TEMPO DI PENTECOSTE

TEMPO PASQUALE – 3.

I. — Commento dogmatico: Pentecoste.

Pasqua e Pentecoste, coi cinquanta giorni intermedi sono considerate come formanti una sola festa. In essa si celebra prima il trionfo di Cristo, poi il suo ingresso nella gloria e finalmente, al cinquantesimo giorno, l’anniversario della nascita della Chiesa. La Risurrezione. l’Ascensione e la Pentecoste appartengono al mistero pasquale. « Pasqua è stata il principio della grazia, la Pentecoste ne è il compimento », dice S. Agostino, poiché le Spirito Santo vi completa l’opera di Cristo. E l’Ascensione, posta al centro di questo trittico del Tempo pasquale, unisce queste due  feste. Con la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha reso i nostri diritti alla vita divina, e alla Pentecoste lì applica alle anime nostre comunicandoci il suo « Spirito Vivificatore ». Ma per fare ciò doveva prima prendere possesso del regno che aveva conquistato « Lo Spirito Santo non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora stato glorificato », dice S. Giovanni (VII, 39). L’Ascensione de’ Signore è infatti il riconoscimento ufficiale dei suoi titoli di vittoria; essa costituisce per la sua umanità la corona di tutta l’opera sua di redenzione e per la Chiesa il principio della sua esisterne e della sua santità. « L’Ascensione, scrive Dom Guéranger, è il mistero intermedio fra Pasqua e Pentecoste. Da una parte essa è il compimento della Pasqua, ponendo il Dio-Uomo vincitore della morte a capo della Chiesa e alla destra del Padre; dall’altra, determina l’invio dello Spirito Santo sulla terra ». « Il nostro bel mistero dell’Ascensione segna il limite fra i due regni divini quaggiù, il regno visibile del Figlio di Dio e il regno invisibile dello Spirito Santo. « Se io non me ne vado, il Paracleto non verrà a voi », dichiara Gesù ai suoi Apostoli: ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò (Giov. XVI, 7). II Verbo Incarnato ha finito la sua missione esterna presso gli uomini, lo Spirito Santo sta per cominciare la sua, poiché DioPadre ha non solo mandato il Suo Figlio incarnato per ricondurci a Lui, ma anche Io Spirito Santo, che « procede dal Padre e dal Figlio »  e che si rivelò al mondo con segni visibili: lingue di fuoco, vento impetuoso, ecc. — «II Padre fa tutto per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo », dice S. Atanasio. Cosi quando l’Onnipotenza di Dio Padre ci si manifesta nella creazione del mondo, leggiamo nella Genesi che « Io Spirito di Dio si muoveva sulle acque per renderle feconde (Benedizione del Fonte). Quando ci si manifesta la sapienza del Verbo, di nuovo lo dobbiamo allo Spirito Santo. Egli ha « parlato per mezzo dei profeti », è la sua virtù che ha coperto della sua ombra la Vergine Maria e l’ha resa Madre di Gesù. Lo stesso Spirito Santo sotto forma di colomba, scese su Gesù Cristo al momento del battesimo, lo condusse nel deserto e lo guidò in tutta la sua vita di apostolato. — Ma lo Spirito di santità inaugura l’impero sulle anime soprattutto colmando gli Apostoli di luce e di forza nel giorno della Pentecoste. – « Nello Spirito Santo la Chiesa è battezzata » nel Cenacolo « il soffio suo vivificante dà la vita al corpo mistico di Cristo, organizzato da Gesù dopo la sua Risurrezione ». Cosi il Redentore, soffiando sugli Apostoli aveva detto loro: «Ricevete lo Spirito Santo, saranno rimessi i peccati a quelli ai quali li rimetterete » e come è noto, lo Spirito Santo è chiamato «la remissione dei peccati (Postcomm. del martedì) e il battesimo che ha per iscopo di purificare le anime dai loro peccati è conferito « nell’acqua e nello Spirito Santo ». « Esci da quest’anima, spirito immondo », dice il sacerdote che battezza, cedi il posto allo Spirito Consolatore. Questo Spirito guarisce con la sua grazia le anime nostre e le eleva (la grazia è insieme sanans et elevans); sottrae quindi l’uomo dalla morte alla quale questi non era capace di sottrarsi da sé. In grazia sua, le anime sono soprannaturalizzate e l’influenza soprannaturale di questo Spirito può e deve vivificare tutti i loro pensieri e tutte le loro azioni, poiché, come la vita del corpo proviene dalla unione del corpo con l’anima, così pure la vita dell’anima proviene dall’unione dell’anima con lo Spirito di Dio per mezzo della grazia santificante, (S. Ireneo e S. Clemente di Alessandria). «L’uomo riceve la grazia mediante lo Spirito Santo », dice San Tommaso (S. Th. Ia IIæ, q. 112). La grazia è la soprannaturalizzazione di tutto il nostro essere, in quanto cheè «una certa partecipazione della Divinità nella creatura ragionevole » . Inoltre là dove è la grazia vi è pure Colui che ne è l’Artefice divino, e perciò la Chiesa chiama lo Spirito Santo « dolce ospite dell’anima nostra », Colui che feconda la nostra attività con « la sua intima azione ». Questo Spirito compie l’opera di formazione degli Apostoli. « Egli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà tutto quello che Io vi ho detto » dice Gesù (Giov. XIV, 26) . E ciò lo fa non solo illuminando l’intelligenza, ma anche purificando e riscaldando i cuori. La Chiesa lo chiama «luce dei cuori» e spesso durante questa settimana fa allusione a questa purificazione e a questo ritempramento della volontà, che permettono all’intelligenza di contemplare verità con maggior luce. «Chiunque fa il male, dice il Vangelo del lunedi, odia la luce e non viene alla luce per tema che le opere siano biasimate. Ma colui che compie la verità viene alla luce, in modo che le opere sue siano manifeste, perché sono state fatte in Dio ». Dimodoché lo Spirito Santo viene a render testimonianza a Cristo, come il Maestro lo aveva annunziato. E questa testimonianza Egli la rende non solo internamente con l’azione della sua grazia nei cuori, ma anche esteriormente servendosi della gerarchia visibile. E così nel corso della settimana di Pentecoste la liturgia parla costantemente dell’infusione della grazia dello Spirito Santo e insieme della predicazione della fede in Gesù. La testimonianza dello Spirito Santo nell’anima fa eco a quella che Gesù Cristo rende a se stesso per mezzo della Chiesa; negare, quindi la divinità di Gesù Cristo e la sua Risurrezione, che la Chiesa insegna, è un peccato contro lo Spirito Santo, peccato che porta già in sé una sentenza di riprovazione: « iam iudicatus est», dice Nostro Signore. Da  questo Spirito verrà, attraverso ai secoli, quella meravigliosa forza dottrinale e mistica, personificata nel Cenacolo dall’apostolo Pietro. Lo Spirito Santo, che ispirò gli autori sacri (2 Piet. I, 21), assicura al Papa e ai Vescovi, riuniti intorno a quest’ultimo, l’infallibilità dottrinale, che permette alla Chiesa docente di continuare la missione di Gesù. Lo Spirito Santo dà ai Sacramenti istituiti da Gesù la loro efficacia; lo Spirito Santo suscita anche, al di fuori dela gerarchia, anime fedeli che si prestano docilmente alla sua azione santificante; questa santità, è giustamente attribuita alla terza Persona della SS. Trinità, che è l’amore personale del Padre e del Figlio. La volontà è infatti santa quando non vuole se non il bene, ond’è che lo Spirito che procede eternamente dalla volontà divina identificata col bene, vien chiamato Santo e quindi Egli legando la nostra volontà alla volontà di Dio, è Colui che rende santi. – Così il Credo, dopo che dello Spirito Santo, ci parla della santa Chiesa, della Comunione dei Santi, della Risurrezione della carne che è il frutto della Santità e la sua manifestazione nei nostri corpi, e finalmente, della vita eterna che è la pienezza della Santità nelle anime nostre. Questa vita soprannaturale pervade i nostri cuori soprattutto nella festa della Pentecoste che ci ricorda la presa di possesso della Chiesa da parte dello Spirito Santo e che conferma, ogni anno più stabilmente, il suo regno divino nelle anime nostre. La Pentecoste celebra dunque non solo l’avvento dello Spirito Santo, ma anche l’ingresso della Chiesa nel mondo divino , dice San Paolo, « per Cristo abbiamo accesso presso il Padre nello Spirito Santo » (Ef. II, 18) . Questo anniversario della promulgazione della legge mosaica sul Sinai diventa per tutti i Cristiani quello della istituzione della nuova legge, nella quale riceviamo « non più lo spirito di servitù, ma lo spirito di adozione di figli, il che ci dà diritto a chiamare Dio nostro Padre ». La legge di Mosè mostrava quello che bisognava fare, ma non dava la forza dicompierlo, lo Spirito Santo al contrario fa conoscere la legge Evangelica e dà le grazie necessarie per metterla in pratica, poiché l’amore è il segreto della obbedienza. La Pentecoste non è quindi solamente un anniversario, ma è una vita, è la discesa dello Spirito Santo in noi; e la devozione allo Spirito Santo è il pegno della nostra santità.

II. Commento storico: Pentecoste.

Prima della sua Ascensione al cielo Gesù aveva comandato aglii Apostoli « di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendervi la promessa del Padre », cioè l’effusione dello Spirito Santo. Al ritorno dal Monte degli Ulivi, i discepoli, in numero di centoventi, ritornarono al Cenacolo « dove tutti perseverarono unanimi nella preghiera con le donne e Maria, madre di Gesù » (Act. I, 14) . Dopo questa novena, la più solenne di tutte, ebbe luogo l’avvenimento miracolosoche coincidette provvidenzialmente con la festa ebraica della Pentecoste. « Questo giorno grandissimo e santissimo (Lev. XXIII, 21) era per Israele l’anniversario della promulgazione della Legge sul Sinai.Così un gran numero di forestieri, accorsi da ogni parte a Gerusalemme, furono testimoni dell’avvento dello Spirito Santo. Circa le nove del mattino « venne all’improvviso dal cielo un rumorecome di vento gagliardo che riempì tutta la casa in cui erano gli Apostoli. E apparvero ad essi delle lingue distinte, come di fuoco, e si posarono sopra ciascuno di loro. E furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare linguaggi vari, secondo che lo Spirito Santo dava ad essi di favellare» (Act. II, 2-4). Cosi, la Chiesa, « rivestita della forza celeste » (S. Luc. XXIV, 49), comincia a Gerusalemme l’opera di Apostolato che Gesù le ha affidata. Pietro, capo degli Apostoli, prende la parola davanti alla moltitudine e, diventato « pescatore di uomini» (S. Marc. I, 17), porta, con una sola retata circa tremila neofiti alla Chiesa nascente. I giorni seguenti, i Dodici si riuniscono sotto il portico di Salomone e, come il Maestro divino, predicano il Vangelo e guariscono i malati. Così «presto aumentò la moltitudine di uomini e donne che credevano nel Signore».  Poi, recatisi fuori dalla Giudea, gli Apostoli andarono ad annunziare Cristo e a dare lo Spirito Santo ai Samaritani, e quindi a tutti i Gentili »

III. — Commento liturgico: Pentecoste.

Il cinquantesimo giorno che seguì il passaggio dell’Angelo sterminatore e la traversata del Mar Rosso, il popolo ebreo si accampò ai piedi del Sinai e Dio gli diede solennemente la sua legge. Le feste della Pasqua ebrea e della Pentecoste che ricordavano questo doppio avvenimento, erano le più importanti dell’anno. Milletrecento anni più tardi, la festa di Pasqua è segnata dalla morte e dalla risurrezione di Gesù e quella di Pentecoste (cinquanta giorni dopo, come lo indica la parola Pentecosles) dalla discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli. Queste due feste, divenute cristiane sono le più antiche del Ciclo liturgico che deve ad esse la sua origine. Esse portano rispettivamente i nomi di Pasqua «bianca «e di « Pasqua rossa ». Pentecoste è dunque la maggior festa dell’anno dopo quella di Pasqua, ed ha quindi la sua Vigilia e la sua Ottava privilegiata; vi si leggono gli Atti degli Apostoli, poiché è l’epoca della fondazione della Chiesa di cui questo libro sacro ci narra le origini, e con questo si imita quello che si osserva nella Settimana di Pasqua. Comincia una vita nuova e conviene da questo momento leggere le Nuove Scritture. Il Nuovo Testamento del resto mette l’Antico in piena luce, mostrando che in esso tutto era figura (vedi: Orazione della 2a Profezia) e nella Messa della Domenica di Pentecoste e in quella dell’Ottava, la Legge Antica e la Nuova, le Sacre Scritture e la Tradizione, i Profeti, i Padri della Chiesa e gli Apostoli fanno eco alla parola del Maestro. Tutte queste parti si combinano tra loro, come i vari pezzi di un mosaico, di modo che presentano davanti all’anima un quadro meraviglioso che sintetizza l’azione dello Spirito Santo nel mondo attraverso tutti i secoli. E per mettere ancor più in rilievo questo magnifico capolavoro, la liturgia lo incornicia, per cosi dire, di tutto l’apparato esterno delle sue sacre cerimonie dei suoi riti simbolici. Il sacerdote è rivestito di paramenti rossi, colore che ricorda le lingue di fuoco e simbolizza la testimonianza del sangue che gli uomini dovranno rendere al Vangelo per virtù dello Spirito Santo. Anticamente, in alcune chiese, si faceva piovere dall’alto della cupola, durante il canto del Veni sancte Spiritus, una pioggia di rose rosse, mentre una colomba svolazzava al disopra dei fedeli, donde il grazioso nome di Pasqua di rose dato alla Pentecoste nel XIII secolo. Qualche volta anche, per maggiormente marcare l’imitazione scenica, si suonava la tromba durante la Sequenza per ricordare la tromba del Sinai, o il fragore in mezzo a cui lo Spirito Santo discese sugli Apostoli. In questo modo il Cristiano era immerso nell’atmosfera speciale che caratterizza il tempo di Pentecoste e riceveva una novella effusione dello Spirito Santo. La liturgia celebra questo mistero ad esclusione di qualunque altra festa durante tutta l’Ottava, per impedirci di distrarne il pensiero. Il desiderio della Chiesa, dunque, è chiaramente espresso: vederci scegliere in questi otto giorni, per soggetto dì meditazione o di pie letture testi che si riferiscano alla Pentecoste. Quale migliore preparazione o ringraziamento per la comunione, per esempio, che il canto o la recita della Prosa o Sequenza di Pentecoste, uno degli esempi più belli di poesia cristiana? — Con l’ora del Nona del Sabato nell’Ottava della Pentecoste termina il Tempo Pasquale, cominciato alla Messa del Sabato Santo.

LO SCUDO DELLA FEDE (113)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIV.

L’astrologia giudiziale non ha ragione su cui si fondi.

I . Se i genetliaci hanno a risaper dalle stelle qualche poco degli eventi futuri, o liberi, o casuali, convien di necessità, che le stelle ne sieno, o segni, o cagioni; non avendo esso altre voci da palesarli. Ma le stelle non sono né cagioni, né segni di tali eventi; adunque è manifesto, che i genetliaci non possono dalle stelle risaper nulla degli eventi futuri, o liberi, o casuali, neppur da lungi. Tutta la difficoltà si riduce a mostrar per vera la minore proposizione; non si potendo contendere la maggiore, se non da chi non la intenda. Dunque mostriamola con levar prima alle stelle la virtù loro attribuita di sogni, giacché la godono a torto.

I.

II. E qui addimando: Se elleno sono segni delle vicissitudini umane, che segni sono i segni naturali, quale è l’iride della serenità, o segni, come dicono, a piacimento, quali sono la tromba e il tamburo della battaglia? Naturali non sono, perché, se fossero tali, non potrebbe non avvenire tutto ciò che da loro è significato. Ed ecco tolta in tal caso la contingenza, e con la contingenza il libero arbitrio, (mentre all’uomo tanto sarebbe il divertire ciò che di lui dicono i cieli, quanto il distogliere i cieli da’ loro corsi); eccovi l’uomo, non più uomo, ma bruto, e bruto guidato con freno d’oro bensì, ma però più forte: onde possa un puledro sperar di rompere quella cavezza che il priva di libertà, ma non lo possa già sperare un mortale, nato al comando: eccovi il destino funesto: eccovi il diamante fatale: eccovi tutte a terra le leggi più venerabili, come inette: ed eccovi alla giustizia cadute da una mano le bilance che ci ha, dall’altra la spada: le bilance, come inutili a pesare i meriti proceduti da forza; la spada, come iniqua a punire i falli. E però chiaro a chi ritiene scintilla ancor di discorso, che le stelle non possono essere segni naturali de’ fatti umani. E se non sono qual dubbio v’è, che non possono ne meno dirgli in confidenza agli astrologi, checché questi si vantino di saperli sì per minuto?

III. Saranno dunque segni imposti da libera istituzione: Sicché quel Dio, che antivede le cose prima che avvengano, abbia congegnati i pianeti con sì bell’arte, che questi col fuggirsi, coll’incontrarsi, coll’intrecciarsi, e col muoversi in tante guise, formino un’istoria del vivere di ciascuno in quel vasto cielo, che egli però distese a guisa di pelle: Extendens cælum sicut pellem (Ps. 103,2). Così le stelle non inducono alcuna necessità, ma sono meri interpreti del futuro, come sono i profeti: onde a saper ciò che dicano, basta intenderli.

