UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO. S. S. PIO XI – “NOVA IMPENDET”

La Nova Impendet è una lettera enciclica che il Sommo Pontefice Pio XI, scrisse in un momento tragico per la storia dell’Europa e dell’umanità in generale, per le condizioni economiche che si erano deteriorate in modo estremo per le note vicende della cosiddetta crisi economica del ’29. In particolare il Santo Padre ha a cuore le condizioni di grande difficoltà vissute dai soggetti più deboli della popolazione, soprattutto i bambini. Il Pontefice deplora tra l’altro la corsa agli armamenti di Nazioni che vivevano in grandi ristrettezze economiche, ove non c’erano soldi per il pane, ma ce n’erano in abbondanza quando si trattava di acquistare o produrre armi ed ordigni da guerra « … e quindi non ultimo coefficiente della straordinaria crisi presente è senza dubbio la corsa sfrenata agli armamenti, … ». Passa poi alle esortazioni ad agire per i suoi Vescovi e per i Cristiani animandoli ad una carità ardente. Arriva poi il decisivo invito alla preghiera ed all’azione spirituale « … ma poiché tutti gli sforzi umani non bastano all’intento senza l’aiuto divino, innalziamo tutti fervide preci al Datore di ogni bene perché nella Sua infinita misericordia abbrevi il periodo della tribolazione, e anche a nome dei fratelli che soffrono ripetiamo più che mai intensa la preghiera che Gesù stesso Ci ha insegnato: Dacci oggi il nostro pane quotidiano  ». Oggi che viviamo per altri versi condizioni di vita ancor più drammatiche con imposizioni restrittive di ogni libertà, seppure la più elementare, e sicuramente prodromiche a crisi economiche di analoga o forse maggior portata, le parole del Pontefice, Papa Ratti, quasi un secolo dopo, sono più che mai attuali e da rimeditare con attenzione visto che le Autorità spirituali legittime sono impedite nelle loro funzioni usurpate da una accozzaglia di loschi falsi prelati, marrani, apostati e sodomiti, diretti emissari dell’anticristo e dei poteri infernali che hanno oggi assunto il controllo di tutte le attività umane, imponendo la “corona” luciferina a dominio delle genti sottomesse con il terrore, la violenza mediatica e militare. È vero che tutto questo, per i veri Cattolici è un periodo di grazia immensa nell’acquisizione di meriti per l’eterna gloria: per la pazienza, l’ubbidienza a personaggi ignoranti, protervi, animati da una volontà a compiere il male per il solo gusto del male, la preghiera più intensa e la meditazione dottrinale e spirituale, ma ancora una volta, quello che più fa male è vedere la sofferenza di tante creature inermi, soprattutto i bambini, sacrificati al moloch dei satanisti di stato, dei media, dei poteri finanziari occulti (ma non troppo) avidi e senza scrupoli … ma prima o poi moriranno anch’essi, senza portare con sé un solo centesimo di quanto rubato, nessun trofeo onorifico, nessun oggetto d’oro o tecnologico o da guerra e … si troveranno come Giudice inflessibile quel Cristo che essi hanno combattuto, offeso, vilipeso, schernito, perseguitato nei suoi fedeli … e là sarà pianto e stridor di denti nei secoli dei secoli, senza potersi rifugiare in logge, contrologge, conventicole, presso amici potenti, nei palazzi del potere politico o nei templi usurpati ai Cristiani.

NOVA IMPENDET

LETTERA ENCICLICA

DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA, SULLA CRISI ECONOMICA DEL 1929

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Un nuovo flagello minaccia e in gran parte già colpisce il gregge a Noi affidato, e più duramente la porzione più tenera e più affettuosamente amata, cioè l’infanzia, gli umili, i lavoratori meno abbienti e i proletari. Parliamo della grave angustia e della crisi finanziaria che incombe sui popoli e porta in tutti i paesi ad un continuo e pauroso incremento della disoccupazione. Vediamo infatti costretti alla inerzia e poi ridotti all’indigenza anche estrema, con le loro famiglie, tanta moltitudine di onesti e volenterosi operai, di null’altro più desiderosi che di guadagnare onoratamente col sudore della fronte, giusta il mandato divino, il pane quotidiano che invocano ogni giorno dal Signore. I loro gemiti commuovono il Nostro cuore paterno e Ci fanno ripetere, con la medesima tenerezza di commiserazione, la parola uscita già dal Cuore amatissimo del Divino Maestro sopra la folla languente di fame: «Ho compassione di questa folla »[1]. Ma più appassionata si rivolge la Nostra commiserazione alla immensa moltitudine di bambini, le vittime più innocenti di queste tristissime condizioni di cose; implorano pane, « ma non c’era chi ne desse loro »[2], e nello squallore della miseria sono condannati a vedere sfiorire quella gioia e quel sorriso che la loro anima ingenua cerca inconsciamente intorno a sé.  – Ed ora si avvicina l’inverno, e con esso tutto il seguito delle sofferenze e privazioni che la gelida stagione porta ai poveri ed alla tenera infanzia specialmente, per cui è da temersi che venga aggravandosi la piaga della disoccupazione che sopra abbiamo deprecato; in modo che non provvedendosi alla indigenza di tante misere famiglie e dei loro bimbi abbandonati, esse siano — che Dio non voglia! — sospinte all’esasperazione. – A tutto ciò pensa con trepidazione il Nostro cuore di Padre, e pertanto come già fecero in simili occasioni i Nostri predecessori ed ancora ultimamente il Nostro immediato Predecessore Benedetto XV di s.m., alziamo la nostra voce e indirizziamo il Nostro appello a quanti hanno sensi di fede e di amore cristiano: l‘appello quasi ad una crociata di carità e di soccorso. La quale, mentre provvederà a sfamare i corpi, darà insieme conforto ed aiuto alle anime; farà in esse rinascere la serena fiducia, allontanandone quei tristi pensieri che la miseria suole infondere negli animi. Spegnerà le fiamme degli odi e delle passioni che dividono, per suscitarvi e mantenervi quelle dell’amore e della concordia, e il più stretto e più nobile vincolo della pace e prosperità individuale e sociale.  – È dunque una crociata di pietà e di amore e senza dubbio anche di sacrificio quella a cui tutti richiamiamo, quali figli di uno stesso Padre, membri di una medesima grande famiglia che è la famiglia stessa di Dio, tutti partecipi quindi, come i fratelli di una stessa famiglia, sia della prosperità e della gioia, come dell’avversità e del dolore che colpiscono i nostri fratelli.  A questa crociata richiamiamo tutti come ad un sacro dovere inerente a quel precetto tutto proprio della legge evangelica e da Gesù proclamato come precetto suo massimo e primo fra tutti i precetti, anzi compendio e sintesi di tutti gli altri, il precetto della carità che tanto inculcò a simile proposito e ripetutamente, quasi tessera del suo pontificato in quei giorni di odi e di guerra implacabili il Nostro carissimo Predecessore.  Ora Noi additiamo questo soavissimo precetto, non solo come dovere supremo e comprensivo di tutta la legge cristiana, ma altresì quale atto e sublime ideale, proposto in modo più speciale alle anime più generose e più aperte ai sensi della gentilezza e della perfezione evangelica.  Né crediamo dovervi insistere con molte parole, tanto appare evidente che questa sola generosità di cuori, questo solo fervore di anime cristiane col loro impeto santo di dedizione e di sacrificio per la salvezza dei fratelli e segnatamente dei più compassionevoli e bisognosi, com’è lo stuolo innocente dei bambini, riusciranno a superare, nello sforzo della concordia unanime, le più gravi difficoltà dell’ora presente. E poiché da una parte effetto della rivalità dei popoli, dall’altra causa di enormi dispendi, sottratti alla pubblica agiatezza, e quindi non ultimo coefficiente della straordinaria crisi presente è senza dubbio la corsa sfrenata agli armamenti, non possiamo astenerCi dal rinnovare la provvida ammonizione Nostra [3] e dello stesso Nostro Predecessore, dolenti che non sia stata finora ascoltata ed esortiamo insieme Voi tutti, Venerabili Fratelli, perché con tutti i mezzi a vostra disposizione di predicazione e di stampa vi adoperiate a illuminare le menti e ad aprire i cuori secondo i più sicuri dettami della retta ragione, e molto più ancora della legge cristiana.  – Ci arride la speranza che ciascuno di Voi possa essere il punto di riferimento della carità e della generosità dei propri fedeli, ed insieme il centro delle distribuzioni dei soccorsi da loro offerti. Se in qualche diocesi si trovasse più opportuno, non vediamo difficoltà che facciate capo ai rispettivi Metropoliti oppure a qualche Istituzione caritativa di provata efficienza e di vostra fiducia.  – Già vi abbiamo esortato ad usare tutti i mezzi per voi disponibili, la preghiera, la predicazione, la stampa, ma vogliamo essere i primi a rivolgerCi anche ai vostri fedeli, per pregarli « in visceribus Christi », a rispondere con generosa carità al vostro appello, fin d’ora facendo tutto quello che voi verrete mettendo nei cuori, dopo averli portati a conoscenza di questa Nostra lettera enciclica.  – Ma poiché tutti gli sforzi umani non bastano all’intento senza l’aiuto divino, innalziamo tutti fervide preci al Datore di ogni bene perché nella Sua infinita misericordia abbrevi il periodo della tribolazione, e anche a nome dei fratelli che soffrono ripetiamo più che mai intensa la preghiera che Gesù stesso Ci ha insegnato: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano ».  – Ricordino tutti, a loro incitamento e conforto, che il Redentore riterrà come fatto a se stesso quel che noi avremo fatto per i suoi poveri, e che, secondo un’altra sua consolante parola, aver cura dei bambini per amor suo è come aver cura della sua stessa persona.  – La festa infine che oggi la Chiesa celebra Ci fa ricordare, quasi a conclusione delle Nostre esortazioni, le commoventi parole di Gesù che dopo aver, secondo la frase di San Giovanni Crisostomo, innalzato mura inespugnabili a tutela delle anime dei bambini, soggiungeva: «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli poiché vi dico che i loro Angeli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli » .  – E saranno questi Angeli che nel Cielo presenteranno al Signore gli atti di carità compiuti da cuori generosi verso i bambini, ed essi pure otterranno, a tutti coloro che avranno preso a cuore una causa così santa, le più copiose benedizioni.  – Inoltre, avvicinandosi ormai l’annuale festa di Gesù Cristo Re, il cui regno e la cui pace abbiamo auspicato fin dagli inizi del Nostro Pontificato, Ci sembra grandemente opportuno che in preparazione di essa si tengano nelle varie chiese parrocchiali solenni tridui per implorare da Dio pensieri di pace e i suoi doni. In auspicio dei quali impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, e a tutti coloro che corrisponderanno al Nostro paterno appello l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 ottobre, festa dei Santi Angeli Custodi, dell’anno 1931, decimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la giustizia di Dio (Intr., Vang.) che si manifesta col trionfo di Gesù e l’invio dello Spirito Santo. « La destra del Signore ha operato grandi cose risuscitando Cristo da morte » (All.) e facendolo salire al cielo nel giorno dell’Ascensione. È bene per noi che Gesù lasci la terra, poiché dal cielo Egli manderà alla sua Chiesa lo Spirito di verità (Vang.), per eccellenza, che viene dal Padre dei lumi (Ep.). Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni verità (Vang., Off., Secr.), esso « ci annunzierà » quello che Gesù gli dirà e noi saremo salvi se ascolteremo questa parola di vita (Ep.). Lo Spirito Santo ci dirà le meraviglie che Dio ha operate per il Figlio (Intr., Off.) e questa testimonianza della splendida giustizia resa a Nostro Signore consolerà le anime nostre e ci sarà di sostegno in mezzo alle persecuzioni. Siccome, secondo quanto dice S. Giacomo, «la prova della nostra fede produce la pazienza e questa bandisce l’incostanza e rende le opere perfette », noi imiteremo in tal modo la pazienza del nostro Dio « e del Padre nostro », nel quale « non vi è né variazione né cambiamento » (Ep.), e « i nostri cuori saranno allora là dove si trovano le vere gioie » (Or.). Lo Spirito Santo convincerà inoltre satana e il mondo del peccato che hanno immesso mettendo a morte Gesù (Vang., Comm.) e continuando a perseguitarlo nella sua Chiesa.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXVII: 1-2

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus.

[Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod praecipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia.

[O Dio, che rendi di un sol volere gli animi dei fedeli: concedi ai tuoi popoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli. Jac. I: 17-21.

“Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA MANSUETUDINE

“Carissimi: Ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto vien dall’alto dal Padre dei lumi, nel quale non è variazione, né ombra di mutamento. Egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, ché siamo quali primizie delle sue creature. Voi lo sapete, fratelli miei dilettissimi. Che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira: poiché l’ira dell’uomo non opera ciò che è giusto davanti a Dio. Perciò rigettando ogni sozzura e sovrabbondanza di malizia, accogliete docilmente la parola inserita in voi, la quale può salvare le anime vostre”. (Giac. 1, 17-21).

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché  tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine. Parliamo appunto quest’oggi della mansuetudine, la quale

1. È l’opposto del falso zelo,

2. Non ha a che fare con l’ignavia.

3. È un apostolato efficace.

1.

Che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento al parlare, lento all’ira. Nelle dispute e nelle discussioni è molto facile l’accalorarsi, il risentirsi e, infine, l’ira. Coloro, ai quali si rivolge S. Giacomo, potevano dire che, trattandosi di discussioni sulla parola di Dio ad essi predicata, la loro ira era frutto di zelo. Non è difficile osservare che la loro ira, invece di edificare, distruggeva, perché contrariava le eventuali buone disposizioni dell’altra parte. Nessuna cosa è più raccomandabile dello zelo. Basterebbe ricordare la consolantissima promessa che leggiamo, un po’ più avanti, nella lettera di S. Giacomo: « Fratelli miei, se alcuno di voi abbia deviato dalla verità, e un altrove lo riconduce, sappia che egli ha ricondotto un peccatore dall’errore della sua via salverà l’anima sua dalla morte, e coprirà la moltitudine dei suoi peccati » (Giac. V, 20.). Ma non è encomiabile uno zelo incomposto, a base di sentimenti e di invettive fuori di luogo. Noi ammiriamo la grandezza dello zelo di S. Paolo. Restiamo come sbalorditi, considerando quanto egli ha operato per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime. Sentiamo, però, da lui stesso di che sorta era il suo zelo: «Mi son fatto debole coi deboli: mi faccio tutto a tutti, per fare a ogni costo alcuni salvi» (1 Cor. IX, 22). Non vuol imporsi senza necessità; non fa valere, senza bisogno, la sua superiorità, ma si adatta a tutti, pur di poter trarre anime a Dio. Anche il medico, quando può ottenere la guarigione con mezzi blandi, non ricorre ai mezzi forti. Questi li riserva per il caso di inutilità degli altri mezzi. Gesù ci ha detto tutta la grandezza del suo zelo in quelle parole: «Sono venuto a portar fuoco sulla terra, e che cosa desidero, se non che si accenda?» (Luc. XII, 49). Ma il suo zelo si esercita nella più perfetta mansuetudine. Il Profeta, parlando di Lui, aveva detto: «Egli non griderà e non sarà accettator di persone, né si udrà di fuori la sua voce. Egli non spezzerà la canna fessa, e non spegnerà il lucignolo che fuma…» (Is. XLII, 2-3). Ed infatti, egli mostra sempre e in tutto una mansuetudine inarrivabile. Con grande pazienza e carità avvicina i deboli, i vacillanti, e ravviva in loro la vita dello spirito, che sta per spegnersi. La sua mansuetudine risalta nelle contraddizioni, nelle derisioni, nelle contumelie, nelle insolenze, nelle minacce, nell’abbandono, nella negazione, nel tradimento. « Egli maledetto, non rispondeva con maledizioni, e, maltrattato, non minacciava ». Per non sbagliare quando esercitiamo lo zelo facciamoci questa domanda: Come farebbe Gesù Cristo, se fosse al mio posto?

2.

S. Giacomo dà la ragione del perché l’uomo deve lasciarsi dominare non dall’ira, ma dallo spirito di mansuetudine: poiché l’ira dell’uomo non opera ciò che è giusto davanti a Dio. Chi si lascia prendere dall’ira non può operare virtuosamente; anzi si metterebbe nella circostanza di trasgredire su molti punti la legge di Dio. Con l’animo tranquillo e sereno, invece, si è nella miglior disposizione per accogliere la parola di Dio, farla fruttificare e progredire così, di virtù in virtù. Stiamo attenti, però, a non scambiare la mansuetudine con l’ignavia, pericolo molto facile e assai comune, «Bisogna far attenzione — osserva in proposito il Crisostomo — che uno, avendo un vizio, non creda di possedere una virtù… che cosa è dunque la mansuetudine, che cosa è l’ignavia? Quando tacciamo, invece di prender le difese, se altri sono maltrattati, è ignavia; quando, al contrario, essendo maltrattati noi, sopportiamo, è mansuetudine » (In Act. Ap. Hom. 48, 3). Quando p. e. si commette il male alla nostra presenza, e noi, intervenendo, potremmo impedirlo, il tacere non è mansuetudine, ma ignavia. Un bel tacer non fu mai scritto, diciamo per scusarci. Verissimo; ma a suo tempo e a suo luogo, non qui. Quando i genitori, i superiori, i padroni chiudono gli occhi sulle mancanze dei figli e dei dipendenti; non cercano di porre un freno al loro malfare, non sono dei mansueti, ma dei cani muti. E spesso, la loro creduta mansuetudine è una vera cooperazione al male degli altri. La scusa non manca mai. Io ho un cuore troppo buono, ho un carattere mite. Ci sono di quelli che hanno un carattere austero e pensano di dover trattare con austerità: io, invece, preferisco vivere e lasciar vivere. Scuse che, ridotte al loro vero valore, vogliono dire: Non voglio noie; ho paura a fare il mio dovere; ci tengo ai privilegi del mio stato, ma non ne voglio i pesi. Costoro scambiano un atto di debolezza con una virtù che richiede dell’eroismo. «La mansuetudine — dice ancora il Crisostomo — è indizio di grande fortezza; essa richiede un animo generoso e virile». Di fatti, si tratta di vincere noi stessi, cosa assai più difficile che vincere gli altri. I genitori non devono provocare i figli all’ira, trattandoli con durezza o con soverchio rigore; sarebbe uno sbaglio. Ma sarebbe uno sbaglio ancor peggiore non ammonirli, e, quando è il caso, non castigarli. I superiori devono trattare con benevolenza i loro dipendenti e soggetti; ma quando si tratta di preservare i buoni dal contagio e dallo scandalo, è santo e lodevole il rigore, è giusta la punizione. Nessuno oserebbe condannare il pastore che percuote il lupo per salvare le pecore. Quando si tratta di por fine all’ingiustizia degli uni, e di mettere al riparo dai soprusi gli altri, nessun superiore sarà criticato, se prende delle misure severe; e, nessuno potrebbe, ragionevolmente, fargli appunto di mancanza di mansuetudine. L’Apostolo che era tanto mansueto da poter dire: « Maledetti, noi benediciamo; perseguitati, sopportiamo: ingiuriati, supplichiamo» (1 Cor. IV, 12-13); quando a Corinto un Cristiano dà un gravissimo scandalo pubblico, non solo, per mezzo della scomunica, separa il peccatore dalla Chiesa; ma lo sottopone al dominio di satana, perché lo tormenti nel corpo con malattie e dolori, che servano ad indurlo al pentimento. Gesù Cristo, che si presenta a noi come modello di mansuetudine; non ha mancato di usare parole roventi contro gli scandalosi, contro i Farisei, contro i profanatori del tempio. In certi casi è nostro dovere usare del rigore, e allora, «beato chi sa unire insieme la severità e la mansuetudine» (S. Ambrogio. Epist. 74, 10).

3.

Accogliete docilmente la parola inserita in voi, la quale può salvare le anime vostre. Come la superbia è di ostacolo a ricevere con frutto la parola di Dio, similmente, come abbiamo già osservato, la mansuetudine è condizione favorevole ad accoglierla e a farla fruttificare. Ora vogliamo far notare che non solo la mansuetudine cristiana è ottima disposizione ad accogliere e a far fruttificare per la vita eterna la parola di Dio in noi; ma è un’ottima condizione a farla ricevere con frutto dagli altri. Generalmente, l’uomo che non si inquieta per un affronto, che non si scoraggia per una ripulsa, che non si turba per un’ingiuria, esercita molta forza sopra i suoi oppositori. Se è costante, riesce a vincerli e a dominarli. E questo avviene nel mondo, dove il comportamento mansueto è effetto di temperamento, più spesso di calcolo, non raramente di propositi malvagi. Più efficace deve, necessariamente, riuscire un contegno mansueto, quando è ispirato dalla fede. Chi è assuefatto a dominare il proprio cuore con la vittoria sulle passioni, trova la via a dominare il cuore degli altri. Gli Apostoli, cresciuti alla scuola di Gesù Cristo, compivano la missione loro affidata tra numerosi contrasti e difficoltà; ma senza che si potesse scorgere in essi un’ombra di amarezza, di risentimento, di collera. I loro successori, che vanno a portar la luce del Vangelo tra le nazioni che vivono nell’ignoranza e nell’errore, cominciano a guadagnar gli animi, magari dopo anni e anni, quando hanno dato una prova costante del loro animo mite e mansueto. Accolti male, osservati con diffidenza, importunati, angariati in mille modi, si mostrano sempre uguali a se stessi. Non parole aspre, non inquietudini, non ripicchi. A questo modo si comincia a vincere la diffidenza degli abitanti e le loro prevenzioni, e si finisce con edificarli mediante l’esercizio delle altre virtù. Allora la via delle conversioni è aperta. Gesù Cristo ha detto: «Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra (Matt. V, 4). I banditori del Vangelo son riusciti a farlo trionfare in tutte le parti della terra, con l’arma della mansuetudine. Anche nella nostra vita quotidiana, nel piccolo cerchio dei parenti, degli amici, dei compagni, in circostanze diverse, possiamo esercitare un apostolato salutare con un contegno mansueto. Un giovanotto si reca un giorno, a Milano, dalla Venerabile Maddalena di Canossa a chiederle, con minacce, ove si trovava una giovane, che, per sfuggire alle sue insidie, si era rifugiata presso la santa fondatrice. Maddalena risponde che dal suo labbro non l’avrebbe saputo mai. Allora il giovanotto, estratta una pistola, l’accosta alle tempia di Maddalena. Ma essa, con tranquillo sorriso, gli disse: «Oh, povero giovane! Quanto mi fate pietà!… Orsù, date a me quell’arma, ed io ne farò assai miglior uso». Il giovane, commosso e meravigliato della calma imperturbabile della Madre, piega il capo e le consegna l’arma, e s’avvia confuso alla porta. Maddalena lo accompagna, e gli dà una medaglietta d’argento come pegno di gratitudine per la visita che le aveva fatto. Qualche tempo dopo, un rispettabile Sacerdote viene dalla Madre a raccontarle il pentimento del giovane. La fondatrice le consegna l’arma pregandolo di appenderla a un Santuario dell’Addolorata (L’angelo di Canossa. Pavia 1922, p. 60-62). Proprio vero che « nulla è più forte della mansuetudine » (S. Giov. Crisostomo. In Gen. Hom. 58, 5). Quante volte abbiamo lasciato passare la circostanza di far del bene a qualche anima con la nostra dolcezza, e forse di ricondurla a Dio! Quel che non abbiam fatto per il passato, lo faremo per l’avvenire. Vogliamo usare del rigore? Usiamolo con noi. «Poiché, che cosa v’ha di più giusto, che ciascuno si adiri dei propri peccati, anziché dei peccati degli altri?» (S. Agostino. En. in Ps. IV, 7).

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXVII: 16. Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja

[La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]

Rom VI: 9 Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja.

[Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

 “In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Ora vo a Colui che mi ha mandato; e nissun di voi mi domanda: Dove vai tu? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha ripieno il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: È spediente per voi che io men vada: perché, se io non me ne vo, non verrà a voi il Paracleto; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E venuto ch’egli sia, sarà convinto il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia, perché io vo al Padre, e già non mi vedrete: riguardo al giudizio poi, perché il principe di questo mondo è già stato giudicato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma non ne siete capaci adesso. Ma venuto che sia quello Spirito di verità, v’insegnerà tutte le verità: imperocché non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annunzierà quello che ha da essere. Egli mi glorificherà, perché riceverà del mio, e ve lo annunzierà. Tutto quello che ha il Padre, è mio. Per questo ho detto che egli riceverà del mio, e ve lo annunzierà” (Jo. XVI, 5-15).

Omelia II

 [M. J. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Sulla falsa coscienza.

“Cum venerit Spiritus veritatis, docebit vosomnem veritatem”. Jo. XVI.

Benché Gesù-Cristo nel corso di sua vita mortale e dopo la sua risurrezione avesse istruiti gli Apostoli nelle verità del regno di Dio, nulladimeno non erano ancora forniti di tutti quei lumi che loro erano necessari per fondare quella religione, che per comando del loro divin maestro annunziare dovevano a tutte le nazioni. Attaccati troppo sensibilmente alla corporea presenza di Gesù-Cristo, erano pieni ancora d’idee troppo materiali, e solo imperfettamente conoscevano i misteri che loro erano rivelati; onde era espediente, come disse loro Gesù-Cristo, che Egli si separasse da essi, affinché fossero più atti a ricevere lo Spirito Santo, che doveva perfezionare la loro fede. Egli è ben vero che Gesù-Cristo poteva da se stesso dar loro tutti i lumi e la forza necessaria per la grande opera della conversione del mondo; ma voleva lasciare allo Spirito Santo la perfezione di quest’opera, e nondimeno n’era sempre Egli fautore, giacché a suo nome era mandato lo Spirito Santo, che doveva insegnare agli uomini tutte le verità di cui abbisognavano. – E perciò, sceso che fu lo Spirito Santo sopra gli Apostoli, essi furono dalla più viva luce illuminati, e tutte le verità conobbero che al mondo tutto dovevano predicare: animati da una forza veramente divina, ebbero il coraggio di confermare queste verità a costo ancora della lor vita. – Predicarono difatti gli Apostoli quelle verità che loro lo Spirito Santo aveva insegnate, e purgarono il mondo dagli errori, ne sbandirono l’idolatria e ne riformarono i costumi. Invece della menzogna e della corruzione che regnavano sulla terra, fondarono una religione tutta santa, una morale tutta pura e un culto tutto divino. Noi abbiamo ricevuto, fratelli miei, per mezzo degli Apostoli questa santa Religione, questa pura dottrina; ma se la religione si è tra di noi serbata illesa, quanto mai si è depravata questa morale nel cuor degli uomini! Ora l’unica cagione di questo disordine si è la falsa coscienza che si fecero e si fanno gli uomini circa le verità della morale. – Lo Spirito Santo ha insegnato ed insegna tuttora la strada della verità; ma gli uomini accecati dalle passioni chiudono gli occhi a questa verità e la sottopongono al loro falso giudizio, alle loro inclinazioni perverse; e preferiscono le tenebre d’una falsa coscienza, di cui debbo oggi scoprirvi i principi, e i rimedi additarvi per rettificarla. Dio voglia che lo Spirito Santo, sorgente d’ogni verità, riformi oggi queste coscienze sregolate, false e perverse. – Quali sono dunque i principi di una falsa coscienza? questione importantissima. Io la tratterò nel primo punto. Quali ne sono i rimedi? Istruzione necessaria! Io ve la darò nel secondo punto.

