DOMENICA III DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA III DOPO PASQUA (2020)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). «Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà» (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. « uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui.

[Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929 – imprim.]

SOGGEZIONE ALLE AUTORITÀ

“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro” (1 Piet. II, 11-19).

La lezione è tolta dalla prima lettera di S. Pietro. Precede immediatamente quella che abbiamo considerato la domenica scorsa. Vi si parla dei doveri sociali e in modo particolare dei doveri verso l’autorità civile. Dobbiamo essere soggetti all’autorità e a quelli che dall’autorità suprema sono incaricati di amministrare la giustizia, punendo i cattivi e premiando i buoni. Così, piaceremo a Dio e faremo tacere l’ignoranza dei cattivi. La nostra ubbidienza, poi, all’autorità dev’essere fatta da veri servi di Dio; cioè, per dovere di coscienza. Vediamo appunto, come la nostra soggezione all’autorità:

1. È  voluta da Dio,

2. fa chiudere la bocca ai nemici del nome Cristiano,

3. deve procedere da semplicità di cuore.

1.

 Per amor di Dio siate, dunque, soggetti a ogni autorità umana. S. Pietro chiama autorità umana l’autorità civile, perché la designazione degli individui, che rivestono questa autorità, generalmente, viene dagli uomini. Che un governo sia repubblicano, monarchico, federalista; che la suprema autorità sia designata per elezione o per successione, è cosa che dipende dalla volontà degli uomini. Ma non dipende dalla volontà degli uomini l’istituzione della autorità. È tanto naturale alla società il concetto di moltitudine e di autorità, di chi dirige e di chi è diretto, che non è neppur possibile immaginabile una società, senza chi la governi. Vuol dire dunque, che la natura stessa esige che nella società ci sia chi comandi, chi presieda, chi diriga. Vuol dire, infine, che l’autorità è voluta da Dio stesso, autore della natura. Perciò S. Paolo ci ammonisce:« Ogni persona sia soggetta alle autorità costituite, perché non vi ha potestà se non da Dio» (Rom. XIII, 1). Basterebbero considerazioni umane per indurci all’obbedienza verso le autorità. Senza l’ubbidienza dei sudditi sarebbe impossibile qualunque governo. Si avrebbe una piena anarchia con la conseguente perdita di ogni diritto, di ogni libertà, di ogni idea di giustizia. Ma i Cristiani devono ubbidire per un motivo più nobile. Devono ubbidire per piacere a Dio. Se ogni potestà viene da Dio, non è cosa indifferente che ad essa si ubbidisca o non si ubbidisca. Quando l’autorità costituita emana delle leggi e impone degli obblighi che non sono contrari alla legge naturale e alla legge di Dio e della Chiesa, rifiutando la nostra ubbidienza, offendiamo Dio, del quale le legittime autorità sono rappresentanti. Gesù Cristo stesso ricorda i doveri del cittadino quando dice : «Date a Cesare ciò che è di Cesare» (Matt. XXII, 21). La soggezione che dobbiamo all’autorità suprema dello Stato, la dobbiamo anche a coloro che ne fanno le veci, la rappresentano o, in qualunque modo, sono investiti di poteri in suo nome. Anche in questo, l’insegnamento è molto chiaro. Siate dunque sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Ma se il principe, se i suoi incaricati sono cattivi, siamo noi obbligati ugualmente a star loro soggetti? Quando non esigono cose ingiuste e non escono dai limiti della propria autorità, noi siamo obbligati a stare loro soggetti, anche se sono cattivi. Anche qui la soggezione ci riuscirà facile, se opereremo per amor di Dio. I Cristiani ai quali S. Pietro scriveva, si assoggettavano nientemeno che a Nerone.

2.

S. Pietro adduce un altro motivo che deve indurre i Cristiani a essere ossequenti alle autorità. Poiché questa è la volontà di Dio, che operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Col nome di stolti sono qui designati i pagani, i quali accusavano i Cristiani con la più grande leggerezza, e li condannavano con la più grande facilità. La dottrina dei seguaci di Gesù Cristo, tanto sublime e differente da quella dei gentili; la loro condotta, che doveva esser l’opposto da quella tenuta nel gentilesimo, attiravano su di loro lo sguardo diffidente e malevolo dei pagani. «Vi basti — dice San Pietro — di aver fatto la volontà dei gentili nel tempo passato, camminando nelle libidini, nelle concupiscenze, nelle vinolenze, nelle gozzoviglie nelle ubriachezze e nelle abbominevoli idolatrie» (1 Pietr. IV, 3). Questo mutamento di condotta doveva spingere i pagani a trovare a ogni costo un pretesto per accusare i Cristiani. Non senza motivo, dopo aver inculcato il buon esempio in generale, S. Pietro insiste in modo speciale sulla soggezione alle autorità. Una delle accuse che si facevano ai Cristiani, tanto per aver pretesto di perseguitarli, era appunto l’accusa di ribellione contro lo stato. L’accusa era gratuita, ma non era inutile insistere sulla necessità di non dar nessun pretesto ai pagani di mettere in discredito la Religione cristiana. – Il contegno dei Cristiani di fronte all’autorità fu sempre pretesto a biasimi e a persecuzioni da parte di persone di sentimenti opposti. Per coloro che all’autorità non vogliono assegnato alcun limite, i buoni Cristiani sono dei ribelli, dei nemici dello Stato, dei cospiratori, se hanno la fortezza di anteporre la legge di Dio alla legge degli uomini. Per i nemici dell’autorità essi sono degli schiavi dei fautori del dispotismo e della tirannia. Giudizi sbagliati gli uni e gli altri. I Cristiani nell’autorità vedono il rappresentante di Dio, e nella soggezione a essa il volere di Dio. Perciò, ubbidiscono ai suoi comandi, e vogliono essere esempio agli altri nell’adempimento di questo dovere. «I Cristiani ubbidiscono alle leggi stabilite e nella loro condotta avanzano le leggi » (Lett. a Diogneto 5, 10) leggiamo in uno dei primi apologisti. I Cristiani che seguono l’insegnamento di Gesù Cristo quando dice: «Date a Cesare ciò che è di Cesare», lo seguono anche quando dice: «E date a Dio ciò che è di Dio » (Matt. XXII, 21). E la cosa è tanto giusta che non dovrebbe far meraviglia a nessuno. S. Cipriano è processato davanti al proconsole Galerio Massimo. Questi dice al santo Vescovo: « I sacratissimi imperatori hanno ordinato di render culto agli dei ». Cipriano risponde: « Non lo faccio ». Invitato dal Proconsole a rifletter bene, dichiara: « In cosa tanto giusta non c’è di riflettere » (Acta proc. S. Cipriani. Ep. et Mart.). Quando si tratta di obbedire a Dio i buoni Cristiani non hanno un momento di titubanza. E nella soggezione a Lui, come nella soggezione alle autorità da Lui costituite, sono sempre i primi.

3.

L’ubbidienza poi all’autorità dev’essere fatta non tanto per timore delle sanzioni quanto per obbligo di coscienza. Comportatevi— dice S. Pietro da vimini liberi che non fate della libertà un manto per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Quindi, non l’ubbidienza forzata dello schiavo, ma l’ubbidienza spontanea dell’uomo libero, che è stato liberato bensì dalla schiavitù del peccato e dalla servitù della legge mosaica; ma non dall’obbligo di ubbidire a Dio, e quindi anche ai suoi rappresentanti. Nella soggezione all’autorità il Cristiano non deve essere guidato dallo spirito di parte. Prestare ossequio all’autorità perché chi ne è rivestito viene dal mio partito; rifiutarle il dovuto ossequio perché chi ne è rivestito viene da un partito che non è il mio; ubbidire quando chi comanda ci è persona simpatica, disubbidire quando chi comanda ci è persona antipatica, non è un diportarsi secondo coscienza. Così, non è un diportarsi secondo coscienza, quando ci si assoggetta in ciò che piace, e ci si ribella in ciò che non piace. Il nostro ossequio non è sincero quando si hanno secondi fini. Profondersi in inchini davanti all’autorità, proclamarne altamente i meriti, innalzarle inni di lode, son cose che si fanno ben frequentemente anche da chi nutre nel proprio interno una forte avversione. Non si sa mai: potrebbe venirne qualche onorificenza, qualche aiuto, qualche protezione, qualche posto. Giù, dunque, lodi smaccate e a buon mercato. Costoro si devono chiamare, non ossequenti; ma striscianti e servili. Sono i seguaci di coloro, che un giorno si presentarono a Gesù dichiarandogli:« Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non badi a nessuno, e che non guardi in faccia agli uomini ». E Gesù che leggeva nell’interno diede loro una risposta, che nessuno vorrebbe rivolta a sé: « Ipocriti, perché mi tentate? » (Matt. XXII, 16 18). Infatti, noi dobbiamo essere soggetti ai nostri superiori «in semplicità di cuore per timor di Dio» (Col. III, 22). « Ma il fare una cosa e averne nell’animo un’altra, non è semplicità, sebbene ipocrisia e simulazione» (S. Giov. Grisost. In Epist. ad Col. Hom. 10, 2). – L’autorità ha i propri pesi da portare, e noi abbiamo da portare i nostri, e tutti concorriamo a far della società una famiglia felice, quanto è possibile tra coloro che su questa terra sono stranieri e pellegrini. Se da una parte non si deve fare abuso dell’autorità propria, o farla sentire più del necessario; dall’altra non si deve disconoscerla o contrariarla; si deve anzi renderle facile il proprio compito con l’ubbidienza. L’ubbidienza dei sudditi rende felice il governare. I Cristiani devono fare ancor di più, pregare Dio che assista l’autorità. Gli Ebrei, schiavi in Babilonia, per mezzo del profeta Baruch, mandano a dire agli Ebrei di Gerusalemme: « Pregate per la conservazione di Nabucodonosor, re di Babilonia e per la conservazione di Baldassarre, suo figliuolo » (Baruch 1, 11). I Cristiani non devono essere da meno degli Ebrei, che pregano e fanno pregare per un tiranno, al quale la Provvidenza li aveva assoggettati. Essi devono accettare, ciascuno per sé, le parole di S. Paolo a Timoteo: «Raccomando che si facciano preghiere, suppliche, domande, ringraziamenti, per tutti gli uomini; per i re e per tutti quelli che stanno in dignità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta con tutta pietà e onestà» (1 Tim. II, 1-2).

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja.

[Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.

[Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabíminbi, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo lopoco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]

Omelia II

 “In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”. (Jo. XVI, 16-22).

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Sulle tribolazioni.

“Plorabitis et flebitis vos, mundus autem gaudebit, vos autem contristabimini, sed tristitia vestra vertetur in gaudium.” (Jo. XVI).

Chi avrebbe mai pensato, fratelli miei, che i pianti, le croci, le afflizioni esser dovessero la sorte degli eletti, mentre l’allegrezza, le prosperità, toccar dovrebbero ai seguaci del mondo? – Eppure è questa una verità da Gesù Cristo medesimo pronunziata, che gli Apostoli e i servi di Dio aspettare debbonsi di dover passare la lor vita nella tristezza e nelle tribolazioni: verità che, siccome agli Apostoli, a tutti i Cristiani ancora porge motivo grandissimo di consolazione, giacché i lor pianti e la lor tristezza debbono cangiarsi in allegrezza, che non avrà fine giammai: “tristitia vestra vertetur in gaudium”. – Consolatevi dunque, anzi rallegratevi, o voi che passate i vostri giorni nei pianti e nell’afflizione; lasciate pure l’allegrezze agli amatori del secolo, non invidiate punto la lor funesta prosperità, che cangerassi in eterna tristezza; lasciate che si lamenti e mormori chi non ha speranza: ma voi che non cercate la vostra felicità sulla terra, e che aspirate ad una beatitudine più verace, più perfetta che questa non è, stimatevi fortunati nelle afflizioni, tesoro molto più pregevole di tutte le ricchezze della terra; preferitele a tutti i piaceri che può presentarvi il mondo, in vista dei grandi vantaggi ch’esse vi apportano. – E di fatti, fratelli miei, o siete peccatori, o siete giusti: se peccatori, le tribolazioni vi ritrarranno dal peccato; se giusti, perfetta renderanno la vostra virtù. la due parole: vantaggi delle tribolazioni per li peccatori, primo punto. Vantaggi delle tribolazioni per il giusto … secondo punto.

I. Punto. Incominciare la vita nelle lagrime, passarla nelle afflizioni, terminarla nei dolori ecco, fratelli miei, la sorte dell’uomo sulla terra; per qualunque verso si miri, la vita, benché lievissima, è ripiena di molte miserie, dice il santo Giobbe, repletur multis miseriis. Alcuno non va esente dalle croci, neppure coloro che più beati ci sembrano; soffre sul trono il re, come il povero nella sua capanna; hanno le ricchezze le loro spine, come la povertà le sue amarezze; non consiste dunque la felicità dell’uomo sulla terra nell’essere esente dalle tribolazioni, ma bensì nel farne buon uso. Ora esse sono di grande vantaggio ai peccatori perché vivono meravigliosamente a ritirarli dal peccato e ad espiare la pena al peccato dovuta: due circostanze che muovere debbono i peccatori a profittarne. Voi vi credete, o peccatori, oggetto dell’odio e dell’ira di Dio, quando il braccio della sua giustizia vi fa sentire il peso delle tribolazioni; se si ha riguardo ai peccati da voi commessi, avete ragione, ma se noi miriamo il fine che Dio si prefigge, dovete riguardarle, non come effetti del suo sdegno, ma come segni del suo amore verso di voi. Egli vi tratta come un buon padre che castiga i suoi figliuoli, non per odio che lor porti, ma per desiderio ch’egli ha di correggerli: Quem Deus diligit, castigat (Hebr. XII). E veramente che cosa può trovarsi di più efficace delle afflizioni per far ravvedere il peccatore? Tanto che egli gusta la dolcezza delle prosperità e sta in mezzo alle delizie ed ai piaceri, dimentica il suo Dio, dimentica se stesso; il suo cuore ripieno dell’amore delle creature, è vuoto dell’amor di Dio; non pensa nemmeno al culto e all’omaggio ch’egli deve al suo Creatore: dimentica se stesso, incantato dalle lusinghe dei piaceri, ed è insensibile sul misero stato in cui è stata ridotta dal peccato l’anima sua. Gode egli di una sanità perfetta? Se ne serve per abbandonarsi ad ogni sorta di eccessi. È egli fornito di beni doviziosamente? Egli è prodigo o avaro. Prodigo,  se ne serve per appagare le sue sregolate passioni, a cui per lo più serve di alimento la prosperità. Avaro, altra cura non ha che di accumular beni ed aumentarli. Si vede egli circondato di gloria e di onori o sopra degli altri in condizione elevata? Gonfio d’orgoglio, non ha che sentimenti di disprezzo per gl’inferiori. Tutto occupato da mire ambiziose che l’amor proprio gl’inspira, ad altro non pensa fuorché ai mezzi di trarle ad effetto: segue il torrente delle sue passioni, perde di vista l’eternità e vive, in una parola, come se morir non dovesse giammai, e corre in questa maniera al precipizio con la benda sugli occhi, senza sapere dove finalmente deve terminar il suo corso. – Che farà Iddio allora per arrestare il peccatore e trarlo da sì misero stato? Farà Egli splendere agli occhi di lui un raggio della sua grazia, per dargli a conoscere il nulla delle cose create? Ah! non ha egli già ricevute infinite grazie, alle quali fu sempre ritroso? Infinite ispirazioni alle quali fu sempre sordo e insensibile? Invierà forse Iddio a questo peccatore qualche zelante ministro della sua divina parola, per annunziargli le verità di salute? Ovvero gli susciterà qualche amico fedele, il quale si sforzi con salutevoli avvisi di farlo rientrare sulla buona strada? Ma e quante volte ha udite queste verità senza che l’abbian punto commosso? Quante volte ha avuti amorevoli avvertimenti senza che ne abbia fatta stima veruna? Se Dio gli facesse intendere ancor la voce d’un morto, se operasse miracoli per convertirlo, sordo si rimarrebbe a tal voce ed insensibile a qualunque prodigio. Che farà dunque per guarirlo il Signore? Egli farà, fratelli miei, ciò che già fece per render la vista a Tobia; si servì del fiele d’un pesce applicato sugli occhi. Il Signore si servirà dell’amarezza delle tribolazioni per aprire gli occhi a questo peccatore e trar la sua anima dal fatale attaccamento in cui si trova. Egli lo priverà di quella robustezza di cui s’abusava e lo ridurrà in un letto. Toglierà a quel ricco i beni di cui male si serviva e lo renderà bisognoso; getterà a terra quel superbo elevato qual cedro del Libano, e di confusione lo coprirà e d’obbrobrio. Farà perdere a quella donna la sua funesta bellezza, cagione fatale della sua rovina, e dell’altrui cuore peste e veleno. Toglierà a questo quel parente, quell’amico, quel grande del mondo in cui si affidava: a quell’altro torrà quella creatura che era l’oggetto della sua passione, a quel padre, a quella madre, il figliuolo, oggetto d’un disordinato ed eccessivo amore. – Che farà il peccatore in tal guisa umiliato ed oppresso sotto il peso della croce? Ricorrerà alle creature per trovar sollievo alle sue pene? Ma l’avversità gli ha fatto conoscere il nulla d’ogni cosa creata: come potrebbe ancora appoggiarsi su deboli canne che si sono spezzate tra le sue mani? Abbandonato dalle sue creature, sulle quali non può aver fidanza, sarà, per cosi dire, sforzato a ricorrere al Creatore. Allora questo peccatore, aprendo gli occhi sull’infelice suo stato rientrerà in se stesso. Questo figliuol prodigo a cui la prosperità aveva fatto abbandonare un ottimo padre tornerà a soggettarsi al gioco che aveva scosso. Quel peccatore privato della sanità, e ridotto in uno stato di languidezza, s’avvedrà d’essere mortale, e vedendosi al fine della sua vita, sul punto di dover presentarsi avanti a Dio, provvederà alla sua coscienza con una pronta conversione sincera: spogliato dei beni, oppresso dalla povertà, non avendo più onde appagar le sue passioni, nella virtù sola cercherà la sua felicità. Quella donna, quella giovine, perdute le grazie di cui la natura l’aveva fornita, prenderà il partito del ritiro, non oserà più comparire nelle adunanze di cui era il più bell’ornamento, ed eviterà così tanti peccati che commetteva e faceva commettere altrui. Quell’uomo a cui la morte ha tolto l’idolo della sua passione, rivolgerà il suo cuore ad oggetto più degno del suo affetto. Questi, abbandonato dal parente, dall’amico, rigettato da quel grande del mondo a cui s’appoggiava, riconoscerà che in Dio solo, e non già in un braccio di carne, ripor deve la sua speranza. In una parola, istruito dall’avversità, il peccatore benedirà il Signore mille volte di averlo messo nella felice necessità di dover ritornare a Lui e fedelmente servirlo. Dirà col profeta reale: Oh quanto mi giova, o Signore, l’avermi umiliato, perché ho quindi imparato ad osservare la vostra santa legge: Bonum mihi quia humiliasti me, ut discam iustificationes tuas (Ps. CXVIII). – Mi allontanai da voi con le mie dissolutezze, e voi col flagello in mano per castigarmi mi avete fatto ravvedere. Castigasti me et eruditus sum (Jerem. XXXII). Mi avete indotto a ritornare a voi con una penitenza sincera. Postquam convertisti me, egi pœnitentiam (Ibid.). O preziose afflizioni, quanto vantaggio apportate a chi vi riceve dalle mani di Dio con rassegnazione! Potrei addurvi, fratelli miei, molti esempi per provarvi quel che asserisco: ma non voglio altri testimoni che voi medesimi. – Quando fu che voi vi disgustaste del mondo e delle creature? Quando siete stati da questi abbandonati, o dal mondo traditi. Quando fu che pensaste seriamente all’affare di vostra salute? Quando l’avversità vi distaccò dai beni terreni. Nell’abbondanza ad altro non pensavate fuorché a tesoreggiar sulla terra: ma ridotti a povertà pensaste soltanto ad arricchirvi pel cielo. Finalmente quando fu che risolveste efficacemente di convertirvi? Quando privi della sanità e inchiodati su d’un letto di dolore sentiste avvicinarsi la morte. Allora, colti del timore dei severi giudizi di Dio, prendeste le vostre misure per riacquistar la sua grazia; e i sacramenti ricercaste, cui se foste stati sani, non avreste ricevuto giammai. E infatti, quante volte il Signore con l’affliggervi vi sforzò a pensare a Lui, per trovare nel paterno suo cuore un alleggerimento ai vostri mali? Allorché la siccità rendé sterili le vostre campagne o le tempeste le desolarono, o tanti altri sinistri accidenti vi colpirono, la divina provvidenza, che regolava questi vari avvenimenti, vi ha messi nella felice necessità di ricorrere al Signore, il che non avreste fatto, se ogni cosa vi fosse andata a seconda. Quanti peccati avreste commessi se Dio non vi toglieva, per così dire le armi di mano, privandovi di quelle ricchezze, che a giudizio del mondo rendono felici chi le possiede, ma sono avanti a Dio di mille peccati cagione? Ah! fratelli miei, noi vediamo che, non ostante le calamità dei tempi, non ostante i castighi con cui Dio affligge i popoli, regna tuttora tra di loro il vizio: che ne sarebbe se Iddio, propizio ai loro desideri, li colmasse di prosperità? Sarebbero per la maggior parte altrettanti orgogliosi, come addivenire vediamo bene spesso che assai diversi sono gli uomini tra le prosperità da quel che nella miseria sarebbero. Non vogliate dunque attribuire le vostre disgrazie, fratelli miei, né ai capricci della fortuna né alla malignità dei vostri nemici, ma adorate la mano di Dio che vi sforza, e che si serve delle afflizioni per farvi ritornare a Lui. Egli fa, dice s. Gregorio, come un medico, che non perdona a ferro né a fuoco per una piaga che vuol guarire; che recide un membro corrotto e cancrenato, per timore che il male non prenda tutta la vita. Così Dio con l’amarezza delle tribolazioni vi preserva dal veleno della prosperità, capace a darvi facilmente la morte, essendo accompagnato da un’apparente dolcezza che ne copre la malignità. Egli fa con voi eziandio, dice s. Giovanni Crisostomo, come l’artefice, che mette l’oro nel crogiuolo per farne vasi preziosi: o come colui che taglia con lo scalpello le pietre per collocarle al luogo destinato: nella stessa maniera il Signore vi mette nel crogiuolo dell’afflizione, perché di vasi d’ignominia che eravate vuol farne vasi d’onore e di gloria, come dice l’Apostolo; vi percuote col martello delle tribolazioni per darvi la figura di pietre preziose per alzar l’edificio della celeste Gerusalemme, cioè riempire le sedie che lor sono destinate nel cielo: Scalpri salubris ictibus et tunsione plurima fabri polita malleo hanc saxa molem construunt etc. (Santa Chiesa nell’inno della Ded.). – Felici voi, fratelli miei, se riceverete le tribolazioni secondo le mire della provvidenza: se, invece d’indurirvi sotto il martello, riceverete le impressioni che Dio vuol darvi per operare in voi un sincero cambiamento di costumi e di condotta, che è il frutto che dovete cavarne, e voi troverete ancora nelle afflizioni onde soddisfar possiate a Dio per le pene ai vostri peccati dovuta. – E di fatti non v’è alcuno tra di voi che, per peccati da sé commessi, non sia debitore alla divina giustizia. Non v’ha alcuno cui non possa dirsi come a quei debitori del Vangelo: Quantum debes? Quanto dovete? Di quanta soddisfazione siete debitore, per tante empietà, per tanta irreligione, per tante profanazioni, vendette, mormorazioni, disonestà, intemperanze, per tanto sdegno e odio che nutriste? Quantum debes? Ah! che sarebbe di voi, se Dio vi avesse castigato come avete meritato? Voglio accordarvi che abbiate già fatti gli sforzi necessari per rientrare nella sua grazia, e ottenere alle vostre colpe il perdono: ma, oltre che voi non sapete se questo tal perdono vi è stato veramente dato, non vi resta egli ancora dopo il peccato perdonato una pena che in questo mondo oppure nell’altro dovete espiare; in questa coi patimenti, nell’altra con le fiamme del purgatorio? Iddio vi dà la scelta di queste due pene, o per meglio dire, queste pene del purgatorio rigorosissime e spesso di lunga durata e che sorpassano di gran lunga qualunque più atroce pena che possa in questa vita soffrirsi, vi sono da lui cangiate in patimenti leggieri e che durano sol pochi momenti; non si potrebbe egli dire con ragione che voi siete nemici di voi medesimi, se non profittaste di così facile mezzo per soddisfare alla divina giustizia? Chi è tra di voi che, carico di grossi debiti, ricusasse di liberarsene con qualche piccola somma che gli fosse domandata? Qual reo dannato a morte non si stimerebbe fortunato di poter riscattare la vita con alcune ore di prigionia? Ora Iddio vuol rimettervi debiti molto maggiori per pochi momenti di pene: come potreste voi dubitare di secondare le sue mire? Alcune gocciole di questo fiele possono estinguere tutta la forza delle fiamme divoratrici che avete meritato: ah! Potrete voi ricusare di bere nel calice della misericordia per non dover poi bere tutto il calice amaro che la sua giustizia vi prepara a luogo dei tormenti? Voi ci chiedete talvolta qual soddisfazione possiate offrir a Dio per i peccati da voi commessi. I ministri del Signore sono talora in dubbio su di quella che sia d’uopo d’imporvi; voi non potete far limosine, poiché la povertà ve lo vieta; non potete digiunare, mortificarvi, a cagione, come ci dite, delle vostre infermità, dei vostri lavori: la bontà del Signore con le tribolazioni vi provvede di un mezzo facile per soddisfare alla sua giustizia purché le riceviate con rassegnazione: è questa una penitenza sommamente salutevole, appunto perché viene da Dio prescelta: Egli vi conosce troppo delicati nel punirvi da voi medesimi, e perciò non lascia a voi la cura di soddisfare alla sua giustizia; prende Egli medesimo il flagello in mano per fare a se stesso riparazione delle ingiurie che gli avete fatto. Ma, come la sua mano che vi percuote è guidata dall’amore, nel punirvi ha riguardo alla vostra debolezza e non vi manda se non quelle croci che potete portare, egli è dunque necessario accettarle, se volete pagare i vostri debiti, e tanto più perché vi convien fare della necessità virtù, imperciocché voi avete bel fare, per amore o per forza convien soffrire; le croci sono inevitabili; quantunque facciate tutto il possibile per fuggirle, vi seguiranno dappertutto; il miglior partito egli è di pazientemente portarle; e non solamente non diverranno più gravi, ma la pazienza per lo contrario ne alleggerirà il peso e ne raddolcirà l’amarezza. Ma la maggior parte degli uomini profittano forse in questa guisa delle afflizioni? Ah! Essi le hanno in orrore: e mentre gli Apostoli erano ripieni d’allegrezza in mezzo ai patimenti, si sforzano i cattivi Cristiani, per quanto possono, di scuoterne il giogo: benché sappiano che per essere discepoli di Gesù Cristo fa d’uopo di portare la croce, si danno all’impazienza, e van mormorando contro la provvidenza qualora alcuna cosa sono astretti a soffrire. Quindi che ne avviene? la loro croce diventa più grave, si affannano inutilmente per sgravarsene: e se per avventura da qualcheduna riescono di liberarsi, un’altra maggiore ne trovavano che non vogliono in alcun conto portare. E invece di sgravarsi dei lor debiti, altri maggiori ne fanno, cangiano il rimedio in veleno: irritano vieppiù la giustizia di Dio invece di placarla; e a guisa del malvagio ladrone, piombano dalla croce all’inferno mentre per lo contrario al buon ladrone servì la croce di scala per salire al cielo. – Sta nelle vostre mani, fratelli miei, il servirvi della croce santamente, come il buon ladrone: Iddio vi dà questo tesoro per pagare i debiti vostri e comperarvi il suo regno: non è necessario che voi abbandoniate il vostro stato e la casa per trovare questo tesoro: ad ogni passo che facciate potete rinvenirlo. Nascono le croci in ogni luogo, in ogni stagione le incontrate in quella povertà a cui vi siete ridotti; nelle malattie, nelle disgrazie che vi accadono, nel rovesciamento di fortuna, che vi affligge, nella persecuzione di quei nemici; nell’abbandono di quell’amico; nel rifiuto di quel grande del secolo, nel disprezzo, che si ha di voi; in quella umiliazione, in quei colpi che macchiano la riputazione; nella perdita di un figliuolo, d’un parente, a voi così caro; nel cattivo umore di quel marito, di quella moglie, di quelle persone, con cui siete costretto a convivere; nel carattere malvagio di quei figli; nella rusticità di quei servi; nella severità di quei padroni; in una parola, voi troverete croci in tutte le afflizioni annesse al vostro stato; altro non si ricerca di accettarle con rassegnazione, e offrirle a Dio in soddisfazione delle colpe vostre. Se la vostra sommissione in queste occasioni è sincera, i vostri debiti sono pagati, il cielo è vostro. Tutto deve cedere a queste riflessione: se per altro aveste ancora qualche ripugnanza a portare la croce, ah! Fratelli miei, per , scendete in spirito nell’inferno, e mirate ciò che vi soffrireste, se Iddio vi avesse trattati come meritavate; allora, lungi dal lamentarvi, benedirete mille volte il Signore, lo ringrazierete della sua benignità nell’avere cangiati in leggiere tribolazioni brevissime gli eterni supplizi che vi erano destinati. Questo sol pensiero, io ho meritato l’inferno. è capace di far cessare i lamenti di natura troppo sensibile, e avversa ai patimenti, anzi è bastante a farceli amare. Ora, giacché conoscete, o peccatori, quanto vantaggioso vi sia il soffrire per Gesù Cristo, sopportate pazientemente le pene di questa vita servitevene per convertirvi a Dio e per soddisfare alla sua giustizia per i vostri peccati, e siate certi che dopo essere stati purificati col fuoco della tribolazione, meriterete di entrare nel regno delle eterne delizie dove più non avrete cosa alcuna a soffrire. Vediamo ora il vantaggio delle tribolazioni per li giusti. Secondo punto.

SECONDO PUNTO

Expedit vobis, ut ego vadam. Joan. XVI.