IV. Un tal rispondere non può in prima valere per gli ateisti, perché essi negano la cura a Dio delle cose. Per quelli poi che l’ammettono, non può stare, perché se le stelle sono segni istituiti dalla provvidenza divina a farci antivedere sì il nostro male, come dunque Dio non c’invita a una scuola riguardevole di prudenza, con esortarci a leggere in quel suo libro continuamente, o a cercare chi vi legga per noi se non lo intendiamo? Anzi Egli non fa altro che ritirarci da tale studio, con metterlo in derisione. A chi sperava assai dalle stelle (e fu Babilonia) Stent, disse egli, stent, et salvent te augures cœli, qui contemplabantur siderei, et supputabant menses, ut ex eìs annuntiarent ventura tibi – si presentino e ti salvino gli astrologi che osservano le stelle, i quali ogni mese ti pronosticano che cosa ti capiterà.(Is. XLVII. 13). Ed a chi ne temeva (ed era Gerusalemme) A signis, disse, a signis cæli nolite metuere, quæ timent gentes – … e non abbiate paura dei segni del cielo, (Ier. X, 2). Se dunque per avviso di Dio medesimo non dobbiamo noi regolarci da tali segni, né a sperar bene, né a temer male, che segni sono? Sicuramente non sono segni da Dio istituiti a significarcelo, ma segni finti dagli uomini a lor piacere; onde che resta a noi far più di quei libri, i quali ci dichiarano tali segni? Resta gettarli sul fuoco. Tanto fecero quei gentili, convertiti già in Efeso dall’Apostolo, e tanto abbiamo a far noi: Multi autem ex eis, qui fuerant curiosa sentati contulerunt libros, et combusserunt coram omnibus – … e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti.  (Act. XIX. 19). E che quei fossero libri di astrologia, ne fa fede sant’Agostino (In Ps. 61) . L’avere però Dio steso il cielo a guisa di pelle, fu solo per denotarci, averlo steso con tanta facilità con quanta da noi suole stendersi un padiglione (Bellar. i n Ps. 103. 2). Ma se egli è padiglione, conviene adunque, che qualcuno ce l’alzi, a volere entrarvi col guardo.

V. E vaglia la verità, se in cielo fosse cosi descritta l’istoria dell’ avvenire, come pur si divisano tali astrologi, chi mai di loro potrebbe aspirare ad intenderla, senza Dio che gli porgesse quasi in mano le chiavi di sì gran cifera? Potrebbe forse una chiave tale porgersi dall’inferno? Ma come dall’inferno, se quegli spiriti non l’hanno sicuramente nemmen per sé ? Quinci è, che negli antichi oracoli sì famosi di Delfo, di Didone, di Delo, aveano i demoni per uso di dare risposte sì artifiziose. sì ambigue, che del pari valessero ad ogni evento: Ibis redibis non morieris in bello. Che accadeva loro però lavorar questi, come specchietti a più facce, se le verità contingenti stanno là sui cieli descritte a sì chiare note? Non hanno i demoni all’ingegno più forti l’ale, di quelle che abbiavi verun astrologo sommo? Ora come dunque non potevano essi poggiar tant’alto da leggere quei caratteri i n vicinanza, ed esporli poi, con gloria tanto maggiore, alla vista de’ riguardanti in uno specchio pianissimo di parole sincere e schiette? So non lo fecero, segno dunque è, che non lo potevano fare: e posto ciò, convien dire, che il futuro accidentale e arbitrario non è da Dio registrato in que’ vasti fogli. E quando volessimo violentar la ragione a credere, che vi fosse, non v’è registrato di modo che possa leggersi da nessun occhio creato, se Dio non glielo discopra. Ma con chi Egli ciò fece mai, se piuttosto egli divietò qualunque spezie di auguri, con dichiararsi, che sue parti sono renderli tutti vani? Ego sum Dominus, irrita faciens signa divinorum – Io sono il Signore, … Io svento i presagi degli indovini (Is. XLIV, 25). Forse. Dio scrisse tali cose in cielo per gli Angeli dell’empireo, a cui le può tanto meglio mostrare in se medesimo quando voglia?

VI. Senonché i moti degli aspetti celesti ci danno chiaro a veder, che non ve lo scrisse. Perché tali moti sono uguali, uniformi, e regolatissimi, come moti ordinati dalla natura: laddove gli eventi umani, come dipendenti dalla libertà, sono irregolari, e tutti differenti fra loro, e tutti difformi. Come dunque è possibile, che questi eventi siano mai per quei moti significati, se quelli e questi sono quasi due linee che non han misura comune? Non l’hanno nella qualità pur ora accennata, non l’hanno nel numero; essendo i moti degli aspetti celesti, secondo sé, di numero certo, e gli eventi umani più e più sempre movibili in infinito: onde que’ moti potrebbero al più spiegare alcune universalità corrispondenti al numero che ebber essi dalla natura, ma non potrebbero discendere a mille individualità particolari e precise che non han fine.

II.

VII. Ed ecco tolto alle stelle l’essere segni degli eventi futuri, di cui si disse. Ma né  anche ne son cagioni, né possono essere, che è l’altra parte che rimane a provarsi. E prima è certo, che non sono esse cagioni necessitanti: altrimenti urteremmo di subito nello scoglio, da noi scorto di sopra per troppo infame, qual è, che l’arbitro riconosciuto nell’uomo da tutti i teologi, da tutti i filosofi, da tutti i fisici, da tutti i giureconsulti, anzi da tutti i popoli ad una voce, per padrone di sé, sia ristretto in ceppi. Eppure in ceppi egli saria più che mai, quando a lui si assegnasse una cagion necessaria, da cui dipenda. Ma appunto tali a lui sarebbon le stelle, che, a guisa di tutti gli altri agenti naturali, sono costantemente determinate agli stessi corsi: Omnis naturæ actio terminatur ad aliquid unum (S. Th. 1. p. q. 96. a. 1. in c). Così cesserebbe ogni considerazione, ogni consiglio, ogni elezione di mezzi, ogni politica, ogni prudenza; anzi cesserebbe ogni virtù fra gli uomini, ed ogni vizio; mentre non si dovrebbe ad un uomo più maggior lode, dì quella che si meriti il ferro, quando si lascia tirare dal polo amico della sua calamita; nè ad un uomo empio dovrebbesi maggior biasimo di quello che si meriti il ferro stesso, quando dal polo avverso della medesima calamita si lascia mandar lontano.

VIII. Che se, conforme abbiam già veduto, Dio è l’architetto di questo tutto, chiamato mondo, come può egli averne mai disposte le parti sì malamente, che la natura inferiore, qual è la materiale, regga la superiore, qual è l’intellettuale? quella che è cieca, guidi la veggente? quella che è insensata, governi la ragionevole? Ogni dominio naturale è fondato sulla eccellenza della natura, dice Aristotile; (L. 3. de anima tex. 57) che però l’uomo naturalmente comanda alla donna, perché dentro la medesima spezie egli è un individuo più perfetto di lei; e però molto più signoreggia anche gli animali, e gli sferza ritrosi, e li sottomette ribelli, perché è molto più perfetto di loro ancor nella spezie. Pertanto, come hanno i cieli a dominare le nostre menti, se quanto sono a noi superiori di sito, tanto sono inferiori di dignità? Se le loro combinazioni e i loro contrasti sono la cagiono del nostro operare, converrà che si disordini il tutto con ritornare nell’antico suo caos, mentre le sostanze perfette sono tiranneggiate dalle imperfette, le spirituali dalle corporali, le semplici dalle composte; e l’uomo, in una parola che è il fine dell’universo, vien sottoposto alla natura incapace di proprio bene (Arist. 1. 4 phys. test. 34).

IX. E notisi il dir che è fine: perché se l’uomo fosso soggetto alle stelle nell’operare, l’uomo dunque sarebbe fatto per le stelle, o non le stelle per l’uomo. Ma come ciò? Non è l’uomo quegli, in grazia di cui fu da Dio già creato tutto il visibile? Non ve ne ha dubbio: mercecchè l’uomo è l’ottimo che vi sia. Se però le stelle sono fatte anch’esse per l’uomo come dunque l’uomo ha da dipendere dalle stelle nelle opere che egli fa? Chi da un altro non è dipendente nell’essere, né anche n’è dipendente nell’operare, dice l’Angelico (Contra  gentes!.. 2. c. 8), perché l’operare seguita in tutti la condizione dell’essere.

X. Ma che stancarsi in tal cosa? Non prova ciascuno in sé, che la ragione domina il corpo e che il corpo non domina la ragione? Per quanto la fame mi stimoli, se io mi risolva di anteporre il diletto stabile della temperanza al diletto de’ cibi, che è sì fugace, la mano mia non si stende a prenderli da veruna mensa più lauta cui sia presente. Se mi sollecita l’appetito inferiore, non mi violenta: ed io ho la gloria di levarmi digiuno da quel convito, che darebbe alla gola si grato pascolo. Adunque la mente comanda al corpo, non il corpo alla mente. Onde, a conchiuderla, quantunque l’uomo non abbia podestà sopra i cieli, perché non li può volgere a suo talento; non però è loro soggetto in veruna azione, ma egli è padrone di sé, ed ha le redini in mano del suo volere, senza che tutti i moventi sì rapidi delle sfere possano violentarlo a dare neppure un passo se a lui non piace.

XI. Né sia chi dica, che non i corpi celesti ma le intelligenze motrici di tali corpi (Come ancora oggi ritengono i neo platonici cabalisti della massoneria mondiale, che adorano il sole e l’inventato assurdo sistema eliocentrico – ndr.-) son quelle, cui l’uom soggiace; perché le intelligenze, a muovere l’uomo, non possano valersi d’ogni istrumento, quantunque improporzionato. Come lo scultore non può mai col pennello far la sua statua, o come il dipintore non può mai fare il suo quadro con lo scalpello; così le intelligenze non possono muover mai l’arbitrio dell’uomo coi giri di verun corpo. Convien che il muovano con rappresentargli alla mente il bene che a lui ridondi dalla tal opera, che è quanto dire, convien che il muovano a modo di chi consiglia e di ehi conforta, non di chi trascina in catene. Ma ciò non ha che far punto col caso nostro: perché  i consigli e i conforti lasciano l’uomo indifferente ad ammettergli, o a ributtarli: e però da’ giri de’ cieli non sarà mai possibile antivedere di lui ciò che sia per farsi.

XII. Senonchè quanto si è divisato finora vale a provar, che le stelle non abbiano che far colle sorti umane, quali cagioni diretto (secondo che gli antichi le veneravano, fino ad adorarle però, come loro numi); ma non vale a provar, che non vi abbiano almeno a fare, quali cagioni indirette, che è il ricovero sotto il quale i moderni astrologi si fan forti, affermando, più cauti, se non più casti, che i cieli non influiscon nell’animo de’ mortali di primo lancio, ma di rimbalzo, in quanto alterando gli organi delle potenze sensitive, il temperamento, i fluidi, le flemme, e le qualità tanto a lui necessarie nell’operare, possono fare, che egli operi di un modo più che di un altro. E fin qui dicono bone: ma con ciò confessano insieme, che né sanno né possono saper nulla di quanto pronosticano intorno al tempo della vita e della morte dell’uomo, intorno alle ricchezze e alla povertà, intorno alla prosperità e alle disgrazie, che pur sono tutto quel fondo su cui lavorano i ricami delle loro fole. E che sia vero, osservate, che se nell’astrologia vi ha nulla di sodo, è questo discorso. Il temperamento dell’uomo dipende dalle stelle; l’indole, le inclinazioni, ed i costumi di lui dipendono dal temperamento; dunque altresì l’indole, le inclinazioni ed i costumi di lui dipendono dalle stelle, indirettamente, sì, ma pur quanto basti a formarne un giudizio retto. Ora un tale discorso è tutto fallace. Se però traballa sì forte la prima pietra, che sarà della mole, che su vi sorge?

XIII. Ma su, esca pure in luce il bambino sotto un oroscopo il più fortunato a dar buono il temperamento: se s’incontra in una balia mal atta a cooperarvi, io veggo le stelle in un labirinto grandissimo, senza filo da giungere a mantenere ciò che promisero. Conciossiachè tutti i filosofi e tutti i fisici son d’accordo, che il latte della nutrice, giovane o vecchia, gagliarda o vizza, porti al temperamento divario grande: e che il latte congenito della madre sia sempre migliore alla prole che quello di una straniera: la quale, ove pure ammettasi, vogliono che sia scelta anche di costumi, mentre le istorie romane tutt’ora piangono il loro Romolo, allattato da una lupa crudele, un Comodo ed un Caligola, abbeverati di sangue più che di latte; ed un Tiberio, allattato da una levatrice intemperantissima.

XIV. Spoppato quinci il bambino, ecco che egli incomincia a nutrirsi di cibo sodo, e con ciò cresce l’impegno alle stelle, e l’impossibilità di mantenersi veridiche, benché vogliano. Perciocché chi non sa quanto possa nel nostro corpo la qualità del nutrimento quotidiano? Basta leggere i trattati che ci hanno sopra ciò lasciati i medici più famosi, tanto benemeriti del genere umano, quanto ne sono traditori gli astrologi. Fino i poeti intesero questo vero: ond’è che Omero, formando nel suo Achille l’idea di un eroe magnanimo, lo finse nutrito colle midolle dei leoni, per figurarlo robusto di forze insieme e di cuore. Fate però, che il garzoncello, mirato sì benignamente da’ luminari celesti ne’ suoi natali, si dia tosto in preda ai banchetti, ai bagordi, all’intemperanza; con quale stame le stelle sue natalizie potranno allungargli la vita? Plures occidit gula, quam gladius. E il simile dite se egli nasca in luogo d’aria insalubre, o vada a soggiornare per accidente in valli palustri, umide, uliginose, e non dominate da venti, fuorché nocevoli. Vinceranno le stelle la qualità di quel suolo infausto? E finalmente, se egli, caduto infermo a cagione de’ suoi disordini, si abbatta in un di quei medici che si fanno pagare per ammazzarvi, con quale scudo il ripareranno da questo colpo i pianeti promettitori?

XV. Direte forse, che se egli nacque sotto buono ascendente, non ha da temere di quegli incontri sinistri da me accennati? Ma perché non ha da temerne? Perché le stelle che lo tolsero in cura gli abbiano per ventura a tenere indietro quali protettrici amorevoli? Ma ciò sarebbe altro che farle operare da cagioni particolari e parziali, influitrici nel solo temperamento. Sarebbe farle operare da cagioni universalissime, anzi vive, veggenti, e piene in sé di perfetta divinità, la qual disponesse dì tante varie creature a bacchetta per giungere al fine inteso. E poi, se le stelle potranno provvedere il lor caro allievo di medico ottimo, quando egli sarà in pericolo di morire: come potranno, quando egli ancora non nacque, provvederlo di ottimi genitori, se i genitori non poté veruno sortire fuorché nascendo? Non vedete voi, che coteste sono follie da contarsi per ridere in su le veglie? A voler però, che l’astrologo possa farci promessa di lunga vita a nome delle stelle, da lui considerate al nostro natale, converrà prima che egli conosca assai bene il temperamento di quei che ci generarono, e poi che da quelle stelle medesime egli risappia ad uno ad uno gl’innumerabili casi i quali, nel temperamento nostro influendo più da vicino, avranno sempre possanza somma a rifrangere e ripercuotere quegli influssi che sì da lungi mandino a noi le costellazioni celesti per nostro prò. Ma chi può ridir tali casi, se, come innumerabili, sono ignoti a qualsivoglia altra mente, che alla divina? Nè anche gli Angeli, motori dello stelle, potrian ridirli, se non fossero interrogati.

XVI. Certo è, che Sisto di Eminga, dopo di avere, in questa scuola de’ pianeti, consunti poco men che tutti i suoi giorni, confessa che gli astrologi, per quanto studio si facciano sopra l’oroscopo di un bambino nascente, non potranno mai risaper dalle pure stelle se egli sia nato vivo, o sia nato morto (In Genitura Caroli a Brimeu); giudicate poi se ne potran risapere (come si vantano), se egli sarà per vivere molto o per viver poco ? E forse che tal prova non è stata già fatta più d’una volta con gran piacere, chiedendo la natività di un bambino estinto, come s’egli fosse anche vivo, e ricevendola tuttavia dall’astrologo felicissima?

XVII. Mi giova riferire una beffa, anche più piacevole, che un principe italiano si fè di sì vana scienza, affine di schernire, come a lui parve giusto, frode con frode (Millet. prop. 19): Questi avvisato del nascimento di un mulo nelle sue stalle, ne fece dare all’astrologo il punto esatto, sotto un nome di un bastardo nato in palazzo. E l’astrologo di ciò ignaro, postosi lungamente a studiare su quell’oroscopo, per la speranza di ottener tanto più di vantaggio alla sua fortuna, quanto più egli ne presagisse all’altrui, trovò subito in cielo due luminari ne’ segni maschi, assistiti da cinque pianeti mattutini in riguardo al sole, e vespertini in riguardo alla luna; e conchiuse che il cielo non poteva essere mai più bello, e che però non potendo quel bambino essere re, come ad ogni patto volevate Tolomeo sotto quegli aspetti (L. 4. de iudic. c. 3), conveniva per necessità che fosse sollevato alle prime dignità, ancora sacre, di cui capaci si fossero i suoi natali. Questi furono i vaticini che, recati al principe e letti da lui pubblicamente a’ suoi cavalieri, empirono tanto il volto di rossore a quel valent’uomo, quanto credea che gli dovessero empire le mani d’oro. Pertanto converrà dire che se le stelle mandano su tutti i viventi gli stessi raggi, una bestia nata sotto i più favorevoli che vi sieno dovesse andar per lo meno libera da ogni soma per tutta la vita sua, o che se alcuna ne avesse pure a portar mai, come l’altre, dovesse puramente, qual mulo illustre, sottoporgli omeri a qualche lettiga reale.