I. Punto. V’è una strada, dice lo Spirito Santo, che all’uomo sembra diritta, ma conduce alla morte. Est via quæ videtur homini recta, et novissima eius ducunt ad mortem (Prov. XVI). Qual è, fratelli miei, questa strada? Ella è la falsa coscienza, cioè la coscienza che non è secondo Dio, che non è conforme alla legge di Dio: imperciocché la coscienza, che è la scienza del cuore, al dire di s. Tommaso, è un lume interno che ci addita il bene da praticare ed il male che dobbiamo fuggire in quella tale circostanza, in quella tale occasione in cui ci troviamo. Questa coscienza è come un’applicazione che ognun fa a se stesso della legge di Dio, per sapere ciò che da questa divina legge è vietato o ciò che è permesso. – Quest’applicazione deve dunque essere giusta e fatta con discernimento e prudenza: imperciocché se la coscienza prende il falso per vero e ci insegna cose diverse da quelle che sono dalla legge di Dio prescritte, allora seguendosi il dettame di questa sregolata coscienza, ci scostiamo dalla regola principale, alla quale dobbiamo uniformare tutte le nostre azioni, che è la volontà di Dio. Quindi ne viene in conseguenza che quantunque non sia lecito di operare contro la propria coscienza, perché ciò che non è secondo la coscienza è peccato, come dice s. Paolo, quod non est ex fide, peccatum est (Rom. XIV), non si può nulladimeno seguitare ogni sorta di coscienza, perché vi sono coscienze false, coscienze perverse, che rendono viziose quelle azioni che da esse procedono. Queste sono guide cieche, le quali menano al precipizio coloro che da esse si lascian condurre. Di questa falsa coscienza appunto convien che io vi faccia conoscere i principi, affinché ne possiate schivare i pericoli e gli scogli. – Ora, gli ordinari principi della falsa coscienza sono l’errore, le passioni e l’usanza: errore di spirito, passioni del cuore, usanza del mondo, ecco ciò che pervertisce la maggior parte degli uomini. Egli è ben vero che, qualunque precauzione l’uomo prenda per conformare le sue azioni alla legge di Dio, può cadere in qualche errore di coscienza che gli faccia prendere il falso per vero; siccome l’uomo non è infallibile nel suo ragionare, può talvolta ingannarsi e credere permessa una cosa che difatti è vietata: ma se egli è mosso da buona volontà, se è pura e retta la sua intenzione, se prende tutte le precauzioni che la prudenza gli detta per bene operare, non essendo volontario il suo errore, non gli sarà ascritto a peccato. Questo è un principio certo e sicuro e ben valevole a recare consolazione a quelle persone d’inquieta e scrupolosa coscienza che desidererebbero di accertarsi con prove evidenti della rettitudine delle loro azioni e del buon stato dell’anima loro: esse s’inquietano e si tormentano senza necessità a fare inutili ricerche, le quali ad altro non servono che a sviarli dalla strada della salute. Imparino queste persone dal grande Apostolo ad essere sagge con sobrietà, che per questo basta avere una certezza morale della bontà d’un’azione, cioè di operare per un motivo valevole a determinare una persona prudente: io le rimando agli avvisi d’un saggio e prudente direttore, al quale debbono, per tutto ciò che riguarda la salute, un’intera sommissione. – Ma se si trovano persone di coscienza scrupolosa, delle quali si debbono raddolcir le pene, molte più sono quelle ne hanno una coscienza rilassata, a cui si deve incuter timore: coscienza larga che proviene da un errore in cui si cade volontariamente, da ignoranza e da falsi principi che ciascun si forma a suo piacere e secondo le sue inclinazioni perverse: larga e falsa coscienza ch’è in certa maniera cagione sì dei disordini che regnano nel mondo come della depravazione del cuore dell’uomo. – Si trovano peccatori, per dir vero, che offendono Dio per pura malizia e contro tutti i lumi e rimorsi della loro coscienza; che altro motivo non hanno del loro peccato, fuorché il piacere che provano nel contentare le loro passioni; che non dissimulano a se stessi né altrui i propri delitti; che se li rimproverano eziandio; in una parola, che peccano con tutta la conoscenza e pienezza di volontà che costituisce la malizia del peccato. Ma in quanto maggior numero sono coloro i quali per mezzo di una falsa coscienza si fanno lecite molte cose che veramente non lo sono, e trasgrediscono in mille occasioni la legge del Signore, sotto vani pretesti che una mal fidata coscienza non lascia mai di loro suggerire! Imperciocché pochi sono quei peccatori che non cerchino di difendere i loro disordini con qualche ragione che calmi i rimorsi della coscienza: essi non vorrebbero andare direttamente contro la volontà di Dio, ma vogliono affettatamente ignorarla per fare con maggiore tranquillità ciò che ella proibisce: non vogliono instruirsi sui loro doveri, perché non vogliono adempierli: Noluit intelligere, ut bene ageret (Ps. XXXV). Tali sono coloro che non intervengono alle istruzioni o che non vogliono applicare a se stessi le verità che vi ascoltano. – Altri confessano bensì esservi la legge obbligatoria, ne sono informati, ma vi portano mille modificazioni per esentarsene, le danno false interpretazioni, cercano di raddolcirla per poter essere tranquilli nelle loro prevaricazioni, ricorrono a certi princìpi sui quali si credono bene appoggiati per operare diversamente da ciò che viene dalla legge permesso; vorrebbero ubbidire a Dio, ma non vorrebbero contrariare le loro passioni. Quindi ne viene ch’essi non vogliono dilucidare certi dubbi ben fondati, per tema di dover adempiere una obbligazione che sarebbe contraria alla loro libertà, o fare qualche restituzione che l’incomoderebbe. In questi dubbi si determinano piuttosto a favore della libertà che della legge, e ciò spesso per sì deboli ragioni che ad esse non si affiderebbero in ogni altro affare che la salute non riguardasse, mentre chiudono gli occhi alle forti ragioni d’un sentimento ch’è più sicuro e migliore. E perciò vanno in cerca eziandio di facili direttori e benigni, che in pregiudizio della legge divina decidono sempre a favore delle passioni. Imperciocché si è la coscienza, fratelli miei, che genera tanti errori in materia di morale, nella stessa guisa che ella è degli errori circa la fede sorgente e cagione. Alcuno non cercherebbe tanto ad ingannarsi, ad accecarsi con falsi ragionamenti, se il cuore non fosse dalla passione predominato. Ma tosto che la passione viene ad impadronirsi del cuore, si decide sempre a favore di essa; si reputa giusto e ragionevole tutto ciò che le piace, dice s. Agostino: allora è forza che la retta coscienza ceda alla passione, non v’ha ragione, non v’ha pretesto che non si trovi per autorizzare i vizi e premunirsi contro le minacce della legge. Che cosa fece trovar pretesti ai Giudei per condannar Gesù Cristo, se non la passione? Una pretesa trasgressione della legge di Mosè di cui l’accusavano, ecco ciò che gli autorizzava a domandar la sua morte: ma la sola passione dirigeva le loro azioni. Così veggiam tutto il giorno che la passione dell’invidia e della vendetta sotto l’apparenza di zelo cerca di rovinare un nemico; perché 1’uomo facilmente si persuade di non cercar che la gloria di Dio nel castigare l’altrui colpa, mentre a perdere il colpevole unicamente rimira. Evvi alcuno appassionato per i piaceri? Egli risguarda come innocenti tutti quelli a cui si dà in preda. Quindi troppo indulgente verso di sé medesimo, per tema d’incomodarsi non si fa scrupolo della vita molle e voluttuosa che mena. Quindi trasgredisce di leggere le leggi della Chiesa, dalle quali si crede immune; per un minimo pretesto si dispensa dal digiuno, non osserva l’astinenza della quaresima per non logorare la sua sanità, mentre fa tante altre cose ben più valevoli ad alterarla. Similmente se la passione giunge a predominare nel cuore, quante false coscienze non produce ella mai? Ella acceca l’avaro a tale che il suo smisurato affetto ai beni di questo mondo vien da lui trattato per accorta prudenza e saggio prevedimento dell’avvenire. Oh quanti ricchi sono insensibili alla miseria de’ poveri; perché, dalla falsa coscienza ingannati, si persuadono essere tutto allo stato loro necessario quanto posseggono. A questa insensibilità va non di rado compagna l’ingiustizia: imperciocché spesso si usurpano i beni del vicino; e perché questi non è in istato di supplire alle spese d’una ingiusta lite e di difendersi, una forzata convenzione viene creduta un legittimo titolo per impadronirsi degli averi del povero, della vedova e del pupillo. Quanti usurpatori dell’altrui si credono dall’obbligo esenti della restituzione, perché questa, per quanto vogliono immaginarsi impoverirebbe la casa, ne sconcerterebbe gli affari e macchierebbe l’onore. Altro falso pretesto d’una sregolata coscienza. – Oh quanti si accecano in questo punto e non vogliono vedere i torti che fanno altrui! Essi sono ingegnosi a palliare con mendicati pretesti le loro usure, le loro ingiustizie, mentre hanno occhi perspicacissimi per vedere i torti che ricevono, e nel difendere i propri diritti sono diligentissimi. Ma di tal fatta è il disordine di cui è cagione una falsa coscienza che agevolmente ciò perdona l’uomo a se stesso che in altri non sa tollerare: vede una pagliuzza nell’occhio altrui, e nel proprio una trave non sente. Donde proviene questo disordine? Dalla passione che appicca l’uomo a tal segno che lecito crede tutto ciò ch’è conforme ai suoi desideri. Ma quanto maggiori sono i falli in cui ci fa cadere la falsa coscienza quando è dal costume sostenuta! Noi siamo obbligati a vivere nel mondo, e perciò dobbiamo conformarci alle usanze del mondo: la società vuol che si eviti ogni singolarità, e perché non potremo noi fare ciò che gli altri fanno? Non sono essi al par di noi interessati nell’affare della salute? Essi temono di perdere l’anima loro e hanno desiderio di salvarla egualmente che noi: possiamo dunque vivere con essi senza timore. Noi veggiamo non poche persone di regolata vita ed irreprensibile che si conformano all’usanza: e non sarebbe ella un’ardita imprudenza il condannarle? E perché dunque non potremo imitarle? Tali sono, fratelli miei, le perniciose massime che l’usanza somministra alla falsa coscienza e sulle quali questa s’appoggia. Da questi perversi principi nascono per la maggior parte gli abusi che regnar vediamo fra i Cristiani. Perciò è che non si fanno scrupolo di passare il tempo nell’ozio, nel giuoco, negli spettacoli, nei divertimenti, perché a tanti altri li vedono fare. Perciò regna la sontuosità nei banchetti, il lusso nel vestire, nelle mode l’immodestia e negli arredi la magnificenza: ciò tutto è necessario, dicono essi, per sostenere con decoro il proprio grado: tale è la costumanza, il mondo lo vuole, e ridicolo sarebbe altamente riputato chi diversamente operasse. E finalmente ci comanda forse Iddio che noi ci facciamo schernire dal mondo e ci rendiamo l’oggetto dei motteggi e delle risa altrui? L’umana società, che da Dio è stata stabilita, ha le sue regole che noi dobbiamo seguitare; dunque non è cosa biasimevole il conformarvisi, e possiamo in sicura coscienza vivere come gli altri, purché gli eccessi e i disordini si evitino ai quali si abbandonano coloro che vivono senza religione; purché non facciamo torto ad alcuno e ci serviamo onestamente di ciò che possediamo, che si richiede di più? Egli sarebbe impossibile a salvarsi nelle condizioni del mondo se si dovesse menar vita da’ solitari e lontani dalle adunanze, passarla nella mortificazione e nella preghiera. Iddio comanda forse cose impossibili? A che dunque renderci impraticabile e troppo stretta la via del cielo con l’imporci un giogo che portare non possiamo? Così ragiona la falsa coscienza di molti che credono in sicuro la loro salute, affidati a qualche virtù morale da essi praticata e ad una vita esente bensì da vizi enormi cui la ragione riprova, ma priva di quelle buone opere che sono dalla religione prescritte. Falsi principi, ch’io spero di distruggere nel secondo punto, ove i rimedi additerò per riformare la coscienza. Altre persone si trovano che fanno, per dir vero, certe opere di divozione dalla maggior parte degli uomini non praticate; che sono scrupolosamente diligenti nella recita di certe preci e nell’osservanza di certi esercizi di pietà ordinati dalle regole della compagnia a cui sono ascritti; ma che alcuna cura non mettono per riformare il loro cuore: somiglianti ai farisei, che si stimavano persone molto dabbene perché osservavano esteriormente certe cerimonie dalla legge prescritte, mentre avevano il cuore d’ogni vizio ripieno e d’ogni iniquità. Questi Cristiani si credono di avere un sicuro diritto al cielo a cagione di queste pratiche di divozione che loro vanno a genio, mentre nutriscono in sé l’odio contro del prossimo e lasciano in pungenti motteggi trascorrere la lingua ed in atroci calunnie. Sperano di salvarsi con qualche limosina, mentre non vogliono svellere dal cuore l’oggetto della loro passione. Altri di propria capricciosa scelta in qualche cosa si mortificheranno, ed allorché ciò vien dalla Chiesa ordinato trascureranno di farlo. Altri celebrano feste di divozione e profanano quelle che sono comandate. False coscienze che menano alla perdizione coloro che vogliono seguirle: e per riformarle si dovranno mettere in pratica i rimedi che ora sono per insegnarvi.

II. Punto. Giacché l’errore, le passioni, il costume sono i principi della falsa coscienza, oppongasi il lume di una coscienza retta e bene istruita; alle passioni un sincero desiderio di piacere a Dio e di osservare la sua santa legge; al costume, l’esempio delle persone dabbene e dei santi. Ecco le regole che debbono dirigere la coscienza, e i rimedi che adoperar si debbono per le coscienze erronee. Rinnovate la vostra attenzione. – La coscienza è, per dir così, l’occhio dell’anima nostra, perché ci fa vedere il bene che dobbiamo fare e il male che dobbiamo fuggire. Se l’occhio del corpo è puro, dice Gesù-Cristo, tutto il corpo sarà illuminato; ma se l’occhio è tenebroso, tale eziandio sarà il corpo. Convien dunque, o fratelli, per evitare gli errori d’una falsa coscienza, cercare la luce che diriga i vostri passi nella via della salute. Bisogna che, secondo l’avviso dello Spirito Santo, ad ogni vostra azione preceda la verità e il consiglio della prudenza: Ante omnia opera tua verbum verax præcedat te, et omnem actum consilium stabile (Eccli. XXXVII). Ciò chiedere dobbiamo a Dio ad esempio del reale profeta. Additatemi, Signore, quali sono le vostre vie ed insegnatemi a fare la vostra volontà: Vias tuas demonstra mihi, et semitas tuas edoce me (Ps. XLIV). Il timore ch’io ho d’ingannarmi nella strada che debbo tenere mi fa ricorrere a Voi: degnatevi, o Signore, di essere la mia guida, affinché io cammini sicuro in mezzo a’ pericoli che mi circondano: Cum ignoremus quid agere debeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te (2 Par. XX). Dopo di esservi indirizzati, fratelli miei, al padre dei lumi, dal quale ci viene ogni dono perfetto, come dice l’Apostolo san Giacomo, voi dovete consultare la vostra fede, consultare il Vangelo. Imperciocché queste sono le regole che debbono dirigere la vostra coscienza. Che vi dice la fede? Che vi dice il Vangelo? Sovvengavi delle sue massime in ogni occasione in cui si tratta di deliberare su di ciò che avrete a fare. Seguitando, queste regole, siete sicuri di non errare, di non confondere il vero col falso, il bene col male. Una coscienza erronea vi dice, per esempio, che sotto certi pretesti voi potete conversare con quella persona a voi utile e cara, che per altro è a voi occasione di peccato, ma il Vangelo vi dice che sebbene l’occasione di peccato vi fosse cara egualmente e vantaggiosa che l’occhio, il piede, la mano, bisogna cavare questo occhio, recidere il piede e la mano affinché a voi non sia cagione di scandalo; la passione dell’interesse vi dice che potete accumular beni con certi mezzi che vi sembrano leciti, ma che sono dalla legge vietati: per reprimere questa cupidigia, riflettete a ciò che dice il Vangelo sui beni del mondo, sull’amor delle ricchezze: Beati i poveri: beati pauperes (Matt. V). Guai ai ricchi, perché sono nella via della perdizione: Væ vobis divitibus (Luc. VI). La passione della vendetta vi dice, che il vostro onore esige che voi prendiate soddisfazione dell’insulto che un nemico vi ha fatto: ma ben diversamente vi parla il Vangelo, il quale vi dice che convien perdonare e rendere ben per male. Chi dovete voi ascoltare? chi dovete seguire? Se voi andate dietro la passione, questa cieca scorta vi condurrà al precipizio ma se voi seguitate il Vangelo, se consultate la legge di Dio, questa luce dirigerà i vostri passi e vi condurrà al porto di salute. Questa era la guida che il reale profeta aveva scelta, e alla quale faceva ricorso per dissipare i suoi dubbi e la sue incertezze, per essere sicuro della rettitudine delle sue operazioni: Lucerna pedibus meis verbum tuum, et lumen semitis meis (Psal. CXVIII). Seguite fedelmente questa guida e non ve ne dipartite giammai. A tal fine è necessario che voi le sacrifichiate i lumi del vostro intelletto e, diffidando di voi medesimi, non vi appoggiate sulla vostra prudenza: ne imitaris prudentiæ tuæ (Prov. III) Corre rischia di errare chi non ha altra guida che se stesso; perché nella propria causa facilmente si accieca, ed ognun naturalmente pensa e ragiona secondo la propria inclinazione. Ora i nostri desideri, le nostre passioni portar ci sogliono più sovente al male che al bene. Egli è dunque necessario di aver ricorso ad una scorta più sicura del nostro intendimento. La fede, il Vangelo, ecco le fiaccole che debbono illuminarci e che abbiamo a seguire. Siccome noi possiamo ingannarci, eziandio nell’applicare a noi stessi le massime che questa fede c’insegna, ella è cosi ben fatta consultare persone sagge e istruite nelle vie del Signore, animate dallo spirito di Dio, che non cerchino che la gloria di Lui e la salute delle anime, e non cercar direttori, che lusinghino le passioni, e mettano le coscienze in una falsa tranquillità funesta, i quali, secondo il linguaggio della Scrittura, mettono cuscini sotto i gomiti del peccatore, conducendolo per la via larga che va a finire nella perdizione. – Non vi fidate, fratelli miei, a questi falsi profeti, non cercate, per condurvi nella via della salute, quelle persone che accomodandosi alle vostre perverse inclinazioni, vi danno le decisioni secondo i vostri desideri e i vostri interessi. Ma cercate quelle che abbiano il coraggio di dirvi la verità e non vi lusinghino nei vostri vizi e vi parlino schiettamente. Se la loro dottrina non sarà per qualche tempo secondo il vostro gusto, un giorno sarete loro obbligati d’avervi condotto per una strada sicura. Aprite loro il vostro interno con tutta schiettezza e senza punto dissimulare: qualunque fallo abbiate commesso, dichiaratelo ingenuamente al vostro direttore ordinario; e non cangiate ad ogni tratto, come certe persone che passano la vita nel cercare una guida e non sanno a quale attenersi, perché loro non riesce d’incontrar direttori che, accomodandosi ai loro sentimenti, siano di lor genio. Allorché ne avrete trovato uno di cui abbiate sperimentati salutevoli gli avvisi, seguitelo fedelmente, ubbiditegli puntualmente, perché risguardar lo dovete come un inviato da Dio che vi manifesta la di Lui volontà. – Prese che abbiate tutte queste precauzione per formar la vostra coscienza secondo le massime delle fede e della prudenza, attendete seriamente a praticar il bene ch’essa vi detterà per vostra salute; imperciocché nella buona volontà principalmente e nell’osservanza della legge di Dio consiste la buona coscienza. Può bensì l’intelletto cadere nell’errore, ma se questo non è volontario, Iddio non lo ascriverà a peccato: per lo contrario vi è sempre colpa se è perversa la volontà, per quanto di belle cognizioni sia arricchita la mente. Fate dunque una ferma risoluzione e sincera di osservare la legge di Dio e sacrificarla tutti i vostri interessi e piaceri: e se sarete in queste disposizioni, conformerete la coscienza alla legge di Dio, non già la legge di Dio alla vostra coscienza: voi vi asterrete, secondo l’avviso dell’Apostolo, da tutto ciò che avrà la menoma apparenza di male: Ab omni specie mali abslinete vos (1 Thesshal. V.). Voi terrete sempre il partito della legge di Dio contro la vostra libertà nelle cose che dubiterete se lecite siano oppur vietate. Giacché io ho motivo di credere (direte tra voi medesimi) che Dio proibisce quest’azione, voglio piuttosto tralasciarla che espormi al pericolo di trasgredir la sua legge e mettere in rischio la mia salute. Imperciocché non dovete voi, fratelli miei, tenere la stessa prudente condotta sull’affare della salute che tenete per la sanità del corpo e negli affari terreni? Ora, di due mezzi che adoperar potete pel buon esito d’un affare, de’ quali uno è certo e l’altro dubbioso, non preferite voi il sicuro all’incerto? Di due rimedi che vi sono offerti per guarirvi da una malattia, uno dei quali sapete che vi darà la sanità, e l’altro per avventura la morte, siete voi forse irresoluti nel prendere piuttosto il primo che il secondo? E non dovrete voi nella stessa maniera nell’affare dell’eternità prendere il più sicuro partito? Imperciocché si può egli mai prendere troppe precauzioni quando si tratta d’una eterna felicità o di una eterna miseria? Nulla satis magna securitas ubi periclitatur æternitas. Ah quanto è valevole il pensiero dell’eternità a farci risolvere a favor della legge di Dio piuttosto che delle passioni! Avvi forse alcun piacere che non si debba sacrificare quando si considera che questo piacere, questo interesse ci sarà cagione di eterni tormenti? Fortificatevi, fratelli miei, con questo pensiero quando le passioni si troveranno in contrasto con la legge di Dio, quando si tratterà di risolvere mentre sarete in dubbio se sia lecito un’azione o proibita. Operate come se subito dopo doveste morire, come se doveste allora allora comparire al giudizio di Dio. Ah! Come vorreste allora aver fatto? Como vorreste esservi diportati? Operate adesso e diportatevi come vorreste in quel punto aver fatto, e tutti i vani barlumi d’una falsa coscienza svaniranno: prenderete certamente il partito sicuro; ubbidirete a Dio, farete la sua santa volontà, eviterete l’ombra stessa del peccato. Lungi dall’usurpare o ritenere l’altrui direte come Zaccheo, che se si trova in vostre mani qualche cosa che non vi appartenga, volete restituire il quadruplo: Si quem defraudavi, reddo quadruplum (Luc. XIX). Lungi dal frequentar quella persona ch’è cagione di vostra rovina, non le darete nemmeno uno sguardo. invece di quella vita molle e priva di buone opere della quale non vi fate scrupolo alcuno, abbraccerete la penitenza, la mortificazione, gli esercizi della vita cristiana: invece di andar dietro al torrente del costume su cui tanto temerariamente vi appoggiavate per calmare i rimorsi della coscienza, imiterete le persone dabbene e prenderete i santi per modello della vostra condotta; imperciocché questo è il rimedio di cui dovete servirvi per preservarvi dalla contagione delle usanze del mondo. Infatti se l’usanza conduce alla rilassatezza, perché si crede di poter fare senza scrupolo ciò che gli altri fanno, i buoni esempi ravvivano il fervore, facendoci vedere ciò che è d’uopo di fare. Ora mirate, fratelli miei, ciò che han fatto i santi, e le virtù che hanno praticato. Erano essi forse di voi più interessati a far il bene che fecero? E non dovete voi egualmente temere se fate il male da cui si guardarono? Voi sperate la stessa ricompensa e dovete prendere le stesse precauzioni per meritarla: avete a temere gli stessi castighi e dovete usar la stessa diligenza per evitarli. Essi camminarono per la stretta via perché sapevano essere quella che Gesù Cristo additò per giungere al cielo. Prender non vollero la strada spaziosa perché alla perdizione conduce. Guardatevi dunque di entrar in questa via, ma scegliete la stretta, come fu scelta da loro, e non vi crediate di poter fare certe azioni sul fallace pretesto che gli altri le fanno. Non allegate l’usanza per vostra difesa, ma conchiudete piuttosto non doversi fare appunto perché gli altri le fanno e perché tale è l’usanza: e vivete come il piccol numero perché il più piccolo numero sarà quel degli eletti. – Prendete ad imitare quelle anime sante e fervorose che fuggono con diligenza tutto ciò che può offendere la delicatezza della loro coscienza, che si allontanano dalle compagnie pericolose, dai giuochi, dagli spettacoli, che sono assidue alle preghiere, agli esercizi di divozione, caritatevoli verso il prossimo, esemplari nei loro discorsi, sobri, casti, modesti, mortificati e riserbati in tutta la loro condotta. Ecco le regole di coscienza che si possono seguire senza timore, e non già i perniciosi esempi di quelle persone rilassate che vivono secondo l’usanza e non sanno che cosa sia preghiera, frequenza di sacramenti, santificazione delle feste, licenziosi nei loro discorsi, che altro non cercano fuorché i piaceri, i divertimenti del mondo, e si conformano alle sue massime ed alle sue usanze. Ricordatevi che il mondo è stato riprovato da Gesù Cristo. Dunque il mondo e le sue usanze non sono una regola buona a seguire, ma quelle a cui dovete attenervi si è il Vangelo, si è l’esempio di Gesù-Cristo e dei Santi. Seguendo queste regole, sarete sicuri di non errare, e la vostra coscienza formata su tali esemplari sarà per voi una sorgente di consolazione e di gaudio il più puro e verace che si possa provar sulla terra. Quantunque afflitti dalle malattie o da sinistri accidenti, sarete felici, anche in mezzo alle disgrazie, se la vostra coscienza è ben regolata e tranquilla, se vi dice che siete in istato di grazia ed amico di Dio. – Non v’ha piacer sulla terra che possa paragonarsi a quello che ci dà una buona coscienza; egli è un paradiso anticipato che portiamo con noi. Per lo contrario una coscienza sregolata è una specie d’inferno che si prova vivendo. Qualunque bene possegga, di qualunque piacere gioisca d’altra parte non sarà mai contento colui la cui coscienza è in stato cattivo: ella è un carnefice che dappertutto lo segue per tormentarlo: Non fugit se ipsam mala conscientia (s. Aug.). Egli ha bel fare per allontanarne i rimproveri, calmarne i rimorsi, essa glieli fa sentire in ogni luogo; in ogni luogo ella dice al peccatore: ah sciagurato! tu sei in stato di dannazione se la morte ti coglie, eccoti perduto per sempre. – Fortunato ancora il peccatore che ascolta i rimorsi della coscienza, che non è insensibile alla sua voce, la quale lo stimola ad uscir dallo stato di peccato. Considerate in che stato siete al presente e ascoltate ciò che la coscienza vi dice. Se ella vi fa qualche rimprovero, calmatela quanto prima riconciliandovi con Dio mediante una penitenza sincera: s’ella è tranquilla, conservatevi in questo stato e operate sempre secondo che vi sarà dalla pura e retta coscienza ispirato.

Pratiche. Per render pura e retta la vostra coscienza, in ogni vostra azione sovvengavi di questa massima: non si può prendere troppa precauzione allorché si tratta dell’eternità: nulla satis magna securitas ubi periclitatur æternitas. Operate come vorreste aver fatto al punto di morte. Esaminate spesso e principalmente prima di confessarvi, esaminate se la vostra vita è conforme a quella che mena la maggior parte degli uomini: voi dovete temere se pensate, parlate ed operate come la maggior parte, e infallibilmente perirete col maggior numero se non vi separate da essi. Attenetevi alla legge di Dio, alle massime del Vangelo; all’esempio dei santi, perché queste sono le vie che vi condurranno al regno dei cieli. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus Ps LXV: 1-2; LXXXV: 16

Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’anima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrificii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quaesumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joann XVI:8

Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja.

[Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur.

[Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/13/tutta-la-messa-cattolica-momento-per-momento-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (111)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 vol. I

CAPO XXI.

Si risponde alle accuse date alla provvidenzaper la ineguale distribuzione de’ beni, massimamentedonati agli empi.