Egli era espediente per gli Apostoli che il Salvator del mondo da loro si separasse, perché il loro attaccamento alla sua presenza era un ostacolo alle grazie che loro doveva con la sua veduta infondere lo Spirito Santo: nella stessa guisa Egli è espediente per i giusti che Dio li privi delle sue consolazioni, e li provi con l’afflizione.

II. Punto. I beni, i mali di questa vita, e tutte le cose contribuiscono al vantaggio di coloro che amano Dio, dice l’Apostolo. I beni per il buon uso ch’essi ne fanno, e i mali, per la pazienza con cui li sopportano: ma nelle afflizioni principalmente trovano i giusti sicuri mezzi e insieme contrassegni certissimi della loro predestinazione. Le afflizioni nutriscono la fede dei giusti, fortificano la speranza, e la loro carità rendono perfetta. Ecco i vaneggi che apportano all’uomo giusto. La fede c’insegna che noi dobbiamo mirare il cielo come nostra patria e riguardarci in questo mondo, dice s. Pietro, come in una terra straniera. Ora nulla può trovarsi, che sia più valevole a conservarci in questi buoni sentimenti che le tribolazioni. Infatti, fratelli miei, per poco che si rifletta a ciòche accade in questo mondo, noi vediamo che i giusti non sempre dei beni di fortuna si trovano forniti mentre all’empio circondato di gloria e di onore va tutto a seconda, il giusto nell’oscurità geme nell’umiliazione: Dum superbit impius, incenditur pauper (Ps. IX). Spesso ancora è la sua probità disprezzata dai peccatori, e schernita. Ora egli è afflitto da perdite, ora da malattie, oggi perseguitato dai nemici; domani dagli amici tradito, e pochi son quei giorni che da qualche tribolazione non siano segnati, e si può accertare che nelle vicende di beni e di mali che riempiono la vita degli uomini, i mali che si soffrono, sorpassano di gran lunga per la loro gravezza e durata i beni e i piaceri che si posson godere. Or ecco ciò che insegna al giusto a riguardarsi sulla terra come in un luogo d’esilio, impercioché in questa maniera deve portarlo a ragionare la fede. Io sono certo che v’ha un Dio rimuneratore delle opere buone, che non le ricompensa su questa terra tutta ripiena di triboli e di spine; non è dunque in questo mondo il mio regno; un’altra più verace felicità mi è riserbata nel cielo, dove Iddio dà il premio dovuto alla virtù. – Quindi ne proviene quel distacco dal mondo che sente nascersi nel cuore il giusto tra le afflizioni: quindi quegli ardenti suoi desideri e sospiri verso il cielo, sua patria diletta. E invero come potrebbe egli porre affetto ad un mondo, il quale altro che miseria non germoglia ed afflizione di spirito: ad un mondo., in cui un bene verace, un puro piacere, un durevole riposo non si può rinvenire? Come non sospirerà verso un soggiorno in cui nulla di più dovrà soffrire, in cui senza male di sorta alcuna, la pienezza godrà d’ogni bene? Questo deve , fratelli miei, farci conoscere la sapienza e la bontà di Dio nelle tribolazioni ch’Egli ci invia. Egli conosce l’inclinazione nostra per gli oggetti creati e sensibili; vede che il grande attacco che abbiamo ad essi allorché li possediamo, ci fa perdere di mira i beni eterni; e ci espone eziandio a perdere la fede che dobbiamo avere, imperciocché colui che gode di una prosperità non interrotta, ebbro ed incantato dai piaceri dei sensi, più non trova alcun gusto nelle cose di Dio. Animalis homo non percepii ea quæ sunt Spiritus Dei (1 Cor.2). E perciò Egli allontana da noi quegli incantevoli oggetti, ci priva dei beni; permette quella disgrazia d’un grande del secolo, quell’abbandono d’un amico, la persecuzione d’un malevole; amareggia i nostri piaceri con salutevoli afflizioni, onde siamo astretti a rivolgerci verso i veri beni. E non avete voi fatto di ciò l’esperienza più volte? Quando ogni cosa andò a seconda dei vostri desideri, voi perdeste di vista le verità della fede: ma quando il Signore fece sentirvi il peso del suo braccio, allora comprendeste che fuori dei piaceri che in cielo si godono, niun altro è degno del nostro affetto: si ravvivò allora la vostra fede, talché maggiore non era stata giammai. E non vediamo noi di questo giorno l’esperienza ancora in tutti gli stati? Non troviamo noi maggior fede, maggior divozione in coloro che sono nell’avversità, che in coloro i quali gustano della prosperità le dolcezze? Vedete voi forse i ricchi del secolo segnalarsi colla pratica delle virtù, con l’assiduità negli esercizi della religione? Non li udite voi per lo contrario combatterla spesso con frivoli discorsi, con empi ragionamenti? Siccome questa religione li incomoda e li molesta nei loro piaceri, vorrebbero che non ve ne fosse alcuna: e perciò si sforzano di estinguere la luce, per camminare nelle tenebre dell’iniquità: ma facciano quanto potranno, questa fede non può nella loro mente in tale maniera oscurarsi, che non faccia splendervi qualche luminosa verità che li conturbi in mezzo ancora ai loro piaceri. Per lo contrario il giusto nelle afflizioni, libero dalla caligine che le mal frenate passioni producono, seguita la luce della fede, osserva le sue massime, ed altra felicità non cerca fuorché quella che dalla fede gli vien proposta. Cosi le afflizioni nutriscono la fede del giusto, e fortificano inoltre la sua speranza. E infatti, fratelli miei, ella è indubitata verità nelle sante Scritture in più luoghi manifestata, che solo per la strada delle tribolazioni giunger possiamo al regno di Dio: Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Act. XIV). Altri predestinati non saranno, dice l’apostolo, fuorché loro che dal Padre celeste saran trovati conformi all’immagine del suo Figliuolo. Alcuno non salirà con Gesù Cristo nella gloria, se non sarà prima con Lui salito al Calvario: Egli stesso ci assicura che chi non porta la sua croce non può essere suo discepolo: felice dunque colui che è partecipe dei patimenti dell’Uomo-Dio, imperciocché deve quindi sperare di regnare nel Cielo con Lui: Si sustinebimus, et conregnabimus (2Tim. 2). Questa è la strada che tennero i santi tutti per arrivare al regno di Dio: e testimoni ne siano quei martiri illustri, che la innaffiarono col sangue loro, dando per Gesù Cristo la vita: e quei santi Anacoreti, che dandosi ai rigori della penitenza, con le lagrime la bagnarono; essi erano tutti persuasi di ciò che dice il grande Apostolo, che le tribolazioni di questa vita produr dovevano in essi un peso immenso di gloria: Momentaneum tribulationis nostræ æternum gloriæ pondus operatur in nobis (2 Cor. IV). Ecco dunque ciò che sostiene, ciò che fortifica la speranza del giusto nelle afflizioni: egli sa che il suo Dio è fedele nelle promesse, magnifico nelle ricompense, che gli promette in premio dei suoi patimenti un regno eterno: egli sa che le croci lo rendono somigliante a un Dio paziente, che è il modello dei predestinati, sa che gli eletti, gli amici di Dio sono stati provati col fuoco della tribolazione e che solo dopo queste prove sono stati trovati da Dio degni di Lui: egli può dunque essere sicuro di aver con i santi una medesima sorte: s’egli soffre come essi, le sofferenze gli danno un incontrastabile dritto a quella corona che Dio promette a coloro che li amano. Ah! Fratelli miei, quanto sono consolanti pel giusto che è nelle afflizioni, questi pensieri: quanto mai ne raddolciscono l’amarezza! Ecco ciò che riempiva già d’allegrezza il grande Apostolo in tutte le sue tribolazioni: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (2 Cor. VII). – Il giusto afflitto vede in mezzo a suoi dolori il cielo aperto per lui, vede la stanza a lui preparata: poco tempo ancora, dice allora seco stesso, e presto vedrò finire i miei mali, la mia afflizione si cangerà in eterna allegrezza. Ecco, o giusti che siete tribolati, il degno oggetto a cui dovete rivolgervi nelle vostre pene. Mirate, vi dirò come la madre dei Maccabei ad uno dei suoi figliuoli per incoraggiarlo nei tormenti, mirate quel bel cielo, per cui siete stati creati, gettate lo sguardo al trono di gloria che vi è preparato. Peto, nate, aspicias ad cœlum (2 Mach. VII). Ecco il termine dei vostri affanni, il fine delle vostre pene. Alla vista di questa immensità di gloria confesserete, che, come dice l’Apostolo, tutte le tribolazioni di questa vita non meritano di di essere messe in confronto della ricompensa che vi è promessa. Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam quæ revelabitur in nobis (Rom.VIII). Confesserete che beati sono gli afflitti, perchè sono sulla via che al cielo conduce, e infelici al contrario stimerete coloro che nulla patiscono, e d’ogni piacer godono in questo mondo, perché sono nella strada di perdizione. Lungi dunque dal lamentarvi nelle vostre afflizioni, le stimerete come una caparra che Dio vi dà dell’eterna felicità; e tanto più perché le afflizioni, rendendo perfetta la vostra carità, sono eziandio per voi feconda sorgente di meriti e di virtù. – E invero, fratelli miei, egli è nelle tribolazioni, che la virtù si fa conoscere, si fortifica, e si perfeziona, come dice l’Apostolo. Virtus in infirmitate perficitur (2 Cor. II).Nelle tribolazioni l’amore di Dio, la pazienza, l’umiltà, tutte le virtù cristiane si fanno vedere in tutto il loro splendore. Si trovano per verità alcuni, che nella prosperità non lasciano di servir Dio, e che gli protestano, come il reale profeta, di voler essergli nell’abbondanza dei beni inviolabilmente fedeli: Ego autem dixi in abundantia mea non movebor in æternum (Ps. XXIX). Ma quanto poco si puòfar conto sopra quella virtù, che dall’avversità non è stata provata. Imperciocché se si ama Dio soltanto quando non è favorevole ai nostri desideri, ciò non sarebbe più amarlo per Lui medesimo, ma per lo contrario essere fedeli a Dio quando ancora ci affligge, perseverare costanti nel suo servizio quando parche ci abbandoni, questo sì, che può chiamarsi vero amore, amor puro e sincero: imperciocché tanto è più perfetto l’amore, quanto è più disinteressato. Ora un Cristiano che ama Dio nelle tribolazioni, dimentica i propri interessi; e si serba fedele a Dio, non per i beni che ne riceve, ma perché è infinitamente amabile; il che è effetto d’una carità perfetta. Il Cristiano tribolato può dire a Dio come il reale Profeta, Voi avete voluto, o Signore, provare il mio cuore, e conoscere il mio amore. Probasti cor meum (Ps. XVI). Voi mi faceste passare pel fuoco della tribolazione. Igne me examinasti. E non ostante ogni prova in cui mi avete posto, io non mi sono allontanato da Voi: le disgrazie, i sinistri accidenti non mi han fatto abbandonare la vostra santa legge: et non est intenta in me iniquitas. Le acque della tribolazione non han potuto estinguere il fuoco dell’amore divino di cui era infiammato il mio cuore: Aquæ multæ non potuerunt extinguere charitatem (Cant. VIII).Oh beato colui che può tenere a Dio siffatto discorso! Benché non possa alcuno in questa vita essere certo di avere per Dio un amore perfetto, si può dire nondimeno, che la pazienza nelle tribolazioni n’è una delle più sicure prove. Ed ecco, o giusti, la felice testimonianza per cui potete conoscere che amate il Signore. A questo contrassegno si sono sempre conosciuti i suoi veri amici. Testimonio ne sia il santo Giobbe, la cui virtù non comparì mai tanto bella come nella tribolazione. Non è meraviglia, diceva a Dio lo spirito tentatore, che Giobbe fedelmente vi serva, mentre il colmate di beni; ma aggravate su di lui la vostra mano, e vedrete se sarà saldo alla prova dei vostri flagelli. Iddio percosse di fatti il suo servo, ma questo santo uomo dimorando fedele a Dio nei dolori, confuse il demonio. Non vi rechi dunque meraviglia, o giusti che mi ascoltate, che di tanto in tanto Iddio vi affligga per rendere più perfetto il vostro amore: imperciocché Egli lo mette alla prova delle tribolazioni, come si mette l’oro nel crogiuolo per dargli tutta la sua bellezza. Nei vostri giorni felici, in sanità perfetta, nell’abbondanza di beni, vi pare che voi amavate di cuore il Signore, perché facevate delle buone opere: ma in una prosperità continua si sarebbe ella serbata incorrotta la vostra virtù? Una sanità sempre robusta, una fortuna sempre ridente non vi avrebbero esposti a qualche caduta in cui avreste perduti i meriti delle vostre buone opere? Inoltre non avevate nulla a temere degli inganni dell’amor proprio che le virtuose azioni suole spesso accompagnare? La vostra propria volontà non era ella la regola di vostra condotta? E per lo contrario ridotti ad uno stato di debolezza e di povertà, siete sicuri di ubbidire al voler di Dio, tanto più che essendo le afflizioni spiacevoli e contrarie alla natura, la propria volontà non v’ha parte. Allorché eravate onorati e applauditi dagli uomini, vi compiacevate delle lodi che vi eran date: ma non si doveva egli temere che ciò fosse l’unica ricompensa del vostro buon operare? Invece che ora essendo divenuti l’oggetto del loro disprezzo e dei loro scherni, avete imparato a far le vostre buone opere unicamente per piacere a Dio. Mentre gli amici andavano tutti a gara per prestarvi servigi, e dimostravansi grati ai vostri benefizi, voi forse vi contentavate, alla guisa dei farisei, di amare chi vi amava, e beneficare chi si dimostrava benefico verso di voi: ma allorché avete veduti gli uni indifferenti per voi, gli altri diventarvi nemici, e che siete stati da tutto il mondo abbandonati, voi avete innalzate le vostre virtù all’eroismo, se, come comanda il Vangelo, avete amato i nemici e renduto bene per male. Prima che l’ingiustizia vi spogliasse dei beni, che nere calunnie vi togliessero la riputazione, che foste con atroci ingiurie insultati, voi possedevate la vostr’anima in pace, attendevate alla vostra salute tranquillamente: ma che merito avevate? È forse difficile di praticar la pazienza quando non v’ è cosa alcuna a soffrire! Al contrario non è atto di perfetta ed eroica virtù esser padrone di sé stesso in mezzo agli affronti e alle ingiurie? Questo si è veramente camminar sugli esempi che Gesù-Cristo ci ha dati. Quando non provavate nel servizio di Dio che sensibili consolazioni, dicevate come s. Pietro sul Tabor: Signore, noi qui stiam pur bene. Bonum est nos hic esse. Ma quando Iddio ha ritirate le sue consolazioni, voi avete imparato a cercar piuttosto il Dio delle dolcezze che le dolcezze di Dio. Oh! quanto vantaggiose son dunque le afflizioni ai giusti per provare, purificare e perfezionare le loro virtù. Ecco, o giusti, ciò che vi deve efficacemente muovere non solo a riceverle, ma a ricercarle eziandio con ardore! Se avete ancora qualche ripugnanza, salite in spirito sul Calvario, e gettate lo sguardo sull’Autore e competitore della vostra salute, che ha portato con gaudio tutto il peso della croce, che è stato caricato d’obbrobri, che ha tutto bevuto il calice amaro della sua passione, che è stato coperto di piaghe. Ora sotto un capo coronato di spine, osereste voi portar membra delicate, e coronarvi di fiori? Paragonate i vostri con i suoi patimenti: avete voi al par di Lui resistito sino a spargere il vostro sangue? Nondum enim usque ad sanguinem restitistis (Hebr.XII). Ah! confessate piuttosto, che a paragone dei suoi sono un nulla i vostri patimenti.

Pratiche. Non abbiate dunque timore di patire, dice s. Agostino, temete piuttosto di non patire: temete di non patire abbastanza; giacché i patimenti sono vantaggiosi tanto ai peccatori che ai giusti. Se ogni cosa va a genio vostro, temete che Iddio non vi abbandoni, e che questo non sia un effetto della sua collera: temete che lasciandovi Egli tranquilli nella prosperità non vi dia la ricompensa in questa vita, e non ve ne riserbi alcuna nell’altra, in cui siccome al malvagio ricco, vi dirà voi avete ricevuto in vita i vostri beni: Recepisti bona in vita tua (Luc. XVI). – La vostra felicità è stata sulla terra, onde non potete goderla con i Santi in cielo. Questo timore vi faccia pregare instantemente il Signore, come faceva s. Agostino, che non vi risparmi, che vi flagelli in questo mondo, affinché vi perdoni nell’altro. Eie ure, hic seta, modo in æternum parcas. Se non avete coraggio bastante per andare incontro ai patimenti e ricercarli, abbiate almeno rassegnazione bastevole per ricevere quelli che Dio invia. Soffrite ciò che a Dio piacerà, e fintanto che a Lui piacerà. Le croci che il signore vi manda sono più salutevoli di quelle che sono di vostra elezione. Fa d’uopo ad imitazione di Gesù-Cristo, bere il calice che Dio vi porge, a preferenza di qualunque altro, il quale forse sarebbe ancora più amaro per voi. Calicem, quem dedit mihi pater, bibam (Jo. XVIII). Finalmente, se il Signore non ci affligge come meriteremmo, facciamo noi medesimi le parti della sua giustizia, e prendiamo le armi in mano per punirci con i rigori della penitenza. Sforziamoci, come dice l’Apostolo di compiere con la mortificazione del nostro corpo e delle nostre passioni ciò che manca ancora alla passione di Gesù-Cristo. Sopportiamo con uno spirito di penitenza tutte le pene annesse al nostro stato. Ella è un’ottima usanza di offrirle a Dio non solamente alla mattina, ma eziandio più volte al giorno. – Se ci accade qualche disgrazia, abbracciamo la croce in ispirito, e mettiamo ai piedi di questa croce i disprezzi, gli affronti, le pene che abbiamo a tollerare. Cerchiamo in Dio e non negli uomini la consolazione nelle nostre tribolazioni; e ripetiamo spesso quelle parole dell’orazione domenicale fiat voluntas tua, o quelle del santo Giobbe: Si faccia, o mio Dio, la vostra santa volontà, sia benedetto il vostro santo Nome. Rappresentiamoci Gesù-Cristo, che con la croce sulle spalle c’invita a seguirlo e a portarla con Lui; chi non si sarebbe stimato felice di poter alleggerirgli questo gravissimo peso? Noi possiamo farlo, fratelli miei, e lo facciamo ogni volta che noi accettiamo con perfetta rassegnazione le croci che la sua bontà c’invia per aprirci la strada all’eterna felicità, che vi desidero. Così sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja.

[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.

[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.

[Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis.

[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/13/tutta-la-messa-cattolica-momento-per-momento-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (110)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XX.

Si risponde a quegli argomenti, per cui gli ateisti s’inducono a negare la provvidenza.

I. Legger fatica è piantare un forte, in paragone di quello che si ricerca a difenderlo bravamente. Non è però malagevole stabilire la provvidenza, posto spezialmente quel solido fondamento che la natura con mano non errante vi apparecchiò nel petto di ognuno, quando vi gettò questa massima generale, che non solamente deve riconoscersi una divinità fabbricatrice dell’universo, ma che debbesi anche invocar con preghiere assidue, pacificare con sacrifizi, placare con sommissioni, guadagnare con voti di cuor sincero, come quella che è sola a tenere in suo dominio la ruota delle nostre vicende, ed è sola a volgerla. Ciò che richiede più di vigore, è difendere una tal verità dagli assalti degli avversari. E chi sono questi? Sono quegli empi, i quali come delinquenti, troppo amerebbero, che non vi fosse un invisibile giudice, condannatore ognora, e punitore a suo tempo delle loro ancor più segrete scelleratezze. Ma lasciateli pure venire, e venire guarniti delle armi loro più forti. Che potran fare?  Troppo è gagliarda la rocca da lor tentata. Gli argomenti al tutto puerili, di cui gli audaci si vagliono in assaltarla, si sono da noi già ribattuti abbastanza nel capitolo antecedente: onde il dimorare intorno ad essi più lungamente sarebbe non appagarsi di far cadere dalla mano di un indiano la canna, con cui combatte, se non si perde il tempo a fargliela ancora in pezzi su gli occhi suoi. Miglior consiglio sarà però lo spogliarli di armi più valide, almeno nell’apparenza, cioè di quelle che talora, se non hanno voltato in fuga, han fatto almeno vacillar qualche poco il cuore in petto anche ai saggi: e sono quelle due opposizioni che vengono tosto addotte nel sindacato di ogni governo, cioè la licenza data ai costumi, e la distribuzione non giusta, sì dei premi, sì delle pene, che quivi tennesi. – Facciamoci dalla prima, con trapassare dal governante da noi difeso, alla forma di governare.

II. Senonchè innanzi di venire all’inchiesta, mi si conceda sfogare un giusto dolore, che ho finora represso a forza nell’animo, contra questi censori alteri, i quali si arrogano dar giudizio, di chi? del Giudice universale. E da quando in qua hanno gli uomini senno da raggiustare fin le bilance pubbliche in mano a Dio; da misurare que’ pesi con cui ragguaglia i meriti ed i demeriti di ciascuno; e da far pruova se l’una e l’altra coppa stia bene in perno? uomini sì meschini, che non capiscono ancora come si faccia una zanzara minuta a trombar sì forte; e poi sentenziano sulla sapienza divina, nel ripartimento che fa della fortuna prospera e dell’avversa! Formicuzze volanti, ma a loro costo, mentre, benché provvedute di ali posticce, pur si argomentano di volar tanto in su che sputino in faccia al sole, per ismorzarlo. Capi sventati, che se dovessero (come si ha per favola di Aristotile) gettarsi in qualunque fondo, ove nulla han saputo pescar di vero, troverebbon l’Euripo in ogni pozzanghera; eppur presumono di scandagliare quell’oceano profondo di sapienza e di santità, che è chiamato l’investigabile, e trovar da correggere, da alterare, da aggiungere a quelle massime che la provvidenza ha fermate sino ab eterno nel governarci. – Su, andate prima a fabbricarvi un altro mondo anche voi: chiamatelo dal nulla con voce tale, che fin di là vi risponda: formatelo senza aiuti. fermatelo senza appoggi, movetelo sempre in giro senza fatica, e poi venite a disputare con quel Signore di cui vi tenete più dotti. Avendo con gran facondia Gorgia oratore proposti i modi da racquetare il popolo d’Atene tumultuante, fu deriso da tutti per questo solo, perché vi fu chi, dopo lui, sorto in piedi: Guardate, disse, se è buono a mettere pace in sì gran città chi non avendo in casa più che due donne, la massaia e la moglie non sa far sì, che non facciano sempre a’ capelli insieme. Ma forse che l’istesso non si può dir di questi arroganti? Non sanno in casa loro ciò che sia legge, e poi vogliono darla sull’universo, e darla ad un Dio che ha per diritto, esser tenuto giustissimo ancora quando viene a far ciò che agli uomini par più ingiusto. Non dubitandum est, esse iustum, etiam quando facit quod hominibus videtur iniustum (S. Aug. 1. sent. sent. 300). Non confondiamo però tanto lungamente questi frenetici, che ci dimentichiam di curarli: seppure il confonderli non è già buona parte della lor cura.

III. Adunque la prima cosa che si opponeva alla provvidenza divina, era la permissione di tanti eccessi, quanti sono quei che si veggono alla giornata, quasi che, inchinandosi il sommo Bene a regolare gli affari dell’universo, non debbavi lasciare alcun luogo al male: non altrimenti, che se il sole scendesse in terra, non verrebbe a lasciarvi alcun luogo al gelo. Ragione di qualche apparenza a chi, come con gli occhi, così colla mente, non vede nelle cose altro più che la superficie; né trapassa ad intendere, che se il sole disceso in terra non vi lasciasse alcun gelo, farebbele un tristo prò , mentre così la manderebbe di subito a fuoco e a fiamma.

IV. Dovete però avvertire, che diversamente ha da procedere il provveditore particolare in ogni ordine d’individui, diversamente l’universale. Il provveditore particolare ha da escludere più che può qualunque difetto da ciascun di quei che gli furono dati in cura. L’universale ha da permettere qualche difetto nelle parti, per non impedire la perfezione del tutto (S. T h . 1. p. q. 22. art. 2. ad 2 ) . Ond’è che i difetti che accadono nelle cose naturali, quali sono le sterilità, le storpiature , gli abortivi, i morbi, le morti, si dicono avvenire contra la intenzione della natura particolare di quelle cose ove accadono, non contra l’intenzion della universale. Anzi questa effettivamente li vuol possibili, in quanto il danno di uno è giovamento dell’altro, e la distruzione di uno è generazione dell’altro. La morte de’ cervi è refezion de’ leoni, e la magrezza de’ campi è ricchezza de’ lavoratori. Ditemi adunque, che pretendete da Dio? che impedisca tutte le colpe? Se così è, volete dunque che Egli operi solamente qual provveditore particolare degli uomini, ma non già quale universale. E non vi accorgete, che se Dio dalla sua bontà fosse astretto non solo a proibire le colpe tutte, com’Egli fa, non solo a punirle, ma ancora ad impedirle efficacemente, non sarebbe possibile colpa alcuna (E se non fosse possibile colpa alcuna , come a noi sarebbe possibile conseguire (Se non fosse possibile la colpa, io aggiungo, sarebbe impossibile la libertà morale dell’uomo, la quale pur mentre conformasi alla legge de1 giusto e dell’onesto, ha la coscienza che potrebbe fare il contrario. Chi adunque impugna per ragion della colpa la divina Provvidenza impugna per ciò stesso la libertà umana) la felicità, almeno qual merito, qual mercede, qual corona di generoso trionfo: che è ciò che la renderà quanto più gloriosa a ciascuno, tanto più accetta? Poteva Dio nel crearci donare a tutti di subito il paradiso, chi non lo sa? ma non ha voluto. Ha voluto, che noi ce lo guadagniamo colla vittoria degli appetiti scorretti: perché avendo la beatitudine eterna, rispetto a noi, ragion di ultimo fine, dovea convenientemente esser premio della virtù (S. Th. 1. p. q. 62. art. 2. in 2).

V. E vero che Dio ha sempre ad operare da quello che Egli è, cioè da ottimo agente. Ma l’ottimo agente ha da fare ottimo il tutto, non ha da fare ottima ciascuna parte del tutto almeno semplicemente, ma solo quanto porta la proporzione che ella ha da avere col rimanente dell’opera. Onde è, che quel dipintore, il quale, sdegnate l’ombre, volesse usar soli chiari, soli cinabri, non farebbe ottima la sua tela, ma pessima. Basta che egli dell’ombre valer si sappia in prò de’ colori, il cui lume da nulla divien più commendabile, che dal fosco. In pictura lumen, non alia res magis, quam umbra commendat(Plin. 1. 1. ep. 13).E così appunto si vale Dio delle colpe. Se, nevale con accorgimento d’infinita saviezza, alzando fabbriche più sicure sulle rovine più alte da lui permesse, e formando antidoti più salutevoli dal veleno più reo. E per discendere in ciò più al particolare: due ragioni di bene riporta sempre Dio da quel male di cui parliamo: l’una riguarda Lui, ed è la sua maggior gloria; l’altra riguarda noi, ed è il nostro maggior guadagno.

VI. Ed in prima, col permettere che fa Dio gli eccessi degli empi, ne cava questa gloria meravigliosa di sopportarli. Non fu lode a Filippo re delle Spagne quel sopportar ch’egli fece senza disturbo la trascuratezza di un paggio, che invece di spander il polverino, come era chiesto, sopra una lunga lettera, dal re scritta di proprio pugno al Sommo Pontefice, vi riversò il calamaio? Parve allora, che siccome la gloria più singolare di quelle acque che stanno sopra de’ cieli è il non inquietarsi a simiglianza di quelle acque che scorrono sulla terra: così non lieve gloria fosse anche per quel monarca lo stare tanto superiore agli avvenimenti sinistri, che non se ne Turbasse, come fan le menti volgari. Eppure un tale avvenimento sinistro fu casuale. Or quale sarà dunque l’onor dovuto a quella mente divina, che mentre sugli occhi suoi tanti perversi di qualunque ora trascorrono i suoi divieti, ella li soffrirà senza alterare un punto la sua profonda tranquillità, per l’audacia da lor mostrata; e sappia accoppiare un odio sommo in proibire le malvagità dei ribaldi, e una somma placidità in tollerarle? Che dissi in tollerarle? dovevo dire anzi in vincerle fino a forza di cortesie: mentre egli a guisa del sole, in luogo di rimandar sulla terra tutti i vapori cambiati in fulmini, li rimanda cambiati in piogge, quale di refrigerio qual di ristoro: Liberalitatem iucundiorem debitor gratus, clariorem ingratus fact (Plin. In paneg.). Così ottien egli, che gli empi non di rado confusi a sì gran bontà tanto più poi si commuovano a farne stima. Che se pure ostinati al fine il costringono a rattenere la pioggia mandata indarno, e a scagliare i fulmini, vi par poca gloria del nostro Dio, che rimangano dal suo braccio atterrati questi giganti, che follemente credettero di poter dalla terra far guerra al cielo? Questi e mille altri splendori delle divine perfezioni, spettanti quali alla misericordia, quali alla giustizia, fa campeggiare Iddio nel fondo oscurissimo delle colpe ch’Egli permette, come rassettatore di esse, non come autore: Vitiorum nostrorum non auctor, sed ordinator(S. Augus. serra. 100. de divers.). E proporzionati sono altresì quei vantaggi che dalle colpe medesime a noi ministra, quasi insegnandoci a saper suggere il miele fin dall’assenzio.

VII. Dalle cadute impara l’uomo a non si fidare di se medesimo, a ricorrere con suppliche più ferventi per aiuto al Signore, a deprimersi, a dispregiarsi, a non insultare chi si scorge compagno nelle rovine, a stimar di vaneggio la forza di quel Dio, che gli dà di poter risorgere: in una parola, a vivere si guardingo per l’avvenire, che come non vi ha cavallo più veloce al corso, di quel che una volta restò morsicato dal lupo; così non vi sia talora chiponisi più velocemente all’acquisto della virtù che chi una volta fu raggirato dal vizio, e pur gli sfuggì per gran ventura dai denti già mezzo lacero (S. Aug. de Civ. Dei 1. 14. c. 13).

