più di artifizio, che tutte le invenzioni de’ nobili professori, nuovi ed antichi, famosi al mondo.

V. Che direm poi delle potenze interiori, per cui questi animaluzzi ed amano il loro bene veementemente, ed odiano chiunque loro vi si attraversi, e temono, e si adirano, e assaltano, e fuggono, e si pongono in tempo su le difese; ed ora sperano, or temono: ora sospettano, or godono al modo loro ? In un campo sì angusto battaglie di tanti affetti! O Dio meravigliosissimo! Voi ci chiudete di verità tutti i passi con opere da sé atte a tenerci stupidi gli anni sani! E v ‘è chi tuttavia si vorrebbe sottrar da voi, scotendo ogni ammirazione?

VI. In paragone però degli organi destinati alle sensazioni di questi sì minuti viventi, sembra che calino assai di pregio quei che sono destinati alla loro nutricazione. Eppure chi può dir quanto siano compiti anch’essi ? Trovatemi il più piccino tra simili animaluzzi, e sia pure un verme, mobile succidume dei letamai, ancora in quello convien che sieno le parti principali, di cuore, da cui si diffonda il calor vivifico ad ogni membro; di cerebro, in cui si formino gli spiriti necessari per ogni moto; di stomaco, ove concuocasi l’alimento; di condotti che lo distribuiscano per la vita; d’intestina ove si riceva il soverchio del già concotto: cui parimente forza è che si aggiungano denti a rodere, mascelline a tritare, morse a tenere, ed altri simili ordigni, infiniti a dirsi (Francesco Redi nelle osservazioni intorno ai viventi ne’ viventi pag. 64). Eppure ove sono? Appena si può credere che vi sieno, non che capirlo. Ma grazie a quel microscopio, veridico ingranditore di ciò che al tempo medesimo ecopre e scopre, mentre egli non solamente ci ha rivelato tanto più di natura a noi già mal noto, ma ci ha confermato altresì, che quivi ella veramente è più tutta, ove ha men di luogo: Nusquam magis quam in minimis, tota est(PI. 1. 46. c. 2).

II.

VII. Senonchè, quando noi vogliamo fermarci nell’artifizio di qualsisia corpo organico, non sarà facile il determinare cui si debba la palma, se alle minori opere, o alle maggiori. Certamente al sommergersi in questo abisso c’interverrà come ad un nuotatore, il quale, andando sott’acqua, da qualunque banda egli voltasi non vede altro che mar profondo. Per ora consideriamo solamente il di fuori. Con quali industrie si potevano adattar meglio negli animali tutte le parti al fine per esse inteso, o con quali invenzioni, che fossero insieme varie, insieme uniformi, che è ciò donde appare più, come già dicemmo, la verità di un intelletto operante? Mirate in prima i volatili. Voi scorgerete che la natura dà loro un piccolo capo, armato di rostro acuto per fender l’aria; dà piume lievi, per non gravarli di peso; e le dà parimente disposte in modo, che non si oppongano al vento ne’ loro voli, ma l’assecondino: dà l’ale provvedute di molti muscoli, perchè sieno con esse più presti al moto, ma le dà piegate per maggior comodo loro, e incavate modestamente per quando volino e per quando riposino; per quando volino, a radunare più d’aria che li sostenti; e per quando riposino, a ricoprirsi più dall’ambiente che li molesta.

VIII. Osservate poi la differenza tra essi pienissima di consiglio. Nel popolo degli uccelli, altri si cibano in terra, e però questi hanno tutti i lor piedi adunchi, da potersi tenere di ramo in ramo, cercando il loro alimento; chi dove è vermini, come fan le beccacce; chi dov’è spighe, come i colombi; chi dov’è spine, come i cardelli; chi dov’è tronchi, come le gazze, o le ghiandaie, che rodono fin le querce.

I X. Altri si cibano in acqua, dove fanno il maggior soggiorno; e tali sono i cigni, e più simili, cui miriamo dato però collo eccessivo, affine di pescare al fondo delle lagune quei vegetabili quivi ascosi; dati i piedi spaziosi in guisa di remi, a vogare, immersi nell’onde, ma non sommersi, e dato il rostro ‘ungo, largo e schiacciato, per aggrappare i pescetti, e per ingoiarseli.

X. Altri sen vivono di rapina per l’aria, come fa il nibbio, l’avvoltoio, l’aquila, lo sparviere: e questi hanno il rostro rinforzato e ritorto, per fare in pezzi la preda morta; e l’unghie sode e sottili, per arrestare la viva, sicché non fugga.

XI. Tutti con diversa voce da unirsi insieme se vanno a schiere, come le grue che conoscono ancora re: con diverse maniere di ricrearsi, con diverse malizie per rubacchiare, e con altre vivacità in corpiccioli sì brevi affatto stupende, se nelle opere della natura non procedessero i più degli uomini come quegli ignoranti che passeggiando per li portici di qualche rinomata accademia pascono gli occhi con la veduta di quelle scuole maestose, ma nulla intendono delle scienze ivi lette.

XII. Lasciamo noi frattanto i rimproveri benché giusti, e seguitando il discorso nostro, passiamo alla considerazion de’ quadrupedi. Alcuni dovevano sostentarsi di carni uccise: e questi troverete armati alla mischia. I muscoli delle lor tempie sono più validi, per la forza che dovevano trasmettere alle mascelle. I denti a foggia di sega, per dividere l’inimico: con quattro zampe da arrestarlo fuggente. Le unghie adunche ed acute a tenerlo saldo, ma riposte nelle guaine delle zampe medesime perché non perdano il filo nel camminare, e non si rintuzzino.

XIII. Diversa è l’architettura degli animali che dovean pascersi d’erbe. In loro i denti sono tutti alzati ad un piano: ma gli anteriori sono più stretti e taglienti, por recidere il pascolo, o di vermene, o di virgulti, o di fieno; e i posteriori sonò più larghi ed ottusi, per masticarlo. Le unghie, dovendo solamente servir di base alla mole de’ loro corpi, sono solidissime, senonché in alcuni sono intere, in altri son bifide, in altri son fatte a dita. Sono intere in quegli animali, che sprovveduti di corna, conviene che de’ piedi si vagliano ancor per arme, com’è ne’ muli. Sono bifide in quegli che de’ lor pie dovevano puramente valersi per camminare, siccome i buoi; o dovean poterò sostenersi pascendo in greppi scoscesi, come icervi, le capre, le pecorelle. Sono fatte a dita in quei che dei pie si dovean anche valere quasi di mani a fermar lo prede, come è in cani, in leopardi, in leoni, ein altri da caccia.

XIV. La lunghezza del collo è poi proporzionata all’altezza de’ loro stinchi. Onde il cammello, come il più alto di tutti i giumenti, è provveduto altresì di collo più lungo: altrimenti non gli sarebbe possibile pascolare se non giacendo. E perché a quella mole di carne che l’elefante si porta con esso sé non si confarebbe una tal lunghezza di collo, gli fu data per supplemento la sua proboscide, di cui si serve come di mano perfetta per vincer tutte le incomodità che gli arreca la sua grave corporatura, massimamente nello sterpare le piante qualor si pasce, o nel guadare i fiumi quando non può guadarli, se non vi nuota.

XV. Già scorgete che io meno il pennello a volo, ponendo quasi in iscorcio quelle figure che per le angustie della tela non possono starvi ritte. Però passiamo da’ quadrupedi ai pesci, tanto bene adattati a quell’elemento per cui son fatti. Il loro capo comunemente èbislungo, dovendo come tale servir di prua a quei legnetti animati che solcan l’onde. Le pupille lor sono sferiche, perché se fossero, come negli animali terrestri, in forma di lente, i raggi visuali, in passar l’acqua, mezzo più denso, che non è l’aria, verrebbero a rinfrangersi più del giusto: laddove i pesci han bisogno di vista somma a scoprire il cibo da lungi. Non han palpebre, perché il fine d’esse èsalvar gli occhi prestamente da’ bruscoli inaspettati: e questi van volando per l’aria, ma non per l’acqua. Non hanno lingua, se non molto imperfetta, perché non dovendo masticare essi il cibo, ma divorarlo, per non dar tempo all’acqua di entrare in copia, fu il gusto loro ristretto alle sole fauci. Non hanno collo, perché loro non abbisognava a formar la voce, nascendo mutoli, come porta il loro elemento. Non hanno piedi, perché non hanno da andare a modo di chi cammina, ma di chi naviga. Vero è, che invece di piedi hanno essi nel ventre chi due pennette, chi quattro, come più facea di mestieri a supplir di remi nel correre da ogni banda. All’estremità hanno una penna più larga, la quale nella loro navigazione val di timone, ed un’altra ne hanno pur sopra il dorso per regolarsi, quando abbiano mai vaghezza di andar supini. Le sole lamprede, con altri simili pesci a foggia di serpi, non han né piedi né penne, perché loro talento è di strisciare per l’acque, non è di andare. Sono foderati di scaglie, perchè, se di peli, non reggerebbero all’acque: e le scaglie son tutte andanti a seconda, perché non si oppongano al nuoto. Quei che tra loro hanno meno di sangue, come men calidi, non respirano l’aria per rinfrescarsi; ma ben la respirano tutti quei che tra loro son più sanguigni: onde è che questi furono provveduti di polmoni vicino al cuore, negati ad altri; ed hanno vicino al capo alcuni canali, per cui rispingono l’acqua da loro troppo bevuta nell’ire a fondo.

XVI. E nello scrivere queste cose vorrei pur intignere nel più amaro fiele la penna, per abilitarla ad un’acerba invettiva contra quel superbissimo Alfonso, decimo di tal nome, re delle Spagne, che, quasi avesse il suo trono di gradi eguali a quel dell’Altissimo, si lasciò uscir dalle labbra queste empie voci, che se egli si fosse trovato presente a lui nella creazione delle cose, gli avrebbe suggerite migliori idee nel modello di esse, e migliori istrumenti nel magistero. Venga, non il suo capo scemissimo, ma la sapienza di tutte le menti umane, di tutte le angeliche, e si cimenti in tanta varietà di creature, e massimamente di viventi, o nell’aria, o nell’acqua, o sopra la terra, a riformare, non dico una spezie intera, non dico il capo, non dico il cuore, ma i1 guscio di una lumaca. È questo un animale sì dispregevole, che siccome non si può muovere senza lasciare dovunque va, colla striscia della sua bava, un’attestazione della sua putredine somma, così non può circoscriversi senza noia. E nondimeno io son certo, che con tutta la loro maestria non solamente non sapranno essi distinguere in miglior forma, o colorire con migliori pennellature, o condurre a maggior perfezione quella casa rustica, fabbricata dalla natura ad un suo vil parto; ma che, se questa in qualche lato s’infranga, non gliela sapranno rifare; anzi neppure rappezzare sul dorso, sicché gli si adatti, non dico meglio di prima, ma almeno non malamente. Pensate poi che farebbero ad una chiocciola, non di terra, ove son le vili, ma di mare, ove stan le nobili! Leggano innanzi le parole di Plinio, che mi piace loro apportare distesamente, e poi tra sé conferiscano sull’impresa: Firmioris iam terrœ murices, et concharum genera, in quibus magna ludentis naturœ varietas. Tot ibi colorum differentiœ, tot figurœ, planis, concavis, longis, lunatis, in orbem circumactis, dimidio orbe cœsis, in dorsum elatis, levibus, rugatis, denticulatis, striates, vertice muricatim intorto, margine in mucronem emisso, foris effuso, intus replicato: iam distinzione virgulata, crinita, crispa, canaliculatim reticulata, in obliquum, in rectum expansa, densata, porrecta, sinuata, brevi modoligatis, toto latere connexis, ad plausum apertis, ad buccinam recurvis(Plin. 1. 9. c. 33). – Tal è la faccia esteriore dell’edifizio, lavorato dalla natura per casa di una bestiuola, per altro di nessun pregio, qual è la chiocciola. Or non basterebbe ella sola a farcì riconoscere Dio, massimo ancor nelle minime sue fatture? Con qual arte, con quale avvedimento, con qual finezza dovrem noi credere che sieno ordite nel loro interno tante opere più importanti? E se il nicchio di un vermicciuolo è di avanzo a farci irrefragabile la riprova della divina sapienza, non sarà bastante a farcela un mondo intero? Diasi pur luogo ad ogni estasi di stupore. Questa è la lode più giusta che possa da noi porgersi al Creatore, che tanto ha fatto: non celebrarne le opere, ma ammirarle : Virtutis divinœ miracula obstupuisse, dixisse est(Greg. 1. 2. Mor. c. 5).

III.

XVII. E tuttavia non è poco, se si ottenga da alcuni, che almen le osservino. Quinci, per rimetterci in via, ciò che di vantaggio anche mostra la provvidenza assistente ai bruti, si è, che prima di qualunque esperienza sanno discernere il cibo buono dal reo. Però si vede, che appena nato un cagnolino sa subito ritrovare le poppe della sua madre, e attaccarsi ad esse e spremerle, e suggerle; né mai va, per fallo a cercar quelle di una gatta. E questo avvenimento è tanto accertato, che molti animali hanno insegnate all’uomo l’erbe salubri, con la scelta che ne facevano; insegnate l’erbe nocevoli co’ rifiuti. Così parimente ravvisano i loro nimici innanzi al provarli tali, e da lor si guardano: e i pesci fuggono dalle reti prima d’esservi entrati mai: e prima di ogni riprova gli agnellini fuggon da’ lupi, non fuggono da’ mastini: le colombe si spaventano dello sparviere, non si spaventano dell’avvoltoio: e le fiere si ascondono al ruggir de’ leoni, e non si ascondono al barrire dell’elefante. Come van però queste cose? I bruti non le fanno per elezione, ma per istinto, come tra gli uomini fanno le loro i bambini: il che si raccoglie chiarissimo dal vedere, che tutti le fanno sempre all’istessa forma, benché non l’abbiano apprese. Chi fu però, che loro die tale istinto ? La loro natura? Ma di questa medesima si addimanda: chi la fe’ tale? Si fece ella da sé, con determinarsi a tale aggiustatezza di operazioni, se ella è natura, ma natura di bruto? Adunque potremo dire, che ancor da sé si sia fatto quell’organo, detto idraulico, il quale, al passar dell’onda, or alza’ i tasti, or gli abbassa, con tanta legge di note armoniche, che non potrebbe far più, se egli fosse dotato d’intendimento. Tutto l’opposito. Ne’ movimenti di chiunque è mosso appare subito la virtù del vero motore (S. Th: 1. 2. q. XIII. art. 2. ad 1). Però, siccome nelle operazioni di quell’organo, privo di senso, appare l’arte umana, che gli fa dare que’ tratti tanto aggiustati al passar dell’acqua; cosi nelle operazioni de’ bruti, privi di senno, appare l’arte divina, che fa proromperli in quelle inclinazioni così prudenti, al comparire ora di un oggetto, or di un altro, che sveglia in essi variamente le spezie, cioè sveglia appunto i lor tasti.

SALMI BIBLICI: “DEUS, LAUDEM MEAM, NE TACUERIS” (CVIII)

SALMO 108: “DEUS, LAUDEM MEAM, NE TACUERIS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 108

In finem. Psalmus David.

[1] Deus, laudem meam ne tacueris,

quia os peccatoris et os dolosi super me apertum est.

[2] Locuti sunt adversum me lingua dolosa, et sermonibus odii circumdederunt me, et expugnaverunt me gratis.

[3] Pro eo ut me diligerent, detrahebant mihi; ego autem orabam.

[4] Et posuerunt adversum me mala pro bonis, et odium pro dilectione mea.

[5] Constitue super eum peccatorem; et diabolus stet a dextris ejus.

[6] Cum judicatur, exeat condemnatus; et oratio ejus fiat in peccatum.

[7] Fiant dies ejus pauci, et episcopatum ejus accipiat alter.

[8] Fiant filii ejus orphani, et uxor ejus vidua.

[9] Nutantes transferantur filii ejus et mendicent, et ejiciantur de habitationnibus suis.

[10] Scrutetur foenerator omnem substantiam ejus, et diripiant alieni labores ejus.

[11] Non sit illi adjutor; nec sit qui misereatur pupillis ejus.

[12] Fiant nati ejus in interitum; in generatione una deleatur nomen ejus.

[13] In memoriam redeat iniquitas patrum ejus in conspectu Domini, et peccatum matris ejus non deleatur.

[14] Fiant contra Dominum semper, et dispereat de terra memoria eorum:

[15] pro eo quod non est recordatus facere misericordiam,

[16] et persecutus est hominem inopem et mendicum, et compunctum corde mortificare.

[17] Et dilexit maledictionem, et veniet ei; et noluit benedictionem, et elongabitur ab eo. Et induit maledictionem sicut vestimentum; et intravit sicut aqua in interiora ejus, et sicut oleum in ossibus ejus.

[18] Fiat ei sicut vestimentum quo operitur, et sicut zona qua semper praecingitur.

[19] Hoc opus eorum qui detrahunt mihi apud Dominum, et qui loquuntur mala adversus animam meam.

[20] Et tu, Domine, Domine, fac mecum propter nomen tuum, quia suavis est misericordia tua.

[21] Libera me, quia egenus et pauper ego sum, et cor meum conturbatum est intra me.

[22] Sicut umbra cum declinat ablatus sum, et excussus sum sicut locustae.

[23] Genua mea infirmata sunt a jejunio; et caro mea immutata est propter oleum.

[24] Et ego factus sum opprobrium illis; viderunt me, et moverunt capita sua.

[25] Adjuva me, Domine Deus meus; salvum me fac secundum misericordiam tuam.

[26] Et sciant quia manus tua hæc, et tu, Domine, fecisti eam.

[27] Maledicent illi, et tu benedices; qui insurgunt in me confundantur, servus autem tuus lætabitur.

[28] Induantur qui detrahunt mihi pudore, et operiantur sicut diploide confusione sua.

[29] Confitebor Domino nimis in ore meo, et in medio multorum laudabo eum;

[30] quia astitit a dextris pauperis, ut salvam faceret a persequentibus animam meam.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI].

SALMO CVIII.

Profezia, a morto di imprecazione, contro Giuda traditore e contro i Giudei persecutori del Cristo.

Per la fine: salmo di David.

1. Non tener celata, o Dio, la mia lode; perocché la bocca dell’iniquo e del traditore si èspalancata contro di me.

2. Han parlato contro di me con lingua bugiarda, e con discorsi spiranti il mal animo mi hanno circonvenuto e impugnato senza cagione.

3. Invece di amarmi, mi nimicavano; ma io orava.

4. E rendettero a me male per bene, e odio per l’amor mio.

5. Soggetta colui al peccatore, e il diavolo gli stia alla destra.

6. Quand’egli è chiamato in giudizio, ne esca condannato; e l’orazione di lui diventi un peccato.

7. I giorni di lui siano pochi, e il suo ministero sia dato ad un altro. (1)

8. Divengano orfani i suoi figliuoli, e vedova la sua moglie.

9. I suoi figliuoli errino vagabondi, e mendichino, e sieno discacciati dalle loro abitazioni.

10. Le sue facoltà rintracci tutte l’usuraio e sien depredate dagli stranieri le sue fatiche.

11. Non sia per lui chi l’aiuti, nè sia chi dei suoi pupilli abbia pietà.

12. I figliuoli di lui sieno sterminati; in una generazione sola resti cancellato il suo nome.

13. Torni in memoria dinanzi a Dio l’iniquità dei suoi padri, e il peccato di sua madre non sia cancellato l.

14. Sieno (i loro peccati) sempre davanti al Signore, e sparisca dalla terra la memoria loro; perché egli non si èricordato di usare misericordia. (2)

15. E ha perseguitato un povero e un mendico, e uno che aveva il cuore addolorato, per metterlo a morte.

16. E ha amato la maledizione, e gli verrà; non ha voluto la benedizione, e sarà lontana da lui.

17. E si è rivestito della maledizione quasi di un vestimento ed ella ha penetrato come acqua nelle sue interiora, e come olio nelle sue ossa. (3)

18. Siagli come la veste che lo ricuopre, e come la cintola con cui sempre si cinge.

19. Questo è presso Dio il guadagno di coloro che mi nimicano e macchinano sciagure contro l’anima mia.

20. E tu, Signore, Signore, sta dalla parte mia per amor del tuo nome; imperocché soave ell’è la tua misericordia.

21. Liberami, perché io son bisognoso e povero; e il mio cuore è turbato dentro di me.

22. Svanisco com’ombra, che va declinando; e mi agitano come si fa delle locuste. (4)

23. Le mie ginocchia sono snervate per lo digiuno, ed è stenuata la mia carne, priva di umore.

24. Ed io divenni il loro ludibrio: mi miravano, e scuotevano le loro teste.

25 Aiutami, Signore Dio mio; salvami secondo la tua misericordia.

26. E sappiano che in questo vi è la tua mano, e che questa cosa da te è fatta, o Signore.

27. Eglino malediranno, e tu benedirai; quelli che si levano contro di me siano svergognati; ma il tuo servo sarà nell’allegrezza.

28. Sieno coperti di rossore quelli che mi nimicano; e sieno rinvolti nella lor confusione come in un doppio mantello.

29. Celebrerò altamente colla mia bocca il Signore, e nella numerosa adunanza a lui darò lode.

30. Perché egli si è messo alla destra del povero, per salvar da’ persecutori l’anima mia.

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(1) Episcopatum ejus, secondo l’ebraico, il suo incarico, la sua carica, la sua intendenza.

(2) Siccome i padri sono stati santi, si può utilmente fare il ricordo dei loro meriti in favore dei loro figli colpevoli; ma, se al contrario, anche i padri sono stati colpevoli, quale difesa resta ai loro figli, che non possono ricorrere né alla loro giustizia, né a quella dei loro avi? (Bourd.)

(3) Tre gradi progressivi: il vestito, l’acqua, l’olio.

(4) « Io sono stato di qua e di là come la cavalletta ». La cavalletta non resta mai in un solo posto.  

Sommario analitico

L’Apostolo san Pietro, citando un versetto di questo salmo come essendo di Davide (Act. I, 16-20), non ci lascia alcun dubbio sul suo autore e, applicando questo testo al tradimento di Giuda, ci dà, per così dire, la chiave che deve servirci per entrare nell’intelligenza dell’intero salmo. In questo salmo, composto da Davide durante la persecuzione di Saul, o di Assalonne, o secondo delle tradizioni di Doeg l’idumeo, o di Architofel, il Profeta, parlando a nome del Messia nella sua passione, ricorda il crimine odioso di Giuda e dei Giudei deicidi dei quali Giuda fu il capo, ed i castighi che ne sono stati la sequela per questo discepolo traditore e per tutta questa perfida nazione.

I. – Egli chiede a Dio suo Padre che la sua innocenza non sia confusa dagli sforzi dei suoi nemici, vale a dire:

1° dalle loro empietà e menzogne (1); – 2° dai loro inganni e violenze (2);

3° dal loro odio immotivato (3); – 4° dalla loro piùnera ingratitudine, che fa loro rendere il male per il bene (4).

II. – Ne predice il castigo:

1° ne fa vedere la severità; – a) nella loro anima, 1) il demonio costituito sopra di essi (5); 2) Dio divenuto per essi un giudice inesorabile (6);  – b) nel loro corpo, la loro vita distrutta, i loro giorni ridotti ad un piccolo numero (7); – c) nel loro onore, l’apostolato di Giuda trasferito ad un altro; – d) nei loro figli, divenuti orfani, erranti e mendicanti, cacciati dalle loro dimore, spogliati dei loro beni (8-10); – e) nei loro amici, nessuno che venga in loro soccorso (11); – f) nei loro discendenti, la distruzione della loro posterità e l’oblio completo del loro nome in una sola generazione, ed i figli che portano la pena dovuta ai crimini dei loro padri (12-14);

.2° Egli ne indica la causa: – a) il difetto di misericordia (15); – b) il loro eccesso di crudeltà (16); – c) la preferenza che essi hanno dato alla maledizione sulla benedizione (17, 18); – d) le loro calunnie e le loro menzogne (19).

III. – Implora il soccorso da Dio e ne dà come motivo:

1° La potenza di Dio e la sua bontà sovranamente misericordiosa;

2° la sua povertà, la sua indigenza, l’esaurimento delle sue forze, lo stato di debolezza al quale è ridotto, la perdita del suo onore e della sua reputazione (20-24);

3° Dio attesterà così la sua misericordia e la sua potenza (25, 26);

4° Egli coprirà di confusione i suoi nemici, e diffonderà la gioia nel cuore del suo servitore (27, 28).

IV. – Promette a Dio solenni azioni di grazie, in riconoscenza di un sì grande beneficio (29, 30).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1—4

ff. 1, 2. – « Dio, non tacete la mia lode; » cioè: Giuda mi ha tradito, i Giudei mi hanno perseguitato ed inchiodato alla croce, ed hanno creduto di avermi perso senza speranza di ritorno; ma Voi, « … non tacete la mia lode. » La Chiesa intera, su ogni punto del pianeta, canta le lodi del Signore, e così si trova compiuta questa preghiera che Egli faceva a suo Padre: « O Dio, non tacete la mia lode. » Vedete quanto sia grande la dignità di un prete; i preti aprono la bocca, ed è per il loro ministero che Dio non tace sulle lodi di suo Figlio (S. Gerol.). – La gloria dell’anima giusta è inseparabile dalla gloria di Dio, essa non può cercarla che in Dio. « È in Dio che la anima sarà glorificata. » dice allora il Salmista. » (Ps. XXXIII, 3) « Chi si glorifica si glorifichi nel Signore. » (I Cor. I, 31) – È dunque permesso cercare in Dio la sua gloria, la sua giustificazione e la sua lode, e rimettere nelle sue mani la difesa della propria innocenza oppressa. Egli sarà ben parlare quando sarà tempo. –  Il peccatore qui è distinto dall’uomo ingannatore, perché quest’ultimo costituisce una specie particolare in materia di calunnia, quando tenta di essere amico di colui che distrugge crudelmente in sua assenza (Dug.) – « Essi mi hanno come assediato con i loro discorsi pieni di odio, etc. » Qual eccesso di perversità, quale colpevole complotto, quale premeditazione nel crimine! Ecco ciò che provoca soprattutto l’indignazione di Dio: è questa combinazione sapiente e riflessiva del crimine nei malvagi che lo commettono. –  Grande differenza c’è tra colui che la seduzione ed l’occasione fanno cadere nel crimine, e colui che ne fa professione, che lo commette a sangue freddo, e soprattutto chi va fino all’ultimo limite esercitando la sua malvagità sulla stessa innocenza (S. Chrys.). – Come i giusti amano Gesù-Cristo gratuitamente, così gli empi lo odiano gratuitamente; perché come i buoni ricercano la verità per se stessa e senza interesse personale, così i malvagi ricercano l’iniquità; ciò che fa dire ad un autore profano di un celebre cospiratore (Sallustio, Catilina), che egli era malvagio eternamente senza motivo (S. Agost.). – È la prova più grave della pazienza: si cede più facilmente tra gli altri mali in cui non si cela la malizia degli uomini; ma quando la malignità dei nostri nemici è la causa della nostre disgrazie, si ha difficoltà a trovar pazienza. E la ragione è, ad esempio, che nelle malattie, un certo corso naturale delle cose ci apre più chiaramente l’ordine di Dio, al quale la nostra volontà, benché indocile, vede bene non di meno di doversi adattare; ma quest’ordine, che ci viene mostrato nelle necessità naturali, ci è nascosto al contrario, dalla malizia dell’uomo. Quando noi siamo circuiti dalle frodi, dalle ingiustizie, dagli inganni; quando vediamo che i nostri nemici ci hanno come assediato e circondati con parole di odio; così come parla il divin salmista, che le uscite per fuggire, le venute in nostro soccorso, sono chiuse da una circonvallazione di iniquità, e che da qualunque lato ci volgiamo, la loro malizia ha preso di fronte, e ci ha chiuso da ogni parte, allora è disagevole riconoscere l’ordine di un Dio giusto tra tante ingiustizie che ci opprimono; e ci sembra che per la malizia degli uomini che ci ingannano e che ci opprimono, il nostro cuore creda di avere il diritto di rivoltarsi; ed è qui che si può essere spinti agli ultimi eccessi. O Gesù, Gesù crocifisso tra gli empi! O Giusto perseguitato nella maniera più oltraggiosa! Venite in nostro soccorso e fateci vedere l’ordine di Dio nei mali che noi sopportiamo per la malizia degli uomini. (Bossuet, IV Serm. sur la Passion).

ff. 3, 4. – « Invece di amarmi, mi hanno calunniato. Vi sono sei tipi di procedimenti nei riguardi del prossimo: rendere il bene per il male, non rendere il male per il male; rendere il bene per il bene, rendere il male per il male; non rendere il bene per il bene, rendere il male per il bene. I due primi sono propri dei giusti, e la prima delle due è la migliore; le due ultime sono proprie dei malvagi, e l’ultima è la peggiore delle due; i due intermedi sono propri dei malvagi che vivono tra il bene ed il male, ma il primo appartiene piuttosto ai buoni ed il secondo ai malvagi (S. Agost.). – Così i due estremi sono: rendere il bene per il male, e questo fu il processo di Gesù-Cristo; e rendere il male per il bene, questo fu il crimine dei Giudei. Il Salmista riunisce questi due estremi e fa intendere con questo che non parla che di Gesù-Cristo, che ha reso il bene più grande per il male più grande, e che dei Giudei, che hanno reso il male più grande per il bene più grande. – « Ed io, tuttavia pregavo. » Vedete che saggezza! Qual moderazione, qual dolcezza, qual pietà! Io non prendevo le armi, non marciavo per combatterli, per vendicarmi; è presso di Voi che mi rifugiai, in questa fortezza inespugnabile, in questo porto inaccessibile alla tempesta, nell’asilo assicurato dalla preghiera, per la quale tutte le cose più difficili diventano facili e leggere. Io imploravo la vostra alleanza, la vostra protezione, queste armi invincibili, questo soccorso al quale niente può resistere. (S. CRHYS., in hunc Ps. et hom. xxix, in Gen.). – « Ed io, tuttavia, pregavo. » Ecco le armi del Signore: la preghiera; tali devono essere anche le nostre armi. Se siamo perseguitati, se siamo oggetto di invidia, di odio, diciamo: « … invece di amarmi, essi mi disprezzano con le loro maldicenze; ed io, che facevo? Io pregavo. » questo per trionfare dei miei nemici? A Dio non piace. Il Signore non pregava per ottenere la vittoria sui suoi nemici. « Da parte mia, io pregavo. Qual era l’oggetto della mia preghiera? « Padre mio, perdonate loro, perché non sanno cosa fanno. » – Qual bene hanno ricevuto? Qual male hanno reso?  Egli risponde: « odio per l’amore mio. » Ecco il loro crimine tutto intero, ed è grande. In effetti, qual male potevano fargli i suoi persecutori, a Lui che moriva per sua volontà, e non per necessità? Ma il crimine più grande del persecutore era l’odio stesso, benché il supplizio fosse volontario (S. Agost.). – Il salmista ha spiegato per bene la sua prima parola: « Invece che amarmi, » e dimostrato che si trattava per essi, non di dare un amore qualsiasi, ma di rendere l’amore che Egli portava loro (S. Agost.) – Considerate, Cristiani, prete o religioso, l’esempio del Signore vostro: è con il bacio che Egli ha accolto il discepolo traditore che veniva a consegnarlo ai suoi aguzzini; se Egli apre la bocca, è solo per pregare suo Padre per coloro che lo crocifiggono, e noi cosa dobbiamo fare riguardo ai nostri fratelli? (S. Gerol.).