I. Gli occhi, i quali sporgono in fuori, non però sono abili a veder più degli altri, ma solamente a restar più degli altri, offesi dal fumo (Aristot. problem. sect. 31. n. 6). Che vale dunque agli intelletti presuntuosi l’uscire tanto dai termini, per mirare ciò che non è concesso a guardi mortali? Il frutto del loro ardire sarà rimaner sopraffatti dalla caligine di quei divini consigli, che, se si contenessero in umiltà, sarebbero bensì loro di ammirazione, ma non di scandalo. Dovrebbe dunque uno di essi piuttosto dir con Salviano (De gubern. 1.3) in questo proposito: Homo sum non intelligo: secretum Dei investigare non audeo: e pure all’incontro, quanto più vuoti di senno, tanto più queruli, dove non giungono ad investigar con la mente debole, giungono ad insultar con la lingua bestemmiatrice. Chieggo io frattanto: può il governo di questo mondo andar meglio di ciò che vada, o non può andar meglio? Se non può andar meglio, di che dunque si dolgono gli ateisti? Se può andar meglio, dunque v’è chi può fare che vada meglio. E tale è la medesima provvidenza da lor negata. Che se ella v’è, basta questo. Non è follia da giumento stimar possibile ch’ella lasci di fare in tempo veruno ciò che va fatto? An usque adeo desipiendum est, ut homo videat melius aliquid fieri debuisse, et hoc Deum vidisse non putet? (S. Aug. I . 1. c. 14. contr. adv. leg.) Oh quanto più frutterebbe a tanti uomini temerari l’accusare sé d’ignoranti, che Dio d’iniquo! Ma perché non credano che ciò si dica a sfuggir la difficoltà, seguano pure a sfogarsi.

II. Ciò che agli ateisti cagiona maggior travaglio in tal governo, non può riputarsi certamente che siano i disordini delle colpe, mentre essi appunto sono quei che gli accrescono più d’ogni altro: è la distribuzione de’ beni. Vorrebbero eglino, che questa fòsse in man loro, sicché la provvidenza, quasi minore, dovesse aver per tutore il lor senno nell’ eseguirla. Ma ciò non può mai succedere. Però dacché non han forze da rendere a sé soggetta la provvidenza, si volgono ad accusarla spargendo con espressa sollevazione, tra ‘l volgo credulo, che troppo male ella amministri l’entrate del nostro mondo, mentre, quanto prodiga ella è nel donarle agli empi, altrettanto avara è nel concederle ai giusti. Ed è possibile, dicono essi, che vi sia provvidenza se alla fine, come la calamita, fra tanti metalli nobili, non si sceglie a sollevare altro da terra, che il ferro vile, così dia gode per lo più d’innalzare chi meno il merita? Che se pure da lei vengan talvolta i meritevoli ancora rimeritati, tosto si scorge, ch’ella operò di capriccio, non di consiglio: mentre appena fa loro un dono che lor ritoglie; e più incostante del medesimo mare nei suoi flussi e riflussi non sorba legge, lasciando nel meglio aride quelle spiagge che allora allora aveva pigliate a inebriare con larghi flutti. E noi vogliamo poi credere, che sia più che qualche cieca podestà, casuale quella che amministra sì male le sorti umane, senza distinguere nelle rimunerazioni benefiche le opere virtuose dalle viziose, sicché o nulla vi sia ch’ella doni al merito, o nulla che pentita non gli ritolga? S’intitoli provvidenza quanto a lei piace: non è provvidenza, è fortuna.

I.

lII. Se ivi sono i sogni più strani, dove sono gli umori più sconcertati, non è meraviglia, che gli ateisti vaneggino in simil guisa. Ma compatiamoli, e facciamo prova, se ci riesca con amorevole purga cambiar loro i sogni in dottrine.

IV. Fate però ragione, che il governo della provvidenza sia simile ad una tessitura di arazzo: Telam, quam orditus est super omnes nationes(Is. XXV. 7). Per lavorarlo, conviene in primo luogo, che alcune fila vadano rette e formino l’orditura, altre a traverso, e formino il pieno : alcune sian tinte col sangue della porpora, altre col sugo di guado: alcune si giacciano in fondo a formar gli orli dell’opera, altre sian collocate nel più vistoso a formarne il campo. Così conviene in prima, che alcuni tra gli uomini siano ricchi, altri poveri: altri superiori, altri sudditi: altri nobili, altri plebei: altrimenti l’opera non solo non avrebbe vaghezza alcuna, ma né anche potrebbe aver compimento.

V. Non avrebbe vaghezza, porche non avrebbe la debita varietà: e al più sarebbe una Tela rozza, non un arazzo ingegnoso. La limitazione delle creature è quel poverissimo fondo su cui Dio ricama il più bello che abbiano i suoi lavori, cioè la diversità delle cose e l’inegualità. Imperocché non potendo veruna creatura capire in sé, come limitata, tutte quelle perfezioni che Dio vuole dimostrare operando, convenne di necessità ch’Egli le ripartisse in più nature tra loro varie, e non di rado anche opposte, affinché contenessero tutte insieme quel che ciascuna da sé non poteva accogliere, posta l’angustia del vaso. Cosi, perché una semplice corda non è capace di dimostrar nel liuto tutta l’armonia che sa dargli la mano musica, se ne aggiungono molte, quale più sottile, quale più grossa, quale più tesa, quale più lenta, che poi, toccate diversamente dall’arte, fanno quel concerto bello che incanta le nostre orecchie.

VI. Dissi poi, che. senza questa ineguaglianza di alto e di basso, di abbondanza e di bisogno, non poteva nemmeno sussistere il governo dell’uman genere, ne compirsi. Perocché fingete che vadano esuli dalla città tutti i poveri, tutti i plebei, quale inimico le recò mai tanta desolazione in un attimo, quanta le recherebbe un tal bando? Che se in riguardo a quei che vanno, sarebbe esilio; in riguardo a quei che rimangono senza loro, sarebbe morte. Chi lavorerebbe in quel mezzo tempo la terra? Chi le darebbe quasi ad usura quel seme, che poscia moltiplicato a tanti doppi mantiene la vita agli uomini di ogni stato? Che sarebbe delle arti, sì delle liberali, sì delle meccaniche, le quali tutte o nacquero dalla necessità o vengono allevate dalla speranza? Non vedete voi che la copia e l’inopia sono quelle due braccia che stringono amichevolmente il genere umano in perpetua corrispondenza, e che mantengono in lui la vita civile? Il bisogno di educazione nella fanciullezza stringe i figliuoli ai padri, e il bisogno di sostentazione nella vecchiaia stringe i padri ai figliuoli. Il povero ha bisogno della mano del ricco per essere sollevato, il ricco ha bisogno delle braccia del povero per esser servito. Il bisogno di governo soggetta i popoli al sovrano, e il bisogno di assistenza soggetta il sovrano stesso ai suoi popoli; sicché, a dir breve, possiamo concludere con le dotte parole di un Agostino, che la necessità vicendevole è la genitrice di tutte le azioni umane: Omnium actionum humanarum mater est necessitas (S. Aug. in Ps. 81).

VII. Pertanto ciò che ci manca al mantenimento più agiato di noi medesimi, non è materia di accusa della Provvidenza, è materia di ammirazione, massimamente che Dio nella distribuzione de’ beni terreni ha fatto come un accorto padre, il quale dovendo al fìgliuol maggiore lasciare il maiorasco, per decoro e per durevolezza della famiglia, lo stringe nel testamento ad alimentare i suoi fratelli minori; e da che lo fa possessore di tutto il fondo, l’obbliga insieme a partirne i frutti tra quei che ebbero comune con esso lui, come il sangue illustre e la nascita, così l’amor fraterno e la cura. L’arte quasi unica dell’agricoltura consiste singolarmente a disseccare i terreni troppo umidi, e inumettare i più asciutti. E questo è ciò che richiede la Provvidenza: che chi abbonda di facoltà, ne faccia parte a chi è scarso. Ma l’avarizia, come è una sete, non della natura, ma della febbre, così non si spegne mai: onde si persuade, che crescano in lei le necessità a proporzione del crescere che in lei fanno le brame accese. E ciò fa che i poveri divengano troppo queruli, quasi non soccorsi abbastanza; e i ricchi troppo tenaci quasi non pieni; pervertendo l’ordine dei disegni divini per mero vizio. Ma frattanto ci parrà giusto rifondere nella Provvidenza i nostri difetti, e rivoltare in biasimo del legislatore quelle trasgressioni medesime ch’Egli vieta con le sue leggi?

II.

VIII. Vero, direte voi : sono necessari ipoveri e i ricchi, inobili ed iplebei, i sovrani ed i sudditi; né senza tal varietà avrebbe il mondo la sua vaghezza presente, né la sua vita. Ma questa risposta non solve il nodo, lo salda. Per qual ragione non ha collocata Iddio l’abbondanza in mano de’ buoni, e non ne ha privati al tutto i cattivi? Perché il vizio naviga sempre col vento in poppa, e la virtù non può mai spiegare le vele: tante son le procelle che l’assaliscono? Non è ciò un giuocare che a nostro costo fa Dio su gli avvenimenti mortali, piuttosto che un governarli?

IX. Ah temerità di coloro che rimirando il volto della Provvidenza negli ondeggiamenti delle umane vicende, lo credono mostruoso! Primieramente mi si dica ove leggasi, che i buoni siano stati sempre depressi, e icattivi sempre esaltati? Prenda pure in mano le istorie chi vuol chiarirsi di questa orrenda calunnia che dassi al vero. E perché gli aspetti dei luminari maggiori sono più agevoli ad osservarsi, miri quanto di raro sia succeduto, che i principi più segnalati nella pietà non fossero parimente i più segnalati nella prosperità del governo, e che i più malvagi non fossero similmente i più malavventurati. Quando Roma, dopo aver levata ai popoli stranieri la libertà, non dubitò di levarla ancora a se stessa, ebbe a tollerare una lunga fila di Cesari sì scorretti, che potevano più veramente chiamarsi bestie coronate, che Cesari. Or chi non sa, di numero così grande, quanto pochi furono quei che terminarono tranquillamente i lor giorni? Anzi tutti o quasi tutti caddero vittime per mano di sudditi risentiti o di soldati ribelli. Ciò che può fare ampia fede ai privati ancora, quanto sia falso, che l’empietà sia comunemente felice, la pietà misera.

X. Dissi comunemente; perché questo è un tratto fino altresì della Provvidenza: né sempre accompagnar la pena alla colpa su questa terra, né sempre disgiungerla. Se Dio punisse ogni colpevole in vita, noi di leggieri trascorreremmo a stimar, che la sua giustizia non avesse altro tribunale più formidabile da vendicare le ingiurie che a lei facciamo, né altri tormenti più feroci di questi: onde ella verrebbe a rendersi disprezzevole nell’atto stesso di voler farsi apprezzare. Dall’altro lato se Dio mai non pagasse in contanti le sfrenatezze degli uomini con l’esempio di qualche castigo visibile, gli uomini potrebbero sospettare, ch’Egli non distinguesse nell’amor suo la virtù dal vizio, ma che li trattasse del pari. Pertanto convenne mescolare un modo con l’altro, per adeguare le provvisioni al bisogno. Tanto più, che questo tenore medesimo di governo, il quale riserba il più del premio e della pena a quel tempo che non ha fine, serve meravigliosamente a farci calpestare i beni caduchi com’essi meritano. Apparteneva alla Provvidenza insegnare agli uomini la virtù, ch’è l’unica via per cui si giunge alla vera beatitudine. Ora il maggiore ostacolo a chi cammina per questa via sono gl’inviti che ad ogni passo gli fanno i beni terreni per arrestarlo. E però con qual mezzo potevasi dimostrare più apertamente la vanità di sì fatti beni che con accomunarli anche agli empi ? Poteva mai caderci in pensiero, che questo fosse il pane preparato ai figliuoli, mentre a tutto pasto il vediamo gettare ai cani? Troppo era naturale argomentare, che quello che da Dio si concede ancora ai bestemmiatori del suo gran nome, agli spergiuri, ai sacrileghi, non era la mercede da lui destinata a rimeritare gli ossequi de’ suoi diletti. Questi anni addietro, essendosi in Vittemberga introdotta una moda nuova e dispiacevole al principe, che fece egli? la diede ad usare al boia; e con tale atto le tolse tosto ogni seguito ed ogni stima. Un’arte somigliantissima di governo ha la provvidenza. Per toglierci l’affezione ai beni manchevoli della terra, gl’infanta con guarnirne ancora i ribaldi: Nullo modo magis potest Deus concupita traducere, dice Seneca (De prov. c. 5), quam si illa ad turpissimos defert, ab optimis abigit.

XI. Aggiungete che i ribaldi medesimi hanno bene spesso ne’ loro costumi tal cosa che sia lodevole, non trovandosi quassù così facilmente scelleraggine tutta pura, com’è giù tra i diavoli e tra i dannati. La vipera non è già velenosa in ogni sua parte, anzi col tossico ha tanto accompagnato di sanativo, che può tenere un posto onorevolissimo nella composizione de’ medicamenti. Quel ricco che voi vorreste subito in fondo, perché rapisce l’altrui sostanza, forse somministra cortese a più di un bisognoso il suo patrocinio. Quel lascivo sa perdonare alla fama del prossimo, se non sa perdonare alla pudicizia. Quel linguacciuto sa rattemperarsi dalle bestemmie nell’ira, se non sa raffrenarsi dalle mormorazioni. Taluno tradì la fede all’amico, ma insieme fu fedelissimo alla consorte: come appunto raccontasi che i romani fra tante loro rapine amarono la fortezza, i goti l’onestà, i vandali la religione, gli unni il rigore, i turchi l’ubbidienza ai loro sovrani. E così fate ragione che se è difficile ritrovare infermo sì disperato, che fra ì suoi molti cattivi indizi di morte, non ne tramischi alcun buono: non è meno d’incile ritrovare iniquo sì discolo. Ora appartiene a Dio non lasciar senza premio verun’azione che in qualunque modo sia retta. E però come superficiale è la virtù di costoro, così guiderdonasi con una felicità parimente, che non ha fondo, qual è quella di questa vita. E con ciò viene la provvidenza di vantaggio a manifestare quanto ella si compiaccia della virtù, mentre l’ama insino dipinta.

Xll. Finalmente fingete un empio tanto penetrato dalla malvagità, che non dia luogo a virtù, neppure apparente; non è necessario, ch’egli però vada esente dal provare gli effetti della divina clemenza con qualche temporale prosperità. Ad un ladrone condannato al patibolo, non consente ogni ragion che si porga qualche ristoro prima di mandarlo alla morte? Come però abbiamo a sdegnarci che un tal costume sia praticato dalla clemenza divina: sicché a quel reo. che è già destinato ad ardere senza fine i n un rogo eterno, concedasi per lo spazio di pochi dì antecedenti qualche sollievo? Andate ora e invidiate quei reprobi, perché godono. Non è ciò maggiore stoltezza che invidiare la cena del giustiziato? Quel pesce che guizza così lieto per l’onde, ha l’amo già nello viscere sì inoltrato che non vi vuole altro più, se non che il pescatore tiri a sé di colpo la canna per ìstrappargliele. E in tale stato può mai quel pesce meritarsi il bel titolo di felice?

XIII. Tanto più che gli empi con lo loro passioni, con le invidie, con le inimicizie, con le alterezze s’infettano quel poco stesso di bene che loro viene concesso da Dio: ad imitazione di quei mastini che non sanno godersi in pace tra loro ciò che loro vieri dato in cibo; ma digrignano i denti e si feriscono insieme alla disperata. Se non che i malvagi fanno ancora di peggio; mentre rivolgono la loro perversità contra se medesimi, e fanno in pezzi il lor cuore; onde vedete che loro tanto manca quel bene che hanno, quanto quel che non hanno. Il lince non ingrassa mai, perché mentre si pasce in un prato, tien gli occhi all’altro, e si strugge per ansietà di mettere quanto vi è nel suo ventre solo.

XIV. Ma checché siasi di ciò, chi negli avvenimenti umani teme di vertigine faccia come chi passa un torbido torrente, e non vuol cadere. Non fissi gli occhi nelle acque che vengono giù rovinose dalla montagna; li fissi alla riva stabile che lo attende di là dall’acque. Non miri ciò che scorre col tempo, miri ciò che dura per tutta l’eternità: e con questa misura retta, e non col palmo di una felicità transitoria, che è sì calante, rinvenga i beni che sono comuni agli empi, e rinvenga i mali che sono comuni ai giusti. Questa è l’altra opposizione che fanno gli uomini di corto senno alla Provvidenza, volendo misurarle audaci le mani, per dare a credere, ch’ella ne abbia una più lunga dell’altra, come già le aveva Artaserse. Se non che di tale opposizione mi serbo a discorrere da per sé nel seguente capo per minor tedio.

SALMI BIBLICI: “DE PROFUNDIS” (CXXIX)

SALMO 129: DE PROFUNDIS CLAMAVI ad te DOMINE”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 129

Canticum graduum.

[1]  De profundis clamavi ad te, Domine;

[2] Domine, exaudi vocem meam. Fiant aures tuae intendentes in vocem deprecationis meae.

[3] Si iniquitates observaveris, Domine, Domine, quis sustinebit?

[4] Quia apud te propitiatio est; et propter legem tuam sustinui te, Domine. Sustinuit anima mea in verbo ejus;

[5] speravit anima mea in Domino.

[6] A custodia matutina usque ad noctem, speret Israel in Domino;

[7] quia apud Dominum misericordia, et copiosa apud eum redemptio.

[8] Et ipse redimet Israel ex omnibus iniquitatibus ejus.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

 SALMO CXXIX.

Il breve Salmo contiene:

1.° Preghiera a Dio per le miserie dell’esiglio, e quindi è Salmo graduale.

2.° Esortazione a penitenza, e perciò è tra i penitenziali;

3.° Predizione della futura redenzione, e perciò si recita in persona delle anime purganti, che sospirano alla liberazione per Cristo.

Cantico dei gradi.

1. Dal profondo alzai le mie grida a te, o Signore; esaudisci, o Signore, la mia voce. (1)

2. Sieno intente le tue orecchie alla voce della mia preghiera.

3. Se tu baderai, o Signore, alle iniquità chi, o Signore, sostenersi potrà?

4. Ma in te è clemenza; ed a causa della tua legge io ho confidato in te, o Signore. (2)

5. L’anima mia si è affidata alla sua parola; l’anima mia ha sperato nel Signore.

6. Dalla vigilia del mattino fino alla notte, speri Israele nel Signore. (3)

7. Perché nel Signore è misericordia, e redenzione copiosa presso di lui.

8. Ed ei redimerà Israele da tutte le sue iniquità.

(1) Si può sottintendere: « Ma io so che in voi è il perdono. »

(2) Gli antichi dividevano la notte in quattro parti, di cui ognuna comprendeva tre ore, queste parti si chiamavano guardie o veglie, perché le guardie delle città e dei campi, dopo una veglia di tre ore, passavano ad altri guardiani la sorveglianza loro affidata. La veglia del mattino è dunque il tempo compreso tra la nona ora della note e il levare del sole.

(3) Questi due versetti sono forse la risposta di un coro al monologo che precede.

Sommario analitico

Nel salmo precedente, il salmista ha esposto i diversi attacchi ai quali il popolo di Dio era soggetto da parte dei suoi nemici, ed il loro castigo. In questo salmo, egli si rende l’interprete della preghiera di questo popolo e di ogni anima penitente che ripone la speranza della sua liberazione nella misericordia di Dio. Questo salmo potrebbe essere di Davide, come il salmo CXXX. La Chiesa lo ha consacrato come la preghiera dell’anima fedele sospirante, in Purgatorio, dopo il felice istante della sua liberazione

I. Il salmista chiede a Dio di ascoltarlo ed esaudire:

1° il grido che egli alza verso di Lui dalle profondità dell’abisso (1);

2 ° la supplica umile, fervente e perseverante che egli indirizza (2).

II. Egli ne dà a Dio come motivo:

1° tutti sarebbero condannati e perduti se Egli esaminasse rigorosamente i loro peccati (3);

2 ° la facilità con la quale Dio è disposto a perdonare al peccatore penitente (4);

3 ° la legge che si è imposta di perdonare ai cuori penitenti (5);

4 ° la promessa che ne ha fatto nella Scrittura e che è il fondamento della speranza dei peccatori (6)

III. Egli si eccita, e con lui tutti i fedeli, nel conservare costantemente la speranza in Dio (6):

1° A causa della misericordia che è propria di Dio (6);

2° A causa della redenzione che il Salvatore deve operare in maniera sovrabbondante, riscattando Israele e tutti i suoi peccati (7, 8).

Spiegazioni e considerazioni

I. — 1 – 2

ff. 1, 2. – Il paragone è con un uomo che giace in una valle profonda, o nel fondo di un abisso in cui è precipitato, ed i cui pianti non sarebbero intesi da coloro che abitano la sommità della montagna, se non gridasse a gran voce. – Il vero penitente deve gridare da due abissi: dall’abisso della sua miseria, come da una valle di lacrime, o, secondo il pensiero di un altro salmo, come dal mezzo di una buca fangosa e da un marasma profondo; dall’abisso della propria anima, cioè dalla considerazione e dalla conoscenza intima della propria miseria. (Bellarm.) – Questo abisso profondo è la nostra vita mortale. Chiunque vi si riconosca piombato, grida, geme, sospira, fino a che non ne sia tirato fuori e pervenga a Colui che siede al di sopra di tutti gli abissi, al di sopra dei Cherubini, al di sopra di tutte le sue creature, non soltanto corporali, ma anche spirituali; fino a che la sua anima giunga davanti a Dio; fino a che l’immagine di Dio, che è l’uomo, sia liberato da Dio stesso da questo abisso nel quale, sballottata dai flutti incessantemente agitati, essa è come deformata. E se Dio non rinnova e non fa rivivere questa immagine che Egli ha impresso nell’uomo formandola, essa sarà sempre nell’abisso; se dunque – sto per dirlo – Dio non lo libera, essa non cessa di essere nel fondo dell’abisso. Ma quando l’uomo grida nel fondo dell’abisso, egli si eleva in modo tale che le sue grida stesse impediscono che vi sia più profondamente spinto. In effetti, colà sono nel più profondo dell’abisso, e non gridano anche da questo luogo tenebroso. La Scrittura dice: « Quando il peccatore è caduto nel più profondo dell’iniquità, disprezza tutto. » (Prov. XVII, 3). Vedete quanto sia profondo l’abisso ove Dio è disprezzato … ma Nostro Signore Gesù-Cristo, che non ha disprezzato la profondità della nostra miseria, e si è degnato di discendere fino alla nostra vita, promettendoci la remissione di tutti i peccati, ha tirato fuori l’uomo dal suo intorpidimento del fondo dell’abisso, affinché, da li, gridasse sotto il peso dei suoi peccati, e la sua voce colpevole pervenisse fino a Dio. E da dove grida il peccatore, se non dall’abisso dei propri peccati? (S. Agost.) – Questo abisso può pure intendersi, ed è il senso che ne dà la Chiesa nella liturgia, come il soggiorno dell’espiazione, in cui le anime che non hanno ancora soddisfatto alla giustizia divina sono ritenute, fino alla loro entrata nei cieli. – Il profeta Abacuc aveva queste anime presenti quando le anime dei giusti attendevano la resurrezione del Salvatore, nel momento in cui diceva: « l’abisso ha spinto le sue grida ed ha alzato le sue mani. » (Habac. III, 10). Egli alza le sue mani verso il Dio che doveva aprire alle anime sante le porte del Paradiso. – Ma l’abisso dell’espiazione passeggera, quello in cui sono tenute le anime che non hanno pienamente soddisfatto alla giustizia divina, questo abisso, esso anche, tende le mani con fiducia verso il divino Liberatore; e queste anime infortunate, che ci hanno precedute nella morte, indirizzano incessantemente questa bella preghiera al Signore: « Dal fondo dell’abisso, io grido a Voi. » – E vedete come sia bene che da questo abisso esca la voce del peccatore: « Dal profondo dell’abisso, io grido a Voi, Signore, Signore, ascoltate la mia voce. Che le vostre orecchie siano attente alla mia voce supplicante. » Da dove partono queste grida? Dal fondo dell’abisso. Chi è dunque colui che grida? Il peccatore, e quale speranza lo eccita a gridare? La speranza data anche al peccatore ingoiato dalle profondità dell’abisso, da Colui che è venuto a rimettere i peccati. (S. Agost.).