VIII. Né vale opporre, che il governo tra gli uomini tanto più si stima laudabile, quanto il governatore permette meno di licenza ai soggetti, e più li raffrena. Conciossiachè due notabili differenza, intervengono tra il reggimento degli uomini e quel di Dio. La prima è quell’istessa fin or notata, cioè, che Dio sa far di qualunque male una tal distillazione, che spremene un maggior bene: là dove gli uomini, perché non hanno tanta attività, né tant’arte, conviene che per reggere saviamente impediscano ad ogni lor potere quei mali, da cui la loro alchimia non sa estrarre alcun sublimato inutile dell’umana felicità. Che per ciò la podestà umana differisce ancora ne’ mezzi i quali ella adopera ad impedire le colpe. Per impedire a cagion d’esempio una rissa, comanda il principe, che i due rivali rimangano sequestrati nelle lor case. Laddove Iddio, per togliere l’omicidio, non toglie sempre la comodità di commetterlo attualmente, e sempre lascia la libertà di volerlo. Ma che? con gli avvisi della coscienza che tiene frattanto pronti e con gli aiuti della grazia, Egli stimola la medesima libertà a camminare per la via retta (sì però che ella cammini di suo buon grado), e procura di allettare a se la volontà nostra più dolcemente di quello che sappia l’ambra allettar la paglia, cioè a dire, non con aperta  forza, ma con segrete attrattive, sollecitandola ad uscire dal fango dove ella giace, ma non violentandola affinché n’esca.

IX. L’altra disparità tra il governo divino della provvidenza, e l’umano della politica, è, che il fine principale della politica è la felicità temporale della repubblica; laddove il fine principale della provvidenza è l’eterna, cioè la felicità riserbataci in paradiso. Pertanto fa bene la politica a trattenere i malvagi dalle empietà con mezzi ancora violenti, mentre tali mezzi son di necessità al conseguimento della pace pretesa da chi governa su questa terra: dove del continuo si scorge, che, come alle campagne più nuoce un eccessivo sereno, di quel che nuoce ogni turbine e ogni tempesta; così più nuoce al pubblico la soverchia condiscendenza dei comandanti, di quel che nuocegli il soverchio rigore. Ma Dio, che ha un fine senza paragone più eccelso nel governo degli uomini, deve lasciar loro la piena facoltà dell’arbitrio: non solamente perché avendola concessa loro una volta non è dovere che di poi la ritolga; ma molto più perché possano appigliarsi alla virtù di proprio talento, e così meritare per mezzo di atti liberi e laudevoli quella felicità sempiterna, che, come io dissi, egli non voleva dare in dono, ma dare in premio.

X. Pertanto questa medesima permissione di sì numerosi disordini nel mondo nostro morale, non è un cieco abbandonamento degli affari umani alla sorte, ma è un’arte di saper sopraffino, simile a quello di un esperto nocchiero, che sa navigare al porto fra venti ancora contrari, secondandoli sì, ma di tal maniera, che tuttavia gli servano al suo viaggio, con gloria tanto maggiore, che non verrebbegli dall’averli conformi.

XI. Finalmente, se Dio, come da principio notammo, ha sopra di ogni cosa da riguardare con la sua provvidenza generalissima alla perfezione del tutto, tanto più degna che la perfezion delle parti, che cercar più? Conviene dunque ch’Egli ammetta egualmente e giusti e peccatori sopra la terra, come vi ammette ragionevoli e bruti, spirituali e materiali, semplici e misti, sensitivi e insensati. Questa è la somma perfezione dell’ordine: Ad prudentem gubernatorern pertinet negligere aliquem defedimi bonitatis in parte, ut faciat augmentum bonitatis in toto(S. Th. contra gentes 1. 5. c. 70). Se non vi fosse la crudeltà de’ persecutori, non vi sarebbe la fortezza de’ martiri. – Se non vi fossero colpe, non vi sarebbe penitenza che le piangesse. Se non vi fossero colpevoli, non vi sarebbe giustizia che li punisse: e così discorrete di altre virtù segnalate, le quali, a guisa delle api, hanno per loro origine la putredine, e pure sono le artefici di un lavoro sì nobile, qual è il miele.

XII. Chi però non vede altresì la stolidità di quell’improvvido zelo, il quale amerebbe, che la pena rispondesse subito al delitto, conforme l’eco risponde subito al suono? E qual fretta v’è? Non sappiam noi quante volte padri cattivi abbiano dato al mondo figliuoli buoni, né solo buoni, ma ottimi, che poi recarono un incredibil profitto al genere umano? Tal figliuolo fu un Abramo, tale un Giobbe, tale un Giosia, tale un Ezechia, e tali più senza numero, dentro e fuori delle scritture divine. Qual meraviglia è pertanto, se in grazia loro Dio tollerasse per alcun tempo i lor padri, quantunque pessimi. Ciascuno loda quel prudente ortolano, che non vuol troncare le spine innanzi che ìndi sia spuntato lo sparago. E poi chi di noi non si troverebbe fallito già da gran tempo, se egli avesse dovuto pagar senza dilazione ciascun suo debito alla divina giustizia montata in ira? Appena vi sarebbe uomo vivo sopra la terra. Che se per la tolleranza a noi dimostrata ci teniam di ragion obbligati a Dio; perché vorremo fino accusarlo di ciò di cui lo dobbiam ringraziare ? Porse vorremmo, che fosse pietoso a noi, rigoroso ad altri? Tale appunto è la perversità de’ superbi: amare che la giustizia ponga tutte in conquasso le case altrui, e che alle loro neppur si accosti alla soglia.

XIII. E lasciamo l’impiego sì malamente usurpato di censori della divinità, e di censori che vogliono infino far da legislatori: censores divinitatts, dicentes: sic non debuit Deus, et sic magis debuit (Tertull. c. Marc. 1. 3. c. 2); e rimessi in senno, concludiamo piuttosto, che Dio con arte di provvidenza infinita tollera pazientemente finché gli piace, i rei costumi degli empi, prima per dare più di gloria al suo nome (qual eminente giocatore di scacchi, che si lascia avvedutamente prendere i pezzi, per vincere tuttavia con maggior confusion dell’avversario, mal intendente dell’arte), e poi per bene degli empi stessi, che brama cangiare in giusti tanto più splendidi sicché divenga prezioso cristallo, quel che era già vile ghiaccio. Senonchè, se tollera i tristi, li tollera per bene altresì de’ buoni, la cui virtù viene lavorata dall’aspro di quelle lime che lascia al mondo e viene illustrata al paragon di quell’ombre.

XIV. Frattanto, se Dio non castiga la malvagità di presente, non fa però, ch’ella mai vada impunita al suo tempo debito. Anzi di presente ancor la castiga senza eccezione, mentre non v’è peccatore che Egli non privi subito de’ beni interni, della sua grazia santificante, delle virtù infuse, de’ doni, e di quegli aiuti maggiori che avrebb’Egli concessi, se noi vedesse convertito in ribelle. È vero, che queste perdite, perché sono insensibili, poco cagliono agl’infelici avvezzi a non deplorare quelle rovine, che cadendo non fanno strepito. Ma oh quanto i miseri le deploreranno a suo tempo, se, abusando la divina longanimità, continueranno fino all’ultimo spirito ad irritarla! Quella piena che più lungamente fu rattenuta dall’inondare sulle loro indocili teste, sopravverrà tutta insieme con più furore.

SACRO CUORE DI GESÙ (30): IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA SUA PASSIONE

[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]

DISCORSO XXX.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua Passione.

Christus factus est prò nobis obediens usque ad mortem, mortem autem crucis: Gesù Cristo si è fatto per noi obbediente sino alla sua morte e morte di croce. (Filipp. II, 8) Queste poche parole di S. Paolo, che tengono un posto tanto considerevole nella liturgia della settimana Santa, esprimono concisamente, ma a meraviglia, tutto il libero eccesso di amore, a cui Gesù Cristo si abbandonò sul termine della sua vita per operare la nostra redenzione. Io dico il libero eccesso; perciocché, sebbene non manchi tra i sacri dottori chi pensi, che Gesù Cristo non era libero di riscattare il mondo che morendo sulla croce, molto più deve arriderci la sentenza di coloro i quali insegnano che Dio mandando nostro Signore a redimere il mondo lo ebbe lasciato interamente ed assolutamente libero di scegliere le vie ed i mezzi da ciò. Lo stesso S. Paolo sembra insinuare questa bella dottrina, quando dice (Hebr. XII, 2) che Gesù Cristo, autore e consumatore della fede, proposito sibi gaudio sustinuit crucem, confusione contempta; invece della vita tranquilla e gloriosa, di cui poteva godere, ha voluto soffrire e morire sulla Croce senza far caso dell’ignominia. Epperò è con ragione che S. Giovanni Grisostomo, S. Ambrogio, Ruperto, ed una folla di altri sacri commentatori asseriscono che Gesù Cristo se lo avesse voluto, avrebbe potuto soffrir nulla, e che avendo sofferto tanto sino alla morte di croce, ciò non fece altrimenti che per sua assoluta volontà, anzi per sua libera scelta. Sul momento dell’Incarnazione Iddio proponendogli di salvare gli uomini o patendo per essi o non patendo, godendo anzi ogni sorta di beni, Gesù Cristo fra questi due differenti disegni abbracciò il più sublime. Per tal modo Egli volle adempire l’opera, di cui era incaricato, in tutta la grandezza possibile e segnatamente improntarla di quel carattere che più commuove gli uomini: il disinteresse, l’obblio di se stesso, il pieno ed assoluto sacrifizio.Ed avendo scelto liberamente il disegno più eccellente e più sublime, chi dirà come lo ridusse in atto? Parlando diciò i profeti Mosè ed Elia sopra il Tabor, dice il Vangelo che lo chiamarono un eccesso. Sì – dice S. Bonaventura – con ragione quanto patì Gesù Cristo per noi fu chiamato eccesso, perché fu veramente un eccesso di dolore e di amore, da non potersi mai credere, se non fosse già avvenuto. Egli rimosse tutte le consolazioni e fece intervenire tutte le desolazioni, tutti gli obbrobri, tutti i dolori, concentrandovi tutta la sua anima, tutta la sua mente, tutto il suo cuore, tutte le sue forze! E tutto ciò prò nobis! – O caro Gesù! Qui bisogna fermarsi e cader ginocchioni adorando. Perciocché chi scruterà a fondo la grandezza dell’amor vostro in tutto ciò che avete fatto patendo e morendo per noi sulla croce? La parola amore qui non sembra più sufficiente: ne occorre qualche altra più espressiva. E questa parola, mercé di Dio, esiste; questa parola conservata dalla Chiesa è passata in uso presso al popolo cristiano; è la parola: Passione. La Passione! È il cuore che si fa schiavo di colui che esso ama, che non cerca che questo oggetto, che non vede che lui, che a lui si sacrifica e che, se abbisogna, per lui muore. O Gesù! ecco ciò che voi siete stato per l’umanità! Voi l’avete amata con passione, con la vostra Passione. – Ed ecco, o miei cari, la gran prova di amor del Cuore di Gesù per noi, che piglieremo a ricordare oggi gettando lo sguardo sopra le spine, che lo circondano e sopra la croce, che lo sormonta, quali simboli appunto della sua Passione e Morte. Questa prova ci si manifesta immensa per ogni lato, perciocché avendo avuto il suo teatro in tre luoghi principali, nel Getsemani, innanzi ai tribunali di Gerusalemme, e sul Calvario, il Cuore di Gesù in ognuno di essi si assoggettò per noi ad, un sommo abbassamento e patire.

I. — Una delle pene maggiori, a cui possa andar soggetto il cuor umano su questa terra, è quella della desolazione. L’essere gravemente afflitti, il sentire perciò un sommo bisogno di venir consolati e il non trovare alcuno che appresti un sì pietoso ufficio è senza dubbio uno dei più inesprimibili tormenti. Epperò il santo Giobbe nell’estrema infelicità, in cui era caduto, non già di questa si lamentava, ma bensì della desolazione, in cui l’aveano lasciato i suoi amici: Ecce non est auxilium mihi in me, et necessarii quoque mei recesserunt a me: (IOB. VI, 13) Ecco, che io non posso prestarmi da me alcun conforto, e i miei più intimi amici ci sono allontanati da me. Or è questa più particolarmente la pena, a cui Gesù Cristo volle assogettarsi sul principio della sua Passione, nell’orto di Getsemani. La notte è calata. È il tempo che Dio preferisce per compiere le grandi opere della sua sapienza, della sua giustizia e del suo amore. Nel cuor della notte egli ha parlato ripetutamente ai patriarchi e ai profeti; nel cuor della notte ha sterminato i primogeniti d’Egitto ed ha preservato il suo popolo da sì gran flagello; nel cuor della notte ha distrutti interi eserciti e deciso della sorte di intere nazioni; nel cuore della notte è disceso dalle sue sedi regali, si è fatto carne ed ha preso ad abitare in mezzo a noi; nel cuor della notte ha vegliato e pregato per il genere umano; e nel cuore della notte dà principio alla sua dolorosa Passione. Compiuta cogli Apostoli l’ultima cena, e data ai medesimi una delle prove supreme dell’amor suo coll’averli per la prima volta e prima di tutti comunicati della sua Carne e del suo preziosissimo Sangue, uscì con essi dal Cenacolo, passò per le vie di Gerusalemme divenute già solitarie e silenziose; traversò il torrente Cedron e si diresse alla montagna degli ulivi, ad un luogo presso il villaggio chiamato Getsemani. Quivi giunto, congedatosi dai discepoli, prese solo con se Pietro, Giacomo e Giovanni, ed entrato con questi in un orto, prese ad assoggettarsi alle sue acerbissime pene. La passione dello spavento, dell’avversione, della tristezza come torrenti impetuosi, a cui si siano rotte le dighe, si rovesciarono sopra del suo spirito affogandolo, stringendolo e martoriandolo gagliardissimamente: Cœpit pavere et toedere; (MARC., XIV, 33) cœpit contristari et mœstus esse. (MATT. XXVI, 37) Ciò che con tanta precisione era stato predetto migliaia di anni innanzi, si andava avverando. Il suo Cuore veniva oppresso dal più affannoso conturbamento, e il timor della morte lo andava sopraffacendo: Cor meum conturbatum est in me, et formido mortis cecidit super me. (Ps. LIV). Ed in vero, la sua prossima morte, e non solo la morte, ma le ignominie incredibili e gli strazi atrocissimi, onde essa sarebbe stata preceduta ed accompagnata si presentavano distintamente al suo spirito. Vedeva il tradimento di Giuda, l’abbandono de’ suoi discepoli, l’umiliante cattura, la moltitudine degli oltraggi, gli schiaffi, gli sputi, la flagellazione a sangue, la coronazione di spine, la condanna di morte, il portar della croce, la crocifissione coi chiodi, gli estremi insulti dei carnefici, la loro barbarie in negargli un sorso di acqua, l’abbandono del suo divin Padre, i dolori ineffabili della sua Madre, i suoi ultimi tormenti; tatto vedeva e tutto ad un tempo lo contristava. Cœpit pavere et tædere; cœpit contristari et mæstus esseMa non era la vista della morte soltanto con tutti gli orrori che la circondavano, che si faceva a travagliare in quegli istanti il Cuore di Gesù Cristo. Ciò che anche più lo tormentava era il peso enorme ed orribile di tutte le iniquità degli uomini, che in quel punto il suo divin Padre faceva gravitare sopra di Lui, affinché si accingesse a compierne l’espiazione: Posuit in eo iniquitatem omnium nostrum. (Is. LIII, 6). Nell’antica legge, in certi tempi dell’anno, il popolo di Dio conduceva al gran sacerdote un timido animale, sopra di cui imponeva le mani e caricava tutti i peccati di Israele cacciandolo poscia nel deserto. Ora questa impotente figura del capro emissario, è divenuta nella persona del Salvatore un’attuale ed efficace realtà. Egli che è l’innocente, il senza macchia, il segregato dai peccatori, egli che non aveva maiconosciuto il peccato, né poteva conoscerlo, per volere di Dio in quel punto, secondo l’energica espressione di S. Paolo, diventaper noi il peccato vivente: Eum, qui non noverat peccatum, prò nobis peccatum fecit. (II Cor. V, 21) Tutte le colpe dell’umanità, commesse dalla prevaricazione di Adamo sino allafine del mondo, tutte ad un tempo si fanno a pesare sull’anima sua; tutte le idolatrie, tutte le superstizioni, tutti i culti a satana, tutte le empietà, tutte le eresie, tutte le incredulità, tutti i sacrilegi, tutte le bestemmie, tutti gli spergiuri, tutte le profanazioni dei giorni festivi, tutte le ribellioni, tutte le violenze, tutti gli omicidi, tutti i ferimenti, tutti gli odi, tutte le vendette, tutti gli scandali, tutte le disonestà, tutti i furti, tutte le rapine, tutte le calunnie, tutti i pensieri e tutti i desideri malvagi, tutti insomma, tutti i delitti del genere umano. E a questo peso ingente che gravita sopra l’anima sua, chi può immaginare il tedio, l’avversione, lo spavento, la tristezza che provava? Cœpit pavere et tendere: cœpit contristare et mœstus esse.Ma ciò non à ancor tutto. Perciocché se Egli è sotto all’orribile peso di tutti i nostri peccati, e se per farne l’espiazione Egli è destinato alla morte più tormentosa, ciò non è altrimenti perché Egli spontaneamente e liberamente lo ha voluto: Oblatus est, quia ipse voluit. (Is. LIII, 7) Ma, o terribile mistero! O spaventevole visione! Non ostante la sua carità infinita, la sua generosità suprema nel mettersi al luogo di tutti gli uomini peccatori e di morire fra i più atroci tormenti per tutti salvarli, molti vi saranno che nella loro malizia renderanno inutile, anzi funesta la sua passione e morte. Gettandolo sguardo nell’avvenire Egli vede chiaramente che la sua croce riuscirà di scandalo ai Giudei e di stoltezza ai gentili; che anche dopo la sua redenzione sarà continuato sulla terra il culto dell’idolatria e si consumeranno i più nefandi delitti; che nel seno stesso della Chiesa sorgeranno uomini perversi a combattere le verità più patenti, a disseminare gli errori, a sedurre interi popoli e a staccarli dal seno di essa; che infine tra gli stessi Cristiani già fatti partecipi delle sue divine grazie e delle sue misericordie, vi saranno non pochi che ingrati e malvagi conculcheranno il suo preziosissimo sangue e andranno ancor essi irreparabilmente perduti. E a questa sconfortevolissima previsione gli occorrono alla mente le espressioni dei profeti e le va ripetendo in fondo al Cuore: Quas utilitas in sanguine meo ? (Ps.XXIX ) A che gioverà il mio sangue? Ahimè, che senza prò mi sono travagliato: In vacuum laboravi, sine causa. (Is. XLIX, 4) Mi sono esinanito sino a prendere la forma di servo, sono nato nella oscurità e nella miseria, stetti nella povertà e nei travagli fin dalla mia giovinezza, ho passato trent’anni nell’umiliazione e nel lavoro; e tutto ciò a che vale? Quæ utilitas? Ho lavorato in vano,ho lavorato invano: in vacuum laboravi, sine causa. Per tre anni di seguito sono passato tra gli uomini facendo del bene e sanando tutti, predicando la mia celeste dottrina e tollerando le fatiche dell’apostolato, vivendo dell’altrui carità, restando senza tetto e senza una pietra dove posare il capo, e soffrendo ogni sorta di disagi; e tutto ciò a che vale? Quæ utilitas? Ho lavorato invano, ho lavorato invano: in vacuum laboravi, sine causa. Ora, eccomi qui preparato agli insulti, ai flagelli, alle spine, alla croce, alla morte, eccomi muovere volenteroso incontro a tutto ciò, eppure tutto ciò a che Vale? Quæ utilitas? Ho lavorato invano, ho lavorato invano: in vacuum laboravi, sine causa. A queste riflessioni, l’affanno, lo scoraggiamento, la tristezza si fa in lui sì grave da ridursi ad un’agonia di morte; ed Egli stesso lo dice ai tre discepoli: L’anima mia è afflitta sino alla morte: Tristis est anima mea usque ad mortem. (MATT. XXIV, 38) Ma come mai, o miei cari, Gesù Cristo soffre, e soffre nell’anima sua sino alla morte? In qual modo poteva soffrire se per la unione ipostatica la sua santissima anima aveva sempre la visione di Dio, che, di legge ordinaria, porta seco la esenzione di ogni pena e il godimento di ogni beatitudine?Ah! la ragione di ciò si è, che volendo per nostro amore sottostare alla più spaventosa desolazione, con un miracolo della sua onnipotenza, con un atto sovrano della sua volontà, in quella guisa che già aveva impedito che si diffondesse nel corpo la sua superna dilettazione, per poter patire e morire, la sospese altresì nella sua anima per potere anche in essa attristarsi e dolersi. È per questo che in lui si avvera la parola del profeta: Repleta est malis anima mea: (Ps. LXXXVII) l’anima mia è ripiena di mali; è per questo che le passioni dello spavento, del tedio, della tristezza irrompono sopra di essa; è per questo che Egli con ragione esclama: Tristis est anima mea usque ad mortem. Ma in questa si grave desolazione non sembrerebbe che avrebbe dovuto almeno farsi a consolarlo il suo Padre celeste? E si è mai inteso a dire che un padre abbandoni il suo figlio e potendolo consolare nelle sue afflizioni gli ricusi questa pietà? E per altra parte non è forse il Divin Padre il Dio di ogni consolazione, che si fa a consolare gli stessi uomini in ogni loro tribolazione? Deus totius consolationis, qui consolatur nos in omni tribulatione nostra? Gesù Cristo stesso, sembra ora desiderarla, giacché staccatosi alquanto dai discepoli e gettatosi a terra ginocchioni, per tre volte così lo va pregando: Pater, si possibile est, transeat a me calix iste: (MATT. XXVI, 44) Padre, se è possibile trapassi da me questo calice! Eppure no! nemmeno il suo Divin Padre si fa a consolarlo. È ben sì vero, che spedisce a Lui un Angelo dal cielo; ma questo Angelo non viene già a rimuovere il calice della passione od a scemarne l’amarezza, ma bensì a confortarlo perché lo beva sino all’ultima stilla, essendo stato così stabilito: che non altrimenti la terra sia riconciliata col cielo, non altrimenti si compia il gran mistero della Redenzione: Apparuit illi Angelus de cœlo confortans eum: (Luc. XXII 43) Così che questa apparizione celeste tutt’altro che sminuire il suo dolore ed il suo abbattimento, glielo accrebbe per tal guisa, che cominciò da tutto il corpo a sudar vivo sangue e in tale abbondanza che questo gocciolava e scorreva per terra: Factus est sudor eius sicut guttæ sanguinis decurrentis in terram. (Luc. XXII, 44) Povero Gesù! Ma almeno, almeno, si facessero a consolarlo i tre Apostoli,Pietro, Giacomo e Giovanni? Non li aveva Egli un giorno ripieni di consolazione, sopra la vetta del Tabor? Non erano dunque in dovere di dargli un qualche ricambio? No, neppur essi prestano a Gesù questo pietoso ufficio; che anzi, mentre Egli così soffre ed agonizza a sangue, essi tutt’altro che pensare a Lui, se ne stanno a dormire placidamente, tanto che l’amoroso Signore è costretto a lamentarsene dolcemente col dir loro: E così adunque non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Sic non potuistis una hora vigilare mecum? (MATT. XXVI, 40) Oh abbandono! Oh desolazione! Essa fa veramente totale. E ben con ragione ha potuto dire per essa: Sustinui qui consolaretur, et non inveni: (Ps. LXVIII, 11) No, non ho trovato neppur uno che mi consolasse. Ora qui, o miei cari, fermiamoci un istante e domandiamoci: Per quali ragioni massimamente Gesù Cristo nell’orto del Getsemani ha voluto soffrire questa totale desolazione. Per tre principali: Anzi tutto per espiare quelle desolazioni,in cui noi stessi l’abbiamo lasciato. Egli pieno per noi di amore infinito si è degnato di farsi il nostro amico, il nostro confidente, il nostro compagno, e per mezzo della grazia la nostra vita. Ma noi quante volte ci siamo violentemente staccati dal suo fianco! Ed era forse per andare in una compagnia migliore della sua? Ma quale compagnia vi può essere più bella, più dolce, più onorata e più vantaggiosa di quella di Gesù. Eppure noi abbiamo lasciato di vivere con Lui e abbiamo a Lui la solitudine per entrare nella compagnia de’ suoi nemici, degli empi bestemmiatori della sua grandezza ed ella sua dottrina, cogli oltraggiatori sacrileghi della sua Chiesa, del suo Vicario, de’ suoi ministri, coi derisori superbi della sua legge e della sua misericordia! Oh insensati e maligni che fummo! E potrà essere che a questa riflessione noi vogliamo continuare a vivere insieme cogli avversari di Gesù Cristo e lasciar Lui nell’abbandono e nella desolazione? La seconda ragione per cui nel Getsemani ha voluto sottoporsi a questa pena si fu per dare il grande ed importante ammaestramento del come dobbiamo diportarci allora che nelle nostre afflizioni non riceviamo alcuna consolazione dai parenti e dagli amici e ci sembra di non riceverne neppure dallo stesso Dio. Quanto facilmente in mezzo alle nostre pene leviamo tosto la voce verso il cielo per lamentarcene e per dire talora sconsigliatamente che Iddio medesimo più non si cura di noi e ci ha abbandonati! Ma Gesù Cristo col suo esempio ci apprese che se in tali affanni, anziché lamentarci, noi dobbiamo pregare e ripetutamente pregare, giacché egli ripeté per tre volte al suo divin Padre la stessa preghiera, non dobbiamo tuttavia pretendere che Iddio si acconci alla nostra volontà, ma che invece noi dobbiamo rimetterci interamente alla sua; perciocché lo stesso Gesù Cristo dopo d’aver chiesto ripetutamente, che si allontanasse da Lui l’amaro calice, soggiunse ripetutamente: Verumtamen non mea voluntas, sed tua fiat; (Luc. XXII, 42) per altro, o Divin Padre, non si facciala mia volontà, ma la tua.In terzo luogo Gesù Cristo ha voluto sottostare a questatotale desolazione per nostro infinito amore e vantaggio. Debutidice S. Paolo – debuti per omnia fratribus similari ut misericors fieret; (Hebr. II) Egli dovette essere totalmente simile ai fratelli per diventare con essi misericordioso. Quasi che lasua sapienza infinita non lo avesse ancora persuaso abbastanza delle nostre infermità e miserie, ha voluto aggiungervi la propria esperienza, e provando così Egli stesso quanto sia doloroso nelle afflizioni l’essere da tutti abbandonati, disporsi sempre più efficacemente a sempre farsi Egli il nostro immancabile e potente consolatore. E così è realmente. Il suo Cuore Santissimo ripieno per noi di amore e di compassione sempre si commuove ad ogni nostra lagrima; epperò se tanti e tantiche menano al mondo una vita misera e travagliosa, e come il ferito di Gerico si vedono passar vicino più d’uno che non li cura, venissero ai piedi di Gesù Cristo a raccontargli le loro pene, a mostrargli le loro piaghe, che si vergognano di far conoscere al mondo, oh quale consolazione sentirebbero spargersi sul cuore afflitto. Ma intanto perché non vengono a cercare la consolazione dove si trova di fatto, vivono i giorni più desolati e più tristi quando pure non si abbandonano alla più cupa disperazione e non pongono fine alla loro vita con un esecrabile delitto! Deh! o miei cari, nelle nostre tribolazioni gettiamoci prontamente nelle braccia di Gesù Cristo, affidiamoci interamente a Lui, ed Egli, come ce ne ha fatto fede cogli stessi suoi patimenti, non mancherà di astergere pietoso le nostre lagrime.