XVIII. Non è di poi meno falsa, l’altra proposizione, su cui si appoggia l’astrologia giudiziaria per tenersi in piedi, ed è, che le volontà degli uomini seguano per lo più il temperamento de’ corpi subordinato alle stelle: ond’è, che per esso può verisimilmente congetturarsi ciò che quegli sian per volere. Sì, se null’altro ostasse a tal congettura.  Conciossiachè quanto importa primieramente a variar l’indole, l’inclinazione, i costumi, la buona e rea educazione che sortisca? Su ciò si fonda principalmente la stima in che tutte le genti han tenuta sempre la nobiltà de’ natali: su la presunzione, che reca seco di andar congiunta con educazione più onorevole, attesi gli stimoli che di più lo porgono al fianco le operazioni degli antenati, in virtù di cui, quasi a generoso corsiere, se le raddoppi la necessità  di portarsi più risoluta in cima alla gloria. Onde in ordine ad un allevamento tale (stimato da’ legislatori la base potissima dell’umana felicità), che parte hanno le stelle? Se non vogliam delirare, nessuna affatto: mentre ciò non dipende da alcuna qualità corporea, cui solo può stendersi l’efficienza de’ cieli. Tanto più, che questa medesima educazione riceve gran vantaggi e gran varietà dal governo de’ dominanti, dalle pene, da’ premi e dalle leggi da loro tenute in vigore. Vogliamo noi credere, che le stelle influissero diversamente in Atene, in Sibari, in Sparta, situate in distanza nulla considerabile quanto agli astri? Eppure gli ateniesi erano sì ingegnosi di spirito, i sibariti sì femminili, gli spartani sì forti. La diversità non veniva però dal cielo, ma dal governo. Quel bracco di buona razza, che, se da piccolo fosse stato avvezzato a latrare intorno alla morta pelle di un orso, avrebbe animo di sfidar le fieranche vive nella lor tana; perché all’incontro fu avvezzato in cucina da un guattero poltroncello a covar la cenere, appena da lontano lo mira, che fugge in salvo.

XIX. Medesimamente il vivere in compagnia de’ cattivi, chi non sa, forse anche a suo costo, quanto pregiudichi alla sincerità de’ costumi? Un cedro marcio è men abile ad ammorbare quel sano, cui sta vicino, che un reo compagno quel buono: Sumuntur a conversantibus mores, diceva Seneca (De ira 1. 3. c. 8), et ut quædam in contactos. corporis vitia transiliunt. ita animus mala sua proximistradit.

XX. Cosi anche il rimprovero interno della coscienza, quanto vale a ridurci sul buon sentiero? quanto l’avviso di un consigliere fedele? quanto l’ambizion di una carica fruttuosa? Il timore di non rovinare i figliuoli, non è bastante a rattenere da più vendette anche un animo pronto all’ira? Quanti disordini viene a distornar nelle case una moglie saggia, coll’autorità che le danno le sue maniere? quanti raffrena la dignità del suo grado? quanti ritiene il detto delle sue genti? E con ciò, che hanno a fare giammai le stello? Anzi tanto meno vagliono queste di tutto ciò, che non v’è tra’ saggi chi esse chiami più volentieri a consulta sui propri affari, con persuadersi, che esse li guidino meglio. Ne’ matrimoni, ne’ cambi, nelle compere, ne’ litigi da imprendersi che si fa? Si pesano le ragioni, non si va di notte, neppur dagli astrologi, a interrogare i pianeti apparsi.

XXI. Però, quando ben per via delle stelle potesse risapersi il temperamento di verun uomo (che neppur si può risapere), il volere tuttavia dal temperamento raccorre in altri le propensioni che egli abbia, e dalle propensioni indovinare le operazioni libere che abbia a fare, è molto più temerario, che se entrando nelle stanze di Apelle, volessero altri indovinar le figure ch’egli formerà sulla tela che ha quivi all’ordine. Perché in fino né Apelle, né Protogene, né Parrasio, né Raffaello, indettati insieme, sapranno mai rimenare sì variamente, e rimescolare le loro tinte, che non sia sempre più varia la combinazion che può fare l’arbitrio umano de’ suoi pensieri, nelle risoluzioni a cui vuole apprendersi.

XXII. Replicheranno gli astrologi che essi non pronosticano ciò che assolutamente sia per succedere dalle volontà de’ mortali, ma ciò che succederebbe, se le inclinazioni impresse dalle stelle nel temperamento de’ corpi non fossero disturbate. Bellissimo sotterfugio. Ma se è cosi, pronosticano dunque essi ciò che non sanno, né possono sapere, se sarà mai. Perciocché queste inclinazioni verranno sempre variate dalle cagioni mentovate di sopra, che sono inescogitabili; ed affinché non si varino, converrà ritrovare un uomo, che viva fuori del mondo o non v’entri mai. Che se, al detto dell’Angelico (1. p. q. 57. art. 5), quelle verità contingenti, che accadono rade volte, non possono mai sapersi da verun uomo prima che accadano, bisognerà pure confessar, che l’astrologia giudiziale non è scienza, ma ciurmeria.

XXIII. E che sia così, non ha dubbio, che ad arrivare le inclinazioni degli uomini molto più dovrebbon valere le regole della fisonomia, la quale si fonda sul temperamento già lavorato dalla natura nel corpo umano, di quelle che ci porga l’astrologia, la quale si fonda sul temperamento che ancora ha da lavorarsi (Arist. Prior, 1. 2. e ult. phys. c. 1. etc.). Il curatore de’ cani, all’aspetto sa riconoscere il cane ardito: il cozzon de’ cavalli, all’aspetto sa ravvisare il cavallo altero. Così il fisonomista, all’aspetto sa raffigurare se l’uomo sia forte o timido, verecondo o sfacciato, umile o superbo, ingegnoso o goffo; mercecché convenendo in quei segni tutti gli animali sottoposti a tali affezioni, e non vi convenendo alcuno degli altri non sottoposti, giustamente egli ne deduce, che siano segni da poterle indicare al pari negli uomini anch’essi, benché superiori agli altri per la ragione. Eppure da que’ segni di forte, di timido di verecondo, di sfacciato, di umile, di superbo d’ingegnoso, di goffo, anzi neppure dalle inclinazioni già comprovate per tali segni, può mai sapersi, come Aristotile afferma (Physon. c. 2. n. 11), se uno sia soldato, sia musico, sia medico, sia architetto, e per aggiungere ancora ciò, sia prelato di santa chiesa. E come dunque da’ segni di quelle inclinazioni, anzi da quelle inclinazioni medesime può dedursi che egli sarà? E la ragione fondamentale si è, perché ad essere, a cagion d’esempio, prelato di santa chiesa, non basta l’inclinazione della natura data allo studio, alla pietà, alla prudenza, alla rettitudine, ci vuole di più chi ti ammaestri a proposito, chi ti porti, chi ti promuova, e chi al confronto di mille competitori, non meno di te meritevoli, elegga te. E ciò si può inferir dalla inclinazione che in te prevalga?

XXIV. Divinamente insegnò Aristotile (L . 2. phys. c. 7. text. 53), esser la fortuna, sì prospera come avversa, ignota ad ogni uomo, perché gli effetti, separati e sconnessi, a cui ella può stendersi, non han fine: e l’infinito, come infinito, non abita nella mente di alcun mortale. Eppure la fortuna, sì prospera come avversa, è quella che si arrogan gli astrologi di mettere alla tortura tra le lor sèste, perché confessi loro tutto ciò che ella sia per fare.

SALMI BIBLICI: “DOMINE, PROBASTI ME ET COGNOVISTI ME” (CXXXVIII)

SALMO 138: DOMINE, PROBASTI ME ET COGNOVISTI ME”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 138

In finem, psalmus David.

[1] Domine, probasti me, et cognovisti me;

[2] tu cognovisti sessionem meam et resurrectionem meam.

[3] Intellexisti cogitationes meas de longe; semitam meam et funiculum meum investigasti;

[4] et omnes vias meas prævidisti, quia non est sermo in lingua mea.

[5] Ecce, Domine, tu cognovisti omnia, novissima et antiqua. Tu formasti me, et posuisti super me manum tuam.

[6] Mirabilis facta est scientia tua ex me; confortata est, et non potero ad eam.

[7] Quo ibo a spiritu tuo? et quo a facie tua fugiam?

[8] Si ascendero in cælum, tu illic es; si descendero in infernum, ades.

[9] Si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris,

[10] etenim illuc manus tua deducet me, et tenebit me dextera tua.

[11] Et dixi: Forsitan tenebrae conculcabunt me; et nox illuminatio mea in deliciis meis.

[12] Quia tenebrae non obscurabuntur a te, et nox sicut dies illuminabitur; sicut tenebrae ejus, ita et lumen ejus.

[13] Quia tu possedisti renes meos; suscepisti me de utero matris meæ.

[14] Confitebor tibi, quia terribiliter magnificatus es; mirabilia opera tua, et anima mea cognoscit nimis.

[15] Non est occultatum os meum a te, quod fecisti in occulto; et substantia mea in inferioribus terræ.

[16] Imperfectum meum viderunt oculi tui, et in libro tuo omnes scribentur. Dies formabuntur, et nemo in eis.

[17] Mihi autem nimis honorificati sunt amici tui, Deus; nimis confortatus est principatus eorum.

[18] Dinumerabo eos, et super arenam multiplicabuntur. Exsurrexi, et adhuc sum tecum.

[19] Si occideris, Deus, peccatores, viri sanguinum, declinate a me;

[20] quia dicitis in cogitatione: Accipient in vanitate civitates tuas.

[21] Nonne qui oderunt te, Domine, oderam? et super inimicos tuos tabescebam?

[22] Perfecto odio oderam illos, et inimici facti sunt mihi.

[23] Proba me, Deus, et scito cor meum; interroga me, et cognosce semitas meas.

[24] Et vide si via iniquitatis in me est; et deduc me in via æterna.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXXVIII.

Dio premia le opere buone, e punisce le cattive. Egli vede e considera tutte le cose più nascoste; onde niuna può sfuggire al suo giudizio, per ricevere da lui o premio o punizione.

Per la fine: salmo di David.

1. Signore, tu hai fatto saggio di me, e mi hai conosciuto;

2. tu hai conosciuto il mio stare e il mio andare.

3. Tu da lungi vedesti i miei pensieri; osservasti il filo dei miei passi. (1)

4. E le mie vie tutte tu prevedesti, anche quando parola non è sulla mia lingua. (2)

5. Ecco che tu, o Signore, le cose tutte hai conosciute, le ultime e le antiche; tu mi formasti, e ponesti sopra di me la tua mano.

6. Mirabile, si è renduta in me la tua sapienza; ella è molto elevata, e ad essa non potrò io aggiungere.

7. Dove anderò io lontan dal tuo spirito, e dove l’uggirò io lontan dalla tua faccia?

8. Se salirò al cielo, ivi se’ tu; se scenderò nell’inferno, tu sei presente.

9. Se io prenderò le ali al mattino, e anderò a stare nelle ultime parti del mare, (3)

10. Colà pure mi guiderà la tua mano, e starò sotto il potere della tua destra.

11. E io dissi: Forse mi occulteranno le tenebre; ma la notte è luce, che mi disvela ne’ miei piaceri;

12. Perocché le tenebre non sono oscure per te, e la notte sarà illuminata come il giorno; il buio e la luce son la stessa cosa per lui.

13. Perocché tu se’ padrone de’ miei affetti; prendesti cura di me fin dal seno di mia madre.

14. Darò lode a te, perché sommamente grande ti se’ dimostrato: le opere tue son mirabili, e troppo bene il conosce l’anima mia.

15. Non sono ignote a te le mie ossa lavorate nel segreto, la mia sostanza lavorata nelle viscere della terra.

16. Gli occhi tuoi mi videro quand’io era informe: or tutti nel tuo libro saranno scritti; nuovi giorni si formeranno, e neppur uno ne mancherà. (4)

17. Ma sono grandemente onorati da me, o Dio, gli amici tuoi; grandemente possente è divenuto il loro impero.

18. Se vorrò contarli, saran più che l’arene del mare; mi alzai, e sono ancora con te. (5)

19. Se tu, o Dio, porrai a morte i peccatori: ritiratevi da me, o uomini sanguinari.

20. Perché voi dite dentro di voi: Inutilmente si faranno eglino padroni di tue cittadi.

21. E non ho io odiati, o Signore, quelli che ti odiano? e non mi struggeva a cagione dei tuoi nemici?

22. Con odio perfetto io gli odiava, e mi son fatti nemici.

23. Provami, o Signore, e il mio cuore disamina; interrogami, e riconosci i miei andamenti.

24. E vedi se per la via di iniquità io cammini; e per la via dell’eternità mi conduci.

(1) « Funiculum meum, » La misura, l’estensione della mia corsa. Gli Egiziani contavano le misure del cammino con le corde. L’espressione dei Settanta, « la mia corda, » ha rapporto con questo uso.

(2) Queste parole: « Quia non est sermo lingua mea, » potevano egualmente significare: “quando non c’è discorso sulla mia lingua, voi conoscete tutto: senza che io dica tutto questo, Voi lo sapete già; oppure: mi mancano le parole per esprimere fino alla vostra scienza ».   

(3) Il mare è posto qui per le regioni dell’Occidente.

(4) Nel vostro libro sono scritti i giorni che verranno, benché non ne esista ancora qualcuno di essi. – Si potrebbe tradurre ancora, seguendo la Vulgata: quando non ero che una massai informe, i vostri occhi mi vedevano, tutte le mie membra erano scritte nel vostro libro; di giorno in giorno, esse erano formate da Voi; nessuna di esse era ancora formata, e Coi già mi vedevate, o mio Dio (Le Hir).

(5) Quando al mattino mi alzo, dopo aver riflettuto tutta la notte al numero dei vostri amici ed ai benefici di cui li colmate, io non ho ancora finito, ma sono troppo occupato della vostra bontà al loro riguardo.

Sommario analitico

Davide, in questo salmo, si rende testimonianza della sua innocenza alla presenza di Dio che penetra fin nel fondo dei cuori, e rende omaggio alla sapienza infinita ed alla provvidenza ammirabile di Dio.

I. – Egli descrive questa sapienza divina, che è universale, inevitabile, incessante, che conosce interamente e che abbraccia:

1° tutte le nostre azioni (1, 2),

2° tutti i nostri pensieri,

3° tutti i nostri progetti e tutte le nostre intenzioni (3, 4),

4° tutte le cose passate e future, e ne dà la ragione: questo avviene poiché è Dio che ci ha creato e che ci conserva (5).

II. – Egli dipinge l’estensione di questa sapienza immensa come Dio, e che agisce non solo con la sua presenza, ma con la sua operazione:

1° su tutti gli occhi (6-10),

2° in tutti i tempi (11-12).

III. – Egli rende ragione dell’impossibilità di sfuggire alla conoscenza di Dio:

1° tutto ciò che noi abbiamo di più segreto gli è conosciuto, dipende da Lui (13, 14);

2° la struttura mirabile del nostro corpo è opera sua (15);

3° noi gli siamo presenti già prima di nascere, e questa scienza provvidenziale si estende a tutti i giorni (16).

IV. – Egli passa in seguito da questa sapienza, a questa provvidenza di Dio su tutti gli uomini:

1° sui giusti, dei quali la gloria, la potenza ed il numero lo strabiliano (17, 18);

2° sui peccatori, il cui castigo lo fa rifuggire dalla società (17, 20);

3° di là il suo odio per i malvagi ed il suo ardore per la giustizia, sentimenti dei quali prende Dio a testimone (21, 24).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1-5.

ff. 1. – « Signore, mi avete provato e mi avete conosciuto. » Cosa dite? Dio vi ha conosciuto dopo avervi provato, e prima di questa prova forse non vi conosceva? Badiamo di non mal intendere la sorte di Colui « che conosce tutte le cose prima che siano fatte. » (Dan. XIII, 42). Queste parole: « Voi mi avete provato, » significano: Voi mi avete perfettamente conosciuto. Quando l’Apostolo ci dice che Dio sonda i cuori, questa espressione indica non l’ignoranza in Dio, ma una scienza profonda. Dio non ha bisogno di provare, di sperimentare per conoscere; Egli conosce tutti in virtù della sua prescienza divina (S. Crysost.). – Con il riposo ed il risveglio o l’alzarsi, egli fa intendere la vita intera, che si non si può ridurre a queste due situazioni che abbracciano tutte le nostre azioni, le nostre opere, le nostre entrate, le nostre uscite, il risveglio ed il sonno, il lavoro ed il riposo, il dolore e la prosperità, la vita e la morte (S. Chrys.). 

ff. 2-5. – Dio conosce non soltanto le nostre azioni esteriori, ma tutto ciò che passa nella nostra anima, non solo Egli conosce i nostri pensieri nascosti, quando si agitano nel nostro spirito, ma anche quelli che iniziano a nascere; diciamo meglio, molto tempo prima. « Voi avete penetrato i nostri pensieri da lontano, » (S. Chrys.). Lo sguardo di Dio, che abbraccia la nostra vita nel suo insieme, ne penetra pure i più impercettibili dettagli: Egli conosce il cammino lungo il quale marciamo, i disegni e le imprese che formiamo, lo scopo e il fine che abbiamo di vista, l’oggetto dei nostri desideri e delle nostre aspirazioni; in una parola, i principi, i mezzi e il fine di tutte le nostre azioni (Duguet). – Così la scienza di Dio, non comprende le nostre vie, i nostri disegni quando li mettiamo in esecuzione, ma Egli li prevede tutti con piena certezza, sa tutto ciò che dobbiamo dire, prima di aprir bocca e prima che la parola sia sulla nostra lingua. – E che dico … questa scienza conosce tutto ciò che deve succedere negli ultimi tempi, e tutto ciò che si è compiuto nei secoli più remoti. Tutti i secoli, passati e venturi si  svolgono e passano sotto lo sguardo fisso della sua eternità. – Siete Voi che mi avete formato, che « avete steso la vostra mano su di me. » Il Profeta prova che Dio sa tutto ciò che ci riguarda; prima, perché Egli conosce tutte le cose passate e future; in secondo luogo, perché Dio stesso ha voluto fare l’uomo, ed è Egli stesso che lo governa, lo conserva, ed ha steso su di lui la sua mano. Ora, come il suo essere potrebbe avere qualche segreto per il Dio che lo ha creato, che lo muove, che lo penetra, che ne conserva e ne fa agire tutte gli “ingranaggi”?