II. — 3-5

ff. 3-5. – Mirabile retorica è questa ispirata dallo Spirito Santo: il Profeta espone la sua domanda: che Dio non lo giudichi nella sua giustizia, ma nella sua misericordia; ma questa preghiera non la rivolge apertamente, nel timore di apparire troppo temerario, bensì la avvolge in un ragionamento che deve portare Iddio ad accordargliela: « se considerate, Signore, le nostre iniquità, Signore, chi potrà sussistere davanti a Voi? » (Bellar.) – « Io so che è così, diceva Giobbe ai suoi amici. Chi tra i mortali, è giusto davanti a Dio? Se l’uomo volesse discutere con Lui, risponderebbe, tra mille accuse, ad una sola » (Giob. IX, 1) – Io tremo con tutte le mie membra, o Signore Gesù, considerando, per quanto ne sia capace la mia debole vista, la vostra santa Maestà, e soprattutto ricordandomi il disprezzo che vi ho testimoniato altre volte. Ma ecco! Al presente, pur sconvolto dall’aspetto della vostra grandezza, ed in cerca di un asilo ai piedi della vostra misericordia, la mia condotta è forse cambiata? Io temo più la vostra grandezza che ha visto in me un ribelle, che la vostra bontà che vede ora un ingrato. A cosa serve tenermi la mano, se non contento il mio cuore? Che importa che la mia lingua taccia, quando il mio cuore resta agitato dalla passione? Se ogni movimento della mia anima è un insulto per Voi, o mio Salvatore, se la sua collera oltraggia la vostra dolcezza, la sua gelosia la vostra carità, la sua intemperanza la vostra sobrietà, la sua voluttà la vostra innocenza; se, infine, mille simili indegnità, che esalano incessantemente dalla cloaca infetta della mia corruzione, vogliono sporcare, per così dire, lo splendore del vostro augusto volto, qual merito c’è nell’aver regolato l’esteriore e riformate le mie opere? O mio Dio, se tenete il conto esatto di tanta iniquità che io non cesso di commettere in me stesso, pur senza nulla mostrare all’esterno, chi potrà sostenere i vostri rigori? (S. Bern. De oev. Et mor. Ep. VI). –  Questa ripetizione: Signore, Signore, non è l’effetto del caso, ma è l’espressione di un’anima colpita di ammirazione e stupore davanti all’eccesso della misericordia di Dio, la distesa della sua grandezza, l’oceano senza limiti della sua bontà, « … chi potrà sussistere? » Egli non dice: Chi potrà sfuggire? Ma: « Chi potrà sussistere? » C’è da dire che non si potrà anche sostenere la presenza di Dio (S. Chrys.) – Il Profeta designa chiaramente da quale abisso il peccatore grida. In effetti, egli grida, sotto l’ammasso, i flutti delle sue iniquità. Egli si è guardato, ha guardato la sua vita da ogni parte, l’ha vista coperta di turpitudini e carica di crimini. Da qualunque parte getti i suoi sguardi, non ha trovato nulla in lui, niente si è a lui presentato nella serenità della giustizia; e vedendo attorno a sé tanti e sì gravi peccati, ed una tale moltitudine di crimini, tutto preso da spavento, esclama: Se Voi esaminate le iniquità, Signore, Signore, chi potrà sopportarle? Egli non ha detto: io non potrò sopportarle, ma « chi potrà sopportarle? » In effetti, egli ha visto che ogni vita era come circondata dai clamori dei suoi peccati; egli ha visto che tutte le coscienze erano accusate dai suoi pensieri, e che non si trovava un cuore che potesse aver fiducia nella sua giustizia.. Se dunque non si può trovare un cuore casto e puro che abbia il diritto di contare sulla sua giustizia, occorre che il cuore di ogni uomo metta la sua fiducia nella misericordia di Dio e dica: « se Voi esaminate le nostre iniquità, Signore » Signore, chi potrà sopportarlo? » (S. Agost.) … il Profeta considera pertanto, quanto siano numerosi i peccati lievi che un uomo commette ogni giorno, quanto numerosi se ne commettano in pensieri e parole; egli sottolinea, inoltre, che pur se sono leggeri, tuttavia questi piccoli peccati formano, con il loro numero, una grande massa; ed allora, dimenticando in qualche modo le sue antiche colpe per non pensare che alla fragilità umana, mentre già monta, si eleva, ed esclama: « Dal fondo degli abissi, io ho gridato a Voi … Se Voi esaminate le iniquità, Signore, Signore, chi potrà sopportarle? » io posso evitare gli omicidi, gli adulteri, le rapine, gli spergiuri, l’idolatria; ma posso evitare questi peccati del cuore? È scritto: « Il peccato è l’iniquità. » (1 Giov., III, 4). « Chi potrà sopportarlo, se esaminate le nostre iniquità? » Se voi volete agire a nostro riguardo con giudizio severo, e non come padre misericordioso, chi sussisterà davanti ai vostri occhi? » (S. Agost.). –  Ma perché spera? « Perché presso di Voi è la clemenza. » E qual è questa clemenza, se non il Sacrificio propiziatorio? E qual è questo Sacrificio se non quello che è stato offerto per noi? Il sangue innocente sparso per noi ha cancellato tutti i peccati dei colpevoli; il prezzo inestimabile che è stato pagato, ha riscattato tutti i prigionieri che la mano del nemico teneva schiavi. La clemenza è dunque in Voi; » perché se la clemenza non fosse in Voi, se Voi vorreste essere solo il giudice e non fare misericordia, esaminereste tutte le nostre iniquità e le ricerchereste … ma allora, chi potrebbe sopportarle? Chi potrebbe presentarsi davanti a Voi e dire: Io sono innocente? Chi resterebbe in piedi davanti al vostro tribunale? Noi non abbiamo dunque che una sola speranza, « che la clemenza sia in voi. A causa della vostra legge, io vi ho atteso, Signore. » Quale legge? C’è una legge che viene dalla misericordia di Dio; c’è una legge di clemenza che viene da Dio. C’è innanzitutto una legge di timore; questa è una legge di amore. La legge d’amore accorda il perdono dei peccati; essa li cancella nel passato, ci avverte di evitarli per l’avvenire; essa non abbandona lungo il cammino l’uomo che accompagna, ma si fa compagna di colui che conduce lungo il cammino. « Io vi ho dunque atteso, Signore, a causa della vostra legge. » Voi vi siete degnato di dare agli uomini una legge di misericordia, rimettere tutti i miei peccati, datemi inoltre avvisi per evitare che io non vi offenda più; e per i casi in cui trasgredirò malgrado i vostri avvertimenti, Voi mi avete dato, come rimedio, di pregarvi dicendo: « Rimettici i nostri peccati, come noi rimetteremo ai nostri debitori ciò che essi ci devono. (Matth. VI, 12). » Voi mi avete dunque dato questa legge, che mi sarà rimesso secondo quanto io stesso rimetterò agli altri: è a motivo di questa legge che io vi ho atteso, Signore. »  Io attendo il tempo in cui verrete e mi libererete da ogni necessità, perché anche in mezzo alle necessità, non avete abbandonato la vostra legge di misericordia. (S. Agost.). – « Se succede che qualcuno pecchi, noi abbiamo per avvocato, presso il Padre, Gesù-Cristo, il giusto; e Lui stesso è la vittima di propiziazione per i nostri peccati, e non solo per i nostri, ma anche per quelli di tutti. » (I Giov., II; Eph. 2) – « Dio ha inviato suo Figlio come vittima di clemenza per i nostri peccati. (I Giov. IV, 10). Egli l’ha prestabilito “propiziazione” per la fede nel suo sangue, per manifestare la sua giustizia per la remissione dei peccati precedenti. » (Rom. III, 25). « La mia anima ha atteso, si è mantenuta fidente nella sua parola. » Nessuno attende, se non colui che non ha ricevuto ciò che gli sia stato promesso; i nostri peccati sono stati cancellati, ma la ricompensa deve ancora venire; noi abbiamo ricevuto il perdono, ma non siamo ancora in possesso della vita eterna; se questa promessa venisse da noi, noi dovremmo temere; ma siccome essa viene da Dio non ci può ingannare. (S. Agost.). – Attendere il Signore, è sentirsi sempre pronto a riceverlo; è non perdere mai la speranza di rientrare in grazia con Lui; è vegliare su tutto; è acconsentire a tutti i disegni che la sua Provvidenza ha su di noi; è abbracciare tutti i mezzi di salvezza che ci presenta; è vivere in un attaccamento continuo ed assoluto di tutto ciò che non tenda che a Lui solo; è vegliare su tutti i movimenti del nostro cuore, affinché non si insinui in esso alcuna affezione, alcun desiderio che possa dispiacergli; è soprattutto ridursi a questa preziosa unità che fa che tutto si rapporti a Dio. Vediamo come i cortigiani rispettano i loro i padroni, con quale costanza essi divorano difficoltà, attese, le lunghezze nella realizzazione dei desideri che esaudiscono nelle loro corti; essi non hanno sovente alcuna ragione di credere si essere graditi; più spesso ancora non hanno nulla da ottenere che meriti tanta assiduità; essi persistono nondimeno nell’abitudine che hanno preso di sacrificare il loro tempo e le loro inclinazioni ad usi stabiliti per le ambizioni e sostenuti dall’esempio dei loro pari. O uomini di poca fede! Noi abbiamo la parola e le promesse di Dio; noi sappiamo che Egli ci offre ciò che vuole darci, e non facciamo alcun passo per ottenerlo. (Berthier).

III. — 6-8

ff. 6-8. – Che vuol dire qui il Profeta? Non ha sperato che un solo giorno nel Signore, e che tutta la sua speranza si realizzasse al sopraggiungere del giorno? Questa veglia del mattino è la fine della notte; ecco perché il Profeta dice: « Fin dalla notte, la mia anima ha sperato nel Signore. » Non bisogna dunque comprendere queste parole nel senso che noi dobbiamo sperare in Dio un giorno soltanto, « … dalla veglia del mattino fino alla notte. »  Qual pensate dunque che sia il senso di queste parole? E fino a quando la nostra anima spera? « Fino alla notte! » … fino alla morte. In effetti, la morte della nostra carne è del tutto simile ad un sonno. Voi avete cominciato a sperare dopo che il Signore sia resuscitato; non cessate mai di sperare fino alla uscita dalla vostra vita, perché se non sperate fino alla notte, tutto il frutto della vostra speranza passata sarà persa. Ci sono uomini che sperano da principio, ma non perseverano fino alla notte. Essi cominciano a soffrire alcune tribolazioni, cominciano a patire tentazioni, vedono uomini malvagi ed ingiusti gioire delle prosperità di questa vita, e siccome essi sperano che Dio dia loro quaggiù una simile felicità, sono colpiti dal vedere dei criminali possedere ciò che essi desiderano; allora i loro piedi vacillano e cessano di sperare. Perché? Perché hanno sperato dalla veglia del maligno. Cosa significa questo? Che essi non hanno sperato fin dall’inizio da parte del Signore, ciò che si è compiuto, come primizia, nel Signore, a questa prima veglia del mattino; ma essi speravano che il Signore, se fossero stati Cristiani, desse loro una casa piena di frumento, di vino, di olio, di argento e di oro; … che nessuno di loro morisse prematuramente; che nessuno che non avesse figli, ne avesse; che coloro che non erano maritati si maritassero; che non ci sarebbe mai stata sterilità, non soltanto per le donne della loro casa, ma anche per le loro greggi; che il loro vino non divenisse aceto, che mai la loro vigna si seccasse. Colui che spera della sorte nel Signore ha notato che coloro che non adorano il Signore, hanno questi beni in abbondanza, ed i suoi piedi hanno vacillato (Ps. LXXII, 2), e la sua speranza non è durata che una notte, perché non aveva cominciato a sperare dalla prima veglia del mattino (S. Agost.). –  « Dalla veglia del mattino fino alla notte » il Profeta non cessa di sperare, e non lascia passare alcun momento della vita senza sperare, è un lavoratore infaticabile di tutta la giornata. Ma quale sarà il frutto di questa speranza? Non tutti consacrano così tutti i giorni alla speranza. Vi sono operai della terza ora, della sesta, della nona, dell’undicesima, ed il Profeta, che ha sperato dalla veglia del mattino fino alla notte, sembra sottratto di una parte della ricompensa promessa dal Vangelo. Non è così: egli dice: « che Israele speri nel Signore; » la sua esortazione non precisa alcun tempo determinato. Come un operaio perfetto, egli ha sperato nel Signore dalla veglia del mattino fino alla notte; ma per la speranza, tutti i tempi sono liberi, e gli operai della undicesima ora riceveranno la ricompensa non del lavoro che avranno compiuti, ma della misericordia nella quale essi hanno sperato. (S. Ilar.). –  Che significano queste parole: « Nel Signore è la misericordia? » cioè in Dio c’è un tesoro, una sorgente di misericordia che non cessa di zampillare sugli uomini. Ora, la misericordia si trova congiunta con la redenzione, e non una redenzione ordinaria, ma una redenzione abbondante ed un oceano immenso d’amore. (S. Chrys.). – « Nel suo Figlio diletto Gesù-Cristo, noi troviamo la redenzione con il suo sangue e la remissione dei nostri peccati secondo le ricchezze della sua grazia, che ha diffuso su di noi con abbondanza. » (Ephes. I, 7, 8). – « In Lui c’è una redenzione abbondante. » parola magnifica! Era impossibile dire meglio dopo ciò che precedeva: « che dopo la veglia del mattino, Israele spera nel Signore. » – « Riscatterà Egli stesso Israele da tutte le sue iniquità. » Israele ha potuto da solo vendersi e divenire schiavo del peccato, ma non può riscattarsi da solo dalle sue iniquità. Ha potuto riscattare solo chi non ha potuto vendersi; Colui che non ha commesso peccato vi riscatta dal peccato. « Egli stesso riscatterà Israele. » Da cosa lo riscatterà? Da questa o quella iniquità? « … Da tutte le sue iniquità. » L’uomo desideroso di avvicinarsi a Dio non tema dunque alcuna sua iniquità: soltanto si avvicini a Lui con tutto il cuore, e smetta di fare ciò che faceva in precedenza e non dica: Questa iniquità non mi sarà rimessa. Se, in effetti, egli lo dicesse, non si convertirebbe, in ragione anche dell’iniquità di cui crederebbe di non poter ottenere perdono, e continuando a commettere altri peccati, non otterrebbe la remissione delle iniquità per le quali non temesse. Avendo commesso, dice l’empio, un gran crimine che Dio non può rimettermi, oramai commetterò tutti gli altri crimini, perché perderò tutto ciò che non farò. Non temete, voi siete nel fondo dell’abisso, non disdegnate di gridare verso il Signore dal fondo dell’anima e dire: « Se esaminate le nostre iniquità, Signore, Signore, chi potrà sopportarle? » Abbiate gli occhi fissi su di Lui, aspettatelo ed aspettate a causa della fede. Quale legge vi ha dato? « Rimettete i nostri debiti come noi rimettiamo ai nostri debitori ciò che essi ci devono. (Matth. VI, 47). Sperate di resuscitare e così sarete puri dai ogni  peccato, perché Colui che è resuscitato per primo, è stato senza peccato. Sperate nella prima veglia del mattino; non dite: io non sono degno di resuscitare a causa dei miei peccati. Voi non ne siete degno, ma « … nel Signore c’è una redenzione abbondante, ed Egli stesso riscatterà Israele da tutte le sue iniquità. » (S. Agost.).

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (4)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (4)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

SECONDA PARTE

MEZZI GENERALI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo I

L’INCARNAZIONE

L’incorporazione in Gesù Cristoper mezzo dell’Incarnazione e della Redenzione

Dio, come abbiamo appena visto, vuole la nostra divinizzazione attraverso la nostra incorporazione in Gesù Cristo. Ma, qual modo ha seguito per raggiungere questo scopo? Uno, i cui estremi sono due abissi: l’Incarnazione e la Redenzione. L’incarnazione, il principio, è l’abisso dell’umiltà. La redenzione, la fine, è l’abisso dei dolori. Confrontiamo questi due estremi per apprezzare meglio le loro relazioni e per capire quanto sia costato al nostro Salvatore l’averci innalzato alla dignità di figli di Dio e quanto dobbiamo al suo Cuore per aver ideato un mezzo di salvezza così ammirevole e misericordioso. – San Giovanni – ammesso prima di noi a contemplare queste bellezze – ha ascoltato una voce che diceva: « Ecco questo è il tabernacolo di Dio con gli uomini, ed Egli dimorerà con loro. Essi saranno il suo popolo, e Dio stesso sarà il loro Dio. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi; e non ci sarà più né morte, né dolore, né pianto » (Ap. XXI, 3-4). Sono promesse magnifiche, ma che sono lontane tuttavia dal farci conoscere tutta la verità. In questo tempio della grazia e della gloria soprannaturale, Dio non si accontenta di abitare con noi, ma si unisce addirittura a noi con un legame incomparabilmente più stretto. Lui stesso forma quel tempio con noi. Noi ne siamo le pietre vive (1 Pt. II, 5), ed Egli ne è la pietra angolare e il magnifico coronamento (Ephes. II, 20). – Egli e noi formiamo lo stesso edificio, lo stesso tempio spirituale: il vero tempio, di cui quello di Salomone non era che un’immagine grossolana (Ap XXXI, 22; 1 Cor. III, 17). Ecco fin dove si è spinto l’amore per la sua creatura. Non gli bastava distribuire i suoi doni soprannaturali agli Angeli e agli uomini. Egli scelse, così, tra tutti gli esseri creati, uno a cui Egli si consegnò tutto interamente, e attraverso di Lui a tutti gli altri. – Se vogliamo comprendere quest’opera in tutta la sua bellezza, se vogliamo formarci un’idea dell’onore che Dio ha fatto alla nostra natura, dobbiamo fissare gli occhi su Gesù Cristo e considerare chi sia Egli nella mente di Dio, cosa sia in Sé medesimo, e cosa siamo noi in Lui.

Il mondo materiale, razionale e soprannaturale, è opera dell’Amore Divino.

Il Divin Salvatore ci ha dato la chiave dell’enigma che porta in sé quando ha detto: « Dio ha tanto amato gli uomini da dare loro il suo Figlio unigenito ». L’enigma racchiuso in queste due parole: Dio-Uomo, Verbo-Incarnato, era completamente insolubile per la ragione umana. – Invano cerchiamo nel linguaggio parole che esprimano idee così diverse, attributi tanto difficili da riunire nello stesso soggetto, come Dio e l’uomo, il Verbo e la carne. Come sono stati conciliati questi estremi? Dio amò, e amò come Dio. Come ogni amore, tende a dare e a comunicare la magnificenza dei suoi doni secondo Se stesso. Dio nell’amare non trovò nessun dono degno di Lui se non Egli stesso. Non si arrese finché non si diede tutto interamente. Tale è la storia dell’amore divino e la storia del mondo come opera dell’amore divino. È una successione di sforzi con i quali la sua infinita generosità cerca di essere soddisfatta e di poterlo realizzare, fino a quando non gli resti più nulla da dare. – Egli fa emergere prima di tutto i tesori del suo potere e da qui le meraviglie del mondo materiale: il cielo, la terra, la luce, il movimento, la vita. Dopo aver finito la sua prima opera riconosce che è essa è buona, ma non riesce ancora a riposare. Per quanto sia completa la sua creazione materiale, le manca ancora l’infinito, perché non ha intelligenza, non ha amore, non può conoscere o essere grata al suo Creatore. – Dio si rimette all’opera e produce un’intelligenza razionale, un cuore amante, un’anima simile a Sé, capace di conoscerLo, di dialogare con Lui e di glorificarLo. Il suo amore si è appena manifestato in un nuovo splendore. Ma quanto sarebbe ancora lontano dall’essere soddisfatto se la creatura razionale rimanesse chiusa nei limiti ristretti delle sue forze naturali! Se non potesse conoscere Dio se non per le sue opere, se non avere con Lui altri rapporti che quelli del servo con il suo padrone, se non potesse godere di Lui se non nei suoi doni, gli rimarrebbe comunque un estraneo, non lo possederebbe veramente, e non gli avrebbe dato veramente se stesso. Ora, il suo amore è così grande che sente un bisogno irresistibile di donarsi. – Ed ecco un altro sforzo ancora: egli illuminerà l’intelligenza razionale con la luce del suo Verbo; Egli verserà il fuoco della sua carità in quel cuore amante e, in quell’anima, inoculerà la sua vita divina. Egli si metterà in relazione diretta con la sua creatura, le parlerà, la guiderà, lavorerà con ella, la renderà capace di fare le sue opere e così di meritare la sua stessa felicità. Ecco dunque che l’uomo è divinizzato; entra veramente in possesso del suo Dio. L’amore divino è quindi pienamente soddisfatto? Ha raggiunto l’apice delle sue comunicazioni? Partendo dal nulla, è stato eretto un edificio che, di piano in piano, è salito fino all’infinito; l’uomo e l’Angelo, divinizzati dalla grazia, occupano la parte più alta dell’edificio. Gli manca ancora qualcosa? Sì, l’incoronazione!

Il coronamento dell’opera dell’Amore Divino.

L’uomo e l’Angelo sono molto vicini a Dio, ma non sono Dio. Possiedono davvero la divinità, ma non perfettamente. Solo chi possiede perfettamente la divinità può dire in tutta verità: io sono Dio. L’uomo e l’Angelo possono dirlo, ma in senso ristretto. Quindi non è stato fatto ancora tutto. L’Amore divino ha ancora da colmare un abisso immenso. Niente lo costringe ad andare oltre. Egli è completamente libero di limitarsi ad una divinizzazione ristretta della creatura, che la elevi infinitamente al di sopra della sua natura. Ma no! finché c’è qualcosa da dare, Egli non potrà essere soddisfatto. Andrà fino all’estremo, metterà la sua divina corona sull’edificio divino. All’uomo, alla carne, sarà unito il Verbo di Dio per fare un tutto unico con essa. Il Verbo sarà carne e l’uomo sarà Dio. Ora sì che l’Amore divino potrà essere soddisfatto, perché non può fare di più. Ha amato all’infinito. Ha anche dato all’infinito. Ha dato tutto quello che poteva dare. Il piano concepito dall’eternità si è realizzato nella pienezza del tempo (Efes. I, 9-10). L’opera divina ha il suo coronamento nell’Uomo-Dio. Lo spazio che separa il nulla dall’infinito è il male. La divinizzazione della natura umana ha raggiunto la sua massima perfezione.

Unione dell’anima razionale e del corpo: una sola persona ed una natura completa.

Il mistero naturale che portiamo dentro di noi ci aiuta a farci un’idea del mistero soprannaturale che ha avuto luogo nel grembo di Maria quando Dio si è fatto uomo e l’uomo si è fatto Dio. La Chiesa stessa ci insegna questa analogia nel simbolo di Sant’Atanasio: « Come l’anima razionale e la carne non è che un uomo solo, così l’uomo e Dio non sono che un unico Cristo ». C’è una grande analogia tra queste due unioni, sebbene nella somiglianza non si raggiunge la perfetta uguaglianza. La considerazione della loro differenza e della loro somiglianza ci aiuterà a capire ciò che stiamo studiando. – Ci sono due nature in noi, diverse ed opposte per le loro proprietà: il corpo che è composto da parti, mentre l’anima è semplice. Tutti noi diciamo: penso, cammino, capisco. Lo stesso io e la stessa persona si attribuiscono il merito di queste azioni. Ciò nonostante, il primo di questi è spirituale, il secondo è corporeo, il terzo spirituale e corporeo allo stesso tempo. Ce ne sono ancora di più. Dalle due nature che compongono l’uomo, ne risulta una sola e stessa persona e, di conseguenza, una sola e medesima  natura completa. – Infatti, l’anima dell’uomo non è puramente spirituale, né il corpo è puramente materiale. Ci sono, nell’anima, facoltà che si esercitano solo attraverso il corpo, così come ci sono organi nel corpo che agiscono solo con l’aiuto dell’anima. Come potrebbe l’anima sentire gli oggetti esterni senza il corpo, e come potrebbe l’occhio vedere senza l’anima? Così, per distinguere in noi stessi le due parti del nostro essere, dobbiamo fare uno sforzo di riflessione. La sensazione che tutti noi abbiamo di noi stessi fin dai primi momenti della nostra vita, ci presenta la nostra natura unica, una natura sia corporale che spirituale, come un corpo animato ed uno spirito incarnato. – Tale è la mirabile e misteriosa unione con cui il Creatore ha voluto riunire nell’uomo le due grandi opere delle sue mani: la materia e lo spirito. Come se la caverà quando vorrà unirsi alla sua creatura e riunire estremi tanto lontani quanto l’infinita perfezione ed il nulla della nostra umanità? – Può rendere la natura umana e la sua natura divina una cosa sola? Ovviamente no; ciò significherebbe distruggerle entrambe nello stesso tempo. La natura umana non potrebbe diventare divina se non cessasse di essere quel che è. La natura divina non può passare attraverso un cambiamento radicale che ne risulterebbe da una natura umana. Di conseguenza le due nature sono mantenute integre in Gesù Cristo e non si opera alcuna confusione, nessuna mescolanza. L’unione della umanità e della divinità in Lui è puramente ipostatica o personale, ma non per questo è meno intima. In cosa consiste questa unione? Lo sapremo in cielo. Quaggiù, dobbiamo rassegnarci a non comprendere l’unione suprema che costituisce il coronamento del mondo fisico e morale. Ci basta sapere che, attraverso quell’unione, la Persona del Verbo si sia appropriata di tutte le debolezze della natura umana. Allo stesso tempo le ha conferito tutte le ricchezze della natura divina. Così come in noi dice la stessa persona: sono spirituale e sono corporeo, io penso e vedo; in Gesù Cristo, la stessa Persona ha potuto dire in tutta verità: sono nato ieri, e sono esistito prima dei secoli; il Padre è più grande di me, e il Padre ed Io siamo una cosa sola; Io sono il principio della vita e sono soggetto alla morte; sono uomo e sono Dio. Sì, Gesù Cristo-uomo è veramente Dio ed è sempre stato così, senza mai cessare di essere uomo. La sua umanità non è nemmeno per un solo istante esistita senza essere unita alla Persona del Verbo. E quell’unione lo ha fatto divinamente sussistere prima che potesse compiere qualsiasi azione.

La sussistenza divina e la vita divina del Dio-Uomo.

Dobbiamo distinguere nell’Uomo-Dio due prerogative, inseparabili ma non identiche: la sua sussistenza, in virtù della quale è Dio, e la sua vita divina, in virtù della quale opera divinamente. – Ognuno di esse è il risultato di una certa unione dell’umanità del Salvatore con la divinità, ma si differenziano per le condizioni dell’unione. Gesù Cristo è Dio perché la sua natura umana, invece di avere un’esistenza autonoma, è unita alla Persona del Verbo, che la determina e completa, senza nulla togliere alla sua integrità; così come la reggia d’élite costruita a Versailles da Luigi XIV completa il modesto castello costruito dal padre e ne toglie l’esistenza indipendente, non distruggendolo o modificandolo, ma ingrandendolo. – Con questa prima unione, le azioni di Gesù Cristo sarebbero state azioni di Dio e, di conseguenza, delle azioni divine, anche se prodotte dalle facoltà umane del Salvatore. Ma non poteva essere così: le azioni dell’Uomo-Dio dovevano essere per di più divine e soprannaturali in sé. Era impossibile che, sussistendo divinamente, non vivesse divinamente. L’unione della sua natura umana con la Persona del Verbo ha richiesto questa prima unione delle facoltà dell’anima santa del Salvatore, la quale è attribuita nella Scrittura soprattutto allo Spirito Santo. Era impossibile che il Verbo di Dio non gli comunicasse contemporaneamente il suo Spirito. – Isaia aveva profetizzato che, dopo che lo stelo di Iesse avesse dato il suo fiore, lo Spirito del Signore si sarebbe posato su di esso con la pienezza dei suoi doni (Is. XI, 2). San Giovanni Battista testimonia che la profezia si è compiuta e che, mettendo tutte le ricchezze nelle mani del Verbo incarnato, Dio Padre gli ha dato senza misura il suo Spirito. Le opere dell’Uomo-Dio sono quindi divine, per due motivi: innanzitutto perché sono opere di un Dio e, in secondo luogo, perché sono fatte con l’aiuto della grazia soprannaturale e sotto l’influenza dello Spirito di Dio.

Nell’uomo – Dio siamo divinizzati e viviamo divinamente.

È importante non perdere di vista questa distinzione, che ci sarà in seguito di grande aiuto per spiegare la parte che tocca al Verbo incarnato nell’opera della nostra divinizzazione. D’ora in poi possiamo convincerci che questa parte deve essere stata immensa e che non solo l’umanità, ma anche la creazione sia stata veramente divinizzata in Lui. San Paolo espresse i risultati dell’Incarnazione del Verbo di Dio, quando disse che tutte le cose in cielo e in terra sono state unite a Lui come membri alla testa, e attraverso di Lui uniti alla divinità. –  Gesù Cristo riunisce nella sua anima tutte le facoltà dell’ordine spirituale, così come raccoglie nel suo corpo tutte le forze del mondo fisico. Facendo dell’uomo un piccolo mondo, riunendo in esso tutti gli elementi che compongono l’universo, ha dato inizio alla perfetta unificazione di tutte le cose, di tutti i suoi progetti. Quando venne la pienezza del tempo, fu sufficiente unire ipostaticamente quel piccolo mondo alla Persona del Verbo, affinché l’intero universo fosse divinizzato nell’Uomo-Dio. – In virtù di questa prima unione, di cui Lui stesso sussiste divinamente, Egli conferisce al creato una dignità incomparabile. Perché così come è vero, Egli, che è uno con noi e con tutto il creato, ci permette di considerarci divinizzati in Lui.  Ma Egli non poteva accontentarsi solo di questo. Così come non può sussistere divinamente senza vivere divinamente, né tantomeno vuole comunicarci la sua dignità divina senza la sua vita divina, così la comunicazione è molto più intima della prima. – Mentre questa può essere attribuita solo ad una relazione estrinseca, quella, invece, ci è stata data realmente. Essere vero Dio è prerogativa esclusiva del Figlio primogenito di Maria (S. Luc. II, 7). Ma vivere divinamente è un patrimonio che questo generoso primogenito divide tra tutti i suoi fratelli: se tiene per sé l’unione ipostatica, che è incomunicabile, ci fa però partecipi del suo Spirito, della sua grazia e della sua eredità eterna.

La gloria che da questo ne consegue  per l’umanità.