II. Il Divin Redentore rifatto appena della totale desolazione, che lo aveva condotto sino agli spasimi dell’agonia, esce dall’Orto, ed è già vicino a lasciarsi cadere nelle mani dei peccatori. Qui è dove comincia la loro ora ed è permesso al principe delle tenebre di esercitare il suo potere; lo stesso Gesù lo disse: Hæc est hora vestra et potestas tenebrarum. (Luc. XXII, 53) Qui è dove prende ad avverarsi la parola profetica di Geremia: che il Salvatore sarebbe stato satollato di umiliazioni, di infamie e di obbrobri: Saturabitur obbrobriis. (Ger. III, 30) Lo scellerato Giuda gli viene innanzi, ed appressando le sue immonde labbra al volto di Gesù lo bacia, e con quel bacio lo tradisce. La bordaglia, che stava lì presso gli si getta addosso furente, lo lega come un vil malfattore, e coi più orribili strapazzi lo conduce in città davanti agli iniqui tribunali. Strascinato da prima innanzi ad Anna già Pontefice, ed interrogato sopra la sua dottrina, Gesù gli risponde: « I miei insegnamenti furono pubblici, e tutti i Giudei li hanno uditi. Interroga dunque costoro e sapranno dirti quello che ho insegnato. » Un vilissimo servo credendo di scorgere in questa dignitosa risposta un disprezzo verso il pontefice, si avvicina al buon Gesù, e con mano sacrilega dà uno schiaffo violento su quella faccia divina, che innamora i Santi, ed abbellisce il Paradiso. Oh certamente che alla vista di tale insulto gli Angioli del Cielo inorridirono e frementi di santo sdegno domandarono a Dio licenza di farne una pronta vendetta; ma il pazientissimo Gesù tollera l’ingiuria atroce con una divina calma, e si limita a rispondere al vile percussore: Se ho parlato male, dimostralo; se bene, perché mi batti? Quale mansuetudine! L’ex-pontefice non avendo trovato alcuna ragione per condannare Gesù eppure volendolo condannato lo mandò a Caifa suo genero e pontefice di quell’anno. Questi con un’assemblea di maligni lo condanna alla morte, sotto il pretesto che ha bestemmiato per aver detto di esser Figlio di Dio. Pronunziata la iniqua sentenza intorno alle due ore dopo la mezzanotte, il buon Gesù rimane per circa quattro ore in mano di una ciurmaglia di soldati e di servi, che ne fanno uno strazio orrendo. Quegli uomini senza cuore, collocato Gesù in mezzo di loro, fanno a gara chi più possa e meglio sappia con stomachevoli e immondi sputi imbrattargli il divin volto. A questi insulti aggiungono le percosse, le derisioni, gli scherni. Gli velano la faccia, gli bendano gli occhi con un sordido panno, e facendone come un loro trastullo lo percuotono dicendo: Indovina chi ti ha percosso. E Gesù riceve quegli sputi, coglie quelle percosse e tace. In quel luogo medesimo a quegli oltraggiatori si aggiunge a disgustare Gesù il più fervido de’ suoi Apostoli. Pietro volutosi introdurre in mezzo a quella sbirraglia mal preparato, vistosi in pericolo nega di essere stato il discepolo di Gesù, anzi giura e spergiura di non averlo mai conosciuto. Povero Gesù! Degli stessi suoi amici chi lo abbandona, chi lo nega, chi lo tradisce! Caifa e i suoi satelliti, avendo pronunziata contro di Gesù la sentenza di morte, avrebbero potuto ottenere di farlo lapidare siccome bestemmiatore. Ma una morte siffatta parve loro troppo mite ed onorevole. Quindi per l’empia brama di vederlo agonizzare e morire sopra un tronco di croce, quale un pubblico malfattore, pensarono di accusarlo presso ai Romani, e farlo condannare da loro. Pertanto fatto giorno e intorno alle sei del mattino, eglino lo conducono al tribunale di Ponzio Pilato, il quale governava la Giudea a nome dell’Imperatore di Roma, e glielo presentano come un ribelle alla civile potestà, e quale un sovvertitore del popolo ebreo contro i Romani. Pilato lo interroga ben tosto, ma dalla calma di Lui, e dalle sue risposte subito si avvede che egli non ha da fare con un ribelle, ma col più pacifico degli uomini, e perciò dice agli accusatori: « Io non trovo in Lui materia di condanna. » Saputo poscia che Gesù è Galileo e per conseguenza soggetto alla giurisdizione di Erode Antipa, lo manda a costui, che già trovavasi in Gerusalemme per cagion della Pasqua. I Giudei ne hanno piacere, perché conoscendo le barbarie di Erode sperano che lo condannerà alla morte. Intanto sono altre ingiurie, altri oltraggi e villanie, che gli fanno per istrada. Chi lo spinge, chi lo tira, chi lo percuote come un vil giumento e peggio, perché è l’odio, è la rabbia dell’inferno che li agita contro di Lui. Erode aveva più volte udito a parlare di Gesù ed era assai curioso di vederlo, non già per udirne gl’insegnamenti e approfittarne, ma per la speranza che avrebbe operato qualche miracolo alla sua presenza. Ma il re impudico, l’empio uccisore di Giovanni Battista s’ingannò. Gesù non solamente non operò miracoli, ma alle molte interrogazioni che gli fece, non rispose parola. Erode e tutta la sua corte lo trattò da stolto, e fattolo coprire con una veste bianca il rimandò a Pilato. La sapienza eterna trattata da pazzo! Quale obbrobrio! Ma eccone altri assai maggiori. Pilato avendo saputo che l’unico delitto dell’innocente Gesù era l’invidia dei Giudei contro di Lui, voleva liberarlo dalle loro mani, o almeno dalla morte. Ma debole e senza carattere qual era, non osando fare ciò con un atto di coraggio e coll’uso di tutta la sua autorità, venne in pensiero di riuscire nel suo intento col saziare in parte la rabbia dei nemici di Gesù. Egli pertanto col suo transigere coll’ingiustizia comincia a far subire a Gesù il più ingiurioso confronto che sipossa immaginare, mettendo la sua vita a pari con quella di un facinoroso. Dovendo, secondo la consuetudine, concedere nell’occasione della Pasqua la libertà di un prigioniero, due egli ne propose alla scelta del popolo: Gesù e un certo Barabba. Sperava Pilato, che la plebe, chiamata a scegliere tra i due, non avrebbe esitato a chiedere la liberazione di Gesù, che sapeva innocente e suo benefattore. Ma intanto quale affronto per Gesù! Chi è Barabba? Un ladro, un assassino, la feccia delle prigioni. E chi è Gesù! Il Figlio di Dio, il Re della gloria, il Creatore del cielo e della terra, il Santo dei santi. Quale afflizione pel Cuore di Gesù nel vedersi posto a sì ignominioso confronto! Quale amarissima pena all’udire Pilato che dice al popolo: Quale di questi due volete voi? Chi più vi piace? Chi vi è più caro, Gesù o Barabba? – Ma non fu tutta qui l’ingiuria che gli si fece. Appena i principi dei sacerdoti e i seniori si avvidero che intenzione di Pilato era di liberare con quel mezzo Gesù, presero a subornare il popolo già raccolto sotto la loggia del pretorio, e ad eccitarlo a domandare la vita di Barabba e la morte di Gesù. Laonde quando il preside fece la proposta, la plebaglia gridò dalla piazza: Libertà a Barabba, morte a Gesù. Ohimè! che ingiustizia di un popolo inferocito! che ingratitudine di  tanti beneficati verso il loro benefattore! che insulto atroce! – Pilato ciò udito, e non sapendo a qual partito appigliarsi per mitigare quella gente furibonda, consegna ai soldati Romani Gesù, perché lo flagellino. Gli strumenti, che si usavano per questo tormento, erano flagelli armati di pungiglioni, di palline di piombo, e per lo più di ossicini di pecora, che ad ogni colpo facevano piaga. Lo strazio n’era orribile. Lo storico Eusebio, descrivendolo adoperato contro alcuni martiri, si esprime in questi termini: Tutti gli astanti inorridivano vedendoli scarnificati sino alle vene, la carne staccarsi dalle ossa, e apparire persino le interiora. A questo strazio fu dunque condannato il buon Gesù. Laonde spogliato delle sue vesti, viene legato ad una colonna, e battuto per un’ora da trenta coppie di manigoldi, che si sostituivano le une alle altre, e si animavano a vicenda alla barbara carneficina. Ohimè! già si aggiunge piaga a piaga, già i flagelli penetrando nel corpo, squarciano e strappano a pezzi la carne; già scorre il sangue da ogni parte; già di sangue sono intrisi i flagelli, di sangue è bagnata la colonna, di sangue irrigata la terra! Secondo le rivelazioni Gesù ricevette più di sei mila colpi. Chi non s’intenerisce a questa considerazione! Chi stenterà ancora a credere alla grande bontà del Cuor di Gesù? Ma dopo la orribile carneficina della flagellazione, i manigoldi istigati dal demonio e dai Giudei, che agognavano di vedere Gesù ucciso in quel tormento, osservando che aveva ancora pressoché sana una parte essenziale del corpo, cioè il capo, cercano un fascio di lunghe, acute e durissime spine, e fattone come una corona gliela pongono sopra la testa e poi con bastoni crudelmente la battono e gliela calcano dentro. Furono circa settanta spine, che si piantarono in quel capo divino; parecchie gli penetrarono fino al cervello, ed altre forato l’osso gli uscirono dalla fronte. Ohimè, quale crudele supplizio! – Ma quei barbari hanno caro di rappresentare Gesù quale re da burla, prendersi gioco di sue pene, schernirlo, insultarlo in ogni più indegna maniera. Laonde dopo avergli cinto la testa con quel doloroso diadema, gli strappano con violenza le vesti di dosso, gli pongono invece uno straccio di porpora a guisa di manto reale, e gli mettono in mano una canna in segno di scettro. Questa nuova ignominia torna dolorosissima, poiché nello spogliarsi gli si riaprono le piaghe, ricevute poc’anzi nella flagellazione, e nuovo sangue sgorga dalle sue sacrate membra. Quella ciurma indegna sfoga poscia tutta la sua crudeltà contro il divino paziente. Di Lui ride come di un folle, gli sputa in faccia, lo percuote con schiaffi, e togliendogli la canna di mano, con essa gli batte, gli calca la corona in capo. Oh! quanto è terribile l a crudeltà dei Giudei e dei pagani insieme congiurati! E quanto continua ad essere grande l’umiltà e la pazienza di Gesù! Ora Pilato, vedutolo in questo stato sì deplorabile, si argomentò di poter muovere a compassione i Giudei e liberarlo almeno dalla morte. Presolo pertanto lo conduce sopra la loggia del palazzo, e lo mostra al popolo dicendo: Ecce homo: Ecco l’uomo. Ei voleva dire: vedete come è ridotto quest’uomo, che voi accusate di aspirare alla sovranità: è finito; questo timore non vi è più. Ora che più poco gli resta di vita, lasciate che vada a morire a casa sua, e non mi obbligate a condannarlo. Ma quando Egli aspettava di strappare da quei forsennati una parola di pietà ode invece un grido di morte più violento: « Toglilo dinnanzi e mettilo in croce. Se tu non lo condanni, ti dichiari nemico di Cesare. » Pilato a queste grida del popolaccio si sente venir meno; e pel timore di essere accusato qual fautore dei ribelli presso l’imperatore Tiberio, per rispetto umano, per amore dell’impiego, tradisce la sua coscienza, e s’induce a condannare alla morte, e morte di croce il più innocente degli uomini, lo stesso Autore della vita. Non appena la sentenza della morte di Gesù fu pronunziata, i soldati si diedero tosto attorno per preparare la croce a Gesù. Verso le undici, essendo questa disposta, i carnefici strappano di dosso alla loro vittima quel lacero manto di porpora, che già si era attaccato alle ferite, e così rinnovano le piaghe, i dolori, gli spasimi con una crudeltà inaudita. Copertolo poscia delle sue vesti i manigoldi gli presentano la croce, sulla quale ha da morire, e che per maggior ignominia e strapazzo Egli deve portare sino al luogo del supplizio. Gesù mira quel legno, lo bacia, se lo stringe con compiacenza al seno; e poi sebbene già sfinito di forze, ormai esausto di sangue, e più morto che vivo, vi sottopone le spalle e in mezzo a due ladroni si avvia al Calvario. In questo stato lagrimevole Egli attraversa una parte di Gerusalemme al cospetto di quel popolo, che sei giorni prima lo aveva acclamato ed accolto come in trionfo. Quale confusione per Gesù l’essere da tutti veduto in quello stato di tanta ignominia! Quale pena al suo sensibilissimo Cuore! Ecco il grande scempio che si fece dell’onore di Gesù davanti ai tribunali di Gerusalemme! Ah che Egli fu ivi veramente il fiore del campo, flos campi, e il verme della terra, vermis et non homo, fiore e verme che da tutti sono senza alcun riguardo calpestati. Ma qui, o miei cari, sostiamo un altro istante, che è tempo, e torniamo a farci una domanda: Perché Gesù Cristo ha voluto essere cotanto vilipeso e schernito? Ah! che ciò fu massimamente per altro, che per confondere la nostra superbia e per apprenderci col più eroico esempio la santa umiltà. Quanti vi hanno, tra gli uomini, abbastanza Cristiani nel resto, che pur non sanno cedere ed umiliarsi in nulla! E credono di scusarsi col dire: Ma qui c’entra la mia stima, ci va il mio buon nome! Eh cari miei! la vera stima, il vero buon nome di un Cristiano non è altro che seguire l’umiltà di Gesù perché in tal guisa il nome esprime esattamente il fatto, e mentre sembrerà di perdere la stima presso gli uomini, si andrà acquistando sempre maggiore presso Iddio. Deh! adunque, o carissimi, risolviamoci di medicare la nostra eccessiva superbia coll’umiltà di Gesù Cristo; e se ora per essere veri Cristiani dobbiamo con lui sottostare a qualche obbrobrio, animiamoci col pensiero, che giorno verrà, in cui parteciperemo alla sua gloria.

III. – Ma se il divin Redentore nel Getsemani si sottomise massimamente ad una totale desolazione, e davanti ai tribunali di Gerusalemme ad un’infinità di obbrobri, sulla cima del Calvario volle provare gli estremi dolori. Perciocché erano bensì stati gravi tutti quelli, che già sino ad ora aveva sofferti, ma i maggiori di tutti furono i dolori della crocifissione e dell’ultima sua agonia. Era circa il mezzodì quando egli arrivava al luogo del supplizio. Ivi cadde un’ultima volta, come per prendere possesso della terra, che doveva bagnare del sangue della redenzione. Appena rialzato i Giudei gli apprestano la bevanda dei condannati. Ma, ahi ritrovato di odio infernale! Anziché dare a lui del vino forte mescolato con mirra, come solevasi cogli altri condannati, affine di farli cadere in una specie di ebbrezza e diminuire in essi il senso del dolore, gli propinano invece una bevanda composta di vino guasto e di fiele, cangiando così in una nuova pena anche questa specie di conforto. E Gesù quasi per soffrire con chi ha risentimenti tutte le pene dell’atroce martirio, gustato appena di quella bevanda, non ne volle più bere. Intanto con furiosa violenza e con immenso suo rossore viene spogliato delle proprie vesti; e qui nuovo tormento. Per la copia del sangue, per la moltitudine delle ferite le vesti si erano di nuovo attaccate al suo lacero corpo, e nello strappargliele si riaprirono un’altra volta le sue piaghe con inesprimibili dolori. – Ma è già disposta a terra la croce, e già è preparato l’altare, sopra cui ha da essere sacrificata la gran Vittima, che deve riconciliare la terra col Cielo. I carnefici comandano a Gesù di stendersi su quel legno, ed Egli ubbidiente piega le ginocchia a terra, china riverente il capo, si corica su quel duro letto di dolore e di infamia, e vi adatta il suo corpo insanguinato. Presenta poscia le mani e i piedi, e quattro manigoldi dato di piglio a grossi chiodi spuntati, con pesante martello, a furia di ripetuti colpi glieli conficcano in croce. Ed ahi! che i chiodi passano da parte a parte, facendo scorrere dalle mani a dai piedi rivi di sangue. Terminata la crocifissione si sente un grido: Leviamo in alto. Ed ecco che la croce si solleva lentamente sotto gli sforzi dei carnefici. Maria; e le pie donne stendono le braccia verso di essa come per rattenerla; ma la croce, già interamente innalzata, cade con tutto il suo peso sulla fossa scavata per riceverla. A quella scossa terribile le mani ed i piedi maggiormente si squarciano, e Gesù manda un lamentevole grido, al quale, di lontano, sul colle del tempio risponde la fanfara delle sacre trombe, che annunziano l’immolazione dell’agnello pasquale. Ma il vero Agnello, che toglie i peccati del mondo, cominciava in un mare di tormenti ad essere immolato sulla croce. Quali dolori abbia in essa sofferti, non vi ha mente umana che possa immaginarli, né lingua che valga a descriverli. Levato in alto, e sospeso a tre chiodi non ha dove poggiarsi, se non sulle squamature delle mani e dei piedi, che per il peso sempre più si dilatano. I suoi muscoli e le sue ossa si stancano ben presto di una posizione così contro natura. Il sangue continua a fluire; il cuore batte dolorosamente e la febbre, la sete, gli affanni si avvicendano per tre ore continue agli estremi insulti de’ suoi crocifissori, e colle sue parole di perdono, di pace, di conforto, di preghiera, di salute, fino a che, chinata dolcemente la testa, manda l’estremo respiro. Così adunque il divin Redentore, assoggettandosi per noi sulla croce agli estremi dolori, ci ha manifestato sino a qual punto il suo cuore Santissimo ci abbia amati. E un amore si grande, non sarà ricambiato da noi con amore? Il profeta Zaccaria parlando delle piaghe, da cui sarebbe coperto Gesù Cristo nella sua passione gli faceva dire : His plagatus sum in domo éórum, qui diligebant me: (ZAC. XIII, 6) queste piaghele ho ricevute nella casa e dalle mani di coloro, che mi dovevano amare. E noi a tutti i dolori, che Gesù ha già sofferto,vorremo aggiungere anche questo di non darci ad amarlo edi continuare a tenerlo confitto e ricoperto di piaghe sulla croce? Ah no, certamente! Gettando lo sguardo sul santoCrocifisso e leggendo ad ogni ferita, ad ogni piaga, ad ogni stilla di sangue la parola amore, risponderemo tutti e per sempre colla stessa parola.Sì, o Cuore Santissimo di Gesù, noi vi amiamo e vi vogliamo amare per tutta la vita. Noi vi amiamo e per vostro amore faremo volentieri il sacrifizio di tutti gli amori terreni.Noi vi amiamo, e per vostro amore perdoneremo volentieri a tutti i nostri nemici. Noi vi amiamo, e per vostro amore osserveremo fedelmente la vostra santa legge. Noi vi amiamo,e per vostro amore porteremo con rassegnazione la croce, che ci avete posto sulle spalle. Noi vi amiamo, e per vostro amore faremo santa la nostra anima e lavoreremo a santificare delle altre. Noi vi amiamo e per vostro amore compiremo d’ora innanzi ogni nostra opera, pronunceremo ogni nostra parola, trarremo ogni nostro respiro, daremo ogni nostro battito.Noi vi amiamo e per amor vostro vivremo e morremo,per potervi poi amare di un amore eterno. Ma voi, o Cuore Santissimo di Gesù, degnatevi di confermare quel che oggi  avete in noi operato mercé la vostra santa benedizione.

I MAGGIO: FESTA DI S. GIUSEPPE LAVORATORE

Dagli Atti del papa Pio XII

La Chiesa, madre provvidentissima di tutti, consacra massima cura nel difendere e promuovere la classe operaia, istituendo associazioni di lavoratori e sostenendole con il suo favore. Negli anni passati, inoltre, il sommo pontefice Pio XII volle che esse venissero poste sotto il validissimo patrocinio di san Giuseppe. San Giuseppe infatti, essendo padre putativo di Cristo – il quale fu pure lavoratore, anzi si tenne onorato di venir chiamato « figlio del falegname » – per i molteplici vincoli d’affetto mediante i quali era unito a Gesù, poté attingere abbondantemente quello spirito, in forza del quale il lavoro viene nobilitato ed elevato. Tutte le associazioni di lavoratori, ad imitazione di lui, devono sforzarsi perché Cristo sia sempre presente in esse, in ogni loro membro, in ogni loro famiglia, in ogni raggruppamento di operai. Precipuo fine, infatti, di queste associazioni è quello di conservare e alimentare la vita cristiana nei loro membri e di propagare più largamente il regno di Dio, soprattutto fra i componenti dello stesso ambiente di lavoro. – Lo stesso Pontefice ebbe una nuova occasione di mostrare la sollecitudine della Chiesa verso gli operai: gli fu offerta dal raduno degli operai il 1° maggio 1955, organizzato a Roma. Parlando alla folla radunata in piazza san Pietro, incoraggiò quell’associazione operaia che in questo tempo si assume il compito di difendere i lavoratori, attraverso un’adeguata formazione cristiana, dal contagio di alcune dottrine errate, che trattano argomenti sociali ed economici. Essa si impegna pure di far conoscere agli operai l’ordine prescritto da Dio, esposto ed interpretato dalla Chiesa, che riguarda i diritti e i doveri del lavoratore, affinché collaborino attivamente al bene dell’impresa, della quale devono avere la partecipazione. Prima Cristo e poi la Chiesa diffusero nel mondo quei principi operativi che servono per sempre a risolvere la questione operaia. – Pio XII, per rendere più incisivi la dignità del lavoro umano e i princìpi che la sostengono, istituì la festa di san Giuseppe artigiano, affinché fosse di esempio e di protezione a tutto il mondo del lavoro. Dal suo esempio i lavoratori devono apprendere in che modo e con quale spirito devono esercitare il loro mestiere. E così obbediranno al più antico comando di Dio, quello che ordina di sottomettere la terra, riuscendo così a ricavarne il benessere economico e i meriti per la vita eterna. Inoltre, l’oculato capofamiglia di Nazareth non mancherà nemmeno di proteggere i suoi compagni di lavoro e di rendere felici le loro famiglie. Il Papa volutamente istituì questa solennità il 1° maggio, perché questo è un giorno dedicato ai lavoratori. E si spera che un tale giorno, dedicato a san Giuseppe artigiano, da ora in poi non fomenti odio e lotte, ma, ripresentandosi ogni anno, sproni tutti ad attuare quei provvedimenti che ancora mancano alla prosperità dei cittadini; anzi, stimoli anche i governi ad amministrare ciò che è richiesto dalle giuste esigenze della vita civile. (Div. Off.)

= = =

(A. Carmagnola: S. Giuseppe – Ragionamenti; tip. e libr. Sales. Torino, 1896)

RAGIONAMENTO XVI.

S. Giuseppe e la fiducia nella divina Provvidenza.

Se vi ha una verità che sia molto inculcata nelle sacre scritture è certamente quella che ci dice esistere la Divina Provvidenza. Nel libro dell’Ecclesiaste (V. 5) si legge: « Guardati bene dal dire dinnanzi al tuo Angelo: non vi è Provvidenza, affinché non accada che Iddio sdegnato del tuo parlare distrugga tutte le opere delle tue mani ». Nel libro della Sapienza (VI. 8) sta scritto: « Signore, tu hai fatto il piccolo ed il grande ed hai egual cura di tutti » . Salomone nel libro dei Proverbi (XVI. 23) asserisce che tutte le cose, anche quelle che si chiamano fortuite, dipendono da Dio e sono regolate dalla sua Provvidenza: « Si gettano le sorti nell’urna; ma il Signore è quegli che ne dispone » . E in cento altri passi è ripetuta questa grande verità, la quale d’altronde ci è predicata dalla stessa ragione: poiché se Iddio ha creato il mondo e gli uomini che in esso vi sono, è certo altresì che non ha abbandonato il mondo e gli uomini a sè, ma di tutto piglia amorevole cura. Eppure è questa una delle verità viemaggiormente contestata e questo grido blasfemo è quello che si va maggiormente ripetendo dagli uomini: Non vi è Provvidenza: Non est provvidentiaE qui lasciando da parte che molti mettono fuori questo grido considerando il disordine apparente che regna nel mondo per una apparente prosperità dei malvagi ed oppressione dei buoni; che molti altri lo metton fuori nell’apparente disordine che talora vi ha nelle stagioni, nei grandi avvenimenti e simili, io parlo solamente di coloro i quali sol perché non sono da Dio assecondati in tutti i loro desideri, sol perché son lasciati da Dio nello stato di infermità, sol perché Iddio non li toglie da quella condizione povera in cui si trovano e talvolta per i suoi giustissimi fini oltre al non prosperarli li lascia anche qualche poco soffrire, si levano su e più sdegnosamente di tutti gridano: No, la provvidenza non c’è: Non est provvidentia! Non c’è la provvidenza? Ebbene ci faccia vedere questa sera S. Giuseppe, quanto sia ingiusto questo grido: sì, ci faccia egli toccare conmano che la Provvidenza esiste e che la esperimentano tutti coloro che fiduciosamente, come ha fatto egli, si abbandonano in lei.

PRIMA PARTE.

La Divina Provvidenza nel grande avvenimento della fuga e della dimora in Egitto della Sacra Famiglia risplende anzitutto per la cura che si prese della medesima durante il suo viaggio. In quella medesima notte in cui S. Giuseppe ricevette dall’Angelo l’ordine di fuggire, egli colla sua Sposa e col Bambino uscì di Betlemme e die’ principio al lungo e gravosissimo viaggio. La stagione era fredda, e per maggior precauzione nel traversare la Palestina bisognava prendere le strade più abbandonate, epperò anche più incommode. Che affanno! Che pena per Maria! la quale ad ogni tronco che vede, ad ogni sterpo che tocca, ad ogni muoversi dei palmizi agitati dal vento si pensa d’essere sopraggiunta da qualche soldato di Erode. E che martirio al cuor di Giuseppe! Egli era il custode di Gesù e di Maria, il mallevadore della loro vita. Era proprio a lui, che l’Angelo aveva detto : Prendi il Bambino e la sua madre e fuggi nell’Egitto; epperò era proprio su di lui che pesava tutta la responsabilità di un tanto e sì difficile incarico. E questo  suo martirio era accresciuto ognor più dai disagi del cammino e delle sofferenze alle quali doveva andar soggetto colla sua sposa. Quanti giorni avran dovuto camminare tra vortici di sabbia, senza poter trovare una sorgente di acqua per bagnare le loro labbra! Quante volte avranno dovuto aprirsi il cammino in mezzo a cespugli intricati: quante volte trovarsi sull’orlo di scogli dirupati con grave pericolo della vita! Quante notti poi avranno dovuto posare le loro stanchissime membra sul nudo terreno! Con tutto ciò S. Giuseppe memore dell’avvertimento del reale salmìsta: Iacta super Dominum curam tuam: Getta nel seno del Signore la tua ansietà (Salm. LIV, 22), si abbandonava interamente alla Divina Provvidenza, in lei metteva ogni sua fiducia, persuaso e certo che la Divina Provvidenza durante tutto quel lungo e difficile cammino non avrebbe mai lasciato di proteggerli e specialmente Maria SS. e il Bambinello Gesù. E colui il quale riposa del tutto sulla divina Provvidenza, vive certamente all’ombra della sua protezione: Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei cœli commorabitur(Salm. XC. 1). Il Signore agli Ebrei che camminavano nel deserto alla conquista della terra promessa mandò una nube che di giorno li riparava dagli ardori del sole e di notte fattasi tutta luminosa li rischiarava nel viaggio; al santo Profeta Elia, che fuggiva l’ira di Gezabele, mandò un Angelo; a confortarlo nel deserto e a dargli pane ed acqua che lo resero atto a camminare per quaranta dì e quaranta notti fino al monte santo dì Dìo, Oreb; al giovane Tobia mandò un arcangelo per compagno nel viaggio di Eages, ed ai Santi Magi una stella miracolosa, perché li guidasse a Betlemme; infine il Signore medesimo promise di guidare ne’ suoi passi il giusto, che in Lui si affida, per mezzo degli Angeli e pigliarsi cura del suo viaggio, perché nulla gli accada di sinistro: Angelis suis mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis; in manibus portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum(Salm. XC). Or è egli possibile che il Signore anche in questoviaggio della Sacra Famiglia non abbia fatto meravigliosamente risplendere la sua divina Provvidenza? Oh sì, senza alcun dubbio. Epperò possiamo ben ritenere quel che pensano molti Santi, che cioè durante quel viaggio gli Angeli si fecero guide visibili della Sacra Famiglia e loro difesa in mezzo ad ogni pericolo. E la vista degli Angeli doveva certamente per S. Giuseppe tornare di grandissimo conforto; benché alla fin fine il massimo conforto gli proveniva dall’avere insieme con sé quel Gesù, il quale sebben Bambino e sofferente nella sua umanità era tuttavia il Dio forte e potente. Molte sono le meraviglie che pii scrittori raccontano essere avvenute durante quel viaggio, ma lasciandole tutte da parte, perché non abbastanza provate, mi contento di accennarne una nella quale, oltre alla maggior certezza che di essa si ha per essere ammessa dagli scrittori più dotti, risplende altresì in modo particolare la divina Provvidenza. Entrando adunque la Sacra Famiglia in una folta selva, d’un tratto una frotta di uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di ladroni, i quali solevano assalire i viandanti, e la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Pensate, come a quell’incontro gelasse il sangue a Maria ed a Giuseppe. Ogni resistenza era inutile: non restava altro che sollevare gli occhi al cielo e confidare nella divina Provvidenza. Ma ecco che il capo di quei ladroni, fattosi innanzi per vedere con chi aveva a trattare, alla vista di Giuseppe sì semplice, senz’armi, dimessamente vestito in compagnia di una giovine sposa dalla quale traspariva una bellezza di paradiso, con un Bambinello che non gli pareva del mondo, si sentì commosso nel fondo del cuore; e preso di riverenza per quella famiglia che riconosceva al tutto sovrumana, ben lungi dal far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, ed a lui ed alla sua sposa offerse ospitalità e riposo nella sua medesima tenda. Quindi provvedutili di cibo e bevanda, nel rilasciarli volle egli stesso accompagnarli e guidarli per buon tratto di cammino. Or bene quel capo dei ladroni si chiamava Disma; e la tradizione ci dice, che trent’anni dopo fu preso dai soldati e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù; ed ivi veggendo le meraviglie che avvenivano durante l’agonia del Redentore, pentito sinceramente de’ suoi enormi peccati, confessò Gesù Cristo per vero Dio, lo pregò di volersi ricordare di lui, e Gesù perdonandolo gli disse: Oggi sarai meco in Paradiso. Oh quanto è ammirabile la divina Provvidenza! E quanto grande ricompensa diede il Signore ad un ladrone per un piccolo atto di carità usato verso di Gesù, di Maria e di Giuseppe. – Ma è tempo che ci rechiamo col pensiero in Egitto, dove dobbiamo immaginare essere arrivati al fine i nostri santi viaggiatori. Io non istò a questionare intorno al luogo dove si fermò ad abitare la Sacra Famiglia: dirò solo che la più probabile opinione si è che siasi fermata in un villaggio per nome Matarie presso di una città assai importante per nome Eliopoli: di fatti a Matarie si mostrano ancora presentemente ai pellegrini cristiani molte memorie della dimora che vi fecero Gesù, Maria e Giuseppe. Ma lasciando, dico, ogni cosa a tale riguardo, vengo senz’altro a parlare del modo cori cui anche qui risplendette la divina Provvidenza per la Sacra Famiglia. Certamente da principio per S. Giuseppe e per Maria la vita là dovette essere dura. Essi si trovavano là senza aver conoscenza alcuna, tra gente per nulla ospitale, che parlava una lingua diversa dalla loro, senza sapere a chi rivolgersi per aiuto. Inoltre il disagio della povertà doveva loro farsi sentire ogni giorno più, poiché se è vero che dai Santi Magi avevano ricevuto dell’oro, a quel tempo e nei bisogni della vita e nel fare altrui carità l’avevano già tutto impiegato. Ma che perciò? – Un giorno il Divin Redentore predicando alle turbe in quel celebre discorso, che fu detto della montagna, diceva loro: « Non prendetevi affanno su di quello onde alimentare la vostra vita, né di quello onde vestire il vostro corpo. Gettate lo sguardo sopra degli uccelli dell’aria, i quali non seminano e non mietono, né empiono granai; e il vostro Padre celeste li pasce. Non siete voi assai più di essi? E perché vi prendete pena pel vestito? Considerate come crescono i gigli nel campo: essi non lavorano e non filano. Eppure Io vi dico, che neppur Salomone con tutta la sua splendidezza fu mai vestito come uno di questi. Se adunque in tal modo Iddio riveste un’erba del campo, che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà molto più voi, o uomini di poca fede? Non vogliate adunque andarvi dicendo: Che cosa mangeremo e che cosa berremo? con che cosa ci vestiremo? Che tutte queste cose, di cui avete bisogno, sa benissimo il vostro Padre. Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date per giunta ». (Matt. VI). Or bene, quantunque S. Giuseppe non avesse ancora intesi questi grandi insegnamenti dal labbro benedetto di Gesù, per la sua santità li aveva tuttavia già tutti scolpiti nel fondo del cuore e li metteva perfettamente in pratica. Epperò sebbene nei primi giorni della sua dimora in Egitto si trovasse in grandi angustie, non tanto per sé, quanto per la sua sposa e per Gesù, confidato in Dio che non l’avrebbe costretto a limosinare il pane, cominciò a recarsi di porta in porta a cercare lavoro, e sebbene gli toccassero molti rifiuti e fors’anche umilianti disprezzi, riuscito tuttavia a trovarne qualche poco, riprese i suoi fabbrili strumenti ed animosamente si diede alla fatica. E Maria a sua volta, valente siccome era nei lavori dell’ago e del ricamo, ancor ella ne fece ricerca ed avendone trovato, mentre non desisteva dalle cure necessarie al Bambinello Gesù, lavorava assiduamente ancor essa, occupando talvolta persino qualche parte della notte. E così con quei lavori, che certamente per la maestria singolare con cui erano fatti sia da Giuseppe, che da Maria, venivano ogni giorno più accrescendosi, ricavavano degli onesti guadagni, sufficienti a provvedersi quanto loro occorreva e pel vitto e pel vestito, e per tal modo toccavano con mano che la divina Provvidenza non lascia mai in abbandono chi in essa si confida. Che bell’esempio e che grande ammaestramento è questo per noi! Per noi, che tanto facilmente ci lamentiamo della divina Provvidenza da arrivare talvolta sino al punto di pensare che il Signore non si ricordi di noi! Ah miei cari, che insensatezza è mai la nostra in queste parole! Iddio è padre, amorosissimo padre. E come possiamo noi credere che Egli non pensi ad aiutarci nei nostri bisogni, a soccorrerci nelle nostre necessità? Un padre che ami davvero i suoi figli che cosa non è disposto a fare per non lasciar loro mancare il necessario? Si racconta che un padre, non avendo più nulla da dare ai suoi tigli, che pativano lafame, si aperse con una lama ilpetto e poi invitò i suoi figli a cibarsi del sangue che ne spicciava fuori. Ciò è per nulla incredibile quando si rifletta attentamente la forza che ha l’amore per i suoi figli nel cuore di un padre. Ora se un padre terreno farebbe tanto per i figli suoi, Iddio, Padre nostro celeste, il quale è onnipotente, tralascerà Egli di disporre le cose in modo che non abbiamo mai a mancare di ciò che strettamente ci abbisogna? Che se la sacra Scrittura attribuisce occhi a questo Dio di bontà egli è per significare che vigila del continuo sopra di noi; se gli attribuisce orecchi è per significare che ascolta sempre i nostri gemiti e le nostre preghiere, e se gli attribuisce mani è per significare che le distende misericordiosamente verso di noi per sollevarci dalle nostre miserie, dalle nostre infermità, dai bisogni nostri. No, no, Iddio non ci dimentica: « Vi porterò nelle mie braccia, dice Egli per mezzo di Isaia; vi stringerò al mio seno, vi accarezzerò sulle mie ginocchia, come una madre accarezza il suo figlio. può ella dimenticare il suo Bambino? No certamente. Ma pure se una madre arrivasse io non mi dimenticherò mai di voi ». – Oh, se fossimo ben convinti di queste verità, quanto saremmo più tranquilli e più felici. Persuasi che Dio ci ama, si ricorda di noi, pensaal nostro bene, noi riconosceremmo in ogni caso della nostra vita la sua mano benedetta; anche in mezzo alle tribolazioni crederemmo con viva fede che Iddio dispone tutto per il vero nostro bene, e che quando Egli lo creda perciò opportuno ha mille mezzi per trarcene fuori. Epperò che calma! che placidezza di spirito sarebbe mai sempre la nostra! L’anima che, ad esempio di S. Giuseppe si affida interamente nella divina Provvidenza, al pari di Lui riposa e s’addormenta soavemente tra le sue braccia, come un bambino nelle braccia di sua madre; ella prende per divisa le parole di Davide: In pace in idipsum dormiam et requiescam(Salm. IV, 9). Io riposo tranquillamente in pace, perché tutta la mia speranza è riposta nella divina provvidenza. Il Signore mi conduce e perciò niente mi mancherà (Sal. XXII); guidato dalla sua mano ed all’ombra della sua protezione io trionferò di tutti i miei nemici e non avrò timore di alcun male. La misericordia del Signore mi accompagnerà in tutti i giorni della mia vita, affinché io abiti nella casa di Lui per tutta l’eternità. Oh! facciamo di imitare San Giuseppe nella confidenza i n Dio e riconosceremo a tutta prova che anche per noi risplende la divina Provvidenza.