II. — 5-19.

ff. 5-14. – Il Profeta predice il castigo che riceveranno a causa della loro empietà, e sembra, per la forma che utilizza, desiderare, come per desiderio di vendetta, che questi castighi si compiano, mentre che non fa che annunciare pene certissime, giustamente meritate da tali uomini, e che saranno loro inflitte dalla giustizia di Dio. C’è chi non comprendendo questa maniera di profetizzare l’avvenire sotto l’apparenza di una imprecazione, crede che il Profeta rende ai malvagi odio per odio. In effetti ci sono pochi uomini capaci di distinguere il piacere che causa il castigo dei malvagi ad un accusatore che brucia nel soddisfare il suo odio, dalla soddisfazione tutta diversa di un giudice che nella rettitudine della sua volontà, punisce un crimine. Il primo rende il male per il male; ma questo giudice, anche quando colpisce, non rende il male per il male, poiché rende ad uno ingiusto, ciò che è giusto. Ora, ciò che è giusto è certamente buono; egli non punisce per il piacere della sofferenza altrui, ciò che è il rendere male per il male, ma per amore della giustizia, ciò che è rendere il bene per il male. (S. Agost.). –  Giusta punizione del peccatore è quella che nello stesso tempo che crede di essersi assoggettato i giusti che ha oppresso, è egli stesso sottomesso al potere del principe dei peccatori; perché noi diventiamo schiavi di colui che ci ha vinto (II. Piet. II, 19). – Egli non ha voluto vivere sotto le leggi di Cristo e sottomettersi al suo impero, è condotto dal demonio che si tiene sempre alla sua destra, perché ordinariamente si mette alla destra ciò che si preferisce: « Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare. » (Ps. XV, 8) – (S. Agost.). – Davide non dice: che venga in giudizio; ma, quando lo si giudicherà, che esce condannato, perché dove c’è il giudizio si dubita della colpevolezza; ma quando c’è condanna, il crimine è manifesto (S. Gerol.). – Cosa importano a noi i giudizi degli uomini, a noi che dobbiamo poter dire con san Paolo: «Io non mi prendo pena dell’esser da voi giudicato, o da un tribunale umano, ma il Signore è il mio giudice. » Ciò che noi dobbiamo temere è questo tribunale del Giudice sovrano, la cui sentenza è senza appello, perché essa è conforme alle leggi della eterna Verità. – « E che pure la sua preghiera gli sia imputata a peccato. » Il pentimento di Giuda è stato un nuovo e più grande crimine. E come questo? Egli se ne andò e si pentì; » dopo aver tradito il suo Maestro diede la morte a se stesso. Io lo dico ad onore della clemenza e della misericordia del Signore, Giuda offese Dio più gravemente dandosi la morte che traendo il suo divino Maestro. La sua preghiera sarebbe servita come sua penitenza, essa però si è rivoltata in un nuovo peccato, così è per coloro che si sono separati volontariamente dalla Chiesa, o che perseverano volontariamente nel crimine: essi pregano e la loro preghiera si cambia in peccato. Il sovrano dolore dell’uomo è che la sua preghiera non sia esaudita; ma il malore peggiore che possa arrivargli, è che la sua preghiera gli sia imputata come peccato, che divenga un peccato. Ora la preghiera diventa un peccato o in ragione della sua forma, o in ragione della sua materia, o in ragione delle circostanze che l’accompagnano. – 1° a motivo della forma, è un peccato quando non è diretta a Dio; 2° a motivo della materia, essa diventa peccato quando si chiede a Dio ciò che non gli si deve domandare, come la morte di un nemico o delle cose nocive per la salvezza; 3° a motivo delle circostanze che l’accompagnano, essa è un peccato: a) quando il peccatore prega con l’intenzione formale di perseverare nel suo peccato: « se ho considerato l’iniquità nel mio cuore, Dio non mi esaudirà (Ps. LXXV, 18); « c’è una preghiera esecrabile, quella dell’uomo che chiude l’orecchio per non ascoltare la legge, »;  b) quando la preghiera è fatta con negligenza affettata: « maledetto è colui che ha fatto l’opera di Dio con negligenza. » (Ger. XLVIII, 10); c) quando è fatta in mezzo ai tumulti delle passioni e delle affezioni che tengono il cuore attaccato alla terra: « Allora prostrata parlerai da terra e dalla polvere saliranno fioche le tue parole; sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra, e dalla polvere la tua parola risuonerà come bisbiglio, » (Isai. XXIX, 4); d) Quando la preghiera è congiunta ad un sentimento di arroganza o di ambizione, tale era la preghiera del fariseo (Luc. XXIII); e) quando è frammista all’ipocrisia: « quando pregate, non siate come gli ipocriti che amano pregare in piedi nelle sinagoghe e sulle pubbliche piazze, per essere visti dagli uomini; in verità, Io vi dico, essi hanno già ricevuto la loro ricompensa. » (S. Matt. VI,5); f) infine quando parte da un cuore chiuso alla misericordia ed alla carità fraterna; « lasciate il vostro dono davanti all’altare, ed andatevi prima a riconciliare con il vostro fratello, ed allora verrete ad offrirmi la vostra offerta. » (S. Matt. XXIII, 14). La preghiera diventa un peccato nella bocca di colui che maledice il suo nemico. Ecco un Cristiano che domanda la morte del suo nemico, e persegue nella sua preghiera colui che non ha potuto raggiungere con la sua spada. Colui che egli maledice vive ancora, ma colui che lo ha maledetto è già colpevole della sa morte. Pregare in tal modo, è combattere nelle proprie preghiere contro il Creatore di tutti gli uomini, ciò che fa dire al Re-Profeta parlando di Giuda: « che la sua preghiera gli sia imputata a peccato. » – La vita degli empi e dei peccatori è breve. « Alcun bene c’è per l’empio; Dio abbrevierà i suoi giorni; coloro che non temono il volto del Signore passeranno come l’ombra; » (Eccli. VIII, 13); e visse un gran numero di anni, ma la sua vita è sempre breve, perché la maggior parte dei giorni sono inutili per la salvezza, e non solo inutili, ma opposti alla salvezza, e materia stessa di eterna riprovazione. (Berthier). – Qual soggetto di tristezza e di lacrime eterne, quando un altro viene a prendere il posto e la corona che ci erano destinate! – Dio punisce spesso i figli per i peccati dei loro genitori, e non, in verità, di una punizione interiore che riguarda l’anima, perché qui ciascuno porta il suo fardello, ma con una punizione esteriore che riguarda i mali di questa vita, che si estendono talvolta fino alla terza e quarta generazione ed oltre. Lungi dall’accusare qui Dio di ingiustizia, bisogna piuttosto lodare la sua misericordia e la sua saggezza del fatto che punendo con pene temporali, fin nei bambini di coloro che lo hanno offeso con i loro crimini, spaventano salutarmente tutti gli altri ai quali questi castighi servono da lezione. (Duguet). –  « Che l’usuraio ricerchi ogni suo bene. » Voi gli avete dato una somma di denaro come agli altri, Signore, … che ne ha fatto? Non lo ha conservato in un panno, non lo ha sotterrato nella terra, senza preoccuparsi di farlo fruttare, ma dato che fu in possesso del talento del suo padrone, ricevette dai suoi nemici trenta denari e se ne servì per vendere il suo Maestro. Ecco perché io vi supplico Signore, esigete da lui l’usura del vostro denaro (S. Gerol.). – Il peccatore, al momento della morte, prova tutto ciò che dice qui il profeta, con la differenza che, in rapporto a lui, le conseguenze di questo stato di abbandono e di riprovazione, sono eterne. Tutto ciò che possedeva di virtù puramente umane, non può supplire alla sua indigenza spirituale: questi sono come lavori perduti per lui. Egli non trova alcuna risorsa né nella stima pubblica, né nel talento che ha avuto nel trattare i grandi affari, né nell’amore dei suoi prossimi, né nei rimpianti dei suoi amici. I suoi veri figli dovevano essere le opere di pietà cristiana, l’esercizio dell’amore di Dio, la carità del prossimo, lo zelo della Religione, l’imitazione di Gesù-Cristo e dei Santi. Tutto questo gli manca. È forse un saggio del mondo, un filosofo forse riverito nel paganesimo; ma nel tribunale di Dio questi nomi non sono ammessi. Egli non conosce il Vangelo, ed è questo Vangelo che lo accuserà. Gesù-Cristo non è venuto per acquistare filosofi per il regno di suo Padre, ma per popolare il cielo di uomini che abbiano disprezzato il fasto della filosofia e l’orgoglio del mondo, che abbiano combattuto l’amor proprio, fatto la guerra ai loro sensi, praticato l’umiltà e la rinunzia, che abbiano sopportato in spirito di fede, le tribolazioni di questa vita, e che non abbiano sospirato se non il soggiorno dei Santi. (Berthier).

ff. 15-19. –  Giuda non si è ricordato di far misericordia a Colui che l’aveva accolto con tanta bontà, nel momento stesso in cui stava per tradirlo con un bacio. (S. Girol.). – « Egli ha perseguitato l’uomo povero ed indigente, e cerca di far morire colui il cui cuore è affranto dal dolore. » L’ultimo grado della crudeltà, il colmo della disumanità, è attaccarsi a colui per il quale dovrebbe piuttosto nutrire sentimenti di pietà e di commiserazione. Colui che è giunto a questo grado, scende fino agli istinti delle bestie feroci, e le sorpassa anche in crudeltà. Gli animali per natura possiedono questo istinto di ferocia; l’uomo al contrario, che ha la ragione, prostituisce al crimine questa nobile facoltà (S. Chrys.). – Nessuno presenta la maledizione come l’oggetto dei suoi desideri e del suo amore; ma tutti i peccatori commettono, per scelta e piena convinzione, delle azioni che essi sanno dover essere seguite dalla maledizione. – « Ecco che io oggi metto davanti a voi la benedizione e la maledizione: la benedizione se obbedite ai Comandamenti del Signore vostro Dio; e la maledizione se non obbedite ai precetti del Signore vostro Dio, e se volgete via lo sguardo dalla via che Io vi mostro ora per camminare in luoghi stranieri che non conoscete. » (Deuteron. XI, 26-28). – Diversi sono i gradi di maledizione: 1° essere coperto come da un vestito: sono le maledizioni esteriori, che non colpiscono che al di fuori; – 2° la maledizione « che entra come l’acqua nelle viscere »: queste sono le maledizioni esteriori che entrano fin dentro l’anima; – 3° « Come l’olio nelle ossa: »  sono le maledizioni che penetrano fino in fondo, nel più intimo dell’anima, fino al cuore; – 4°  « essere cinto per sempre come da una cintura: » è questa la terribile ed eterna maledizione che Dio lancerà contro i riprovati, nel grande giorno del giudizio finale (Duguet) – Il peccato ha questo di proprio, che imprime una macchia nell’anima, che ne sfigura tutta la beltà, e passa la spugna sui tratti dell’immagine del Creatore che è rappresentato in essa. Ma un peccato reiterato, oltre a questa macchia, produce ancora nell’anima una tendenza ed una forte inclinazione al male, per il motivo che entrando nel fondo dell’anima, mina tutte le sue buone inclinazioni, e la spinge, con il suo peso, verso gli oggetti della terra. La scrittura si serve di tre paragoni potenti per esprimere il danno di questa malattia: « Egli si è rivestito di maledizione come di un vestito; essa vi è penetrata come l’acqua dentro di lui e, come l’olio, fin nelle sue ossa. » La maledizione è, nel peccatore d’abitudine, come un vestito perché essa riempie tutto il suo esterno, tutte le sue azioni, tutte le sue parole; la sua lingua non fa che proferire menzogna; essa entra come l’acqua al suo interno e ne corrompe i pensieri in modo tale che non ne abbia più se non di ambizione, etc.; ed infine essa penetra come l’olio nelle sue ossa, vale a dire ciò che sostiene la sua anima e gli dà solidità. Egli spegne tutti i sentimenti della fede, perché infine tutto svanisce in questi grandi attaccamenti che ha al peccato; egli affossa la speranza, perché tutto il suo sperare è nella terra; egli spegne la carità, perché l’amore di Dio non può accordarsi con l’amore delle creature; orbene il vestito rappresenta la tirannia, l’acqua l’impetuosità, l’olio una macchia che si spande dappertutto e non si cancella quasi mai (BOSSUET, Sur le péché d’habitude. « Ecco l’opera di coloro che mi calunniano davanti al Signore. » Il Profeta non ha detto: « Ecco la ricompensa, » ma: « … ecco l’opera ». In effetti è evidente che questo vestito di cui l’empio si riveste e di cui si copre, questa acqua, quest’olio, questa cintura, significano le opere con le quali l’empio acquista l’eterna maledizione (S. Agost.).

III. — 20-28.

ff. 20-27. – Tutte le condizioni di una santa preghiera sono in questi versetti: una grande idea di Dio e del suo santo Nome; la piena fiducia nella sua bontà e nella sua misericordia; un sentimento profondo della propria miseria, della propria indigenza, delle piaghe della propria anima. C’è molta forza e tante istruzioni in queste parole: Signore, fate insieme a me; se io sono solo, io non posso niente; con Voi io posso tutto. Gesù-Cristo solo poteva servirsi di questa espressione in tutta la sua estensione; perché Egli stesso dice che è sempre con suo Padre, che suo Padre fa tutto con Lui, che le sue operazioni sono quelle di suo Padre. Ma S. Paolo dice anche: « Io sono, per grazia di Dio, ciò che sono; … io ho lavorato più degli altri, non solo da me stesso, ma la grazia di Dio con me. » Il grande segreto della pace e del benessere, è che Dio faccia tutto con noi. Se Egli è l’agente principale in tutto e dappertutto, non si dovrà temere che noi facciamo male ciò che facciamo o ciò che noi vogliamo fare. (Berthier). – Vediamo nello stesso tempo la religione e l’umiltà del Profeta; i mali che egli subiva, erano un titolo legittimo per ottenere il soccorso di Dio … Tuttavia, egli non fa uso di questo titolo, e non mette la fiducia se non nella bontà di Dio: « Agite per me a causa del vostro Nome. » Non è perché io ne sono degno, ma perché Voi siete buono e misericordioso. Egli aggiunge: « Perché la vostra misericordia è piena di dolcezza. » Non è lo stesso della misericordia degli uomini, che diventano, sovente, con le loro mani, strumento di distruzione e di morte, mentre Dio non è mai misericordioso se non per i nostri interessi. « Liberatemi perché io sono povero, etc. » Egli prega Dio di nuovo di liberarlo, non perché ne sia degno, né perché sia giusto, ma perché egli è tutto spossato in preda ad innumerevoli dolori. (S. Chrys.). – « Io sono sparito come l’ombra al suo declinare. »  È la figura della morte. Così come, in effetti, la notte viene al declinare delle ombre, così la morte giunge al declinare della carne mortale. (S. Agost.). –  « Io sono stato gettato qua e là come le cavallette: » io ero venuto per proteggere il mio popolo, e gli ho detto: « Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che vengono a te inviati, quante volte ho dovuto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali. » (Matth. XXIII). Io ero venuto come una chioccia per proteggerli, ed essi mi hanno accolto con le disposizioni più ostili; io ero venuto come una madre, ed essi mi hanno messo a morte come un omicida. « Io sono stato gettato qua e là come cavallette. » Cosa vuol dire? Essi mi hanno perseguitato, mi hanno rigettato, io abitavo a Nazareth e mi hanno perseguitato. Io sono venuto a Cafarnao ed il loro odio mi ha seguito. Da Cafarnao sono venuto a Bethsaida, e vi ho trovato nuovi persecutori. Io sono venuto a Gerusalemme, non potevo permettermi di separarmi dal mio popolo, e vi ho trovato persecutori ancora più accaniti:  « Io sono stato gettato qua e là come le cavallette. » (S. Gerol.). –  Stato di un uomo oppresso da mali è questo: la sua vita si estingue, erra da una parte all’altra come le cavallette, le sue ginocchia non possono più sostenerlo, la sua carne è disseccata. Gesù-Cristo, durante la sua passione, fu ridotto in questo stato deplorevole. Egli era l’Eterno, e la sua vita sulla terra gli sfuggiva come l’ombra; Egli era il centro di tutti gli esseri, di tutti i beni, di tutte le perfezioni, immutabile nella sua felicità, invariabile nei suoi decreti, e sulla terra fu esposto a tutte le tempeste, l’oggetto di tutte le contraddizioni, il trastullo di tutte le passioni degli uomini. La fine di tanti contrasti fa la gloria ed il trionfo di Gesù-Cristo. Questa roccia – dice S. Agostino – è battuta dalle tempeste, ma tutte queste onde si sono infrante contro di Lui; i suoi nemici sono periti, e Lui solo sussiste. Ecco il nostro modello: « Siamo in questo secolo, che è un mare pieno di burrasche, siamo pronti ad affrontare con coraggio tutte le tempeste; non cederemo ad alcun uragano, sosteniamo tutti gli assalti, sussistiamo con Gesù-Cristo. » (Berthier). – Gesù-Cristo non è stato solamente oppresso, ma riempito di obbrobri; I Giudei lo hanno trattato da samaritano, e dicevano: « è nel nome di belzebuth, principe dei demoni, che Egli caccia i demoni; non è il figlio di Giuseppe? I suoi fratelli e sorelle non sono forse in mezzo a noi? » E ancora « Tu che distruggi il tempio di Dio e lo ricostruisci in tre giorni, scendi ora dalla croce. » (S. Gerol.). –  Siamo ben lieti di essere trattati come Gesù-Cristo, che il mondo non approvi niente di ciò che noi facciamo, scuota la testa nel vederci, come lo ha scosso vedendo Gesù-Cristo sulla croce (Dug.). – « Tutti sappiano che la vostra mano è là, e che siete Voi, Signore, che fate queste cose. » Comprendano i Giudei che il loro odio omicida non ha prevalso contro di me, ma che è per effetto della vostra volontà e della mia che Io ho sofferto, e per questo ho detto, in quanto uomo: mio Dio, Io sono venuto per fare la vostra volontà; è la vostra volontà e la mia, e non la loro volontà, che sono state causa delle mie sofferenze. Ciò che Voi avete voluto, l’ho voluto anch’Io. Era necessario che arrivasse lo scandalo, ma maledizione a colui mediante il quale esso è arrivato (Matth. XVIII), (S. Gerol.). – Tre cose hanno concorso alla redenzione del genere umano: la volontà di Dio, l’accettazione di Gesù-Cristo, la malvagità dei Giudei; ci sono dei prodigi in questo avvenimento: un prodigio di giustizia e di misericordia da parte di Dio, un prodigio di sottomissione e di amore da parte di Gesù-Cristo, un prodigio  di accecamento e di furore da parte dei Giudei. Un quarto prodigio è che gli uomini si perdono, dopo essere stati riscattati a così gran prezzo. (Berthier).

ff. 28. « Essi malediranno e voi benedite. » È dunque questa una vana e fallace maledizione, come quella dei figli degli uomini, che amano la vanità e cercano la menzogna (Ps. IV, 3). Dio al contrario quando benedice, agisce così come parla (S. Agost.). –  Il Re-Profeta ci insegna che tutte le maledizioni dei suoi nemici non possono prevalere contro la benedizione di Dio; non solo esse non faranno alcun male, ma questi oltraggi ed obbrobri, ricadranno con tutto il loro peso sugli autori. « Ma  il vostro servo gioirà in Voi. »  La sorgente della gioia è la stessa dalla quale si riversano su di lui tanti beni. (S. Chrys.). – Non è solo il castigo, ma l’umiliazione, l’onta che richiama su di essi, affinché sia per essi una correzione ed una occasione per divenire migliori. (S. Chrys.).

IV. — 29-30

ff. 29-30. – Per tutti questi beni che ha ricevuto da Dio, egli offre un inno, un cantico di lode, di azioni di grazie; egli annuncia a tutti gli uomini le opera della sua Potenza, e rende pubblico, come in un teatro, i benefici di cui Dio lo ha ricolmato. Ecco il sacrificio, ecco l’offerta che Dio gradisce: conservare sempre il ricordo dei suoi benefici, inciderli profondamente nella propria anima, renderli continuamente pubblici, e portarli a conoscenza di tutti gli uomini. (S. Crys.). – È facile fare violenza al povero, perché egli è povero; ma più sembra disprezzabile ed abbandonato, più si deve temere di fargli violenza, perché credendo di attaccare un uomo, si attacca Dio, « … che si pone a destra del povero, » e si dichiara il sostegno dei poveri ed il difensore degli oppressi (Berthier). 

SACRO CUORE DI GESÙ (28): IL Sacro CUORE di GESÙ e la sua CHIESA.

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ. TORINO, S. E. I. – 1920]

DISCORSO XXIX

Il Sacro Cuore di Gesù e il Papa.

(1) Di questo discorso stampatosi a parte nel 1892, per mezzo dell’Eminentissimo

Card. Rampolla Segretario di Stato, fu umiliata copia dall’autore

a S. S. LeoneXIII; e n’ebbe in risposta questa consolante lettera:

Bev. mo Signore,

Con molto piacere ho rassegnato al S. Padre uno dei recontissimi

esemplari del discorso, al quale si riferisce la lettera da Lei indirizzatami

l i 2 del corrente mese.

Sua Santità si è degnata accoglierlo con espressioni di particolare

gradimento e nel commettermi di ringraziarla nell’Augusto Suo nome Le

ha con affetto impartita l’Apostolica Benedizione.

Mentre mi affretto ad eseguire i l venerato incarico, L a ringrazio ben

di cuore anche in mio nome dell’esemplare, che gentilmente mi ha E l la

favorito, di esso discorso, e con sensi di distinta stima mi dichiaro

Di V. S.

Soma, 7 Luglio 1892.

Bev. D. ALBINO CARMAGNOLA                Aff. mo nel Signore M. Card.                         Sacerdote Salesiano

Boma.

                                                                                RAMPOLLA.

Aff. mo nel Signore

M. Card.

Nel corso di questo mese gettando lo sguardo sopra le opere del Cuore Sacratissimo di Gesù, non ne trovammo certamente alcuna, che non si mostrasse ammirabile, non ci parlasse della sua bontà e della sua misericordia infinita per noi. Ammirabile Vedemmo la sua Chiesa, ammirabili i suoi Sacramenti, ammirabile la sua dottrina, ammirabili i suoi esempi, ammirabili le sue promesse e le sue grazie, e tutto, grazie, promesse, esempi, dottrina, Sacramenti e Chiesa ci hanno fatto esclamare con gratitudine: Oh quanto è buono il Cuore di Gesù con noi! quanto è grande il suo amore, la sua misericordia! Eppure o miei cari, fra tante opere ammirabili del Cuore di Gesù Cristo io ne scorgo ancor una non meno ammirabile delle altre, che anzi più ancor dì ogni altra mi manifesta la sua bontà e la sua misericordia; e voglio dire il Papa. Sì, il Papa! e per poco che consideriate anche voi quest’opera, non penerete a convincervi della verità di questa mia asserzione. Ed invero, donde mai la Chiesa ritrae la essenza di sua unità, la beneficenza dei suoi Sacramenti, l’integrità di sua dottrina, la sicurezza della parola e degli esempi di G. Cristo? … Dal Papa. È il Papa, che in un cuor solo ed in un’anima sola unisce tutti i popoli a Cristo. È il Papa, che ci comunica la grazia per mezzo dei Vescovi e dei Sacerdoti. È il Papa, che custodisce inviolato il deposito del Santo Vangelo. È il Papa, che ci assicura degli insegnamenti di Gesù Cristo. È il Papa insomma quella fonte prodigiosa, che lo stesso Gesù Cristo ha stabilito nella Chiesa per farci gustare perpetuo il benefizio della sua redenzione, per tramandare in eterno l’abbondanza della sua misericordia. Ben ho ragione di asserire che il Papa è un’opera delle più ammirabili uscite dal Cuore ferito di Gesù Cristo, e che con quest’opera il Cuore di Gesù ha fatto alla sua Chiesa uno dei più segnalati benefizi. Ben ho ragione, additandovi il Papa, d’invitarvi con tutte le forze dell’animo mio a benedire questo Cuore Santissimo ed a confessare il suo amore e la sua bontà infinita per noi! Questo per l’appunto è lo scopo del discorso di oggi, questo giorno in cui celebriamo la festa del primo Papa, di S. Pietro, mettervi in qualche luce questo sì grande benefizio, affinché da tale considerazione se ne tragga la natural conseguenza di ricambiare il Cuore di Gesù della conveniente gratitudine.

I . — Ogni famiglia, ogni Stato, ogni società abbisognano di un capo. L’anarchia a cui tanti evviva s’innalzano ai giorni nostri non è che il più stupido degli assurdi: imperciocché anche gli anarchici costituiti in partito, come sono oggidì, obbediscono essi pure agli ordini di un capo o per lo meno si lasciano spingere da’ suoi iniqui incitamenti. Se pertanto a non sovvertire l’idea istessa di famiglia, di stato e di società assolutamente si appalesa la necessità di un rispettivo capo, ognuno vede a primo aspetto, che a porre ben salde le fondamenta di quell’ammirabile società, che il Cuore amoroso di Cristo venne a stabilire in sulla terra, era affatto necessario che le donasse un capo; un capo che con rettitudine la governasse, un capo che l’ammaestrasse con sapienza; un capo che per ogni verso la guidasse con sicurezza alla meta sublime, che