L’antica maledizione non può sussistere alla presenza di questo mistero di grazia e di amore. Come potrebbe essere maledetta l’umanità, se in sé ha la fonte di tutte le benedizioni celesti? Non benedice Dio Padre tutte le sue opere nel suo Verbo? E questa, non è la prima di tutte le benedizioni, la benedizione sovrana, in cui tutta la benevolenza divina in qualche modo si compendia? Dio Padre non ha detto di Lui: « Ecco il mio Figlio prediletto in cui mi sono compiaciuto »? Quando il Prediletto del Padre diventa uno di noi, possiamo mai temere la maledizione di Dio? Non è da quando il Cuore di Dio batte nel petto degli uomini, che Egli si è riconciliato con noi. Quando vogliamo distinguere un corpo vivo da un corpo morto, tastiamo il battito cardiaco, e se il cuore batte, non dubitiamo: tutti i membri possono anche essere paralizzati, ma la fonte della vita non è esaurita, è solo ostruita. Il deserto non è più un deserto quando le acque vive cominciano a diffondersi attraverso di esso. Queste acque vitali hanno bisogno solo di canali, perché il deserto possa essere rivestito di verde e di fiori. Questo è ciò che è accaduto alla nostra terra da quando la fonte delle acque vive è stata aperta in mezzo ad essa. – Queste acque non hanno ancora annaffiato tutte le parti. Ci sono ancora molte aree steppose, molte aride rocce, molte regioni sterili. Tuttavia, anche se si chiama deserto, ha in sé il principio della infinita fecondità. Si vedono germogliare fiori profumati, virtù celestiali, non solo nel Cuore di Gesù, ma in tutti i cuori che sono in contatto con Lui: nel cuore di Maria, nel cuore di San Giuseppe, nel cuore del popolo santo, vicino alla casa di Nazareth. Gli Angeli stessi, non lasciano i palazzi celestiali per trarre dalle fontane del Salvatore le delizie che non hanno ancora assaggiato? E se il Cuore di Gesù è per gli stessi Angeli l’inizio di una nuova vita, non sarà anche l’inizio di una nuova vita, di una vita nuova per gli uomini? – Sì, da quel momento in poi, la nostra vita ha un senso molto reale. Grazie a Lui viviamo già in Dio, noi siamo suoi veri figli. Anche se non siamo ancora uniti a Lui con gli ineffabili legami di amicizia che vuole poi stringere con ciascuno di noi, tuttavia ci appartiene e noi gli apparteniamo. Lui è in noi e noi siamo in Lui. Un bambino ci è nato, ci è stato dato un figlio; il cuore di quel Bambino, che è il cuore del nostro Dio, è anche il nostro cuore, e attraverso di Lui possiamo chiamare suo Padre, nostro Padre. Attraverso di Lui riceviamo il potere di diventare figli di Dio, e nella nostre mani c’è l’uso di questo potere. Quel cuore è come una porta immensa che rinnova tra il cielo e la terra le comunicazioni interrotte dal peccato. Quella porta dà sul cielo e sulla terra: sul cielo, perché il Cuore di Gesù è il cuore di un Dio. Dà sulla terra, perché è il cuore di un Uomo che chiama tutti ad entrare attraverso di Sé nella regione della vita, della santità e della felicità: « Rallegrati, o casa di Sion – dice il profeta – esulta per la gioia, canta un canto di lode, perché hai il Grande, il Santo d’Israele, in mezzo a te. » In effetti, abbiamo motivo di essere immensamente felici per avere il nostro Dio tra noi. Perché pensiamo così poco a tutto questo? Perché fissiamo il nostro sguardo sulle cause della tristezza che l’umanità ci presenta, invece che fissarle su ciò che assorbe l’attenzione di Dio? Sì, l’umanità è malvagia e corrotta in un gran numero dei suoi membri. Quando si vede tanta ignoranza, tanta barbarie, tanta brutalità, tanto abbrutimento, tanta ingratitudine nera ed empietà infernale, ci si vergogna di essere uomo e di avere qualcosa in comune con questi mostri di iniquità. – Ma quando si pensa che la natura è stata elevata in Gesù Cristo ad una dignità divina, che il suo Cuore umano ama Dio più di tutti gli Angeli messi insieme, ci si riconcilia con questa natura miserabile e si comincia a sperare tutto per essa. Sì, speriamo molto, perché ciò che Dio ha fatto per noi, ci porta a concepire le speranze più grandi. Quando Dio Padre ha deciso di darci il suo Figlio unigenito, ci ha conosciuto con le nostre miserie e con la nostra malvagità, ha previsto la nostra ingratitudine e resistenza, la nostra follia e la nostra empietà. Se, nonostante tutto questo, ci ha dato il suo tesoro più ricco, ci fa capire che era determinato a superare la nostra ingratitudine con la sua indulgenza; la nostra miseria con la sua liberalità. – E se Dio vuole ottenere la vittoria, chi può fermarlo? Non lasciamoci dunque scoraggiare dalla lotta feroce, dal tuono della tempesta, dalle nuvole che si addensano intorno a noi; finché il Cuore di Gesù non ci sarà tolto, anche in mezzo al caos, avremo l’inizio di una nuova creazione, ed una promessa infallibile di vita nel seno delle ombre della morte.

Parole molto chiare e consolanti dei Santi Padri sul particolare.

« Il Verbo di Dio si è fatta uomo – diremo con San Giovanni Crisostomo – ascoltalo, o Cristiano, e lascia liberi i tuoi pensieri. Se le nostre magnifiche dottrine sull’esaltazione soprannaturale abbagliano il tuo spirito e confondono la tua modestia, impara dalla meraviglia del Dio Incarnato, a credere a ciò che della vostra lodevole dignità ti viene insegnato. Alfine, infatti, la ragione umana trova più difficile credere che Dio diventi uomo, piuttosto che l’uomo diventi Figlio di Dio. In ogni caso, la prima meraviglia apre la porta alla seconda. – No, non inutilmente il Verbo si è così abbassato: lo ha fatto per elevarti all’altezza in cui Egli era. Egli è nato secondo la carne, per rigenerarti secondo lo spirito; è diventato figlio della Vergine, perché tu non fossi solo figlio di donna; Egli, vero e naturale Figlio di Dio, si è fatto figlio di Davide e di Abramo per farti figlio dell’Altissimo » (S, G. Crisostomo, Om. II in Matteo II, MG: 57, 73). – Concludiamo con queste parole di San Gregorio Nazianzeno: « Ritorniamo a nostro modello la gloria che dovrebbe dargli l’immagine; riconosciamo la nostra dignità, onoriamo il nostro esempio, imitandolo; comprendiamo la potenza del mistero; riconosciamo il perché di Cristo che si sia fatto uomo. Siamo come Cristo, perché Cristo è stato come noi; siamo divinità per Lui, perché si è fatto uomo per noi. Se ha fatto ciò che è basso in noi, è stato per comunicarci ciò che è alto in Lui. Se è diventato uomo, è per arricchirci con la sua povertà; se ha preso la forma di schiavo, è stato per renderci liberi; se è sceso sulla terra, è stato per elevarci al cielo; se è stato tentato, è stato per farci raggiungere la Vittoria; se è stato umiliato, è stato per riempirci d’onore; se è morto, è stato per darci la vita; se è salito al cielo, è stato per portare con sé coloro che giacciono sulla terra sopraffatti dal peso del peccato » (S. Greg. Naz. Orat. XLI, a Pentec., MG: 36, 427).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/12/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-5/

SALMI BIBLICI: “SÆPE EXPUGNAVERUNT ME” (CXXVIII)

SALMO 128: “SÆPE EXPUGNAVERUNT ME a juventute mea”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 128

Canticum graduum.

 [1]   Sæpe expugnaverunt me a juventute mea,

dicat nunc Israel;

[2] sæpe expugnaverunt me a juventute mea; etenim non potuerunt mihi.

[3] Supra dorsum meum fabricaverunt peccatores; prolongaverunt iniquitatem suam.

[4] Dominus justus concidit cervices peccatorum.

[5] Confundantur, et convertantur retrorsum omnes qui oderunt Sion.

[6] Fiant sicut fœnum tectorum, quod priusquam evellatur exaruit,

[7] de quo non implevit manum suam qui metit, et sinum suum qui manipulos colligit.

[8] Et non dixerunt qui præteribant: Benedictio Domini super vos. Benediximus vobis in nomine Domini.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

 SALMO CXXVIII.

Nei Salmi graduali precedenti parlò il profeta dei beni della patria; ora ritorna sui mali dell’esiglio, in cui siamo viatori. Sempre per movere ad ascendere, in vista dei mali dell’esigilo, ai grandi beni della patria.

Cantico dei gradi.

1. Spesse volte mi hanno combattuto dalla mia giovinezza; (1) dica adesso Israele:

2. Spesse volte mi hanno combattuto mia giovinezza, ma non ebber forze bastanti contro di me. (2)

3. Sulle mie spalle han fatto crudo lavoro i peccatori; han continuato lungamente loro iniquità. (3)

4. Il giusto Signore ha troncate le testi dei peccatori:

5. sieno confusi e in fuga volti tutti coloro che odian Sionne.

6. Sien come l’erba dei tetti, la quale, prima di esser còlta, si secca.

7. Della quale non poté empier il pugno il mietitore, né il seno colui che raccoglie i manipoli.

8. E i passeggeri non han detto: la benedizione del Signore sopra di voi; (4) noi vi abbiam benedetti nel nome del Signore.

(1) La giovinezza di Israele, è il tempo dell’uscita dall’Egitto, del viaggio nel deserto, forse anche della dominazione dei Giudici.

(2) L’ebraico recita letteralmente « essi mi hanno sempre attaccato, tuttavia essi non hanno potuto nulla contro di me. » La parola “etenim”, che si trova nella Vulgata, e che corrisponde alla voce καί γαρ del greco, ha un buon senso prendendolo anche nel suo significato: « Essi mi hanno spesso attaccato, perché essi non riportavano vittorie contro di me. »

(3) L’ebraico potrebbe tradursi così. « I lavoratori hanno lavorato sul mio dorso, ed hanno prolungato i loro solchi. » Si lavora il dorso a colpi di verghe, castigo sì frequente presso i Giudei. La metafora adottata dai Settanta e la Vulgata enuncia piuttosto l’opera del forgiare, che si fabbrica con strumenti di ferro sul dorso, come un’incudine; questa immagine, come la prima, implica l’idea di una persecuzione crudele ed incessante. Nella Vulgata, la metafora è meno sostenuta che nell’ebraico.

(4) « Et non dixerunt, » etc. che siano del numero di coloro ai quali i passanti non dicano mai …

Sommario analitico

Nei due salmi precedenti, il popolo di Dio ha manifestato la sua gioia della ricostruzione della vita e del tempio, e della felicità di tutte le famiglie che temono Dio. In questo, in cui è facile vedere la figura della Chiesa, egli rende grazie a Dio per non essere caduto sotto gli sforzi dei nemici.

I. – Egli descrive i loro sforzi ed i loro attacchi:

1° Questi attacchi sono stati frequenti (1);

2° Essi sono iniziati con il ritorno del popolo di Dio, con la ricostruzione del tempio, con la giovinezza della Chiesa (1);

3° sono stati inutili;

4° sono continuati con un accanimento ostinato ed una perseveranza diabolica (3).

II.- Egli annuncia quale sarà il castigo degli empi persecutori dei giusti:

1° Dio schiaccerà la loro testa (4);

2° li coprirà di confusione (5);

3° li farà indietreggiare (5);

4° disseccherà i loro sforzi ed il loro vigore come l’erba dei tetti (6):

a) che si dissecca prima di radicarsi;

b) che non si può raccogliere con le mani;

c) che non si può raccogliere con le braccia (7);

d) che non può essere, come le messi ordinarie, l’oggetto delle benedizioni dei passanti (8).

Spiegazioni e considerazioni

I — 1- 3

ff. 1-3. – Queste parole del popolo giudeo, assediato e perseguitato dalle nazioni vicine quando lavorava alla ricostruzione del tempio e della città, convengono più perfettamente alla Chiesa di Gesù-Cristo, che fu lasciata appena respirare dagli attacchi incessanti dei pagani, degli eretici e dei falsi Cristiani, e che tra tante traversie, malgrado gli sforzi delle persecuzioni, si è sostenuta con la sua fermezza; malgrado gli attacchi dell’eresia, è stata una colonna di verità; malgrado la licenza dei costumi depravati, è rimasta il centro della carità. Perché questi attacchi? « Perché essi non hanno potuto prevalere su di me. » – « I peccatori hanno lavorato sul mio dorso; il male che essi hanno fatto è lungi da me. » Perché questi attacchi? « Perché essi non hanno prevalso su di me. » Che vuol dire: « Perché non hanno potuto prevalere su di me? » Il loro lavoro è stato vano. Che vuol dire:  « Perché non hanno potuto prevalere su di me? » Essi non hanno potuto fare che acconsentissi al male. In effetti tutti i malvagi perseguitano i buoni, perché i buoni rifiutano di acconsentire al male. Qualcuno ha agito male: il Vescovo non lo riprende, questi è buon Vescovo; se il Vescovo lo riprende, ecco questi è un Vescovo cattivo. Qualcuno ha rubato: colui che è stato derubato, resta zitto? Egli è buono; egli viene solo a parlare e lamentarsi, senza neanche reclamare ciò che gli è stato derubato: è un malvagio. Colui che rimprovera ad un ladro la sua cattiva azione è un malvagio, ed il ladro è un buono! In effetti chi può prevalere su di me, « … attaccandomi fin dalla mia giovinezza? » Essi mi hanno esercitato, ma non mi hanno vinto. Essi hanno potuto su di me ciò che il fuoco può sull’oro, e non ciò che fa il fuoco sul fieno. Il fuoco, quando attacca l’oro, lo purifica, e quando attacca il fieno, lo riduce in cenere. « Essi non hanno potuto prevalere su di me, » perché non ho acconsentito alla loro volontà, perché non mi hanno reso simile ad essi. « I peccatori hanno lavorato sul mio dorso; il male che hanno fatto, è lungi da me. » Essi hanno fatto in modo che soffrissi, ma non che acconsentissi. Il male che mi hanno fatto, dunque, è lontano da me. I malvagi sono mischiati con i buoni, non solo nel mondo, ma pure nella Chiesa i malvagi sono frammisti ai buoni. Voi lo sapete e l’avete provato, e lo proverete quanto più sarete migliori; perché « essendo l’erba cresciuta, ha prodotto frutti, ed è apparsa la zizzania. » (Matth. XIII, 27-43). I malfattori, nella Chiesa, non sembrano tali che a colui che è buono. Voi sapete dunque che buoni e i malvagi sono mischiati, e la Scrittura dice sempre e dappertutto che essi non saranno separati che alla fine. Ma molti di essi pur essendo mescolati, sono molto lontani gli uni dagli altri; e poiché i malfattori sono mescolati ai buoni, non si abbia a concludere che l’iniquità sia vicino alla giustizia. « Essi non hanno potuto prevalere su di me, » è scritto; di conseguenza essi hanno detto e detto inutilmente: « Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo. » (Isai. XXII, 13 e I Cor. XV, 32). I loro discorsi depravati non hanno corrotto le mie buone opere, perché su tutti i punti in cui ho inteso la parola di Dio, io non ho ceduto ai discorsi degli uomini. I peccatori hanno potuto ben fare che io li potessi sopportare, ma non hanno potuto fare che io fossi mescolato a loro, e la loro iniquità è lontano da me. Cosa c’è in effetti di più vicino di due uomini in una stessa chiesa? Cosa c’è di più lontano dalla giustizia che l’iniquità? È la comunanza di sentimenti che ha la vicinanza. Due uomini sono incatenati e portati davanti ad un giudice, un ladro ed un uomo a lui legato;< l’uno è un criminale, l’altro un innocente, essi sono legati dalla stessa catena e sono legato l’uno all’altro. A qual distanza sono l’uno dall’altro? Alla distanza che separa il crimine dall’innocenza. Eccoli dunque ben lontani l’uno dall’altro. Al contrario il brigante che ha commesso i suoi crimini in Spagna, è vicino al brigante che ha commesso i suoi in Africa. A qual punto sono vicini l’uno all’altro? … di tutta la vicinanza che unisce crimine a crimine, ed il brigantaggio al brigantaggio. Che nessuno tema quindi la vicinanza corporea dei malfattori, ma sia lontano da loro con il cuore e porterà con sicurezza un fardello del quale non dovrà temere: « Il male che essi hanno fatto, è lontano da me. » (S. Agost.). – I fedeli, meravigliati nel veder durare tanto tempo la persecuzione, si indirizzano alla Chiesa loro madre domandandone la causa: è da tanto tempo, o Chiesa, che si colpiscono i vostri pastori, e le pecore disperse. Dio si è forse dimenticato di voi? Se non fosse stata una cosa passeggera, noi potremmo pensare che si trattasse di una prova; ma dopo tanti secoli di persecuzione, i mali vanno sempre più crescendo, e gli scandali si moltiplicano; i venti turbinano, e flutti si sollevano; voi siete battuta di qua e di là, trasportata dalle onde e dalla tempesta; non temete di essere inabissata? Miei figli – risponde la Chiesa – io non mi stupisco di tante traversie; io sono abituata dall’infanzia: « Questi stessi nemici che mi attaccano, mi hanno già perseguitato nella mia gioventù. » La Chiesa è sempre stata sulla terra; dalla sua più tenera infanzia, essa era rappresentata in Abele, è stata uccisa da Caino, suo fratello; essa è stata rappresentata da Enoch, e si è dovuta togliere da mezzo agli empi, senza dubbio perché non potevano soffrire la sua innocenza; la famiglia di Noè poi, è stato necessario liberarla mediante il diluvio; Abramo nulla ha sofferto dagli empi? E suo figlio Isacco da Ismaele, Giacobbe da Esaù, colui che era secondo la carne, non ha perseguitato colui che era secondo lo spirito? Mosè, Elia, i Profeti, Gesù-Cristo e gli Apostoli, quanto non hanno avuto a soffrire? Di conseguenza, figlio mio – dice la Chiesa – non mi meraviglio affatto di queste violenze: guarda la mia vecchiaia, considera i miei capelli grigi; « le crudeli persecuzioni dalle quali è stata tormentata la mia fanciullezza, non mi hanno impedito di giungere a questa venerabile vecchiaia? » Se fosse stata la prima volta, io ne sarei forse turbata; ora, la lunga abitudine fa sì che il mio cuore non sia toccato. Io lascio fare ai peccatori: « Essi hanno lavorato sul mio dorso »! Io non giro la mia faccia contro di essi, per oppormi alla loro violenza; io non faccio che tendere il dorso; essi battono crudelmente ed io soffro senza lamentarli; ecco perché non do limiti alla loro furia. La mia pazienza serve da trastullo alla loro ingiustizia; ma io smetto di soffrire, e mi ricordo di Colui « che ha porto le sue guance agli affronti, e non ha sottratto la sua faccia agli sputi (Isai. L, 6). Che io sembri sempre fluttuante, stupisce? La mano onnipotente che mi serve d’appoggio saprà ben impedirmi di essere sommersa (Bossuet, Sur l’Eglise, I p.).- Non è questa anche una espressione viva e letterale di ciò che Gesù-Cristo, il capo e lo Sposo della Chiesa, ha sofferto da parte dei peccatori nella sua flagellazione? Essi hanno impresso una infinità di colpi sul suo dorso che era simile ad un campo nel quale l’aratro ha scavato profondi solchi! – La vita di un Cristiano non si svolge tra lievi piaceri, non è fatta per il riposo di una vita tranquilla; egli è attaccato negli anni della giovinezza, e questi attacchi si ripetono frequentemente … Essi hanno per scopo di provare la sua fede, di attestarne la pazienza, di meritare la corona dovuta alla virtù trionfante; san Paolo conosceva questa corona riservata a lunghi combattimenti, quando diceva: « Nessuno è coronato se non chi combatte secondo le regole » … Il Profeta passa sotto silenzio il nome di coloro che lo hanno attaccato, e non parla delle loro imprese ostili. Gli oltraggi, le persecuzioni alle quali i veri Cristiani sono soggetti hanno autori diversi da coloro che ne sono strumenti e ministri. Gli strumenti sono gli uomini, ma l’ispirazione viene dal demonio … In ogni ingiuria che soffriamo, ricordiamoci che l’esecutore non è lo stesso che l’ispiratore. Non ci irritiamo dunque contro coloro dai quali abbiamo a soffrire; ma tutte le volte che i loro insulti eccitano la nostra collera, tutte le volte che i loro oltraggi ci spingono a lottare contro di essi, tutte le volte che i loro furti e le loro rapine ci rattristano e sono il soggetto dei nostri pianti, riconosciamo l’opera di questo nemico che è il vero autore di tutto ciò che si fa, di tutto ciò che si dice contro di noi. (S. Hil.). – Ora, tutto ciò che è successo a Gesù-Cristo, deve rinnovarsi e continuarsi nel corpo e nell’anima dei fedeli. Bisogna che i veri figli della Chiesa siano battuti e arati; bisogna che i malfattori prolunghino su di essi la loro iniquità, che traccino dei solchi di menzogna, di calunnia, di disprezzo, di frode, di vessazione. Come diventare santo come Abele – diceva S. Gregorio – se non c’è Caino che esercita la nostra pazienza? È il costume di coloro che non hanno potuto trionfare nei lunghi e continui combattimenti, attaccare da dietro l’armata vittoriosa che avanza in buon ordine, ergere ogni tipo di imboscata, impiegando contro di essa tutti gli inganni, tutti gli artifizi. Così i peccatori, svergognati dall’essere stati vinti dagli uomini dabbene, li attaccano da dietro nella via della verità, per cercare di perderli con i loro sforzi artificiosi. È ciò che esprime il salmista: « I peccatori hanno battuto sul mio dorso. » (S. Hil.)

II. — 4-8.

ff. 4 – 8. Quante teste dei persecutori Dio ha già abbattuto? I faraoni, i Nabuchodonosor, gli Antiochi, i Neroni, i Domiziani,, i Dioclezioni ed altri mostri simili, così al presente e nell’avvenire, vedremo troncare la vita ancora di altri persecutori, attuali e futuri, per i loro diletti. – « Che divengano come il fieno dei tetti che dissecca prima di radicarsi. Il fieno dei tetti è l’erba che nasce sui tetti, sulle terrazze non coperte da mattoni. Esso compare in alti luoghi, ma non ha radici. Quanto sarebbe meglio per esso l’essere nato in un luogo più umile ed essersi rivestito da una verzura più gradevole. Ecco che esso non nasce in un luogo più elevato se non per disseccarsi più rapidamente. Non è ancora strappato ed è già disseccato: ugualmente gli orgogliosi non hanno trovato ancora il loro fine nel giudizio di Dio e non hanno già la linfa che dà il verdeggiare. Considerate le loro opere e vedete a qual punto son disseccati. Essi vivono tuttavia, sono ancora qui, non sono dunque ancora strappati. Essi sono disseccati, ma non sono ancora strappati; essi sono diventati « … come il fieno dei tetti, che si dissecca prima di essere strappato. » Ed i mietitori verranno, ma non lo ammasseranno per farne covoni. In effetti i mietitori devono venire per ammassare il frumento nei granai; poi ammucchieranno la pula e la getteranno al fuoco. È così che si ripuliscono i tetti dalle loro erbacce, e tutto ciò che si strappa vien gettato al fuoco, perché non c’è nulla che non sia disseccato prima di essere stato strappato. Non è là che si riempie la mano del mietitore. Ora, dice il Signore, « i mietitori sono gli Angeli »(Matth. XIII, 39), (S. Agost.) – Sanza dubbio, l’erba che cresce in un campo fertile trascorre una buona vita, per mostrare il poco valore dei suoi avversari, li compara all’erba che cresce sui tetti, dando così una doppia prova della loro fragilità, della natura dell’erba, e del luogo ove essa spunta. Tali sono gli attacchi di questi nemici, che non hanno né radici né fondamenta: essi sono come l’erba che si vede quasi nello stesso tempo fiorire, e poi cadere ed appassire su se stessa (S. Chrys.). – Quando la virtù ha resistito agli sforzi di qualche violenta passione che spinge impetuosamente nel cuore l’amore della giustizia, e cerca di strapparla, di sradicarla, deve guardarsi da un altro pericolo, intendo da quello delle lodi. Il vizio contrario la sradica, l’amore delle lodi la dissecca. Sembra che si tenga bene, sembra ben sostenersi: ed essa inganna, in qualche modo gli occhi degli uomini. Ma la radice è sterile, non assume più nutrimento, non è buona se non per il fuoco. È questa erba dei tetti, di cui parla Davide, che si secca da se stessa prima che la si strappi. Sarebbe da desiderare che non fosse nata in un luogo così alto, e che durasse più a lungo in qualche valle deserta; sarebbe da desiderare per questa virtù che non fosse esposta in un luogo sì eminente, ma si nutrisse in qualche angolo con l’umiltà cristiana. (Bossuet, II Panég. De S. Jos.) – Per quanto energica sia questa immagine, per noi che non conosciamo nulla di più vile, di più deperibile di quest’erba senza linfa che vegeta sui tetti delle case, forse, nel gran giorno del giudizio ultimo queste parole non ci sembreranno più esagerate, ma molto al di sotto della realtà. Quale spettacolo, in effetti, che quello di questi uomini in precedenza sì ricchi e potenti e che avevano creduto di fondare le loro case sui troni e sugli imperi: quale spettacolo vederli precipitati al rango più infimo del mondo intero, e vederli, essi, abituati alle delizie e alle voluttà, senza poter soffrire il più lieve incomodo, condannati all’eterno supplizio, senza alcun alleviamento, senza alcuna consolazione, e questo senza fine e per sempre! (Bellarm.). – Passando in mezzo ai lavoratori, c’era l’abitudine di dire: « La benedizione di Dio sia su di voi; » e questa abitudine era osservata dai Giudei, come si vede nel libro di Ruth. Booz, venendo nel suo campo, dice ai mietitori: « Che il Signore sia su di voi. » – Nessuno incontrava sulla sua strada degli operai occupati in un campo, nella vendemmia, nella mietitura, sia in qualche simile azione, senza benedirli; non era permesso astenersene. Altri sono coloro che raccolgono i covoni, altri quelli che passano sulla strada: coloro che ammassano i covoni non riempiono le loro mani di quest’erba, perché non si mette nel granaio il fieno spuntato sui tetti. Chi sono coloro che raccolgono i covoni? Il Signore lo ha detto: « … i mietitori sono gli Angeli. » Chi sono coloro che passano nel cammino? Coloro che lo hanno già attraversato per arrivare, per questa via, fino alla patria. Gli Apostoli, i Profeti sono di questo numero. Chi sono colo che hanno benedetto i Profeti e gli Apostoli? Coloro in cui essi hanno riconosciuto le radici della carità; ma quanto a coloro che hanno visto elevarsi sui tetti ed inorgoglirsi, con la testa elevata arrogantemente, hanno loro predetto il funesto avvenire e non hanno richiamato su di essi la benedizione del Signore (S. Agost.).

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (3)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (3)

[ Chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

PRIMA PARTE

CONSIDERAZIONI GENERALI

Capitolo III

L’ADOZIONE DIVINA, FORMA GENERALE DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Doppio aspetto della nostra divinizzazione: l’adozione divina e la incorporazione in Gesù.

Dio ha il diritto inalienabile di essere glorificato dagli uomini; e vuole che gli uomini lo glorifichino attraverso la propria divinizzazione. Di per sé, questa divinizzazione può essere considerata sotto due aspetti: uno generale, che consiste nella semplice adozione degli uomini come figli di Dio; l’altro particolare, che consiste nell’incorporazione degli uomini in Gesù Cristo. L’adozione divina è una conseguenza necessaria della nostra incorporazione in Gesù Cristo. Una volta che siamo diventati membri di Gesù Cristo, partecipiamo alla sua filiazione divina, alla grazia che ci fa entrare in un’intima unione con la natura divina. L’incorporazione in Gesù Cristo non è concepibile senza l’adozione divina, ma non è così per il contrario. Infatti, Dio avrebbe potuto comunicarci la grazia senza l’incarnazione del Verbo e innalzarci con questo mezzo alla dignità di figli di Dio, anche se questo modo sarebbe stato molto meno glorioso per Lui e per noi. « Vedete – dice San Giovanni – come il Padre ci ama, che ci chiamiamo figli di Dio: e noi lo siamo » (1 Giovanni III, 1). Una grande meraviglia è questa, ma purtroppo se ne sa molto poco. Ogni giorno chiamiamo Dio nostro Padre. Noi abbiamo ripetuto così tante volte questa parola che siamo diventati insensibili all’onore che il nostro Creatore ci ha dato permettendoci di dirla. Ci sembra naturale parlare a Dio in questo modo e trattarlo come se la nostra nascita ci avesse fatto suoi figli. Il figlio di un mendicante, cresciuto da un re, tratto dalla miseria e adottato come suo erede, poteva considerarsi come nato sui gradini del trono, dal momento che ignorava la bontà di cui era stato oggetto. Ma quale non sarebbe stata la sua umiltà e la sua riconoscenza nel confrontare la bassezza della sua origine con la dignità a cui la gratuità della generosità del padre adottivo lo aveva elevato? Non possiamo trovare in noi, miserabile argilla, qualcosa che ci autorizzi a chiamare Dio « Padre nostro ». È solo per effetto della liberalità di Dio che possiamo legittimamente usare di un nome così onorevole. Noi dobbiamo persuaderci di questo, perché questa persuasione faccia germogliare nella nostra anima due sentimenti: l’umiltà e la gratitudine.