II. — 6 – 12.

ff. 6 – 10. – La scienza di Dio, oltre che universale, è pure inevitabile. « La vostra sapienza è elevata in maniera ammirevole sopra di me. » Essa mi sorpassa, è elevata ben al di sopra di me, è troppo grande perché una ragione possa comprenderla, tanto è meravigliosa, tanto è superiore! Ma che?! Se ogni meraviglia è così grande come essa, può essere compresa? Questo è impossibile, essa mi sorpassa infinitamente e non potrà mai raggiungerla (S. Chrys.). – San Basilio traduce: « È da me che la vostra sapienza ha ricevuto una magnifica esaltazione. » Perché  questa parola: « da me, » se non perché il Profeta trovava in se stesso una testimonianza della scienza infinita ed incomprensibile di Dio, allorché egli sentiva bene che gli era impossibile comprendersi da se stesso? (S. Agost. De l’âme, etc.) – È a me che la vostra scienza mi è sembrata ammirevole; » vale a dire, io ho scoperto, con meravigliosa ragione, la grandezza e l’estensione della vostra sapienza. E come? Da me1 Considerando l’arte meravigliosa, la saggezza strabiliante con la quale avete organizzato tutte le parti del mio corpo, da questa piccola ma mirabile parte delle vostre opere, io ho concepito l’idea più alta del suo divin Fattore (S. BASILE. De hom. Struct.) – Ciò che è più formidabile nella divina Sapienza, e che la rende così adorabile, è che essa è la conoscenza che Dio ha di noi in se stesso. Egli non ci contempla come uno spettatore infinitamente intelligente; Egli guarda in se stesso, vi si vede, ci conosce, come conosce tutte le cose, nelle cause più recondite, più intime, più profonde; Egli ci giudica con una verità la cui luce e l’infallibilità sono irresistibili. Santa Maddalena De’ Pazzi, esaminava tutta la sua alta conoscenza in un’estasi, ed abbiamo là un monumento soprannaturale della più delicata conoscenza di se stesso; Ma cos’è la conoscenza di un esame di coscienza, rispetto alla conoscenza istantanea, penetrante, completa, che Dio ha di noi in se stesso? (FABER. Le Créateur et la Créât., p. 148) –  Che fare per sfuggire a questo sguardo penetrante di Dio? Quando noi vogliamo sottrarci allo sguardo dell’uomo, ci si offrono due mezzi: l’allontanamento e l’oscurità; ma allo sguardo di Dio, questi due mezzi sono impotenti. Se ricorro alla fuga, qual fuga potrà mai allontanarmi da Dio; come potrei nascondermi dal suo Spirito, dalla sua intelligenza, dalla sua presenza che riempie tutti i luoghi? Che io salga nei cieli, o che io scenda negli abissi impenetrabili della terra, che piombi negli anfratti più nascosti dell’Occidente, o che abiti le estremità dei mari, io non posso sfuggire agli sguardi di Dio, né fuggire la sua presenza, né scappare alla sua sapienza infinita, inseparabile dalla sua presenza. – Cercheremo un rifugio nella notte, un riparo da questo sguardo di Dio? La notte più oscura circonda un peccatore di chiarezza per scoprirlo e servire  da testimone contro lo stesso. Non ci sono tenebre per Colui che è la luce, ciò che noi chiamiamo oscurità non è oscuro per Lui, incapace di sottrarre alcunché alla sua vista. Per Lui, ogni notte si illumina e diviene così chiara come il giorno più radioso. Le tenebre della notte e la luce del giorno sono per Lui la stessa cosa, perché Dio non vede gli oggetti per la proiezione di una luce che viene dall’esterno degli oggetti stessi, ma Egli li conosce e li penetra perfettamente con la luce del suo Spirito (Duguet). – Temete Dio in pubblico ed in segreto. Voi uscite dalla vostra dimora: Egli vi vede; voi entrate: Egli vi vede; la vostra lampada è illuminata: Egli vi vede; voi la spegnete: Egli continua a vedervi; voi vi ritirate nei distretti più segreti della vostra dimora: Egli vi vede; voi pensate tra voi: Egli vi vede. Temete dunque Colui il cui sguardo gira da ogni parte, che illumina la vostra notte, che trionfa delle vostre tenebre, per conservarvi nel timore della sua giustizia, per santificarvi con il pensiero della sua presenza; e … se volete darvi al peccato, cercate un luogo ove Dio non vi veda, e fate ciò che volete  (S. AUG. Serm. XLVI sur les par. du Seig.) – È una proprietà dell’Essere di Dio che il Profeta reale ha sottolineato, e del quale ha preteso farne soggetto di elogio, quando ha detto che le tenebre in cui Dio si nasconde ai nostri occhi e che ce lo nascondono in questa vita, non sono meno ammirabili della sua stessa luce; e che tutto ciò che noi scopriamo di splendido e di luminoso nelle adorabili perfezioni, non è più glorioso per Lui, né più venerabile per noi, di ciò che ci sembra avviluppato da nuvole, e coperto dal velo di una misteriosa oscurità; perché è così che San Ambrogio ha spiegato questo passaggio del salmo: « sicut tenebræ ejus, ita et lumen ejus: »  La sua luce è come le sue tenebre, e le sue tenebre hanno qualche cosa di così divino come la sua luce. (BOURD. P. F. de S. Thom.). – Le tenebre della fede Cristiana non somigliano affatto a quelle di cui stiamo parlando, esse sono tenebre luminose. « La notte è divenuta la mia luce in mezzo alle mie delizie. » Come la notte – si domanda S. Agostino – si è illuminata per me? Gesù Cristo è sceso in questa notte, Egli ha preso una carne simile alla mia, e così ha illuminato la mia notte. La mia notte è divenuta la mia luce in mezzo alle mie delizie. Quali sono, in effetti le mie delizie, se non Gesù Cristo stesso? – È ai piedi del tabernacolo, è alla presenza del più tenebroso ma anche del più mirabile dei nostri misteri che mi piace ripetere nel mio spirito quella parola di Davide: « La mia notte è la mia luce in mezzo alle mie delizie. Nessuna parte delle più profonde tenebre avvolgono la Maestà divina, né la stessa carne di Gesù-Cristo si nasconde ai nostri sguardi. La notte, niente che la notte! Ma o notte, voi siete la mia luce, perché Colui che io adoro sotto i veli del Sacramento mi fa gustare ineffabili delizie. Io gusto nella notte oscura quanto il Signore sia dolce, e le delizie che assaporo mi danno come una chiara veduta della soavità del Signore. – Le delizie dell’Eucaristia mi fanno veder chiaro nell’Eucaristia: la notte diviene un luce in mezzo alle mie delizie. (Mgr DE LA BOUILLERIE. Symb., 168).

III. — 13-16.

ff. 13-16. – Non soltanto Dio penetra attualmente tutti i segreti della nostra esistenza, ma il suo sguardo ha raggiunto ciò che nessun altro ha mai penetrato, cioè il mistero della formazione dell’uomo. La madre dei Maccabei diceva ai suoi figli: « Io non so come siate stati formati nel mio seno, perché non sono io che vi ho dato lo spirito, né l’anima, né la vita; e non sono io che ho assemblate tutte le vostre membra, ma il Creatore del mondo, che ha plasmato l’uomo dalla sua nascita, e che ha provveduto alla generazione di tutti » (II Macc., VII, 22, 23.). Questa operazione di Dio è l’effetto della sua sapienza e della potenza infinita. Nessun’opera si esegue se non dopo un disegno formato nello spirito del suo autore. Prima che Dio realizzi la sua opera, essa è già in Lui, si svolge interamente nella sua suprema ed infinita intelligenza. – « I vostri occhi mi hanno visto che era ancora informe. » Il Re-Profeta mostra di nuovo che nulla sfugge alla sapienza infinita di Dio. Allora, benché non fossi che allo stato embrionale, io non sfuggivo alla vostra conoscenza, Voi penetravate distintamente tutte le parti del mio essere; allorché la natura formava successivamente la sua opera, benché il suo lavoro si compisse nel segreto e come nelle viscere della terra, ognuna delle mie membra con il loro accrescimento particolare veniva presentato al vostro sguardo. Gesù-Cristo esprime questa stessa verità, quando dice: «Tutti i capelli del vostro capo sono contati. » (Luc. XII, 7). Noi vediamo qui riuniti, in una stessa proporzione, la sapienza e la provvidenza di Dio. (S. Chrys.). – Opera ammirevole di Dio nella formazione del corpo umano, in questa struttura tanto ben legata di un gran numero di ossa, grandi e piccole, senza alcuno strumento, in un luogo segreto ed oscuro. – Quanto è penetrante l’occhio di Dio, che vede chiaramente l’uomo ancora informe, o anche prima che sia formato. È questo l’idea eterna che Egli ha avuto di tutte le parti dei nostri corpi, che vi erano distintamente marcati, come se fossero stati scritti in un libro. Cos’è questo libro in cui tutti sono scritti, se non l’ordine della Provvidenza che Dio osserva nei nostri confronti? Tutti i nostri destini sono scritti in questo libro eterno. Ma cosa sarebbe questo ordine di Provvidenza, se non vi fosse una vita futura, una eternità dopo questa sequela di giorni che percorriamo e si allontanano in successione? Noi siamo scritti nel libro di Dio, non per i giorni, ma per l’eternità (Duguet, Berthier). 

IV. — 17-24.

ff. 17, 18. – Questa Sapienza infinita di Dio non è una sapienza indifferente o impotente. Dio guarda, conosce, ma se guarda, conosce per giudicare, ricompensare o punire. Questo intervento di Dio nelle cose umane si manifesta in due atti: Dio onora e ricompensa i giusti; Dio odia e castiga i peccatori. – Tre cose, dice il Re- Profeta, contribuiscono a rendere più brillante la gloria che circonda i santi: – gli onori di cui Dio li circonda: « I vostri amici mi sono sembrati straordinariamente onorati; » – la forza della loro potenza: « Il loro impero si è estremamente fortificato; » – la loro grande moltitudine: « Io li conterò, essi saranno più numerosi della sabbia del mare. » Onori straordinari resi ai Santi che durante la loro vita, erano sconosciuti, reietti, disprezzati dal mondo, e che ora brillano di uno splendore che si accresce nei secoli, mentre i mortali più ricchi e più famosi, qualche anno dopo la loro morte, sono destinati all’indifferenza ed all’oblio. – È per l’onore di Dio che i suoi servi sono onorati, e dopo averli impiegati a procurare la sua gloria, Egli si prende cura di glorificarli Egli stesso. È per questo che il Profeta reale gli diceva: Signore, Voi sapete ben rendere ai vostri amici ciò che ne avete ricevuto; e se essi hanno avuto la gioia di farvi conoscere tra gli uomini, ne sono ben ripagati dall’alto grado di elevazione ove Voi li fate salire nel cielo, ed anche con la profonda venerazione per cui i loro nomi sono sulla terra. « I vostri amici sembrano ai miei occhi ricolmi di una gloria infinita. » (BOURD., P. la fête de Ste Genev.). – Comparate, nel corso dei secoli, le rovine sparse dalle istituzioni umane, con le opere, gli edifici solidi, indistruttibili della santità. – È la fecondità mirabile della Chiesa, sposa di Gesù-Cristo, questa risplendente moltitudine degli eletti del cielo che il Profeta vedeva in spirito, e che l’Apostolo San Giovanni descriveva in questi termini, dopo aver determinato il numero dei santi della sinagoga: « Dopo questo, io vidi una gran moltitudine che nessuno poteva contare, di ogni nazione, di ogni tribù, di ogni popolo e di ogni lingua, che era in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, vestiti di una veste candida, con palme nelle loro maini. » (Apoc. VII, 9) « Io mi sveglio e sono sempre con Voi, » il Profeta esprime qui la speranza di essere un giorno ammesso nel numero degli amici di Dio; io entrerò come essi nella tomba, ma ne uscirò un giorno, come da un letto da riposo; questo sonno della morte finirà, io mi risveglierò, sarò ancora da Voi, e vi sarò in una maniera ben più perfetta di quanto fossi sulla terra. (Berthier).

ff. 18-22. – « Se voi portate i peccatori alla morte, uomini di sangue, allontanatevi da me. » Il secondo effetto dello sguardo di Dio sui figli degli uomini è dunque l’esercitare la sua giustizia vendicativa sui peccatori, annientandoli. Il frutto da raccogliere da questa condotta di Dio riguardo ai peccatori, è quello di rompere ogni commercio con i malvagi, da cui non si riporta quadi mai tutta la virtù che vi si è portata; bisogna allontanarsi da queste vittime maledette della giustizia di Dio, che Egli condannerà alla morte eterna, ed evitare particolarmente quegli uomini di sangue che uccidono od odiano gli altri, quei peccatori scandalosi che fanno perire le anime. (Duguet). –  « Qual legame può esserci tra la giustizia e l’iniquità? Quale unione tra la luce e le tenebre? Quale accordo tra Gesù-Cristo e belial? Qual società tra il fedele e l’infedele? (II Cor. VI, 13, 14). – Ciò che dicevano in altri tempi i nemici dei Giudei, rientranti in possesso delle loro città dopo il ritorno dalla cattività, i nemici di Gesù-Cristo e della sua Chiesa lo ripetono ancora nel loro cuore, pieno di odio geloso per la propagazione del regno di Gesù-Cristo. Siccome la conseguenza della propagazione della Religione Cristiana, è stata quella di strappare le città, cioè i grandi centri di popolazione, alla schiavitù del demonio, essi dicono sempre nel loro cuore che invano i giusti sperano di abitare tranquillamente nelle città sotto la protezione del Signore, loro primo ed unico Padrone assoluto. Ma noi, noi abbiamo lo Spirito di Gesù-Cristo, e ciò che il Cristo provava in se stesso, noi lo proviamo in noi; noi crediamo e professiamo altamente che Dio è tanto potente da conservare ciò che Egli ha acquisito. E come mai il demonio potrà prevalere contro i suoi eletti. Ai nostri tempi, in cui i nemici di Dio, di ogni religione, di ogni virtù, predicono in tutti i modi, nelle assemblee dei giusti, alla Chiesa Cattolica, alla Città di Dio, la distruzione ed il niente, al Cristianesimo, la decadenza, l’indebolimento e l’annientamento; nel momento in cui essi dicono nei loro pensieri: “vanamente i Cattolici vogliono estendere le loro conquiste per la libertà di associazione, di insegnamento; in questo stesso momento Dio rinnova loro le promesse di immortalità fatte alla sua Chiesa. Non temete nulla: « Io sono con voi fino alla consumazione dei secoli, » (Matth. XXVIII, 20). – E siccome i giusti non formano che un cuore solo, un’anima sola, un solo pensiero, un sentimento con il Dio che li illumina e li fortifica, essi condividono i loro sentimenti di odio per i nemici del suo Nome e della sua Chiesa. « Io li ho odiati con odio perfetto. » Che vuol dire un odio perfetto? Io odiavo in loro la loro iniquità, giammai in essi le vostre creature. Ecco l’odio perfetto, non odiare gli uomini in ragione dei loro vizi, né amare i vizi in ragione degli uomini. (S. Agost.). – Il nostro odio ha un carattere veramente religioso, tutte le volte che noi odiamo colui per il quale Dio è l’oggetto del suo odio. Ci viene comandato di amare i nostri nemici, ma i nostri, non i nemici di Dio; perché, secondo le parole del Salvatore, è un atto di religione odiare per Dio suo Padre, sua Madre, la sua Sposa, i suoi figli ed i suoi fratelli (S. Hilar.). – Non siamo quindi indifferenti agli oltraggi che vengono fatti a Dio, sentiamoli vivamente, sforziamoci di opporci per quanto possiamo e, se non possiamo fare altro, gemiamo almeno nel segreto (Duguet).

ff. 23, 24. – « O Dio, provatemi e sondate il mio cuore. » Bisogna essere ben certi della propria innocenza per osare fare questa domanda a Dio. Chi di noi, al contrario, non teme il terribile interrogatorio che Dio ci farà subire, e forse ben presto: Qual è la vita che avete condotto? Quella attraverso i sentieri stretti del Vangelo, o quella attraverso i sentieri larghi del mondo e della moda? Preveniamo questo terribile interrogatorio: « Se noi ci giudicheremo da noi stessi, non saremo giudicati da Dio. » (I Cor. XI, 31). – Tutto il frutto di questo mirabile salmo è racchiuso in queste ultime parole: « Guidami alla vita eterna. »  Qual è questa vita eterna? La via spirituale che conduce al cielo e che non ha fine. Tutte le altre cose sono di breve durata, racchiuse come sono nello spazio ristretto della vita presente. Il Salmista lascia dunque tutti questi beni passeggeri, per rivolgersi a ciò che è immortale, eterno, infinito. (S. Chrys.). – Niente di più importante, nulla di più necessario che ben conoscere se la via sulla quale si cammina sia la via retta; niente di più facile, niente di così ordinario che ingannarsi su questo punto. Tante ingiustizie che non percepiamo, tante illusioni dell’amor proprio che non si scoprono, tanti deragliamenti del proprio cuore che non si vedono! Chi non tremerebbe di spavento a questa parola che lo Spirito Santo ripete due volte in uno stesso libro: « C’è una via che sembra retta all’uomo, e di cui l’estremità raggiunge la notte. » (Prov. XIV, 12; XVI, 25).  Non basta temere solo i propri peccati, ma occorre applicarsi alle buone opere (Duguet). – Non c’è che l’Essere al quale nulla è sconosciuto che possa servire da guida agli uomini in questa strada, perché è il solo che possa evitare i pericoli, spianare le difficoltà, sostenere la costanza, raddrizzare i falsi sentieri, e raggiungere il momento del passaggio nella eternità beata. (Berthier).