Cristo le assegnava. Senza di un capo, supremo nella sua autorità, infallibile nel suo magistero, la Chiesa, quest’opera divina uscita dal Cuore squarciato di Cristo, sarebbe andata priva del principio di sua unità e di sua perfezione ed in breve divisa e moltiplicata nel governo, varia e confusa nella dottrina, sarebbe riuscita a quello scompiglio, di cui in ogni tempo l’eresia ha dato al mondo sì triste spettacolo. Ma grazie, infinite grazie sieno rese al Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo! Ripieno per la sua Chiesa di un amore infinito e divino, Egli allontana da Lei un tale pericolo, e pur rimanendo Egli stesso a suo capo invisibile sino alla consumazione dei secoli, le dona un capo visibile nel Romano Pontefice, il cui supremo potere, corrisposto dall’universale sommessione, costituirà sino alla fine del mondo il principio della vita, dello sviluppo e del perfezionamento della Chiesa istessa. Ecco il Divin Redentore a Cesarea di Filippo. Circondato da’ suoi discepoli, a questo modo li interroga: « Chi dicono gli uomini che io sia? » E i discepoli rispondono: « Gli uni dicono che voi siete Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti. » — « Ma voi, soggiunse il Salvatore, voi chi dite ch’io sia? » A questa domanda Simon Pietro, pigliando la parola a nome suo e degli altri Apostoli, esclama: « Tu sei il Cristo, Figliuolo di Dio vivo. » Allora il Salvatore ripiglia: « Beato te, o Simone, figliuolo di Giovanni, perché non è né la carne, né il sangue che ti ha rivelato ciò che tu dici, ma il Padre mio, che è ne’ cieli. Ed io dico a te che tu sei Pietro, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa e le potenze d’inferno non prevarranno contro di essa giammai. A te io darò le chiavi dei regno de’ cieli e tutto ciò che avrai legato sopra la terra sarà legato anche ne’ cieli, e tutto ciò che in sulla terra avrai sciolto, sarà sciolto anche nei cieli. » Udiste? Con parole del tutto esplicite Gesù Cristo promette a Pietro di lasciare in lui un capo alla sua Chiesa con autorità suprema di comando. Ed invero, dopo di averlo detto beato per aver parlato conforme l’illustrazione avuta dal Padre celeste, gli cambia il nome di Simone in quello di Pietro o Pietra e soggiunge: « Sopra di questa pietra fonderò la mia Chiesa; » come dicesse: Tu, o Pietro, sei destinato a far nella mia Chiesa quello, che fa il fondamento in una casa. Il fondamento è la parte principale e indispensabile in un edilizio. E tu sarai nella mia Chiesa l’autorità affatto necessaria. E come nella casa le parti che non posano sul fondamento cadono e vanno in rovina, così nella mia Chiesa chiunque si dividerà da te, non ubbidirà a te, non seguirà te, fondamento della mia Chiesa, non apparterrà alla medesima e cadrà nell’eterna rovina. Inoltre Gesù Cristo disse ancora a Pietro: « A te darò le chiavi del regno de’ cieli. » Ma le chiavi non sono per eccellenza il simbolo della padronanza e del potere? Quando il venditore di una casa porge le chiavi al compratore di essa, non intende forse con questo atto mostrargli che gliene dà pieno ed assoluto possesso? Parimenti quando ad un re sono presentate le chiavi di una città, non si vuole forse con tal omaggio significare che quella città lo riconosce per sovrano? Per simile guisa le chiavi spirituali del regno dei cieli, cioè della Chiesa, che Gesù Cristo promette a Pietro, indicano chiaramente che Egli è destinato ad essere signore, principe e reggitore della nuova Chiesa. Laonde Gesù soggiunge allo stesso: « Tutto quello che legherai sulla terra, sarà altresì legato in cielo e tutto quello che scioglierai in terra, sarà pure sciolto in cielo; » vale a dire: Tu avrai l’autorità suprema di obbligare e sciogliere la coscienza degli uomini con decreti e con leggi riguardanti il loro bene spirituale ed eterno. — Né si dica che anche gli altri Apostoli sono stati fatti capi della Chiesa, perché anche a loro Gesù Cristo diede la facoltà di sciogliere e di legare, che tale facoltà Gesù Cristo la diede loro in comune e dopoché già erano state rivolte a Pietro le parole soppradette, affinché capissero che la loro autorità doveva essere sotto ordinata a quella di S. Pietro, divenuto loro capo e principe, incaricato di conservare l’unità del governo e della dottrina. Ma alla promessa tien dietro il fatto. Dopo la risurrezione Gesù Cristo, avendo mangiato co’ suo discepoli per assicurarli vie meglio della realtà del suo risorgimento, si rivolge a Simon Pietro e gli domanda per tre volte: « Simone, mi ami tu più di questi? » Pietro che dopo il fallo della negazione di Cristo è divenuto più modesto, si contenta di rispondere: « Signore, voi sapete che io vi amo. » E due volte il Signore gli dice: « Pasci i miei agnelli. » Ed una terza volta: « Pasci le mie pecorelle. » Per siffatta guisa il Cuore amoroso di Cristo costituiva S. Pietro Principe degli Apostoli, Pastore universale di tutta la Chiesa; conferendogli di fatto il primato di onore e di giurisdizione, ossia quel potere supremo che dapprima avevagli promesso, e non sola sopra i semplici fedeli raffigurati negli agnelli, ma eziandio sopra i sacerdoti e sopra gli stessi vescovi raffigurati nelle pecorelle. Ma il Divin Redentore promettendo e donando a Pietro il supremo potere su tutta la Chiesa, cogli stessi termini gli prometteva egli donava l’infallibilità di magistero. Difatti era possibile che egli dicesse a Pietro: « Tu sei Pietro e sopra di questa Pietra innalzerò la mia Chiesa, e le potenze dell’inferno non prevarranno giammai contro di Essa; — Io ti darò le chiavi del regno de’ cieli: tutto ciò che avrai legato o sciolto su questa terra, sarà legato o sciolto in cielo; — Pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle; » — e poi permettesse che Pietro avesse a sbagliare, e tutt’altro che essere agli altri fondamento della Fede, crollasse egli stesso nella medesima; tutt’altro che aprire agli uomini le porte del cielo colle chiavi di esso, li trascinasse alle porte dell’inferno; tutt’altro che pascere della verità e i pastori e gli agnelli, li avesse talora a pascere dell’errore? Ciò non era assolutamente possibile. D’altronde anche per questo riguardo Gesù Cristo ha parlato nei termini più chiari e precisi. Imperocché nell’ultima Cena, rivolto a Pietro, gli dice : « Simone, io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli. » (Luc. XXII) Ora, o bisogna dire che la preghiera di Gesù Cristo non fu esaudita, il che sarebbe una bestemmia, o fa d’uopo ammettere che il suo Cuore amoroso, mediante la sua preghiera, assicurò a Pietro una particolare assistenza, affinché come Maestro universale non avesse mai a venir meno nella fede, epperò con labbro infallibile insegnasse mai sempre la verità in tutto ciò riguarda la fede e la morale cristiana. – Ma qui, o miei cari, procuriamo di farci una idea esatta di questa infallibilità che Gesù Cristo prometteva e donava a Pietro. Perciocché vi hanno di coloro che non possono credere che, per quanto si tratti di un uomo posto alla testa di tutta la cristianità, non possa peccare come tutti gli altri uomini, non possono credere che bisogna aggiustar fede ad ogni parola, ad ogni giudizio che egli esprima, e su qualsiasi soggetto; non possono credere che Gesù Cristo abbia posto nella Chiesa un privilegio tirannico che inceppa la libertà dello spirito umano nelle sue ricerche scientifiche. Ma stolti ed ignoranti che sono! Se fosse questo l’infallibilità! … Ma è così forse? No, assolutamente. L’infallibilità non è affatto l’impeccabilità, perché Pietro in quanto è nomo potrà anch’egli peccare e dovrà perciò anch’egli gettarsi ai piedi di un altro ministro del Signore per implorare il perdono delle sue colpe. L’infallibilità non è legata ad ogni sua parola e ad ogni suo giudizio, che anch’egli come persona privata esprimendo il suo parere o sopra la storia, o sopra la scienza, o sopra la filosofia, o sopra la teologia potrà fallire. L’infallibilità non è un potere tirannico che inceppi la libertà della mente, è anzi un privilegio che l’affranca e la protegge dall’errore. L’infallibilità è quella prerogativa per cui Pietro, come Capo della Chiesa, in virtù della promessa di Gesù Cristo, giudicando e definendo dall’alto della sua suprema cattedra cose riguardanti la fede ed i costumi, non può cadere in errore, né quindi ingannare se stesso o gli altri. Ecco, o miei cari, che cosa è l’infallibilità. Ed una tale infallibilità non era del tutto necessaria alla Chiesa per raggiungere quaggiù il suo fine, la salvezza delle anime, mercé l’insegnamento della dottrina e della pura dottrina insegnata da Gesù Cristo? – Il divin Redentore adunque ha dato a S. Pietro quel potere supremo e quell’infallibile magistero, che come a Principe degli Apostoli e capo di tutta la Chiesa gli erano necessari. E S. Pietro riconobbe d’aver ricevuto tali prerogative, e senz’altro in lui le ammisero e le riverirono gli altri Apostoli e i primitivi fedeli. Difatti, appena salito al Cielo Gesù Cristo, Pietro nel cenacolo piglia il primo posto, parla pel primo e propone egli l’elezione di un altro apostolo in luogo di Giuda, il traditore. Nel dì della Pentecoste è egli che pel primo predica la fede di Gesù Cristo e la conferma coi miracoli. In seguito è ancor egli che pel primo avendo convertiti i Giudei, va pel primo a battezzare i Gentili. Così è egli, Pietro, che stabilisce i primi punti di disciplina e compone qualsiasi dissidio che insorga, tanto che tutta la Chiesa, pastori e fedeli a lui si affidano, lui seguono, lui obbediscono; e lo stesso grande S. Paolo, benché fatto apostolo direttamente da Gesù Cristo non è pago fino a che non ha fatto confermare da Pietro il suo ministero. – Se non che, o miei cari, quelle prerogative che Gesù Cristo donava a Pietro, erano a lui donate come a privato individuo, sicché colla sua morte avessero a perire? No assolutamente. E come poteva ancora sussistere la Chiesa, se per la morte di Pietro veniva a mancarle il fondamento? Come poteva rimanere unito e ordinato il gregge di Gesù Cristo, se per la morte di Pietro perdeva il pastore supremo? Come potevano i Vescovi e i fedeli essere ancora confermati nella fede se per la morte di Pietro veniva a mancare il Maestro infallibile di tutta la Chiesa? Il primato di Pietro adunque non è un privilegio personale, che abbia a perire colla sua morte; è un privilegio che raccoglierà ogni suo successore, un privilegio che rimarrà in tutti quelli che continueranno il suo pontificato sino alla consumazione dei secoli, ascendendo quella stessa cattedra romana, sulla quale per divina ispirazione egli andò ad assidersi e ad esercitare il suo supremo potere ed infallibile magistero; poiché Gesù Cristo colla durata perpetua della Chiesa volendo sino alla consumazione dei secoli trasmettere agli uomini il beneficio della sua redenzione, vuole altresì che sino alla consumazione dei secoli abbia a durare il primato di Pietro. Oh! consumi pur dunque il principe degli Apostoli in un sacrificio di amore il suo governo e magistero glorioso, cada pure ancor esso sotto i colpi di quella morte, che tutti miete implacabile senza eccezioni di sorta; non per questo andrà priva la Chiesa di un capo che la governi, di un dottore che l’ammaestri; le chiavi di S. Pietro passeranno nelle mani di S. Lino in quelle di San Cleto e per una trasmissione non. mai interrotta nel corso di diciannove secoli arriveranno alle mani del glorioso Pontefice regnante, dinnanzi al quale tutto il popolo cristiano prostrato, come dinnanzi a Pietro primo capo visibile della Chiesa, col cuore riboccante di amore e di entusiasmo ripeterà le parole di Cristo: Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebunt adversus eam. – Così da diciannove secoli ha sempre creduto la Chiesa, e così ha sempre riconosciuto col fatto. Tutti i Padri, tutti i Dottori, tutti i Santi, tutti i Concili furono sempre di accordo nel credere e proclamare altamente che il Papa, il pontefice romano è il vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro e il reggitore della Chiesa universale e il suo infallibile Maestro. Ed ogni qualvolta i reggitori e maestri delle Chiese particolari, i Vescovi, si trovarono nel dubbio o nell’incertezza, o nel timore, o nella controversia per riguardo a qualche pratica religiosa, o a qualche punto di dottrina, fu sempre al Papa che si rivolsero siccome all’autorità suprema e al supremo maestro, per essere da lui consigliati, illuminati, rassicurati, e fu sempre alla sua decisione, al suo giudizio, alla sua sentenza, che si affidarono come all’oracolo divino; tanto che quando S. Ambrogio asseriva che dove è Pietro, ossia il Papa, ivi è la Chiesa con tutti i suoi poteri e tutte le sue prerogative; quando S. Agostino tagliava netto sentenziando: Roma ha parlato, la causa è finita; quando S. Girolamo volgendosi a S. Damaso Papa del suo tempo dicevagli: Ohi non è con voi, è contro Gesù Cristo: chi con voi non raccoglie, disperde; non erano altro che la voce di tutta la Chiesa, la quale in tutti i secoli, e negli anteriori a loro e nei posteriori, ha sempre creduto che Pietro rimane e vive in quelli che continuano nel suo pontificato: Perseverat Petrus et vivit in sucessoribus suis. (S. LEO. Serm. II). Sia adunque benedetto Gesù Cristo, che a mantenere incrollabile l’edifizio della sua Chiesa ci ha dato il Papa; quel Papa, che nella persona di Pietro fu stabilito della Chiesa medesima il saldo fondamento, che nella persona di Pietro ricevette le chiavi del supremo potere, che nella persona di Pietro ricevette l’incarico di addottrinare nella fede e pastori e fedeli, che nella persona di Pietro fu dichiarato infallibile nel supremo esercizio del suo ministero, quel Papa insomma che nella persona di Pietro fu costituito Luogotenente di Dio nel governo spirituale del mondo.

II. — Ma l’empietà, o miei cari, riconoscendo al par di noi che il Papa è veramente la base della Chiesa Cattolica, il centro di sua unità e la sorgente della sua vita e delle sue grandezze, contro il Papa mosse ognora i suoi più furiosi assalti, follemente sperando di abbattere il suo trono, e col trono del Papa la Chiesa istessa. Ma qui per l’appunto è dove che il Cuore amoroso di Gesù Cristo ci dà un’altra prova luminosa del suo infinito amore per noi, nel conservare cioè il Papa in tutto il corso dei secoli contro tutti gli assalti che gli furon mossi. Gettate uno sguardo sulle pagine della storia. Nel corso di diciannove secoli le più nobili e potenti dinastie dei regnanti si cangiarono e morirono; ma la dinastia del Papa persistette e persiste tuttora invariabile ed immortale. – La Chiesa, questa figlia di Dio, vagiva ancora in fasce, e i tiranni di Roma si armarono per ispegnerla. La rabbia dei persecutori si scatena più furente contro di coloro che i cristiani riconoscono e venerano per loro augustissimi capi. S. Pietro da Nerone, ventinove altri Pontefici in seguito da altri imperatori son fatti morire e della morte più spietata; gli uni son crocifissi, gli altri sono lapidati, gli altri precipitati nei fiumi, gettati altri in pasto alle fiere. « E si è mai veduto, domanda qui l’illustre Bougaud, una dinastia che cominci con trenta condannati a morte? » E si è mai veduta, soggiungo io, una dinastia che abbia resistito per lo spazio di tre secoli ad un assalto così formidabile? Eppure vi ha resistito il Papato. All’indomani di quel giorno, in cui credevasi di avere spenta colla vita del Papa la cristiana religione, nell’oscurità delle catacombe sorgeva un Papa novello, nelle cui braccia gettavasi fidente la Chiesa perseguitata a sangue. [Da allora nulla è cambiato, come allora anche oggi gli empi usurpanti servi di lucifero, hanno creduto di abbattere la Chiesa impedendone il Papato, ma esattamente come allora, nella Chiesa –  tra l’oscurità delle catacombe, dell’eclissi prodotta dalla sinagoga di satana, e tra la persecuzione delle anime a forza di malefiche eresie e culti diabolici – è sorto il Papa novello a guidare la navicella di Pietro – n.d.r.]. Ed intanto, che più restava delle famiglie di Nerone, di Massimiano, di Diocleziano, di Giuliano l’Apostata? Colla ignominiosa lor morte avrebbesi voluto por fine, non che alla loro discendenza, alla loro stessa memoria. Dopo i persecutori vennero gli Eretici. Il loro assalto contro del Romano Pontefice fu tanto più accanito quanto più astuto e fraudolento. Nel quinto secolo dapprima, e dopo più di mille anni nel secolo decimo quinto e decimo sesto quegli uomini infernali suscitati dall’odio diabolico contro di quella pietra che Gesù Cristo poneva a base della sua Chiesa, lanciaronsi contro di lei con un furore frenetico. E tanto fu l’apparato della forza, tanti gli artifici dell’inganno, tanto il fervore delle passioni, che come dapprima il mondo cristiano pareva essersi staccato dal Romano Pontefice per gettarsi nelle braccia di Ario, così dappoi parve staccarsi dal Romano Pontefice per gettarsi nelle braccia di Lutero, di quel Lutero che nell’ebbrezza del suo immaginario trionfo osava gridare: Pestis eram vivus, mortuus tua mors ero, Papa. Ma gli eretici non furono più forti contro del Papa di quello che furono i tiranni, e mentre Ario e Lutero con tutta la loro sequela finivano di orribile morte la loro vita, il Papato vincitore dell’eresia restava fermo sul suo trono fatto rutilante di luce più viva. Dopo l’eresia e di conserva alla stessa, a combattere il Romano Pontefice sorgono i governanti della terra. Dapprima gli imperatori del basso impero di Costantinopoli, dappoi quelli di Germania con una prepotenza incredibile pretendere di adunare concilii, di dettar articoli di fede, di manipolar i preti a lor capriccio, di conferire essi stessi ai vescovi l’autorità e nel dare loro in mano il pastorale e l’anello, che giurino di dipendere da loro e di servire ciecamente alle loro voglie, e soprattutto che il Papa, il Vicario di Cristo, il successore di Pietro ceda a queste loro pretese, acconsenta alle lor matte proposte, soscriva alle erronee lor formole e ai loro patti iniqui. Oh chi sa dire a che dure prove, a che aspri cimenti, a che gravosi patimenti furono assoggettati i Pontefici nell’una e nell’altra epoca ? Nella prima un Giovanni è gettato in carcere dove soccombe per i cattivi trattamenti; un Agapito è mandato in esilio; un Silverio, spogliato de’ suoi abiti pontificali e raso il capo, vien deportato i n un’isola ov’è lasciato morir di fame; un Vigilio, preso pei capelli e per la barba, è strappato dall’altare che aveva abbracciato ed è fatto perire in esilio; un Martino è tolto da Roma e carico di catene è gettato a languire nel Chersoneso. Nell’altra epoca, sotto gli imperatori di Germania, altri fra i Pontefici sono assediati in Roma, altri rinchiusi in prigione e fatti morir di fame e di miseria, altri avvelenati, altri cacciati in bando dove muoiono esclamando: « Ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio. » E chi mai nell’imperversare di sì furiose tempeste non avrebbe creduto che il Romano Pontificato avesse a perire? Eppure no! Perirono l’un dopo l’altro tutti i suoi assalitori, trascinando nel sepolcro la lor discendenza, ma i Papi restarono ed alla morte dell’uno un altro sempre ne successe a governare, ad ammaestrare quella Chiesa, di cui Iddio lo eleggeva a capo. E ai tempi dei nostri avi e dei nostri padri l’empietà lasciava forse alcun che d’intentato contro dei Romani Pontefici? La rivoluzione, al cui apparecchio avevano lavorato orgogliosi filosofi, dopo aver bandita la croce al Cristianesimo, scannati a decine e a centinaia i Vescovi più venerandi e i sacerdoti più eletti, abbattute nelle chiese le sacre immagini e surrogatavi in lor vece la sozzura vivente della Dea Ragione, finì per gettare le mani sulla veneranda canizie del sesto Pio, strapparlo violentemente dalla sede di Pietro e trascinarlo nella terra d’esilio ed ivi con serie infinita di vessazioni e di dolori procurargli la morte. Più tardi un soldato felice insuperbito dei suoi trionfi, rinnovava le stesse sevizie su Pio settimo, gettandolo a gemere diviso dai suoi più cari in penosissima cattività, dove oltre al privarlo del pane necessario al sostentamento, negavagli persino il conforto della penna. Oh mio Dio! Tutto è pianto per la Sposa di Cristo; più non regna che la ragion del più forte, e quanti non hanno fede credono che a Savona debba alfin morire l’ultimo dei Papi. Ma viva Dio! Un bel giorno, mentre il rombo delle empie e sconsigliate guerre odesi ancora echeggiare per tutta Europa, gli eserciti dell’irrequieto conquistatore sono rotti e dispersi, lo snaturato tiranno vinto e soggiogato è mandato a languire sopra un arido scoglio dell’oceano, mentre il mite e travagliato Pontefice liberato dalla sua prigione e come portato sugli omeri di tutto il popolo cristiano ritorna trionfante nella santa città. Ma l’empietà, o miei cari, si ostina a non profittare delle toccate sconfitte ed anche ai dì nostri ritenta la prova e si getta rabbiosa a cozzare col Papato. Né si è ristretta a dimostrazioni di lingua e di penna. Armi si sono impugnate, atroci violenze si sono commesse, e il Capo Venerabile della Chiesa. Io qui mi arresto…. I fatti ai quali accenno sono accaduti ed accadono tuttora davanti ai vostri occhi, né avete bisogno che io ve li esponga. Vi chiederò piuttosto: Vi ha da temerne? …. Potrà temere colui che non crede o non conosce l’amore di Gesù Cristo per la sua Chiesa. Ma chi getta lo sguardo su quel Cuore tutto i n fiamme, chi porge ascolto ai suoi rinfrancanti detti: Ecce vobiscum sum usque ad consummationem sæculi; allo sforzo degli empi sorride, perché si assicura che, come il Cuore amoroso di Cristo non abbandonò mai il Papa, nel corso dei passati secoli, così non l’abbandonerà neppure nei secoli venturi e conservandolo in mezzo ad ogni sorta di assalti, lo circonderà di universale amore e gli preparerà uno splendido trionfo. Viva, viva adunque il Cuore Santissimo di Gesù che ci ha dato il Papa e lo conserva con tanta cura, ed affetto!

III. — Ma altra prova di amore, non meno splendida delle antecedenti, ci ha dato il Cuore Sacratissimo di Gesù nel glorificare il Papa. Conoscendo Egli a perfezione il cuore umano, che tanto facilmente sì lascia attrarre dalle cose sensibili, volle eziandio per la via delle cose sensibili trarre gli uomini all’amore ed alla venerazione del Papa; epperò non pago di conferirgli un’autorità spirituale, in tutto il corso dei secoli, lo circonda ognora di fulgidissima gloria ispirandogli ed aiutandolo a compiere opere, che niun’altra dinastia del mondo potrà mai vantare sì numerose e sì perfette. Ed in vero, o miei cari, a chi la gloria di atterrare i delubri del paganesimo, di raddolcire i costumi, di spezzare le catene della schiavitù, di far risplendere il sole della cristiana civiltà? Al papa! O santi pontefici de’ tre primi secoli, io mi prostro riverente dinanzi alla vostra veneranda persona. La vostra vita non passò che nell’oscurità delle catacombe, ma dal fondo di quei sotterranei il suono della vostra voce uscì per tutta la terra a portare dovunque la serenità e la pace! — A chi la gloria di evangelizzare il inondo, di spargere dappertutto il regno di Cristo, di inalberare per ogni dove lo stendardo della croce, di radunare i popoli in un sol cuore, in un’anima sola? Al Papa! Io vi saluto, o Gregorio Magno, o Nicolò I, o Zaccaria, o Gregorio II e III, o Giovanni XIII, o Gregorio IV; è per opera vostra, pel vostro soffio che sono successivamente evangelizzate l’Italia non solo, ma le Gallie, la Spagna, la gran Bretagna, la Svezia, l’Olanda, la Germania, la Polonia, la Russia, le immense contrade del nord. È per opera vostra, pel vostro soffio, o Sommi Pontefici, che a tutti i popoli del settentrione e del mezzodì, dell’oriente e dell’occidente, dell’antico e del nuovo mondo la fede rifulge, il vero Dio si adora, Cristo è amato. — A chi la gloria di liberarci dalla dominazione dei barbari e dei mussulmani, d’impedire che ricadessimo nella primiera barbarie? Al Papa! O magno Leone! io vi veggo, rivestito del vostro papale ammanto, in trepido, farvi innanzi a chi si noma flagello di Dio, ammansar quella belva e allontanarla d’Italia. Io vi veggo, o S. Leone IV, respingere ad Ostia colle vostre milizie i Saraceni, che vi sbarcarono già sicuri della vittoria. Io vi veggo, o S. Leone IX, combattere, a Civitella per l’indipendenza delle terre italiane e cadendo prigioniero restar tuttavia vincitore. Io veggo voi, o grande Ildebrando, farvi l’energico difensore dell’Italia contro l’influenza straniera ed umiliare a Canossa la prepotenza di un imperatore Germanico. Io veggo voi, o Alessandro III, farvi capo di una lega per allontanare dalle nostre terre il Barbarossa e felicemente riuscirvi, e voi, o Gregorio IX, tentare risolutamente la stessa cosa contro Federico II. Io vi veggo o grande Pio V, destare l’Europa col suono della vostra voce, radunarne i principi, benedire i loro eserciti, spedirli contro le falangi musulmane, e colle vostre preghiere ottener loro la più splendida vittoria. — Ancora. A chi la gloria di vedere suoi figliuoli gli stessi re ed imperatori del mondo, di essere il consigliere nelle loro imprese, l’arbitro nelle loro questioni, il pacificatore nelle loro contese? A chi la gloria di intimare ai prepotenti il dovere e la giustizia, di resistere ai loro capricci, di difendere l’innocenza ed il diritto contro il loro despotismo? Al Papa. Siete voi, o Innocenzo III, che obbligate Filippo Augusto di Francia a ripigliare la sua legittima sposa; voi, o Pio VI, e Pio VII, che forti per coscienza resistete alla volontà degli iniqui; voi, o Gregorio XVI, e Pio IX, che agli imperatori delle Russie ordinate di trattar meglio i Cattolici, — E finalmente, a chi la gloria d’aver protetto le lettere, le scienze, le arti? A chi?. Al Papa, sempre al Papa. È il Papa che nel buio del medio evo, apre scuole a spargervi la luce delle lettere e delle scienze: il Papa, che favorisce e promuove le università, il Papa che raccoglie biblioteche, il Papa che si circonda di dotti, il Papa che chiama ed accoglie onorevolmente nella sua Roma i più celebri artisti. È Giulio II, è Paolo III, èSisto V, è Leone X, èPio VI, èPio VII, è  Pio IX, è il glorioso Leone XIII, la cui splendida munificenza verso le scienze, le lettere e le arti va del pari colla sua altissima sapienza. E dinanzi a tanto splendore, dovrebbesi ancora far conto di quel po’ di nebbia che parvero gettare sul Papato alcuni pochi Pontefici? Io non nego che vi sia stato fra di loro qualcuno di ua vita non dicevole alla sublime dignità. Ma che per questo? Se come persone private fallirono, come Pontefici vennero forse meno al loro gravissimo ufficio? Lo stesso Alessandro VI, di cui tanti scrittori farisaici inorridiscono, dato pure che l a sua vita privata non sia stata sempre buona, non compié in qualità di Pontefice delle grandi cose? Non fu egli, come scrive lo stesso Boterò, che allo scoprimento di tante terre fatte dagli Spagnuoli e dai Portoghesi si adoperò presso i loro re, perché in quelle terre si attendesse anzitutto alla conversione dei popoli? Non fu egli che chiamato arbitro da questi due sovrani nella questione dei confini dell’America pose fine ai loro litigi, con la famosa linea di partizione da lui tracciata sulla carta geografica e che accolta di buon animo prova manifestamente che come Papa era avuto in altissima stima dai principi e dai popoli? E per non dire più di altro, non attese forse come Papa col massimo zelo al bene della Chiesa? Chi vuole adunque giudicare dirittamente dei Papi, distingua bene ciò che in essi vi è di umano e di persona privata, ed allora vedrà, se non vuole esser cieco, che come non vi ha dinastia di una potenza intima più grande, così non vi ha dinastia alcuna di una gloria più splendida e più pura. D’altronde, pur riconoscendo che sulla cattedra di Pietro insieme col supremo potere e col magistero infallibile si è assiso qualche Papa malvagio, il vero Cristiano non rinnoverà mai il delitto di Cham, ma chiudendo gli occhi come Sem e Jafet, si farà invece a coprire le colpe di questi padri col manto della pietà filiale. Benedizione adunque, benedizione eterna al Cuore di Gesù, che non solo ci ha dato il Papa e lo conserva con tanta cura ed affetto, ma lo circonda ancora di tanta gloria a radicare ognor più nei cuori nostri la venerazione e l’amore per lui, a costringere alla sua ammirazione tutti gli uomini del mondo. Ma se il Cuore Sacratissimo di Gesù nel darci il Papa, nel conservarlo e glorificarlo ci ha fatto il più segnalato benefizio e ci ha data una gran prova di amore, nostro dovere per conseguenza è quello di corrispondere a tanto benefizio colla più sincera gratitudine. E il modo migliore di manifestare al Cuore di Gesù la nostra gratitudine in questo caso è quello per l’appunto di obbedire, rispettare ed amare il Papa. Allor quando nel battesimo di Cristo lo Spirito Santo erasi posato sopra il suo capo nella sembianza di colomba, dalle altezze dei cieli era pur scesa la voce dell’Eterno Padre dicendo: « Questo è il mio Figliuolo prediletto, nel quale ho riposto le mie compiacenze; lui ascoltate.» Ebbene, o miei cari, qui avviene un fatto somigliante. Il Cuore Santissimo di Gesù posandosi sulla persona del Papa rivolge a tutti i suoi figli la sua voce e grida: Questi è il mio Vicario: ascoltatelo, rispettatelo, amatelo. Chi ascolta lui, ascolta me: chi disprezza lui, disprezza ine; chi non ama il Papa, non ama neppure me stesso. E vi sarà tra di noi chi si rifiuti a questo comando di Gesù ? Ahimè! se io getto lo sguardo nel mondo, vedo pur troppo di coloro che non ascoltano il Papa, che non lo rispettano, che l’odiano anzi e sino al furore; che vorrebbero, se loro fosse possibile, schiantarne l’ultimo vestigio dalla faccia della terra, e in fondo in fondo non per altra ragione, se non perché il Papa a nome di Dio impone loro una legge, ch’essi non vogliono praticare; perché il Papa svela le loro nequizie e le loro ipocrisie, condanna la loro superbia e la loro corruzione; perché il Papa mette in guardia il mondo dalle loro diaboliche arti; perché infine il Papa pel libero esercizio di quella autorità che ha ricevuto da Dio reclama quel temporale dominio, che la Divina Provvidenza gli ha a tal fine accordato. Sì, per questo, per questo solo tante bocche impure si aprono a bestemmiarlo, tante penne sataniche schizzano veleno a maledirlo, tante sozze caricature s’inventano a coprirlo di fango. Oh infelice Pontefice! Curvo sotto il peso di una responsabilità così grande, qual è quella che emana dalla sua autorità, egli deve per soprappiù gemere sotto il peso della moderna empietà e corruzione, che gli muove una guerra cotanto aspra. Ah deh! per quella gratitudine che ci lega al Cuore Sacratissimo di Gesù, che i suoi gemiti trovino un’eco pietosa nel cuore de’ suoi veri figli. Che noi almeno col rispetto e coll’obbedienza alla sua autorità, in tutto quello che egli ci prescrive per il vero nostro bene ci studiamo di porgere un po’ di conforto alle sue afflizioni. Che da noi almeno non mai si sparli del Papa, non mai si censurino i suoi pensamenti e le sue operazioni, non mai anche solo per rispetto umano si sorrida a chi lo deride: che da noi, da noi almeno si porti sempre alta la bandiera su cui sta scritto: Cattolici e Cattolici col Papa. E quando il Papa nella piena del suo dolore a noi si volge additandoci il cuore che gli sanguina, sempre abbia da noi tale una risposta… Miei cari amici! Allorché nel secolo passato, una grande imperatrice d’Austria, Maria Teresa, viste invase dalle potenze straniere le sue terre, confidata nell’amore dei suoi popoli, ancor sofferente di fresca malattia, presentossi alla dieta e svelate le sue pene chiese protezione per se e pel suo bambino, udì tosto con entusiasmo ripetere: Moriamur prò rege nostro Maria Theresia! Ealle parole s’aggiunsero i fatti: gli abili alle armi si fecero soldati e formossene un numeroso esercito: non mai dalla fertile Ungheria uscirono tante provvigioni: non mai con la violenza si riscossero tanti tributi, quanti allora spontanei, e l’ardore non fe’ mai sì belle prove. Ecco la risposta che dobbiamo dar noi all’appello del Papa: balzare risoluti al cospetto delle sue sofferenze, gettarci ginocchioni a’ suoi piedi, protestando di amarlo e di difenderlo; brandire coraggiosi le armi dell’azione e della preghiera, cooperare per quanto sta in noi e colle parole, e cogli scritti e colla stampa e coll’obolo della nostra carità, a mantenergli la gloria e lo splendore che gli si addice; con gemiti incessanti supplicare il Cuore di Gesù che lo renda libero, che lo conservi, lo vivifichi; lo faccia beato in terra e non lo lasci cadere nelle mani de’ suoi nemici; e piuttosto che vili cedere quest’armi in faccia ai nemici del Papa: Moriamur prò Papa nostro Leone! siamo pronti a soffrir qualsiasi iattura, anche la morte istessa se .le circostante lo richiedessero. Morir per il Papa saria lo stesso che morir per Cristo: perché il Papa è il Vicario di Cristo: e di miglior gratitudine non potremmo ripagare il Cuore di Cristo, né miglior testimonianza potremmo rendere alla sua bontà e misericordia nell’averci dato il Papa. E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che con l’istituzione del Papa avete dato alla vostra Chiesa il più saldo fondamento, fate che adesso noi siamo mai sempre uniti di mente e di cuore, sicché coll’amore, col rispetto, coll’obbedienza al Papa, Capo visibile della vostra Chiesa, noi siamo pur sempre muti a Voi, che ne siete il Capo invisibile, adesso e nell’eternità. [Oggi più che mai rinnoviamo questo grido di gioia e di fedeltà: Moriamur prò Papa nostro Gregorio!

DISCORSO XXVIII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua Chiesa.

Nella grand’opera della creazione del mondo cosa senza dubbio assai degna di ammirazione si è che Iddio avendo creato gli animali maschio e femmina per mezzo della stessa parola e nel medesimo tempo, non fece così riguardo alla creazione dell’uomo e della donna. Perciocché prima creò l’uomo e poscia addormentatolo in un sonno misterioso, trattagli una costa dal suo fianco ne formò la donna. E quale poté mai essere la ragione di una creazione cotanto singolare? S. Tommaso, quel gran genio che si è certi sempre d’incontrare sulla via, quando si ricerca la ragione di qualche mistero del Cristianesimo, ha detto che l’uomo fu creato prima della donna e la donna fu tratta dall’uomo, perché fosse conservata la dignità dell’uomo coll’essere egli il principio dell’universo. In secondo luogo, che la donna non venne creata dalla testa dell’uomo, perché si conosca che essa non deve essere al di sopra dell’uomo né fargli da padrona; che neppure fu creata dai piedi dell’uomo, perché si sappia non dover essere dall’uomo disprezzata come una misera schiava, ma che venne tratta dal fianco dell’uomo, vale a dire da vicino al suo cuore, perché apparisse manifesto che l’uomo deve amarla, siccome l’oggetto che più gli appartiene, siccome una parte la più intima di se stesso. – Ma oltre a queste ragioni di ordine storico e naturale, lo stesso dottore, seguendo S. Paolo e S. Agostino, asserisce esservene un’altra di ordine profetico e sacramentale. Il primo Adamo era la figura del secondo Adamo, che è Gesù Cristo. Epperò il suo sonno appiè di un albero e la formazione dal suo fianco della donna doveva essere una stupenda figura del sonno di morte, a cui sarebbesi dato Gesù Cristo sull’albero della croce e della formazione della vera Eva, la Chiesa, che sarebbe uscita dal suo Sacratissimo Cuore trafitto. Sì, o miei cari, come Eva fu tratta dal fianco di Adamo, così la Chiesa, mistica sposa, ma pur vera sposa di Gesù Cristo, nacque dall’apertura del suo divin Cuore: Ex Corde scisso Ecclesia Christo iugata nascitur. Il che vuol dire in altri termini che la Chiesa fu anche essa per eccellenza un’opera del Cuore di Gesù Cristo, una delle più grandi prove del suo amore per noi. Ed invero. Gesù Cristo volendo applicare davvero agli uomini di ogni tempo e di ogni luogo l’efficacia della redenzione, affine di operare sempre e dappertutto la loro salute, ha propriamente nella sua carità infinita creata la sua Chiesa. Ed ecco la bella e grande verità che considereremo oggi.