Schiavitù e filiazione.

La forma comune che assume essenzialmente la divinizzazione degli spiriti creati è l’adozione divina: « A tutti coloro che l’hanno ricevuta – dice San. Giovanni – ha dato loro il potere di diventare figli di Dio, quelli che sono nati, non da sangue, né da volontà della carne, né da volontà dell’uomo, ma da Dio » (Giov. I, 12). Parole queste, che ci fanno capire che non dobbiamo alla nostra natura l’appartenenza alla categoria di “figlio di Dio”. San Paolo ci dà una spiegazione della meraviglia annunciata da San Giovanni. « Non avete ricevuto – egli dice – lo spirito di servitù per cui siate di nuovo nel timore; ma avete ricevuto lo spirito di figliolanza, per il quale noi gridiamo: Abba! Padre » (Rom. VIII, 15). L’Apostolo ci dà i due ordini di relazione in cui si trova la creatura razionale rispetto al suo Creatore: la schiavitù e la filiazione. Dio può essere per mezzo di essa un semplice signore o un padre. Lo schiavo è un estraneo alla famiglia del signore. Nato da un altro sangue, può aspettarsi di essere trattato con giustizia, nel migliore dei casi con indulgenza e bontà. Ma non può aspettarsi di ricevere dal suo padrone i segni della fiducia e della tenerezza che un padre elargisce ai suoi figli. Lo schiavo è una “cosa” del suo padrone. A lui deve tutto il suo lavoro, e non ha il diritto di aspettarsi da lui nient’altro che il cibo quotidiano. Se, per  beneficarlo, il padrone volesse garantirgli un salario per assicurargli il riposo e il benessere della sua vecchiaia, lo schiavo ha già più di quanto gli si debba. Egli userà volentieri il nome del suo padrone per esprimere la bontà che ha ricevuto, ma nel pronunciare quel nome, egli sa che non ha sulla sua bocca lo stesso significato che ha sulle labbra del vero figlio. La paternità del signore è metaforica. Così, lo schiavo più favorito si rassegna a vivere al di fuori dell’abitazione del signore, ad essere escluso dalla sua tavola e dalla sua casa, a non poter conversare con lui, perché questi privilegi sono riservati al figlio. – In effetti, il figlio ed il padre sono una cosa sola. E la natura non permette al figlio di godere lontano da lui la vita che ne ha ricevuto. Tutto è comune a loro: sangue, cibo, alloggio, beni, disgrazie, gioie, allegrie, dolori, pensieri, sentimenti, interessi. Il padre, felice di vedersi rivivere nel figlio, si adopererà per aumentarne l’eredità. Il figlio, da parte sua, sopporterà più fatiche per il padre che lo stesso schiavo, perché non è spinto dalla paura, né lo stimola l’interesse. Pur non ignorando che le sue fatiche saranno ricompensate, egli è tuttavia spinto da un motivo più nobile. La sua più dolce ricompensa è la gioia di compiacere il padre: nell’amarlo, trova il suo più grande vantaggio, nel rendere cioè felice colui al quale è debitore di tutta la sua felicità.

L’uomo della natura e l’uomo della grazia

Tale è il figlio e tale è lo schiavo. La differenza che separa l’uno dall’altro è proprio quella che distingue l’ordine naturale dal soprannaturale, l’uomo della natura e l’uomo della grazia. Diciamo l’uomo della natura e non l’uomo del peccato, perché, anche se la natura razionale non avesse peccato, forse non sarebbe stata dotata dei doni della grazia, doni che sono puramente gratuiti. Dio avrebbe potuto creare l’uomo senza comunicargli questa vita, dandogli solo le facoltà naturali con gli aiuti interiori ed esteriori necessari al suo sviluppo. – L’uomo, così creato, sarebbe stato un figlio di Dio? Ovviamente no, perché gli sarebbe mancato ciò che costituisce la figliolanza: la comunità della vita. Avrebbe ricevuto la vita umana da Dio e solo impropriamente, avrebbe potuto chiamarlo Padre. Ma poiché la vita donata da Dio all’uomo si differenzia infinitamente dalla vita di Dio, la dignità dell’uomo della natura sarebbe stata inferiore alla dignità di un vero figlio di Dio. Egli non sarebbe stato altro che il servo del suo Creatore e avrebbe avuto solo il diritto di chiamarlo Signore e padrone. – È vero che questo Signore, infinitamente ricco di bontà, non avrebbe potuto resistere, anche nell’ordine della natura pura, all’irresistibile inclinazione che sente di riempire di benefici i suoi servi. Avrebbe manifestato loro il suo amore con i suoi doni e rivelato i suoi attributi con l’organizzazione, lo splendore e la fecondità delle sue opere. Avrebbe permesso loro di vedere la loro bellezza nello specchio delle creature e di sentire la sua parola ripetuta da tutte le voci che, in terra e in cielo, non cessano di cantare la sua gloria. – L’uomo della natura però non avrebbe concepito la possibilità di vederlo faccia a faccia, per conversare intimamente con Lui, per penetrare nella sua dimora, per sedersi alla sua tavola, essere illuminato dalla sua luce, bruciare nel suo amore, per vivere la sua vita ed essere felice della sua felicità. Costretto a cercare la felicità, si sarebbe aspettato dalla Sapienza  divina la soddisfazione del desiderio che si sarebbe illuminato nel suo cuore. Ma questa felicità, divina nel suo oggetto, sarebbe stata umana in sé. Questo sarebbe stato allora il salario del servo e non l’eredità del figlio. La felicità è la pienezza della vita, Dio non può dare la propria felicità alla creatura che non vive della sua vita.

Ragione dei privilegi dell’uomo della grazia.

Tutti questi privilegi appartengono all’uomo della grazia. E perché? Perché l’uomo della grazia è suo figlio non solo di nome, ma anche in realtà. La paternità di Dio in relazione a lui non è una figura, ma è una realtà, fondata sulla reale comunicazione della vita di Dio. La grazia non è una pura qualità dell’anima: è la qualità la più eccellente di tutte. È insita nell’anima e fa parte del suo essere. Ma non può rimanere in essa se non in virtù dell’unione dell’anima con lo Spirito Santo, così come l’atmosfera può essere illuminata solo in virtù della sua unione con il sole. Quando a Dio piace innalzare una delle sue creature allo stato soprannaturale, Egli gli dona veramente il suo Spirito, il suo Amore sostanziale, e la sua Vita divina. Infatti Dio vive per amore, e colui al quale viene comunicato lAmore divino, vive in Dio come Dio vive in lui (1 Gv IV, 16). L’uomo della grazia è veramente rigenerato, è generato ex novo. La sua prima nascita lo aveva fatto vivere umanamente, dandogli un uomo per padre. La seconda lo fa vivere divinamente e lo costituisce figlio di Dio. – Ascoltiamo Lesio come ci spiega questo dolce mistero: « La grazia santificante ci rende figli di Dio, non in virtù della sua intrinseca perfezione (in quanto essa è una qualità creata), ma perché è, per la nostra anima, il legame attraverso il quale lo Spirito Santo si unisce a noi e ci comunica la natura divina: perché ciò che fa di un uomo il figlio di un altro uomo non è la comunicazione di un dono, qualunque esso sia, ma la comunicazione della natura fatta dal padre al figlio. Così, come Gesù Cristo è il Figlio di Dio in quanto riceve dal Padre la natura divina attraverso l’unione ipostatica, così il Cristiano è giustamente chiamato figlio di Dio perché riceve quella stessa natura attraverso l’unione della grazia. C’è però una grande differenza tra questi tre modi di possedere la vita divina: il Verbo divino l’ha ricevuta in un modo tale che essa gli appartiene essenzialmente e per identità; l’umanità di Gesù Cristo, attraverso l’unione ipostatica, la possiede sostanzialmente; essa invece non è unita alle anime giuste se non per un’unione accidentale, l’unione della grazia santificante. Questa grazia, quindi, non è la forma principale che ci rende figli di Dio, ma è la divinità stessa che ci viene comunicata; la grazia è il legame attraverso il quale questa forma divina è unita a noi; così come l’unione ipostatica fa dell’uomo Gesù Cristo il Figlio di Dio, in quanto serve come legame tra la sua umanità e la Persona del Verbo » (De Summo Bono, l. II, c. 1).

Differenza tra adozione divina e umana.

Questa spiegazione ci fa capire l’infinita distanza che separa l’adozione divina dall’adozione umana. In questa qui vediamo solo una finzione generosa. Il bambino adottato viene collocato in una casa, dove prima era solo uno sconosciuto; è vestito con abiti ricchi; si siede al tavolo di colui che egli chiamerà padre e acquisirà il diritto di possedere un giorno la sua eredità. Tutto questo è puramente esteriore, perché interiormente rimane tutto uguale, nonostante sia stato oggetto di tanto favore. – Con il suo sangue, con la sua vita, egli rimane estraneo come in precedenza al sangue e alla sostanza di colui che lo riconosce legalmente come suo figlio. Fino a questo punto arriva la paternità umana, desiderosa di estendere la sfera in cui la sua naturale fecondità l’ha racchiusa. – Ma la virtù della Paternità divina è completamente diversa. Per natura Egli può produrre un solo Figlio, la cui infinita perfezione esaurisce la sua infinita fecondità. Eppure l’inclinazione della sua generosità lo spinge ad accrescere la sua famiglia e a dare altri fratelli e sorelle all’unico Figlio. – Cosa farà per raggiungere questo obiettivo? Si allieterà con l’introdurli nella sua casa, con il farli sedere alla sua tavola, con il chiamarli a condividere la vostra eredità? Tutti questi privilegi apparterranno ai figli adottati, ma come conseguenza di un altro privilegio incomparabilmente più prezioso. Non saranno figli di Dio perché suoi eredi, ma saranno suoi eredi perché sono suoi figli (Rm. VIII, 17). E sono i suoi figli perché ricevono veramente la comunicazione della sua vita divina. Dio non si sbaglia quando ci chiama “figli suoi”, perché riconosce in noi la sua vita. E quando lo chiamiamo Padre nostro, non siamo oggetto di illusione, perché questo nome è l’espressione dell’Amore veramente divino che anima i nostri cuori. Dopo Lesio, non conosciamo nessun teologo che abbia esposto la natura della nostra divina adozione più chiaramente di Cornelius a Lapide. Nessuno ha affermato con più chiarezza e stabilito con motivi più validi la verità di questa comunicazione della vita di Dio, in virtù della quale siamo figli adottivi del Padre Celeste. Nessuno ha distinto meglio il dono sostanziale dello stesso Spirito Santo, ipsissima persona Spiritus Sancti, dai doni accidentali della grazia e della carità inerente all’anima.

Conseguenze pratiche della nostra adozione divina

Se potessimo penetrare il significato di queste realtà divine, quanto sarebbe facile per noi sottovalutare le false apparenze che ora ci abbagliano! Quand’è che la corruzione governava la terra e attingeva le acque dell’alluvione? Quando i figli di Dio, dimenticando la loro dignità, cominciarono a bramare le figlie degli uomini. Se vogliamo sfuggire al diluvio, basta ricordare quale dignità sovrumana ci dà il nostro titolo di “figli di Dio” e quali obblighi ci impone. « Siete figli di Dio! Ricordate la vostra dignità! Quando vi sollecita la carne, rispondete: sono un figlio di Dio, sono destinato a cose troppo grandi per diventare tuo schiavo. Quando il mondo vi tenta mettendovi davanti agli occhi il suo oro e le sue ricchezze, rispondetegli: sono un figlio di Dio che ha come eredità le ricchezze celesti; non è dunque degno il lasciarmi prendere prigioniero da un granello di terra bianca o gialla. Quando il diavolo vi tenta, mostrandovi onori e il loro fasto, rispondete: ritirati all’inferno, satana. Vuoi far di me un figlio del diavolo, io che sono il figlio e l’erede di Dio? Orrore! Sono nato per un regno eterno; calpesto e disprezzo tutto ciò che è temporale. Voi siete figli di Dio, le vostre opere sono grandi e difficili; i vostri sforzi incessanti; vostra sia la perfezione che il Padre celeste vi dà come esempio. Siate perfetti, dunque, come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt V, 48).

Capitolo IV

L’INCORPORAZIONE IN GESU’ CRISTO, FORMA PARTICOLARE DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE.

Dio vuole che la nostra divinizzazione si operi attraverso Gesù Cristo.

Dio vuole essere glorificato da Gesù Cristo, ma Dio vuole che la divinizzazione dell’uomo sia operata attraverso Gesù Cristo? È una questione capitale per tutti i servitori del Re Gesù. La soluzione a questa difficoltà ingigantisce la figura di Gesù Cristo, lo costituisce il Sovrano benefattore dell’umanità, la fonte da cui sgorga ogni bene, il restauratore del creato, il centro, il nodo e la soluzione di tutte le questioni del mondo e dell’umanità. Gesù Cristo appare come il medico che ha curato delle nostre ferite, come l’amico la cui generosità ha restituito la nostra fortuna ed il nostro onore, il Re sovrano al quale l’amore e la gloria sono dovuti per sempre. – Questo Dio incarnato è il modello di ogni vera perfezione, il fine di ogni vero progresso. Ci eleva ad una perfezione infinitamente superiore alle forze della nostra condizione naturale. Pur essendo l’esemplare ed il motore sovrano del mondo della materia e del mondo degli spiriti, soprattutto è l’inizio e il fine dell’ordine soprannaturale. Con l’atto stesso con cui assume la nostra miserabile natura, le comunica la sua vita divina. Egli non è solo modello dell’uomo, ma anche il Capo dell’umanità divinizzata (v. in “Le speranze della Chiesa”, I, cap. a. 2, p. 98-101). – Il verbo di Dio non intendeva limitare la comunicazione della sua divinità a un solo corpo e ad una sola anima. I suoi progetti d’amore volevano unire alla natura divina tutta la natura umana e con essa la natura angelica. Come l’uomo, composto da spirito e corpo, è il legame vivente della creazione spirituale e materiale, così il Verbo Incarnato, composto da un vero corpo ed anima e da una Persona divina, sarà successivamente, il legame tra i due mondi – il creato e l’increato – e la Testa ed il Cuore da cui la vita si estenderà alle creature razionali. – Tutte le altre nature appartenenti alla razza di Adamo saranno chiamate ad unirsi a questa natura privilegiata ed a ricevere da questa unione una comunicazione molto reale della loro vita divina. Ci sarà un solo Uomo-Dio, ma tutti gli uomini che riceveranno l’influenza dell’Uomo-Dio, potranno diventare uomini divini, operare in Lui atti divini e raggiungere la felicità divina attraverso di Lui.

La nostra deificazione si realizza con la incorporazione in Cristo

Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio, dice San Paolo (Rom. VIII, 14). Egli è il vero Padre che ci ha comunicato la sua vita. Non era necessario applicare a Dio questo dolce titolo che avrebbe unito la nostra natura alla Persona del suo unico Figlio. La grazia santificante che risulta dall’unione delle nostre anime con lo Spirito Santo, sarebbe stata sufficiente a costituirci figli adottivi del Padre Celeste. Ma per quanto questa unione fosse reale ed elevata, non poteva soddisfare le aspirazioni del Suo amore. Egli voleva che la nostra divinizzazione fosse ancora più sublime, e che la nostra filiazione divina fosse più reale, e che stabilisse un legame più intimo tra i suoi figli adottivi e il suo unico Figlio. – Che cosa ha fatto per questo? Di Lui e di noi ha fatto un grande Corpo, il cui Capo è Suo Figlio e i cui membri siamo noi. Per quanto numerosi possiamo essere – dice San Paolo – siamo un solo corpo in Cristo, e noi stessi siamo membra l’una dell’altro (Rm XII, 5). Gesù Cristo, Capo dei Cristiani, è una di quelle espressioni che si ripetono continuamente nei libri, che sentiamo ripetere ogni giorno e il cui significato è tanto poco compreso quanto familiare a tutte le orecchie. Chiedete a cento Cristiani circa il vero significato della dignità conferita loro dal titolo di membri di Gesù Cristo; chiedete loro se il Corpo mistico del Divin Salvatore abbia più realtà di qualsiasi altro corpo morale. Quanti tra loro sapranno cosa rispondere? Se avessero letto attentamente le lettere di San Paolo, si sarebbero meravigliati dell’insistenza con cui l’Apostolo ne parla. Se l’incorporazione dei Cristiani nell’Uomo-Dio fosse solo una metafora, tutta la teologia dell’Apostolo si fonda allora su di una metafora. Ma non è così. Proprio così come il nostro titolo di figli di Dio non è figurativo, ma del tutto reale, ugualmente lo è la nostra appartenenza a Gesù Cristo. Succede con questa idea come con tante altre dell’ordine spirituale, le cui espressioni, prese dall’ordine del corporale, acquisiscono una realtà più solida ed elevata nel suo nuovo significato. – Il nostro corpo è l’immagine sensibile del Corpo mistico di Gesù Cristo. Senza dubbio lo Spirito Santo, l’anima di quel corpo, è unita a tutte le membra. – La stessa parola “spirito” appartiene, per la sua etimologia, alla materia, perché in origine significa respiro; ma chi non vede che, in un senso nuovo, è tanto più vero che nel primo? Così, la parola corpo, applicata alla Chiesa, esprime, in un grado superiore, tutto ciò che è vero di essa quando è applicata al corpo umano, il più perfetto di tutti quelli che compongono il mondo materiale.

Confronto con il corpo umano.

Per convincerci di questo, consideriamo il nostro corpo. Cosa ci vediamo dentro? Una moltitudine di parti, diverse tra loro non solo nelle forme, ma anche nelle funzioni e nelle proprietà. Ma gli organi, per quanto diversi e diversificati, non formano altrettanti corpi separati. Perché? Ciò che rende i membri e il capo un unico corpo è la comunità della vita. Il principio di quella vita in noi è l’anima razionale, che, presente sia nella testa che nei membri, mantiene tra loro relazioni vitali, li anima, li muove, li fa lavorare l’uno sull’altro. Ascoltiamo sant’Agostino che, attraverso questa misteriosa unione del nostro corpo fisico, chiarisce il mistero molto più profondo dell’unità del Corpo mistico di Gesù Cristo: « Noi formiamo un solo corpo – dice l’Apostolo San Paolo – e siamo animati da uno stesso spirito. Considerate cosa succede nei nostri membri. Per quanto siano molti, essi son tutti vivificati dallo stesso Spirito. Lo spirito umano, che mi rende uomo, unisce tutti i miei membri. Io li comando e loro si muovono; giro gli occhi per vedere, apro le orecchie per sentire, muovo la lingua per parlare, allungo le mani per agire e i piedi per camminare. Le funzioni di queste membra sono diverse, ma un solo spirito è responsabile di tutto il lavorio. Esso li governa tutti; i suoi comandi sono molteplici, e le sue azioni sono molteplici; ma chi comanda e obbedisce è uno solo. Ciò che il nostro spirito, cioè la nostra anima, è per le nostre membra, lo Spirito Santo lo è per i membri di Gesù Cristo e per il Corpo di Gesù Cristo, che è la Chiesa. Quindi l’Apostolo, dopo averci detto che formiamo un solo corpo con Gesù Cristo, non ci permette di immaginarlo come privo di vita. Siamo un corpo solo, ci dice. Sì, però quel corpo è vivo? Sì. -Non c’è dubbio. – E da dove viene la vita? – Da un solo e medesimo Spirito” (S. Aug. Serm. 268, in die Pentec., ML: 38.1233).

Perché le funzioni del capo sono attribuite a Cristoe quelle dei membri del Corpo mistico sono attribuite ai fedeli?

Questa spiegazione ci aiuta a comprendere l’unità del Corpo mistico della Chiesa, ma non ci dice perché le funzioni del capo siano attribuite a Gesù Cristo e i fedeli siano chiamati membri dell’Uomo-Dio. Per comprendere questa seconda verità, torniamo al nostro corpo. Tra i membri di cui è composto, il capo esercita un innegabile primato. È posto al di sopra di tutto, come un re seduto sul suo trono. Gli incarichi che svolge attraverso gli altri membri gli conferiscono una superiorità ancora più indiscutibile della sua situazione. – Supponiamo che dalle regioni di un regno, i resoconti degli eventi relativi ai suoi subordinati raggiungano il monarca ad ogni istante. Supponiamo che, con qualche meraviglioso mezzo, il monarca stesso possa non solo parlare, ma anche agire in tutte le parti del suo regno. Questo doppio assunto, inapplicabile anche nelle monarchie più assolute, ci dà un’idea del potere della testa sui membri. La testa è per tutti i membri, il centro del sentimento ed il principio del movimento. Ma il capo non possiede ed esercita questo doppio primato per propria virtù, ma per quella l’anima. Pur essendo presente in tutto il corpo, ha la sua sede principale nella testa, nella quale svolge le sue operazioni più nobili. È lì che riceve le impressioni che si producono in tutto il corpo, e dà ordini per il suo governo. – Il nostro corpo è l’immagine sensibile del Corpo mistico di Gesù Cristo. Senza dubbio lo Spirito Santo, anima di quel corpo, è unito a tutte le membra. La sua presenza reale in tutte le anime in stato di grazia è una verità certa. Ma è un altrettanto vero dogma di fede il fatto che lo Spirito Santo non si comunica alle anime giuste se non attraverso Gesù Cristo. San Giovanni, dopo aver mostrato nel Verbo fatto carne la pienezza della grazia e della verità, aggiunge: « E dalla sua pienezza tutti noi riceviamo grazia su grazia ». Dio ha un solo Amore, quello del suo Figlio unigenito. In Lui ha messo tutti le sue compiacenze ed amabilità, e siccome la bontà di quel Figlio è infinita quanto il suo potere di amare, non potrebbe amare nulla al di fuori di Lui. Pertanto noi non possiamo essere l’oggetto del suo amore, se non nella misura in cui siamo uniti a Gesù Cristo. – Lo Spirito del Padre è stato dato a Gesù Cristo senza misura e con lo Spirito, Egli ha ricevuto la vita di grazia in tutta la sua pienezza. Noi non possediamo questa vita, se non in unione con il nostro divino Capo. Da Lui riceviamo tutti i doni soprannaturali. La sapienza, il consiglio, la forza, tutte le facoltà divine con cui si manifesta l’azione dello Spirito Santo si esercitano solo nella misura in cui partecipiamo alla divina forza che comunica all’anima il Salvatore. –  Sant’Agostino descrive questa somiglianza tra il corpo umano e il corpo dell’Uomo-Dio: « Anche se l’anima – dice il Santo Dottore – anima e vivifica tutto il nostro corpo, è nella testa che usa tutti i sensi, la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto, così come nelle altre membra lavora solo attraverso il senso del tatto; inoltre, tutti i membri sono soggetti alla testa come per eseguire i suoi comandi, ed essa, invece, occupa il posto più alto per dirigere tutto, perché svolge, in qualche modo, l’ufficio dell’anima che governa il corpo. Così, sopra il popolo di Dio, il suo Corpo mistico, è posto il suo Capo: Gesù Cristo, uomo e mediatore tra Dio e gli uomini… ragion per la quale la Sapienza divina è unita a Lui in modo incomparabilmente più eccellente e sublime che agli altri santi. Questi sono saggi, ma Egli possiede la pienezza della sapienza divina » (S. Aug. De agone christiano, c. XX, ML.: 40, 301).

Cosa significa il Corpo mistico di Gesù Cristo?

Gesù Cristo è davvero il Capo mistico del Corpo le cui membra siamo noi. La qualifica di mistico non significa che sia “fittizio” ma che, invece di essere composto da parti materiali, come è composto il corpo, lo è di anime intelligenti. Ma questo non significa che sia meno reale e la sua unità meno perfetta. Solo essa non è dello stesso genere del nostro corpo, le cui parti, insieme, formano un’unica sostanza e costituiscono un’unica persona. Nel Corpo mistico di Gesù Cristo ci sono tante sostanze e persone quante sono le membra. Ma questi vivono tutti di una sola vita; e mediante lo Spirito Santo, il principio di esso, sono tutti uniti gli uni agli altri più indissolubilmente che i membri del corpo. – Gli elementi di cui sono composti i nostri membri sono in continuo cambiamento. Ogni giorno, in ogni momento, alcuni di essi sono separati. E dopo qualche anno non ce ne sarà più nessuno di quelli che, in questo momento, costituiscono la parte materiale del mio essere. Al contrario, le anime una volta incorporate in Gesù Cristo, non possono essere separate da questo Capo divino con nessuna forza, sia dalla terra che dall’inferno. Non possono perdere la loro vita divina se non con il suicidio.

Come si perde la vita divina?

Ma questa vita non si può conservare se non si rimane uniti a Colui da cui proviene. Questo completa la somiglianza tra il corpo di Gesù Cristo e il nostro. Se uno dei nostri membri è separato dalla testa, vedremo che perde la vita. Perché? Perché la fonte della vita è nella testa e quando un membro si separa dalla fonte cessa di ricevere la sua influenza. L’arto reciso può conservare per un certo tempo la forma che l’anima gli ha dato, ma presto sarà preso dal marciume. Presto non ci sarà più traccia della vita che una volta possedeva. – La stessa cosa accade nell’anima che si è separata da Cristo: cessando di essergli unita dalla fede agli insegnamenti della Chiesa, lo Spirito di Dio, che l’animava, l’abbandona: essa perde ogni vita soprannaturale; non è capace di fare alcuna opera meritoria, di produrre frutti per l’eternità. Separato dal tronco essa è un tralcio inutile, che ha perso tutta la sua fecondità. « Colui che non rimane in Me – dice il Salvatore – sarà gettato via come un tralcio separato dalla vite, si seccherà, sarà gettato nel fuoco e brucerà in esso » – Ma non ogni peccato separa il Cristiano dal Corpo di Gesù Cristo. Un membro può essere malato o paralizzato e tuttavia rimanere unito al corpo. Così, un membro di Gesù Cristo può essere affetto dalla malattia del peccato veniale. Può anche essere privato, per un peccato mortale, della vita di grazia, eppure appartiene ancora al Corpo. Due legami infatti ci uniscono ad esso: quello della fede, che ci rende Cristiani, e quello della carità, che ci rende Santi. Se questi due legami fossero spezzati, non avremmo mezzi di salvezza. Ma anche se avessimo perso la nostra salute soprannaturale e la nostra vita per la carità, il Corpo del Salvatore, al quale rimaniamo uniti dalla fede, ci fornirebbe mezzi potenti per recuperare questi beni inestimabili: « Colui che è risorto, Gesù, nostro Capo – dice sant’Agostino – è abbastanza potente per guarire i membri malati, purché, per la loro empietà, non si separino dal Corpo, ma rimangano uniti ad esso, bastando Egli che è capace di curarli ». Non bisogna infatti disperare per la salute di un membro che è ancora attaccato al corpo; ma chi è stato tagliato fuori non è suscettibile né della guarigione né del rimedio » (S. Aug.: Serm. 117, I, ML.: 38, 754).

Differenza tra le società umane ed il Corpo mistico di Cristo

Quando a una società viene dato il nome di un corpo morale e si parla della testa e dei membri di quel corpo, tutti sanno molto bene che nessuna realtà fisica corrisponde a quelle figure. Nella società più unita c’è perfetta conformità dei sentimenti, armonia delle tendenze, subordinazione dell’inferiore al superiore. Ma i cosiddetti membri vivono della propria vita e ognuno di loro possiede un’esistenza completa, indipendentemente dall’esistenza degli altri. – Nel corpo di Gesù Cristo le membra che, come uomini, hanno ciascuna la propria vita, non hanno, come Cristiani, che una sola e medesima vita: la vita di Gesù Cristo. Comunicando Egli veramente il suo Spirito, ci rende partecipi della sua grazia. È l’unzione di cui parla la Sacra Scrittura e che, versata abbondantemente sul capo di Aronne, si estendeva fino alle estremità delle sue vesti. Così, versata sulla testa del grande Sacerdote della nuova legge, viene comunicata a tutte le parti del suo corpo. – La grazia che viene riversata dalla Testa alle membra, la vita soprannaturale che anima la testa e il corpo sono le stesse. Per mezzo di questa grazia, Gesù Cristo opera in noi e ci fa operare in Lui, cosicché ciascuna delle nostre azioni soprannaturali è più opera sua che nostra. Lui è veramente Colui che prega in noi; Colui che parla, combatte, soffre, si immola. Egli continua in noi la sua incarnazione, noi cresciamo in Lui e possediamo il sorprendente potere di far crescere Dio in noi.