SECONDA PARTE

Sì, esiste la Divina Provvidenza, ma è certo che alle volte lascia di manifestarsi, massime con quelli che ne sono indegni e non si fanno ad implorarne l’aiuto. Se si vuole poter sentire la Divina Provvidenza, bisogna anzi tutto a somiglianza di S. Giuseppe rendersene degni colla santità della vita. – Vi sono taluni i quali vivono malamente, commettono sempre gravi peccati, non vanno quasi mai in chiesa, non aprono mai la bocca per dire un po’ di preghiera, se nominano il santo Nome di Dio e di Gesù Cristo non è che per bestemmiarlo, insomma non si danno mai pensiero di Dio e vivono come se Iddio non fosse, e poi quando Iddio fa loro sentire che c’è, mandando ai medesimi qualche privazione o disgrazia, allora vengono fuori a gridare: E come ci può essere la Provvidenza, se noi siamo così sventurati? Oh deliranti! E costoro che non pensano punto a Dio pretendono poi così superbamente che Iddio si prenda la più amorosa cura di loro e li preservi da ogni male? Ei conoscano anzi tutto la loro mala vita, se ne pentano sinceramente, ne chiamino a Dio perdono, si mettano con impegno a ripararla, ed allora potranno non dico pretendere, ma sperare che il Signore li tratti con maggior bontà. Ma fino a tanto che essi rimangono nella loro mala vita, lamentandosi della Divina Provvidenza, non fanno altro che aggiungere peccato a peccato e rendersi sempre più indegni degli aiuti del Signore. Ma oltreché allo studiare di rendersi degni della Divina Provvidenza, conviene altresì implorarla incessantemente da Dio, e specialmente in quelle circostanze della vita in cui se ne ha maggior bisogno. Egli è certo che S. Giuseppe in tutte le diverse necessità in cui venne a trovarsi non tralasciò mai di levare gli occhi al Cielo per pregarlo a mandargli il suo aiuto. E così dobbiamo far noi, pregare e pregare con fervore. Venire soprattutto come Giuseppe in compagnia di Gesù, di Maria, qui davanti ai loro altari e disfogar loro tutto il nostro cuore, manifestar loro tutti i nostri bisogni, fare lo stesso con San Giuseppe, ed allora quel Dio il quale ha detto: domandate e riceverete: cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto, potrà essere che non esaudisca le nostre preghiere e non ci tolga dall’infermità, dalla miseria, dalla privazione in cui ci troviamo? « Oh! chi chiede, riceve, chi cerca, trova, e a chi picchia, sarà aperto. Quando un figliuolo domanda al padre del pane, il padre gli darà forse un sasso? E se un pesce, gli darà forse invece del pesce una serpe? E se chiederà un uovo, gli darà uno scorpione? Se adunque voi, che siete cattivi, diceva Gesù Cristo stesso, sapete del bene dato a voi far parte ai vostri figliuoli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo spirito buono a coloro che glielo domandano (Luc. XI, 9 – 13) ». – Che se ad ogni modo, non ostante le nostre preghiere, il Signore sembrasse fare il sordo, e non farci sentire la sua Divina provvidenza in quel modo che piacerebbe a noi, ravviviamo la nostra fede e riconosciamo che in ciò appunto, nel lasciarci inesauditi, usa il Signore verso di noi la sua provvidenza, essendoché il non esaudirci nei nostri desideri sarà cosa sommamente utile alla salvezza dell’anima nostra. Ed allora più che mai richiamiamo alla mente la sentenza del Vangelo: Cercate innanzi tutto il regno di Dio e la sua giustizia, ed il resto vi sarà dato per giunta: quærite primum regnum Dei et iustitiam eius, et hæc omnia adiicientur vobis(Matt. IV, 33).

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/01/messa-di-san-giuseppe-lavoratore/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/05/01/i-maggio-s-giuseppe-patrono-dei-lavoratori-2/

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MAGGIO 2020

CALENDARIO LITURGICO: MAGGIO 2020

MAGGIO. È IL MESE CHE LA CHIESA DEDICA ALLA VERGINE MARIA

Se vi ha un nome che scenda fino al fondo del cuore e vi desti un fremito di gioia e di amore è certamente il nome di madre. Madre! Oh nome che dice quanto vi ha sulla terra di più venerabile, di più generoso, di più dolce. Madre! nome che ricorda quella debole sì, ma sublime creatura adorna dei più ammirabili privilegi, e sì intimamente associata a Dio da portare nel proprio seno e nutrire del proprio latte dei figliuoli destinati a possedere un giorno Dio stesso nella gloria della sua eternità. Madre!… che cosa è dunque una madre? È dessa la donna della bontà e della saviezza, la donna del consiglio e della persuasione, la donna della dolcezza e della grazia. Sì, ella è tutto questo, ma non questo solo; ella è per eccellenza la donna dell’amore. E chi si sentirà capace di penetrare nel cuor di una madre e misurare l’amore che essa porta a’ suoi figli ? Lo dico fidatamente: l’amore di una madre è talmente il supremo amore su questa terra, che al di là di esso comincia l’amore divino, di modo che quando Iddio vuol farci intendere l’infinito amor suo verso di noi non altrimenti si spiega che col dirci che Egli ci ama più che una madre. Una madre può ella dimenticarsi del proprio figlio e non sentirne pietà? No, senza dubbio. Ma pure, dice il Signore, quand’anche la vostra madre si dimenticasse di voi, io non vi dimenticherò giammai. Or bene Maria Santissima, lassù in cielo, non è solamente la nostra augusta Regina, ma è più ancora la nostra amorosissima Madre. Verità questa così consolante, che al solo ricordarla riempie della più viva gioia il cuore.

 (sac. Prof. A. Carmagnola: La porta del cielo – S. E. I. Torino, rist. 1944)

EXERCITIA

-325-

Fidelibus, qui mense maio pio exercitio in honorem beatæ Mariæ Virginis publice peracto devote interfuerint, [Ai fedeli che nel mese di Maggio praticheranno in pubblico un pio esercizio in onore della Beata Vergine Maria, per ogni giorno del mese si concede …] conceditur:

Indulgentia septem annorum quolibet mensis die:

Indulgentia plenaria, si diebus saltem decem huiusmodi exercitio vacaverint et præterea sacramentalem confessionem instituerint, ad sacram Synaxim accesserint et ad mentem Summi Pontifìcis oraverint [… se lo avranno praticato almeno per 10 giorni, s. c.].

Iis vero, qui præfato mense preces vel alia pietatis obsequia beatæ Mariæ Virgini privatim præstiterint, [a coloro che lo praticheranno privatamente …] conceditur:

Indulgentia quinque annorum semel, quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem obsequium peregerint; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento quominus exercitio publico intersint.

(Secret. Mem. 21 mart. 1815; S. C . Indulg., 18 iun. 1822; S. Pænit. Ap., 28 mart. 1933).

QUESTE SONO LE FESTE DEL MESE DI MAGGIO 2020

1 maggio S. Joseph Opificis    I. cla

                    Primo venerdì

2 maggio S. Athanasii Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

                     Primo sabato

3 maggio  Dominica III Post Pascha    Semiduplex Dominica minor *I*

                         Inventione Sanctæ Crucis    Duplex II.

              29° anniversario della Elezione del Sommo Pont. Gregorio XVIII

4 maggio S. Monicæ Viduæ    Duplex

5 maggio S. Pii V Papæ et Confessoris    Duplex

6 maggio S. Joannis Apostoli ante Portam Latinam    Duplex majus *L1*

7 maggio S. Stanislai Episcopi et Martyris    Duplex

8 maggio In Apparitione S. Michaëlis Archangeli    Duplex majus *L1*

9 maggio S. Gregorii Nazianzeni Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

10 maggio Dominica IV Post Pascha    Semiduplex

              S. Antonini Episcopi et Confessoris    Duplex

11 maggio Ss. Philippi et Jacobi Apostolorum    Duplex II. classis *L1*_

12 maggio Ss. Nerei, Achillei et Domitillæ Virg. atque Pancratii Martyrum    Semiduplex

13 maggio S. Roberti Bellarmino Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

14 maggio S. Bonifatii Martyris    Feria

15 maggio S. Joannis Baptistæ de la Salle Confessoris    Duplex

16 maggio S. Ubaldi Episcopi et Confessoris    Semiduplex

17 maggio Dominica V Post Pascha    Semiduplex Dominica minor *I*

                   S. Paschalis Baylon Confessoris    Duplex

18 maggio S. Venantii Martyris    Duplex

19 maggio S. Petri Celestini Papæ et Confessoris    Duplex

20 maggio In Vigilia Ascensionis    Feria

                    S. Bernardini Senensis Confessoris    Feria

21 maggio In Ascensione Domini    Duplex I. classis *I*

24 maggio Dominica post Ascensionem    Semiduplex Dominica minor *I*

25 maggio S. Gregorii VII Papæ et Confessoris    Duplex

26 maggio S. Philippi Neri Confessoris    Duplex

27 maggio S. Bedæ Venerabilis Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

28 maggio S. Augustini Episcopi et Confessoris    Duplex

29 maggio S. Mariæ Magdalenæ de Pazzis Virginis    Semiduplex

30 maggio In Vigilia Pentecostes    Duplex *I*

                 S. Felicis I Papæ et Martyris    Simplex

31 maggio Dominica Pentecostes    Duplex I. classis

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (2)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (2)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa – 1891]

PRIMA PARTE

CONSIDERAZIONI GENERALI

Capitolo I.

DIO CHIEDE DI ESSER GLORIFICATO MEDIANTE LA DIVINIZZAZIONE DELL’UOMO

Dio vuol far felici gli uomini comunicandosi ad essi.

Dio ha fatto tutto per la sua gloria: è questala verità fondamentale che dobbiamo porre come base della dottrina che andremo ad esporre. Nessun’altra ragione avrebbe potuto far sì che Dio, infinitamente ricco e felice, lasciasse il suo riposo per creare il mondo. Chi esiste da solo deve avere in sé tutto ciò che è necessario per la sua perfezione e felicità. La sua infinita bontà, essenzialmente comunicativa, potrà creare dal nulla migliaia di creature, ma ciò che cercherà in esse e ciò che troverà in esse, sarà se stesso e sempre se stesso. La sua facoltà di amare è certamente infinita. Ma, per quanto infinita possa essere, è completamente soddisfatta della sua infinita amabilità. Egli aveva la libertà di creare o di non creare; ma, una volta determinatosi a produrre qualcosa di sé, non era in suo potere dargli un fine diverso da se stesso, poiché solo Lui può essere il fine delle sue azioni. Non poteva, senza distruggersi, che desiderare di condurre tutto a se stesso. È la legge del suo Essere; legge gloriosa imposta dalla sovrana perfezione della sua Essenza alla sua onnipotente volontà, per cui, essendo il primo inizio di tutte le cose, Egli ne è anche l’ultimo fine. Dal momento in cui ha creato il mondo, l’unico fine della sua saggezza poteva essere solo quello di compiacersi ed amarsi nelle sue opere. È impossibile respingere questa prima legge senza negare le prove e senza distruggere la nozione di Dio e la nozione di creatura. – Considerata questa verità, possiamo affermare che Dio vuole essere glorificato dalla divinizzazione dell’uomo. Le creature razionali, come gli Angeli e gli uomini, sono tra tutte, quelle che meglio rappresentano la perfezione divina. Sono i meglio disposti a ricevere la felicità di Dio. Pertanto, Dio si glorificherà specialmente in loro, realizzando i piani amorosi che lo hanno spinto a trarre le cose dal nulla. Dio realizzerà la gloria attraverso la creazione dell’anima, sostanza spirituale ed immortale, come Lui, la cui semplicità, immagine della sua ineffabile semplicità, racchiude in sé stessa una tanto meravigliosa fecondità di atti e di potenze. Ma questa gloria non è se non il principio che Egli intendeva darle ad essere, perché il suo fine è quello di essere glorificato principalmente attraverso la felicità della creatura razionale, attraverso lo sviluppo delle sue facoltà, attraverso l’amicizia che Egli desidera con essa.

La natura di questa felicità.

L’uomo non poteva che aspirare alla perfezione e alla felicità naturale. La pienezza della conoscenza, dell’amore, la gioia di Dio nelle creature, uniti all’assenza di dolore e alla certezza dell’immortalità, avrebbero formato lo sviluppo delle facoltà dell’uomo e la sua naturale beatitudine. Questa felicità gli sarebbe bastata. Dio non doveva più nulla alla sua creatura. Anche se non le avesse concesso nessun’altra perfezione, questo solo sarebbe stato sufficiente a costringerla a legarsi a Lui con i vincoli della riconoscenza. La sua giustizia sarebbe stata del tutto soddisfatta e nient’altro avrebbe preteso la sua saggezza. – Ma quello che sarebbe bastato alla sua saggezza e giustizia, non accontentava la sua bontà. La felicità naturale non poteva sembrare sufficiente al bisogno che Dio prova nel comunicarsi. Con un atto di grande comunicazione, Egli si è dato all’uomo. Lo ha reso partecipe della sua natura, della sua luce e del suo amore. Si è costituito oggetto della nostra felicità, ammettendoci alla visione della sua bellezza ed al godimento della sua infinita bontà. Guardate l’uomo, argilla viva, posto a perfezione della sua natura come capo della creazione, un tempo perso negli abissi del nulla, ora è elevato da Dio ad un’altezza incommensurabile, ad un mondo che è in cima della creazione. Per questo viene giustamente chiamato “ordine soprannaturale” il destino dato alla creatura razionale, quello di godere per tutta l’eternità della stessa felicità di Dio, dopo aver avuto a sua disposizione, sulla terra, i mezzi per raggiungere un fine tanto eccelso.

L’Ordine soprannaturale.

Questo ordine soprannaturale è al di sopra della natura malata e contaminata dell’uomo e della più pura natura angelica. Il minore degli atti che appartengono a quest’ordine è più eccellente dei più ammirevoli prodigi dell’ordine naturale! In verità, questi atti sono atti divini, Intendo atti divini per comunicazione, come gli atti di Dio. sono divini per natura. Preghiamo il Cuore di Gesù che ci dia la grazia di contemplare alcune delle sue magnifiche funzioni racchiuse nelle loro gloriose oscurità. Ma qual è il fine soprannaturale? Il fine naturale è la conoscenza, l’amore e il possesso di Dio, in quanto si manifesta a noi e dona Se stesso alle sue creature. Molto diverso e più alto è il fine il cui oggetto è la conoscenza di Dio contemplato in Se stesso e con la sua stessa luce; la gioia di Dio amato con il suo stesso amore; il possesso della sua stessa felicità. Il fine soprannaturale consiste nella comunicazione della propria felicità da parte di Dio. L’anima che ha raggiunto questo fine beato, non vede Dio nella creazione come in uno specchio, ma lo vede faccia a faccia; dirige i suoi sguardi al centro stesso della Luce eterna; annega nell’oceano che riempie di infinita pienezza l’infinita capacità di Dio stesso; entra nella gioia del suo Signore; si inebria nel torrente delle divine delizie. Come l’intelligenza riprodurrà in se stessa l’immagine degli oggetti a cui è applicata, l’anima, penetrata dai bagliori della chiarezza divina, e dagli ardori della carità divina, diventa interamente come Dio.  E si unisce a Lui con i legami di un amore così delizioso ed irresistibile, tanto che essa stessa diventa spirito. Il fine naturale dell’uomo è la sua divinizzazione. Il fine soprannaturale dell’uomo è la sua deificazione. Tuttavia, tra questa divinizzazione e il panteismo, c’è una distanza come quella che separa la divinità dal nulla. Il panteismo, cercando di assorbire l’anima nell’infinito, raggiunge invero solo il suo annientamento. Al contrario, nel fine soprannaturale, l’anima conserva il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà, sa, ama e gode. Ma essa conosce mediante il Verbo  di Dio, ama per mezzo dello Spirito di Dio e gode della felicità di Dio. Tutte le cose rimangono distinte, anche se in Dio tutte le cose sono fatte per questa felicità. Essa [l’anima] è tutta in Lui, ed Egli è tutto in essa. Essa non è Dio, ma è divinizzata. Essa è davvero ammessa a partecipare della natura divina; di modo che unendosi intimamente all’anima, Dio la trasforma in Se stesso. – Tale dignità concessa alla creatura è soprannaturale. È soprannaturale per l’uomo, ma lo è anche per il più perfetto degli spiriti puri, per il più elevato dei serafini. Era per Adamo innocente, come lo è anche per i suoi discendenti decaduti. Era soprannaturale in quanto le nostre forze naturali non potevano ottenerla, né il nostro spirito concepirla se non in maniera molto vaga, né i desideri naturali potevano orientarsi verso di essa: « Perché né l’occhio vide – dice San Paolo – né l’orecchio udì, né il cuore umano poteva immaginare ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano ».  Dio non ci doveva l’elevazione a questo fine, né il farci assaporare questa felicità. Se lo ha fatto, è stato per il libero esercizio della sua bontà. Egli ha agito liberamente sia quando ci ha dato l’essere limitato e sia anche quando ci ha destinato, per mezzo della elevazione, all’ordine soprannaturale, a possedere il suo Essere infinito. Il secondo di questi doni è, se possibile, ancor più gratuiti del primo.

La grazia, principio e mezzo della nostra divinizzazione.

Il nostro destino verso il fine soprannaturale è gratuito, ma non la sua retribuzione. Non avevamo alcun diritto a che Dio ce lo proponesse; ma dal momento che Egli lo ha voluto, noi abbiamo l’obbligo di ottenerlo. La creatura libera deve essere, insieme a Dio, l’Autore della propria felicità: essa non può essere glorificata dal suo Creatore nell’eternità se essa stessa non lo glorifica nel tempo. Ma, qual è il mezzi per meritare la partecipazione della felicità di Dio? Se il merito deve essere proporzionato alla ricompensa, non dovrebbe l’uomo disporre di mezzi divini per meritare un fine divino? Certo che si! Questo spiega perché la divinizzazione dell’uomo, che deve avere il suo coronamento in cielo, inizi quaggiù per mezzo della grazia. La grazia è il seme della gloria. L’unione con Dio implica la visione di Dio nella sua luce propria, l’unione con Dio attraverso il suo proprio amore, e il godimento della felicità propria di Dio. Anche nella grazia troveremo questi tre tipi di unione: la fede ci farà conoscere Dio con la sua luce; la carità ci farà amare Dio con il suo stesso amore, e la speranza ci farà tendere alla felicità di Dio. Ma la luce della gloria è il sentire Dio presente, che si scopre a noi completamente, quella della fede è il sentire Dio assente e solo manifesto nel suo Verbo. La gioia del cielo deriva dalla sete sempre viva di un piacere che sazia sempre. La speranza della terra sospira per questa felicità, senza essere ancora in grado di raggiungerla. La carità del cielo abbraccia la bellezza infinita che ama, e quella della terra l’ama senza poterla ancora abbracciare.

La gloria, coronamento della nostra divinizzazione.

Gli atti delle virtù teologali, che sono le principali forme della grazia, non differiscono dagli atti con cui l’anima beata gode della gloria, se non nella misura in cui i primi hanno assente l’Oggetto che i secondi hanno presente. Per quanto riguarda l’anima, il movimento è lo stesso. Nel cielo essa si immerge nell’oceano della beatitudine divina in virtù dell’impulso che ha ricevuto quaggiù con l’esercizio della virtù. Lo stesso amore che spinge il martire sul patibolo, lo rende capace di gustare le delizie ineffabili, una volta che la morte gli ha aperto le porte della patria. Dio si dona a tutti gli eletti secondo le loro capacità, che sono maggiori o minori a seconda dello sviluppo ottenuto sulla terra dall’esercizio delle virtù. Più sono cresciuti nella loro anima, sulla terra, la fame e la sete di Dio, più essi saranno saziati in cielo. – La grazia non è solo il seme della gloria, ma anche il suo principio e la sua misura. Sia per grazia che per gloria, l’anima è comunicata alla divinità. Infatti, ci sono due relazioni distinte nella vita intima di Dio: l’una è insieme l’intelligenza infinita e la bontà infinita, l’attività assoluta e il completo riposo. Questi due elementi sono ugualmente necessari alla sua felicità. Non sarebbe essa infinita, se non consistesse nella soddisfazione infinita di un tendenza infinita. – La vita divina, depositata in principio nell’anima come un seme, si va sviluppando durante tutto il periodo della crescita, fino a quando, giunta a piena maturazione, non produca il suo frutto, che non è altro che la beatitudine del Paradiso. Se la grazia non fosse una vera partecipazione alla natura divina, ci sarebbe una sproporzione tra il fine ed i mezzi. Il merito soprannaturale non sarebbe in alcun modo merito, e nell’ordine soprannaturale sarebbe solo un disordine. – Le Sacre Scritture attribuiscono questa qualità alla grazia. Il giusto della terra, come il beato del cielo, è un essere divinizzato. La sua divinizzazione è così reale che i santi Dottori si affidano ad essa per dimostrare la divinità dello Spirito Santo, che ne è l’Autore: « Non è forse necessario – chiede San Cirillo agli ariani – avere un potere maggiore di quello di una creatura semplice per divinizzare gli esseri che non hanno nulla di divino nella loro natura? Si può mai concepire una creatura divinizzante? Solo Dio ha questo potere, e lo esercita, attraverso il suo Spirito, comunicandolo alle anime sante, Egli che solo possiede questa proprietà »; in virtù di questa comunicazione, l’uomo, che fino ad allora ha vissuto solo una vita animale e razionale, inizia a vivere una vita superiore, la vita divina. – Si tratta certamente di una seconda nascita! La prima esistenza risale al giorno in cui un’anima spirituale venne ad animare il suo corpo. si nasce la seconda volta, quando lo Spirito di Dio viene a vivificare la sua anima! Da quel momento ci sono in lui due uomini che si combattono, così come Giacobbe ed Esaù già si combattevano nel seno di Rebecca. Quello, il figlio dell’uomo – Esaù – è più vecchio d’età. L’altro – Giacobbe -, figlio di Dio, erede della promessa, si sforza di soppiantare suo fratello. Come tutti i figli di Adamo, il Cristiano trova in sé gli istinti carnali che lo inclinano alla terra. Queste ispirazioni sono combattute dalle ineffabili aspirazioni che lo allontanano nel mondo e gli fanno disprezzare tutto quello che lo circonda. L’uomo raccoglie in se stesso, con meravigliosa armonia, come in un piccolo cosmo, tutte le forze che muovono l’universo: le fisiche, le chimiche, le vitali, le spirituali. Dio completa il suo capolavoro donandogli, con il suo Spirito, le forze divine. Questo Spirito, nell’abitare l’anima del Cristiano, comunica all’intelligenza la mente di Dio! Diffonde nel suo cuore, la carità di Dio, che diventa il principio di tutte le sue tendenze ed il filo conduttore di tutte le sue azioni. L’animale è guidato dall’istinto, l’uomo è guidato dallo Spirito di Dio!

Dottrina della nostra divinizzazione.

Non dubitiamo che la vita soprannaturale sia una vita veramente divina. Vita che non risulta dall’identificazione dell’Essere creato con l’increato; che non suppone che l’uomo sussista per una personalità divina, ma solo che operi divinamente. Egli conserva in tutta la sua integrità il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà. Ma a loro si aggiungono le virtù, che sono come delle facoltà soprannaturali. Con queste virtù Dio stesso si unisce sostanzialmente al Cristiano e lo rende parte della sua natura. – Nella grazia c’è qualcosa di creato e qualcosa di non creato. Come in cielo i più Beati, illuminati dalla luce della Parola di Dio, ricevono in se stessi una chiarezza che li rende simili a questo Sole divino e capaci di unirsi a Lui; così sulla terra, l’anima, unita dalla grazia allo Spirito Santo, riceve, sia con movimenti passeggeri, sia per mezzo di qualità permanenti, l’influenza dello Spirito Divino. Così come nel cielo il lumen gloriæ non impedisce che l’unione dell’anima con il Verbo di Dio sia immediato, così, sulla terra, la grazia creata non impedisce che l’anima sia unita allo Spirito Santo immediatamente.

La nostra divinizzazione consiste nel possesso della Persona stessa dello Spirito Santo.