I . — Gesù Cristo era venuto in questa terra per compiere la grand’opera della redenzione degli uomini e realmente l’aveva compiuta, soprattutto con la sua amarissima passione e morte di croce. Per i meriti infiniti che Egli vi aveva acquistato, Egli aveva guadagnato altresì infinite grazie per gli uomini e il diritto a ciascuno di essi di poter conseguire l’eterna beatitudine. Ma perché tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo potessero godere di sì gran benefizio era assolutamente necessario che la grazia guadagnata da Gesù Cristo fosse di mano in mano a .ciascuno degli uomini in particolare applicata. Inoltre Gesù Cristo venuto pure su questa terra per illuminare ogni uomo sulle verità, che si devono conoscere e credere e sulle opere che si hanno a praticare per salvarsi, aveva predicato la sua celeste dottrina pel corso di tre anni nei paesi della Giudea. Ma poiché la luce di questa dottrina doveva spandersi sopra gli uomini di tutti i secoli e di tutte le nazioni, bisognava perciò che anche dopo il ritorno di Gesù Cristo al suo Eterno Padre, fosse predicata a tutte le creature. Gesù Cristo ancora aveva istituito per gli uomini i Sacramenti come altrettanti fonti visibili della sua grazia invisibile, ma perché questi sacramenti ridondassero di vantaggio a tutti gli uomini per sempre, si conveniva che a tutti gli uomini per sempre potessero essere amministrati. E finalmente durante la sua vita Gesù Cristo era stato il buon Pastore che conosce le sue pecorelle e che le guida per i pascoli sani della verità e della giustizia, era necessario che questa guida visibile non venisse mai a mancare alle altre pecorelle che sarebbero entrate a far parte del suo gregge, tanto più che il numero sarebbe immensamente cresciuto. Che cosa fece pertanto nostro Signor Gesù Cristo a conseguire tutti questi fini, perché realmente tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi in conformità alla sua volontà vera, avessero ad essere salvi ed a pervenire al conoscimento della verità. Già fin dai tempi antichi i profeti avevano annunziato che a tal fine Gesù Cristo avrebbe creato una società visibile a guisa di un regno potente che si sarebbe esteso sino agli estremi confini della terra; (DAN. II, 44) a guisa di una casa del Signore, che sta sulla vetta dei monti e si solleva sopra tutti i colli ed alla quale sarebbero accorsi in folla tutti i popoli; (Is. II, 2) a guisa di una città santa, nella quale sarebbero entrate le moltitudini delle nazioni ed i popoli gagliardi. (Is. LX) Lo stesso Gesù Cristo poi aveva promesso durante la sua predicazione che per la salvezza universale degli uomini avrebbe edificato la sua chiesa: Edificabo ecelesiam meam, e parlando di essa l’aveva paragonata ad un gregge e ad un ovile, in cui le agnelle si raccolgono sotto la guida di uno stesso pastore; ad un campo, in cui spuntano le buone e le cattive sementi; ad un banchetto, a cui sono chiamate persone di ogni stato; ad una rete gettata nel gran mare dell’umanità e che piglia ogni specie di pesci; ad un granellino di senapa che si converte poscia in un albero immenso, nel quale vanno a ripararsi ogni sorta di uccelli; ad un regno di Dio aperto a tutti i popoli della terra. Inoltre parlando ancora di quest’opera, ch’ei voleva stabilire, dichiarò l’autorità e la missione che intendeva di affidarle, giacché diceva: « Se il tuo fratello ha commesso qualche mancamento contro di te…. dillo alla Chiesa. E se non ascolta la Chiesa, abbilo in conto di gentile o di pubblicano. » E poscia aggiungeva: «Tutto quello che voi legherete sulla terra, sarà legato in cielo, e ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. » E in conformità a queste sue divine promesse ed asserzioni che cosa fa egli! Raccoglie d’intorno a sé alcuni Apostoli, li istruisce, comunica ai medesimi la sua autorità e la sua potenza; dapprima li manda nelle città della Giudea; domanda conto della loro missione, sceglie e stabilisce il loro capo, aggiunge loro alcuni cooperatori, con tenera sollecitudine forma il gruppo tipo e modello della immensa società, nella quale si espanderà, gruppo che chiama al suo principio: pusillus grex, piccolo gregge. Ed ecco la fondazione della Chiesa di Gesù Cristo, Chiesa che, come ognuno facilmente comprende, non è già di ordine interiore ed invisibile, come volle il vecchio protestantesimo, ma di ordine esterno, visibile, visibilissimo. Visibile nei suoi capi e nelle sue membra, cioè nel successore di S. Pietro e degli altri Apostoli e nei’ fedeli che ad essa appartengono, non altrimenti che siano visibili i superiori e gl’inferiori di ogni altra terrena società; visibile nella predicazione e nella professione della dottrina di Gesù Cristo, essendo che secondo il suo comando, la lieta novella della salute deve annunziarsi e sempre si annunzia con la predicazione a tutte le creature di tutti i luoghi e, di tutti i tempi che abbracciandola la professano non solo nell’interno del loro cuore, ma eziandio con le loro parole ed opere esteriori; visibile nel sacrifizio che Gesù Cisto volle perpetuare in questa sua Chiesa e che si celebra con un culto e con riti esteriori; visibile nei Sacramenti che C. Cristo le affidò da amministrare e che sempre si amministrano in modo al tutto sensibile. Porre in dubbio pertanto la visibilità della Chiesa è lo stesso che contraddire non solo alle parole esplicite di Gesù Cristo, ma eziandio alla testimonianza irrefragabile dei sensi e della sana ragione. Per certo sotto altro aspetto la Chiesa è pur invisibile. Come l’uomo è visibile nel suo corpo ed è invisibile nella sua anima, così la Chiesa è invisibile al presente nel suo capo supremo G. Cristo, che è in cielo; invisibile nella verità che illumina le menti; invisibile nella grazia che santifica le anime; invisibile nella vita divina che circola nel gran corpo degli eletti; ma per tutto il resto, torno a dire, visibile, visibilissima. E come potrebbe essere diversamente? Se G. Cristo, capo, al presente invisibile, della Chiesa, venuto su questa terra per la redenzione nostra, l’ha operata tutta in modo visibile del suo corpo; ecco lo Spirito Santo che mandato da G. Cristo, perfeziona l’opera sua; ecco la Chiesa ripiena di vita e di forza. O Chiesa di Gesù Cristo! creazione ammirabile del suo Cuore divino! Benché così piccola come oggi apparisci dentro di quel cenacolo, esci fuori ardimentosa, getta lo sguardo sopra il mondo, e riconoscendo che a te è destinato sfidando i pericoli vola alla sua conquista. Se Cesare nella tempesta diceva al nocchiero che tremava: « Che temi? Porti Cesare! » con più santa alterigia e maggior sicurezza di fronte ad ogni ostacolo tu potrai dire a te stessa sino alla fine del mondo: « IO non temo, perché porto con me lo Spirito Santo, l’anima della mia vita. » No, non meravigliamoci che Gesù Cristo abbia fondata e perfezionata l’opera sua con quella piccola schiera di Apostoli e di discepoli, che stavano raccolti nel cenacolo il dì della Pentecoste! Gesù Cristo senza dubbio nella sua potenza infinita, avrebbe potuto dare fin da principio all’opera sua delle proporzioni più vaste, immensamente più vaste. Ma Gesù Cristo voleva che non ostante gli sforzi che uomini funesti avrebbero fatto per mettere in dubbio l’opera sua, ciò non potesse mai realmente accadere a chi seriamente si fosse fatto a considerare da una parte gli umili suoi inizi e dall’altra gli sfolgoreggianti suoi successi; da una parte dodici uomini rozzi, poveri, senza dottrina e senza umane aderenze, e dall’altra il mondo intero, dall’oriente all’occidente, da bòrea a mezzodì da loro conquistato nel nome di Gesù Cristo. Perciocché, o miei cari, dai tempi nostri calando giù passo passo per mezzo della storia sino ai tempi apostolici noi veniamo a riconoscere che la grande società dei credenti, che ricopre ora la faccia della terra, non è altro che lo svolgimento di quella piccola schiera radunata un dì nel cenacolo già costituente la Chiesa di Gesù Cristo ed avvivata dallo Spirito Santo. Così adunque Gesù Cristo per ottenere la salvezza degli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi ha fondata e perfezionata la sua Chiesa, quella Chiesa che oggi come al suo principio, è la società di tutti i fedeli i quali professano tutti la stessa fede di Gesù Cristo, partecipano tutti agli stessi Sacramenti e sono posti tutti sotto l’obbedienza dei Vescovi successori degli Apostoli e specialmente del Romano Pontefice successore di S. Pietro e vicario visibile di G. Cristo invisibile

II. — Se non che, o miei cari, qual è la Chiesa di Gesù Cristo? Ecco la dimanda che siamo costretti di farci, perciocché, nessuno di voi lo ignora, vi sono molte società religiose che pretendono di essere nate dal Cuore del divin Crocifisso e di continuare nel mondo l’opera della sua redenzione. Ma viva Dio! anche qui il Divin Redentore non ci ha lasciati nel pericolo dell’errore, anche qui ci ha manifestata la sua carità. Di quella guisa che Iddio nella creazione del mondo vi ha scolpito per tal modo le sue perfezioni, che per quanto si faccia, non torna possibile disconoscere che il mondo è opera sua, così Gesù Cristo fondando la sua Chiesa l’ha segnata di tali note caratteristiche, per mezzo delle quali non è possibile disconoscere quale sia l’unica e vera Chiesa da Lui fondata. Queste note sono quattro: l’unità, la santità, la cattolicità, l’apostolicità. – Ed anzi tutto Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una. Nella sublime e commovente preghiera, che rivolgeva al suo Padre celeste prima di separarsi da’ suoi cari, gli diceva: « Padre Santo, Io ti raccomando coloro che mi hai affidato, conservali affinché siano una cosa sola come lo siamo noi. Io non ti prego per essi soltanto, ma per tutti coloro che devono credere in me sulla loro parola… affinché tutti siano una cosa sola in noi… e tutti siano consumati nell’unità. » (Io. XVII, 11, 20, 21, 23) Né Gesù Cristo si è contentato di domandare al suo Padre quest’unità per la sua Chiesa, ma la volle propriamente stabilire, giacché Egli diceva ancora: « Io ho altre pecorelle che non sono di questo ovile, fa di mestieri che quelle pure raccolga. Esse udranno la mia voce e non vi sarà più che un solo ovile ed un solo pastore. » (Io. X, 16) La Chiesa adunque di G. Cristo deve primieramente essere una, vale a dire una nella fede e nell’osservanza di tutta la dottrina, che Gesù Cristo ha insegnato; una nella partecipazione di tutti i Sacramenti che Gesù Cristo ha istituiti; una nella unione e obbedienza a quel Capo supremo che in essa Gesù Cristo ha stabilito, conforme ha dichiarato in quella sua formola, così acconcia e così eloquente, l’Apostolo Paolo: « Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio padre di tutti. » (Eph. IV, 5, 6). – In secondo luogo Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa portasse l’impronta della sua santità; perciocché dice l’Apostolo: « Gesù Cristo nell’amor suo per la Chiesa si è dato per lei affine di renderla gloriosa, senza macchia e senza ruga, santa ed immacolata. » (Eph. V, 25, 27) Sì, la vera Chiesa deve essere santa come santo è il suo Capo invisibile, santa nella dottrina che guida alla santità, santa nei mezzi capaci di operare la santificazione, santa in molti dei membri che le appartengono. – In terzo luogo Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse Cattolica, cioè universale, abbracciando i fedeli di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le condizioni e di tutte le età. Ed è ciò che avevano predetto i profeti, quando cantarono di Gesù Cristo « che avrebbe avuto in eredità tutte le genti, che tutti i re della terra lo avrebbero adorato, che tutte le genti lo avrebbero servito, che egli avrebbe dominato da un mare ad un altro, da un fiume sino agli estremi confini della terra. » È ciò ancora che Egli espresse chiaramente ai suoi Apostoli, quando disse loro: « Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura. » E finalmente Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse apostolica, vale a dire credesse ed insegnasse tutto ciò che gli Apostoli hanno creduto ed insegnato e fosse guidata e governata dai loro successori. Perciocché dopo di aver eletto gli Apostoli e dopo aver insegnato loro la sua dottrina, è a loro stessi che impose il precetto di annunziarla dicendo: « Come il Padre ha mandato me, così Io mando voi: chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. » E perché inoltre s’intendesse come il mandato, che loro affidava, doveva passare ai loro successori aggiunse: « Ecco che Io sono con voi sino alla consumazione dei secoli. » (MATT. XXVIII, 21) Unità, santità, cattolicità, apostolicità, ecco adunque le quattro note caratteristiche, di cui Gesù Cristo volle segnata la sua unica e vera Chiesa. Ed ora sarà egli difficile il riconoscerla, non ostante la molteplicità delle società religiose che vi hanno nel mondo, e non ostante ancora che non poche tra di esse si arroghino l’onore di essere proprio quella? No, ciò non è difficile, è anzi facilissimo. L’unità non si trova presso i popoli idolatri, che per quanto siano affini nell’adorare le creature in onta al Creatore, sono tuttavia fra loro divisi in una infima varietà di culti turpissimi, crudeli, superstiziosi ed assurdi. L’unità non si trova presso gli Ebrei, che per quanto sembrino uniti nel credere tutti a Mosè e alla sua legge, sono tuttavia divisi in tante scuole, quante sono le sinagoghe, e ciascuno intende e pratica quella legge a suo modo. L’unità non si trova presso i Maomettani, che per quanto dicano di seguir tutti Maometto ed il suo Corano, sono tuttavia scissi ancor essi in tante sette, quanti sono i capi politici cui obbediscono. L’unità non si trova neppure presso gli Scismatici e gli Eretici, che per quanto si vantino di credere tutti a Gesù Cristo e al suo Vangelo, discordano tuttavia tra di loro nella fede, quante sono nazioni, quanti sono paesi, quante sono famiglie, quanti sono individui, e più ancora quante sono le voglie di uno stesso individuo, che oggi gli piace di credere ad una cosa e domani ad un’altra. Che dire poi della santità? Ed è possibile che vi sia la santità in quelle società religiose, le cui dottrine spingono la vita pratica a conseguenze immorali? Che vi sia la santità, dove il vizio è Dio? dove il furore dei carnali diletti è il premio promesso alla propria credenza? dove s’insegna che basta credere e che poi nulla importa di peccare, e che quanto più si è scellerati ed infami, tanto più Dio largisce la sua grazia? O poveri protestanti, voi soprattutto, che pretendete di essere nella Chiesa di Gesù Cristo, dove avete la santità della dottrina voi, che nella vostra togliendo il libero arbitrio fate dell’uomo una bestia, e rendete Iddio autore dei peccati, che l’uomo commette? Dove avete la santità dei mezzi capaci ad operare la santificazione voi, che avete ripudiato la massima parte dei Sacramenti istituiti da Gesù Cristo, e conservandone qualcuno l’avete ridotto ad una ridicola cena? Dove avete la santità dei membri che vi appartengono? Sono forse i vostri santi un Lutero, monaco apostata, vanitoso, ghiottone, libidinoso? un Calvino prete abortito, pieno di orgoglio e di crudeltà? un Arrigo VIII, re dissoluto e sanguinario? una Elisabetta d’Inghilterra mostro di libidine e di barbarie? E se son questi i Santi della vostra setta, quali sono le opere, che manifestano la loro santità? quali i miracoli che la provano? Ah! che in fatto di miracoli essi non riuscirono neppure, secondo la frase caustica e sprezzante di Erasmo, a guarire un cavallo zoppo! E poiché a queste società religiose manca l’unità e la santità, si può dire forse che siano cattoliche, universali? Senza parlare delle società degli infedeli, le quali troppo chiaro apparisce non essere universali, le società eretiche e scismatiche non sono che ristrette a pochi paesi, dove gli czar pontefici e i patriarchi, avviliti sotto il giogo dei sultani e dei pascià, lavorano di mani e piedi per ritardare l’inevitabile sfacelo, a cui l’errore è destinato. E i protestanti che pur vorrebbero riuscire a questo di ottenere una specie di universalità, inviano perciò i loro ministri carichi di bibbie nei lontani paesi, ma questi ministri, che accompagnati dalla moglie nel loro apostolato non mirano che a far la loro fortuna, a che sono essi riusciti? Essi medesimi lo dovettero confessare: i loro sforzi per diffondere il pane della vita (come essi chiamano la parola della Bibbia da loro falsificata) non ostante alcuni successi ottenuti qua e là, riuscirono perfettamente inutili. E la ragione è chiara: né le sette dei protestanti, né le altre sette eretiche e scismatiche sono apostoliche. Dal momento che con l’eresia e con lo scisma rifiutarono la dottrina degli apostoli e si staccarono dalla catena dei loro legittimi successori, cessarono affatto di possedere l’apostolicità: e se pure vanno pel mondo a predicare una dottrina, oltreché non predicano la dottrina creduta ed insegnata dagli Apostoli, non vi vanno perché mandati da Gesù Cristo, ma perché essi medesimi si sono arrogata questa missione. Qual è adunque, o miei cari, la vera ed unica Chiesa di Gesù Cristo, la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, se non la Chiesa nostra, alla quale abbiamo il singolar bene di appartenere, quella Chiesa che chiamasi anche Romana, perché il suo capo visibile è il Vescovo di Roma, e Roma perciò è il centro della medesima? Sì, è in questa Chiesa che risplende anzi tutto il carattere dell’unità. Per quanto siano diversi per origine, per costumi, per colore, per linguaggio, i popoli che vi appartengono, essi professano tutti lo stesso Credo; essi ricevono tutti e da per tutto gli stessi Sacramenti; essi obbediscono tutti allo stesso governo e si tengono in unione con lo stesso Capo, giacché i fedeli obbediscono ai loro pastori, i pastori ai vescovi, i vescovi al Papa, e tutti col Papa, Pater Patrum, padre dei padri, padre comune di tutti i credenti, si tengono uniti, formando un solo ovile, sotto la scorta di un solo pastore. È in questa Chiesa che risplende in secondo luogo il carattere della santità, giacché è in questa Chiesa, il cui Capo invisibile è tre volte Santo, che vi ha una dottrina che invita, anima e guida non solo a salvarsi, ma a rendersi santi e perfetti nella pratica eroica di ogni più eletta virtù. È in questa Chiesa che abbondano i mezzi per operare la propria santificazione, giacché è in essa che vi hanno i Sacramenti adatti ad ogni età e ad ogni condizione dell’uomo, per mezzo dei quali la grazia di Gesù Cristo discende copiosa sulle anime a sanare le loro infermità e a comunicar loro la forza e il vigore della vita spirituale, e soprattutto il Sacramento del Corpo e del Sangue istesso del Redentore, che viene a trasfondere nei fedeli la sua stessa vita e per conseguenza la sua stessa santità. È in questa Chiesa che si contano a centinaia, a migliaia, a milioni i santi: i santi apostoli, che sfidando ogni pericolo ed ogni disagio, andarono nei paesi più lontani e più selvaggi per illuminare coloro che giacevano nelle tenebre e nelle ombre di morte; i santi martiri, che sacrificarono generosamente la loro vita, fra i più atroci tormenti per professare sino all’ultimo respiro la fede di Gesù Cristo; i santi Pontefici che portarono sul più alto trono del mondo l’umiltà più profonda e governarono la Chiesa con mano salda e sapiente; i santi re e le sante regine, che tra gli splendori della reggia seppero vivere della vita più mortificata, e recare il vero bene ai loro popoli; i santi anacoreti, che popolarono i deserti e vi menarono la vita più penitente; i santi confessori, che anche in mezzo al mondo rinnegando se stessi e prendendo la croce tennero dietro fedelissimamente a Gesù Cristo; i santi e le sante vergini, che rinunziarono alle nozze terrene per unirsi indissolubilmente allo sposo Celeste e per ispandere sulle umane miserie le tenerezze di una casta maternità; i santi di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione che non cessarono e non cesseranno mai sino alla fine del mondo. È in questa Chiesa, che in terzo luogo risplende il carattere della Cattolicità, giacché è essa sola che ha ricevuto da Gesù Cristo il diritto di espandersi da per tutto, essa sola che ne ha l’attitudine e la forza, essa sola che realmente si espande sino ai confini del mondo. Da quel momento che Gesù Cristo ebbe intimato agli Apostoli : « Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo a tutte le creature; » e gli Apostoli rivestiti di una virtù dall’alto si lanciarono come folgori a portare da per tutto la buona novella, da quel momento l’apostolato non è ristato più mai nelle sue conquiste, immensamente più grandi che non quelle di Cesare e di Alessandro Magno. Per suo mezzo si rende cristiano dapprima il romano impero, e dappoi si rendono tali i barbari. E quando a Vasco di Gama e a Cristoforo Colombo si dischiudono dei nuovi mondi, sono legioni di missionari che si precipitano sulle loro tracce, e l’India, la Cina, il Giappone sono evangelizzati. L’America non ostante i suoi immensi laghi, i suoi immensi fiumi, le sue immense foreste, i suoi immensi pampas è percorsa dalla parola di Dio, sino alla Patagonia ed alla Terra del Fuoco. L’Oceania, questo mondo di isolette sparpagliate nel mare, riceve essa pure la dottrina che ha convertito le più grandi terre. E così sarà sino alla fine del mondo, fino a che non v i sarà più che una tribù di selvaggi da convertire. O secolo del progresso! non pago più del vapore sostituisci l’elettrico, e per suo mezzo fa strisciare i carri sulle vie ferrate e fa volare le navi sul liquido elemento pronte e leggere come il lampo; le tue nuove invenzioni, come le grandi strade per cui erano passate le legioni romane, non serviranno a miglior uso che a rendere sempre più universale la Chiesa di Gesù Cristo. – E finalmente è in questa Chiesa che risplende il carattere della apostolicità, perché è in questa Chiesa che si crede e si insegna, si crederà e si insegnerà mai sempre quello che hanno creduto ed insegnato gli Apostoli; è in questa Chiesa che con una catena non mai interrotta dal Pontefice gloriosamente regnante si va sino a B. Pietro, dai Vescovi che la governano si arriva sino agli altri Apostoli, sicché il Pontefice e i Vescovi, che in essa vi sono e vi saranno sino alla fine del mondo, degli Apostoli sono e saranno sempre i veri e soli successori. Noi fortunati pertanto, che apparteniamo a questa Chiesa, la sola vera che vi sia nel mondo, perché la sola contrassegnata di quelle note caratteristiche, che Gesù Cristo vi ha voluto imprimere, nel suo amore infinito per noi, per far conoscere l’opera sua. Ma infine Gesù Cristo, volendo davvero che il frutto della sua Redenzione potesse essere applicato sino alle ultime generazioni, diede alla sua Chiesa tale una stabilità nell’esistenza e nella dottrina che non avesse a venir meno, né a mutar per poco giammai. Egli disse chiaro: « Edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa giammai: starò con lei sino alla consumazione dei secoli. » Ed egli che ha così parlato fa ben onore alla sua parola. Ed in vero il tempo che tutto distrugge, anche le più potenti istituzioni, anche gl’imperi più giganteschi, anche le monarchie più salde, non ha prodotto né vecchiezza, né infermità, né decadenza nella Chiesa: la sua giovinezza assai meglio che quella dell’aquila, si rinnovella ogni giorno. Più rabbiose che il tempo si sono scagliate contro di lei le potenze della terra congiurate a’ suoi danni. Tutto ciò che di più crudele, di più vile, di più malizioso si poté inventare dagli uomini, tutto fu messo alla prova per batterle i fianchi e farla smuovere dalla sua fermezza: seduzioni, insulti, calunnie, tradimenti, persecuzioni, prigionie, esili, mannaie, roghi, belve feroci… Ma essa ah! come lo scoglio, che in mezzo all’oceano, sicuro di sua stabilità par che miri con occhio di compassione le onde furenti, che nella loro insensatezza lanciandosi contro di esso si credono di sopraffarlo, e poi disfatte dalla sua durezza gli cadono morte ai piedi; così la Chiesa affidata alla parola di Gesù Cristo stette mai sempre sicura di Sua esistenza, e mirò invece con sentimento di compassione caderle ai fianchi l’un dopo l’altro i suoi mortali nemici. Quando Giuliano l’apostata tribolava la Chiesa con quella persecuzione atroce e volpina che porta il suo nome, uno de’ suoi famigliari, il retore Libanio, imbattutosi in un Cristiano con tutto il sarcasmo, di chi vede atterrato il suo nemico gli domandava : « Che cosa fa il vostro Galileo, il figlio del falegname? » E il Cristiano a lui: « Il figlio del falegname fa una bara. » E non andò molto che la Chiesa vide cader in quella bara il suo persecutore. Quello che vedeva allora è quello che già aveva visto per tre secoli, è quello che vede e vedrà sino alla fine del mondo: Gesù Cristo far delle bare e chiudervi dentro l’an dopo l’altro i nemici di lei. No, la Chiesa non si muove nella stabilità di sua esistenza. Gesù Cristo l’ha giurato, e lì è il gran segreto. – E come non si muove nella stabilità di sua esistenza, così non si muove, né si muoverà mai nella stabilità di sua dottrina. In tutti i secoli i suoi figli snaturati si sono recati da lei per domandarle mutazioni. Hanno bussato alla sua porta, ed ella si è affacciata: Che volete da me? — Che tu ti muti. — Io non muto mai. — Muta almeno il tuo Cristo. — Impossibile. — Muta la sua persona. — Impossibile. — Muta le sue nature. — Impossibile. — Muta la sua carne. — Impossibile. — Muta le sue volontà. — Impossibile. — Muta la sua grazia. — Impossibile. — Muta qualche suo Sacramento. — Impossibile. — Muta l’autorità del suo Vicario. — Impossibile. — Muta l’unità del Matrimonio. —- Impossibile. — Muta… — No, io non muto. — Ma pure, tutto muta, tutto è mutato nel mondo: son mutati i tempi, son mutati i governi, son mutate le scienze, è mutata la filosofia, mutata la storia, mutata la medicina. Ma io non muto. — Ebbene, peggio per te. Noi ci distaccheremo dal tuo fianco. E noi… sai chi siamo noi? Noi siamo l’Oriente. Noi siamo la Russia, Noi siamo la Germania. Noi siamo l’Inghilterra. Noi siamo la Svizzera. — Non importa foste ben anche la metà del mondo, staccatevi pure. Ma intendetelo bene: più che voi vi distacchiate da me, sono Io che vi recido come rami secchi ad essere gettati nel fuoco. Così, o miei cari, la Chiesa Cattolica per la perpetua assistenza che Gesù Cristo le ha promesso e che realmente le usa, non ha mutato mai di un ette il suo Credo, neppure allora che le si domandava questo solo ette, e sebbene madre tenerissima dei suoi figli e sposa la più affezionata a quello sposo, che non le chiede altro che figli, col cuore insanguinato ha patito piuttosto l’inesprimibile dolore di rigettare ella medesima dal suo seno dei popoli interi, anziché patire la rottura dell’integrità della fede. E Gesù Cristo ha consolato allora la sua sposa additandole altri popoli, a cui avrebbe dato la vita. – Ma io so bene che qui i nemici della Chiesa intenti sempre, ma indarno, al tentativo di coglierla in contraddizione, si levano su e gridano: « Come? Immutabile la dottrina della Chiesa? Non è vero! E i nuovi dogmi che ella introduce a credere non sono essi una mutazione? Miei cari, che cosa s’intende per nuovo dogma? forse una verità nuova non mai creduta prima? una verità che contrarii o indebolisca le verità già prima esistenti? Niente affatto: ciò non è possibile. Quelle verità che talora la Chiesa, in apparenza di nuovi dogmi, solennemente definisce doversi credere di fede, non sono che verità antiche come tutte le altre, come tutte le altre contenute nelle Sacre Scritture e nella Tradizione apostolica, come tutte le altre rivelate da Dio, come tutte le altre già credute ed insegnate almeno implicitamente, come tutte le altre appartenenti all’integro corpo della dottrina cristiana; ma verità che furono per così dire lasciate giacere nell’ombra fino a che non essendo dubitate o contraddette non corsero il pericolo di non essere credute dai fedeli, e che allora che corsero questo pericolo, dalla Chiesa sommamente sollecita della salute de’ suoi figli, furono tostamente tratte fuori alla luce e col suo solenne definire essere ancor esse verità rivelate da Dio, epperò da doversi credere come tutte le altre, fatte risplendere come il sole in pien meriggio. La Chiesa adunque, per quanto possa parere a taluno che faccia talora dei mutamenti con l’introdurre nuovi dogmi a credere, non muta nulla giammai; essa non fa altro che svolgere sempre meglio il tesoro preziosissimo di quella verità immutabile che Gesù Cristo le ha affidato, non fa altro che mettere in più bella mostra quelle gemme fulgidissime ed infrangibili che circondano la sua fronte. O Chiesa di Gesù Cristo! come esalti per ogni lato il tuo sposo, il tuo sovrano, il tuo fattore! Come canti per ogni verso la sua gloria divina e il suo amore infinito per noi! Fortunato colui che a te appartiene, che in te si affida, che te ama, che te ascolta, che da te si nutre, che in te vive. Egli vive tra le braccia di una madre, che solo alla morte lo staccherà dal suo seno per gettarlo con gaudio tra le braccia di Dio.