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (10)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (10)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

TERZA PARTE

MEZZI PARTICOLARI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo III

IL CUORE DI GESÙ E LA CONFERMAZIONE

La Confermazione è il complemento del Battesimo.

I Sacramenti sono i principali legami che stabiliscono, tra il Cuore di Gesù e i cuori degli uomini, la comunicazione vitale che fa vivere Cristo in loro e loro in Lui. Il Battesimo ha iniziato quella grande opera in noi, facendoci nascere dalla morte del Salvatore. Tra il nostro cuore e quello del Divin Salvatore, si è stabilita una comunicazione costante che ci comunica i meriti, i sentimenti e le virtù del Divin Cuore, come del sangue. E con essa il calore e la vita fluiscono dal nostro cuore di carne attraverso tutte le membra del nostro corpo. Ma non è stato compiuto tutto coll’essere nati. Alla nascita, l’uomo non è altro che un uomo abbozzato e rudimentale. È un fiore nel suo bocciolo, in cui si nasconde il meglio del suo profumo e del suo splendore. Per essere un uomo perfetto bisogna che egli cresca e si sviluppi, bisogna che rafforzi le proprie membra e sviluppi le proprie facoltà. Lo stesso vale per il Cristiano. La nostra nascita in Gesù Cristo con il Battesimo ci aveva dato la vita divina, animando la nostra anima con il soffio dello Spirito Santo, che abitava in noi in modo sostanziale anche se ancora piuttosto limitato. Eravamo neonati e la Chiesa, la nostra balia, ci offriva il latte e gli insegnamenti di una madre. Ma non per sempre poteva tenerci in fasce. Incaricata di formarci ad immagine di Gesù Cristo, l’uomo perfetto, aspirava a darci una grazia più forte, un cibo più solido, per renderci Cristiani completi e perfetti. Per questo ci ha dato il Sacramento della Cresima. Essa, come dice il suo nome, finisce, conferma e sviluppa ciò che il Battesimo aveva iniziato e delineato. Esso non ci dà, come il Battesimo, un nuovo essere; ma una nuova partecipazione all’Essere divino, che è stato prodotto in noi dall’acqua santa. « Già con il Battesimo – ci dice San Cirillo nella sua bella Catechesi sulla Cresima – ci siamo rivestiti di Gesù Cristo e abbiamo ricevuto in noi l’immagine della sua forma divina; noi eravamo quindi già “altro Cristo”. Tuttavia, non potevamo ritenerci degni di quel nome se non con l’unzione del santo crisma, l’immagine dello Spirito divino riversata sul Salvatore stesso. » (S. Ciril. di Gerusal. MG: 33, 1089). La cresima completa l’immagine del Cristiano e del suo modello divino. Il Vangelo ci dice che quando Gesù Cristo uscì dalle acque in cui era stato immerso per prefigurare la sua morte e sepoltura, vide lo Spirito di Dio scendere dal cielo sotto forma di colomba e riposare sul suo capo, mentre il Padre celeste diceva: « Ecco il mio diletto Figlio nel quale mi sono compiaciuto ». Questa è stata la Confermazione del nostro Capo divino. Lo ricevette dal Padre all’inizio della sua vita pubblica, quando stava per ingaggiare con satana tre grandi battaglie, immagine dei nostri combattimenti. Fino ad allora, Egli, nella sua vita nascosta, sembrava vivere solo per se stesso. Da quel momento in poi si preoccuperà solo di istruire i suoi fratelli. Non è più un bambino come a Betlemme, ma un uomo compiuto e nella pienezza della vita. Tutti questi tratti devono apparire in colui che la Cresima ha reso un Cristiano perfetto: « Al bambino – dice San Tommaso – è permesso di occuparsi solo di se stesso e che tutti si occupino di lui; l’uomo perfetto, invece, deve mettere la sua gloria nel rendersi utile ed impiegare le sue forze a favore dei suoi simili. Così deve fare il Cristiano che ha ricevuto la virtù dello Spirito Santo. » (S. Tomm. D’A., III, q. 72. a. 12.). Non si tiri egli allora, indietro di fronte alle lotte, non abbia il desiderio di riposare. Dio stesso, per mano del suo ministro, ha impresso sulla sua fronte il segno del soldato, ha unto la sua anima con l’olio che fortifica gli atleti. Combattere e trionfare, deve essere la sua unica cura e pietà, come ricorda la croce disegnata sulla sua fronte. Questa parola di San Pietro può essere a lui rivolta: « Cristo ha sofferto nella sua carne, entrate in questo pensiero. » Cioè, ricordate che dovete, come il vostro Maestro, vivere inchiodato alla croce, e si noti:

  1° Che, come colui che è legato alla croce non può muovere gli arti a suo piacimento, perché li ha confitti in essa, così il Cristiano non può disporre delle sue membra secondo i capricci della sua volontà, ma deve sottometterli alla legge di Dio e di Cristo.

  2° Colui che è inchiodato alla croce si sente continuamente crocifisso. Il Cristiano deve anche crocifiggere instancabilmente i suoi sensi e la sua carne, sottomettendosi alla legge che gli ordina di mortificare e tagliare ogni desiderio, ogni azione colpevole.

  3° A chi è sospeso dalla croce non importa più degli uomini, dei fasti e delle delizie del mondo. Il Cristiano deve fare lo stesso.

  4° Il crocifisso non si preoccupa del domani, il suo cuore non conosce l’ambizione. Così deve essere il Cristiano.

  5° L’uomo crocifisso respira ancora, ma si considera già morto a tutte le cose del mondo, e pensa solo a quelle che presto incontrerà. Anche il Cristiano deve essere morto, non solo ai peccati e alle passioni, ma anche a tutto ciò che è effimero. Egli deve dirigere tutto il suo essere verso Dio, verso il cielo, dove spera di arrivare da un momento all’altro. Morto anche ad ogni azione, ad ogni desiderio a cui anela il mondo, non vivrà più, se Cristo non vivrà in lui, Cristo crocifisso per lui (Cornelio a Lapide, in I Ep. Petr., p. IV, 1).

Il Cristiano battezzato e confermato è un’immagine perfetta di Gesù Cristo morto nella sua carne, ma che ha riempito la sua anima con tutte le effusioni della divinità. Non si può negare che ciò che in Gesù Cristo si compie in piena realtà, si operi nel Cristiano sotto il velo del Sacramento. Come il Battesimo è un’immagine della morte del Salvatore, così anche il Crisma, effuso dalla mano del Vescovo, è un’immagine dello Spirito Divino effuso da Dio Padre nel suo Figlio: « Ma – continua San Cirillo – guardatevi dal credere che nessuna realtà corrisponda a quell’immagine. » Così come il Pane Eucaristico diventa ogni giorno pane vivo e veramente divino, l’olio della Cresima, santificato dalla benedizione della Chiesa, serve da veicolo per i doni di Gesù Cristo e riceve l’efficacia divina attraverso la presenza dello Spirito Divino: mentre il corpo è unto dall’olio visibile, l’anima è santificata dalla virtù vivificante dello Spirito Santo.

La confermazione ed il Cuore di Gesù

Possiamo già dedurre che, per formare un concetto proprio della Confermazione e del Battesimo, questi Sacramenti devono essere considerati nella loro relazione con il Cuore di Gesù. Questo Cuore Divino non è solo il modello, alla cui perfetta imitazione è diretta la venuta dello Spirito Santo con la Cresima, ma anche la fonte da cui questo Spirito vivificante si riversa in noi come nel Battesimo. Noi infatti riceviamo l’unzione dello Spirito Santo solo nella misura in cui siamo membri viventi del Figlio di Dio e sotto l’influenza di quel Capo Divino. San Cirillo non vuole che si perda di vista questo fatto. E in questo, come in tutte le cose: « L’unico principio della nostra salute è Gesù Cristo. Egli è la primizia, il lievito, la cui virtù voi, che siete la pasta, dovete appropriarvi. Se le primizie sono sante, come si può lasciare seriamente andare l’impasto che è stato influenzato da quella santità? » I Santi Dottori e lo stesso Re Profeta vedono un’immagine della consacrazione del Cristiano per grazia dello Spirito Santo, nell’unzione sacerdotale di Aronne. Infatti, l’olio santo versato da Mosè sul capo del Sommo Sacerdote era sparso sul suo viso e persino sui suoi vestiti: « Così – dice San Francesco di Sales – l’olio della benedizione, cioè lo Spirito Santo versato sul Salvatore, il Capo della Chiesa militante e trionfante, viene sparso sui beati, che, come sulla sacra barba del Divin Maestro, sono sempre attaccati alla sua gloriosa sofferenza, e poi distillati sui fedeli insieme, e uniti dall’amore per la sua divina maestà; l’uno e l’altro, come fratelli gemelli, possono giustamente esclamare: Oh! Com’è bello e gioioso vedere i fratelli uniti! È l’olio versato sulla testa di Aronne che si estende attraverso la barba e fino all’orlo dell’abito. » Questa unzione non è solo il frutto della Cresima, ma anche di tutti i Sacramenti e persino di tutti gli atti meritori, ognuno dei quali fa scendere dal Cuore di Gesù nel nostro cuore una nuova infusione della grazia dello Spirito Divino. Ma la Confermazione è dotata di una speciale efficacia per produrre questo risultato, perché ci rende veramente “nuovi Cristo”, i veri unti del Signore.

Frutti della Confermazione.

Completiamo le idee sui frutti della Cresima. La Chiesa era già nata dalla morte di Gesù Cristo, e ricevette ai piedi della croce il battesimo di sangue e acqua dal Cuore semiaperto del Salvatore. Probabilmente tutti gli Apostoli erano stati battezzati dallo stesso Maestro Divino. Credevano, speravano, amavano. Essi possedevano la vita soprannaturale e lo Spirito Santo abitava nei loro cuori. Due volte, come nota S. Gregorio Naz. (S. Gregorio Naz., Orat. XLI, In Pentec, MG: 36-427.), il Salvatore aveva dato il suo Spirito Santo ai suoi discepoli: la prima volta prima della sua Passione, quando li aveva rivestiti del potere di scacciare i demoni; la seconda dopo la Sua risurrezione, quando aveva conferito loro il potere di perdonare i peccati. Eppure, Egli annunciava la venuta dello Spirito, come se fosse ancora lontano da loro, dichiarando di non poter inviarglielo finché non fosse più con loro. Il fatto è che Lo avevano ricevuto con scarsità e Lui voleva che fosse loro donato con una pienezza molto maggiore. Ma perché ciò avvenisse, gli Apostoli dovevano liberarsi di ogni attaccamento naturale a Lui, in modo che Egli potesse compiere così tutti i suoi doveri e prendere il suo posto in cielo come Capo della Chiesa; da lì avrebbe riversato su di Essa la pienezza della vita. Così come, attraverso l’Incarnazione e la Redenzione, ha completato l’opera che Dio Padre aveva iniziato con la creazione, allo stesso modo, quando questa seconda opera sarà completata, lo Spirito Santo scenderà a coronarla con la santificazione delle anime. E poiché in cielo vi è il complemento della Trinità, l’opera di santificazione che continuerà nel mondo fino alla fine dei secoli, sarà il complemento delle opere attribuite alle tre Persone divine. In questo modo nessuno di esse sarà privata della gloria che i secoli lor devono. Inseparabili nelle loro operazioni ad extra, ognuna avrà la sua parte speciale nell’opera che viene attribuita a tutte e tre. E per tutta l’eternità, le anime degli eletti canteranno: Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo! Non ci si deve meravigliare che le sofferenze e la morte del Figlio di Dio abbiano prodotto risultati così incompleti prima della venuta dello Spirito Santo. Come Dio Padre non ha voluto salvare il mondo senza l’intervento del suo Figlio, così Dio Figlio non vuole santificarlo senza l’intervento dello Spirito Santo. La Chiesa, prima della sua Cresima, era debole, malaticcia, priva del potere di riprodursi e di diffondersi. Era come un bambino. Non c’è da stupirsi se vediamo in Essa le debolezze dell’infanzia. Ma poi improvvisamente lo Spirito della vita scende su di Essa. Dalla fornace dell’amore divino, che è il Cuore di Gesù, sono spuntate le fiamme che si sono posate sul capo degli Apostoli. Essi sono divenuti luminosi, perché lo Spirito di Gesù Cristo illumina le intelligenze nella stessa misura in cui Egli brucia i cuori. È l’amore per la verità che fa capire e indovinare la verità stessa. Fino a quel giorno gli Apostoli erano stati poco lucidi, perché avevano amato poco. Da quel momento in poi ameranno ardentemente, e tutti i misteri saranno rivelati al loro amore. Le fiamme avranno la forma di lingue, perché la Chiesa, d’ora in poi, non dovrà tenere per sé la verità, ma testimoniarla ed estenderla fino ai confini dell’universo. Queste lingue sono accompagnate da un vento, immagine dello Spirito Santo, che soffia dove vuole e fa piovere dove piace dalle fertili nuvole di grazia. Un vento che, all’inizio del mondo, è stato portato sulle acque e ha già sparso i semi della vita. Vento che in seguito ha scatenato le onde vendicative del diluvio e ha riportato la vita sulla terra purificata. Vento che in questo momento realizza una nuova creazione e rinnova la faccia della terra con un’infusione molto più abbondante dei suoi beni. Quanto è diversa la Chiesa dopo aver ricevuto il battesimo dello Spirito e del fuoco. Ciò che era debole e sterile solo poco tempo prima, acquista un vigore ed una fecondità incomparabili. È il bambino che ha raggiunto in un attimo la pienezza delle sue forze. Egli testimonia Gesù Cristo senza temere i castighi ai quali è esposto. E questa testimonianza è così efficace che tremila uomini chiedono subito il Battesimo. Questi sono i primi degli immensi frutti che la Chiesa confermata raccoglie in tutto l’universo, e i prodigi che non ha smesso di ripetere fino ai nostri giorni. Questi prodigi, che la venuta dello Spirito Santo ha prodotto nella Chiesa, dovrebbero essere rinnovati, anche se in misura minore, nelle anime di tutti i Cristiani confermati. Così lo stesso Spirito che è sceso visibilmente sugli Apostoli nel giorno di Pentecoste, scende invisibilmente su ciascuno di coloro che ricevono questo Sacramento. La grazia che ha riversato su coloro che ci hanno preceduto non ha in alcun modo diminuito la sua pienezza. Egli vuole arricchirci allo stesso modo, illuminarci con la stessa luce, bruciarci con lo stesso amore, vestirci con la stessa forza. La piccolezza dei nostri cuori deve essere stata l’unico ostacolo affinché si riempissero di questi beni celesti, mentre l’olio santo scorreva sulle nostre teste.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/06/02/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-11/

SALMI BIBLICI: “CONFITEBOR TIBI, DOMINE, … QUONIAM AUDISTI (CXXXVII)

SALMO 137: “CONFITEBOR TIBI, DOMINE, … quoniam audisti”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 137

Ipsi David.

[1]  Confitebor tibi, Domine, in toto corde meo, quoniam audisti verba oris mei. In conspectu angelorum psallam tibi,

[2] adorabo ad templum sanctum tuum, et confitebor nomini tuo super misericordia tua et veritate tua, quoniam magnificasti super omne nomen sanctum tuum.

[3] In quacumque die invocavero te, exaudi me; multiplicabis in anima mea virtutem.

[4] Confiteantur tibi, Domine, omnes reges terræ, quia audierunt omnia verba oris tui;

[5] et cantent in viis Domini, quoniam magna est gloria Domini;

[6] quoniam excelsus Dominus, et humilia respicit, et alta a longe cognoscit.

[7] Si ambulavero in medio tribulationis, vivificabis me; et super iram inimicorum meorum extendisti manum tuam, et salvum me fecit dextera tua.

[8] Dominus retribuet pro me. Domine, misericordia tua in sæculum; opera manuum tuarum ne despicias.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXXVII.

Rendimento di grazie a Dio, che esaudì la sua supplica. Probabilmente era la supplica pel Messia, e ringrazia Dio che l’abbia esaudito, potendo ora predire la gloria del Cristo, e la conversione delle genti.

Dello stesso David.

1. Darò lode a te con tutto il cuor mio, o Signore, perché hai ascoltate le voci della mia bocca. Al cospetto degli Angeli canterò inni a te;

2. te adorerò nel tuo tempio santo, e darò lode al tuo nome. A motivo della tua misericordia e della tua verità; perché sopra qualunque cosa hai esaltato il tuo santo nome. (1)

3. In qualunque giorno io t’invochi, esaudiscimi: moltiplicherai nell’anima mia la fortezza.

4. A te dian lode, o Signore, tutti i re della terra, perché hanno udite tutte le parole della tua bocca.

5. E cantino le vie del Signore, perché grande è la gloria del Signore.

6. Perché il Signore è eccelso, e sopra le cose basse getta i suoi sguardi: e le alte mira da lungi.

7. Se io camminerò nel mezzo della tribolazione, tu mi darai vita; e contro l’ira dei miei nemici stendesti la mano tua, e la tua destra mi salvò.