Il Corpo mistico negli insegnamenti di San Paolo.

L’incorporazione del Cristiano in Gesù Cristo era, per San Paolo, un fatto così innegabile che egli lo pone come fondamento della nostra Religione. Dopo Simone il Mago, anche Cerinto nega la resurrezione dei morti. Per combatterlo, l’Apostolo non usa altra arma che questo argomento: Gesù Cristo è risorto, allora anche noi risorgeremo. C’è una tale connessione tra le due proposizioni che dalla verità dell’una segue necessariamente la verità dell’altra. Poiché Gesù Cristo – secondo San Paolo – è il nostro Capo, e noi siamo suoi membri. formiamo tutti un unico corpo. Ora questo Corpo risorto deve essere vivo e perfetto. Pertanto, è opportuno che dove si trovi il Capo, ci siano anche i membri, in modo che la loro intima unione possa costituire « quell’intero corpo che è armoniosamente unico e saldamente unito da tutti quei contatti per mezzo dei quali fornisce ad ogni membro il cibo per la sua giusta funzione » (Ef. IV, 16). – Poiché i membri non possono essere separati dal Capo, se non risorgiamo, nemmeno Gesù Cristo è risorto. E se Gesù Cristo non è risorto, la nostra fede è vana, e noi siamo i più sfortunati tra gli uomini (1 Cor. XV, 16). San Paolo fa della verità della nostra incorporazione in Nostro Signore la base dell’edificio religioso, il sostegno della nostra fede, la promessa della nostra speranza. Nello stesso spirito, la Chiesa, la Domenica delle Palme, « chiede sinceramente a Dio Padre, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, che in questo stesso Gesù e per mezzo di questo stesso Gesù, di cui Egli ha ritenuto opportuno renderci membri, possiamo meritare di partecipare alla gloriosa risurrezione del nostro Capo ».

Gerarchia delle funzioni nel Corpo mistico.

San Paolo trae due conclusioni che anche noi dobbiamo trarre. La prima è che, essendo membri del Corpo di Gesù Cristo, non possiamo avere tutti la stessa funzione e la stessa distribuzione delle grazie. Perché – dice l’Apostolo – cosa sarebbe un corpo tutto composto di occhi, di mani o di piedi? Una mostruosità! Ognuno ha ricevuto una funzione diversa. « Con la sua anima, una e indivisibile –  dice monsignor de Ségur – Nostro Signore esercitava un’infinità di funzioni diverse in ciascuna delle parti che compongono il suo sacro Corpo. Con il cervello e la testa, pensava e dirigeva tutto il corpo; con gli occhi, vedeva per tutto il corpo; con gli orecchi, sentiva; con la lingua, parlava; con il petto, respirava; con il cuore, amava; e così via discorrendo per ciascuno dei suoi organi. C’era, in questa adorabile umanità, una meravigliosa unità, insieme ad una misteriosa molteplicità; ogni parte era al suo posto ed esercitava una funzione specifica. Alcune avevano una funzione più nobile, altre meno, ma tutte contribuivano alla vita e alla perfezione del tutto. Questa stessa armonia si trova nel Corpo mistico di Gesù Cristo. La Chiesa è essenzialmente una sola; la forza trainante è una sola: Gesù! Lo spirito che lo ispira e lo vivifica è uno solo: lo Spirito Santo. Per tutti, uno e medesimo Battesimo, la stessa fede; tutti combattono la stessa battaglia; tutti hanno la stessa vocazione eterna e la stessa speranza; tutti vivono della stessa vita; eppure, nell’unità di quel corpo ci sono un numero infinito di vocazioni, diverse l’una dall’altra; una gerarchia di funzioni divinamente istituita per il bene generale » (Nos grandeurs en Jésus, e. p. 67). – Qual è l’origine di questa distribuzione di grazie? Spesso è la disposizione del soggetto: « Dio – dice San Girolamo – la cui magnificenza è sconfinata, misura l’effusione del suo Spirito secondo la capacità dei destinatari, e lascia che si versi, di questo prezioso liquore, quanto se ne possa ricevere. Il mare è immenso, ma ognuno trae da esso ciò che può ricevere e portare; così, lo Spirito Santo è immenso in se stesso, ma la sua effusione si adatta alle capacità di ciascuno ». – Tuttavia, come avverte san Tommaso, poiché la preparazione nel ricevere la grazia non dipende dall’uomo, ma da ciò che Dio stesso ha deciso con il suo libero arbitrio, dobbiamo confessare che la causa della diversità viene da Dio, che dona in modo diverso i doni della sua grazia, affinché da questa diversità nasca la bellezza della Chiesa, allo stesso modo con cui ha stabilito i vari gradi di perfezione degli esseri naturali in modo che il tutto sia perfetto. Allo stesso modo San Paolo, dopo aver detto che la grazia è stata data a ciascuno di noi secondo il dono di Gesù Cristo, aggiunge: per l’edificazione del Corpo di Gesù Cristo (S. Th. I, II, q. CXII, a. 4). – La seconda conclusione che San Paolo trae è che dobbiamo mostrarci degni del Corpo di cui siamo parte. Far cooperare il Corpo di Gesù Cristo con il male è un sacrilegio intollerabile. (1 Cor. VI, 15). « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Gesù Cristo? Mortificate i vostri corpi e continuate la passione di Gesù Cristo (Col. I, 14), affinché la vita del vostro Capo scorra abbondantemente in voi, finché il Corpo mistico non raggiunga la misura dell’età compiuta di Cristo (Ef. IV, 13) ». « Fratelli miei – diceva sant’Agostino al suo popolo – ho sempre guardato a voi come a qualcosa di grande; ma ancora di più vi guardo, quando considero le azioni del mio divino Maestro nei vostri confronti. Voi siete il prezzo dell’Incarnazione del Signore, voi siete il prezzo del suo sangue, voi siete le membra di Gesù Cristo, che abbiamo per Capo …  Glorificate, dunque, e portate Dio nel vostro corpo; Egli è nato per voi; è morto per voi; ha fatto la sua dimora in voi se vivete come si debba vivere » (S. Aug. Serm. 372, IV, De Nativ. Domini, ML., 39, 1665). « Voi – dice S. Anselmo – siete il Corpo stesso di Cristo, secondo l’Apostolo S. Paolo. Conservate, quindi, quell’organo e quei membri con l’onore che è loro dovuto. I vostri occhi sono gli occhi di Gesù Cristo. – Volgerete gli occhi di Gesù Cristo, che è la verità, alla vanità, alle sciocchezze, alla menzogna? Le vostre labbra sono le labbra di Gesù Cristo. Le aprirete, pensando che siano consacrate al servizio del vostro Dio e all’edificazione dei vostri fratelli, … le aprirete per calunniare, per pronunciare volgarità, per parlare di facezie e cose frivole? Con quale vigilanza, con quale rispetto dobbiamo governare tutti i sensi e le membra del nostro corpo, perché il Signore stesso presiede alle loro azioni! » (Med. XV).

Capitolo V

LA NOSTRO DIVINIZZAZIONE È L’OPERA DEL CUORE DI GESÙ

La nostra deificazione è un fatto indubbio.

Dio ha detto: « Io l’ho detto, siete tutti dei e figli dell’Altissimo ». Un Vescovo eloquente ha fatto questa solenne affermazione: « Il giorno di Pasqua, in mezzo agli agnelli spirituali, raggianti per il Battesimo, profumati di Cristianesimo, totalmente inebriati dall’Eucaristia, gli antichi fedeli cantavano con il principe dei teologi e dei poeti, san Gregorio: « Siamo come Cristo, perché Cristo è come noi; siamo dei per Lui, perché Egli è uomo per noi ». Non pensate che Dio sia geloso del suo titolo di Dio, o che voglia tenerlo per sé. Egli non vuole una beatitudine solitaria! Ha bisogno di distribuire le sue ricchezze. Non potendo comunicare la sua essenza, vuole comunicare la sua felicità e, per quanto sia delicato e generoso, non osa imporcela. A noi ce la offre soltanto. Pertanto, è nelle nostre mani sceglierla o meno, ed essere gli artefici della nostra trasfigurazione divina. La fede ci innesta a Cristo. Il Battesimo ci comunica la sua linfa. I Sacramenti ci bagnano con la sua rugiada. La parola divina ci manda la sua luce. La grazia ci culla con la sua brezza. La Chiesa ci coltiva con le sue mani. (Mons. Berteaud, Vescovo di Tulle). Siamo, come dice un Padre, dei in fiore: « Quando le piante divine raggiungono il loro perfetto sviluppo e portano frutto, Dio le trapianta nel suo Eden celeste e le colloca nell’assemblea degli dei. »

Chi è Gesù Cristo?

Chi è Gesù Cristo? Ogni Cristiano risponderà senza esitazioni: « Gesù Cristo è il Figlio di Dio, fatto uomo per salvarci. » Perché tutti sanno che, nella Persona del Divin Salvatore, ci sono due nature. Ma non tutti lo capiscono. Anche se hanno imparato nel catechismo che le due nature dell’Uomo-Dio rimangono nella loro unione, molti le confondono nella loro mente. Esagerando il paragone usato dalla Chiesa nel simbolo di Sant’Atanasio, essi comparano completamente l’unione dell’umanità e della divinità in Gesù Cristo all’unione dell’anima e del corpo nell’uomo. Essi immaginano la divinità come se esercitasse nel Salvatore le stesse funzioni dell’anima in noi. – La verità è che l’umanità di Gesù Cristo è assolutamente della stessa natura della nostra. San Paolo ci dice: « Divenuto nostro fratello, è stato fatto come noi in tutto, tranne che nel peccato » (Eb II, 17; IV, 15). In Lui, come in noi, l’anima vivifica il corpo, lo muove, lo governa con perfetta libertà. La Persona del Verbo di Dio divinizza la natura umana, non opera in essa, ma le comunica la propria sostanza. Gesù Cristo-Uomo è Dio, perché la sua volontà sussiste divinamente. Ma i suoi poteri umani sono liberi nelle loro azioni come se fosse semplicemente un uomo.

Con quale delle sue due nature Gesù Cristo ci ha salvati?

Ma Gesù Cristo, ci ha riscattati con la sua divinità o con la sua umanità? Entrambe hanno contribuito a questa opera, anche se in modi diversi. – Tre condizioni erano necessarie per assicurare la nostra salvezza: che le nostre colpe fossero espiate, che ottenessimo la grazia, e che la grazia fosse riversata nelle nostre anime. L’umanità del Salvatore ha compiuto le tre condizioni: come uomo ha espiato le nostre colpe; come uomo ci ha meritato  e comunicato la grazia; ma a ciascuna di queste tre condizioni, la divinità ha unito un valore infinito, senza il quale esse sarebbero state assolutamente inefficaci: « La sua umanità ci santifica – dice San Tommaso – ma dalla divinità riceve la virtù di operare la nostra santificazione » (S. Th.: III, 9, 8-6). – I santi Dottori spiegano in questo senso il nome di Cristo, che il Figlio di Dio ha voluto prendere contemporaneamente a quello di Gesù. Questo si riferisce in particolare alla prima condizione della nostra salvezza, che è l’espiazione delle nostre colpe. Il nome di Cristo ha un rapporto più diretto con la terza condizione, cioè con la santificazione delle nostre anime. In realtà, Cristo significa “consacrato”. L’olio dell’unzione è il simbolo della grazia dello Spirito Santo. Ma come può il Figlio di Dio essere chiamato Cristo, cioè unto, e quindi santificato? Sant’Atanosio ce lo spiegherà: « Il Salvatore – dice – sebbene fosse Dio, e come tale avesse il potere di dare lo Spirito Santo, ha voluto come uomo ricevere l’unzione di questo Spirito Divino, per estenderlo ad altri uomini. Questo ci fa intendere attraverso le parole del Vangelo di San Giovanni: « Li ho mandati nel mondo e mi santifico per loro, perché anche loro siano santificati nella verità. » Parole con le quali Egli ci mostra a sufficienza che non ha bisogno di riceverlo da altri, ma ha il potere di darlo. Perché non dice di essere santificato da un altro, ma di santificare se stesso, affinché noi possiamo essere santificati nella verità come a dire: Io che sono il Verbo del Padre, dono alla mia umanità lo Spirito Santo e mi santifico come uomo, affinché d’ora in poi tutti gli uomini siano santificati in Me, che sono la verità » (S. Atanasio, Orat. II, adv. Arianos, MG.: 26, 145).

Gesù Cristo il sacerdote per eccellenza.

Gesù Cristo è diventato il Sacerdote per eccellenza, il Sovrano Pontefice dell’umanità. Tutti gli altri Sacerdoti non sono che suoi ministri. Solo Lui rende grazia con la sua stessa virtù. Solo da Lui gli altri ricevono il potere di darlo. Questa grazia ha la sua origine nella sua divinità, ma la sua umanità è l’oceano senza limiti e il canale obbligato attraverso il quale ci viene comunicata: « Abbiamo visto la sua gloria – dice San Giovanni – gloria che gli appartiene come Figlio unigenito del Padre, la pienezza della grazia e della verità. Dalla sua pienezza, aggiunge San Giovanni, abbiamo tutti ricevuto » (Giov. I). Cosa c’è di più ammirevole di questo piano della bontà divina? La natura umana era stata privata della grazia dalla quale era stata dapprima arricchita e, per le macchie di cui si era coperta, era diventata incapace di recuperare quel tesoro. Gesù Cristo si fa uomo e dona all’umanità, che con Lui fa una persona, la pienezza della grazia, che d’ora in poi si riverserà dolcemente sulla stirpe alla quale si è unito. Mistero grande della nostra salvezza che non sarebbe apprezzato se, confondendo le due nature in Gesù Cristo, non sapessimo distinguere la parte che tocca a ciascuna di esse nell’opera comune. Sappiamo molto bene che il Cuore di Gesù, per la sua unione con la divinità ha la virtù di santificarci. Quindi non escludiamo da questo lavoro la divinità di Gesù Cristo, ma il nostro pensiero va direttamente alla sua umanità. Infatti, Gesù Cristo, in quanto Dio, non ha cuore, poiché è puro spirito. Si può parlare figurativamente anche del Cuore di Dio, per indicare il suo Amore. Ma, poiché il Figlio di Dio non ha altro Amore che quello del Padre suo, sarebbe un errore contro la fede attribuire a Gesù Cristo – considerato come Dio – un cuore tutto suo. No, il Cuore di Gesù è il suo Cuore umano, un cuore in tutto simile al nostro, formato dalla stessa argilla come il nostro e, come il nostro, organo degli affetti della sua anima santa.

Perché dire Cuore di Gesù e non Gesù Cristo?

Possiamo già rispondere a chi ci chiede perché parliamo del Cuore di Gesù, invece di dire semplicemente Gesù Cristo. Non è che i servi del Cuore Divino difettino di rispetto, amore e fiducia nel Nome di Gesù, ma, a questo Nome Divino, amano aggiungere lo speciale appellativo di Cuore, per fissare meglio i loro pensieri. – Gesù Cristo è il Salvatore misericordioso, ma anche il Dio altissimo, il Signore onnipotente, il Giudice terribile. Quando dico il Cuore di Gesù, scompaiono tutti i suoi terrificanti attributi, per non farmi vedere che l’amico compassionevole, il dolce Agnello immolato per espiare le mie colpe, il fratello sacrificato che, unito alla mia natura, ha voluto assumere tutte le mie malattie. – Il nome di Gesù mi avvicina al grande Dio che, per sua stessa natura, abita in una luce inaccessibile. Diventando uomo, Egli è sceso dalle sue altezze per abbassarsi al livello della mia miseria. Ma quando dico il Cuore di Gesù, vedo il Salvatore più vicino a me. Vedo in Lui il modo in cui vuole unirsi a me. Scopro in Lui l’inizio immediato della mia santificazione. – In realtà, non spiego appieno questo dolce mistero anche dopo aver capito che sia stato compiuto dall’umanità del Salvatore, in virtù dell’infinita dignità della sua divinità. L’umanità contiene, nell’unità della sua natura, poteri molto variegati. L’Uomo-Dio aveva, come noi, movimenti naturali ed atti liberi. Per quale di questi poteri è stato il nostro Salvatore? Ci ha salvati necessariamente o liberamente? – Opera ancora alla nostra santificazione necessariamente o liberamente? – Ovviamente questa non è, come potrebbe sembrare, una di quelle questioni di puro passatempo che la sottigliezza dei teologi nel tempo libero delle “Scuole” avrebbe mai potuto proporre. Al contrario, è una questione capitale, la cui soluzione deve ordinare le nostre relazioni con Gesù Cristo. È chiaro che queste relazioni saranno di natura molto diversa, a seconda che si consideri la nostra salvezza come risultato necessario dell’Incarnazione del Figlio di Dio o come effetto della sua libera scelta. C’è una sola risposta a questa domanda ed è riassunta in queste parole: Il Cuore di Gesù. – Se, con un movimento del suo Cuore, con una libera determinazione del suo immenso amore, Gesù mi ha redento: « Si è offerto, dice il Profeta, perché ha voluto ; – « Mi ha amato – esclama san Paolo – e per quell’amore si è dato per me ». Con i ripetuti sforzi di quell’amore libero e tenero ci ha guadagnato le grazie della salvezza, e con l’azione costante e sempre libera di quell’amore, riversa le sue grazie nella mia anima. – Se l’amore umano di Gesù Cristo ha un cuore per organo; se l’uso comune e la rivelazione fatta da Gesù Cristo stesso a Santa Margherita Maria ci autorizzano ad identificare il suo Cuore con il suo amore, possiamo e dobbiamo dire che l’opera della nostra divinizzazione è, in verità, l’opera propria del Cuore di Gesù. Questa formula esprime il grande mistero di cui abbiamo voluto dimostrare la realtà. Ci dice, prima di tutto, che la condivisione della natura divina è comunicata agli uomini attraverso l’umanità del Figlio di Dio. Ci fa capire che questa comunicazione è il risultato di un amore libero e splendido, libero e potente, tenero e forte del Salvatore caritatevole. – Questa formula è tanto sicura quanto commovente. Ci fa considerare il Cuore di Gesù come un immenso oceano, dal quale le acque della divinità sono state riversate in tutta la loro pienezza e dal quale si diffondono a tutte le anime giuste che popolano il cielo, la terra e il purgatorio. A tutte queste anime il Cuore di Gesù comunica la sua vita, i suoi sentimenti e la sua santità. Egli vive in loro, li fa vivere in se stessi, e la loro vita è divina come la sua. Da Lui i beati del cielo ricevono il potere di godere divinamente. Attraverso di Lui i giusti della terra combattono divinamente e riportano i trionfi divini. Attraverso di Lui anche le anime del purgatorio soffrono divinamente. – Il Cuore di Gesù è la casa della vita divina e poiché il mondo naturale non è stato creato e non esiste se non in vista dell’ordine divino, il Cuore di Gesù è in un senso molto reale il centro di tutta la creazione!

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/07/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-4/

SALMI BIBLICI: “BEATI OMNES QUI TIMENT DOMINUM” (CXXVII)

SALMO 127: “BEATI OMNES QUI TIMENT DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 127

Canticum graduum.

[1]  Beati omnes qui timent Dominum,

qui ambulant in viis ejus.

[2] Labores manuum tuarum quia manducabis, beatus es, et bene tibi erit.

[3] Uxor tua sicut vitis abundans, in lateribus domus tuae; filii tui sicut novellæ olivarum in circuitu mensæ tuæ.

[4] Ecce sic benedicetur homo qui timet Dominum.

[5] Benedicat tibi Dominus ex Sion, et videas bona Jerusalem omnibus diebus vitæ tuæ;

[6] et videas filios filiorum tuorum, pacem super Israel.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

 SALMO CXXVII.

Esortazione alla pietà, in vista del gran premio proposto alla virtù.

Cantico dei gradi.

Sommario analitico

1. Beati tutti coloro che temono il Signore, che camminano nelle sue vie.

2. Perché tu mangerai le fatiche delle tue mani, tu sei beato e sarai felice. (2)

3. La tua consorte come vite feconda, nell’interior di tua casa. I tuoi figliuoli come novelle piante di ulivi, intorno alla tua mensa. (3)

4. Ecco come sarà benedetto l’uomo che teme il Signore.

5. Ti benedica da Sionne il Signore, e vegga tu i beni di Gerusalemme per tutti i giorni della tua vita.

6. E vegga tu i figliuoli dei tuoi figliuoli, e la pace in Israele.

(1) Seminare il proprio campo e vedere il raccolto preso da un altro, era una punizione di cui Dio aveva minacciato il suo popolo in caso di infedeltà (Lev. XXVI, 16; Deut. XXVIII, 30-33; Giob. XXXI, 8). “In lateribus” si riferisce più naturalmente alla vigna che alla donna, ma “in circuitu mensa” riferendosi ai figli, il parallelismo richiede che “in lateribus” si riferisca alla donna, ciò che rende preferibile la traduzione “in penetralibus”.

 (2) In senso figurativo, il giusto dell’Antica Legge è figura del Messia, e questo salmo per intero è applicabile a Nostro Signore Gesù-Cristo; e, in effetti, la Chiesa li applica ai vespri della Festa di Dio. – Seduto alla tavola eucaristica, vi mangia il lavoro delle sue mani, il pane che fa venire nei campi e che Egli cambia nel suo Corpo. La Chiesa. Sua sposa, lo rallegra con la sua fecondità, i suoi figli, profumati di olio santo, circondano la tavola e prendono parte al suo festino.

Questo salmo, in cui il salmista vuole eccitare alla pratica del timore del Signore gli esiliati di ritorno alla loro patria, contiene l’elogio delle famiglie virtuose e la promessa che Dio riserva loro nella vita presente. Questa famiglia, di cui è descritta la felicità, è soprattutto la Chiesa, di cui Nostro Signore è lo sposo e che gli dà numerosi figli, che Egli è felice di vedere a tavola (2).

I. Promette la felicità in generale:

1° a coloro che temono Dio,

2° e questo timore fa camminare nelle sue vie (1).

II. Espone in cosa consista la beatitudine:

1° i beni della fortuna;

2° una sposa virtuosa e feconda;

3° dei figli che saranno l’ornamento della casa e la consolazione dei loro genitori (3);

4° la certezza di queste benedizioni per chi teme Dio (4);

5° la felicità di vedere tutti i loro concittadini condividere la loro felicità (5);

6° una lunga serie di figli;

7° la pace su tutto il popolo di Dio (6).

Spiegazioni e considerazioni

I. — 1

ff. 1. – Non è sufficiente avere il timor di Dio, occorre ancora camminare nelle sue vie; è per questo che il salmista riunisce due cose: il timore e le opere. Ce ne sono molti invero, nei quali la fede è perfetta, ma la vita è criminosa, e che sono i più infelici degli uomini (S. Chrys.). – Tre specie vi sono di timore: il primo tutto umano, si trova in coloro che temono di fare il male per paura che arrivino tribolazioni dal mondo; il secondo ha il suo principio nelle minacce dell’inferno e delle pene eterne; coloro che hanno questo timore si astengono dal peccare per evitare la dannazione; essi temono Dio, ma non amano ancora la giustizia; la terza specie di timore che è il timore casto, consiste nel fatto che si teme più di perdere il Signore che tutti gli altri beni, qualunque essi siano (S. Agost.). – Questo timore solo ispira di camminare nelle vie di Dio, nella sua legge e nei suoi precetti; perché essa procede dall’amore, ed il Signore ha detto: « Se voi mi amate, osservate i miei Comandamenti; » ed ancora: « colui che ama i miei Comandamenti e li osserva, egli è colui che mi ama; » ed infine: « colui che non mi ama non osserva la mie parole. » (Giov. XIV). –  Ora quali sono le vie di Dio, se non quelle conformi alle ispirazioni della virtù? … Il Salmista chiama queste vie, le vie di Dio, perché esse conducono sicuramente al cielo fino a Dio; e non è detta la via, bensì “le vie”, per insegnarci che esse sononumerose. Dio le ha moltiplicate: Egli ci ha aperto un gran numero di vie per renderci la scelta più facile (S. Chrys.). – Bisogna esaminare queste vie numerose, alfine di poter trovare quella che è buona ed arrivare, con gli insegnamenti di diversi dottori, ad entrare nella via unica della vita eterna. Queste vie sono nella Legge, sono nei Profeti, sono nei Vangeli, sono negli Apostoli, sono nel compimento di diversi precetti, e coloro che camminano in queste vie, temendo Dio,  sono beati. (S. Hilar.).