III. — Ma dopo tutto ciò è facile di comprendere da qualsiasi uomo che non abbia perduto il senno, come non possa assolutamente essere libero e indifferente l’entrare o no in questa Chiesa, l’appartenervi o il non appartenervi. Ed è perciò appunto che lo stesso Gesù Cristo ha detto: « Se alcuno non ascolta la Chiesa, abbilo per gentile e pubblicano, » vale a dire chi non istà sotto la mia Chiesa, è un infedele che non potrà salvarsi. È perciò che disse ancora agli Apostoli: Chi non crederà a voi ed ai vostri legittimi successori sarà condannato. È perciò che l’apostolo S. Paolo insegnandoci che Gesù Cristo è il capo invisibile della Chiesa: Christus caput ecclesiæ, e che noi siamo le membra del suo corpo: Membra sumus corporis eius, aggiunge che chi si separa dalla Chiesa per seguire l’errore per suo proprio giudizio è condannato. È perciò che S. Cipriano facendo eco alla voce di Cristo e degli Apostoli asserisce che come non sfuggirono al diluvio quelli che non ripararono nell’arca di Noè, così non sfuggiranno all’eterna perdizione coloro che sono fuori della Chiesa; (De unit. Eccl, VI) che S. Agostino dice chiaro che non può pervenire alla vita chi non ha per capo Gesù Cristo e che nessuno può avere per capo Gesù Cristo se non si trova nel suo corpo, ch’è la Chiesa; (De. unit. Eccl, XIX) che S. Gregorio Magno dichiara che la Santa Chiesa crede e proclama che nessuno può essere salvo fuori del suo grembo, che chi è fuori del suo grembo non può ottenere salute. (Moral. XIV, 2) Egli è certo adunque che la salute eterna è nella Chiesa di Gesù Cristo soltanto e che fuori di essa, non vi può essere. Ma se allora è così come si potrà ancora esaltare cotanto la bontà del Cuore di Gesù, perocché se è vero che durante venti secoli di Cristianesimo la Chiesa di Gesù Cristo ha portato e dilatato mirabilmente le sue tende da una parte all’altra del mondo, non è vero altresì che vi sono stati e vi sono tuttora un numero immenso di uomini, i quali non appartennero e non appartengono a lei? Non vi sono in numero immenso degli eretici, dei protestanti, dei scismatici che si sono staccati da lei e da lei vivono separati? Non vi sono in numero immenso dei pagani, dei feticisti, degli uomini ancor selvaggi che ne sono del tutto lontani? Non vi sono insomma in numero immenso infedeli d’ogni maniera? E dunque tutti costoro per non appartenere alla Chiesa andranno tutti perduti? Certamente si può e si deve ammettere che tra di costoro vi saranno non pochi, i quali avranno potuto e potranno conoscere questa Chiesa, e pur conoscendola avranno ed hanno di loro deliberata volontà rifiutato di entrarvi e di farne parte; costoro ben si comprende che siano colpevoli e meritino di essere dannati; ma gli altri? tutti gli altri, i quali non le appartennero, non vi appartengono per nessuna loro colpa? Dovranno anch’essi inesorabilmente perire? Miei cari, non spaventiamoci e non cadiamo troppo facilmente nell’errore, in cui cadono coloro i quali udendo questa sentenza che fuori della Chiesa non v’è salute, pigliano ben anche argomento per negare la carità di Gesù Cristo, la bontà di Dio. Questa sentenza senza alcun dubbio è esatta, esattissima, né deve essere per nulla modificata. Tuttavia fa d’uopo di ben intendere di qual maniera si sia propriamente fuori della Chiesa. E per ben intender ciò non bisogna ignorare che nella Chiesa non vi è soltanto il corpo, ma vi ha altresì l’anima: il corpo è la società esterna, costituita dall’insieme di tutti i fedeli che sono visibilmente uniti nella professione della fede cristiana cattolica, nella partecipazione dei santi sacramenti che nella Chiesa cattolica si amministrano e nella sommissione alla gerarchia nella stessa Chiesa esistente. L’anima invece è la società invisibile di tutti i giusti che vi sono su tutta la faccia della terra, ai quali Gesù Cristo applicò e va applicando gli effetti della sua redenzione, non solo di quelli a cui li applicò e li applica per i mezzi ordinarli della parola divina e dei Sacramenti, la cui dispensazione affidò alla sua Chiesa, ma eziando di coloro a cui li applicò e li va applicando per mezzi straordinarii, a cui Egli nella sua piena libertà e potenza ricorre. Giacché è verissimo che Dio vuol salvi tutti gli uomini e che tutti vengano al conoscimento della verità: Deus vult omnes homines salvos fieri et ad agnitionem veritatis venire; (I Tim, II, 4) è verissimo che Gesù Cristo ha offerto se stesso per il riscatto di tutti gli uomini: dedit redemptionem semetipsum prò omnibus; (I Tim. II, 6) è verissimo che tutti sono morti per il peccato, ma che Gesù Cristo è morto per tutti: Omnes mortui sunt et prò omnibus mortuus est Christus. (II Cor. v, 14, 15). Epperò è verissimo altresì che Gesù Cristo volendo di volontà vera, e non già platonica soltanto, applicare a tutti gli uomini gli effetti salutari della sua redenzione non lasciò, non lascia e non lascerà mai di fare non solo con i mezzi ordinarli posti nella sua Chiesa, ma eziando con mezzi straordinarii tutto ciò a cui lo induce la sua bontà infinita, perché tutti gli uomini per quanto è da lui realmente si salvino. Tanto più poi perché la perdizione degli uomini importa una pena eterna. Perciocché se tale è la pena a cui andranno soggetti coloro che non si salvano, sarà possibile che Gesù Cristo, Egli Salvatore di tutti gli uomini, Bedemptor omnium, vi condanni qualcuno, anche un solo che non l’abbia interamente meritata? Ah! ciò è impossibile. Bisogna che nell’inferno ogni dannato, assolutamente ogni dannato, debba dire: Se mi trovo qui per tutta un’eternità è mia colpa, interamente mia colpa. Se non fosse così, se il dannato potesse in qualche modo anche per la menoma ragione attribuire a Dio la sua dannazione, l’inferno sarebbe un’ingiustizia e Dio non sarebbe più Dio, vale a dire l’Essere perfettamente giusto e buono. Se adunque Dio, Gesù Cristo Uomo-Dio, condanna taluni fra gli uomini all’eterna dannazione, ciò avviene propriamente, perché Egli non ne può fare a meno, ma vi è indotto assolutamente dalla sua stessa perfezione. Ciò vuol dire altresì che Gesù Cristo prima di condannare taluno all’inferno lo giudica e solo allora che lo trova assolutamente meritevole di condanna, solo allora ne pronuncia contro la sentenza. Ed in vero, se negli stessi tribunali di questo mondo i giudici quando si tratta di condannare taluno alla pena di morte od all’ergastolo in vita vanno così a rilento, affine di non condannare a pena sì grave chi non ne fosse del tutto meritevole, che cosa non farà Gesù Cristo? Ma appunto perciò, perché Gesù Cristo possa giustamente condannare taluno alla pena eterna dell’inferno è assolutamente necessario che Egli possa dire a costui: Io ho fatto di tutto per salvarti, e se invece ora sei. meritevole di dannazione eterna ed io te la infliggo, è proprio perché tu, propriamente tu, interamente tu, l’hai meritata ed Io per non venir meno a me stesso debbo infliggertela. Insomma il concetto della dannazione eterna e della giustizia di Dio esigono che Gesù Cristo, Uomo-Dio, non solo sia giusto, ma sia buono, anzi sia talmente amante dell’uomo da avere con lui esaurito tutti i mezzi per salvarlo. Ed ecco perché taluni tra gli stessi Cristiani Cattolici, pur appartenendo al corpo della Chiesa morendo senza appartenere all’anima sua, se ne vanno eternamente dannati. Che cosa non ha fatto, che cosa non va facendo Gesù Cristo per ciascuno di costoro? Non parliamo di quei Cristiani, ai qualiGesù fa sentire ancora tante volte la sua divina parola, di quei Cristiani che tante volte invita alle sue chiese ed a’ suoi Sacramenti, di quei Cristiani, cui mantiene in fondo al cuore la fede, di quei Cristiani che circonda sempre di un ambiente al tutto religioso e che nondimeno datisi in preda a qualche rea passione si abbandonano del continuo alla colpa. Ma parlando anche solo di quegli uomini che hanno interamente rigettata la fede del loro battesimo e si sono dati ad una vita la più empia e libertina, forsechè Iddio di tratto in tratto non li scuote, non li turba, non li commuove? E che cosa sono quelle lagrime della madre, quei gemiti della sposa, quei dolci lamenti d’una cara figliola, quei, crudi rimorsi, quelle improvvise tristezze, quegli amari disinganni, quelle smanie insoffrìbili, che li assalgono, se non colpi di grazia di quel Gesù che vuole salvarli? E quasi ciò non bastasse, non si fa ancora vicino a loro, come dice S. Caterina da Siena, in quell’estremo momento dell’agonia in cui sospesi tra la vita e la morte non sembrano più appartenere alla terra, per tentare una prova estrema, contentandosi anche di un solo sospiro di pentimento, di amore per guadagnarli a sé? Ah! per certo costoro nell’eterna dannazione non potranno giammai incolpare Gesù Cristo e non riconoscere che usò verso di essi un’estrema misericordia. Ma se è vero perciò che vanno dannati taluni tra gli stessi Cristiani Cattolici, non è men vero che Gesù Cristo per chiamare tutti gli uomini a far parte del numero dei suoi redenti, anche quelli che non sono Cristiani Cattolici, adoperi eziandio dei mezzi straordinari, oltre a quelli ordinarli della parola di Dio e dei SS. Sacramenti che ha posto nella sua Chiesa cattolica: non è men vero che senza appartenere al corpo della Chiesa Cattolica v i sono altresì di coloro, i quali appartengono all’anima sua; non è men vero che anche fuori del corpo della Chiesa vi sono, in numero stragrande, di coloro che si salvano, numero, le cui vere proporzioni sono un mistero che Dio solo conosce, ma del quale tuttavia noi possiamo sollevare alquanto il lembo per ammirare sempre più la bontà infinita del Cuore .di Gesù Cristo, E anzi tutto è bensì vero che vi sono in gran numero non solo tra gli acattolici, ma tra gli stessi cattolici dei bambini morti senza battesimo. Costoro senza dubbio non sono ammessi a vedere mai Iddio a faccia a faccia e a godere la felicità di questa contemplazione. Ma ignorando essi il gran bene che hanno perduto, non soffrono per questa privazione e Iddio lascia loro godere in pace di tutti i beni della natura. È adunque solo in questo senso che questi bambini si dicono dannati, in quanto che restano privi per sempre della visione beatifica, alla quale Iddio ha destinato l’uomo sollevandolo allo stato soprannaturale. Ma i bambini, figli degli stessi eretici e scismatici, i quali sono fuori del corpo della Chiesa, rigenerati nel Battesimo e colti dalla morte prima di avere potuto aderire alla ribellione ed all’errore dei loro padri, essi sono certamente salvi, perché furono colti allora che essi appartenevano realmente all’anima della Chiesa. Oltre a questi bambini quanti e quanti altri adulti tra gli eretici e i scismatici vivono con rettitudine e semplicità alla loro credenza, ritenendo in modo invincibile di trovarsi nella verità e nella via del cielo? Costoro, credendo e facendo tutto ciò che la loro buona fede insegna, santificati per mezzo di quei sacramenti che l’errore ha conservato e per le grazie che Dio si compiace di largir loro, non si salveranno essi ancora? E fra gli stessi infedeli, che non hanno conosciuto, che non conoscono per nulla Gesù Cristo, non vi sono di coloro che obbedendo alla legge di giustizia e di rettitudine impressa nella coscienza umana, facendo il bene e fuggendo il male, camminano per la strada della salute? E poiché per salvarsi è sempre necessario il battesimo, avendo detto Gesù Cristo che nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto non potest introire in regnum Dei, che se alcuno non sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo non potrà entrare nel regno di Dio, forsechè Iddio, dice S. Tommaso, non penserà a mandar loro chi li battezzi, come già mandò un giorno l’apostolo Pietro al centurione Cornelio? E quando pure non mandasse loro questo apostolo, affine di salvarli, non li battezzerebbe per mezzo del battesimo di desiderio, che è pure sufficiente alla salute, o per lo meno non lo farebbe loro desiderare implicitamente nel desiderio di tutto ciò che è necessario alla salute istessa? Certamente noi non sappiamo di qual maniera Gesù Cristo vada effettuando queste misteriose giustificazioni,, ma egli è certo, secondo l’insegnamento della teologia cattolica, che esse esistono, e che forse sono in numero immensamente più grande di quello che noi immaginiamo. Vi sono degli uomini, dice S. Agostino, che giacciono nell’eresia e nella superstizione dei gentili, ma anche là il Signore conosce i suoi; poiché nell’ineffabile prescienza di Dio, molti che sembrano fuori della Chiesa, vi sono entro, e quelli che sembrano dentro, ne sono fuori. Egli è di queste anime le quali appartengono alla Chiesa in modo invisibile ed occulto che si forma il giardino chiuso, la fonte suggellata, la sorgente di acqua viva, il paradiso pieno di frutti, di cui parlano le sacre scritture. Ecco perché l’Apostolo S. Giovanni, nelle sue estasi profetiche, vide salva in cielo una turba immensa, che nessuno poteva contare, d’ogni nazione, d’ogni tribù, d’ogni popolo, d’ogni lingua, e intese milioni e milioni di voci che cantavano le lodi di Gesù Cristo, Agnello divino stato immolato per la salute del mondo. È adunque verissimo che come tra coloro istessi che appartengono al corpo della Chiesa vi sono pur troppo di quelli che si dannano e interamente per loro colpa, avendo fatto Gesù Cristo per ciascuno di essi quanto era da sé per salvarli, così è verissimo che molti e molti vi sono che, anche fuori del corpo della Chiesa, ma appartenenti all’anima sua si salvano; è verissimo che anche a loro Gesù Cristo nella sua carità infinita per tutti gli uomini apporta i frutti salutari della sua redenzione. [Il Carmagnola, con questo lungo giro di parole, presenta confusamente un aspetto dottrinale che la Chiesa Cattolica ha precisato con chiarezza nel suo Magistero, fino all’esplicita e chiara lettera Enciclica di S. S.  Pio XII, la Mistyci corporis, e nella risposta che il Santo Ufficio ha dato all’Arcivescovo di Boston (D. S. n. 3868-72) nel 1949, ove è definito in modo infallibile la differenza tra: – 1) coloro che appartengono al Corpo mistico di Cristo (cioè la Chiesa Cattolica) e perciò sono sulla via della salvezza – tra questi coloro che pur volendolo e desiderandolo, purché battezzati almeno di desiderio, conoscenti e praticanti la dottrina cattolica, non lo possono materialmente – e: 2) tra coloro che non appartenendole, come gli eretici, gli scismatici e gli apostati, per i quali non sia possibile invocare l’ignoranza invincibile, sono perciò avviati all’eterna dannazione – n. d. r.]. – Ma intanto, o miei cari, noi che pubblicamente apparteniamo alla società religiosa esterna e visibile fondata da Gesù Cristo, ringraziamolo d’averci dato la parte migliore; perciocché praticamente i beni che vi sono nel Corpo della Chiesa mercé la predicazione della divina parola, la grazia dei Sacramenti e il governo della gerarchia divinamente istituita, sono così grandi che l’essere stati ammessi, senza alcun nostro merito speciale, a farne parte è un beneficio inestimabile, essendoché per tal guisa noi possiamo più facilmente essere certi di appartenere all’anima che ravviva questo corpo. Ma non accontentiamoci, no, di ringraziare di sì gran favore il Cuore di Gesù Cristo, corrispondiamovi ancora debitamente col menare una vita che ci conceda di essere realmente uniti all’anima della Chiesa, e se alcuno di noi per sventura a cagione del peccato privato della divina grazia conoscesse così di non appartenervi, più si affretti quanto è possibile a riacquistare il gran bene che ha perduto, per poter dire con tutta verità: Io appartengo a Gesù Cristo, io sono una pecorella del suo ovile, un abitatore della sua città, un cittadino del suo regno. E voi intanto, o Cuore Sacratissimo di Gesù, fate che noi siamo sempre della Chiesa amorosissimi figli. Ma deh! o Pastore divino, rivolgete altresì uno sguardo di compassione a quelle tante altre pecorelle che sono lontane ancora dal vostro ovile. Con la vostra voce divina chiamatele efficacemente; coll’abbondanza delle vostre grazie fortemente pungetele e spronatele a voler entrar ancor esse a far parte del vostro gregge; sicché si adempia la vostra parola, e non vi sia più che un solo ovile sotto la guida di un solo pastore.

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (12)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (12)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO IV

Diritto all’eredità celeste, conseguenza della nostra adozione. — Qual è questa eredità?

I.

La grazia, che ci rende figli di Dio, ci costituisce anche suoi eredi: Si filii et hæredes. Questo è il ragionamento dell’Apostolo, questa è la conseguenza necessaria della nostra adozione. Non esiste una vera adozione senza il diritto del figlio adottivo ad ereditare il patrimonio dell’adottante. Di solito, è vero, che è solo in assenza di un figlio legittimo e solo alla morte del testatore, che un estraneo è chiamato a ricevere la sua successione come figlio adottivo. Ma Dio non muore, e possiede già un Figlio unigenito che è il suo legatario universale (Hebr. I, 2), un Figlio al quale ha dato tutto (Matth. XI, 27), al quale tutto appartiene in cielo e sulla terra (Giov. XVI, 15). Ma, osserva sant’Agostino,  « la carità di questo erede è così grande che ha voluto avere dei coeredi. Quale uomo avido vorrebbe avere dei coeredi? Se per caso ce ne fosse uno, egli dovrebbe condividere l’eredità e si troverebbe meno ricco che se la tenesse interamente per sé. Nulla di simile in rapporto all’eredità di cui siamo coeredi di Cristo; essa non diminuisce con la moltitudine dei coeredi, non diminuisce in proporzione al numero degli eredi; ma è considerevole tanto per molti, come per un piccolo numero, per ognuno in particolare come per tutti insieme. » (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Per i beni spirituali non è come per i beni materiali. Questi ultimi, non potendo appartenere interamente a più persone contemporaneamente, il loro possessore non può, senza spogliarsene, chiamare qualcuno a condividere con lui la sua eredità. I beni spirituali, invece, possono essere posseduti contemporaneamente da più persone. Il medico si spoglia delle conoscenze acquisite, quando le comunica alla folla di discepoli che si affollano intorno alla sua cattedra? Cristo può dunque, senza timore di impoverirsi e senza alcun danno per il Padre celeste, sempre vivente, chiamarci a raccogliere con Lui l’eredità del nostro Padre comune. (S. Th., III, q. XXIII, a. 1, ad 3.). – Qual è questa eredità? Secondo la saggia osservazione del Dottore Angelico, l’eredità è ciò che costituisce la propria fortuna o la ricchezza propria: Hoc autem dicitur hæreditas alicujus, ex quo ipse est dives. (S. Th., III, q. XXIII, a. 1). Non basta, quindi, per meritare giustamente il nome di erede, ricevere un’eredità, un dono anche importante, ma è soprattutto, la maggior parte, se non tutto il patrimonio del testatore, cioè ciò che sostanzialmente costituisce la sua ricchezza, che si è chiamati a raccogliere. (S. Th., in Rom., VIII, 17, lect. 3.). Ma la ricchezza di Dio non consiste, come quella dell’uomo, in beni esteriori: oro, argento, prodotti della terra, campi, edifici. Tutto questo gli appartiene chiaramente, perché non c’è nulla nell’universo creato che sfugga alla sua sovranità: la terra, in tutta la sua estensione, è sua: Domini est terra e plenitudo ejus (Ps. XXIII, 1); il mare e tutto ciò che contiene è sua proprietà, perché è colui che ha fatto tutto: Ipsius est mare et ipse fecit illud (Ps XCIV, 5). Ma tutti questi beni materiali, così ardentemente ambiti dalla creatura, perché trova in essi i mezzi per provvedere ai suoi bisogni, per soddisfare i suoi piaceri, per soddisfare la sua indigenza, non possono essere considerati come fortuna del Creatore. Egli li concede quindi indistintamente ai buoni e ai cattivi, spesso anzi i peccatori sembrano essere favoriti in questo senso. Per quanto riguarda i suoi beni, propriamente detti, questi sono prerogativa esclusiva dei figli adottivi, e si può applicare qui la parola della Scrittura: « Scaccia la schiava ed il figlio suo; poiché il figlio della serva non sarà erede con quello della donna libera: Ejice ancillam e filium ejus: non enim hæresit erit filius ancillæ cum filio liberæ » (Gal. IV, 30). I beni di Dio, la sua ricchezza, è Lui stesso, è la sua stessa perfezione; essendo l’infinito Bene, principio ed esemplare di ogni bene, Egli è pienamente sufficiente a se stesso e trova nel possesso e nel godimento di se stesso la sua perfetta felicità: In se et ex se beatissimus (Ex Conc. Vatic, Const. Dei Filius (cap. I.). Ma, nella sua infinita bontà, Egli non ha voluto essere solo a godere della sua felicità; e, senza nessun altro interesse, se non quello di fare dei felici, si è degnato di chiamare le creature ragionevoli a condividere questi beni divini che superano assolutamente tutto ciò che l’intelligenza umana e persino l’angelica, sia capace di concepire; poiché « l’occhio dell’uomo non ha visto, né l’orecchio mai udito, e il suo cuore non ha neppure potuto sentire ciò che Dio riserva a coloro che lo amano » (I Cor. II, 9). Chiamandoci all’ordine soprannaturale, Egli ci offre e ci conferisce i mezzi per raggiungere questa beatitudine; e adottandoci per mezzo della grazia, ci dà un vero diritto ad essa. – Così, la visione della bellezza infinita, l’amore e il godimento del sovrano Bene, la partecipazione della felicità stessa di Dio, costituiscono il patrimonio preziosissimo, il patrimonio incomparabile che è destinato ai suoi figli adottivi (S. Th. III, q. XXIII, a. 1). Come non cantare, col Salmista « L’eredità che mi è toccata è veramente magnifica; la mia parte è splendida ed inebriante è la parte che mi è arrivata:  Funes ceciderunt mihi in præclaris, etenim hæreditas mea præclara est mihi.  Il Signore stesso deve essere la mia parte: Dominus pars hæreditatis meæ, e calicis mei. anche il mio cuore è nella gioia, e la mia lingua trema; la mia stessa carne riposerà in pace, perché non mi lascerete nel sepolcro, e non lascerete il vostro santo la preda perpetua della corruzione. Mi hai fatto conoscere i modi di vita, mi riempirai di gioia mostrandomi il tuo volto e le mie delizie non avranno fine” (Ps. XV, 5-11), « … imperocché qual cosa havvi mai per me nel cielo, e che volli io da te sopra la terra? La carne mia e il mio cuore vien meno, o Dio del mio cuore, e mia porzione, o Dio, nell’eternità » (Ps. LXXII, 25-26).

II.

L’Apostolo  san Paolo aveva dunque ragione a parlarci « delle ricchezze di gloria che costituiscono l’eredità dei santi! Divitiæ gloriæ hæreditatis ejus in sanctis » (Ephes. I, 18). Le ricchezze della nostra eredità! Chi potrebbe concepirne l’estensione, poiché sono proprio i beni di Dio che ci sono riservati? Credo videre bona Domini in terra viventium (Ps. XXVI, 13). Mosè, al quale il Signore una volta parlava come amico, una volta formulò la seguente preghiera in uno slancio di fiducia: « Mio Dio, se ho trovato grazia alla vostra presenza, mostratemi il vostro volto, perché io vi conosca: Si ego inveni gratiam in conspectu tuo, ostende mihi faciem tuam, ut sciam te.…. Mostratemi la vostra gloria: Ostende mihi mihi gloriam tuam » E il Signore, rispondendo in parte alla sua richiesta, gli rispose: « Ti mostrerò ogni bene: Ego ostendam omne bonum tibi. Tuttavia, non sarai in grado di contemplare il mio volto, perché nessuno può vedermi in questa vita mortale. Tuttavia tu starai sulla roccia, e quando la mia gloria passerà, ti coprirò con la mia mano fino a quando non sia passato. Allora toglierò la mia mano e tu mi vedrai da dietro, ma quanto alla mia faccia, tu non potrai vederla » (Es. XXXIII, 12-23). – Ebbene, quel Dio che Mosè desiderava ardentemente poter contemplare, quel Dio naturalmente invisibile, « che abita in una luce inaccessibile, che nessuno ha mai visto, che nessuno può vedere senza la luce della gloria » (I Tim. VI, 16), deve un giorno mostrarsi allo scoperto; perché è in questa conoscenza, in questa visione, che consiste la vita eterna promessa ai nostri meriti: Hæc est vita æterna: ut cognoscant te solum Deum verum et quem misisti Jesum Christum (Giov. XVII, 3). Un giorno gli eletti vedranno l’Eterno Re dei secoli in tutta lo splendore della sua gloria e della sua maestà: Regem in decora il suo videbunt (Is. XXXIII, 17); lo vedranno, non più solo per riflessione, nello specchio delle creature, per speculum; non più attraverso un velo e nell’oscurità della fede, in ænigmate; non più da dietro come Mosè, ma faccia a faccia, facie ad faciem, direttamente, immediatamente, così com’è, sicut est, come vede e conosce se stesso, cognoscam sicut et cognitus sum (I Cor. XIII, 12); essi contempleranno eternamente e con sguardo sempre più avido, pur sempre soddisfatti di questa infinita bellezza, fonte fertile, ideale supremo perfetto di ogni bellezza, di ogni bontà, di ogni perfezione. E poiché Dio è un bene infinito, il Bene universale, bonum universale (S. Th., Ia IIæ, q. II, a. 8), secondo l’espressione di san Tommaso, il Bene di tutti i beni, bonum omnis boni (S. Aug., de Trin., 1. VIII, cap. 3), l’oceano, la pienezza del bene, facendosi vedere ai beati, Egli mostrerà loro veramente ogni bene: Ego ostendam omne bonum tibi (Es. XXXIII, 19). Se gli Apostoli, ammessi sul Tabor per vedere la gloria dell’anima santa di Nostro Signore che risplendeva attraverso il suo corpo mortale, esultarono, in un santo trasporto misto a paura e gioia, e senza sapere quello che stavano dicendo, con l’esclamare: « Signore, è bene per noi stare qui: Domine, bonum est nos hic esse » (S. Marc. IX, 5); che cosa sarà quando, fortificati dalla luce della gloria, il nostro spirito potrà contemplare a piacimento non solo l’Umanità trasfigurata del Verbo fatto carne, ma la stessa Divinità in tutto il suo splendore; quando, abbracciando con un solo sguardo tutte e ciascuna le divine perfezioni, che ora siamo obbligati a studiare separatamente per conoscerle meglio, le vedrà fondersi in una semplice ed unica perfezione infinita: uno spettacolo inebriante e davvero ineffabile, di cui nulla quaggiù può darci un’idea? Che cosa sarà quando il suo sguardo, che è diventato più fermo e più acuto di quello dell’aquila, potrà penetrare i misteri della vita intima di Dio, scandagliare le profondità della sua saggezza e giustizia, considerare le incomprensibili ricchezze del suo amore, gli eccessi della sua misericordia, la profondità dei suoi decreti, le meravigliose operazioni della sua grazia, i modi segreti e ammirevoli in cui conduce ciascuno di noi al termine del suo destino? Lì, la nostra intelligenza, così desiderosa di sapere, così affamata di verità, troverà nella chiara visione del Verbo, la sua piena soddisfazione: Satiabor cum apparuerit gloria tua (Ps. XVI, 15); perché il Verbo è la verità, non la verità dimezzata, parziale, frammentaria, ma la verità piena, totale, sostanziale. E, come sottolinea San Gregorio: « Cosa possiamo ignorare quando conosciamo Colui che sa tutto, che ha fatto tutto, attraverso il quale tutto esiste? Quid est quod ibi nesciant, ubi scientem omnia sciunt ? » (S. Greg. M., Dial., 1. IV, n. 24). Lì la nostra volontà, che nulla qui sulla terra può soddisfare pur se realizzasse l’irraggiungibile conquista del mondo intero, troverà nel possesso del sovrano Bene, la soddisfazione più piena di tutti i suoi desideri: Qui replet in bonis desiderium tuum (Ps. CII, 5). Là, il nostro cuore, sempre inquieto durante questa vita, perché facendoci da Se stesso e creandoci capaci di possederlo, Dio ha scavato degli abissi che solo Egli può riempire, troverà il suo perfetto riposo.

III.