9. Il Signore farà mie vendette: Signore, la misericordia tua è per sempre; non disprezzare le opere della tua mano.

(1) La Vulgata riporta “sanctum”, invece di “verbum” che si legge nel testo ebraico, ma il senso è lo stesso. Questo “nome” è quello del “Verbo” « ciò che nasce da te è santo. » Il rapporto con l’Incarnazione è evidente (Le Hir.

Sommario analitico

In questo salmo, che è un canto di azioni di grazie in cui Davide, liberato da tutti i suoi nemici, riconosciuto come re da tutte le tribù, celebra a suo nome e a nome del suo popolo la gloria ed i benefici del Signore, e gli rende grazie della promessa che ha fatto a Davide di far uscire da lui il Messia e stabilire il suo trono per sempre.

I. – Egli promette di cantare le lodi di Dio, ed indica:

1 ° Il modo o le qualità di sua azione di grazie:

a) la lode del cuore in presenza di Dio (1);

b) la lode esteriore, la salmodia in presenza degli Angeli (2);

c) l’adorazione del corpo nel tempio;

d) la glorificazione del nome di Dio con le opere (2);

2° La causa: a) la misericordia di Dio, b) la sua verità per il compimento delle sue promesse, c) la sua potenza con la quale egli ha glorificato il suo nome (2);

3° Il frutto che ne spera: a) è che Dio esaudirà la sua preghiera in ogni tempo, b) che moltiplicherà ed aumenterà la forza della sua anima (3).

II. – Egli invita tutti i re della terra a rendergli ugualmente l’omaggio e fa loro conoscere:

1° la maniera con cui devono espletare questo dovere: a) è riconoscerlo come sovrano padrone dell’universo (4); b) camminare nelle sue vie e cantare le sue lodi alla vista dei mezzi ammirabili che Egli usa per eseguire ciò che vuole (4, 5);

2° Le ragioni sulle quali è fondato questo dovere, che sono: a) perché essi hanno visto la gloria di questo Dio liberatore (5); b) perché Dio, sì elevato per la sua natura, abbassa i suoi occhi e guarda da lontano i superbi (6); c) perché Egli viene in soccorso dei suoi servi nella tribolazione (7); d) perché punisce i loro nemici stendendo la sua mano ed esercitando la sua vendetta su di essi; e) perché dà ai suoi servi, opera delle sue mani, una gloria eterna (8).

Spiegazioni e Considerazioni

ff. 1-3. – Una delle cose più rimarchevoli nei salmi, e forse una delle meglio sottolineate, è l’offerta che fa incessantemente il Profeta del suo cuore e di tutto il suo cuore. È – dice San Agostino – l’olocausto che brucia perpetuamente sull’altare del Signore. Io faccio del mio cuore tutto intero un altare per confessare il vostro Nome, ed io vi presento un olocausto di lode. È l’amore che consuma questo olocausto; il Profeta che non trattiene nulla per sé, ma consacra tutto a Dio … Quale differenza tra la preghiera del Re-Profeta e quella della maggior parte dei Cristiani! Noi preghiamo, sia con formule estratte dai Salmi, sia ripetendo le diverse preghiere della Chiesa, sia anche meditando le verità eterne, ma dov’è il cuore? Noi diciamo con Davide: « Signore, io vi lodo, vi rendo delle azioni di grazie con tutto il mio cuore; » ma il nostro cuore è d’accordo con la nostra bocca? (Berthier). « Perché avete ascoltato le parole della mia bocca. » La mia bocca, cos’è se non la bocca del mio cuore? Noi abbiamo in effetti, nel cuore, una voce che Dio ascolta e che alcun orecchio umano conosce. Questa bocca è dentro di noi: è là che noi preghiamo, e se noi abbiamo preparato in noi un alloggio o una casa per Dio, è là che gli parliamo, è là che veniamo esauditi (S. Agost.) – Bisogna che le nostre preghiere, che i nostri canti di azione di grazie siano in rapporto con l’alta elevazione dei nostri uditori. Noi abbiamo come spettatori e giudici gli Angeli che circondano il trono di Dio, bisogna dunque che tutto il nostro esterno, che le nostre parole, siano in armonia con la santità del cenacolo in mezzo al quale siamo, quando preghiamo. Se abbiamo sempre presente allo spirito questo pensiero che i santi Angeli ci contemplano e ci ascoltano, lodano il nostro zelo ed il nostro fervore e che condannano, al contrario, le nostre distrazioni, la nostra negligenza, la nostra tiepidezza, noi saremo più attenti e raccolti. – Il Profeta vuol dire anche che la sua preghiera imiterà le adorazioni di queste intelligenze celesti, che non vi mescolerà niente di umano, che si eleverà al di sopra di tutti gli oggetti terrestri. Io mi sforzerò di cantare con gli Angeli, di rivaleggiare nello zelo con essi. Io sono di natura diversa, è vero, ma mi sforzerò di eguagliarli con l’ardore dei miei desideri e prendere posto tra essi. (S. Chrys.). – « Io adorerò nel vostro tempio santo » Qual è questo tempio santo? Il luogo ove noi dimoreremo, il luogo dove noi adoreremo. Noi vi corriamo per adorare, il nostro cuore è grande, porta il suo fardello e cerca un luogo ove possa depositarlo. Qual è questo luogo ove Dio deve essere adorato? In qual mondo, in quale edificio, su quale trono, nel cielo ed in mezzo alle stelle? … Dio ha il suo trono in noi; « Il tempio di Dio è santo, e voi siete questo tempio. » (I Cor. III, 17). Tuttavia questo è evidente, Dio abita anche negli Angeli, dunque, quando la gioia che ci causano le cose spirituali ci fa cantare per Dio in presenza degli Angeli, questa celeste milizia è il tempio di Dio, e noi adoriamo nel tempio di Dio. C’è una Chiesa del basso, ed una Chiesa dell’alto: la Chiesa del basso è formata da tutti i fedeli, la Chiesa dell’alto è formata da tutti i santi Angeli (S. Agost.) – Il Profeta non separa mai la Misericordia dalla verità delle promesse di Dio; perché, ancorché Dio non possa mancare alla verità di ciò che Egli ha promesso, non promette che con un effetto della sua infinita Misericordia. – Ammiriamo egualmente, nell’una e l’altra delle sue perfezioni, la Potenza e la Gloria del suo santo Nome, elevate al di sopra di tutto, o meglio, secondo un’altra traduzione data da San Girolamo a questo versetto, secondo il testo ebraico, perché avete elevato al di sopra di ogni nome, il vostro Santo, cioè il Figlio di Dio, chiamato Santo in un senso assoluto, perché Egli è cosa santissima, e che non c’è, né nel cielo, né sulla terra, niente di più santo di Lui. È in questo stesso senso che l’Angelo dice a Maria: « Ecco perché il Santo che nascerà da voi, si chiamerà Figlio di Dio, » (Luc. I, 35). – E non è ad una sola nazione che il Nome di Dio si è fatto conoscere, ma è stato elevato, glorificato al di sopra di tutte le cose, e la grandezza della sua santità si è diffusa tra tutti gli uomini. Non c’è qui distinzione, barbaro, scita, schiavo, uomo libero, uomo, donna, tutte le età qui sono uguali: il Nome di Dio è stato glorificato al di sopra di tutte le creature. I templi sono stati distrutti, gli idoli sono stati sgretolati, gli auspici, grazie all’intercessione dei santi, restano silenziosi, la fede negli auguri è una fonte di inganno, il Nome solo di Dio resta santo tra le nazioni. Egli risponde sempre alla speranza che i santi mettono in Lui, e ovunque è invocato, dà soccorso efficace e divino (S. Hilar.). – « In qualunque giorno io vi invoco, esauditemi. » Perché? Perché io non chiedo più benessere terrestre; io ho imparato, con il vostro Nuovo Testamento, a concepire i santi desideri. Io non chiedo né la terra, né la fecondità carnale, né la salute temporale, né il dominio sui miei nemici, né le ricchezze, né gli onori: io non chiedo nessuno di questi beni … cosa chiedo dunque? « Voi moltiplicherete. » Si può intendere in diversi modi questa moltiplicazione: l’uno vuol moltiplicare la sua famiglia, il suo oro, il suo denaro; un altro le sue greggi; questi i suoi servi, quest’altro le sue terre; questi, tutti i suoi beni … quale moltiplicazione si cerca? « Voi moltiplicate nella mia anima, » non nella mia carne. Fate che aggiunga ancora qualche cosa, nel timore che questa moltiplicazione nella propria anima non comporti per se stessa l’idea di felicità? In effetti gli uomini possono risentire nella loro anima di una moltiplicazione di preoccupazioni; queste sembrano moltiplicate nella sua anima, e che i vizi si siano moltiplicati; l’uno è solamente avaro, l’altro è solamente orgoglioso, un terzo è solamente portato alla lussuria, mentre che tal altro è contemporaneamente avaro, superbo e lussurioso; c’è moltiplicazione nella sua anima, ma questa moltiplicazione è quella dell’indigenza e non quella dell’abbondanza … Voi dunque che avete detto: « esauditemi », che siete come strappato dal vostro corpo, staccato da ogni cosa terrestre, da ogni desiderio mondano, che pensate dicendo a Dio: « Voi moltiplicate nella mia anima? Qual è l’oggetto dei vostri desideri? » – « Voi moltiplicate nella mia anima la virtù. » Ecco il suo voto nettamente espresso, ecco il suo desiderio chiaramente formulato, staccato da ogni confusione (S. Agost.). L’Apostolo San Paolo, molto tempo dopo il Re-Profeta, chiedeva la stessa grazia per i nuovi Cristiani: « Io piego, diceva, il mio ginocchio davanti al Padre di Gesù-Cristo Nostro Signore, affinché, secondo la ricchezza della sua Gloria, vi fortifichi, vi moltiplichi con il suo Spirito, nell’uomo interiore (Ephes. III, 16). Questo linguaggio non era riservato ai solitari, a coloro che volevano tendere ad una più alta perfezione: l’Apostolo lo credeva necessario per la salvezza dei semplici fedeli.

ff. 4, 5. – Qual profondo sentimento di gratitudine nel Re-Profeta!! Non gli è sufficiente rendere grazie a Dio nel suo nome, invita i potenti della terra, coloro che portano il diadema, a venire ad associarsi alla sua riconoscenza. La loro potenza è grande, è vero, sembra dire, ma vi devono tuttavia delle azioni di grazie per i benefici che avete accordato agli altri uomini … « Perché hanno inteso le parole della vostra bocca. » Giammai la loro regale potenza procurerà loro vantaggi comparabili a quello di intendere le vostre parole. Ecco che si assicurerà loro, tutto in una volta, sicurezza, forza, splendore, gloria; ecco per essi la vera regalità; ecco ciò che darà alla loro autorità tanto splendore e potenza. (S. Chrys.). – « Signore, che tutti i re della terra vi glorifichino. » Così sarà e così è; è così ogni giorno, e noi vediamo che questa non era una vana parola, poiché essa doveva compirsi, « Signore, tutti i re della terra vi confessano. » Ma essi pure che confessano il vostro Nome, quando confessano il vostro Nome, quando vi lodano, non desiderano da Voi nulla di terrestre; perché cosa potrebbero desiderare i re della terra? Non hanno già l’impero? I più ampi desideri dell’uomo della terra non saprebbero salire più in alto dell’impero. Ove potrebbero andare oltre? La grandezza sovrana è una necessità di cose umane, ma forse è tanto più pericolosa quanto più elevata. Ecco perché, più i re sono elevati, più la loro grandezza è sublime sulla terra, più essi devono umiliarsi davanti a Dio (S. Agost.). – « Ed essi cantino nelle vie del Signore, che la gloria del Signore è grande. » I re della terra cantino nelle vie del Signore. In quali vie essi devono cantare? In quelle in cui è stato detto più in alto: « Nella vostra misericordia e nella vostra verità; » Perché « tutte le vie del Signore sono misericordia e verità. » (Ps. XXIV, 10). Che i re della terra non siano dunque orgogliosi, ma siano umili. Allora, che cantino nelle vie del Signore, se sono umili: che amino ed essi canteranno. Noi sappiamo che i viaggiatori cantano abitualmente: essi cantano e si affrettano per arrivare. Ci sono canti cattivi che appartengono al vecchio uomo; ma il cantico nuovo appartiene all’uomo nuovo. I re della terra, o mio Dio, camminino dunque nelle vostre vie; che camminino e cantino nelle vostre vie. Cosa canteranno? « Che la gloria del Signore è grande, » e non quella dei re (S. Agost.). – Le vie del Signore sono l’ordine di provvidenza che Egli tiene riguardo agli uomini, i mezzi di salvezza che dona loro, la scienza della religione che comunica loro (Berthier).

ff. 6-8. – Ecco la grande gloria di Dio: essa consiste, malgrado la sua elevazione, malgrado la grandezza infinita della sua natura, della sua dignità, potenza, saggezza ed autorità, l’abbassare il suo sguardo benevolo su ciò che è piccolo ed infimo (Bellarm.) – Vedete come il Profeta ha voluto che i re cantassero nelle vie del Signore, comportandosi umilmente con il Signore, lontano dal levarsi con orgoglio contro il Signore. Ma se essi si levano contro di Lui come dice loro il Profeta: « Perché il Signore è l’Altissimo e guarda a ciò che è umile ». I re vogliono dunque che Dio li riguardi che siano umili. Perché? Se essi si levano per orgoglio, potrebbero nascondersi ai suoi occhi? E perché avete sentito il Profeta dire: « Egli guarda ciò che è umile, » cercate di non divenire orgogliosi e dire nella vostra anima: Dio guarda gli umili, e non ha occhi su di me; io posso fare ciò che voglio. Chi mi vedrà in effetti? Ciò che io faccio è nascosto agli uomini; Dio non vuol vedermi, perché io sono poco umile ed Egli non guarda se non ciò che è umile; io farò tutto ciò che mi piacerà. O quanto insensati siete! Direste questo se sapeste ciò che dovete amare? Così dunque, se Dio non vuol vedervi, cesserete allora di temerlo, perché non vuol vedervi? Se voi salutate qualche personaggio potente, e costui, occupato in altra cosa, non vi vede, da qual dolore in vostro cuore non sarebbe colpito? E se Dio non vi vede, vi credete in sicurezza? Il Salvatore non vi vede, ma il nemico soddisfatto vi vede. E tuttavia Dio stesso vi vede. Non crediate che Egli non vi veda, pregate piuttosto di meritare di essere visti da Colui che vi vede (S. Agost.) – Il Profeta non dice: allontanate da me la tribolazione, ma conservatemi la vita in mezzo a rudi prove; vale a dire quando cadrò nei più grandi pericoli, Voi siate tanto potente da salvarmi. Ora, ciò che è veramente ammirevole, ciò che sorpassa ogni pensiero umano, è che, malgrado le calamità ed i nemici che mi assediano da ogni parte, Voi mi date una perfetta sicurezza … Vedete qui questa doppia prova della potenza di Dio? Voi mi conservate la vita, egli dice, in mezzo ai mali da cui sono circondato, e nello stesso tempo, umilierete, comprimerete la rabbia dei miei nemici: « e la vostra destra mi ha salvato. » Dio in effetti, è ricco di espedienti, ha risorse all’infinito, può salvarci in mezzo alle situazioni più disperate (S. Chrys.) – S. Agostino dà a queste parole una interpretazione molto più elevata: « Sappiamo – egli dice – comprendere la tribolazione di cui parla il Profeta … egli non ha voluto dire: se mi capita per caso qualche tribolazione, voi mi libererete. Che dice dunque? « Se cammino in mezzo alla tribolazione, Voi mi darete vita; » vale a dire, Voi non mi darete la vita se non cammino in mezzo alle tribolazioni (S. Agost.). – Le tribolazioni di questa vita mortale sono l’unico mezzo per giungere alla vera vita. – Che i miei nemici dispieghino il loro furore; cosa possono i miei nemici contro di me? Prendermi il denaro, spogliarmi, proscrivermi, mandarmi in esilio, torturarmi con dolori e tormenti; infine, se ne hanno il permesso, togliermi la vita; possono fare qualcosa di più? Ma Voi Signore, « avete steso la vostra destra contro la collera dei miei nemici, » avete steso la vostra mano, ben al di là di ciò che i miei nemici potessero farmi. (S. Agost.). – Notate queste parole del Re-Profeta: « Se vengo a camminare in mezzo alla tribolazione. » Nella via della virtù, bisogna necessariamente camminare. « Camminate nella carità » (Ephes. V, 2); « camminate nella saggezza; » (Coloss. IV, 5, 6); « camminate come figli della luce. » (Ephes. V, 8).  Nella via del cielo, non bisogna restare stesi a terra, per paura di essere coperto ed assalito dalla polvere del cammino; non bisogna rimanere seduti, per non perdere tempo; non bisogna restare in piedi immobili, per non essere abbattuto dal nemico che piomba su di noi all’improvviso; ma bisogna camminare per non essere raggiunto dal nemico, per attraversare rapidamente i luoghi infestati dai ladri, per raggiungere le truppe ausiliari che Dio ha predisposto sulla strada, per arrivare al termine. – Più ancora, bisogna camminare nella tribolazione, per seguire Gesù-Cristo e, caricato della sua croce, salire con Lui la montagna del Calvario, e raggiungere, con sforzi generosi, il regno dei cieli, che soffre violenza e non è raggiunto e conquistato se non da coloro che si fanno violenza. –  « Non disprezzate le opere delle vostre mani. » Io non dico, Signore, non disprezzate le opere delle mie mani; io non mi vanto delle mie opere. Ma in verità, « … io ho cercato il Signore con le mie mani, la notte, in sua presenza, e non sono stato deluso; » (Ps. XXXI, 3); ma tuttavia io non mi vanto delle opere delle mie mani; io temo che esaminandole, Voi troviate più peccati che meriti. Io non chiedo che una cosa, io non dico che una cosa, non desidero ottenere che una cosa: « Non disprezzate le opere delle vostre mani. » Vedete in me l’opera vostra, non la mia; perché se considerate la mia opera, Voi mi condannerete, se considerate la vostra opera, Voi mi coronerete. Tutte le mie buone opere, quali che siano, mi vengono da Voi; esse sono piuttosto vostre che mie; perché io sento il vostro Apostolo dirmi: « È la grazia che vi ha salvato con la fede e questa non viene da voi, perché è un dono di Dio, né dalle opere, affinché nessuno si glorifichi; perché noi siamo la sua opera, essendo stati creati nel Cristo Gesù per le buone opere. » (Ephes. II, 8, 10). Dunque, sia in quanto siamo uomini, sia in tanto che siamo giustificati della nostra empietà e cambiati, Signore, « … non disprezzate le opere delle vostre mani. » (S. Agost.) – Essere povero, carico di debiti, avere qualcuno che paghi i nostri debiti, è come essere ricco e non dover niente. – Questa è la condizione del Cristiano: egli è caricato, o piuttosto sommerso dai debiti dei suoi peccati; ma Gesù-Cristo ha pagato per lui. Egli ha pagato ciò che non doveva per acquistare colui che doveva, ha risposto per noi, si è reso cauzione per noi, ha pagato il nostro riscatto quando ha operato la grande opera della Redenzione … Occorre chiedergli dunque di completare ciò che ha cominciato e non disprezzare l’opera propria. (Dug.).