La divinizzazione dell’uomo non è una metafora vana. È la più reale di tutte le realtà. I Santi Dottori che hanno ricevuto da Dio la missione speciale di combattere gli errori sullo Spirito Santo, sembrano non trovare un’espressione abbastanza energica per farci palpare l’intimità dell’unione, per mezzo della quale Esso viene a comunicarsi all’anima del giusto: una volta si esprimono con il paragonare l’unione del profumo con l’abito completamente penetrato del suo profumo (S. Cirillo di A. l. IX, in lo. MG: 74, 447); altra volta con l’unione dell’oro al metallo meno nobile, che assume per suo mezzo il medesimo splendore (S. Cirillo di A. Dial.. VIII, de Trinitate et l. V in lo. MG:75, 1075 e 73, 705) ; o ancora all’azione con cui il fuoco trasforma il ferro, comunicandogli tutte le sue proprietà ignificandolo in un certo modo, senza per questo sottrargli la propria natura o, in fine, alla comunicazione delle proprietà dal vino alla goccia d’acqua in esso introdotta (S. Bas. I. V.  adv. Eunomium Max. M.G.: 29, 700). Se questa unione non fosse sostanziale, non potrebbe produrre gli effetti che le vengono attribuiti: il liberarci dalla morte riempire di vita il nostro spirito; restaurare il nostro spirito; restaurare in noi l’immagine divina; cancellare il peccato, e fare di noi stessi dei figli adottivi di Dio. Questi santi Dottori, affermano che l’unione dello Spirito Santo con la nostra anima, produce in essa atti e abitudini inerenti all’anima, per il bene dell’anima stessa, e perché sia costituita in uno stato soprannaturale. Solo i luterani hanno osato dire che la giustificazione consistesse nella semplice applicazione della santità di Dio, e non in un dono insito nell’anima e creato come essa. I Dottori cattolici non hanno mai dubitato che ci sia nell’anima una luce soprannaturale creata, che è la fede, e un amore soprannaturale creato, che è la carità. Inoltre, ciò che insegnano i Santi Padri è che l’alta dignità e l’esaltazione della natura umana non consista tanto nella ricezione di questi doni creati, ma piuttosto nel possesso de della Persona dello stesso Spirito Santo, che si unisce ai suoi doni, e per mezzo di essi abita in noi, ci vivifica, ci adotta, ci divinizza e ci incita a compiere ogni sorta di buone azioni. (Corn. Alapide, in Oseam, l. 10). Abbiamo visto quindi il fine elevato a cui sono ordinati tutti i piani della Provvidenza: la divinizzazione dell’uomo e delle creature razionali. Per raggiungere l’anima, Dio per suo aiuto alla creazione malata, manda i suoi Angeli, il cui mistero più glorioso è quello di educare le anime per prepararle alla loro celeste eredità. Le creature materiali contribuiscono con tutta le loro forze a questa grande opera. « Gemono – dice San Paolo – e soffrono i dolori di un parto doloroso, e sono chiamate a collaborare alla produzione dei figli di Dio ». Qual giorno sì felice in cui culminerà di questa grande opera dell’Altissimo! Allora la creazione malata tornerà, attraverso l’uomo, all’inizio, donde proviene. L’Infinito, che in qualche modo è uscito da sé stesso per il desiderio della creazione, tornerà a se stesso per riposare, per l’eternità, con le anime che avranno collaborato ai suoi progetti. Il cerchio divino sarà così chiuso. Tutta la creazione spirituale vivrà della vita divina e la comunicherà alla creazione materiale, ad essa unita mediante l’uomo come un prezioso anello. Il Creatore, pienamente glorificato dalla sua creatura, rifletterà in essa la sua gloria: Dio sarà tutto in tutte le cose!

Capitolo II

DIO CHIEDE DI ESSERE GLORIFICATO PER MEZZO DI GESÙ CRISTO

Il Verbo incarnato, Mediatore tra Dio e gli uomini

Il principio fondamentale della Divina Provvidenza è che tutte le creature tendono alla gloria di Dio, riproducendo in misura finita le sue infinite perfezioni. Poiché Dio è una beltà assoluta, non può dare alle opere delle sue mani altro modello che non sia Se stesso. Il suo amore infinito non può creare delle volontà razionali, che non siano felici di possedere la sua infinita bontà. Corrisponde in Sé, come primo Principio di tutte le cose, per esserne l’ultimo fine. Un fine che l’uomo deve raggiungere non come egli vuole, ma che sia conforme al decreto di Dio, attraverso la sua divinizzazione. Dio potrebbe, senza alcun intermediario, comunicare all’uomo la sua grazia, elevarlo all’ordine soprannaturale e riportarne la gloria che ha il diritto di aspettarsi da lui. Ma Dio ha dato al suo lavoro una bellezza ed una perfezione che nessuna intelligenza creata avrebbe potuto immaginare. Per colmare la distanza che lo separava dall’uomo, Egli istituì un Mediatore, il Verbo incarnato, Gesù Cristo nostro Signore, nel quale sono raccolte, senza confusione, tutte le perfezioni della natura umana e della natura divina. Secondo un’opinione teologica, difesa da grandi teologi e i cui fondamenti si trovano in San Paolo, l’Incarnazione del Verbo fu decretata prima della caduta di Adamo (non parliamo della priorità temporis sed signi), come manifestazione suprema della gloria divina. Se è così, ci viene presentato Gesù Cristo come fine ultimo e Signore di tutta la creazione e come oggetto principale ed eterno nella mente del Creatore. Un’altra dottrina insegna che non solo la Redenzione, ma anche l’Incarnazione sia stata decretata come conseguenza in previsione del peccato originale. Questo la mette in evidenza molto meno è vero, perché forse fa pensare che la più grande opera di Dio sia un rimedio a cui, senza la colpa originale, non si sarebbe posto mano (Curci, La Nature et la Grâce). Anche i difensori di quest’ultima opinione sostengono però che il Verbo Incarnato sia davvero il fine di tutte le creature.

Il Verbo incarnato è il fine di tutta la creazione.

I teologi di entrambe le opinioni concordano nell’affermare che il Verbo incarnato è il fine di tutto ciò che esista, e questo è sufficiente per la presente questione: « Dio – dice l’erudito Ruperto, – si è comportato con il suo amatissimo Figlio, come un grande e potente monarca si comporta con l’erede alla sua corona. Costruì per lui un magnifico palazzo, riccamente arredato, e lo circondò di una corte che era in relazione alla sua dignità. Poi per lui creò la terra, per lui accese migliaia di fiaccole scintillanti, al suo servizio creò dal nulla una quantità innumerevole di angeli, e noi non siamo così schietti – dice il pio Dottore – da pensare che Egli non avesse alcuna intenzione di creare l’uomo prima della caduta degli Angeli. La verità è che non sono stati gli uomini ad essere creati per gli Angeli ma, sia gli Angeli che tutte le creature, abbiano ricevuto il loro essere in previsione di un uomo, che è Nostro Signore. Crediamo dunque e confessiamo con la bocca e con il cuore che tutto sia stato creato per formare come una corona di gloria al Verbo incarnato (lib. Lib. XIII in Math. Lib. III de Glorificatione Trinitatis). – Pure in questo senso, diversi Padri della Chiesa interpretano le parole del libro dei Proverbi: Il Signore mi ha posseduto, ha fatto di me l’inizio delle sue vie prima di ogni altra cosa. Le sue vie sono le creature che procedono verso Dio, come un sentiero conduce alla fine del cammino; ma, prima di tutte quelle creature, Dio mi ha visto e mi ha destinato già allora ad essere la fine di tutta la creazione. – Allo stesso modo, sono spiegate nell’Apocalisse, le parole di Nostro Signore: Ego sum alpha et omega, principium et finis. Io sono il principio, perché io do l’essere a tutte le cose della natura, della grazia e della gloria a titolo di causa prima, esemplare e meritoria. Io sono il fine, perché tutto è fatto per la mia gloria, affinché tutto venga da me come dal suo principio primo, e tutto ritorni a Me come all’ultimo fine. « L’intero universo – ci avverte San Bernardino da Siena – è come una sfera intellegibile, il cui centro è il Figlio di Dio ». Infatti, questo amabile Maestro è, per il mondo, ciò che il centro è per la circonferenza. Tutti i raggi, convien sapere, tutte le creature partono da quel punto e vi convergono contemporaneamente ».

Gesù Cristo è la causa dell’unità armonica della natura umana, della sua perfezione e felicità.

Al di fuori di Gesù Cristo, la natura non può trovare un’unità armoniosa che debba essere la sua perfezione e la sua felicità; fuori dal quale si trova solo divisione, lacerazione, lotta, debolezza, fiacchezza, irrequietezza, disperazione. In Gesù Cristo, le lotte si placano, le contraddizioni cessano, le parti opposte si riconciliano. Si ammira il volto del Divin Salvatore e si vedono i Santi che, come specchi viventi, hanno riflesso i suoi tratti benedetti. Nella serenità di quelle fronti, nel brillare di quegli occhi, nella dolcezza di quelle labbra, non si scoprono forse i sentimenti che costituiscono la grandezza dell’animo umano? Le potenze spirituali sono state trasformati in strumenti docili della ragione. Le passioni, dirette ai loro veri fini, collaborano affinché la virtù possa raggiungere una vera ricchezza, la vera grandezza, le vere gioie. L’intelligenza, trovando nella verità assoluta il sommo Bene, la sicurezza di possedere eternamente l’unico obiettivo di tutte le aspirazioni dell’anima e di godere di Esso, secondo i sacrifici fatti per lo stesso nel tempo, unisce indissolubilmente l’interesse e il dovere, e non permette di separare la felicità della vita presente da quella della futura. – Il Cuore di Gesù Cristo è l’unità divina del cuore umano che, al di fuori da Esso, rimane lacerato. In Lui e attraverso di Lui, l’umiltà, allontanandosi dalla ricerca della grandezza nel nulla, ce la fa trovare in Dio. In Lui la forza, appoggiata a Dio, e non avendo bisogno di sforzi violenti per sostenersi, si unisce alla dolcezza più ammaliante. In Lui il cuore affettuoso trova il nutrimento che gli evita di correre dietro a piaceri vergognosi e diventa tanto più capace di amare tutto ciò che è amabile, tanto più acquista padronanza dei suoi appetiti. In Lui, l’amore della verità incoraggia l’intelligenza a raggiungere il suo scopo, tanto più umile e docile è l’abbracciarla, quando più si lancia spontaneamente sulle ali della fede alla sua ricerca.

Cristo è il nostro fine perfezionante

Questo è l’uomo come lo ha fatto Gesù Cristo: uno, perfetto, sereno e immutabilmente pacifico. Prima di Gesù Cristo, l’uomo era un edificio crollato le cui pietre, violentemente separate l’una dall’altra, sembravano non riuscire mai a ricongiungersi. La pianta di quell’edificio era andata perduta e gli architetti che avevano cercato di ricostruirlo, l’avevano ancor più mutilato. Gesù Cristo è venuto e ci ha mostrato in sé l’edificio divino ricostruito con una grandezza che non aveva mai avuto. Sta a noi trovare in Lui l’unità che cercheremmo invano al di fuori di Lui. Gesù Cristo è l’uomo perfetto, l’uomo esemplare, l’uomo per eccellenza. Quando Dio Padre lo ha dato al mondo, ci ha detto: questo è l’ideale che ho concepito fin dall’eternità, e che invito tutti voi a realizzare al meglio delle vostre capacità. Lo scopo dei nostri sforzi deve essere quello di tendere verso Gesù Cristo. A proposito di ciò Sant’Agostino scrive: « Dovete mirare a Gesù Cristo, perché Egli è il vostro fine. Ma non un fine che consuma, ma un fine che conclude; perché consumare è distruggere; concludere è finire e perfezionare una cosa: Gesù Cristo è il nostro fine, perché siamo perfezionati in Lui e da Lui; la nostra perfezione è in Lui che giunge; e quando lo raggiungeremo, avremo trovato la felicità. »

Gesù Cristo è il nostro fine, perché glorifichiamo Dio Padre, glorificando suo Figlio.

Questa è la mirabile dottrina di San Paolo. Per l’Apostolo delle genti, Gesù: « è il primogenito di tutte le creature, perché tutte le cose del cielo e la terra sono state create in Lui: le cose visibili e invisibili, i troni, le dominazioni, i principati, le potenze, tutto è stato creato da Lui. Egli esiste prima di tutte le cose, e tutte le cose sussistono in Lui. Egli è la testa e il capo del corpo della Chiesa; è il principio assoluto ed il primogenito tra i morti; affinché Egli possa avere il dominio su tutto. » Dio ha fatto di Gesù Cristo il fine a cui l’umanità deve tendere, e ci fa capire che vuole che l’umanità lo glorifichi, glorificando il suo amato Figlio in cui ha posto tutto le sue compiacenze, ed in cui abita corporalmente la divinità. Gesù Cristo, venendo sulla terra, non aveva altro scopo se non quello di glorificare Dio Padre, restituendogli l’onore che il peccato gli aveva tolto: « Tutti hanno peccato – dice San Paolo – tutti hanno bisogno della gloria di Dio ». Il Verbo incarnato, dice San Cirillo, è la gloria di Dio che si manifesta agli uomini. Così capiamo perché, nella culla del Bambino di Betlemme, gli Angeli annunciano che la gloria di Dio si manifesta anche in cielo: Gloria in excelsis Deo. – Gesù Cristo, per glorificare Dio Padre, trascorre i primi trent’anni della sua vita in una oscura bottega, impegnato in un umile lavoro. Non c’è nessun altro motivo principale nelle sue azioni durante la sua vita pubblica. Al fine della sua stessa gloria, non dà alcuna importanza: Honorifico Patrem. Non quæro gloriam meam. Non sono da considerare – sembra dire – se non come vittima di espiazione del peccato. La mia gloria non è nulla, come un nulla è la gloria degli uomini: Gloria mea nihil est.

L’umiliazione e la croce furono i prodromi del Regno di Cristo

Così come Dio Padre ha accettato che Cristo soffrisse per entrare nel regno dei cieli, è giusto che sia vestito con la veste della vergogna prima di essere circondato dall’alone della gloria. Le umiliazioni e la croce sono i preamboli obbligatori del regno glorioso che suo Padre invita a condividere con Lui. Mentre la passione si avvicina, Nostro Signore parla più volentieri della propria gloria ai discepoli. Predice poi loro che, quando sarà inchiodato al legno, il suo potere cambierà questo luogo di ignominia in un trono di gloria, al quale attirerà ogni cosa: Cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum. Nel suo ultimo discorso, che è come il canto del cigno, il testamento dell’amore, ricorda a suo Padre che è arrivata l’ora di glorificarlo: « Ho compiuto la missione che mi hai affidato; ora, Padre mio, è tempo di glorificarmi, di far risplendere la gloria che avevo in te, prima ancora della creazione del mondo. » Dio Padre ha ascoltato la voce del Figlio suo: al torrente di umiliazioni fa seguito un’esuberante manifestazione di gloria. – Dio fa uscire trionfalmente suo Figlio dal sepolcro. Lo fa sedere alla sua destra in cielo, al di sopra di tutti i principati e di tutte le potenze. Pone tutto sotto i suoi piedi e fa di Lui il Capo della Chiesa. Egli ordina che nel suo Nome ogni ginocchio sia piegato in cielo, in terra e negli inferi. Gli Apostoli fanno risuonare il nome di Gesù in tutte le regioni e la potenza del suo Nome fa meraviglie ovunque. – Così Dio Padre ha glorificato e glorificherà il Figlio suo e, come predice l’Apostolo San Pietro, per la gloria di suo Figlio, sarà Egli stesso glorificato. Così il magnifico piano che l’Apostolo ci indica si realizzerà, quando ci annuncia che tutta la creazione è stata fatta per noi, noi per Cristo e Cristo per Dio! Ammirevole è questa Gerarchia, in cui l’Uomo-Dio, ricapitolando e riassumendo in sé le perfezioni degli spiriti e dei corpi, costituisce il Mediatore tra la creatura ed il Creatore! Non possiamo concludere meglio questo capitolo se non citando la magnifica conclusione dei decreti promulgati dal Consiglio provinciale di Le Puy nel 1873. – « Se cerchiamo l’origine comune degli errori che abbiamo appena condannato, sarà facile vedere che provengono tutti dalla stessa fonte, cioè l’ignoranza ed il disprezzo per l’ordine soprannaturale. Quanti di coloro che hanno indossato Cristo nel Battesimo non lo conoscono! Quanti dimenticano la nobiltà divina che Egli ha conferito loro! I ministri della Santa Chiesa devono quindi fare ogni sforzo affinché i fedeli abbiano una conoscenza esatta dell’ordine soprannaturale, in modo che possano ammirare la sua meravigliosa unità e assaporarne l’ineffabile soavità. Perché le testimonianze di Dio offrono alla nostra intelligenza le luci più vivide, e sono per il nostro cuore più dolci del miele e del nettare. – Infatti, la verità che dobbiamo credere di cuore e confessare con la bocca non è altro che Cristo, il Verbo del Padre, di quel Padre che, dopo aver posto tutti le sue compiacenze nel suo Figlio prediletto da tutta l’eternità, ce lo ha mostrato nella pienezza dei tempi, non solo per farcelo conoscere, ma anche per renderci partecipi della sua divinità. Il grande sacramento dell’amore, il piano della bontà divina, è infatti quello di restaurare in Cristo tutto ciò che è in cielo e sulla terra; di unire a Lui, come al suo comune Signore, il mondo materiale e quello spirituale; di fare degli Angeli e degli uomini un corpo unico che vive della vita di Cristo e gode eternamente della sua gloria. Cristo è tutto in tutte le cose, perché tutto è da Lui, per Lui ed in Lui. Egli è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine. Solo Lui insegna Dio agli uomini, e li unisce a Dio, perché solo Lui è il mediatore tra Dio e l’uomo. Da Lui, come al suo principio, e in Lui, come suo fine, tutti sono stati creati. Esisteva prima della creazione, e nulla sussiste se non in Lui. Cristo è tutto in ogni uomo, a cui comunica la sua perfezione divina. Innestati in Lui mediante il Battesimo, gli uomini vengono elevati all’ordine soprannaturale, animati dallo Spirito di Cristo, che li rende figli di Dio, non solo in parole, ma anche in verità. Gesù non si vergogna di chiamarli suoi fratelli, perché è veramente unito a loro con un doppio vincolo: si è fatto partecipe della loro carne e del loro sangue, quando nel seno della Vergine Immacolata, che è insieme la Madre di Cristo e degli uomini tutti, è stato formato il corpo che a sua volta ha dato loro attraverso la santa Eucaristia, e volendo che partecipassero del suo Spirito, lo ha mandato alle loro anime, per mezzo del quale essi gridano: Abba Padre! Tale, dunque, è il destino della loro vita mortale: per crescere in Cristo, basta che, raggiunta l’età della maturità e raggiunto l’apice del merito, entrino a parte della gloria del loro divino Capo, così come saranno entrati in quella delle loro sofferenze. Cristo è tutto nella Chiesa, di cui è il corpo ed il suo complemento; vivendo dello Spirito di Gesù Cristo, si fanno opere simili alle sue, in proporzione ancora maggiore. Egli ha insegnato a tutte le nazioni la stessa dottrina che predicava in un altro tempo agli Ebrei; esercita ora la stessa autorità per mezzo del Vicario di Cristo e dei Vescovi, successori degli Apostoli; Egli non cessa di instillare che la stessa virtù; amministra la stessa grazia; cura le stesse malattie, e chiunque segue l’esempio di Gesù Cristo, suo Maestro, passando e facendo del bene, sarà oggetto di odio e di persecuzione. Ma la virtù del suo Capo divino lo rafforza; e nonostante sia continuamente combattuto, è sempre vittorioso, cura le nazioni con il sangue che sgorga dalle sue ferite e non cessa di vivificare il mondo, anche quando è permesso di godersi per un momento la vita. Cristo è tutto nelle famiglie e nella società. Infatti: se le famiglie devono dare a Cristo nuovo membri e proteggere la loro formazione, i popoli sono destinati ad unirsi al corpo di Cristo, che è la Chiesa, per promuovere la sua azione, per difendere la sua libertà, per contribuire al suo sviluppo. Solo realizzando questo fine, che si ha con la subordinazione a Cristo e alla Chiesa, i popoli e le famiglie possono trovare la loro stabilità, riposo e vera felicità. In effetti nessun altro Nome è stato dato agli uomini sotto il cielo nel quale possano trovare la salvezza; e nessuno può dare alla società altro fondamento di quello già stabilito: Gesù Cristo. – Infatti, Gesù Cristo è tutto in terra, alla quale ha fatto l’insigne beneficio di prendere in prestito il corpo che lo doveva trasportare molto presto verso le altezze del cielo. È il mondo il sublime laboratorio in cui lo scalpello del Salvatore scolpisce le pietre vive che saranno poste successivamente sulle mura del tempio divino. Citando quest’opera, in cui la saggezza di Dio opera da tutta l’eternità, cioè citando la produzione dei Santi per la formazione del Corpo di Gesù Cristo, se questi cessano di esistere, cessa la propagazione del genere umano, la cui unica ragione di esistenza è Cristo; e la natura che ora partorisce nel dolore e attende la manifestazione del Figlio di Dio, entrerà nella sua gloria alla completa rivelazione. Allora verrà la fine, perché tutto sarà stato sottomesso a Cristo e il Figlio stesso, con le sue membra, sarà completamente sottomesso a Colui che ha sottomesso tutto alla sua obbedienza; poi, entrambi, sia i suoi nemici, con i giusti supplizi che puniranno la loro ribellione, sia i suoi amici con la loro beatitudine, glorificheranno eternamente il suo potere, perché questo è eterno e non gli sarà portato via, e il suo  regno non cadrà mai in preda alla rovina. – Piacesse al cielo che tutti i maestri della dottrina cristiana, attraverso l’assidua contemplazione della sua magnifica unità, fossero bruciati nel suo amore e riempissero tutti i cuori cristiani di questo stesso amore! Piacesse al Cielo che i fedeli, fissando costantemente lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede, e vedendo in Lui la loro grandezza divina, si abituino a disprezzare il nulla delle cose visibili e temporali, ed a desiderare solo i tesori della gloria, che un giorno saranno la loro eredità in mezzo ai Santi! Piacesse al Cielo che gli occhi della loro anima, illuminati dalla luce, possano cogliere in un solo sguardo la longitudine, la latitudine, la sublimità e la profondità di questa eredità; per comprendere la carità di Gesù Cristo che è al di sopra di ogni scienza, ed essere pienamente ricolmi di Dio! »

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/05/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-3/

SALMI BIBLICI: “NISI DOMINUS ÆDIFICAVERIT DOMUM” (CXXVI)

SALMO 126: “NISI DOMINUS ÆDIFICAVERIT DOMUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 126 

Canticum graduum Salomonis.

[1] Nisi Dominus ædificaverit domum,

in vanum laboraverunt qui ædificant eam. Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam.

[2] Vanum est vobis ante lucem surgere: surgite postquam sederitis, qui manducatis panem doloris. Cum dederit dilectis suis somnum,

[3] ecce hæreditas Domini, filii; merces, fructus ventris.

[4] Sicut sagittæ in manu potentis, ita filii excussorum.

[5] Beatus vir qui implevit desiderium suum ex ipsis: non confundetur cum loquetur inimicis suis in porta.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXVI.

Esortazione attribuita a Salomone, che edificò il tempio e amplificò la città, e diretta a colui che dovea riedificare, dopo il ritorno dalla cattività, tempio e città. L’esortazione è anche ai fedeli, che han da edificare colle buone opere il tempio a Dio in loro stessi, e la celeste Gerusalemme por sé stessi.

Cantico dei gradi. Di Salomone.

1. Se il Signore non edifica egli la casa, invano si affaticano quelli che la edificano (1).

2. Se il Signore non sarà egli il custode della città, indarno veglia colui che la custodisce.

3. È cosa inutile a voi il levarvi prima del giorno: levatevi dopo che avrete riposato, voi che mangiate pan di dolore.

4. Quando egli ai suoi diletti avrà dato il sonno, ecco dal Signore l’eredità, i figliuoli, il lucro, i parti.

5. Qual saette nella mano d’uomo possente, così sono i figliuoli dei tribolati.

6. Reato l’uomo, il cui desiderio riguardo ad essi è adempiuto: ei non sarà svergognato, quando avrà da parlare coi suoi nemici alla porta. (2)

(1) Voi vi agitate inutilmente alla ricerca inquieta della felicità, voi anticipate il vostro risveglio, ritardate il vostro sonno e mangiate un pane acquistato con penoso lavoro; e mentre vi agitate vanamente, Dio fa dormire in pace i suoi diletti, e dà al loro risveglio più beni ancora di quelli che avrete raccolto con la vostra agitazione. 

(2) Si legge nell’ebraico. « Felice colui che ha riempito la sua faretra di tali frecce ». I figli che sono state comparate alle frecce, il salmista continua il suo paragone designando la casa  sotto il nome di faretra. I Settanta fanno sparire la figura, ma nella traduzione abbiamo conservato il senso, se non la figura del testo ebraico.

Sommario  analitico

In questo salmo, il Salmista avverte gli esiliati del ritorno nella loro patria che si dedicavano con troppo ardore alla ricostruzione della loro città e del tempio e, nella loro persona, tutti i Cristiani:

I. che essi non possono nulla senza Dio:

1° né nella costruzione particolare delle loro dimore (1),

2° né nella custodia della città (2); da qui conclude: a) che essi non devono anticipare l’aurora per darsi al loro lavoro, b) ma aspettare che abbiano preso il necessario riposo (2).

II. Che essi possono tutto con la benedizione di Dio.

1° Egli predice che Dio li benedirà, accordando loro dei figli come eredità e ricompensa delle buone opere (3);

2° predice ciò che faranno questi figli: a) saranno così forti contro i nemici che renderanno inutile ogni resistenza (4); b) si moltiplicheranno e saranno vittoriosi sui loro nemici alle porte della città (5).

Spiegazioni e considerazioni

I. – 1, 2.

ff. 1, 2. – Queste parole sono indirizzate ai Giudei, quando dopo il ritorno da Babilonia, lavorando per ricostruire il tempio e la città di Gerusalemme, incontravano grandi opposizioni e numerosi ostacoli da parte dei popoli vicini, e si videro attaccati da ogni parte da nemici gelosi della loro felicità e che temevano di vederli riuscire (II Esdras). Pertanto queste ricostruzioni avanzavano molto lentamente, e durarono tanto tempo, che ci vollero oltre quaranta anni per ricostruire il tempio. In presenza di queste difficoltà insieme riunite, il Profeta insegna loro a ricorrere a Dio, mostrando loro l’inutilità assoluta dei loro sforzi, se non fossero giunti ad attirare su di essi il soccorso divino. Sotto la protezione divina, la loro liberazione era impossibile; senza questa stessa protezione sarebbe ugualmente impossibile rialzare le loro mura. La ricostruzione della città poi, quando fosse interamente terminata e tutte le costruzioni completate, è impossibile da costudire senza l’assistenza divina … Bisogna fare attenzione ad ogni parola, non per autorizzare la nostra negligenza e la nostra tiepidezza, ma per determinarci a fare tutto ciò che dipende da noi, e mettere poi tutto nelle mani di Dio. Senza l’assistenza divina, noi non possiamo riuscire in niente (Giov. XV); ed anche se non rispondiamo al soccorso di Dio che con la negligenza e l’ozio, il successo ci sarà ugualmente rifiutato (S. Chrys.). – Qual è questa casa di cui parla il Profeta? Dio dice in un altro salmo: «Questo è il luogo del mio riposo  per i secoli dei secoli; Io vi abiterò, perché l’ho scelta, » (Ps CXXXI, 14); ma questa casa di Sion che Egli aveva scelto è distrutta da tempo senza più speranze di vederne ristabilire le rovine. Dove è dunque questa casa che Dio abiterà per sempre, o il luogo di questo riposo eterno? Qual è il tempio ove fisserà la sua dimora? È ciò di cui l’Apostolo ha detto: « Voi siete il tempio di Dio, e lo Spirito Santo abita in voi. (I. Cor. III, 16). Ecco la casa, ecco il tempio di Dio, pieno di dottrina e di virtù, devenuto degno, con la santità del cuore, di offrire una dimora conveniente a questo Ospite divino … Ora, è Dio stesso che deve costruire questa casa: se essa si costruisce con il lavoro dell’uomo, non ha alcuna speranza di durata; se essa si appoggia alle dottrine del secolo, essa non ha alcuna consistenza, e tutti i vani sforzi della nostra sollecitudine saranno impotenti a sostenerla. Bisogna ricorrere ad altri mezzi per costruirla, per custodirla: non è sulla terra, non è sulla sabbia mobile che bisogna posare i suoi fondamenti, ma sui Profeti e sugli Apostoli. Bisogna costruirla con pietre viventi, unite dalla pienezza di Cristo (Ephes. IV, 13) – (S. Hilar.). – Queste stesse parole sono indirizzate ai ministri della Chiesa che si sforzano di convertire gli uomini a Dio con la predicazione della sua parola, e di edificare così un tempio che è la Chiesa, secondo questa parola dell’Apostolo ai Corinti: «Come un saggio architetto, io ho posto le fondamenta, » (I. Cor., III, 10); ma, senza l’assistenza del principale Architetto che ha detto: « Su questa pietra io costruirò la mia Chiesa, » è invano che costruiscano gli uomini, è invano che predichino i dottori della parola di Dio. (Bellarm.). – È il Signore Gesù-Cristo che costruisce la sua casa. Molti lavorano alla costruzione di questa casa, ma se il Signore non costruisce Egli stesso, invano coloro che la costruiscono avranno lavorato, hanno costruito … « Io temo per voi di aver lavorato invano tra di voi, » diceva San Paolo (Gal. V, 11). Sapendo che è Dio che eleva interiormente il suo edificio, Egli stesso piangerebbe su coloro per i quali avrebbe lavorato invano. Noi parliamo dunque esteriormente, Dio costruisce interiormente. Noi possiamo ben notare come voi ascoltate; ma ciò che voi pensate, lo sa solo Colui che vede i vostri pensieri. È Lui che costruisce, è Lui che avverte, è Lui che minaccia, è Lui che apre l’intelligenza, è Lui che applica il vostro spirito alla fede. E tuttavia, anche noi, noi lavoriamo come operai; ma se il Signore non costruisce la casa, è invano che avranno lavorato coloro che la costruiscono … Noi lavoriamo pure nel custodirla come appartiene agli uomini il farlo, e tanto lo possiamo fintanto che Dio ce ne dà i mezzi …, ma il nostro lavoro è inutile, se Colui che vede i nostri pensieri non lo custodisce: Egli vi custodisce mentre voi vegliate; Egli vi custodirà ancora quando voi dormirete. Egli ha dormito una volta sulla croce ed è resuscitato; oramai Egli non dorme più, e Colui che custodisce Israele non dormirà e non si assopirà. » (Ps. CXX, 4). Noi vi guardiamo, è vero, per obbedire ai doveri della nostra carica, ma noi vogliamo essere custoditi nello stesso tempo da Voi; noi siamo per Voi come dei pastori, ma, come Voi, noi siamo delle pecore sotto la guardia del pastore. Da questo luogo elevato, noi siamo per Voi dei dottori; ma, sotto questo maestro unico, noi siamo con Voi i condiscepoli di una stessa scuola (S. Agost.) –  Non è così il grave insegnamento che lo Spirito-Santo dà a tutti i governi che si succedono sì rapidamente in questi tempi in cui le cause della rivoluzione sono in uno stato permanente? È vero dei popoli come degli individui questa parola: « Se Dio non custodisce la città, è invano che vegliano coloro che la custodiscono. » Turenne diceva ai suoi ufficiali che si felicitavano per una vittoria che tutti credevano certa: « Signori, se Dio non è con noi, ci resta il tempo che ci occorre per essere vinti. » Si, il supremo Operatore non è per niente nella ricostruzione del mondo sociale, tutti questi legislatori impotenti, tutti questi fabbricanti di costituzioni effimere, si esauriranno in sforzi inutili; essi non si succederanno gli uni agli altri che per morire appena, come i loro predecessori; ed il giorno in cui essi crederanno di aver composto l’edificio, monarchia, impero, repubblica, poco importa, sarà quello il giorno che vedrà crollare tutte le loro costruzioni. Illuminati dall’esperienza, volete sedervi in società, non più sulle sabbie mobili dei sistemi, ma sulla pietra solida della verità? Ebbene! Questa pietra è Gesù-Cristo (I. Cor. X, 1). Che Gesù-Cristo ed il suo Vangelo sia la base delle vostre costruzione, ed esse non periranno giammai, (Mgr. Plantier). – Noi abbiamo tutti una casa da costruire ed una città da custodire. Gesù-Cristo, dice S. Paolo, è come un figlio nella propria casa, e questa casa, siamo noi stessi. Voi siete una casa spirituale – dice S. Pietro – voi servite alla sua costruzione come pietre vive, ed è per questo che è scritto che la pietra angolare è stata posta in Sion. (I Piet., II,5). Questa pietra angolare, è Gesù-Cristo! Come eleveremmo questa casa senza di Lui? Come, senza il suo potente soccorso, potremo custodirla? Se il Signore non custodisce Egli stesso la città, è invano che vegliano coloro che sono preposti alla sua custodia. » La nostra anima, l’anima del Cristiano, è spesso comparata ad una città, ad una città fortificata: ora questa città ha delle porte, queste sono i nostri sensi; sono queste porte che hanno bisogno di essere custodite: c’è bisogno di una guardia severa, altrimenti il nemico che ronza incessantemente intorno a noi, può fare delle terribili incursioni nella piazza. Le porte di questa città, troppo spesso non hanno l’ausilio di una mano forte, sicura per difenderne l’entrata … Si, la nostra anima è una città le cui porte sono quasi sempre mal custodite, quando non sono custodite che da noi stessi. Fortunati quando non diventiamo complici del nemico che assedia la piazza e diveniamo vittima del nostro tradimento. Non gli consegniamo noi stessi la chiave del nostro core (Mgr. Pie, Disc. et Inst. I, 220, 221).   