Cercheremo di far conoscere più a fondo l’eredità dei figli di Dio. Ma per farlo, dovremmo dire che cos’è il cielo. Ora, non ci sarebbe forse l’avventatezza da parte nostra di voler descrivere ciò che l’Apostolo san Paolo stesso, pur essendo stato elevato al terzo cielo (II Cor. XII, 2) si dichiara incapace di esprimere? Certo, questa sarebbe una intollerabile presunzione se, per parlare di qualcosa di così forte al di sopra delle nostre concezioni, fossimo ridotti alle nostre stesse luci. Ma « lo Spirito Santo, che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio » (I Cor. II, 10), si è degnato di fornirci preziosi dati su questo punto, che è importante non lasciare nell’ombra. – Per aiutarci a concepire un po’ delle ineffabili delizie del cielo, Egli ce le ha rappresentate con molteplici nomi e sotto figure diverse: a volte come regno, a volte come casa del Padre celeste e la vera patria delle anime. Qui, c’è un banchetto, un banchetto di nozze; là, un torrente di delizie; poi, … c’è il riposo, la pace, la vita senza termine e senza limite, la vita eterna. Ripercorriamo brevemente queste varie denominazioni, per cercare di penetrarne un po’ più nel profondo il significato. E prima di tutto, il cielo ci è rappresentato sotto il nome e la figura di un regno, il Regno di Dio promesso a coloro che lo amano: « Hæredes regni quod repromisit diligentibus se. » – Jac, u, 5.). – « Venite, dirà un giorno Nostro Signore agli eletti, venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno che è stato preparato per voi fin dall’inizio del mondo: « Venite benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi. » (S. Matth. XXV, 34). Quando si dice regno, si intende ricchezza, onori, gloria, abbondanza di ogni bene. Ora, tale è precisamente il cielo, questa dimora opulenta, dimora opulentam (Isa. XXX, 20), come dice il Profeta, dove si trovano raccolti tutti i beni desiderabili del corpo e dello spirito. « Che beatitudine – esclama sant’Agostino – quando, cessando tutto il male, uscendo tutto il bene dalle tenebre, ci si dedicherà solo alle lodi di Dio, che sarà tutto in tutti! … Qui risiederà la vera gloria, che non sarà data dall’errore, né dalle lusinghe. Lì, il vero onore, che non sarà negato a coloro che lo meritano, né deferito a coloro che ne sono indegni; là, dove nessuno potrà essere, se ne è indegno. Là infine, c’è la vera pace, dove non si subirà nulla di contrario né da se stessi né dagli altri. L’Autore stesso della virtù ne sarà la ricompensa, e questa ricompensa che ha promesso – la più grande e la migliore di tutte – è Egli stesso. E quale altro significato potrebbe avere questa parola del Profeta: Io sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo, se non che Io sarò ciò di cui potranno saziarsi; Io sarò tutto ciò che gli uomini possono legittimamente sperare: vita, salute, nutrimento, abbondanza e gloria, onore e pace, tutti i beni, in una sola parola! E questo è il vero significato di questa parola dell’Apostolo: Affinché Dio sia tutto in tutti. » (S. Aug., De Civit. Dei, 1. XXII, cap. XXX, n. 1). Se già in questa valle di lacrime e per l’uso comune dei buoni e dei malvagi, Dio non solo fa risplendere il suo sole, ma produce opere veramente ammirevoli, seminando fiori e frutti con ogni specie di profusione, dando alle valli la loro freschezza, alle pianure la loro fertilità, la loro maestà ai monti, ai cieli la loro armonia, quali meraviglie tiene in serbo per il paradiso, poiché – secondo il Profeta – è solo lì che Egli è veramente magnifico? Solummodo ibi magnificus est Dominus (Isa. XXXIII, 21). Se, nell’ordine puramente naturale, Egli si mostra così largo e liberale, aprendo la sua mano per riempire dei suoi benefici  ogni essere vivente (Ps. CXLIV, 16), cosa non farà, nel grande giorno delle sue ricompense, a favore di coloro che lo hanno fedelmente servito e perseverantemente amato quaggiù, di quei cari figli che, dopo essere stati umiliati, disprezzati e perseguitati per il suo Nome, appariranno finalmente davanti a Lui, con le mani piene di buone opere, per ricevere la loro ricompensa? Con quale tenerezza li accoglierà, riempiendoli di carezze e testimonianze d’amore! Con quale gioia li introdurrà nel suo regno, e li farà sedere accanto a Lui su troni dove regneranno per sempre! Et regnabunt in sæcula sæculorum (Apoc. XXII, 5). Che cos’è di nuovo il cielo? È la patria, la casa di famiglia, il luogo d’incontro di tutti i figli di Dio! La patria! Qual dolce nome! Che dolce nome. Qual più dolce cosa! Come il suo ricordo fa battere il cuore! Come siamo felici di tornarvi dopo un’assenza più o meno lunga! Qui troviamo tutto ciò che abbiamo amato, tutto ciò che ancora amiamo: i genitori, gli amici, i conoscenti, il tetto paterno, le ceneri dei nostri antenati. Lì l’aria è più pura, il sole più gioioso, la campagna più piacevole, i fiori più belli, i frutti più deliziosi. Lì, invece di essere soli, sconosciuti, dimenticati, ci vediamo circondati, ci sentiamo amati, si è felici. Eppure, quella che oggi chiamiamo la nostra patria, è in realtà solo un luogo di passaggio; è un albergo dove si chiede ospitalità per la notte, ed il giorno dopo si abbandona, è la tenda del nomade, che si issa la sera per essere ripiegata al mattino. La vera patria è quella che gli antichi Patriarchi consideravano e salutavano da lontano e facevano  professione di cercare, chiamandosi volentieri esuli e viaggiatori (Hebr. XI, 13-14); quella che, per dopo, dobbiamo sospirare noi stessi, perché non abbiamo una dimora permanente quaggiù: Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus (Hebr. XIII, 14); « è la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, l’innumerevole società degli Angeli, l’assemblea dei primogeniti il cui nome è scritto nel libro della vita » (Hebr. XII, 22-23). Quale incomparabile famiglia! Che deliziosa società!  Là noi troveremo il Primogenito della nostra razza, Colui che si è degnato di adottarci per fratelli suoi e ci chiama a condividere con Lui la sua eredità, Nostro Signore Gesù Cristo, di cui gli Angeli non si stancano mai di contemplare la bellezza: In quem desiderant Angeli prospicere (I Piet. I, 12). Anche noi pure potremo  considerare a nostro piacimento questo volto adorabile, atteggiato a così dolce maestà, appoggiare la testa su questo Cuore che ci ha tanto amato, attaccare le labbra smosse a queste tre volte sante piaghe che i nostri peccati hanno scavato nelle mani e nei piedi del Salvatore. Come gli Apostoli sul Tabor, sentiremo il divino Maestro raccontarci ancora una volta gli eccessi a cui si è librato per noi (Luc. IX, 31): eccessi di umiliazioni e di sofferenze, sopportate per la nostra salvezza durante la sua santa Passione, o meglio durante tutta la sua vita; eccesso di misericordia, onde perdonare colpe rinascenti incessantemente; eccesso di carità, che nulla ha potuto trascurare: né dimenticanze, né ingratitudini, né tradimenti. E la nostra anima si scioglierà con gratitudine ed amore quando sentiremo questo dolce Salvatore raccontarci la storia delle meraviglie fatte a nostro favore, raccontarci le sante industrie della sua tenerezza per riportarci a Lui e tenerci in uno stato di grazia. Là noi vedremo, ameremo, benediremo la dolcissima, purissima, santissima Madre di Dio, la Beata Vergine Maria, questa graziosa Sovrana la cui bellezza verginale delizierà i Santi, questa madre amorevolissima e sì degna di essere amata, la cui tenerezza si tradurrà in testimonianze capaci di inebriare il cuore dei suoi figli. Là, noi godremo la società degli Angeli, contemplando con un occhio rapito queste gerarchie celestiali che formano un mondo infinitamente superiore per numero e bellezza al mondo materiale e sensibile. Là infine, tutte le grandi anime che si sono avute sulla terra, le anime sante, le anime vergini, le anime eroiche, faranno parte della nostra società. I Patriarchi, i Profeti, gli Apostoli, i martiri, i confessori, i vergini, formeranno una sola grande famiglia, i cui membri si ameranno, si congratuleranno tra loro per la loro felicità, godranno tutti insieme. E non ci sarà nessuna voce discordante, nessun processo doloroso o indelicato, nessuno spettacolo triste; una gioia sempre giovane, una gioia che nulla turba, cantici senza fine. I peccatori, gli indegni, sono banditi da questo regno, dove si vedono solo santi, che lodano con una voce unanime il loro Creatore e Redentore. O bel cielo, patria eterna, quando potremo vederti? Ci vien raccontato di te di cose così gloriose e belle (Gloriosa dicta sunt de te, civitas Dei (Ps LXXXVI, 3).

IV.

Ma cos’è ancora il cielo? È un banchetto, una festa, data dal Pater familias alla moltitudine immensa dei suoi figli riuniti intorno a Lui. « Avete mai pensato all’importanza che gli uomini hanno sempre attribuito ai pasti consumati in comune? Non c’è nessun trattato, nessun accordo, nessuna celebrazione, nessuna cerimonia di qualsiasi tipo senza pasti….. Gli uomini non potevano trovare alcun segno di unione e di gioia più espressivo che riunirsi per prendere, così ravvicinati, un cibo comune » (De MAISTRE, Serate di San-Pietroburgo, 10° intrattenimento). Inoltre, quando, in certe circostanze solenni, tutti i membri della stessa famiglia, convocati nella casa paterna, possono sedersi ed intrattenersi allo stesso tavolo per qualche istante insieme, questi incontri di un giorno sono considerati come uno dei più dolci piaceri della vita. – E cosa ci si dice l’un l’altro, cosa ci si comunica l’un l’altro in questo tipo di incontri? Le proprie speranze e le proprie paure, le gioie ed i dolori, soprattutto i propri dolori, perché questa è una pianta che abbonda nella nostra terra d’esilio. Ma è raro che non ci sia un membro della famiglia la cui cattiva condotta o una disgrazia renda gli altri desolati. E poi, tanti posti vuoti, tante persone assenti che non appariranno più! Infine, dopo troppo brevi ore di felicità ben lungi dall’essere tutti uniti, bisogna separarsi di nuovo. Lassù, ci sarà la grande riunione dei figli di Dio. Nessuno degli invitati mancherà all’appello, nessuno sarà fonte o occasione di tristezza per gli altri, e la prospettiva di una futura separazione non turberà la festa. – Ma di tutte le feste, la più splendida, la più solenne, e allo stesso tempo la più gioiosa, è la festa di nozze. Ora la beatitudine celeste è la festa delle nozze dell’Agnello. « Beati – è detto nell’Apocalisse – quelli che sono stati invitati alle nozze dell’Agnello: « Beati qui ad cænam nuptiarum Agni vocati sunt » (Apoc. XIX, 9). – Già su questa terra, Nostro Signore ha allestito per i suoi fedeli una sontuosa tavola, la tavola eucaristica, dove serve un Pane vivo e tonificante, disceso dal cielo ed estremamente delizioso (Giov. VI, 41); ma se Egli si degna di darsi a noi in questo momento, è solo in modo imperfetto; se Egli nutre le nostre anime, non le soddisfa pienamente: Hic pascis, sed non in saturitate (S. Bern., in Cant., serm, XXXIII, n. 7). « Io possiedo il Verbo – dice san Bernardo – ma nella carne; la verità mi è servita, ma nel Sacramento. Mentre l’Angelo si nutre del fiore di grano, io devo contentarmi della corteccia del Sacramento, del suono della carne, della paglia della lettera, del velo della fede » (S. Bern. ibid. n. 3). Ecco perché, prima di salire in cielo, il Salvatore annunciava ai suoi Apostoli che avrebbe preparato loro un altro banchetto nel suo regno, dove li avrebbe invitati alla sua tavola (Luc. XXII, 29-30). Inutile dire che il divin Maestro non ha punto parlato di piatti grossolani destinati al mantenimento della vita corporea, perché in cielo il nostro corpo non avrà più bisogno di cibo. Quando diciamo che gli eletti mangiano e bevono alla tavola di Dio, significa che essi godono della felicità di Dio stesso, vedendolo come Lui vede se stesso (S. Th., Contra Gent., 1. III; cap. LI). Questo è il grande banchetto di Dio, al quale sono invitati tutti gli eletti. Venite, et congregamini et congregamini ad cænam magnam Dei (Apoc. XIX, 17). Lì non sarà più la carne e il sangue di Cristo che ci sarà dato come cibo, ma la stessa Divinità si farà nostro cibo. Che festa il vedere Dio, lo stare con Dio, il vivere di Dio! « Præmium nostrum est videre Deum, esse cum Deo, vivere de Deo. » (S. Bern.). È allora che sarà consumata la santissima unione, iniziata qui sulla terra dalla grazia, tra Dio e le anime, perché possedendolo perfettamente come Verità piena e Bene sovrano, esse si uniranno a Lui in modo ineffabile e godranno per sempre dei suoi castissimi abbracci.  « Beati, qui ad cænam nuptiarum Agni vocati sunt ». (Apoc. XIX, 9). A tutti, lo Sposo celeste dirà: « Mangiate, amici miei, e bevete: bevete il vino della santa carità, e ubriacatevi, miei cari: Comedite, amici, et bibite, et inebriamini,  charissimi (Cant. V, 1). « La beatitudine non è come un liquore prezioso contenuto in un vaso e rapidamente esaurito; è un fiume inesauribile e senza fine, un torrente di delizie, di gloria e di pace, da cui gli eletti berranno in eterno fino a quando non saranno pienamente soddisfatti, fino a quando non si ubriacheranno.  Inebriabuntur ab ubertate domus tuæ, et torrente voluptatis tuæ potabis eos (Ps. XXXV, 9). E non ci si offenda di questa espressione dettata dallo Spirito Santo stesso. Se c’è una ubriacatura vergognosa e indegna di un essere ragionevole, ce n’è un’altra legittima e santa: c’è l’inebriamento di gioia, l’inebriamento d’amore. Non era inebriata dall’amore divino, questa buona Santa, Maria Maddalena di Pazzi, quando andava lanciando con tutte l’eco del suo monastero questo grido appassionato: « L’amore non si conosce, l’amore non si ama »? Non era anch’egli inebriato di delizie, San Francesco Saverio, quando, in mezzo alle sue fatiche apostoliche, schiacciato, per così dire, sotto il peso delle consolazioni celesti che inondavano la sua anima, gridava: « Basta, Signore, basta; risparmiate il mio povero cuore, io non ne posso più sopportare » ? Se, nel seno stesso dell’esilio, l’uomo è in grado di assaporare tali gioie, come sarà nella patria?

V.

Ci sono ancora altre denominazioni ricche di promesse, piene di mistero, che finiranno di edificarci sulla grandezza della felicità futura, a partire dal patrimonio riservato ai santi. Il cielo è riposo, è pace, è vita: riposo dopo il lavoro, pace dopo la guerra, vita senza fine. Chi non desidera il riposo, chi non desidera la pace, chi non desidera la vita? Ma il riposo si acquista regolarmente solo attraverso il lavoro; la guerra è spesso necessaria per raggiungere la pace; e l’Apostolo san Paolo ci invita « a portare costantemente la mortificazione di Gesù nel nostro corpo, se vogliamo che la vita divina si manifesti nella nostra carne mortale » (II Cor. IV, 10).  La vita presente è il tempo del lavoro, del lavoro fecondo, della semina spirituale (II Cor. IV, 10). Come l’aratore deve sopportare il peso del giorno e del caldo, soffrire le intemperie delle stagioni, stancare le sue forti braccia per arare il seno della terra prima di affidargli il seme, sperare per il raccolto futuro, così anche il Cristiano deve compiere instancabilmente le opere che costituiscono il suo compito quotidiano; deve dedicarsi alla preghiera, all’obbedienza, a curvare le spalle sotto il giogo della croce, a sopportare, senza lamentarsi, le difficoltà, la tristezza, le tribolazioni che sono il pane quotidiano dell’esilio. A questo si aggiungono le privazioni, le sofferenze, la povertà, le contraddizioni, le vessazioni dolorose, le ingratitudini, tante ferite segrete del cuore, tanti dolori intimi tanto più amari e dolorosi da sopportare, perché spesso senza testimoni e consolatori. In breve, secondo le parole dei nostri Libri sacri, il Cristiano deve seminare in lacrime: Euntes, ibant et flebant, mittentes semina sua (Ps. CXXV, 6).  E come se tutto questo non bastasse per la sua debolezza, lo attendono ancora altre prove: lo attende la malattia, la morte che falcia senza pietà intorno a lui, delle vite spesso molto care; c’è poi lo spettacolo dell’ingiustizia trionfante, la persecuzione organizzata contro chiunque voglia essere fedele al suo dovere; ci sono le tentazioni che lo assediano, gli attacchi incessanti dei nemici della sua salvezza; c’è la lotta sempre crescente contro gli istinti malvagi della natura, la lotta quotidiana contro le sue passioni; una lotta così feroce, a volte così terribile, che lo stesso grande Apostolo gridava: « Chi mi libererà da questo corpo di morte? Quis me liberabit de corpore mortis hujus » (Rom. VII, 24). Ma qual gioia, qual felicità, qual trasporto di allegria, quando, liberata dalla prigione del corpo, liberata per sempre dagli attacchi dei suoi nemici e pienamente purificata, la sua anima sarà introdotta in cielo e vedrà Nostro Signore correre incontro a lei con volto sorridente e aprirle le braccia; quando sentirà queste parole di conforto uscire dalle sue labbra: « Alzati, mio caro, vieni senza indugio e riposa dalla tua fatica ». Surge, propera, amica mea….. È trascorso già l’inverno, questa stagione di tristezza e sofferenza è passata: Jam enim hiems transiit; non è più il tempo delle lacrime, fuggito per sempre: imber abiit et recessit. I fiori, quei fiori del cielo che non sbiadiscono mai, si sono mostrati nella nostra terra: flores apparuerunt in terra nostra. – Più dolce di quella della tortorella, la voce di Maria, che si unisce a quella degli Angeli e dei beati, risuona ora nel tuo orecchio: vox turturis audita est in terra nostra….. (Cant. II, 10-12) Vieni a ricevere la corona che è destinata a te: veni, coronaberis. » (Cant. IV, 8). Poi, secondo la parola dei nostri Libri sacri, « Dio stesso cancellerà ogni lacrima dal volto degli eletti, e non ci sarà più né morte, né lutto, pianto o dolore, perché tutto questo appartiene ad un passato che è scomparso per sempre. Absterget Deus omnem lacrymam ab oculis eorum; et mors ultra non erit, neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra, quia prima abierunt » (Apoc. XXI, 4). L’autore sacro non dice semplicemente che tutte le lacrime si asciugheranno o che gli eletti si tergeranno da sé il viso; no, è Dio, Dio in persona, che si riserva questo ufficio: Absterget Deus omnem lacrymam. « Sono Io – dice altrove attraverso il suo profeta – che vi consolerò: Ego, ego ipse consolabor vos » (Isa. LI, 12). Come una madre che accudisce il suo bambino, Io vi conforterò e voi sarete confortati: « Quomodo si cui mater blandiatur, ita ego consolabor vos, et in Jerusalem consolabimini » (Isa. XLVI, 13). Se è dolce per un malato sentire una mano amica, la mano di una madre o di una moglie asciugare il sudore o le lacrime che gli inondano il viso, come sarà sentire la mano sulla fronte di un Dio, una mano mille volte più morbida e carezzevole di quella di una madre? Questo è ciò che sostiene i giusti in mezzo alle loro prove e li conforta nelle loro afflizioni. Sanno – senza averne dubbio – che i loro dolori avranno solo un tempo, mentre la ricompensa sarà eterna; e, sentendo l’Apostolo dire loro  che non c’è proporzione alcuna tra le sofferenze della vita presente e la gloria futura che un giorno dovrà essere loro rivelata » (Rom. VIII, 18), perché « delle tribolazioni leggere e momentanee, procureranno loro un immenso ed eterno carico di gloria » (II. Cor. IV, 17), sono confortati da questa speranza; e, lungi dal lasciarsi travolgere dalle miserie di questa vita, gioiscono piuttosto, convinti che, se soffrono qui sulla terra con Gesù Cristo, un giorno saranno associati al suo trionfo (Rom. VIII, 17), e che dopo essere stati con Lui nel dolore, saranno ammessi a condividerne il suo riposo.  Ma quale sarà questo riposo? L’inazione? La tranquillità? Il fermare della vita? Un sonno eterno? No, certamente no. Il riposo promessoci è un riposo animato, fruttuoso, opulento, secondo la parola del profeta: Sedebit populus meus…. in requie opulenta (Isa. XXXII, 18). È un riposo pieno di meravigliose operazioni, non accompagnato da alcuna fatica, che non viene ad interrompere alcuna necessità, e che procura piaceri ineffabili. È l’attività generosa, incessante, continua; l’attività, portata alla sua massima potenza, di un’anima che è giunta al termine e riposa in Dio come Dio riposa in se stesso (Hebr. IV, 9-10). Cessando di creare, Dio non cessa di agire (« Pater meus usque modo operatur, et ego operor. » – Joan,V, 17); ma è soprattutto all’interno che si svolge la sua attività: Egli contempla se stesso, ama se stesso, gioisce di se stesso, è felice, è la beatitudine sussistente. Ora, in cielo, noi saremo simile a Lui, vedendolo e amandolo come vede ed ama Se stesso, condivideremo la sua felicità, vivremo la sua vita. E nulla disturberà o interromperà la nostra contemplazione: né le occupazioni materiali, che assorbono una parte così grande della nostra esistenza terrena, né le opere di misericordia che non dovranno più essere esercitate là dove manca ogni miseria, né il bisogno imperativo del sonno. Niente più combattimenti all’interno, niente più combattimenti all’esterno contro i nemici della nostra salvezza; tutti i nostri confini saranno ora al sicuro dalle loro incursioni. La pace, una pace gloriosa, una pace immutabile, sarà ora la nostra condivisione. Tutto il popolo degli eletti, non avendo più nulla da temere, riposerà, secondo le parole del Profeta, nella bellezza della pace. Sedebit populus meus in pulchritudine pacis….. e in requie opulenta. (Isa. XXXII, 18). Oh! dolce riposo! Oh! felici vacanze, dedicate interamente allo spettacolo più bello che si possa offrire ad una creatura ragionevole, poiché esso costituisce la felicità stessa di Dio. Ibi vacabimus et videbimus. – L’intelligenza, la più nobile delle nostre facoltà, sarà quindi della festa; ma anche il cuore avrà la sua grande parte, perché la visione genererà l’amore. Videbimus et amabimus. È proprio allora, e solo allora, che il precetto della santa carità sarà pienamente adempiuto, perché ameremo Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutte le nostre forze, con tutta la nostra mente (Luc. X, 27); noi lo ameremo senza  sosta, senza interruzione, senza stancarci,  senza queste alternative di ardore e di freddezza così umilianti per le anime sante e desolate; lo ameremo e l’amore che, traboccante dal nostro cuore, e salito fino alle nostre labbra, scoppierà, rendendo grazie e lode: Amabimus et laudabimus (S. Aug., De Civit. Dei. 1. XXII. cap. XXX, n. 5), invece di tradursi come è quaggiù in desideri (Ps. XLI, 3), gemiti (Rom. VIII, 23), languori (Cant. V, 8), si diffonderà sotto forma di canti di gioia e canti di allegria (Isa. LI, 3). « Beati coloro che abitano nella tua casa, o Signore, essi vi loderanno per sempre: Beati qui habitant in domo tua, Domine: in sæcula sæculorum laudabunt te » (Ps. LXXXIII, 5). Ma non è da temere che il riposo provochi noia e che la lode perpetua si trasformi in disgusto? « Se smettete di amare – dice sant’Agostino – smetterete di lodare. Ma il vostro amore non cesserà, perché Colui che voi contemplerete è di una bellezza così grande, che non è affatto capace di produrre sazietà e disgusto » (S. Aug. in Ps. LXXXV, N. 24). – Se un semplice raggio di bellezza divina che cade sulla fronte di una creatura la rende così amabile da trascinare e affascinare i cuori; se più la contempliamo, più ne siamo rapiti, quale attrazione invincibile non eserciterà sugli eletti la visione chiara, la contemplazione prolungata della Bellezza infinita? Se è così dolce amare o essere amato da una semplice creatura, povera e fragile come noi, quale gioia, qual gaudio, qual felicità, qual ebbrezza, non proverà un’anima che si sentirà incessantemente amata da tutta la potenza della Santissima Trinità? Che altro potrebbe desiderare, se non il prolungamento di tale felicità? E sapendo che essa è eterna, come potrebbe non essere pienamente soddisfatta? Dio sarà dunque il fine dei nostri desideri, Colui che vedremo all’infinito, che ameremo senza stancarci » (S. Aug., De Civit. Dei, 1. XXII, c. XXX, n. 1). Ecco, da tutto ciò che siamo riusciti a balbettare, in cosa consiste l’eredità dei figli di Dio: ecco ciò che sarà la beatitudine promessa da Nostro Signore, sotto il nome di vita eterna, a coloro che Egli chiama sue pecore (Giov. X, 28): la contemplazione diretta e immediata della bellezza infinita, un’estasi perpetua d’amore, una lode incessante. “Ecco ciò che sarà alla fine infinito: Ecce quod erit in fine sine fine ». Se, a giudizio del Salmista o meglio dello Spirito Santo che lo ha ispirato, « un solo giorno trascorso qui sotto nella casa di Dio, vale mille tra i piaceri del mondo » (Ps. LXXXIII, 11), cosa possiamo pensare, cosa possiamo dire della vita che ci attende in cielo, una vita così piena, così santa, così debordante di gioia, una vita che non è più soggetta all’alternanza del giorno e della notte, né alle vicissitudini della tristezza e della gioia, soprattutto quando si rifletta che non finirà mai? Ma non basta proclamarla senza fine; come l’eternità divina, di cui è partecipazione, non conosce cambiamenti, né successione, né passato, né futuro, e consiste in un presente indivisibile ed immutabile, nel pieno, perfetto ed immutabile possesso del Bene sovrano (S. Th., Summa Theol., 1, q. X, a. 3).  Come, pensando a tale felicità, l’anima santa, ancora esiliata sulla terra, non potrebbe non gridare con la sposa del Cantico dei Cantici:  « O mio amato, insegnatemi dove mi conduce il vostro gregge, dove riposate a mezzogiorno: Indica mihi, quem diligit anima mea, ubi pascas, ubi cubes in meridie » (Cant. I, 6) – « Mezzodì è la vista, è la contemplazione del Vostro volto. Vultus tuus meridies es. » (S. Bern., in Cant. Serm. XXXIII, n. 7). Quaggiù, ahimè! né la luce è chiara, né il riposo completo, né c’è alcuna sicurezza da nessuna parte; per questo vi chiedo di dirmi dove riposate a mezzogiorno….. O vero Mezzogiorno, oh pienezza di ardore e di luce, dove tutto è stabile, dove il sole non declina mai, dove le ombre sono sconosciute, l’acqua fangosa della terra disseccata, e le esalazioni fetide del mondo si sono completamente dissipate! O luce del mezzogiorno, dolcezza della primavera, bellezza dell’estate, fertilità dell’autunno, e, per nulla omettere,  riposo d’inverno! a meno che non si preferisca dire che non ci sarà l’inverno. Indicatemi, o mio amato, questo luogo di chiarezza, di pace, di pienezza, perché anch’io meriti di contemplarvi nella vostra luce e bellezza (S. Bern. loc. cit. n. 6-7).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/10/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-13/

SALMI BIBLICI: “PARATUM COR MEUM, DEUS” (CVII)

SALMO 107: “PARATUM COR MEUM, DEUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 107

Canticum Psalmi, ipsi David.

[1] Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum; cantabo, et psallam in gloria mea.

[2] Exsurge, gloria mea; exsurge, psalterium et cithara; exsurgam diluculo.

[3] Confitebor tibi in populis, Domine, et psallam tibi in nationibus;

[4] quia magna est super caelos misericordia tua, et usque ad nubes veritas tua.

[5] Exaltare super cælos, Deus, et super omnem terram gloria tua;

[6] ut liberentur dilecti tui, salvum fac dextera tua, et exaudi me.

[7] Deus locutus est in sancto suo: exsultabo, et dividam Sichimam; et convallem tabernaculorum dimetiar.

[8] Meus est Galaad, et meus est Manasses; et Ephraim susceptio capitis mei. Juda rex meus,

[9] Moab lebes spei meæ; in Idumaeam extendam calceamentum meum; mihi alienigenæ amici facti sunt.

[10] Quis deducet me in civitatem munitam? quis deducet me usque in Idumæam?

[11] Nonne tu, Deus, qui repulisti nos? et non exibis, Deus, in virtutibus nostris?

[12] Da nobis auxilium de tribulatione, quia vana salus hominis.

[13] In Deo faciemus virtutem; et ipse ad nihilum deducet inimicos nostros.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CVII.

Preghiera a Dio in occasione delia guerra contro i Moabiti, Filistei ed Idumei. Il Salmo é composto delle ultime parti dei due Salmi 56 e 59. Nulla vi è di nuovo. Se ne fece un Salmo, forse per compire il numero dei 150, o per ragione che non si conosce.

Cantico, ovver salmo dello stesso David.

1. Il mio cuore, o Dio, egli è preparato: egli è preparato il cuor mio: canterò e salmeggerò nella mia gloria.

2. Sorgi, mia gloria, sorgi salterio e tu cetra: io sorgerò coll’aurora.

3. A te io darò laude tra’ popoli, o Signore, inni a te canterò tra le genti.

4. Perché più grande dei cieli è la tua misericordia, e la tua verità fino alle nubi.

5. Sii tu esaltato fin sopra de’ cieli, e la tua gloria per tutta quanta la terra, affinché liberati sieno i tuoi eletti.

6. Salvami con la tua destra, ed esaudiscimi: Dio ha parlato nel suo santuario;

7. Che io sarò nell’allegrezza, e sarò padrone di Sichem, e dividerò la valle de’ tabernacoli.

8. Mio è Galaad e mio è Manasse, ed Ephraim fortezza della mia testa.

9. Giuda mio re: Moab vaso di mia speranza. Col mio piede calcherò l’Idumea; gl’istranieri saranno soggetti a me.

10. Chi mi condurrà nella città munita? Chi mi condurrà fino nell’Idumea?

11. Chi se non tu, o Dio, che ci hai rigettati? E non verrai tu, o Dio, co’ nostri eserciti?

12. Dà aiuto a noi nella tribolazione, perché invano si aspetta salute dall’uomo.

13. Con Dio farem cose grandi; ed egli annichilerà coloro che ci affliggono.

Sommario analitico

Questo salmo che, secondo il titolo, sarebbe di Davide, si compone di due parti, di cui una (2-6) si trova alla fine del salmo LVI, e fu composta durante la persecuzione di Saul; l’altra (7-14) termina il salmo LIX, composto anch’esso da Davide in occasione della guerra contro gli Idumei. Per spiegare l’unione di questi frammenti, si congettura che il salmo CVII non sia che il salmo LIX che Davide voleva si cantasse in qualche occasione solenne. Egli allora tagliò i versetti 3-6 che ricordavano dei giorni infausti, e li rimpiazzò con i versetti del salmo 8-12 del salmo LIX, che formavano un inizio magnifico e trionfale. (Le Hir.). Perché, si domanda Bellarmino, questo salmo è stato aggiunto agli altri quando non conteneva nulla di nuovo? Senza dubbio – egli risponde – si sarà voluto completare il numero di centocinquanta salmi, a meno che non esista qualche altra ragione occulta che egli dichiara di ignorare completamente. Noi osiamo dire che la ragione che il redattore dei salmi, abbia voluto completare il numero di centocinquanta salmi, prendendo le due parti dei salmi LVII e LIX, manca assolutamente di verosimiglianza: perché scegliere infatti i salmi LVI e LIX, piuttosto che altri? Nella prima parte, Davide, personificando il Salvatore, eccita la propria anima a risvegliare la propria lira per benedire il Signore (1-4). Nella seconda, egli indica il triplice oggetto delle sue lodi:

1° La perfezione di Dio, la sua misericordia, la sua verità, la sua gloria (5-6);

2° la sua gloria; egli estende le sue conquiste su tutto l’universo per la predicazione del Vangelo (7-11);

3° La speranza che egli ha del soccorso di Dio, nelle vittorie, nelle tribolazioni (12-14).