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (9)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (9)

[Ed. Réganault/Egnault, chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

SECONDA PARTE

MEZZI GENERALI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo X

LO SPIRITO CRISTIANO, SIGILLO DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Terza vita del Cristiano: « La vita dello Spirito »

Sappiamo che, se siamo Cristiani, c’è qualcosa in noi che ci appartiene veramente e che ci eleva al di sopra di noi stessi rendendoci un essere veramente divino che ci fa uscire dalla sfera delle cose create: una terza vita che il giorno del Battesimo si è aggiunta alla vita animale e alla vita razionale, ricevute dalla natura, ma superiore alle altre due infinitamente più di quanto la vita razionale sia superiore a quella animale. Questo essere divino del Cristiano ha nella Scrittura un nome il cui significato è stato alterato dal linguaggio abituale: lo spirito. L’uomo è un insieme di corpo e di anima. Il Cristiano, per grazia, possiede, oltre alla vita del corpo e dell’anima, anche la vita dello spirito. I discepoli del Salvatore sono chiamati da San Paolo uomini spirituali mentre gli uomini carnali sono quelli che lo Spirito di Gesù Cristo non ha liberato dalle loro inclinazioni corrotte. Per l’Apostolo, la vita dello spirito è la vera vita. Non ci sono uomini vivi se non quelli in cui questa vita sia sufficientemente vigorosa tanto da soffocare quella della carne (Rm. VIII, 13). Qual è questo spirito con cui abbiamo a che fare adesso? La Scrittura, che usa continuamente questa parola, non le dà sempre lo stesso significato. A volte è difficile discernere se ci parli dello Spirito di Dio o del nostro. Esiste una differenza profonda, in verità, perché tra lo Spirito di Dio e lo spirito creato più perfetto c’è una distanza infinita. Non è molto glorioso che la nostra somiglianza con lo Spirito Creatore possa raggiungere il punto da confondersi con Lui? Egli l’ha voluto con ogni deliberazione usando, per indicare il risultato della nostra unione con Lui, una parola dal doppio significato, che può essere applicata nello stesso modo a Lui e a noi.

Similitudine dello spirito cristiano con lo Spirito Santo.

Negli uffici della Chiesa, la formula con cui finiscono quasi tutte le preghiere, viene a volte modificata. Invece di dire: per Gesù Cristo nostro Signore che vive e regna con Te nell’unità dello Spirito Santo, diciamo « … nell’unità dello stesso Spirito Santo ». Il che significa che si è parlato dello Spirito Santo nella preghiera così conclusa. Ora, alcuni anni fa la Sacra Congregazione dei Riti ha ordinato che le parole “dello stesso” venissero tolte dalla fine di alcune preghiere alle quali era stata aggiunta. Si era parlato di Grazia, tuttavia, e le parole “dello stesso” erano state introdotte partendo dal presupposto che questo spirito non poteva essere altri che lo Spirito Santo. Sopprimendo queste parole la Sacra Congregazione ha deciso che lo spirito in questione fosse lo spirito del Cristiano, unito per grazia allo Spirito di Dio. Si deve credere che l’inserimento delle parole “dello stesso” contenesse un errore dogmatico e che, nel pronunciarlo, i ministri della Chiesa attribuissero a Dio ciò che è proprio della creatura? Niente affatto! Tutto ciò che si dice dello spirito cristiano, in quanto vive della vita soprannaturale, può giustamente essere applicato allo Spirito di Dio come suo principio. Tra i due c’è lo stesso rapporto che c’è tra il volto di un uomo e la sua immagine riflessa in uno specchio dai raggi di luce. Così come si possono dare giudizi sull’immagine, questi stessi possono essere applicati allo spirito di grazia che è nel Cristiano, qualità e prerogative che, di per sé, non dicono altro che “nello Spirito di Dio”. Se c’è confusione, essa non ha altro fondamento che l’ineffabile bontà dello Spirito Santo, il Quale, nel contemplare Se stesso nell’anima giusta, si rallegra nel trasformarla tanto da poter essere confusa con Esso.

Lo Spirito Santo si compiace di questa somiglianza.

Lo Spirito Santo è estremamente soddisfatto di questa somiglianza. Basta leggere le Lettere di San Paolo per convincersi che lo Spirito Santo, lungi dal temere che lo spirito cristiano sia simile a Lui, lo cerca e si compiace di questo. La parola “spirito”, che ad ogni passo scorre dalla penna dell’Apostolo, si riferisce tanto allo Spirito di Dio, come si riferisce al nostro. A volte i due sensi si confondono nella stessa frase, a volte c’è motivo di chiedersi quale dei due sia stato nella mente dell’Apostolo. In alcuni testi non c’è dubbio che egli abbia in mente lo Spirito Santo, terza Persona della Trinità, come quando ad esempio dice: « La carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato. Non sapete che i vostri membri sono templi dello Spirito Santo? » (1 Cor. VI, 19); « E poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori, che grida: “Abbà, Padre”. » (Gal. IV, 6). Ma ecco un testo, simile all’ultimo, in cui non si riferisce allo Spirito di Dio, ma al nostro: « Non avete ricevuto lo spirito di schiavitù che ispira paura, ma lo spirito di adozione di figli, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! » (Rm. VIII, 16). La somiglianza tra Dio e noi, di cui abbiamo parlato poco fa, si mostra qui in tutto la sua chiarezza. Non possiamo non notare, nel confrontare i due testi di San Paolo, la stretta unione di questi due spiriti. Da un lato, lo Spirito del Figlio è mandato nei nostri cuori e grida in noi: Padre! Dall’altro, il nostro stesso spirito, sentendo la sua adozione divina, lancia lo stesso grido a Dio, che è la sintesi di ogni preghiera del Cuore di Gesù. Il Figlio di Dio, nel trasformare un’anima umana, l’ha riempita di Spirito Santo, che procede da Lui, e le ha dato il diritto di rivolgersi a Dio come suo vero Padre. Ma lo Spirito del Figlio viene dal Cuore di Gesù al nostro, e in Lui, come in Gesù, usa lo stesso linguaggio che con Dio e grida: Padre! invitandoci ad unire la nostra voce alla sua. Infatti, San Paolo dice: « Lo Spirito testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio. » (Rm VIII, 16). Se ascoltiamo la sua voce, se ci lasciamo trasportare dalla sua influenza divina, il nostro spirito sarà animato dai suoi sentimenti; esso concepirà per Dio un amore e una fiducia del tutto filiale; canterà all’unisono con Lui e dirà: “Padre!” Ascoltate l’Apostolo e vedete come spiega, con l’uso della stessa parola in entrambi i sensi, la comunità di vita e di finalità che risulta dall’unione dello Spirito di Gesù Cristo con lo spirito del Cristiano: « Non siete dalla carne – dice ai suoi discepoli – ma dallo spirito, se davvero lo Spirito di Dio abita in voi. Ma chi non ha lo Spirito di Cristo, Esso non è di Lui. E se Cristo è in voi, il corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito vive per la giustizia. E se lo Spirito di Colui che è stato risuscitato dai morti dimora in voi, Colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. » (Rom. VIII, 9-11). L’intera dottrina di San Paolo sulla somiglianza e la relazione tra i due spiriti è riassunta in un confronto, la cui verità e bellezza i santi Padri si sono presi la briga di mettere in evidenza: « Voi avete ricevuto il suggello – dice l’Apostolo agli Efesini – dello Spirito Santo. » (Ef 1, 13). Ascoltiamo la spiegazione data da sant’Atanasio nella sua lettera a Serapione: « Lo Spirito Santo è il sigillo che il Verbo usa per incidere la sua immagine sulle creature; quel sigillo porta l’effigie di Colui che lo usa. Citando Gesù Cristo che ci imprime il suo sigillo (dandoci il suo Spirito), noi prendiamo la sua forma, secondo quanto dice l’Apostolo: « Figlioli, io soffro di nuovo per voi i dolori del parto, finché non vedrò Gesù Cristo formato in voi. » In questo modo la creatura è associata al Verbo e attraverso di Lui tutti noi partecipiamo della divinità. Basta pensare un po’ a questo confronto per vedere il rapporto tra la dottrina dei due spiriti che ora esponiamo e i princìpi precedentemente stabiliti sulla grazia increata e creata. Prendete un sigillo e applicatelo alla cera. Se questa è abbastanza morbida, l’impressione che si riceve sarà la riproduzione esatta e completa delle linee incise sul metallo. Avremo su entrambi i lati la stessa immagine con una sola differenza: nel sigillo l’immagine è come nel suo principio e nella cera come nella sua materia. Nel primo, l’immagine è in qualche modo attiva, si dà da se stessa, mentre nel sigillo viene ricevuto più passivamente. È, né più né meno, ciò che accade nell’anima quando è unita allo Spirito di Dio. Lo Spirito Santo non si accontenta di essere sostanzialmente presente nell’anima, ma si unisce ad essa e vi imprime i suoi sentimenti: « Egli lavora in essa in modo tale – dice San Tommaso – che l’anima comincia ad essere ciò che è sostanzialmente. » (S. Th. I, 2., q. 110, a 2 ad. 2.). Nuove luci, sono prodotte nell’anima, nuovi sentimenti, nuova forza, nuova vita, infinitamente superiore alle luci, ai sentimenti, alle facoltà, alla vita naturale della creatura razionale ed immagine perfetta della vita di Dio.

Cosa intende la Scrittura per spirito cristiano?

Questo è ciò che la Scrittura chiama lo spirito del Cristiano: non è la sostanza stessa dello Spirito di Dio, anche se suppone la presenza reale e sostanziale dello Spirito Divino nell’anima; né è una terza sostanza incompleta, distinta dall’anima, come essa lo è dal corpo. No, lo spirito cristiano è costituito da un insieme di facoltà, abitudini e atti che appartengono alla classe delle perfezioni che i teologi chiamano accidentali, perché si aggiungono alla sostanza dell’anima. Ma sono accidenti divini che portano l’anima ad una perfezione infinitamente superiore a quella che le sostanze più eccellenti possono avere naturalmente. Questo spirito è uno e molteplice. Come la nostra vita naturale nasce dallo stesso principio, l’anima razionale, che contiene in sé una meravigliosa varietà di forze e tendenze, così la nostra vita divina è formata in noi da un unico spirito, che è, rispetto alla nostra anima razionale, ciò che essa è rispetto al corpo: « Rinnovatevi – dice San Paolo – nello spirito della vostra mente. » (Ef. IV, 23). Applicato alle nostre facoltà, produce una moltitudine di spiriti che sono, per questo, ciò che i rami sono nell’albero. Essi sono tanti, quante sono le virtù e i doni gratuiti dell’ordine soprannaturale. C’è infatti lo spirito di fede e di amore, di saggezza e di intelligenza, di consiglio e di forza, di conoscenza, di pietà e di timor di Dio, di profezia e di molti altri. Sono queste altrettante forze divine, diverse nelle loro manifestazioni, ma identiche nel loro principio. Qual è questo principio? Innanzitutto lo Spirito di Dio che, attraverso la sua unione con l’anima, la rende capace di produrre opere soprannaturali: Hæc omnia operatur unus atque idem Spiritus (1 Cor XII, 2); e, nell’anima stessa, la grazia santificante si rende uno stesso spirito con Dio: Qui adhæret Deo unus spiritus est. Sì, San Paolo ha detto bene: uno stesso spirito. Ci allontaneremmo dalla verità se supponessimo che, nella divinizzazione della nostra anima, il sigillo divino sia separato dalla sua immagine. Quando facciamo questa separazione nell’ordine materiale, è molto facile per noi distinguere la traccia lasciata nella cera dal sigillo che l’ha prodotta. Ma prima che si separino l’uno dall’altro, quando il sigillo è ancora attaccato alla cera, non forma davvero una sola cosa con la sua immagine? Cera e metallo sono due sostanze, ma sono unite dalla stessa immagine, che è attiva in una e passiva nell’altra. Ora, l’anima cristiana, divinizzata dallo Spirito di Gesù Cristo, non è separata da quel sigillo divino. Se avesse la sfortuna di farlo, nello stesso istante, la divinizzazione cesserebbe. Essa rimane costantemente sotto questa feconda pressione. Essa è attaccata a Lui e riceve la Sua influenza, che non cessa di impressionarla e di renderla a Sé simile; in realtà non fanno più che un medesimo spirito, e ora si comprende come la parola spirito, usata per esprimere questa ineffabile unione, possa riferirsi a una delle due sostanze tra le quali si produce: Qui adhæret Deo unus spiritus est.

Cosa significa “spirito buono” e “spirito cattivo”?

Queste spiegazioni ci permettono di risolvere un problema di straordinaria importanza pratica. Si dice di certi uomini che abbiano uno spirito buono, di altri che siano animati da spiriti cattivi. Quale potrebbe essere il significato di queste parole? Certamente non intendiamo che tutti coloro ai quali attribuiamo uno spirito malvagio siano in peccato mortale. Ma, d’altra parte, se supponiamo che siano in uno stato di grazia, non dobbiamo forse riconoscere che abbiano lo Spirito Santo, che è lo spirito buono per eccellenza? Come è compatibile uno spirito cattivo con il possesso di questo Spirito? Per spiegare questo fatto, la cui realtà è dimostrata dall’esperienza quotidiana, ricordiamo ciò che abbiamo da poco ammesso. Il Cristiano è tale in ragione dello spirito buono; ma, diventando Cristiano, non cessa di essere uomo. La terza vita che la grazia di Cristo gli ha conferito, non ha distrutto in lui le due vite inferiori, quella animale e quella razionale. Egli rimane libero, anche dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, di seguire l’impulso degli istinti animali e delle inclinazioni egoistiche. Se si lascia trascinare nel peccato mortale, distrugge in se stesso la vita divina, spegne lo spirito, secondo l’espressione di San Paolo (1 Tess. V, 9). Ma senza arrivare a quell’estremo, di quante infedeltà può diventare colpevole! Lo spirito buono rimarrà in lui per tutto questo tempo. Ma il Cristiano imperfetto, lungi dal mostrare nella sua condotta l’influenza di quell’Ospite, manifesterà movimenti e tendenze contrarie. Tutti coloro che lo vedono all’opera, giudicando l’albero dai suoi frutti e l’anima dalle sue abitudini, diranno di lui che ha uno spirito cattivo. Quale Cristiano si può dire che sia di buono spirito? Colui che non si accontenta di avere in sé lo Spirito di Dio, ma che opera abitualmente sotto la sua influenza, che lo consulta nei suoi dubbi, che ascolta attentamente le sue ispirazioni, segue il suo impulso con docilità, si sforza in ogni momento di vivere, non secondo la volontà della carne, né secondo visioni puramente umane, ma come un vero figlio di Dio (1 Giov. I, 13); colui che è continuamente in guardia contro i legami dello spirito maligno e che, con l’esercizio di un’instancabile vigilanza, abbia acquisito l’arte del discernimento e l’abitudine di preservarsi da essi. Poiché la santità consiste nella fedeltà alle ispirazioni dello spirito buono, non lo si può mai raggiungere se non si impara a discernere queste ispirazioni dalle illusioni con cui lo spirito malvagio si sforza di sedurre coloro che non riesce a trascinare con le tentazioni manifeste. La scienza del discernimento degli spiriti è uno dei rami più importanti della grande scienza dei Santi. Non ce n’è un altro il cui uso sia più continuo, poiché siamo sempre sotto l’influenza di questi vari spiriti. Da un lato, siamo inclini al bene per lo Spirito di Dio, per i nostri Angeli e per le inclinazioni soprannaturali della nostra anima, dall’altro al male, apparente o nascosto, per l’angelo di satana e per le inclinazioni corrotte della nostra natura. Se non ci armiamo di una instancabile vigilanza e di una risolutezza incrollabile, saremo senza dubbio abbattuti dalla violenza della tentazione, o deviati verso i terribili sentieri dell’illusione.

Risoluzione pratica.