ff. 2. – « È cosa vana per voi alzarvi prima della luce. » Se vi alzate prima che si levi la luce, voi restate inevitabilmente nella vanità, perché siete nelle tenebre. Il Cristo, nostra lice, si è levato: per voi è bene alzarvi dopo il Cristo, e non alzarvi prima di Lui. Chi sono coloro che si alzano prima del Cristo? coloro che vogliono mettersi davanti al Cristo, coloro che vogliono elevarsi quaggiù, ove il Cristo si è umiliato. Siano umili, se vogliono essere elevati là dove il Cristo si è elevato (S. Agost.). – « Alzatevi dopo esservi riposati. Voi che gemete nell’umiliazione, rialzatevi; voi che vi ricordate che siete nati o vivete nel peccato, e che desiderate arrivare fino a Dio (S. Gerol.). – Chi sono coloro che il Profeta invita a levarsi? Coloro che hanno mangiato il pane di dolore? Ora, mangia il pane del dolore chi ha sempre davanti agli occhi la verità che è nato e vive in una natura viziata. In effetti, quando la nostra volontà si sforza di elevarsi alle opere perfette della santità per timor di Dio e nella speranza dei beni eterni, mentre d’altro canto noi siamo impediti dall’inclinazione abituale che abbiamo ai vizi dai quali vogliamo uscire, noi proviamo un sentimento di dolore vedendo l’impotenza della nostra debole volontà, secondo le parole della Scrittura: « Colui che moltiplica la scienza moltiplica il dolore. » Da un lato, la conoscenza della verità eccita la nostra volontà a fare dei progressi nella pratica della virtù; dall’altra la forza dell’abitudine naturale incatena la volontà che sa che doveva avanzare. Questo aumento di scienza è un aumento di dolore, e questo dolore della vita è il pane di dolore di cui parla il Profeta, e di cui ha detto in altro Salmo: « Fino a quando saremo nutriti dal pane delle lacrime, abbeverati dal calice del pianto? » (Ps. LXXIX, 6) – « Alzatevi dopo esservi riposati. » L’azione importante per i ministri della Chiesa e per i fedeli stessi, affinché nell’edificazione della dimora comune o particolare, essi abbiano meno confidenza nel loro lavoro che nella preghiera, sull’esempio di Nostro Signore che « trascorreva le notti nel pregare Dio, e di giorno insegnava e confermava i suoi discorsi con i miracoli, » (Luc. VI, 12), e degli Apostoli che dicono: « Quanto a noi, noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola. » (Act. VI, 3). – È inutile consumare tutto il proprio tempo a costruire o a custodire; levatevi per l’opera dopo il pasto della contemplazione e della preghiera, voi che il desiderio della patria celeste fa gemere e gridare: « Le mie lacrime sono state il mio pane giorno e notte, mentre mi si ripete ogni giorno: « Dov’è il tuo Dio? » (Bellarm.). – C’è la necessità della grazia per ogni buona azione, grande o piccola, facile o difficile, per cominciarla, continuarla e completarla; c’è necessità particolare di questa grazia per coloro che mangiano il pane di dolore e della penitenza e che gemono incessantemente per un ardente desiderio dei beni eterni (Dug.).  

II. — 3-5.

ff. 3-5. – Quando Dio avrà dato loro il sonno ed il riposo, ed avrà respinto gli attacchi dei loro nemici, non solo allora essi potranno ricostruire la loro città e custodirla con sicurezza, ma riceveranno dei beni molto più preziosi: diventeranno i padri di numerosi figli, ed una brillante posterità crescerà sotto i loro occhi … Perché, benché questa sia l’opera della natura, la protezione di Dio viene ad aumentarne la fecondità. (S. Chrys.). – Il Profeta sembra rispondere qui a questa domanda: Quando si compirà questo? E risponde: « Quando il Signore avrà dato un sonno tranquillo ai suoi diletti. » I diletti di Dio, sono i santi che, dopo il sonno della vita presente, sembrano ancora assopiti prima che meritino di giungere alla resurrezione, alla vita eterna. Ora, quando i santi, usciti da questo secolo, saranno entrati in questo sonno dolce e tranquillo, diverranno porzione del Signore, perché cesseranno di essere sottomessi alle tentazioni (S. Gerol.). – Necessita la perseveranza nel bene, per la quale il dolore della penitenza si cambierà in gioia. Dolce è il sonno della morte, gradevole il riposo di una buona morte per gli eletti che sono i diletti di Dio, per il possesso dell’eredità del Signore, questa eredità che Dio ha promesso a suo Figlio come giusta ricompensa e come premio della sua incarnazione. È Lui che li ha generati come suoi figli, e come frutto delle viscere della sua carità, che lo ha portato a morire per noi. (Duguet). – Potenza di questi figli di Gesù-Cristo, che saranno sua eredità e sua ricompensa: essi saranno così potenti come frecce che, lanciate dalla mano di un uomo vigoroso, non conoscono ostacoli (Bellarm.). – In effetti le frecce non sono terribili di per se stesse, esso non sono da temersi se non quando vengono lanciate da una mano vigorosa: esse allora portano con sé una morte certa. (S. Chrys.). – Le frecce sono lanciate mediante l’arco, e più forte è colui che le lancia, più lontano portano queste frecce. Ora, chi c’è più forte del Signore? Dal suo arco, il Signore lancia gli Apostoli come frecce; esse penetrano fino all’ultimo confine della terra, e se non vanno ancora più lontani, è perché il genere umano non oltrepassa questi limiti (S. Agost.). – La potenza spirituale dei servi di Gesù-Cristo è non meno grande nell’azione, che nello stato di sofferenza; perché quando convertono gli infedeli alla fede, o i peccatori alla penitenza, con l’efficacia della loro predicazione, lo splendore della loro santità e la virtù dei loro miracoli, e quando, combattendo fino alla morte per la fede e la pietà, sopportano i più feroci supplizi con una rassegnazione ed un coraggio incredibili, cosa sono se non frecce nelle mani di un arciere vigoroso? Ma perché sono chiamati figli degli uomini cacciati ed esiliati? Perché essi sono i figli di uomini cacciati e respinti come il rifiuto e la spazzatura del mondo. Tali sono i discepoli degli Apostoli, in tutta la generazione dei fedeli perpetuati da secolo a secolo fino a noi. « Sembra – dice S. Paolo – che Dio ci tratti come gli ultimi degli Apostoli, come degli uomini condannati a morte, dandoci in spettacolo al mondo, agli Angeli ed agli uomini. » Fino a quest’ora, noi abbiamo fame e sete, noi siamo nudi ed in preda agli oltraggi, non abbiamo una stabile dimora, lavoriamo con molta pena con le nostre mani; ci si maledice, e noi benediciamo; ci si perseguita e lo sopportiamo; ci si blasfema e preghiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino ad oggi (I. Cor. IV). E tuttavia questi uomini così respinti, rigettati, hanno trionfato con meravigliosa potenza del mondo e dei demoni (Bellar. – Berth.). – « Felice l’uomo che trova in essi il compimento dei suoi desideri. » E chi dunque trova in essi il compimento dei suoi desideri? Colui che non ama il secolo. Perché colui che è pieno dei desideri del secolo non ha dove ricevere in sé ciò che essi hanno predicato. Rovesciate ciò che portate, e diventati capaci di ricevere ciò che non avete. Se dunque desiderate le ricchezze, non potete trovare in questi predicatori il compimento dei vostri desideri. Se desiderate gli onori della terra, se desiderate ciò che Dio ha dato anche agli animali, come le voluttà temporali, la salute del corpo ed altri beni simili, non potete trovare in essi il compimento dei vostri desideri. Se, al contrario, nei vostri desideri paragonabili a quelli del cervo per le fonti d’acqua (Ps, XLI, 2), voi dite: «La mia anima desidera e si consuma dall’ardore dietro gli atri del Signore, (Ps. LXXXIII, 3), voi trovate in essi il compimento dei vostri desideri; non che essi possano da se stessi soddisfare questi desideri, ma imitandoli arrivate a Colui che ha colmato i loro desideri (S. Agost.). – Felici dunque colui che ha riempito la sua faretra con tali frecce, e che desidera saziarsi delle parole della dottrina e dei frutti dei beni futuri che sono stati loro annunziati … « Egli non sarà confuso quando parlerà ai suoi nemici alla porta. » Noi vediamo che il Profeta si impegna a render lode a Dio alle porte della figlia di Sion; (Ps. IX, 15); ma qui non è questione di una porta sola, la porta reale, la porta del Signore, la porta del cielo, della quale lo stesso Profeta ha detto: « È qui la porta del Signore, i giusti entreranno per essa. » (Ps. CXVII, 20). « Essi non saranno confusi parlando ai propri nemici », cioè avvicinandosi loro l’empietà nei confronti di Dio, la loro disobbedienza agli insegnamenti dei suoi ministri, la loro incredulità a riguardo delle promesse eterne, il loro odio contro gli innocenti, la loro crudeltà contro i membri della Chiesa (S. Hilar.) – Beato colui che, nel giorno del giudizio di Dio, avrà per difensore, per protettore i figli degli uomini perseguitati, ed il primo degli uomini perseguitati, è Gesù-Cristo; dopo di Lui ci sono gli Apostoli, e tutti i Santi sono i loro figli. Ma non bisogna illudersi di questo appoggio, se non abbiamo alcuna somiglianza con questi uomini che il mondo ha calunniato, oltraggiati, decapitati. Noi li avremo invece piuttosto come accusatori e nemici (Berthier).   

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (1)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (1)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

PROLOGO

Molti sono i titoli di Padre Henry Ramière S.J. che meritano di essere oggetto della nostra conoscenza e del nostro riconoscimento: egli potrà essere a voi noto come insegnante, come predicatore, come scrittore, come pubblicista, come uomo d’azione. E in tutte queste sfaccettature merita di essere conosciuto dal popolo cristiano, perché il p. Ramière, le ha arricchite proclamando le bontà di Dio e spingendo ad amarle ed a viverle. – P. Henry Ramière nasce a Castres, in Francia, il 10 luglio 1821. Da piccolo ha già un vivo desiderio di diventare Sacerdote. I suoi genitori ferventi Cristiani, vedendo l’atmosfera laicista prevalente nelle scuole superiori francesi, lo inviarono, all’età di 11 anni, in una scuola che i Gesuiti gestivano a Pasajies, in Spagna. Ma l’anticlericalismo non era esclusivo della Francia. Nel luglio 1934, i Gesuiti furono costretti a chiudere la scuola per ordine del governo. Egli termina così i suoi studi nella cattolica Friburgo in Svizzera, fino al compimento del suo diciassettesimo anno. – Durante tutto questo tempo, si mantiene vivo il suo desiderio del Sacerdozio, tanto da realizzarlo diventando membro della Compagnia di Gesù. Per questo, prima dei 18 anni, entra nel noviziato che i Gesuiti tenevano ad Avignone. Enrico segue il programma di studi degli studenti della Compagnia dell’epoca, in varie città della Francia. – All’età di 26 anni viene ordinato sacerdote a Vals-près-le-Puy nel 1847. Non è da segnalare niente che sia degno di nota in questi anni di formazione, tranne due cose: in primo luogo, la brillantezza con cui ha sempre affrontato i vari studi: scienze umane, filosofia, teologia; in secondo luogo, che una buona parte di coloro che costituivano il corpo studentesco gesuita di Vals-près-le-Puy costituivano la culla dell’Apostolato della preghiera. – Infatti, è lì che è nato il suo culto, da una occasione provvidenziale, dovuta alla fervorosa pratica del p. Gautrelet, direttore spirituale: pratica illustrata agli studenti gesuiti il 2 dicembre 1844, durante il vespro di San Francesco Saverio, patrono delle Missioni. L’idea centrale di quella pratica era che non solo venivano salvate le anime nel predicare essi nelle missioni, ma offrendo la preghiera, con questa intenzione, e tutti gli atti della vita a Dio, in unione con Gesù Cristo Redentore,. L’idea era profondamente radicata in quella gioventù, tanto che da lì si divulgò ad altri seminari, studentati ed anche a diversi conventi religiosi. Questa era l’atmosfera che Ramière viveva e questo lo spirito che ha impregnato il suo cuore. Completati gli studi e ordinato Sacerdote nel 1847, Ramière viene delegato dai suoi superiori a compiti di natura intellettuale. Questo è logico, dato il talento che egli ha dimostrato già durante gli studi, il suo amore per la sapienza e la sua facilità nello scrivere: è così nominato professore di Teologia nel proprio studentato di Vals, poi passa a Tolosa per collaborare alla fondazione dell’Università Cattolica e collabora anche con la Rivista Estudes. – Partecipa al Concilio Vaticano in qualità di consigliere teologico di alcuni Vescovi francesi. Infine, torna alla cattedra di Vals, nella quale rimane fino a poco prima della sua morte, avvenuta nel 1884. – Si potrebbe dire però che il momento cruciale della sua vita sia l’anno 1860 quando viene nominato Direttore Generale dell’Apostolato della Preghiera. – Il p. Ramière congiunse nella sua persona due qualità che di solito non si trovano nello stesso uomo: quella di essere un intellettuale e nel contempo un uomo d’azione. L’apostolato della preghiera è stato il lavoro che gli ha permesso di sviluppare a suo vantaggio questi due elementi, queste due caratteristiche della sua personalità. Quando p. Ramière entra a dirigere l’Apostolato della Preghiera, questa era un’opera nascente. Era un movimento mosso da grande entusiasmo, ma di nicchia e, si potrebbe dire, elitario: dal 1844 si diffonde specialmente nei seminari, negli studentati dei religiosi e nei conventi. Quando p. Ramière muore nel 1884, lascia l’Apostolato della preghiera con sedi nella maggior parte delle nazioni dell’Europa e dell’America ed in molti Paesi delle missioni e, cosa più importante, i loro centri non annoverano solo seminari e conventi, ma una moltitudine di parrocchie, di scuole ed ogni altro tipo di centri secolari. Ramière è il grande organizzatore dell’Apostolato della Preghiera e il suo diffusore in tutto il mondo. Uno strumento decisivo di questa diffusione è stata la Rivista “Il Messaggero del Cuore di Gesù”. Egli fonda questa rivista che viene presto tradotta in altre lingue e si impianta in molti Paesi. L’Apostolato della Preghiera lo si deve non solo a p. Ramière, ma anche a p. Dehon, sia nell’enorme diffusione che nella sua organizzazione. Egli ne è stato anche il suo grande teologo: è il teologo che come nessun altro ha sviluppato le basi dottrinali su cui si fonda questo movimento. Spiegare in dettaglio le argomentazioni teologiche e spirituali con cui Padre Ramière fonda e motiva questo lavoro, supera i limiti di questa prefazione. Ma è proprio la lettura di questo libro, che le mostrerà al lettore. Qui possiamo solo affermare due idee assiali che P. Ramière pone come caratteristica dell’Apostolato della preghiera: la devozione al Cuore di Gesù e il suo Regno sociale. – La devozione al Sacro Cuore era stata ereditata da P. Ramière dalla Compagnia di Gesù. Ricordiamo che nel diciassettesimo secolo Santa Margherita aveva detto che il Cuore di Gesù affidava ai Padri della Compagnia il compito di diffondere questa devozione e la sua pratica. I Gesuiti erano oramai decisi ad assumersi questo “munus suavissimum“, questa missione molto delicata. Inizialmente vi si dedicarono particolarmente alcuni Gesuiti, poi furono i superiori stessi della Compagnia ad assumersene l’impegno. Sia P. Juan Roothaan che P. Pedro Beckx, entrambi Generali della Compagnia di Gesù ai tempi di P. Ramière, scrissero numerose lettere a tutta la Compagnia, esortandola alla pratica ed alla propagazione della Devozione al Cuore di Gesù. Infine, l’autorità suprema e unica della Congregazione Generale (con potere legislativo per l’intero Ordine), riunitasi nel 1883 per scegliere il successore di P. Beckx, emanò questo decreto: « La Compagnia di Gesù accetta e riceve con grande coraggio, traboccante di gioia e di gratitudine, l’incarico soavissimo che le è stato affidato dallo stesso N. S. Gesù Cristo di praticare, incoraggiare e diffondere la Devozione al suo Divinissimo Cuore ». Qui culminava un processo di impegno progressivo della Compagnia verso la devozione al Cuore di Gesù, quando essa assunse appunto questo « soavissimo incarico », con carattere vincolante ed ufficiale. Enrico Ramière si immerge in questo processo e non lo vive passivamente, bensì come uno dei suoi protagonisti più importanti. Egli comprende che lo stesso Apostolato della Preghiera deve praticare questa devozione e diffonderla. E, attraverso il suo duro e fecondo lavoro in tutto il periodo della sua direzione, cerca e riesce a radicare al centro della spiritualità dell’Apostolato della Preghiera, la devozione al Sacro Cuore di Gesù. La seconda idea che P. Ramière propone come cardine dell’Apostolato della Preghiera, è quella del Regno sociale del Cuore di Gesù. P. Ramière è ben consapevole che l’uomo ha un pensiero intrinseco secondo il quale non riesce a concepire questa dimensione sociale se non sia saldamente radicata nel cuore umano. Questo accade pure nelle cose puramente umane. I valori umani non si radicano negli uomini se non mettono radici nella società. Il paese, la famiglia, l’arte, la scienza e tanti altri valori umani, se mettono radici nel cuore degli uomini, avranno “ipso facto” una proiezione sociale. Ora, se è così nell’ordine puramente umano, questo ancor più avviene particolarmente nell’ordine soprannaturale. Perché in questo ordine tutto dipende dal mistero di Cristo, e Cristo forma un’unità, non solo con ognuno di quelli che ricevono la sua grazia, ma con tutto l’insieme di essi: è il mistero del Corpo mistico o del Cristo integrale. P. Ramière ha catturato e vive profondamente questo mistero. Questo è il motivo per cui P. Ramière si impegna nei suoi scritti a diffondere la dottrina del Corpo mistico di Gesù Cristo, un Corpo il cui unico centro motore è il Sacro Cuore di Gesù. È significativo che abbia messo come intestazione delle sue lezioni su « Il regno di Gesù Cristo nella storia » il noto motto: « Ricapitolare tutte le cose in Cristo ». Si può dire che l’enorme lavoro apostolico di P. Ramière nel suo inquadramento teologico, come direttore generale dell’Apostolato della preghiera, sia tutto diretto a compiere questa “ricapitolazione” delle persone e dei popoli in Cristo e nel suo Sacro Cuore. – Anche qui devo ripetere che la prova di quanto detto non compete all’autore del prologo, ma all’autore del libro: il lettore infatti ve la troverà esposta nella lettura. – Questo libro è un florilegio, una selezione di articoli che P. Ramière ha pubblicato nel corso dei suoi anni come Direttore dell’Apostolato della Preghiera. La maggior parte di questi articoli. egli li aveva pubblicati su “Il Messaggero del Cuore di Gesù” che, come sappiamo, era la rivista da lui creata quale organo dell’Apostolato della Preghiera. Potrebbe sembrare che questa concezione del libro, nella sua stesura, debba nuocere alla sua unità, poiché il suo contenuto è stato diluito nel corso degli anni e raccolto in circostanze diverse. Ma non è così! E così non è, perché precisamente, come detto, l’attività apostolica di P. Ramière, attraverso lo spazio e il tempo, ha una sua unità: proclamare che il Cuore di Gesù è venuto per salvare il mondo ricapitolando tutte le cose nel suo amore. Questo è il “leitmotiv” del libro che avete tra le mani: « Il Cuore di Gesù e la Divinizzazione del Cristiano ». Si può dire che il coronamento di questo enorme sforzo di P. Henrie Ramière nella diffusione del Regno particolale e sociale del Cuore di Gesù, sia stata la consacrazione del genere umano a questo Cuore divino, realizzata da Papa Leone XIII nel 1899. P. Ramière, che aveva lavorato così duramente per promuoverlo (anche prima che il Pontefice precedente, Pio IX, vi aveva lavorato a sua volta), lo vide dal cielo. Egli era morto nel 1884. Una settimana prima di morire, aveva scritto nel diario spirituale: « Più che mai devo sforzarmi di santificarle [le malattie] attraverso l’unione, la più costante possibile, al Cuore di Gesù ». Questa è la bella conclusione di una vita preziosa, una vita trascorsa per una grande causa. Di questa causa del Cuore di Gesù, caro lettore, padre H. Ramière parla in questo libro. [Prefazione dell’edizione spagnola di P. Pedro Suñer S. J.]

INTRODUZIONE

La divinizzazione dei figli degli uomini per mezzo del Figlio di Dio fatto uomo.

« Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta » (1 Giov. I, 1-4). Con queste parole San Giovanni, l’evangelista del Cuore di Gesù, inizia la sua prima lettera. Queste parole sono collegate a quelle che l’Apostolo stesso mette all’inizio del suo Vangelo: « In principio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio. In Lui era la vita » (Giov. I, 5). Questi due inizi, uno complementare all’altro, pongono davanti ai nostri occhi i due grandi atti del dramma divino. Il primo ha per teatro il seno di Dio. Nel suo Vangelo, l’Aquila di Patmos ci eleva ad un’altezza sublime per farci contemplare l’origine della gloria e della felicità che siamo destinati a possedere durante la vita futura. Ma, nella sua lettera, ci mostra come trasferita sulla terra la stessa vita e la stessa gloria che in cielo sfugge al nostro sguardo. Sì, la vita eterna che esisteva nel seno del Padre si è manifestata ai nostri sensi. Con i nostri occhi l’abbiamo vista e toccata. Eppure si è data a noi e sta a noi condividere le sue ricchezze con Dio Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo. Unendoci a questo Figlio unigenito (1 Gv., V 20), possiamo diventare, non solo di nome, sin da ora, figli di Dio (1 Gio. III, 1). Il messaggio che gli Apostoli dovevano annunciare a tutti i popoli della terra è la divinizzazione dei figli degli uomini attraverso il Figlio di Dio fatto uomo. Ecco il segreto comunicato all’amato Discepolo mentre questi riposava con la testa nel cuore del Salvatore. Non c’è da stupirsi che, ammesso al santuario dove il mistero ha avuto luogo, fosse a lui rivelato più chiaramente che agli altri Evangelisti. Con maggior verità più degli altri egli può dire: « La vita eterna che era nel seno di Dio, noi l’abbiamo vista e toccata e veniamo, come testimoni, a mostrarvi il suo splendore ».

Questo è un argomento di particolare attualità nei nostri tempi bui.

Abbiamo appena sentito San Giovanni promettere ai Cristiani la gioia senza misura. Per meglio comprendere il messaggio che stiamo per ripetere dobbiamo domandarci: In quali circostanze egli parlava? Nei giorni peggiori della tirannia romana, durante le persecuzioni di Nerone e Domiziano, quando il mondo non offriva ai discepoli di Gesù Cristo, altro che  roghi e bestie selvagge. A questi candidati al martirio l’Apostolo prometteva la pura gioia. Da noi altri dipende il godere della stessa gioia, se vogliamo cercarla nella perfetta unione con Dio. Cosa importa che le nazioni ruggiscano di nuovo e complottino vane congiure? Che differenza fa che le società moderne crollino per essere state fondate fuori dalla pietra angolare di Gesù Cristo? Tutto è permesso da Dio; ed Egli lo permette perché ci si incammini verso la realizzazione dei suoi piani e verso l’opera della nostra divinizzazione. Volgiamo i nostri occhi e la nostra speranza al Cuore di Gesù, la vera vita di ogni Cristiano. È Lui che riversa incessantemente in tutte le nostre membra la linfa vitale che impedisce loro di marcire. Candidati fin dalla nostra nascita alla morte, non potremmo resistere ai suoi continui attacchi se il nostro cuore non combattesse senza sosta. Gli altri organi hanno i loro momenti di riposo. Solo il cuore è sempre in movimento. Se mentre dormiamo egli si addormentasse, noi passeremmo dalle braccia del sonno a quelle della morte. La funzione propria del cuore è quella di conservare la vita. Pertanto, non vi è alcun dubbio che il nostro Salvatore, esortandoci ad onorarlo sotto l’emblema del suo Cuore Divino, voleva farci capire che Egli è l’inizio della nostra vita soprannaturale. Questo è il vero senso di devozione al Sacro Cuore. Ecco perché questa devozione deriva dall’essenza stessa della Religione cristiana. Cosa ci insegna essa? Che, in virtù dell’Incarnazione del Figlio di Dio, tutti gli uomini e tutte le donne sono chiamati a vivere una vita che sia veramente divina, il cui principio è l’Uomo-Dio. Questo, dopo averli santificati sulla terra, li farà godere in cielo della felicità di Dio: dogma capitale, compendio di tutti gli articoli della nostra fede su cui si fonda l’intera morale cristiana, la cui realizzazione deve compiersi attraverso le pratiche del culto. Peccato che questa sublime dottrina sia compresa da molti Cristiani solo in parte.

Dogma sublime, capitale, consolante, incoraggiante.

Quanti Cristiani invece di comprendere che cosa sia questa vita divina, che emana il Cuore di Gesù, vedono in essa solo un modo di dire! E’ stato già due secoli or sono che Cornelius a Lapide deplorava questo oblio: « Sono in pochi a sapere quello che ho appena dimostrato di questo beneficio, per non parlare del modo di apprezzarlo nel suo giusto valore; non c’è nulla, tuttavia, che si debba ammirare e venerare in sé ogni Cristiano, né con più cura lo debbano inculcare i dottori e i predicatori, affinché i fedeli sappiano di portare Dio stesso nel proprio cuore e comprendano la necessità di agire sempre divinamente, in compagnia di Dio, dell’ “Ospite Divino” ». Questa vera unione delle nostre anime con Gesù Cristo per mezzo dello Spirito di Dio, questa sostanziale inabitazione dello Spirito Divino in noi, questa vita divina che ci è stata donata nel Battesimo ed accresciuta dagli altri Sacramenti, non è una vana verbosità. Al contrario, è la più reale delle realtà! Tra i dogmi, non ce n’è altri di più sublimi e degni di meditazione. Cosa c’è di più grande che avere veramente Dio in se stesso, essere cioè veri “teofori” (dal greco: « portatori di Dio »), e di più consolante che vivere della vita di Dio, che in cielo costituisce la felicità degli eletti? Cosa c’è di più incoraggiante che avere a propria disposizione lo Spirito di Dio, cosa questa che ha dato ai Santi la forza di praticare tante mirabili virtù, e con la quale Gesù Cristo stesso ha operato i suoi miracoli? Che satana si adoperi per farci dimenticare questa dignità incomparabile, lo si capisce. Ma non si riesce a comprendere come mai noi, che Dio ha chiamato a condividere la sua divinità, stimiamo così poco ciò che dovrebbe essere l’oggetto principale dei nostri pensieri e causa della nostra gioia.

Dogma insegnato dal Signore e dagli Apostoli.

Non possiamo attribuire questa dimenticanza a Dio, perché non c’è alcun dogma della nostra fede che il Signore ed i suoi Apostoli non ci abbiano insegnato e con tanta insistenza. Il mistero della nostra unione con Lui è il tema principale delle parole che il Maestro rivolge ai suoi discepoli durante l’ultima cena. Fino ad allora Egli non poteva parlare con loro se non in parabole; ora però li prepara, con la partecipazione al Sacramento del suo amore, perché ascoltino il grande segreto del suo amore; essi devono imparare che non sono che una cosa sola con Lui e che l’unione deve diventare così intima, da assomigliare a quella del Padre e del Figlio, in una sola natura. San Paolo, in tutte le sue epistole, espone questo mistero dell’amore divino. Lo presenta in tutti i suoi aspetti, stabilisce su di esso i suoi insegnamenti. Da questo principio egli deduce le sue istruzioni morali. Gesù Cristo è il nostro capo e noi siamo i suoi membri. Noi siamo, per la incorporazione nel Figlio unigenito del Padre celeste, i veri figli non fittizi di Dio. Il Salvatore ci ha dato il suo Spirito, che abita veramente in noi, ci insegna a pregare come Gesù Cristo, ci riempie dei sentimenti di Gesù Cristo, ci fa vivere della sua vita ed un giorno ci farà resuscitare, perché possiamo godere della sua eterna gloria. Perciò, dobbiamo essere imitatori di Gesù Cristo, fuggire dal peccato, amarci gli uni gli altri, glorificare in ogni cosa il Dio che portiamo sempre dentro di noi.