Spiegazioni e Considerazioni (1)

(1) Vedi i salmi LVI e LIX

I. — 1-3.

ff. 1, 2. – La ripetizione dei due salmi LVI e LIX, riuniti in gran parte di questo salmo CVII, contiene una lezione molto utile ai progressi della nostra perfezione spirituale. Non crediamo che Davide si sia ripetuto per mancanza di nuovi sentimenti verso Dio, e come se il suo cuore, caduto nella aridità, non gli fornisse alcuna nuova affezione nella preghiera, di modo che, per rianimare il suo fervore, fosse stato obbligato a ricorrere a ciò che già aveva espresso in due altri salmi. Questa spiegazione non può convenire alle parole di un Profeta così pieno di Spirito di Dio; diciamo dunque piuttosto che egli ci dà qui l’esempio di ciò che noi dobbiamo fare quando ci troviamo in una specie di languore che sembra smorzare tutti i sentimenti della nostra anima. È il momento di ricordarci le verità che ci hanno toccato in altre occasioni, ciò che è più efficace, ed estraiamo allora dai libri santi o dei libri di pietà ciò che ci colpisce nei tempi di fervore, ripetiamo le nostre antiche preghiere o quelle dei santi che ci hanno preceduto. È l’esempio che ci si dà nella preghiera del giardino degli uliveti, il nostro divin Salvatore, quando si dice: « Egli tornò e pregò per la terza volta, dicendo le stesse parole. » (Matt. XXIV, 43). È così l’esempio che la Chiesa ci dà nella sua liturgia e nei suoi divini offici dove si lasciano presentare all’Altissimo gli stessi atti di adorazione, di riconoscenza, di amore, di compunzione, ripetendo così spesso: « Signore vieni presto in mio aiuto; Signore abbiate pietà di noi; gloria al Padre, al Figlio, e allo Spirito Santo, etc. » (Berthier). – « Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto. » Questa ripetizione è l’indice: – 1° di una volontà determinata; – 2° di una forza interiore che nulla teme ed è disposta a superare ogni ostacolo; – 3° di un santo fervore; di un amore ardente che sembra andare oltre i sacrifici che Dio può esigere. È così che il nostro cuore deve essere pronto: – 1° per acquisire e praticare tutti i comandamenti di Dio e tutte le virtù cristiane: « Io sono pronto e senza essere per nulla turbato, ad osservare i vostri comandamenti, » (Ps. CXVIII, 60); « il suo cuore è pronto a sperare nel Signore, » (Ps. CXI, 7); – 2° per attenere l’arrivo del sovrano Giudice: « Siate dunque anche sempre pronti, perché non sapete in quale ora il Figlio dell’uomo verrà » (Matt., XXIV, 44); – 3° per supportare e soffrire attendendo tutte le prove, tutte le tribolazioni che entrano nei disegni di Dio in vista della nostra santificazione. – Tale è la disposizione del cuore in cui deve essere il vero Cristiano, e soprattutto un prete che, chiamato dalla sua vocazione ad essere l’uomo di Dio ed il servitore dei suoi fratelli, deve mostrarsi sempre pronto a fare la volontà, ad eseguire gli ordini del suo Maestro, a qualunque costo. « Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto. » Io non so cosa vogliate fare di me, ma, comunque, il mio cuore è pronto! Volete che io sia un olocausto consumato ed annientato davanti a vostro Padre con il martirio del santo amore? Volete che io sia o una vittima per il peccato, con le sante austerità della penitenza, o una vittima pacifica ed eucaristica il cui cuore toccato dai vostri benefici, si esali in azioni di grazie e di distilli in amore ai vostri occhi? « Il mio cuore è pronto! » Volete che immolato alla carità, io distribuisca tutti i miei beni per il nutrimento dei poveri o che « fratello sincero e benefico, » io doni la mia vita per i Cristiani, consumandomi in un pio travaglio nell’istruzione degli ignoranti e nell’assistenza dei malati? « Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto! » (Bossuet, Elev. XVIII, s 2, El.) – Cosa volete ancora da me, Signore, per cui c’è bisogno che vi immoli le affezioni più intime del mio cuore? Volete accettare il sacrificio dei miei progetti in avvenire, die miei progetti di studi, di predicazione, di conversione delle anime, in cui si mescola forse a mia insaputa più orgoglio, ambizione, piuttosto che zelo per la verità? Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto! » Orbene, volete che dopo aver formato delle generazioni di fedeli, l’atto cruento del martirio assicuri e confermi la fede nell’anima dei discepoli: « il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto! »; io sono pronto a camminare, ad offrirmi, a dedicarmi, a sacrificarmi, a seguirvi fino alla morte, gioioso anche di soffrire con Voi, poiché con Voi io posso tutto. « Il mio cuore è pronto, il mio cuore è pronto! » – L’Apostolo era nel tormento, nelle catene, in prigione; era coperto di piaghe; soffriva la fame, la sete, il freddo e la nudità; era divorato da ogni genere di dolori e di sofferenze, e diceva: « … Noi ci glorifichiamo nelle tribolazioni. » (II Cor. XI, 27). – Perché parlava così, se non perché il suo cuore era preparato? Egli cantava dunque questo salmo: « Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto! » – « Levatevi, mia gloria, risvegliatevi mia lira ed arpa, io mi alzerà all’aurora. » – È sovranamente importante risvegliare la nostra anima dal sopore in cui si trova piombata, esercitare la sua debolezza e il suo languore per rendere i propri doveri a Dio, e non meno importante di levarci a questi effetti a mattino, allorquando il nostro spirito è più calmo e più tranquillo, e non è ancora né invaso, né turbato dalle preoccupazioni e dalle sollecitudini degli interessi terreni. – « Il giusto si applicherà a volgere fin dall’aurora il suo cuore verso il Signore che lo ha creato, e pregherà in presenza dell’Altissimo. » (Eccli., XXXIX, 6). – È allora che bisogna cantare e glorificare Dio sull’arpa. Se avete abbondanza di qualche bene terrestre, rendete grazie a Colui che vi ha dato questo bene; se vi manca qualcosa o vi è tolto a vostro danno, glorificatelo in tutta sicurezza sull’arpa; perché Colui che vi ha dato questi beni non vi è tolto, benché i beni che vi ha dato, vi siano stati tolti. Così dunque, in questa situazione, lo ripeto, glorificatelo in tutta sicurezza sull’arpa; sicuri del vostro Dio, toccate le corde del vostro cuore e dite, come se estraeste suoni dalla parte armonica dell’arpa: « Il Signore me l’aveva dato, il Signore me l’ha tolto; è stato come è piaciuto al Signore; sia benedetto il Nome del Signore. » (Giob. I, 21; S. Agost., sur le Ps XXXII). 

ff. 3, 4. – Noi vediamo qui, i felici effetti della conformità della nostra volontà con la volontà di Dio: – 1° il perfetto accordo della nostra anima e della nostra bocca per lodare Dio; – 2° una santa prontezza, un ardore tutto particolare, una pia attività per eseguire le buone ispirazioni che Dio ci dà: « Mi leverò dall’aurora »;  – 3° la disposizione in cui siamo di rendere grazie a Dio in ogni luogo ed in faccia a tutti: « io vi loderò in mezzo ai popoli, etc. »; – 4° Il desiderio della gloria di Dio: « Elevatevi Signore, al di sopra dei cieli. » – È un dovere per ogni Cristiano rendere in particolare continue azioni di grazie al Signore per i benefici generali e pubblici che Dio accorda alle nazioni ed ai popoli. Questa mancanza di riconoscenza, sia privata che pubblica, è una delle omissioni più comune tra i Cristiani, ed una di quelle con gli effetti più funesti, sia per gli individui, sia per le società.  

II — 5 – 14.

ff. 5, 6. – « La legge è stata data per Mosè, la grazia e la verità ci è stata data per mezzo di Gesù-Cristo. » (Giov. I, 17).  La grazia è sicuramente la stessa cosa che la misericordia: così, secondo queste parole dell’evangelista, è Gesù- Cristo che ha dato agli uomini la misericordia, e che ha mostrato loro la verità. Tuttavia i profeti e Davide più di tutti gli altri, hanno sovente parlato della misericordia e della verità di Dio; essi hanno conosciuto questi due attributi; essi ne hanno fatto la base della loro fiducia. Occorre dunque, per conciliarli con il Vangelo, che essi abbiano contato su Gesù-Cristo, che essi lo abbiano visto in spirito, che abbiano penetrato il mistero della sua missione, il cui oggetto era far donare la misericordia e far conoscere la verità. Così tutte le volte che questi profeti esaltano la misericordia e la verità di Dio, essi devono avere avuto di vista Gesù-Cristo, e questa dottrina diffonde una grande luce su una quantità di testi dell’Antico Testamento e dei salmi in particolare. Sarà dunque vero, secondo il senso di questi ultimi due versetti, che « la misericordia di Dio è al di sopra dei cieli, e la sua verità sopra le nubi », cioè nel più alto grado di eccellenza, perché Gesù-Cristo è il capolavoro della sapienza di Dio; senza di Lui, non avremmo avuto parte né alla misericordia, né alla verità di Dio, e attraverso di Lui, questi due grandi attributi non solo ci sono conosciuti, ma pure comunicati per gli effetti che operano su di noi. (Berthier). – Gesù-Cristo è la misericordia e la verità: la misericordia, perché secondo San Giovanni « … Egli è propiziazione per i nostri peccati » la verità, poiché è incapace di ingannarsi e di ingannare alcuno; è anche il nome che dà a se stesso. Ma la misericordia e la verità, è Dio: Gesù-Cristo è dunque Dio, ed è Lui appunto che il profeta invita in questo versetto, a manifestare la sua gloria nel cielo e sulla terra. Questo grande mistero è compiuto: Egli è stato manifestato nella carne, autorizzato dallo Spirito, visto dagli Angeli, predicato ai gentili, creduto nel mondo, ed elevato nella sua gloria. » (I Tim., III, 16) … Parole sublimi dell’Apostolo, esse comprendono tutta l’economia della salvezza, tutte le vie di misericordia e di verità che Dio ha aperto al genere umano nell’incarnazione del Verbo eterno (Idem). – Noi possiamo e dobbiamo desiderare che Dio ci faccia di tempo in tempo conoscere, con qualche tratto splendente della sua potenza, che Egli è Dio, e che, benché elevato sopra i cieli, non trascura ciò che accade sulla terra, e farvi risplendere la sua gloria. Questi tratti sono talvolta necessari, alfine di mettere al coperto coloro che Egli ama affinché siano liberati dalle oppressioni alle quali sono troppo spesso esposti. (Dug.). – « Affinché i vostri diletti siano liberati. » La santa teologia ci insegna che Dio ha compreso dalle origini, in uno stesso decreto, il suo Figlio incarnato e tutti gli eletti, ed ha così ben legato costoro alla persona di Lui, che qui in basso hanno in comune la stessa vita, e lassù la medesima gloria, e che per Dio divengono un solo oggetto dei suoi pensieri e delle sue affezioni, secondo queste parole del Salvatore: « Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità ed il mondo sappia che Tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.» (Giov. XVII, 23).; (Mgr PIE, Discours, etc, T., VIII, 223.). – « Tutto per gli eletti. » (II Tim., II, 10). È una cosa prodigiosa, vedere l’esecuzione dei disegni di Dio, attuare in men che nulla le imprese più elevate; tutti gli elementi cambiano di natura per servirlo; infine, fa apparire in tutte le sue azioni che Egli è il solo Dio ed il Creatore del cielo e della terra. Ora si tratta qui del compiersi del più grande disegno di Dio, che è la consumazione di tutte le sue opere, cioè della sovrana beatitudine che Egli riserva ai suoi eletti (BOSSUET, Serm. pour la Toussaint.). – « Affinché i vostri diletti siano liberati. » Chi può dubitare che questo disegno non sia straordinario, poiché Dio vi agisce con passione? Egli si è contentato di dire una parola per creare il cielo e la terra. Noi non vediamo colà una veemente emozione. Ma, per ciò che riguarda la gloria dei suoi eletti, voi direste che vi si applichi con tutta le sue forze; quanto meno vi ha applicato il più grande di tutti i miracoli: l’incarnazione di suo Figlio … mai Dio ha voluto nulla con tanta passione; ora, volere per Dio, significa fare. Dunque ciò che farà per i suoi eletti sarà sì grande, che tutto l’universo apparirà un nulla nei confronti di quest’opera. La sua passione è così grande che passa a tutti i suoi amici, e fa rimescolare ai suoi nemici tutti i loro artifici per opporsi all’esecuzione di questo grande disegno. (Idem).- Se le leggi di uno Stato si oppongono alla salvezza eterna dei suoi eletti, Dio distruggerà tutto quello Stato per liberarli dalle sue leggi; Egli prende le anime a questo prezzo, agita il cielo e la terra per generare i suoi eletti, e così nulla gli è caro tanto quanto questi figli della sua eterna delizia, questi membri inseparabili del suo Figlio diletto, e nulla risparmia purché li salvi (BOSSUET, Or. fun. de la duch. d’Orl.). – « Salvatemi con la vostra destra ed esauditemi. » Siccome vi domando ciò che Voi volete darmi, che io non gridi durante il giorno con la voce dei miei peccati, in modo da non essere esaudito (Ps. XXI, 2), né durante la notte perché non mi ascoltereste, ma è la vita eterna che io vi domando, o mio Dio: esauditemi dunque, perché chiedo di essere ammesso alla vostra destra. Ogni fedele, conservando nel suo cuore la parola di Dio, avrebbe un vivo timore del giudizio avvenire, vivrebbe una santa vita, in modo tale che la sua condotta non porti alcuno a bestemmiare il Nome del suo Dio, chiederebbe frequentemente nelle sue preghiere i beni di questo mondo, ed anche senza essere esaudito; ma se egli prega per ottenere la vita eterna, è sempre esaudito. Chi in effetti, quando è malato, non chiede la salute? E tuttavia gli è più utile essere malato. Può accadere che non siate esaudito in questa vostra preghiera; ma allora non sarete esaudito secondo la vostra volontà, per esserlo però per la vostra utilità. Se al contrario voi chiedete a Dio che vi doni la vita eterna, che vi doni il regno dei cieli, che vi ammetta alla destra di suo Figlio, quando verrà a giudicare la terra, siatene certi, un giorno lo otterrete, anche se non lo avrete immediatamente; perché non è ancora giunto il tempo di ottenerlo. Voi siete esaudito e non lo sapete; ciò che chiedete sarà fatto, benché non sappiate come sarà fatto. La pianta sta radicando, non ancora ha prodotto i suoi frutti. « … Che la vostra destra mi salvi ed esauditemi. » (S. Agost.). 

ff. 7-9. – « Dio ha parlato con la voce del suo santo. » Perché temete che la parola di Dio non si compia? Se avete un amico saggio e serio, come parlereste di lui? Egli ha detto tale cosa, necessariamente questa cosa si farà; è un uomo serio, non agisce con leggerezza, non si lascia facilmente distogliere dalle sue decisioni; ciò che ha promesso è certo. Ma pur tuttavia questo amico non è che un uomo, e l’uomo vuol talvolta compiere ciò che ha promesso, ma non può farlo. Da parte di Dio non avrete nulla da temere; Egli è veridico, è cosa certa; Egli è onnipotente, cosa ugualmente certa; Egli allora non può ingannarci ed ha il potere di compiere ciò che ha promesso. Perché dunque temere di essere deluso? Ma non siete voi l’artefice della vostra delusione, bisogna che perseveriate fino alla fine; perché da parte sua, Dio vi donerà certamente ciò che ha promesso. « Dio ha parlato con la voce del suo santo. » Qual è il suo santo? « Dio, dice l’Apostolo, era nel Cristo, riconciliando il mondo con Lui. » (II Cor. V, 19). Egli era dunque in questo Santo, di cui il salmista ha detto in un altro passo: « Mio Dio. La vostra voce è nel vostro Santo. » (Ps. LXXII, 14), « Dio ha parlato con la voce del suo Santo. » Il Profeta non dice quali parole Dio abbia pronunciato; ma come Dio ha parlato con la voce del suo Santo, e che niente si può fare che non lo abbia detto Dio, ciò che segue si compirà in conseguenza della parola di Dio … (S. Agost.). Io mi rallegrerò e dividerò Sichem, e non misurerò la valle delle tende. » Non ci arrestiamo a queste vittorie di Davide, che egli predice come se fossero già arrivate, il cui frutto era l’ingrandirsi del regno di Giuda; ma consideriamo in queste vittorie e nelle loro conseguenze i simboli di ciò che doveva compiersi nella Chiesa di Dio, di cui il regno di Giuda era la figura, vale a dire le vittorie che gli eletti avrebbero riportato sui nemici della loro salvezza. – Essi divideranno tra loro queste vaste campagne del cielo, queste ricche vallate, o piuttosto ciascuno le possiederà tutte intere, senza alcuna divisione, senza nulla togliere alla parte degli altri. In questo regno dove, secondo l’espressione di Sant’Agostino, non c’è timore di avere pari, ove non ci sono gelosie tra concorrenti, (S. Agost., de Civit. Dei, lib. V. c. XXIV), tutto apparirà congiuntamente agli eletti, senza alcuna gelosia, e Dio sarà la loro principale, o piuttosto la loro unica forza. Aspettando essi si nutrono, come di una carne deliziosa, con la speranza di questi beni futuri; essi camminano a grandi passi nelle vie del cielo, essi si estendono da virtù in virtù. « Gli stranieri sono loro sottomessi, o piuttosto nessuno è loro estraneo; e purché si voglia amare Dio, si diventa subito loro amici. » (Dug.). 

ff. 10, 11. – « Chi mi condurrà fino alla città fortificata? » Per Davide, questa città fortificata, era la capitale dell’Idumea, figura del mondo che dobbiamo combattere e di cui bisogna impadronirsi; è là un compito al di sopra delle nostre forze. Noi non siamo capaci di fare il seppur minimo bene, di prendere la città più debole, ancor meno se fortificata. «Non siete voi, Signore, che ci avete rigettato, e non camminate alla testa delle nostre armate? Chi mi introdurrà nella citta fortificata? » Chi se non Dio? « Chi mi farà penetrare fin nell’Idumea? » vale a dire chi mi farà regnare sugli uomini della terra, perché questi pur rispettandomi, non sono miei e non vogliono progredire appartenendomi? « Chi mi introdurrà nell’Idumea? » vale a dire chi mi farà regnare fin sugli uomini della terra. Non siete Voi, mio Dio, che ci avete respinto? Tuttavia non uscirete alla testa delle nostre armate. Ma perché ci avete respinto? Perché ci avete distrutto? Perché « … Voi siete irritato contro di noi,  e non avete pietà di noi », voi ci condurrete dopo averci respinto; e benché non uscirete alla testa delle nostre armate, Voi ci condurrete. Che significa: « Voi non uscirete alla testa delle nostre armate? » Il mondo verrà contro di noi, il mondo sta per calpestarci sotto i piedi; sta per avvenire, con l’effusione del sangue dei martiri, un mucchio di testimonianze, ed i pagani, i carnefici, diranno: dov’è « il loro Dio? » (Ps. LXXVIII, 1). Allora « … Voi non uscirete o mio Dio, alla testa delle nostre armate; » perché non apparirete come loro nemico; non mostrerete la vostra potenza ma agirete dal di dentro. Che vuol dire: « Voi non uscirete? » Voi non apparirete. Sicuramente, quando i martiri erano incatenati e condotti al supplizio, quando erano condotti in prigione, quando venivano mostrati pubblicamente alla popolazione per servire loro da trastullo, quando venivano esposti alle bestie, quando venivano colpiti con il ferro, consumati con il fuoco, li si disprezzava come gente da Voi abbandonata, come gente proba di ogni soccorso! E come Dio agiva in loro? Come li consolava interiormente? Come rendeva loro la speranza della vita eterna? Come non abbandonava i loro cuori in cui l’uomo abitava in silenzio, felice, se era buono; miserabile, se era malvagio? Colui che non usciva alla testa delle loro armate li abbandonava dunque per questo? Non ha, al contrario introdotto la Chiesa fin nell’Idumea e nella città fortificata, in maggior sicurezza che se fosse stato alla testa delle loro armate? In effetti, se la Chiesa avesse voluto far guerra e combattere con la spada, poteva sembrare che combattesse per la vita presente; ma poiché essa ha disprezzato la vita presente, si è fatta un grande cumulo di testimonianze per la vita futura (S. Agost.). 

ff. 12,13. – « Dateci il vostro soccorso nell’angoscia, perché il soccorso che viene dall’uomo è vano. » Coloro che non hanno in sé il sale della saggezza, vadano ora, abbiano a desiderare per essi la salvezza temporale … che non è che la vanità del vecchio uomo. « Dateci il vostro soccorso; » datecelo anche se sembrate abbandonarci, e soccorreteci per questa via, « con Dio, noi non trionferemo né con la nostra spada, né con i nostri cavalli, né con le nostre corazze, né con i nostri scudi, né con la forza delle nostre armate, né all’esterno. In quale posto dunque? Dentro di noi, là dove siamo nascosti! Ma come trionferemo all’interno? « Con Dio noi trionferemo. » noi saremo come sviliti e come calpestati, saremo considerati come uomini senza nessun valore; ma Dio ridurrà i nemici a nulla. Ecco cosa è capitato ai nostri nemici: i martiri sono stati calpestati, con la loro pazienza, con il loro coraggio a sopportare i tormenti, con la loro perseveranza fino alla fine, essi hanno trionfato con l’aiuto di Dio (S. Agost.). – Cosa ne è di tutti i Santi nel corso di tutti i secoli. Il mondo li guarda nella tribolazione, negli esercizi di penitenza, nella solitudine, come la feccia della terra, come maledetti senza appoggio e senza risorsa, come degli imbecilli che non hanno talenti per fare fortuna, né di rendersi utili alla società, questi uomini nascosti ed oppressi sono nondimeno eroi agli occhi degli Angeli e di Dio stesso; essi escono da questo mondo, carichi delle spoglie di tutti i nemici della salvezza. La storia del mondo non parlerà di queste imprese, ma i fasti dell’eternità ne conserveranno la memoria. Tutta la grandezza umana perirà e quella dei santi sarà come quella di Dio, immutabile ed immortale. (Berthier).

PREDICHE QUARESIMALI (I-2020)

Nel MERCOLEDI’ dopo la prima Domenica

VII.

[P. Segneri S. J.: Quaresimale; Ivrea, 1844, Dalla Stamperia degli Eredi Franco, Tipogr. Vescov.]

“Curri spìritus immundus exierit ab nomine, ambulat per loca arida, quærens requiem, et non invenit.”

S. Matth XII, 43

I. Fu già tempo in cui gli uomini riputavano di aver fatta una gran prodezza, qualor essi giungessero ad ottenere che tante fiere, le quali albergano o tra gli orrori de’ boschi, o tra le verdure de’ prati, non recassero loro alcun nocumento; né si stendea la loro industria più oltre, che a procurare di non venire o strangolati dagli orsi, o sbranati da’ cignali, o morsicati dalle vipere, o punti dagli scorpioni. Ora noi ci ridiamo del poco cuore che avevano quegli antichi, e assai più innanzi abbiamo stesa l’audacia de’ nostri voti, ed aguzzato valore de’ nostri ingegni. Vogliamo or noi che queste fiere medesime, dianzi dette, non solamente non ci sieno d’offesa, ma che ancor ci ridondino a giovamento. Però abbiamo animosamente imparato e ad armarci delle loro pelli, e a nutrirci delle lor carni, e a valerci delle loro ossa, ed infino a sanarci co’ lor veleni, da noi cambiati mirabilmente in antidoti; a segno tale, che se ben si considera, molto più son oggi quegli uomini a cui dalle fiere vien conservata la vita, che non son coloro a’ quali vien tolta. Or così appunto converria che facessimo col demonio, fiera senza dubbio la pessima ch’abbia il mondo: Fera pessima (Gen. 37. 33). Non ci dee bastare oggimai il guardarci da esso, di resistergli, di ribatterlo, di fugarlo; dobbiam da esso cavare anche utilità. Ma qual utilità, mi direte, può da lui trarsi? Grandissima, se vogliamo, e questa sia, che impariam da esso a prezzar l’anima nostra. Egli, per testimonianza di Cristo, n’è sì geloso, che quando tolta e sé veggala dalle mani, non si dà pace, ma tutto ansioso, ma tutto ansante faticasi a riacquistarla : Cum spiritus immundus exierit ab homine, ambulat per loca arida, quærens requiem, et non invenit.  Ed a noi non dà niuna pena, che la riacquisto? Mirate un poco quanto studio egli adoperi a farci suoi. Egli ci aggira con fallacie, com’Eva; egli ci assalta con traversie, come Giobbe; egli ci affascina con trufferie, come Giuda; egli, come usò a Cristo, ci tenta con rie lusinghe, ci segue, ci asseconda, ci applaude, ci offerisce magnifiche donazioni; e noi per contrario non vogliamo aver di noi stessi veruna cura? Ah dilettissimi, e com’è giammai possibile tanto inganno? Non prezzar l’anima propria! Non prezzar l’anima propria! Parliamo chiaro: non aver più sollecitudine alcuna in ciò che si spetta, se non altro, a fuggir dalla dannazione! Deh lasciate ch’io questa volta mi sfoghi un poco in deplorare una sì stravagante trascuratezza; e voi compatitemi, perché, se starete attenti, ancor a voi sembrar dovrà luttuosa.

II. E certamente che tra’ Cristiani si dia questa poca sollecitudine di salvarsi, pur ora detta (non accade, o signori miei, che ci lusinghiamo), è manifestissimo, si dà, si dà. Un contrassegno assai spedito a discernere se ci prema alcuna faccenda, si è primieramente, a mio credere, ragionarne, discorrerne, dimandarne, ricercare in essa chi vaglia ad indirizzarci. Giacobbe, il quale, ito a cercar di Labano in terra straniera, ha vera sollecitudine di conoscerlo, minutamente ne interroga que’ pastori da cui crede averne contezza (Gen. XXIX. 5 et 6). Giuseppe, il quale, ito a cercar de’ fratelli per vie solinghe, ha vera sollecitudine di trovarli, ansiosamente ne chiede a quei viandanti da cui spera adirne novelle (Gen. 37. 16). E Saule, il quale non altro al fino esce a ricercar che alcun’asine smarrite al vecchio suo padre, contuttociò, perché ancor egli n’è veramente sollecito, che non fa? che non tollera? che non tenta? Credereste? non solo egli però gira monti, attraversa piani, ed indefesso ne scorre per varj borghi; ma non dubita inoltre d’andare a chiedere qualche favorevole oracolo intorno ad esse, e ad interrogarne un profeta; né solamente un profeta degli ordinarj, ma il segnalato, ma il sommo, ma un Samuele: Eamus ad videntem (1 Reg. IX. 9). Che dite dunque, uditori? Potete voi dar a credere che vi prema di salvar l’anima vostra, mentre non è che mai ricerchiate un consiglio su tanto affare, che ne consultiate con una persona di spirito, che ne conferiate con un uom di dottrina? Riferisce san Luca, che quegli uditori, i quali, intimoriti alle prediche di Giovanni, erano già cominciati alquanto ad entrare in qualche sollecitudine di se stessi, lo andavano a ritrovare sin tra le grotte, e gli domandavano: Quid ergo faciemus? (S. Luc.. III, 14). Vi andavano popolari, e dicevano: Quid faciemus? Vi andavano pubblicani, e dicevano: Quid faciemus? Vi andavano sino gli uomini dati all’arme, e tutti ansiosi ancor essi lo interrogavano: Quid faciemus et nos? Voi (dite il vero) avete mai finor di proposito chiesto a niuno: Quid boni faciam, ut habeam vitam ætérnam? ( S. Matth. XIX. 16). Comparite ben voi talora (chi può negarlo?) in un chiostro di solitari; ma per qual fine? Per diportarvi tra le amenità de’ lor orti, o per discorrere con qualcuno di essi delle vittorie del Tartaro, delle rotte del Transilvano, delle novelle che vengano a noi d’Irlanda: ma per rintracciar seriamente qual sia la strada che per voi trovisi più opportuna a salvarsi, non so se mai scomodato abbiate di camera un Religioso. – Ma qual maraviglia che ne trattiate sì poco, o sì poco ne discorriate, mentre neppur voi tra voi stessi avete in costume dì talor fissarvi la mente? chi ha gran sollecitudine di un negozio, non può da esso, benché voglia, distogliersi col pensiero. Pare appunto un cervo ferito, che dovunque va, porta seco affannosamente la sua saetta. Vi pensa il giorno, vi ripensa la notte, l’ha fin presente nell’anima allor ch’ei giace sepolto in un alto sonno. Così di Temistocle, gran capitano de’ Greci, racconta Tullio, che, ancor dormendo, amaramente invidiava al suo competitor Milziade i trofei. Così di Marcello, gran capitano de’ Romani, narra Plutarco, che, ancor dormendo, terribilmente sfidava il suo nemico Annibale all’armi; e così altri, che da qualche affetto veemente fur posseduti, soleano in esso di leggieri prorompere ancor dormendo, siccome appunto nelle sacre Carte si legge di Salomone (3 Reg. 3, 5). il quale, quantunque in sogno, interrogato da Dio che grazia volesse: Postula quod vis, ut dem tibi, unicamente addomandò la sapienza: Da mihi sapientiam (Sap. IX. 4), perché di questa unicamente avea brama, mentr’ei vegliava: Optavi, et datus est mihi sènsus (Ibid. VII. 7). Come dunque ha verun di voi gran premura di assicurare l’eterna sua salvazione, mentre passeranno i dì interi, non che le notti, senza che di ciò mai vi ricorra alla mente un leggier fantasma; e laddove anche addormentati starete fra voi pensando alle vanità (conforme disse Michea), alle caccie, a’ giuochi, a’ festini, a’ balli, agli amori, alle commedie, alle giostre; Et cogitatis inutile in cubilibus vestris (Mich. II. 1); neppure desti vi sentirete una sola volta rapire violentemente i pensieri al Cielo?

III. Benché fermate, ché il non pensare mai punto all’anima propria ne denota veramente una poca sollecitudine; ma più ne denota, s’io non erro, il pensarvi, e non farne caso. E non vegg’io chiaramente che il suo servizio è quello che vieti posposto ad ogni altro affare, e quasi ch’egli sia fra tutti o il men grave o il men gradito, si rigetta a far sempre in ultimo luogo? Sì, sì, che il veggo, ed oh così avess’io occhi da piangerlo, come gli ho da considerarlo! Sa talun di voi molto bene di aver la coscienza carica di peccati, lo conosce, lo intende; e però un dì ripensando seco a’ gran rischj che a lui sovrastano, si sente al cuore una ispirazion pungentissima che gli dice: Va, miserabile, va a ritrovare il tal Sacerdote, e confessati: vade, ostende te Sacerdoti (S. Luc.. V. 14). Che risponde egli? Orsù, di certo io risolvo di confessarmi. Ma quando? Il dì d’oggi? Oggi io mi ritrovo invitato ad un tale ameno diporto: il farò dimani. È convenevole questa mattina udir messa. L’udirò; ma se avanzi tempo dappoiché avrò ragionato a quell’avvocato per le mie liti. È salutevole questa mattina ire alla predica. Vi andrò; ma se avanzi tempo dappoiché avrò riscosse da quel mercatante le mie ragioni. E così andate pur discorrendo nel resto, sempre ciò che spetta all’anima si vuol fare, se avanzi tempo: In crastinum seria. E cotesta voi riputate che sia premura? Era Eliezer, famoso servo di Abramo (Gen. XXIV), dopo un disastroso viaggio, arrivato a Naéor, città di Mesopotamia, per ivi riportar dalla casa di Batuele qualche onorevole sposa al giovine Isacco. E già conosciuto e raccolto, com’è costume, nell’amorevolissimo albergo, gli vengono tutti intorno per fargli onore; e chi vuol trargli gli arnesi, e chi vuole introdurlo alle stanze, e chi, considerandolo macero dal cammino, corre prontamente ad arrecargli alcun rinfresco, finché si appresti da cena: Et appositus est panis in conspectu ejus( Gen. XXIV. 33). Che credete voich’egli faccia a tali apparecchi? Piano (grida) piano, signori, non vi affannate, perch’io vi giuro che non gusterò qui boccone, s’io non vi avrò prima esposte le mieambasciate: Non comedam, donec loquar sermone meos (Ibid.). E così in piedi, prima di deporre ancor gli abiti di campagna,prende a fare una lunghissima diceria, nella quale tutta minutamente racconta la serie de’ suoi trattati, i desiderj di Abramo, le qualità di Sara, le preminenze d’Isacco, le ricchezze abbondevoli di lor casa, gli abboccamenti da sé pur dianzi casualmente tenuti d’intorno al pozzo con la cortese giovanetti Rebecca, l’acqua che da lei ricevette, i regali che a lei donò. Che più? In quel primo congresso volle così, com’è gli avea cominciato, non sol disporre, ma interamente conchiudere il parentado, e fermarle nozze; né prima restò di dire, che non udisse: En Rebecca coram te est, tolle eam, et sit uxor domini tui(Ibid. XXIV. 51). Ma ch’hai paura, per tua fè, nobil servo? che il tempo fugga? che l’opportunità ti abbandoni? o pur che stiasi già da’ parenti in trattato di dar Rebecca ad altrui? So che di ciò tu non temi. Aspetta dunque, ristorati prima un poco, gradisci i complimenti. soddisfa alle accoglienze, e dipoi tu di ciò che ti sei posto in cuore, quando, già riposato e già fresco, potrai però negoziare con maggior agio. Che il servo aspetti: Ah non permette a lui ciò la sollecitudine che ha di compire le commessioni a lui date dal suo signore. Quel che preme più, dee premettersi in primo luogo; e però ch’egli si ricrei? ch’egli si cibi? falso, falso: Non comedam, donec loquar sermones meos. In hoc ostendit(così commenta avvedutamente il Lirano), in hoc ostendit habere se negotium sibi impositum Cordi. (in Gen. c. 24). Or, se ciò è vero, giudicate voi se dirsi sollecitudine quella che usate voi per l’anima vostra, mentre non solamente la posponete ad un necessario ristoro del vostro corpo, ma a’ passatempi inutili, a’ giuochi vani, a’ trattenimenti da scherzo. Echi è di voi che giammai dica tra sé: io questa mane son caduto in peccato; orsù dunque non comedam, finché io prima non abbia vomitato dal cuore sì rio veleno, e non mi sia confessato: io ho frodata a quel poverino la sua mercede; non comedam, finch’io prima non l’abbia tratto di angustie col soddisfarlo: io ho macchiata a quell’emolo la sua fama; non comedam finché io prima non gli abbia risarcita l’ingiuria con ritrattarmi: io ho violate quelle ragioni ecclesiastiche, ed ho usato al mio Prelato un tal atto d’irriverenza, di fasto, di contumacia; non comedam adunque, non comedam finch’io non sia prima andato ad umiliarmigli, a protestare l’errore, a propor l’emenda: chi è mai, dico, o miei signori, tra voi, che così proceda, e che non anzi riserbi ad aggiustar le partite della coscienza in ultimo luogo, e quando avrà già soddisfatto alle obbligazioni del mondo, a’ capricci dell’appetito?