II. — 2-6

ff. 2. – Il Profeta si rivolge a tutti indistintamente; ma poiché tutti non sono che uno nel Cristo, continua al Singolare: « Tu mangerai il lavoro delle tue mani » … Ma come siamo numerosi, e siamo uno? Perché noi siamo legati a Colui del quale siamo membri e del Quale la testa è in cielo, perché vi giungano anche le membra. (S. Agost.). Dio fa la stessa promessa al giusto, per bocca di Isaia: « Dite al giusto che tutto va bene per lui, ditegli che egli gusterà il frutto delle sue virtù. » (Isai. III, 10). – Questo nutrimento non è un nutrimento corporale, è un alimento spirituale destinato a nutrire la nostra anima nel corso di questa vita; queste sono le buone opere della castità, della misericordia, della penitenza, della pace, in mezzo alle quali bisogna lavorare e lottare contro i vizi e le debolezze dei nostri corpi. Ora, è nell’eternità che noi dobbiamo raccogliere il frutto di questi lavori; ma bisognerà mangiare prima quaggiù il lavoro di questi frutti eterni, bisogna nutrire la nostra anima nel corso di questa vita mortale, ed ottenere con questo nutrimento il pane vivente, il pane celeste di Colui che ha detto: « Io sono il pane vivente disceso dal cielo. » (S. Hilar.). – Per coloro che comprendono male questo versetto, sembra che queste espressioni siano poste al rovescio, e che dovrebbe avere: Tu mangerai il frutto dei tuoi lavori. Molti in effetti mangiano il frutto dei loro lavori. Un uomo lavora alla sua vigna: egli non mangia il suo lavoro, ma egli mangia ciò che nasce da questo lavoro. Cosa dunque vogliono dire queste parole: « … tu mangerai i lavori delle tue mani »? Noi lavoriamo presentemente, il frutto del nostro lavoro verrà più tardi; ma, perché i nostri stessi lavori non siano senza piacere, in ragione della speranza di cui San Paolo ha detto: « Noi ci rallegriamo nella speranza, e siamo pazienti nella tribolazione, » (Rom. XII, 12), i nostri lavori medesimi ci causano al presente gioia, e noi ci rallegriamo per la speranza. se dunque il nostro lavoro ha potuto già costituire il nostro nutrimento  e rallegrarci, che sarà dunque il frutto di questo lavoro quando lo mangeremo? Che dice il Profeta nel salmo precedente? « Voi che mangiate il pane di dolore. » Questo lavoro delle mani è il pane di dolore. » Se non lo si mangia, il Profeta non gli avrebbe dato il nome di pane; e se questo pane non avesse alcuna dolcezza, nessuno lo mangerebbe. Con quali dolcezza piange e geme colui che prega! Le lacrime della preghiera hanno più dolcezza di tutti i piaceri del mondo. (S. Agost.). – I lavori dei frutti sono le prove con le quali l’uomo è esercitato in questo mondo perché possa pervenire al frutto dell’eternità; perché la marcia nelle vie di Dio è laboriosa, il cammino che conduce alla vita è stretto. Ma questo lavoro è ricompensato dai frutti dell’immortalità, quando l’uomo è seduto a questa tavola magnifica ove si nutre del pane celeste. (S. Gerol.) – Quanti che mangiano i lavori delle proprie mani! Essi leggono la Sacra Scrittura e non si nutrono delle parole della fede; essi ascoltano la voce dei predicatori, ma dopo averla ascoltata, si ritirano più vuoti di prima; essi mangiano ma non sono sazi perché nello stesso tempo in cui ascoltano la parola del Signore, desiderano e ricercano i beni e la gloria del secolo (Dug.).

ff. 3, 4. – « La tua sposa sarà come una vigna fertile. » La fecondità di una sposa e la moltitudine dei figli sono sempre rappresentati, nei libri santi, come effetti della benedizione di Dio. Tuttavia Dio non accorda sempre ai suoi servitori fedeli una famiglia numerosa. – Così i giusti che furono privati delle gioie del matrimonio, o le cui spose restarono sterili, non furono per questo privati della felicità della fecondità; Dio ne accordò loro una di altro genere e ben più elevata. – Gesù-Cristo, per primo, il capo di tutti i giusti e di tutti i santi, non ha avuto né sposa né figli secondo la carne, ma ha avuto per sposa la Chiesa ed una moltitudine di figli spirituali … Ma chi sono coloro per cui la Chiesa è come una vigna fertile, dal momento che vediamo entrare nelle mura di questa Chiesa degli uomini sterili? Noi vediamo entrare in queste mura un gran numero di uomini che si danno al vino, degli usurai, dei venditori di cattiva fede. È questa la fertilità di questa vigna? È questa la fecondità di questa sposa? No di certo, ma sono al contrario essi le spine che invadono la vigna; ma essa non è coperta di spine dappertutto. Essa è fertile, ma in qual distretto? « Nei lati della sua casa » … Ora noi chiamiamo i lati della sua casa, coloro che sono attaccati al Cristo. In coloro che non si attaccano al Cristo, essa è sterile (S. Agost.). – I giusti, quantunque vergini, non sono privati, sull’esempio di Gesù Cristo, loro capo, dall’avere una posterità numerosa; essi sono non soltanto i padri di coloro che generano alla fede ed alla penitenza, ma ancora le loro madri, pregando e gemendo per essi. (Dug.). – Questa sposa, è la saggezza di cui Salomone diceva: « Io l’ho amata, l’ho cercata nella mia giovinezza, ho chiesto di averla in sposa. » – Questa sposa dell’uomo che teme Dio, che circonda i lati della sua casa come una vigna feconda, si slancia su tutti i lati delle nostre opere. Per questa casa, bisogna intendere il domicilio della nostra anima che ognuno di noi purifica con il timor di Dio camminando nelle sue vie per farne un’abitazione degna dello Spirito-Santo. I figli che nasceranno da questa unione dell’anima con la sapienza, saranno giovani virgulti di olivo, intorno alla nostra tavola. Il salmista non dice: intorno al banchetto, ma “intorno alla vostra tavola”, cioè della tavola del Signore, ove prendiamo il nostro nutrimento, cioè il pane vivente di cui la virtù è di comunicare a coloro che lo ricevono la vita che contiene. (S. Hilar.). – Sia la nostra anima ritirata in se stessa, fedele a Dio, attenta a piacergli: questa sarà la sposa che farà la felicità dei nostri giorni; essa sarà feconda in buone opere, riempirà tutto il nostro interno di pensieri santi, che saranno come i nostri figli … tale è la famiglia di coloro che cercano il Signore. (Berthier).

ff. 5, 6. – Il Profeta sembra voler prevenire i dubbi che si possono opporre sulla certezza delle benedizioni di Dio. Si – riprende in questo versetto – è così che sarà benedetto colui che teme il Signore. Se noi abbiamo della diffidenza, solo da noi essa può giungere. – « Che il Signore vi benedica da Sion. » Senza dubbio voi notate già queste parole: « Così sarà benedetto l’uomo che teme il Signore; » forse i vostri occhi si porteranno già su coloro che non temono il Signore, e voi apprezzerete nelle loro dimore delle spose feconde e numerosi figli intorno alla tavola paterna; io non so fin dove sarà deviato il vostro pensiero. « Vi benedica il Signore; » sì, ma « … da Sion ». non cercate le benedizioni che non vengano da Sion. Ma dunque, fratelli miei, il Signore non ha benedetto coloro che possiedono questi beni? Là certamente c’è una benedizione del Signore; perché se non è una benedizione del Signore, chi potrebbe prendere una sposa se Dio non voglia? Chi potrebbe essere in buona salute se Dio non volesse? Chi potrebbe essere ricco se Dio non lo volesse? Questa benedizione non viene da Sion. « Vi benedica il Signore da Sion e vi faccia vedere i beni di Gerusalemme che ivi sono realmente. » In effetti, questi beni non sono quelli di Gerusalemme. Volete essere certi che questi beni non siano quelli di Gerusalemme? Dio ha detto anche ai suoi uccelli: « … crescete e moltiplicatevi. » (Gen. I, 22). Volete considerare come un gran bene ciò che è stato dato anche agli uccelli? Senza dubbio, è la parola di Dio che vi ha dato questo bene della famiglia, chi lo ignora? Ma se voi lo ricevete, sappiate usarne, e pensate al modo in cui nutrirete i figli che vi sono nati, piuttosto che pensare a vederne nascere altri. La felicità non consiste nell’avere dei figli, ma nell’avere figli virtuosi; se ne avete, lavorate per allevarli; se non ne avete, rendete a Dio azioni di grazie, Forse sarà per voi una minore sollecitudine, e tuttavia non sarete causa di sterilità per la Chiesa nostra madre; forse per voi nasceranno spiritualmente da questa madre dei figli che saranno come una giovane pianta di ulivo intorno alla tavola del Signore. vi consoli dunque il Signore, « e vi faccia vedere i beni che sono realmente di Gerusalemme, » perché questi beni lo sono realmente. Perché lo sono? Perché essi sono eterni. Perché sono eterni?  Perché è là che il Re ha detto: « Io sono Colui che sono. » (Es. III, 14). Quanto ai beni temporali, essi sono e non sono, perché non hanno stabilità; essi vengono e vanno. I vostri figli sono ancora piccoli, voi carezzate questi bambini ed essi vi carezzano; ma essi restano così? Voi sognate che essi si facciano grandi, desiderate che raggiungano un’altra età; ma badate, quando giunge una stagione della loro vita, l’altra è già morta; quando giunge l’età della ragione, la prima infanzia è già morta; quando viene l’adolescenza, la seconda infanzia è morta; quando viene la giovinezza, è morta l’adolescenza; quando giunge la vecchiaia, è morta la giovinezza; quando viene la morte, ogni età è morta. Desiderate tante età diverse, desiderate di vedere tante età prima di morire. Tutte queste cose non sono dunque realmente. Ma allora i vostri figli nascono per vivere sulla terra, o piuttosto per cancellarvene e rimpiazzarvi? Perché i figli, quando nascono, sembrano dire ai loro genitori: andiamo, pensate ad andarvene; a noi dunque tocca giocare il nostro ruolo quaggiù; perché tutta questa vita di prova del genere umano non è che una successione di ruoli, secondo questa parola del Profeta: « Ogni uomo vivente non è che vanità. » (Ps. XXXVIII, 6). E tuttavia, se riceviamo con tanta gioia dei figli che devono succederci, quanto più noi dobbiamo gioire nell’aver dei figli con i quali vivremo eternamente. Tali sono i beni di Gerusalemme, perché essi lo sono realmente (S. Agost.) – Asteniamoci dal credere che la sola ricompensa di coloro che temono Dio sia la potenza dei beni della terra, una sposa, dei figli, la prosperità negli affari domestici: queste sono delle ricompense accessorie e sopraggiunte. I beni primari ed essenziali, sono innanzitutto il timore di Dio, virtù che porta con sé la sua ricompensa, ed in seguito questi beni ineffabili « … che l’occhio non ha visto, che orecchio non intese, che il cuore dell’uomo non ha compreso. » – « Tutti i giorni della vostra vita. » Il più gran sigillo che Dio sia l’Autore di questi doni, è che essi saranno al riparo da ogni avvenimento triste, da ogni disastro, da ogni vicissitudine (S. Crys.). – E fra quanto tempo vedrete i beni di Gerusalemme? « Tutti i giorni della vostra vita. » Se dunque la vostra vita è eterna, voi vedrete eternamente i beni di Gerusalemme. Al contrario, questi beni temporali, se li vogliamo chiamare beni, voi non li vedrete per tutti i giorni della vostra vita; perché voi vivrete ancora quando avete lasciato il vostro corpo. La nostra vita continua, il nostro corpo muore alla verità, ma la vita della nostra anima non muore mai. Gli occhi non vedono più, perché colui che vede per mezzo degli occhi è partito; ma in qualche luogo si trovi colui che vedeva con gli occhi del corpo, ora vede qualche cosa (S. Agost.). – « Pace su Israele. » A che potranno servire tutti gli altri beni senza la pace? Il Profeta promette dunque qui il primo di ogni bene, quello che ne garantisce il possesso, cioè la pace ed una pace perpetua.  (S. Chrys.). – Non si tratta di una pace come la stabiliscono gli uomini tra loro, pace infedele, instabile, mutevole, incerta; non è neanche la pace che un uomo può avere con se stesso, perché l’uomo lotta contro se stesso, e lotterà fino a che abbia domato tutte le cupidigie. Qual è dunque questa pace? Una pace che l’occhio non ha visto, che l’occhio non ha inteso. Qual è allora questa pace? Quella che viene da Gerusalemme, perché Gerusalemme significa “visione di pace”. (S. Agost.).

3 MAGGIO: S.S. GREGORIO XVIII, 29 ANNI CON LA CROCE DI CRISTO SULLE SPALLE!

Il 3 maggio del 1991, in un Conclave a porte chiuse, veniva eletto dai Cardinali nominati in segreto da Gregorio XVII, al Soglio pontificio, S.S. Gregorio XVIII, successore dello stesso S.S. Gregorio XVII, G. Siri. Il giorno non fu scelto a caso dallo Spirito Santo: è questo infatti il giorno in cui la Chiesa Cattolica festeggia l’Invenzione della Croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Conosciamo la storia di S. Elena, recatasi a Gerusalemme con questa precisa intenzione, del Vescovo Macario che per distinguere tra le tre croci ritrovate in profondità nel terreno del luogo della crocefissione, escogitò un mirabile espediente, facendo avvicinare le croci, una per volta ad una donna mortalmente malata. La Croce sulla quale era morta l’umanità di Cristo, risanò all’istante la donna. Ma cosa vuole indicare lo Spirito con questo giorno scelto per l’elezione del Vicario di Cristo? La  Croce ritrovata, viene posta sulle spalle del nuovo Vicario di Cristo che dovrà così ripercorrere la salita sul Calvario fino alla crocifissione ed alla morte su quella stessa croce, per rinnovare la Passione di Cristo nella sua Chiesa nella persona proprio del suo Vicario. Come scriveva il Cardinal Manning nel secolo XIX, la Chiesa deve ripetere in tutto la vita terrena del suo Capo divino. Ecco che dopo il “tradimento di Giuda”, l’Apostasia dei più alti rappresentanti ecclesiastici, la passione nel Gestsemani di Gregorio XVII, costretto ad una cripto-prigionia sorvegliatissima per 31 anni, arrivava il momento della salita sul Golgota e dell’immolazione sulla Croce. Questo è stato il compito affidato al Pontificato di Gregorio XVIII, sottolineato ancora più dal ricordo che il Martirologio Romano fa in questo giorno di S. Alessandro I Pontefice e martire, ucciso dopo innumerevoli strazi. Alla morte in Croce, seguirà – come a Gerusalemme – la sepoltura nel sepolcro di Gesù, e la sua Chiesa sarà dichiarata morta e sepolta da tutti gli empi e dagli ipocriti marrani della terra. Ma … dopo tre giorni (di buio?), il Cristo Salvatore risorgerà vittorioso in maniera improvvisa ed inattesa dai suoi nemici, ancora una volta riprenderà la sua corona di gloria strappandola al “signore dell’universo-lucifero” – nel frattempo spacciatosi per Dio e postosi su tutti gli altari e sulla “usurpata” Cattedra di Pietro per essere adorato –; … e la Chiesa Cattolica, come Sposa immacolata di Cristo senza ruga né macchia di infamia o di errore, nuovamente risplenderà come Maestra dei popoli e Luce nelle tenebre per gli erranti accecati, ivi sarà ripristinato il culto divino apostolico autentico dei Padri e dei Pontefici di tutti i tempi con la restaurazione del Sacrificio perenne. Al Pusillus grex cattolico, mai come in questa giornata, si raccomanda preghiera e penitenza per il Santo Padre Gregorio XVIII, perché il Signore gli dia la forza e la grazia necessaria per affrontare la passione del Calvario, le sofferenze ad essa collegata, onde rinnovare, almeno in spirito, la morte sulla Croce di Gesù Cristo Nostro Signore. Che la Vergine Maria, assista ancora una volta ai piedi della Croce, come già fece con il Figlio suo e di Dio, questo figlio da Lei generato nello Spirito Santo, ed aiuti tutti noi in questa prova finale della nostra fede divina in Cristo l’uomo-Dio, nostro Salvatore.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. GREGORIO XVI – “QUAS VESTRO”

Anche in questo breve del 1841, S. S.  Gregorio XVI ribadisce la Dottrina Cattolica circa i matrimoni misti tra coniugi Cattolici ed acattolici – che venivano celebrati all’epoca nelle terre in cui convivevano l’eresia ed il Cattolicesimo – unioni nelle quali a ragione si ravvisano pericoli spiritualmente mortali per il coniuge cattolico e per la futura prole. Nel mondo scristianizzato odierno, il problema non si pone, visto che una falsa chiesa dell’uomo – che si spaccia come cattolica – permette tranquillamente matrimoni (o meglio delle unioni religiosamente illegittime) non solo tra Cattolici (i pochissimi rimasti almeno di desiderio) ed eretici acattolici (la maggioranza di novusordisti, protestanti o scismatici vari), ma pure tra cattolici ed aderenti alle religioni del demonio, maomettani, buddisti, scintoisti, induisti, perfino animisti. Queste ovviamente sono perversioni sataniche condannate infallibilmente in tutti tempi dalla Chiesa Cattolica, tranne casi in cui la Sede Apostolica ravvisava gli estremi per ottenere, sia pure a malincuore, la dispensa canonica. Nella assoluta confusione attuale, si parla anche di matrimoni tra “risposati” un neologismo blasfemo mai udito nella Chiesa e nella bimillenaria dottrina ecclesiastica, con una strizzatina d’occhio pure ad unioni omosessuali, in contraddizione palese con definizioni dottrinali e dogmatiche irreformabili e di eterna validità. Qui è chiaro che c’è il “dito di satana”, all’opposto del “dito di Dio” di cui ebbero sentore i maghi egiziani al cospetto delle piaghe mediate da Mosè. Ma oramai i tempi dell’Apocalisse sono maturi, tutto appare chiaro ed ineluttabile, per cui al pusillus grex cattolico, non resta che resistere impavido – senza nulla temere se non la morte dell’anima e le suggestioni infernali della “bestia” – nel conservare la fede fino all’ultimo respiro, o fino alla venuta del Cristo Giudice che con il soffio della sua bocca giungerà improvviso ed inatteso a bruciare l’anticristo con i suoi adepti oggi insediati abusivamente e sacrilegamente nel sacri palazzi da essi vergognosamente imbrattati con eresie, scismi, innominabili passioni, pratiche esoteriche. Che la Vergine Madre di Dio, schiacci quanto prima il capo del serpente infernale, e ci liberi dagli ipocriti apostati intenti a sprofondare anime nell’inferno.

S. S. Gregorio XVI

Quas vestro

30 aprile 1841

Le devotissime lettere che, a nome vostro e dei Vescovi di codesto Regno, Ci avete fatto pervenire tramite il Venerabile Fratello Vescovo canadese Giuseppe, pervase di sentimenti di sincera devozione, sono state per Noi motivo di gioia e di tristezza ad un tempo. A buon diritto perché, dovendo salvaguardare con ogni cura, in forza del Nostro dovere apostolico, l’integrità della sacra dottrina e del diritto, non possiamo tollerare il sopraggiungere di qualsiasi cosa che possa metterla in pericolo. È perfettamente noto il pensiero della Chiesa circa i matrimoni fra cattolici ed acattolici. Essa considerò sempre illecite e deleterie tali nozze, sia per la degradante comunione nelle cose divine, sia per l’incombente pericolo di perversione del coniuge cattolico e la scorretta educazione della prole. Trattano proprio di questo problema le più antiche disposizioni canoniche che le riprovano con tutta severità, nonché le più recenti norme adottate dai Sommi Pontefici, di cui non sembra necessaria una lunga e particolareggiata elencazione, essendo più che sufficiente ciò che precisò al riguardo il Nostro predecessore Benedetto XIV, di felice memoria, nella lettera enciclica indirizzata ai Vescovi di Polonia e ciò che si trova nel famosissimo scritto noto con il titolo De Synodo Dioecesana. – Se in qualche luogo, per le gravi difficoltà del momento e per la pesante situazione sociale, siffatti matrimoni vengono tollerati, ciò deve essere ricondotto ad una prassi di profonda ed accorta valutazione che non può in alcun modo essere presa come indizio di approvazione e di consenso, ma di semplice tolleranza, che scaturisce non da un atto di volontà ma dalla necessità di evitare mali maggiori, come sapientemente annotò Pio VII, di venerata memoria, nella lettera inviata il 9 ottobre 1803 all’Arcivescovo di Magonza, riproponendo le risposte del proprio predecessore indirizzate ai Vescovi di Bratislava, di Roznava e di Spisskà Belà. – Se, allentando in qualche modo la severità delle disposizioni canoniche, questa Sede Apostolica permise qualche volta siffatti matrimoni misti, lo fece assai a malincuore, in forza delle summenzionate considerazioni e per gravi e seri motivi, ma sempre con l’espressa ingiunzione di definire le debite precauzioni, non solo per evitare che il coniuge cattolico potesse essere fuorviato da quello acattolico, ma anche perché tenesse sempre presente l’obbligo, nei limiti del possibile, di far recedere la comparte dall’errore e si provvedesse inoltre ad educare nella santa Religione cattolica i figli di entrambi i sessi eventualmente procreati. – Si tratta di precauzioni che fondano la loro ragion d’essere nella stessa legge divina e naturale: certamente pecca contro di essa chiunque espone temerariamente se stesso e i futuri figli al pericolo della perversione. – Dalle vostre predette lettere abbiamo avuto la certezza di un abuso assai diffuso nelle diocesi di codesto Regno: matrimoni fra cattolici e acattolici senza la dovuta dispensa della Chiesa e senza le necessarie precauzioni vengono legittimati con la benedizione e con i riti sacri dai parroci cattolici. – Potete ben comprendere, Venerabili Fratelli, come non potessimo non essere gravemente colpiti da tutto questo, soprattutto perché ci siamo resi conto di quanto ampiamente abbia preso piede la pratica di tali matrimoni misti, e come si sia inoltre profondamente radicata l’indifferenza verso i contenuti della Religione in vastissime regioni di un Regno che era per l’addietro un vero vanto della Fede cattolica. – Non è Nostra intenzione sorvolare sul fatto che, in forza del Nostro santissimo compito, non avremmo tralasciato di prendere le opportune misure se fossimo stati da tempo a conoscenza della situazione. – Potete facilmente intuire il motivo del Nostro silenzio: negli ultimi tempi non è stata concessa alcuna dispensa apostolica per matrimoni misti da celebrare presso di voi se non con l’ingiunzione delle prescritte precauzioni e l’aggiunta delle norme che, per disposizione di questa Santa Sede, si debbono osservare. – Tuttavia, tra le notizie riportate, Ci è stato di non poca consolazione il fatto che, mentre venivamo edotti del male incombente, apprendevamo anche che da parte vostra e dei vostri colleghi venivano messe in atto le strategie per porvi rimedio. – Ancor più sovrabbondò di gioia il Nostro cuore constatando con quanto zelo operate in comune per salvaguardare l’integrità della fede, con quale unanime, deferente ossequio vi rivolgete a questa Sede Apostolica, maestra autorevole di verità, sempre attenti al suo cenno per orientare il vostro impegno pastorale. – Dopo aver conosciuto le Nostre disposizioni emanate in materia per altri paesi, non appena avete appurato che la prassi invalsa nei vostri territori era in aperto contrasto con i principi e le indicazioni della Chiesa, e pertanto non poteva più a lungo essere tollerata senza gravi conseguenze, non avete minimamente dubitato, in unità di intenti e di azione, che si dovesse eliminarla e, come era logico, a non demordere, pronti anche ad affrontare con fermezza eventuali gravi pericoli per garantire la salvezza eterna vostra e del gregge a voi affidato. – A rendere piena la Nostra gioia sopravvennero i copiosi frutti che scaturirono dalle vostre solerti iniziative. – Sappiamo bene infatti come i parroci, e l’altro clero, abbiano obbedito alle vostre ammonizioni e alle vostre istruzioni in proposito, tanto che – rimossa in lungo e in largo l’illegittima consuetudine – è stata ripristinata l’antica disciplina dei sacri canoni. – Esprimiamo dunque a voi, Venerabili Fratelli, la Nostra viva soddisfazione, e mentre ringraziamo Dio che vi ha rafforzato dall’alto per la tutela della fede e della dottrina, non smettiamo di esortarvi e di stimolarvi vigorosamente perché con pari decisione e costanza vi sforziate di difendere la causa della Chiesa cattolica affinché non abbia più a risorgere la malvagia consuetudine: se ancora ne persistesse qualche vestigia, ne possa essere totalmente sradicato il germe. – Nel frattempo non abbiamo potuto non soppesare con oculata attenzione tutte le cose che vi premuravate di riferirci nelle vostre lettere documentando le gravissime difficoltà contingenti che vi hanno indotti, e quasi costretti, a optare per la tolleranza qualora un cattolico o una cattolica, nonostante gli ammonimenti e le debite esortazioni dei sacri pastori, persistesse nel proposito di contrarre nozze miste in assenza delle necessarie precauzioni. – In questa situazione, non potendo altrimenti ovviare a un male maggiore per la Religione cattolica, avete deciso che i parroci potessero assistere alle nozze passivamente, senza intervenire in alcun modo nel rito religioso e senza assumere atteggiamenti che potessero essere intesi come approvazione. – Mentre rendevate operativi questi provvedimenti, con l’intento di far fronte con assennatezza al problema del momento, avevate già deciso di sottoporre al più presto a Noi un simile arduo dilemma, per ottenere in proposito il Nostro assenso, che presumevate di potere in qualche modo avere in presenza delle pressanti necessità. – Per la verità Noi, pur operando con estrema decisione al fine di mantenere integri i sacrosanti principii della Chiesa cattolica, non abbiamo mai smesso, in forza del potere a Noi conferito, di portare rimedio alle funeste situazioni di codeste regioni e alle angustie a voi sopravvenute. – Pertanto, non disapproviamo le ragioni della vostra decisione, e riteniamo che si debba accondiscendere alla vostra richiesta. – Decidiamo ciò in piena sintonia con quanto Noi stessi, sull’esempio dei Nostri predecessori, abbiamo per l’addietro permesso a fatica a favore di altre regioni. – Allo stesso modo si era espresso a più riprese Pio VI, di venerata memoria, nei confronti di qualche diocesi dello stesso Regno di Ungheria. – Infatti nella risposta che già nel 1782, mentre dimorava a Vienna, e poi nell’anno successivo, dopo il suo ritorno a Roma, inoltrò al vescovo di Spisskà Belà (e la stessa risposta ordinò fosse inviata al successore di questi nel 1795), così palesò il proprio pensiero a proposito dei matrimoni misti in quelle particolari circostanze: “Pur in presenza di precise disposizioni al riguardo, è necessario che il vescovo e i parroci si adoperino con prudente sollecitudine perché simili matrimoni non abbiano luogo e, nel caso vengano celebrati, pretendano che tutti i figli siano educati nella Religione cattolica. – Tuttavia ogni qualvolta si verifichi, contro la loro volontà, ciò che non può essere approvato, si astengano sempre dalla benedizione nuziale e la loro presenza, se lo richiedono le circostanze, sia puramente fisica e non si permettano atti o dichiarazioni che autorizzino o approvino che la prole possa essere educata in un’altra religione che non sia quella cattolica”. – Se dunque, Venerabili Fratelli, per particolari circostanze locali e situazioni personali si verifichi nelle diocesi di codesto Regno l’eventualità di un matrimonio fra un acattolico e una donna cattolica, o viceversa, anche in assenza delle prescritte precauzioni della Chiesa e non sia possibile in alcun modo evitare altrimenti il danno per la Religione senza il pericolo di un danno maggiore e di uno scandalo e nello stesso tempo ( per usare le parole del Nostro predecessore Pio VII di venerata memoria nella succitata lettera al vescovo di Magonza) si arguisca di poter contribuire al bene della Chiesa, simili nozze, pur vietate ed illecite, siano celebrate in presenza di un parroco cattolico piuttosto che di un ministro eretico a cui facilmente potrebbero rivolgersi. – In questo caso il parroco cattolico, o un altro sacerdote da lui delegato, potrà assistere al matrimonio con una presenza assolutamente passiva, con l’esclusione di qualsivoglia rito religioso, come se assolvesse al compito di semplice testimone, per così dire, qualificato o autorizzato che, dopo aver raccolto il consenso di ambedue i coniugi, avrà la possibilità, in forza del suo ufficio, di riportare nel libro dei matrimoni la validità dell’atto compiuto. – In queste circostanze, come specificamente raccomandava lo stesso Nostro predecessore, i vescovi e i parroci devono, con ancora maggiori cura e preoccupazione, provvedere che sia rimosso il pericolo di perversione per il coniuge cattolico; che si provveda nel migliore dei modi all’educazione dei figli di entrambi i sessi nella Religione cattolica e che il coniuge di fede cattolica, secondo l’obbligo che gli incombe, s’impegni con le proprie forze alla conversione del coniuge acattolico: ciò gli sarà assai utile per ottenere più facilmente da Dio il perdono dei peccati commessi. – Intimamente addolorati che si debbano introdurre simili criteri di tolleranza in un Regno che si segnalava per la professione della Religione cattolica, confessiamo con tutta sincerità di fronte a Dio di esservi stati indotti, o meglio trascinati, unicamente per evitare il sopraggiungere di più gravi danni per la Chiesa cattolica. – Con tutto il cuore esortiamo dunque voi, Venerabili Fratelli, e tutti i vostri colleghi, per l’immenso amore di Gesù Cristo che immeritatamente rappresentiamo sulla terra, a mettere in atto, dopo aver implorato la luce dello Spirito Santo, ciò che in un affare di così grande rilievo può validamente rispondere allo scopo. – Cercate anche di perseguire unanimemente l’obiettivo prefisso, perché a tale tolleranza nei confronti delle persone che si accingono a contrarre illecitamente matrimoni misti non tenga dietro, nel popolo cattolico, l’affievolimento del rispetto dei canoni che condannano tali nozze e della incessante cura con la quale la Santa Madre Chiesa si preoccupa di dissuadere i suoi figli dal contrarre tali matrimoni che recano danno alle loro anime. – Sarà dunque compito vostro, degli altri Vescovi solidali con voi e dei parroci, di ammaestrare i fedeli sia privatamente, sia in pubblico, e ricordare l’insegnamento e le disposizioni che riguardano questi matrimoni e pretenderne la scrupolosa osservanza. – Non mancherete certo di provvedere a tutto ciò in forza della vostra provata devozione, della fede e del rispettoso ossequio verso questa Cattedra del Beato Pietro, e Noi, con grande affetto impartiamo a voi e a tutti i vostri colleghi l’Apostolica Benedizione, propiziatrice dell’aiuto celeste e testimonianza del Nostro amore: Benedizione che ciascuno estenderà al proprio gregge.

Dato a Roma, presso San Pietro, sotto l’anello del Pescatore, il 30 aprile 1841, undicesimo anno del Nostro Pontificato.