Come i primi Cristiani ben comprendevano questa dottrina.

I primi Cristiani avevano compreso molto bene questa dottrina. A questo consolante dogma ricorrevano quando dovevano confessare la loro fede o difenderla dai loro nemici. Non avevano paura di dare a se stessi, come faceva San Ignazio, il nome di Teòforo, o di dichiarare, come Sant’Agnese, che avevano Gesù Cristo veramente presente in se stessi. Questa presenza divina li rendeva più forti dei tormenti. – Gli scritti dei primi Padri sono pieni di questa dottrina. Ma nel quarto secolo essa è stata sviluppata con incomparabile chiarezza, quando si cercò si oscurare, con l’eresia di Macedonio, il dogma della divinità dello Spirito Santo. I dottori che Dio suscitò per combattere questa eresia: San Basilio, San Gregorio Nazianzeno, Didimo di Alessandria e soprattutto San Cirillo di Alessandria, traggono i loro argomenti principali dalla presenza reale nelle anime dello Spirito Santo, e degli effetti divini che Egli opera in esse. Come può, uno che non è Dio divinizzare le anime, farle vivere della vita divina, per quanto separate l’una dall’altra? Per dimostrare la divinizzazione che lo Spirito di Gesù Cristo produce in noi, essi si servirono delle comparazioni più vivide. Né l’unione del vino con l’acqua, né quella del profumo con il telo da esso penetrato, né quella del fuoco con l’ascia di ferro, né quella di due pezzi di cera fusi insieme, sembrava loro abbastanza intima da illustrare l’intimità e l’efficacia dell’unione dello Spirito Santo con l’anima del Cristiano (altri scritti nei quali la dottrina è sviluppata sono del Petau – in De Trinitate, l. VIII, del P. Tomassin, in De Incarnatione, l. VI, dello stesso P. Ramière in “le Speranze della Chiesa“, del P. De Segur e di tutta la scuola spirituale francese di San Sulpizio del XVII secolo, senza dimenticare i riferimenti espliciti di S. Agostino ed ovviamente di San Tommaso, così ben illustrati dal P. Froget in “Inabitazione dello Spirito Santo“, etc. – ndr.). – Questo insegnamento, radicato nella tradizione cristiana, è stato sempre perpetuato nella Chiesa, anche se non occupa nelle opere dei teologi più moderni il posto che gli è stato dato dagli antichi dottori. Il motivo è abbastanza chiaro: nell’antichità la teologia mistica non si distingueva dalla teologia dogmatica e dall’Apologetica, che solo in seguito si separarono. I teologi scolastici, si erano limitati a spiegare i dogmi della fede più esposti agli attacchi dell’errore. E così il dogma della vera unione di Gesù Cristo con i Cristiani venne riservato ai teologi ed ai Santi mistici. – Ma è giunto il momento in cui Gesù Cristo vuole riportare alla luce questo mistero d’amore e dargli nuovamente, nell’insegnamento dei sacerdoti e dei fedeli, l’importanza capitale che sembrava essere andata perduta.

Rinnovo dell’importanza di questo dogma a causa del Giansenismo.

All’inizio del XVII secolo, satana si  preparava ad un doppio attacco che doveva superare per violenza tutte gli attacchi del passato. Da un lato, con il Giansenismo, esso voleva distruggere la pietà, esagerandola, e rendere impossibile l’unione dell’anima con Dio, mutando l’umiltà cristiana in disperazione. Dall’altro lato, con il Razionalismo, cercava di distruggere la fede e di esaltare la ragione dell’uomo a tal punto da minare l’unione a cui Dio lo destinava. Ma Gesù Cristo ha rivelato a Santa Margherita Maria, la devozione al suo Cuore Divino, suscitando una coraggiosa falange di santi Sacerdoti ai quali dà la missione di manifestare il dogma della sua unione con i Cristiani. Sembrava che il mistero dell’amore divino dovesse irradiare i suoi raggi ardenti su tutto il clero francese, e attraverso il clero sui fedeli, poi attraverso la Francia su tutto il mondo cristiano. Ma l’eresia l’ha impedito. I fedeli, il clero e alcuni ordini religiosi si sono lasciati contaminare dai nuovi errori. La dottrina tanto cattolica della reale inabitazione dello Spirito Santo nelle anime è stata discreditata dall’abuso che il Giansenismo ne ha fatto. Il grande movimento di rinnovamento religioso sopravvisse a malapena ai suoi promotori. Alla fine di un secolo, la Francia non aveva quasi più influenza nel mondo se non quella della sua incredulità. – Tuttavia, il Cuore di Gesù non è stato sconfitto. Se la Francia ha fallito nella sua missione due secoli fa, essa riparerà al suo crimine. È giunto ora il momento in cui la rivelazione fatta alla beata figlia di San Francesco di Sales dia i suoi frutti. Nello stesso tempo in cui la devozione al Cuore di Gesù, come un germe da lungo nascosto nel terreno, esce sulla terra, la teologia del Cuore di Gesù appare e viene accolta calorosamente. Il Giansenismo è stato sconfitto, ed anche la falsa filosofia che ha messo le sue profonde radici in molte intelligenze, non può, che essere considerata se non un conglomerato di sistemi cervellotici e di sofismi. Solo noi altri scrittori cattolici, dobbiamo presentare alle anime una dottrina che è al tempo stesso nuova e antica, così piacevole per il cuore, e tanto luminosa nella sua comprensione. Abbracciamola con l’intelletto ed anche con il cuore. Amandola, più che studiandola, si arriverà a comprenderla. Amiamola ogni giorno di più. In questo modo capiremo ogni giorno meglio quanto realmente il Cuore di Gesù sia la nostra vita.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/18/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-2/

SALMI BIBLICI: “IN CONVERTENDO DOMINUS CAPTIVITATEM SION” (CXXV)

SALMO 125: “IN CONVERTENDO Dominus captivitatem Sion”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 125:

Canticum graduum.

[1]  In convertendo Dominus captivitatem Sion,

facti sumus sicut consolati.

[2] Tunc repletum est gaudio os nostrum, et lingua nostra exsultatione. Tunc dicent inter gentes: Magnificavit Dominus facere cum eis.

[3] Magnificavit Dominus facere nobiscum; facti sumus laetantes.

[4] Converte, Domine, captivitatem nostram, sicut torrens in austro.

[5] Qui seminant in lacrimis, in exsultatione metent.

[6] Euntes ibant et flebant, mittentes semina sua. Venientes autem venient cum exsultatione, portantes manipulos suos.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXV.

Il profeta parla chiaramente del ritorno d’Israele dalla cattività in patria.

Cantico dei gradi.

1. Quando il Signore fe’ tornare quelli di Sion dalla cattività, noi fummo come uomini ricolmi di consolazione.

2. Allora fu ripiena di gaudio la nostra bocca, e la nostra lingua di giubilo.

3. Allora dirassi tra le nazioni: Il Signore ha fatte, cose grandi per essi.  Il Signore ha fatto grandi cose per noi, siamo inondati di letizia.

4. Riconduci, o Signore, i nostri dalla cattività, quasi torrente al soffio dell’austro.

5. Quei che seminano tra le lacrime mieteranno con giubilo.

6. Camminavano, e andavan piangendo a spargere la loro semenza.  Ma al ritorno verranno con festa grande, portando i loro manipoli.

Sommario  analitico

Nel salmo precedente gli esiliati di ritorno dalla cattività erano nella gioia alla vista di Sion, della sua magnifica situazione e della sua forte ed inespugnabile posizione. In questo salmo, essi ammirano i benefici di cui Dio li ha colmati per riportarli alla loro fortuna, alla loro primitiva felicità. Essi sono in questo la figura dell’anima che, ricordando i mali dai quali il Signore l’ha liberata, esplode con trasporto di riconoscenza e prega Dio di completare la liberazione del suo popolo. Ora, essi considerano tre tempi:

I. Il tempo passato in cui uscirono da Babilonia:

1° La loro gioia non era ancora perfetta, perché non erano certi di raggiungere la loro patria, per la lunga distanza e per tutti i pericoli (1);

2° Essi esprimono a Dio la loro riconoscenza con canti di gioia (2);

3° I popoli dei quali attraverseranno le regioni testimoniano essi stessi la loro ammirazione (2).

II. – Il tempo presente in cui gioiscono con sicurezza dei doni di Dio.

1° Essi proclamano che il Signore ha agito magnificamente con essi (2);

2° Essi non sono che all’inizio come consolati, ma già in una gioia perfetta (3).

III. – Il tempo a venire in cui i resti della cattività dovevano ritornare:

1° Essi la domandano a Dio (4);

2° Essi danno la ragione di questa preghiera: è giusto che la gioia sopravvenga alle lacrime; ora, gli esiliati hanno seminato nelle lacrime, bisogna dunque che essi mietano nella gioia (5, 6). 

Spiegazioni e considerazioni

I. – 1-2

ff. 1, 2. – Appena i Giudei prigionieri ed esiliati ebbero appreso il decreto che rendeva loro la libertà e il ritorno in patria, stentarono a credere alla loro gioia, non credevano ai propri occhi ed alle proprie orecchie, era per essi un sogno: essi provarono ciò che provano coloro che vedono realizzarsi per loro una grande consolazione dopo una immensa tribolazione, e che passano dalla tristezza e dalle lacrime alla gioia ed all’allegria. Questa consolazione è la porzione di coloro che rivolgono tutti i loro pensieri a Dio, e che disprezzano le vane speranze del secolo, calpestando tutte le soddisfazioni terrestre, dirigendo i loro passi nella via della pace, perché comprendono qual bene ineffabile è l’essere staccato dalle catene del demonio e dalle profondità dell’inferno, per prepararsi alla voce di Dio e, sotto la sua guida, a possedere la patria celeste, la vera libertà e l’eterna pace (Bellarm.). – La cattività del corpo è una cosa penosa e dura, perché ci impedisce la libertà e ci sottomette alla dominazione dei vincitori; ma se solo il corpo è ridotto in schiavitù, la libertà dell’anima fedele resta tutta intera … Ma deplorabile com’è la cattività dell’anima se la domina l’avarizia, essa si serve del corpo per soddisfare le sue ruberie e le sue rapine; se essa si lascia vincere dalla voluttà, trascina il corpo con sé nella schiavitù; se la lussuria, la collera, l’odio, la temerarietà, l’invidia, trionfano in essa, sotto tali padroni il corpo con l’anima sono schiavi dei più duri tiranni, e la cattività dell’anima è sempre seguita dalla schiavitù del corpo … È da questa duplice cattività che il Signore ci libera con la remissione dei peccati (S. Hilar.). – La consolazione non è fatta che per gli infelici; la consolazione non è fatta che per coloro che gemono e che piangono. Perché siamo dunque consolati, se non perché gemiamo ancora? Quando questa realtà sarà passata, il nostro gemere si muterà in una gioia eterna nella quale non avremo più bisogno di consolazione, perché alcuna miseria ci colpirà più. (S. Agost.) – « Noi fummo come consolati; » cioè l’ammirazione della grandezza del bene che ci arrivò era sì eccessiva che ci impediva di sentire la consolazione che ricevemmo, e ci sembrava che noi non fossimo veramente consolati, che non avessimo una consolazione di verità, ma solo in figura ed in sogno (S. Francesco de Sales, Tract. de l’am. De Dieu, L. IX, c. XII) – Dalla consolazione interiore nasce la gioia esteriore, che si riconosce dall’espressione di felicità dipinta sul volto e dagli accenti di gioia ed allegria: le nostre parole sono impotenti a rendere a Dio delle degne azioni di grazie. I crimini hanno fatto posto all’innocenza, i vizi alle virtù, l’ignoranza alla conoscenza delle verità divine, la morte all’immortalità, e questo grazie a Dio, che ci rimette le colpe delle quali ci siamo pentiti e ci rende la speranza dei beni immortali. (S. Hilar.) – È l’ammirazione di cui il mondo stesso non può dispensarsi per coloro che, dopo avere seguito le sue leggi, sembrano giragli il dorso e marciare verso la patria celeste, attraverso la via rude della virtù e dell’imitazione di Gesù Cristo; perché il mondo che non ama più, è vero, coloro che non sono del mondo, non può tuttavia dispensarsi dall’ammirarli e dal riconoscere che Dio è in essi e con essi. (Bellar.)

II. — 3-6

ff. 3-6. –  « Il Signore ha fatto per noi grandi cose. » Essi stessi si sono fatti questo grande bene? Essi si sono fatti un grande male, perché si sono venduti al peccato. Il Redentore è venuto ed il loro bene è venuto con Lui, ed il Signore ha fatto loro del gran bene. » (S.Agost.) – Non succede tutti i giorni che un peccatore sia ristabilito nella giustizia, e gusti in questi primi momenti i frutti della sua riconciliazione con Dio; la sua anima ammira il cambiamento che è avvenuto in se stessa, e le delizie della pace interiore e ricolmata di una gioia tutta divina preferibile a tutte le gioie del mondo. (Berthier) – I primi arrivati dalla cattività pregano il Signore per il ritorno completo di tutti i prigionieri, ed il salmista disegna l’immagine di un torrente che, spinto dal vento del mezzogiorno, avanza d’ordinario le sue acque con abbondanza e rapidità, e chiede a Dio che tutti i prigionieri che restano ancora in terra straniera ritornino prontamente ed in gran numero, trasportati come gli oggetti che scorre e trasporta con sé il torrente ingrossato, sotto il vento impetuoso del mezzogiorno, per le piogge del cielo e le nevi sciolte che scendono dalle montagne. – Quanto più questa preghiera è necessaria ai pellegrini spirituali; perché, benché un certo numero siano già pervenuti alla patria, sono molti che sono ancora in viaggio, che si sono dati ad amare le loro catene, e dediti interamente alle cose della terra, non sognano più la patria. (Bellarm.) – Gli stessi giusti, anche perfetti, per quanto staccati dal mondo, gemono sempre nell’attesa della loro perfetta liberazione. Essi sentono vivamente i legami che li stringono loro malgrado, e chiedono incessantemente a Dio che finisca di rompere le catene che li tengono ancora prigionieri. (Dug.) – Il vento bruciante del mezzogiorno, è lo Spirito di Dio che soffia sui ghiacciai della nostra anima, li fa sciogliere e li trasforma in un torrente rapido che poi scorrono fino alla vita eterna (S. Agost.) – Quando il Giudei furono condotti in cattività, erano simili a coloro che spandono la semenza. I loro giorni erano giorni di pene, di tormenti, di tribolazioni; essi erano esposti ai rigori dell’inverno, alle tempeste, alla guerra, alle piogge, alle frane, ed essi versavano lacrime abbondanti, perché la lacrime sono, per le anime afflitte, ciò che le piogge sono per la semenza (S. Chrys.) – Colui che semina, spesso semina nelle lacrime; egli getta grano nella terra, senza sapere se questo grano fruttificherà, e trema dall’aver dispensato senza profitto le sue pene, le sue fatiche e il suo bene; e tuttavia non lascia di seminare senza curarsi della pioggia che cade, né del vento freddo che soffia, né dei rigori della stagione, perché egli aspetta le messe, ed anche quando, malgrado l’inverno di questa vita mortale, dobbiamo seminare piangendo la semenza che Dio ama, quella della nostra buona volontà e delle nostre buone opere, pensando alle gioie della messe. (S. Agost.). – Non si può raccogliere che a condizione di seminare. Ora ogni semenza ha un costo, la radice delle opere sante è necessariamente irrorata dalle lacrime del sacrificio: felici sono le lacrime che cadendo sul solco, fanno fruttificare la semenza ed accrescere, per l’avvenire, le speranze della raccolta. (S. Ambr.) – Seminiamo dunque in questa vita, che è piena di lacrime. Ma cosa seminiamo? Le buone opere. Le opere di misericordia sono la nostra semenza; l’Apostolo ha detto di queste semenze: « Non tralasciamo di fare il bene; perché se siamo instancabili, raccoglieremo la messe a suo tempo. Ecco perché, quando ci è dato tempo, facciamo del bene a tutti, principalmente a coloro che fanno parte della famiglia della fede. » (Galat. VI, 9, 10) Cosa ha detto egli a proposito delle elemosine? « Io vi dico, chi semina poco, raccoglierà scarsamente. » (II Cor. IX, 6). Di conseguenza, colui che semina molto raccoglierà con abbondanza, e chi semina poco, poco raccoglierà, e colui che non semina del tutto la semenza? Voi non avreste, per seminare, un campo più vasto che il Cristo, che ha voluto che si seminasse attraverso di Lui. La vostra terra è la Chiesa; pensateci più che potete. Ma direte voi, che i vostri mezzi di azione sono ristretti. Ne avete la buona volontà? Voi non avrete nulla se non avrete la buona volontà, così non vi rattristerete di nulla se avete la buona volontà. In effetti, cosa seminate? La misericordia; e cosa raccogliete? La pace. Gli Angeli hanno forse detto: Pace ai ricchi sulla terra? No, essi hanno detto: « Pace sulla terra agli uomini di buona volontà. » (Luc. II, 14), (S. Agost.) –  Gettiamo la nostra semenza in mezzo alla miseria presente; un giorno raccoglieremo nella gioia. Alla fine della nostra vita, nel giorno della resurrezione dei morti, ciascuno raccoglierà i suoi covoni, cioè i frutti delle proprie semenze, la corona di gioia e di felicità. Questa sarà l’ora del trionfo dei santi che, nel loro trasporto di gioia, insorgeranno verso questa morte, in seno alla quale gemono e diranno: O morte! Dov’è la tua forza? O morte! Dov’è il tuo pungiglione! » (I Cor. XV, 55). Ma perché essi gioiranno? Perché porteranno i loro covoni, per aver altra volta camminato tra le lacrime, spargendo in terra le loro semenze (S. Agost.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO X – “SINGULARI QUIDAM”

Il Santo Padre S. PIO X affronta anche in questa lettera enciclica, la questione sociale ed operaia. Questa è la giusta occasione per ricordare come in tutti i temi, compresi quelli sociali, la Chiesa abbia soluzioni eque per tutti nei problemi che si prospettano nella vita dei singoli e della società. Ecco l’invito rivolto a tutti i fedeli operai cattolici tedeschi, ed ovviamente di tutti gli altri Paesi, ad attenersi scrupolosamente al Magistero Apostolico assoggettandosi alle decisioni della Chiesa, guidata dal Sommo Pontefice, e localmente dei Vescovi in unione con il Papa. Questo per i tempi era quanto veniva suggerito ai lavoratori ed ai Cristiani tutti, suggerimenti che sono ancora oggi validi e risolutivi ma che in assenza di una Chiesa libera e con un Sommo Pontefice impedito, sono puntualmente elusi da una classe politica e da una sinagoga di satana – che finge di essere Chiesa Cattolica praticando al massimo «  una specie di Cristianesimo vago e non definito, che si suol chiamare interconfessionale, e che si diffonde sotto la falsa etichetta di comunità cristiana, mentre evidentemente nulla vi è di più contrario alla predicazione di Gesù Cristo » – entità tenenrose dirette congiuntamente dalle conventicole mondiali di diversa obbedienza, ma di uguale asservimento ai poteri demoniaci, con le conseguenze devastanti per singoli e Stati, che tutti possiamo osservare, anche se malamente occultate dai mezzi di informazione, tutti asserviti alle logge.

S. S. San PIO X

Singulari quadam

Lettera Enciclica

24 settembre 1912

Uno speciale affetto e benevolenza verso i Cattolici di Germania, i quali, uniti a questa Sede Apostolica da un grande spirito di fede e di obbedienza, sogliono combattere con generosità e con forza in favore della Chiesa, ci ha spinto, venerabili fratelli, a rivolgere tutto il nostro zelo e la nostra cura all’esame della controversia sulle associazioni operaie, che tra di essi si agita; sulla quale controversia, in questi ultimi anni, già più volte ci avevano dato informazioni, oltre alla maggior parte di voi, anche prudenti e autorevoli persone di entrambe le tendenze. E con tanto zelo ci siamo dedicati a questa cosa, in quanto, nella coscienza dell’apostolico ufficio, comprendiamo che è Nostro sacro dovere sforzarci di far sì che questi Nostri carissimi figli conservino la dottrina cattolica nella sua purezza e integrità, e di non permettere in alcun modo che la stessa loro fede sia messa in pericolo. È chiaro infatti che, se non vengono tempestivamente esortati a vigilare, c’è pericolo che essi, a poco a poco e quasi senza accorgersene, si adattino a una specie di Cristianesimo vago e non definito, che si suol chiamare interconfessionale, e che si diffonde sotto la falsa etichetta di comunità cristiana, mentre evidentemente nulla vi è di più contrario alla predicazione di Gesù Cristo. E inoltre, essendo Nostro sommo desiderio di favorire e rafforzare la concordia tra i Cattolici, vogliamo rimuovere qualsiasi causa di dissensi, che, disperdendo le forze dei buoni, non possono giovare se non agli avversari della Religione; ché anzi desideriamo vivamente che i nostri anche con i loro concittadini che non professano la Religione Cattolica coltivino quella pace che è indispensabile al governo dell’umana società e alla prosperità dello stato. – Sebbene poi, come abbiamo detto, ci fosse noto lo stato della questione, abbiamo tuttavia voluto, prima di darne un giudizio, chiedere il parere di ciascuno di voi, venerabili fratelli, e ognuno di voi ha risposto alla Nostra richiesta con quella diligenza e con quella prontezza che la gravità della questione richiedeva. – In primo luogo dunque proclamiamo che è dovere di tutti i Cattolici – dovere che va scrupolosamente e completamente adempiuto tanto nella vita privata quanto nella vita sociale e pubblica – di mantenere fermamente e di professare senza timidezza i principi della verità cristiana, insegnati dal Magistero della Chiesa Cattolica, soprattutto quelli che il Nostro predecessore ha formulato con tanta sapienza nell’enciclica Rerum novarum; i quali principi sappiamo essere stati seguiti sopra ogni altro dai Vescovi di Prussia, riuniti a Fulda nel 1900, ed essere stati esposti sommariamente da voi stessi, quando Ci avete risposto che cosa pensate intorno alla presente controversia. – E precisamente qualunque cosa un Cristiano faccia, anche se nell’ordine delle cose terrene, non gli è lecito trascurare i beni soprannaturali; anzi deve, conformemente alle regole della dottrina cristiana, tutto dirigere al bene supremo come a fine ultimo. E tutte le sue azioni, in quanto moralmente buone o cattive, cioè conformi o no alla legge naturale e divina, sono soggette al giudizio e alla Giurisdizione della Chiesa. – Tutti coloro, singoli o associati, che si gloriano del nome di Cristiani, devono, se non dimenticano il proprio dovere, alimentare non le inimicizie e le rivalità tra le classi sociali, ma la pace e il mutuo amore. – La questione sociale, e le controversie che ne derivano circa il metodo e la durata del lavoro, la fissazione del salario, e lo sciopero, non sono soltanto di natura economica, e perciò non sono tali da potersi risolvere prescindendo dall’autorità della Chiesa, “essendo invece fuori dubbio che (la questione sociale) è principalmente morale e religiosa, e che per ciò va risolta principalmente secondo le leggi morali e religiose”. – Quanto poi alle associazioni operaie, sebbene il loro scopo sia di procurare agli associati dei vantaggi in questa vita, tuttavia meritano la più alta approvazione, e sono da considerare più delle altre adatte ad assicurare una vera e durevole utilità ai soci, quelle che sono state costituite prendendo come principale fondamento la Religione Cattolica, e che seguono apertamente le direttive della Chiesa; e più volte Noi lo abbiamo dichiarato, quando se ne è offerta l’occasione in un Paese o in un altro. Da ciò discende che si devono costituire e con ogni mezzo aiutare tali associazioni confessionali cattoliche, non solo nei Paesi cattolici, ma anche in tutti gli altri, dovunque si ritenga possibile venire incontro per mezzo di esse ai bisogni dei soci. Se poi si tratta di associazioni che direttamente o indirettamente toccano la Religione o la morale, non sarebbe in alcun modo da approvare che nei suddetti Paesi si volessero favorire e diffondere le associazioni miste, ossia composte di Cattolici e non cattolici. Infatti se non altro, a causa di tali associazioni, a non piccoli pericoli si espongono, o almeno si possono trovare esposti, sia l’integrità della fede dei nostri fedeli, sia la dovuta obbedienza alle leggi e ai precetti della Chiesa Cattolica; pericoli del resto, che abbiamo visto espressamente messi in rilievo, venerabili fratelli, nella maggior parte delle vostre risposte su questo punto. – Perciò facciamo molto volentieri ogni elogio a tutte le associazioni operaie puramente cattoliche esistenti in Germania, desideriamo che ogni loro iniziativa in favore delle masse operaie abbia successo, e auguriamo ad esse sviluppi sempre più felici. Con questo tuttavia non intendiamo negare che sia lecito ai Cattolici lavorare, con cautela, insieme con gli acattolici, per procurare all’operaio una sorte migliore e per una più equa retribuzione e condizione di lavoro, o per qualunque altro fine utile e onesto: ma preferiamo che per tale scopo le Associazioni Cattoliche e non cattoliche si uniscano per mezzo di quel genere di patto opportunamente escogitato che si chiama Cartello. – A questo proposito, venerabili fratelli, non pochi di voi Ci domandano che Noi vi permettiamo di tollerare i cosiddetti sindacati cristiani, come sono ora costituiti nelle vostre diocesi, dato che essi abbracciano un numero di operai molto maggiore di quello delle associazioni puramente cattoliche e che molti inconvenienti ne verrebbero se tale tolleranza non fosse permessa. In considerazione della speciale situazione del Cattolicesimo in Germania, Noi riteniamo di dover accogliere tale richiesta, e dichiariamo che si può tollerare e permettere che i Cattolici facciano parte anche di quelle associazioni miste, che esistono nelle vostre diocesi, fino a che per nuove circostanze tale tolleranza non cessi di essere opportuna o lecita; purché, tuttavia, si prendano le precauzioni necessarie per evitare i pericoli che, come abbiamo detto, sono inerenti a tal genere di associazioni. – Prima di tutto si deve curare che gli operai cattolici che fanno parte di questi sindacati, siano anche iscritti alle associazioni di operai cattolici denominate Arbeitervereine. Che se per questo essi devono fare qualche sacrificio, soprattutto pecuniario, siamo certi che, nel loro zelo per la conservazione della loro Fede non lo faranno malvolentieri. Fortunatamente infatti accade che queste Associazioni Cattoliche, sotto l’impulso del clero, che con la sua guida e vigilanza le dirige, molto contribuiscono a tutelare nei loro membri la purezza della fede e l’integrità dei costumi, e ad alimentare il loro spirito religioso con molteplici esercizi di pietà. Senza dubbio perciò i dirigenti di queste associazioni, ben conoscendo i nostri tempi, vorranno insegnare agli operai quei precetti e quelle norme, soprattutto circa i doveri di giustizia e di carità, che ad essi è necessario e utile ben conoscere, per potersi comportare, nei sindacati, in modo retto e conforme ai principi della dottrina cattolica. Inoltre, perché i sindacati siano tali che i Cattolici vi si possano iscrivere, è necessario che si astengano da qualsiasi manifestazione teorica o pratica, contrastante con la dottrina e i precetti della Chiesa e dell’autorità ecclesiastica competente; e parimenti che nulla di men che accettabile sotto questo aspetto vi sia nei loro scritti, discorsi, o attività. Considerino perciò i Vescovi uno dei più sacri doveri osservare diligentemente come si comportino queste associazioni, e vigilare che i Cattolici non soffrano alcun danno dai loro rapporti con esse. E i Cattolici stessi, iscritti ai sindacati, non permettano mai che i sindacati anche come tali, nel curare gl’interessi temporali dei membri, professino o facciano cose che in qualsiasi modo contrastino con i principi insegnati dal supremo Magistero della Chiesa, con quelli specialmente che abbiamo sopra richiamato. A tale scopo, ogni qualvolta si agitino questioni relative a materie che toccano i costumi, e cioè alla giustizia e alla carità, i Vescovi vigileranno con la massima attenzione affinché i fedeli non trascurino la morale cattolica, né da essa menomamente si allontanino. – Siamo d’altronde sicuri, venerabili fratelli, che voi curerete che sia scrupolosamente e completamente osservato quanto nella presente vi abbiamo ordinato e che, data l’importanza della cosa, Ci terrete spesso e accuratamente informati. Poiché però abbiamo avocato a Noi questa cosa, e spetta a Noi, sentito il parere dei Vescovi, darne un giudizio, comandiamo a tutti i buoni Cattolici di astenersi d’ora in poi da qualunque discussione tra di loro su questa materia; e Ci piace sperare che essi, in spirito di fraterna carità e pienamente sottoposti all’Autorità Nostra e dei loro Pastori, faranno in modo completo e leale quello che comandiamo. Che se sorgesse in essi qualche difficoltà, essi hanno a loro disposizione il modo di risolverla; consultino i loro Vescovi, e questi deferiranno la questione al giudizio di questa Sede Apostolica. Resta ora da dire – si deduce facilmente da quanto abbiamo esposto – che come da una parte a nessuno sarebbe lecito accusare di fede sospetta e combattere a questo titolo coloro che, costanti nella difesa della dottrina e dei diritti della Chiesa, vogliono tuttavia, con retta intenzione, appartenere, e realmente appartengono, ai sindacati misti, dove l’autorità ecclesiastica, secondo le circostanze del luogo, ha ritenuto opportuno di permettere l’esistenza di tali sindacati; così d’altra parte, sarebbe altamente da riprovare che si svolgesse attività ostile contro le Associazioni puramente cattoliche – mentre si deve con ogni mezzo aiutare e favorire tal genere di associazioni – e che si volesse seguire e quasi imporre un tipo interconfessionale,anche se sotto il pretesto di ridurre a un modello uniforme tutte le Associazioni di Cattolici esistenti in ciascuna diocesi. Frattanto, mentre facciamo voti perché la Germania cattolica progredisca sia nel campo religioso che in quello politico, imploriamo per questo caro popolo il particolare aiuto di Dio onnipotente e la protezione della vergine Madre di Dio, che è anche la Regina della pace; e, come pegno dei doni divini e testimonianza della Nostra speciale benevolenza, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione a voi diletto Nostro figlio e venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo.

Roma, presso San Pietro, il 24 settembre 1912, anno decimo del Nostro pontificato.