IV. Ma, stolto me, che dich’io? Non è forse vero che molti una tal cura rigettano alla vecchiaia, ed allora dicono di voler provvedere all’anima loro, quando già languidi la terran su le labbra, e saran vicini a spirar l’estremo fiato? Qual dubbio adunque che leggerissima n’è la sollecitudine, per non dire ch’ella è minima, ch’ella è nulla? Non già così procedete negli altri affari. Si dee collocare una figliuola in matrimonio onorevole? si collochi quanto prima. Si deve procacciare alla famiglia una preminenza fastosa? procaccisi quanto prima. Si devon dilatare i poderi? dilatinsi quanto prima. Si devon terminare le liti? si terminino quanto prima. Si deve stabilire la eredità? stabiliscasi quanto prima. E perché tanto di fretta? Non potreste anche alla vostra morte rimettere tali cure? Potreste, qual dubbio c’è? ma voi non volete, perché  per queste, dite voi, si richiede una mente libera, tempo lungo, trattati attenti, diligenze speciali; laddove per salvar l’anima è talor a molti bastato un momento solo. Ah Cristiani! ed è possibile lasciarsi uscir di bocca sì gran follie! Oh detti detestabili! oh sensi enormi! oh risposte insoffribili in uom fedele! Ma su, concedasi che sia così come dite, perché io non voglio deviar dal proposito principale ch’ho per le mani. Non potete però negarmi che il riserbare la salvezza dell’anima al passo estremo non sia per lo manco un cimento molto arrischiato, e il qual non a tutti riesce a un modo, ma se sortisce in uno, fallisce in cento. Impossibile non est in extremis habere veram pœnitentiam: ciò si dia per verissimo,dice Scoto, dottor sì illustre (in 4 sent. dist.10): hoc tamen difficillimum est, et ex parte hominis, et ex parte Dei. Ex parte hominis,perché è più indurato nel male  ex parte Dei, perché è più irritato allo sdegno. Qual contrassegno però di sollecitudine vi par questo, voler piuttosto avventurare il buon esito della vostra eterna salute, ed esporlo a rischio, che avventurare o il matrimonio della figliuola, o le preminenze della famiglia, o i poderi, o le liti, o l’eredità, quasi che non sia principio indubitatissimo quello di santo Eucherio, che summas sibi sollicitudinis partes salus, quas summa est, vindicare debet(ep. 1). Non già fu tale l’insegnamento che die il prudente Giacobbe (Gen. XXXII.). Uditelo, ch’è divino.Tornava egli con tutta la sua famiglia a ripatriare nel paese di Cana, dond’era stato spontaneamente già esule da venti anni, afin di sottrarsi al grave sdegno implacabile di Esaù, suo fratel maggiore. Quando ecco videsi non lungi ornai dalla patria venire incontro questo suo fratello medesimo tutto armato, con dietro un seguito di quattrocento suoi bravi. Che però il misero ebbe sospetto che quegli, ricordevole ancor delle antiche offese, venisse a prenderne tarde sì le vendette, ma tanto ancora più dolorose e più dure, quanto che non sarebbero or più cadute sopra del solo offensore, ma sopra ancora e delle sue femmine amate,e de’ suoi pargoletti innocenti. Che fece adunque Giacobbe a così gran rischio? Bipartì subito la famiglia in più file ad imitazione di un piccolo squadroncino. Mise alla testa le due schiave Baia e Zelfa, co’ quattro figliuoletti che gli erano d’esse nati; appresso con li suoi sette parti collocò Lia; e Rachele la bella egli pose in ultimo, col vezzosetto Giuseppe, ch’era il solo germoglio da lei fiorito. Ora addimando: che pretese egli mai con tale ordinanza? di venire alle mani? di dare all’armi? o di sostenere almen l’impeto di Esaù con virtù maggiore? Ma che poteva un volgo imbelle di femmine e di fanciulli contra un nervo di sgherri, che sol veduti bastavano a por terrore? Ben conobbe adunque Giacobbe, che a lui non era possibile di resistere. Però,se fosse convenuto perire, volle almeno procedere con riserbo, e non esporre tutte egualmente a pericolo le persone, che non erano tutte egualmente care. Meno care gli erano le schiave; però si doveva convenir ad esse incontrare le prime furie: più delle schiave da lui stimata era Lia; e però più studiarsi di assicurarla: e più di Lia gradita gli era Rachele; e però più si adoperò di difenderla. Posuit ancillas in principio, udite l’Oleastro egregio commentatore (in cap. Xxxiii. Gen. ann. ad 1. 1), ut scilicet iram fratrisminus diìectæ acciperent prius: quo docuitminus dilecta prò conservatione eorum, quæmagis diliguntur, esse periculis objectanda.Or, s’è così, che poss’io dunque mai dire, o Cristiani miei, quando io considero come l’anima vostra è quella appunto che da voi viene avventurata la prima in qualunque rischio, ed a cui tocca di stare alle prime frontiere, alle prime file? Ella, ella tien presso voi le parti di ancella; alla qual però si appartiene di andare a perdersi, perché si salvi l’onore, perché si salvi la roba, perché si salvino i trattenimenti profani, perché i figliuoli, perché i parenti, perché gli amici, perché le femmine impure, perché tutti anch’essi si pongano prima in salvo i corsier da maneggio e i cani da caccia. Oh sciocchezza! oh insania! o portento! oh bestialità! Furore Domini plenus sum, compatitemi se io mi sfogo, furore Domini plenus sum: non ne posso più. Lavoravi sustinens; e però come un Geremia (VI. 11) sono ancor io necessitato di romperei freni allo zelo, quasi che già noi siam giunti al sommo di quello ch’io vi doveva dimostrare per deplorabile.

V. Eppur v’è di più. Perché finalmente espose, è vero, le proprie schiave Giacobbe le prime ai pericoli; ma nondimeno non le prezzò così poco, che l’esponesse a’ pericoli volontarj, ma solo agl’inaspettati, agl’inevitabili; perché non fu esso che uscisse contra Esaù, ma fu Esaù, il quale uscì contro d’esso; e però non gli era possibile di schivarlo. Ma voi molto peggio di schiave tali trattate l’anima vostra; mentre non solo la esponete la prima a que’ pericoli che non volendo incontrate, ma la mandate ad incontrare i pericoli; e, quasi abbiate vaghezza d’ogni suo danno, là v’inoltrate, dove il parlare è più osceno, dove il guardare è più lubrico, dove il conversare è più reo, dove i demonj, diciam così, dove i demonj, non già nascosti in agguato, ma a guerra aperta, ma ad armi ignude combattono contro l’anime, per condursele in perdizione. E ciò sarà punto averne, non dirò più sollecitudine alcuna, ma almen riguardo?

VI. Povera madre del pellegrinetto Tobì! Lo aveva ella consegnato in mano ad un Angelo, benché nel vero non giudicato da lei se non per un uomo di segnalata bontà e di rara saviezza: contuttociò, troppo del figliuolo gelosa, si pentì subito. Né interamente fidandosi, ch’ei non fosse per incontrar nella via qualche gran disastro: Flebat irremediabilibus lacrymis; sospirava, singhiozzava e gemeva, così dicendo: Heu, heu me fili mi, ut quid te misimus peregrinavi, lumen oculorum nostrorum, baculum senectutis nostræ, solatium vitæ nostræ, spem posteritatis nostræ? Omnia simul in te uno habentes(belle parole!) omnia simul in te uno habentes, non te debuimus dimittere a nobis (Tob. X, 4, 5). No, no, che mai non dovevam porti a rischio, mandandoti da noi lungi, mentre in te sta riposto ogni nostro bene; no, no, che mai non doveam porti a rischio. Noi fidarti all’altrui custodia? noimetterti in altrui mano? Ah bene, abbiamo dimostrato, o figliuolo, di non conoscerti. e di non sapere che niente abbiamo nel mondo fuori di te, e che in te solo abbiam tutto; Omnia simul in te uno habentes, non te debuimus dimittere a nobis. Cosi ululava la misera a ciascun’ora. Né valeva che il vecchio marito la rincuorasse con accertarla, che fedelissimo era il custode assegnato al figliuol diletto, e che però potevano in lui quietarsi, in lui riposare. Tace, et noli turbati; satis fidelis est vir ille, cum quo misimus eum (Tob. X. 6). Ciò, dico non valea punto; perch’ella però non paga, nessun sollievo ammetteva, nessun conforto; nullo modo consolari poterat (Ibid. X. 7). Anzi ogni dì se ne usciva quasi fanatica fuor di casa, girava tutte le strade, visitava tutte le porte, che a lei potevano rendere il suo figliuolo; e talor anche su qualche colle più rilevato fermatasi alla campagna, quivi d’ogni intorno guardava per ansietà di potere un giorno dir: eccolo: ut procul videret eum, si fieri posset, venientem (Ibid.). Né ancor vedendolo, rinnovava i lamenti, accresceva le grida; e così a casa sconsolatamente ridottasi in su la sera: Ah di sicuro (tornava a dir) che il mio figlio è pericolato ! Chi sa se ‘l misero ora di me sua madre non chiami, caduto da qualche balza! Chi sa che ‘l misero ora di me sua micidiale non dolgasi, sbranato da qualche, fiera? Amatissimi miei signori, è tanta la gelosia, la qual dovrebbe aver sempre ciascun di noi dell’anima propria, che neppur fidare ad un Angelo la dovremmo, se noi conoscessimo apertamente per tale, e se non ne avessimo ben ravvisate le spoglie, quantunque splendide, per veder se sotto ascondessero qualche frode, nolite omni spiritui credere (quest’era appunto il consiglio di S. Giovanni in negozio di tanto peso), Nolite omni spiritui credere; ma chiaritevi prima s’egli è da Dio: sed proba te spiritus si ex Deo sunt (1 Jo. IV. 1). Che dovrò dunque io dire qualor contemplo che tanti e tanti la vanno a mettere in mano al demonio stesso, e che il demonio le assegnano per sua guida nel pellegrinaggio mortale, lasciandosi come ciechi da lui condurre tra orribili precipizj a feste di amore, a visite d’amore, a veglie d’amore, a ridotti palesi d’impurità, e, per dirla in una parola, in tutte le occasioni più prossime di dannarsi? Dovrò dir io che questi abbiano alcun affetto all’anima propria? che la curino? che la stimino? che tengano in lei riposto ogni loro bene? Ah, se ciò fosse, non la metterebbono mai, così disperatamente in mano al demonio. Anzi nemmen tra gli uomini, no, nemmeno tra gli uomini l’affiderebbero certamente ad ognuno così alla cieca: Non omni spiritui crederent. Ma che? se avessero a procacciarsi un compagno, guarderebbero prima com’egli fosse nimico al vizio; se avessero ad affezionarsi ad un padrone, mirerebbero prima com’egli fosse favorevole alla virtù; tra i confessori si cercherebbe il più dotto, tra i teologi si preferirebbe il più pio, tra i consiglieri si amerebbe il più schietto; e così sempre si procurerebbe di metterla più in sicuro che si potesse. Ma ohimè! che molti fanno appunto l’opposto; e se mi è lecito di usare in ciò le parole di Geremìa (XII. 7); dant dilectam animam suam in manu inimicorum ejus; danno la lor anima in mano ai nemici d’essa; perciocché non solo comunemente più piacciono o i compagni più liberi, o i padroni più licenziosi; ma molti ancora, se la lor coscienza hanno a porre nelle provvide mani di un confessore, ne cercan uno che men avveduto gli palpi ne’ loro delitti; se in quelle di un teologo, lo vogliono scorretto, perché li assecondi; se in quelle di un consigliere, lo vogliono interessato, perché gli aduli. Dant dilectam animam suam (oh cosa orribile!), dant dilectam animam suam in manu inimicorum ejus. E questa è sollecitudine di salvarsi?Ahimè! che questa par piuttosto un’ansia frenetica di perire ad altrui dispetto, ed un convertirsi gli ajuti in nocumenti, i soccorsi in rischj, e gli antidoti stessi in più rio veleno. Si dolea Salomone ne’ suoi Proverbi, trovarsi alcuni, i quali giungono a tanto di stolidezza, che tesson reti, che tendon lacci contro dell’anima propria: Moliuntur fraudes contra, animas suas (Prov. 1. 18). Chi però son questi, chi sono, se non quei miseri, de’ quali or noi ragioniamo, cioè coloro che si affaticano di aggirar sé medesimi e d’ingannarsi, con darsi a credere di poter vivere in coscienza sicuri, sul detto di uomini che non hanno coscienza? Sconsigliati che siete! Se quelli prezzano poco l’anima propria, come volete che stimino assai la vostra? Ma questo appunto è (come io dissi) ciò che da voi si pretende: dar la vostr’anima in mano a chi non la curi, lasciarla pericolare, lasciarla perdere, lasciarla andare in rovina, perché sempre più si verifichi ciò ch’è scritto nella Sapienza, che l’uomo ormai non è altro che un crudo micidial dell’anima propria: Homo permalitiam occidit animam suam (Sap. XVI, 4). Oh me infelice! oh me misero! e chi fu mai che agli occhi miei dia due torrenti di acqua sì impetuosi, com’io dovrei di presente averli, per piangere un tal furore? Ora, ora è tempo che facies meo intumescat a fletu col santo Giobbe (XVI, 17); o veramente che insieme con Geremia (IX, 18), deducant oculi mei lacrymas, et palpebræ memæ defluant aquis. E che vi pare, uditori? Vi siete fissi mai di proposito a penetrare che voglia dire esser beato in eterno,o esser tormentato in eterno? che voglia dire un’eternità di contento, o un’eternità di rancore? che voglia dire un paradiso, ove eternamente si giubila, o un inferno, ove eternamente si freme? Che dite, Cristiani, che dite? Vi siete immersi mai di proposito in tal pensiero? se non ci avete finora mai posto mente, andate vi dirò, quanto prima,con Isaia (XXVI, 20), andate, andate, chiudetevi in una stanza: Vade, populus meus, intra in cubicula tua, claude ostia tua: non più su l’altre faccende, no, super te: e quivi, a finestre serrate, a fiaccole spente,fatevi un poco d’avvertenza speciale, e dipoi tornate a parlarmi, ch’io son sicuro che tornerete come coloro che uscivano già dall’antro del famoso mago Trofonio (Paremiogr. 457); ch’è quanto dir, come attoniti, come assorti, e senza poter mai più prorompere in un sorriso. Ma se ci avete pur qualche volta pensato, com’io son certo,qual trascuraggine più luttuosa di. Questa si può mai fingere, che avventurare per verun capo un negozio di tanto peso? non sentirne premura? non averne ansia? Non v’accorgete che qui si tratta del vostro, si tratta del ben vostro, si tratta del danno vostro, si tratta d’un affare che tutto appartiene a voi? E se voi cadete, che non piaccia a Dio, nell’inferno, chi sarà mai sì pietoso, chi sì potente, che ve ne tragga?Assalon, rilegato in un duro esilio, ebbe il favorito di Davide, che impetragli, benché con qualche malagevolezza, il ritorno (2 Reg. 14). Giuseppe, racchiuso in una oscura prigione, ebbe il coppiere di Faraon che.gli ottenne, quantunque dopo alcuna dimenticanza, la libertà (Gen. XLI). Ed un Geremìa, gittato già da’ malevoli nel profondo di una cisterna fangosa, a dover quivi stentatamente morir di freddo, di fame, di fracidume, di puzzo, ebbe un Abdemelecco, che, mosso a pietà di lui, gli calò dall’alto una fune, alla quale egli attenendosi, su ne venne (Jer. XXXVIII). Ma voi chi avrete, che tal ajuto vi porga ad uscir dagli abissi: De altitudine ventris inferi? (Eccli. LI, 7). Qual fune si troverà, che dal cielo giunga sino a quel baratro di tanta profondità? Qual braccio, che vi regga? qual forza, che vi sollievi? Qui descenderit ad inferos, non ascendet (sentite bene, che son parole di Giobbe), nec revertetur ultra in domum suam (Job. VII, 9 et 10). Chi va giù, non torna più su; chi va giù, non torna più su: Qui descenderit, non ascendet; qui descenderit non ascendet. E voi neppur ci pensate? Ah! fili, fili, io vi dirò dunque afflitto con l’Ècclesiastico (X. 31) / fili, serva animam tuam, et da illi honorem secundum meritum suum. Se io stamane con tante sorte di autorità e di ragioni preteso avessi di persuadervi una cosa di mio privato interesse, come sarebbe, che qui veniste con gran concorso alla predica, che mi approvaste, che mi applaudeste, qualche mercé riguardevole ai miei sudori, potreste avermi (qual dubbio c’è?) per sospetto, e non darmi fede; ma io per me non intendo muovermi ad altro, se non che solo ad avere qualche premura di voi medesimi, o almeno qualche pietà: Miserere animæ tuæ, miserere, (Eccli. XXX, 24). E che poss’io dunque promettermi mai da voi, se ciò non ottengo? Che ne potrò riportare? a che potrò indurvi? Non plane durius vobis dici potest, io vi rinfaccerò con Salvia no (1. 3 ad Eccl.), nihil tam ferum, nihil tam impium, a quibus impetrari non potest, ut vos ipsos ametis? Che non amiate i vostri emoli, vi compatisco: che non amiate i vostri nemici, vi scuso; ma che non amiate voi stessi? chi può soffrirlo? Peccantem, dirò col Savio, peccantem in animam suam, quis justificabit? (Eccli. X, 32). Deh, se d’altronde non sapete far degna stima della vostra anima, vi basti ciò: considerare (come da principio io dicea) quanto il demonio sempre inquieto si adoperi per rubarsela, e quanto d’arti egli però ogni ora tenti ad ingannarvi, a sollecitarvi, a sedurvi, ad assicurarvi. Egli, egli è quegli che ogni altro studio vi fa preporre a quest’uno, che di ragione prepor dovreste ad ogni altro; e però ditemi un poco; quis furor est(e sono parole anche queste di sì gran Vescovo), quis furor est viles a vobis animas vestras haberi, quas etiam diabolus putat esse pretiosas? quis furor est viles a vobis haberi? (Salv. 1. 3 ad Eccl.) S’egli fosse padron del mondo (credete a me) velo darebbe volentierissimo tutto per la vostra anima, conforme a quella: Hæc omnia tibi dabo, si cadens adoraveris me (S. Matth. IV, 9). E voi volete venderla a lui per sì poco? per un piacer momentaneo, per una bellezza fugace, per un interesse leggero di casa vostra, e correrete così per niente a gettarvi, quasi vilissime donnole, in bocca al rospo? Non sia mai vero, uditori, che voi facciate alla vostr’anima un torto così solenne: Ne adducas animæ tuæ inhonorationem(Eccli. 1. 38); ma da quest’ora, rientrando un poco in voi stessi, incominciate ad aver di voi quel riguardo che si conviene, e, come disse nel Deuteronomio Mosè, custodite sollicite animas vestras (Deut. IV. 15).

SECONDA PARTE.

VII. Io non vi voglio negare che questa grave trascuratezza, ch’han gli uomini di salvarsi, finora detta, sarebbe per avventura alquanto scusabile, quando il salvarsi negozio fosse di agevole riuscita; ma fors’egli è tale, uditori, è forse egli tale? Ah voi infelici, se tale è da voi stimato; anzi, oh voi miseri, mentre in materia sì rilevante prendete un error sì grave! Non solo il negozio della nostra eterna salute non è, quale a voi sembra, di agevole riuscita, ma è piuttosto sì lubrico, sì fallace, che, ancora dopo un’immensa sollecitudine, ha tenuto in timore i più eccelsi Santi, spaventatissimi per li tremendi giudizj di quel Signore, il quale riesce, non so come, terribile ancor a quei che gli stan tuttora d’intorno a formar corona: Terribilis super omnes, qui in circuita ejus sunt (Ps. LXXXVIII, 8). –  Sconsolato Girolamo! che non fec’egli per concepire in sé stesso qualche mediocre fidanza di affar sì grande! in quanto folti boschi si ascose! in quanto cieche caverne si seppellì! quanto aspra guerra sino all’età più decrepita seguì a fare contra i suoi sensi! Eppur che dicea? Ego, peccatorum sordibus inquinatus, diebus ac noctibus operior cum timore reddere novissimum, quadrantem(Ep. 5). Un san Gregorio che gemiti non metteva sul trono a lui sì spinoso del Vaticano! (1. 19. mor. c. 9) Un san Bernardo che ruggiti non dava dagli orrori a lui sì diletti di Chiaravalle! (1. 6,de int. domo) E un santo Agostino oh come palpitante diceva di temer l’inferno! Ignem æternum timeo, ignem aeternum timea (in Ps. LXXX). Né a cacciar fuori un tal timore bastava tanto amor di Dio, che avvampavagli dentro al petto. Ma che dich’io sol di questi? Venite, venite meco sino a quell’orrida grotta di solitarj, la quale, per l’aspro vivere che veniva da tutti menato in essa, s’intitolò la Prigione de’ penitenti, ma meglio potea dirsi l’Inferno de’ convertiti. Oh là dentro sì che faceasi daddovero a placar lo sdegno celeste! Stavano alcuni tutta la notte diritti orando al sereno, altri ginocchioni, altri curvi; ma per lo più con le mani tutti legate dietro le spalle, a guisa direi, perpetuamente tenevano i lumi bassi, né si riputavano degni di mirare il cielo. Sedevano altri in terra aspersi di cenere, sordidi, scarmigliati: e, fra le ginocchia tenendo celato il volto, luctum unigeniti faciebant sibi, planctum amarum (Jer. VI, 26); ch’è quanto dire, come suol piangersi sopra un amato cadavere, così ululavano sopra l’anima loro, e la deploravano. Altri percuotevansi il petto, altri si svellevano i crini; ed altri, putrefatte mirandosi le lor carni per gli alti strazj con li quali le avevano macerate, parea che solo in questa vista trovassero alcun sollievo, e si confortassero. Che trattar ivi di giubili? che di scherzi? che di facezie? Pietà, clemenza, compassione, perdono, misericordia: questi erano i soli accenti che per quelle caverne si udivano risuonare; se pur si udivano, mercé i singhiozzi, mercé i ruggiti che ogni altro suono opprimevano, né  lasciavan altro distinguere, se non pianto: quivi prolissi i digiuni, quivi brevissimi i sonni, quivi niuna cura, quantunque moderatissima, de’ lor corpi. Avreste veduti alcuni, per la gran sete lungamente raccolta, trar gravi aneliti, e tenere a guisa di cani la lingua fuori, tutta inaridita, tutt’arsa. Altri si esponevano ignudi di mezzo verno alle notturne intemperie di un ciel dirotto, altri si attuffavan ne’ ghiacci, altri si ravvolgevano tra le nevi; ed altri, i quali non avean animo a tanto, pregavano il Superior, che almen gli volesse caricati di ferro tenere in ceppi; né tenerveli solo per alcun dì, ma stabilmente, ma sempre, ma finché fossero dopo morte condotti alla sepoltura. Benché qual sepoltura diss’io? Non mancavano molti di supplicare con ansia grande, che neppur questo si usasse loro di pietà; ma che, ancor caldo, fosse il loro cadavere dato ai corvi, o gettato ai cani; e così spesso veniva loro promesso e così attenuto, non sovvenendoli prima, per sommo loro dispregio, neppur di un salmo, non che di alcun più onorevole funerale.

VIII. Or chi non crederebbe, uditori, che in una vita, qual costoro menavano, cosi santa, dovessero almanco avere questo conforto, di tener quasi per certa la loro salute, o almen di averne di lunga mano maggiore la probabilità che ‘l sospetto, a speranza che l’ansietà? Eppure udite ciò che, qualora io vi penso, mi colma tutto di profondissimo orrore. Tanto era lungi che però punto venissero que’ meschini ad  assicurarsi, ch’anzi quando alcuno di loro giaceva ornai moribondo sopra la cenere (ch’era il letto ove amavano di spirare) se gli affollavano tutti a gara d’intorno più che mai mesti ; Circumstabant illum æstuantes et lugentes, ac desiderio pleni; e così con molto tremore lo interrogavano: ebben, fratello, che ti pare ornai poter credere di te stesso? Quid est, frater? Quorum modo tecum agitur? quid dicis? quid speras? Quid suspicaris? Hai finalmente ottenuta quella salute, la quale tu ricercasti con tante lagrime, oppure ancora ne temi? Percepisti ne ex labore tuo quod quærebas, an non valuisti?Che ti aspetta^? il reame,o la servitù? lo scettro, o la catena? Il Cielo, o l’Inferno? Ti par di udire una voce amabile al cuore, la qual ti dica: Remittuntur tibi peccata tua (S. Luc. V, 20), o li par anzi di ascoltarne un’orribile, la qual gridi: Ligatis manibus et pedibus ejus, mittite eum in tenebras exteriores? (S. Matth. XXII, 12). Che dici, o fratello, che dici? Quid ais, frater, quid ais? Beh, ti preghiamo,scuoprici un poco il tuo stato, perché dal tuo possiam dedurre qual sia per essere il nostro. A queste tanto affannose interrogazioni quali riputate che fossero le risposte rendute da’ moribondi? È vero, che alcuni d’essi, sollevando i lor occhi sereni al cielo, benedicevano Dio, e così dicevano: Benedictus Dominus, qui non dedit nos in captionem dentibus eórum (Ps. CXXIII, 6); ma, ohimè,quanti all’incontro rispondevan di pendere ancora in forse! Forsitan pertransibit animanostra aquam intolerabilem (Ibid. 5), quasi dicessero, speriamo di passare, speriamo; ma la fiumana è grossa, ma l’acqua è torbida, ma grave sino al fine è il pericolo di annegarsi. E quel ch’è più, non mancavano ancor di molti, i quali prorompendo dolenti in un alto gemito: , esclamavano, ; né dicevan altro; e pregati a piegarsi più apertamente: soggiungevano, Væ animæ illi, quæ non servavit professionem suam integram et immaculatam! Guai a quell’anima, la quale non osservò la sua professione intatta ed immacolata; guai alla miseria, guai! Perché a quest’ora si accorgerà ciò che di là se le appresti: Hæc enim hora sciet quid illic præparatum sit. Lo so, signori cari, che un tal racconto può avere a molti sembiante di favoloso; mercecché tale amerebbesi ch’egli fosse. Ma non accade no lusingarsi troppo è vero. Riferì; pur tutte queste cose chi videle con gli occhi propri, chi le udì con le proprie orecchie, San Giovanni Climaco (De accurata pœn. Or. 5), famosissimo abate del monte Sina, e le riferì quando appunto quelle avvenivano, cioè quando ognuno rimproverare il potea di grandissimo temerario, se nulla di suo capo vi avesse o alterato, o aggiunto, non che mentito.

IX. Ma se ciò è vero, che vuol dir dunque stimar noi soli sì facile, o sì sicuro il negozio della salute, che non ne abbiamo sollecitudine alcuna, non altrimenti che se ‘l tenessimo in pugno? Unde nobis ista dissimulatio est, fratres mei? vi dirò addolorato

con san Bernardo: unde hæc tam perniciosa tepiditas? unde hœc securitas maledicta?(Serm. in Job.) Ah ch’io non posso riferir ciò ad altra cagione, se non ad una in considerazion profondissima che ci accieca, e neppur ci lascia, come dice il Savio, veder que’ precipizj che abbiamo dinanzi agli occhi: Via impiorum tenebrosa: nesciunt ubi corruant (Prov. IV. 19). Però che dobbiamo fare? A me lo chiedete? Chiedetelo a qualcun altro, ch’io, quanto a me, miglior consiglio non potrei darvi di quello ch’ho per me preso. Se a me volete rimettervi: andate, vi dirò, rivoltante le spalle al mondo: e se ancor siete con Lot in tempo a fuggirvene di Pentapoli, non tardate, perché neppur gl’innocenti possono vivere a lungo andare sicuri fra’ peccatori. Ma se pur di tanto eseguire o non vi da l’animo, o non vi riman libertà, perché non risolvervi a frequentar d’ora innanzi ogni settimana quei sacramenti, che sono i mezzi più agevoli alla salute?Perché non deporre tanta alterigia nel tratto? Perché non iscemar tonto pascolo all’ambizione? Perché non mettere ormai qualche freno stretto a sì laide carnalità? Se non fate ciò, che volete ch’io vi risponda?Che voi siete punto solleciti di salvarvi? No, che non siete, no; ve lo dico sì apertamente, ch’io non ho punto a temer che non m’intendiate. Temer ben poss’io piuttosto, che voi però non pigliate a sdegno di udirmi. Ma che posso io fare? Se non mi voleste udir voi, a queste immagini mi rivolterei, a questi marmi, a questi macigni, perché tutti fossero innanzi a Dio testimonj nel giorno estremo, ch’io non ho mancato al mio debito di parlarvi con fedeltà. Benché né anche ho io bisogno di tali testimonianze. È qui in persona quel Giudice vivo e vero, che mi dovrà giudicare, ed Egli mi ascolta. Però, mio Dio,voi sapete quanto di cuore io desideri la salute di questo popolo, illustre popolo vostro.Felice me, s’io potessi dar per esso le viscere, dare il sangue, come l’avete voi stesso dato per me! Ma giacché tanto io non posso, non mancherò almen di questo, e ve lo prometto, di dirgli il vero. Voi fate ch’esso con quel buon affetto il riceva, con che io gliel predico. Io parlerogli alle orecchie, e voi frattanto favellategli al cuore, lo schiarirò gl’intelletti, e voi frattanto infiammate le volontà. Voi dovete essere quegli, che con amorosa violenza tiriate a voi quei che da voi si dilungano. Io ch’altro posso, se non che, a guisa di quei fanali che scorgono fra le tenebre i naviganti, far loro lume? A voi sta spirare a prò loro quella sant’aura, che prosperamente conducali salvi in porto.