Ecco perché è indispensabile che, docili all’esortazione così incoraggiante del Divin Maestro, chiediamo incessantemente lo spirito buono al nostro Padre Celeste, che non può negarlo ai suoi figli! (S. Lc. XI, 13). Ma non accontentiamoci di chiedere quello Spirito che deve venire dal cielo; ricordiamoci che c’è in noi un altro spirito che, nato da Dio, non può vivere o svilupparsi senza la nostra libera collaborazione. Dio non ha aspettato che le nostre richieste ci segnassero con il suo sigillo, perché abbiamo ricevuto l’immagine divina prima di poterne apprezzare il valore, prima di conoscere noi stessi. Ma noi non siamo cera morta in cui questa immagine può sempre essere ricevuta passivamente. Possiamo cancellarla, così come permettere all’amore divino di inciderla più profondamente nella nostra anima. Viviamo già secondo lo spirito; ma sta a noi camminare più velocemente, lavorare più coraggiosamente sotto la sua influenza (Gal. V, 25). Possiamo rinnovarci incessantemente nello spirito della nostra anima (Ef. IV, 23) e completare, sottomettendoci sempre più alla legge dello spirito della vita, la nostra liberazione dalla schiavitù del peccato e dalla morte.

PARTE TERZA

MEZZI PARTICOLARI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo 1

IL CUORE DI GESÙ ED I SACRAMENTI IN GENERALE

Introduzione alla terza parte

Nella conoscenza del nostro rapporto con Gesù Cristo sta la vera scienza del Cristiano, la scienza per eccellenza che lo pone al di sopra di tutti gli altri, quanto il cielo si innalza sopra la terra. Non c’è niente altro da imparare se sappiamo bene cosa sia il Cuore di Gesù per noi, il suo modo di stare con noi e come il nostro cuore debba corrispondere alla sua azione. Se sapessimo bene le condizioni dello scambio meraviglioso, attraverso il quale il Cuore di Gesù ci viene donato nella sua interezza,  potremmo donarci interamente a Lui. Coraggio, siamo sulla via più breve e sicura che possa guidarci per questa preziosa scienza. Studiamo con sempre maggiore attenzione e con un amore più ardente, i mezzi con cui il Cuore di Gesù ci viene comunicato, per sapere come dobbiamo andargli incontro. Sappiamo che Egli è la fonte della nostra vita divina; ci resta da scoprire quali siano i canali che distribuiscono questa vita nel nostro cuore. Ce ne sono alcuni che, da se stessi e indipendentemente dalla nostra azione, hanno la virtù di conferirci la vita in modo permanente, purché non mettiamo ostacoli sulla nostra strada. A questa classe appartengono i Sacramenti, chiamati da Isaia, le fonti del Salvatore. Il Cuore di Gesù ci comunica anche la vita divina attraverso tutti gli atti che ci fa compiere in unione con Lui, una volta che ci ha uniti a Sé con la giustificazione: a questa comunicazione, permanente come la grazia dei Sacramenti, si dà il nome di merito. Attraverso la grazia vera e propria, che può essere puramente esterna, ma che ci può essere data anche attraverso il ministero della Chiesa, il Cuore di Gesù esercita su di noi un’azione transitoria, che non costituisce un merito in sé, ma ci mette nella condizione di acquisirlo. Lo studio della nostra unione con il Cuore di Gesù, sotto questi diversi aspetti, ci aiuterà a conoscere meglio la nostra Religione ed a coordinare meglio le conoscenze che abbiamo acquisito da essa. La nostra pietà, ben fondata sui dogmi, sarà allo stesso tempo più solida e tenera. Perché è impossibile non amare il Cuore di Gesù più ardentemente, quanto più si penetra intimamente nella sua conoscenza. Tuttavia, non possiamo  comporre qui un trattato completo sui Sacramenti, che sono il mezzo con cui si realizza la grande opera di formazione di Gesù Cristo in noi. L’unico obiettivo che ci proponiamo è quello di far capire il legame che unisce questa parte importante del dogma cattolico con il centro di tutta la Religione. È bene far vedere, con sempre maggiore chiarezza, l’unità di tutte le cose in quel Cuore Divino. Per raggiungere questo obiettivo non abbiamo bisogno di ricorrere a ipotesi avventurose o a sottili speculazioni. Ci basterà considerare il Cuore di Gesù così com’è realmente e così come ci è stato proposto alla nostra venerazione dal Divin Maestro stesso, cioè come un Cuore vivo, che ci ama e che non cessa di riversare su di noi gli influssi vivificanti del suo amore. Non possiamo negare che lo Spirito Santo sia l’inizio immediato della nostra vita divina; ma le grazie dello Spirito Divino ci vengono comunicate attraverso la santa umanità del Salvatore e attraverso un libero atto del suo amore. Il suo Cuore, organo e sede di quell’amore, deve essere visto come la sorgente da cui scorre incessantemente il fiume di vita che irrora il paradiso della Chiesa. Questo è il punto di vista in cui dobbiamo porci se vogliamo comprendere la nostra vera relazione con il Cuore di Gesù, e non vogliamo esporci al compromesso arbitrario di una devozione così ampia come la Religione stessa e di cui la sua devozione è il centro. E come il centro in una sfera, lungi dall’assorbire e confondere i vari punti della circonferenza, dà a tutti il suo ordine e la sua posizione, così la devozione al Cuore di Gesù ben compresa, non solo non oscura le devozioni particolari, né sminuisce le varie parti della Religione, ma al contrario, fa emergere molto meglio la sua ammirevole varietà e la sua divina armonia.

Capitolo II.

IL CUORE DI GESÙ E IL BATTESIMO

Meraviglie che opera il Battesimo.

Il Battesimo è il primo legame che unisce i Cristiani al Cuore di Gesù; è il sigillo dell’alleanza che porta il figlio dell’uomo nella famiglia di Dio; è il primo anello di una meravigliosa catena che Gesù Cristo ha operato durante la sua vita mortale, curando lebbrosi, paralitici, sordi, muti, posseduti, resuscitando i morti, tutte cose che non sono nulla in confronto al miracolo che si opera nel bambino che riceve il Battesimo. Il miracolo del Battesimo è la realtà di ciò che è figurativo nelle altre cose. Perché essendo com’era, cioè in potere del diavolo, l’anima di quel bambino è liberata; egli era morto e ora riceve la vita; era coperto dalla lebbra e viene completamente purificato, al posto di una forza umana, gli vien data una forza sovrumana. Tutto questo viene fatto non nell’ordine delle cose visibili che passano, ma nell’ordine delle cose invisibili, che sono uniche. Tutto questo avviene nell’ordine divino, perché la vita che il figlio dell’uomo riceve è una vita divina; le sue forze sono forze divine; l’eredità che egli acquisisce per diritto infallibile, è un’eredità divina. LAutore di tutte queste meraviglie è il Cuore di Gesù che, nel momento in cui l’acqua benedetta tocca la fronte del bambino, comunica al suo cuore lo spirito e la vita che Egli stesso anima.

Battesimo, mistero della morte.

Il mistero del Santo Battesimo è insieme un mistero di morte e un mistero di vita. Da quando l’uomo, dopo essersi spogliato della vita di Dio attraverso il peccato, si è volontariamente condannato a morte, non può tornare nel suo stato precedente se non si sottomette alla giusta punizione che i suoi peccati meritano. La misericordia divina non può rigenerarlo se la giustizia divina non sia prima soddisfatta. Il bambino che ha appena aperto gli occhi alla luce ha un debito da pagare, il debito contratto dal nostro primo padre e che è stato esteso a tutti i suoi discendenti. Un debito che deve essere pagato prima che il nuovo figlio di Adamo possa riacquistare i suoi diritti sull’eredità celeste. Come può essere ripagato da un bambino che non riesce nemmeno a pensare o ad agire da solo? Lo pagherà così come l’ha contrattato. Ha peccato nella persona del suo primo padre, il vecchio Adamo. Ma ha un altro Padre, il nuovo Adamo, che ha preso su di Sé, espiandolo, il debito del suo peccato. Gesù Cristo è morto per quel bambino e il Battesimo lo renderà partecipe della sua morte in modo meraviglioso: infatti, egli si impadronirà della giustizia del nuovo Adamo per distruggere l’opera della morte e la grazia sovrabbonderà dove il peccato aveva abbondato. Il primo effetto del Battesimo è quello di innestarci nella morte di Gesù Cristo, secondo il dire di San Paolo; di seppellirci nella sua tomba e di battezzarci nella sua morte. Sono espressioni dell’Apostolo, il cui contenuto aveva reso la Chiesa più palpabile, nei primi secoli, per l’usanza che aveva di battezzare per immersione. Il catecumeno era immerso e sepolto completamente nelle acque, per poterne uscire trasformato, in qualche modo, in un uomo nuovo. Così è stato battezzato Gesù Cristo e in questa azione, la prima della sua vita pubblica, i Santi Padri vedono la figura dell’atto con cui ha dovuto chiuderla. Fu immerso nelle acque del Giordano, mentre doveva essere sepolto nella tomba per distruggere la carne del peccato, di cui portava l’immagine. Gesù Cristo, il Figlio dell’uomo, ha riunito tutta l’umanità colpevole, l’ha sommersa nelle acque e poi l’ha sepolta sulla terra per seppellirla e purificarne i crimini. Un santo Dottore dice che, quando uscì dal Giordano, sollevò ed estrasse con sé dalle acque il mondo sommerso da una nuova inondazione. (Secum quodam modo demersum educens et levans mundum – S. Gregorio Naz., Orat. 39: in s. lumina). Si vede in questo perché Dio Padre ha scelto quel momento per riconoscerlo solennemente come suo Figlio: fino ad allora, sembrava che lo avesse ignorato, perché lo vedeva vestito delle nostre iniquità. Ora lo riconosce e dice: “Ecco il mio diletto Figlio in cui ho riposto tutte le mie compiacenze”. Ogni volta che il Battesimo del Salvatore viene conferito ad un nuovo Cristiano, questo mistero si rinnova. Quello che è stato a lungo fatto nel Capo, si opera sul membro. La morte del Salvatore, raffigurata nell’immersione nel Giordano, è riprodotta dall’acqua versata sulla fronte del bambino. I suoi peccati vengono distrutti, le sue macchie lavate via, e Dio Padre, che prima vedeva in lui solo un figlio dell’ira, si compiace ora di riconoscere in lui l’immagine del suo Figlio diletto. In un altro tempo la giustizia divina, irritata dai crimini degli uomini, aveva mandato un diluvio sulla terra per purificarla. Era un battesimo d’ira che aveva distrutto sia i peccati che i peccatori. Il Battesimo di Gesù Cristo è un diluvio di misericordia, che distrugge il peccato molto più efficacemente del primo diluvio, ma che allo stesso tempo salva il peccatore. Per questo motivo, è molto meglio raffigurato nel passaggio del Mar Rosso, che porta il popolo eletto fuori dal paese della schiavitù e lo libera. Solo il faraone e il suo esercito, cioè i vizi che tenevano prigioniera l’anima, vengono inghiottiti dalle onde vendicative, mentre l’anima ne esce viva e libera.

Il Battesimo, mistero di vita

Questo mistero è un mistero di vita molto più che di morte, perché  la comunicazione di Gesù Cristo che distrugge il peccato nell’anima dei battezzati è la più vitale e vivificante di tutte le operazioni. Proprio come il Divin Salvatore ha dato vita al mondo, morendo per noi, così Egli dà la sua vita ad ogni uomo, rendendolo partecipe dei meriti della sua morte. Il Cuore di Gesù contiene due tesori ugualmente infiniti: quello delle soddisfazioni del Salvatore e quello dei suoi meriti. Comunicandoci i suoi meriti, ci dà la vita; distrugge la morte in noi, comunicandoci le sue soddisfazioni: è una doppia comunicazione che avviene nel Battesimo. È allora che il figlio dell’uomo diventa parte del Corpo mistico del Figlio di Dio e ne diventa membro vivente. Qualcosa di simile a ciò che accade nel nostro corpo, accade poi nel Corpo divino ogni volta che assimila nuovi elementi. Tutte le parti che al momento attuale compongono i nostri membri, erano sparse nell’aria o sulla terra, appartenevano alla natura inferiore, al mondo materiale. Ma una volta divenuti la nostra sostanza, sono stati messi in comunicazione con la nostra anima, che li ha presi, li ha uniti, ha comunicato loro le sue forze, dando loro un nuovo essere. Gli elementi, che prima erano puramente materiali, fanno ora parte di un essere spirituale e razionale; sono saliti alla categoria più alta della creazione. E mentre siamo sulla terra non smetteremo di assimilare sostanze inferiori e di elevarle in noi ad un ordine superiore alla loro natura. Questo mistero della crescita e della comunicazione della vita naturale è una figura ammirevole del mistero della propagazione della vita nell’ordine soprannaturale. Finché il Corpo mistico di Gesù Cristo, che è la Chiesa, sarà sulla terra, nuovi membri presi dall’umanità decaduta e degradata vi si uniranno continuamente. Ma, non appena queste anime sono messe in comunicazione con il Cuore di Gesù mediante il Battesimo, lo Spirito Santo, l’anima del suo Corpo mistico, li trasforma, li eleva al di sopra di se stessi, comunica loro la sua forza, la sua vita, il suo essere. In una parola, li innalza allo stato soprannaturale e divino. Un’altra comparazione, usata da San Paolo, ci dà una migliore comprensione degli effetti prodotti nell’anima del Cristiano dal Battesimo: è il paragone dell’innesto. Ammirate un olivo selvatico che non produce altro che frutti rachitici ed amari. Il contadino ha profuso la sua cura su di esso senza ottenere alcun risultato soddisfacente. Ma prima di decidere di sradicarlo, si risolve nell’innestarlo. Prende la parte di un olivo buono, fa un’incisione in uno dei rami e lo inserisce. Presto la pianta si innesta al ramo, gli comunica le sue qualità e allo stesso tempo si nutre della sua linfa. Da questa unione nascono frutti che, pur rimanendo dell’olivo selvatico, hanno un sapore ed una forza simile a quella dei frutti di un buon olivo. Questo bel simbolo ha una doppia applicazione: può essere applicato all’umanità malata e ad ogni Cristiano, all’Incarnazione e al Battesimo: esso si è realizzato per la prima volta nel modo più commovente nell’Incarnazione del Figlio di Dio, quando, attraverso la mediazione della Beata Vergine Maria, l’innesto divino, Gesù Cristo, è stato posto nell’albero selvatico e maledetto dell’umanità. È avvenuto di nuovo, ma in senso inverso, in ognuno di noi, il giorno del nostro Battesimo: l’innesto dell’olivo sterile nell’albero buono ha ricevuto da esso l’abbondanza della linfa ed il sapore dei suoi frutti. Prima che questo mistero di grazia si realizzasse in noi, non potevamo produrre altro che frutti di morte, né potevamo fare altro che opere colpevoli ed inutili per il cielo. La nostra linfa era corrotta, le nostre facoltà erano assopite, la nostra natura era condannata ad una irrimediabile sterilità. Eppure il contadino celeste, Dio, nostro Creatore e Padre, ci aveva destinato a portare frutti di vita immortale. Non poteva quindi rassegnarsi a vedere i suoi piani vanificati dalla malizia di satana. Ed allora che cosa ha fatto? Lo abbiamo già detto: ci ha innestati sull’olivo buono, la vite divina, Gesù Cristo, il suo Figlio prediletto. In questo modo, senza perdere nulla del nostro essere e delle nostre facoltà naturali, abbiamo acquisito un nuovo essere e una nuova fecondità, la vita stessa del Salvatore, siamo stati resi capaci di fare le opere che l’Uomo-Dio ha fatto sulla terra, di portare frutto in Lui, di appropriarci dei suoi meriti divini. Finché siamo disposti a rimanere in Lui, la Sua linfa divina ci viene comunicata in abbondanza sempre maggiore.

Gli effetti del Battesimo, secondo i Santi Padri.

Ciò che il Salvatore disse ai suoi Apostoli, ora ripete a coloro che si uniscono a Lui nel Battesimo: « Io sono la vite e voi i tralci; colui che dimora in me, e colui in cui risiedo, porta molto frutto; ma senza di me non potete fare nulla. Mio Padre mette la sua gloria nel farvi portare molto frutto. » Da essere maledetto, da figlio del nulla e destinato alla morte, senza eredità e senza speranza, spogliato di ogni merito e della possibilità di acquisirlo, si vede improvvisamente, per dono gratuito, infinitamente al di là della sua condizione naturale: unito al Figlio di Dio, reso partecipe della sua vita, fecondità e ricchezza. Questo è ciò che fa il Battesimo. Che meravigliosa trasformazione opera nel bambino! Che miracoli fa in un istante! I Santi Padri hanno esaltato gli effetti ammirevoli della giustificazione che il Cristiano riceve nel Battesimo: « Il Battesimo è – dice San Gregorio Nazianzeno – lo splendore delle anime, il cambiamento di vita in qualcosa di più perfetto, il sostegno della nostra debolezza, la dismissione della carne, l’acquisizione dello Spirito Santo, la condivisione del Verbo, la guarigione della nostra natura, il diluvio che ci lava dal peccato, la comunicazione della luce, la cacciata delle tenebre. Il Battesimo è un carro che Dio solo conduce, un pellegrinaggio con Gesù Cristo, il sostegno della fede, il perfezionamento dell’anima, la chiave del regno dei cieli, la trasformazione della vita, la cessazione della schiavitù, lo spezzarsi delle catene, la conversione dell’uomo ad uno stato migliore. » (2 S. Gregorio Naz., Orat. 40: in x. baptisma, MG: 36, 359). Cosa possiamo continuare ad aggiungere? Il Battesimo è il più bello e il più grande dei benefici di Dio. Come certe cose si chiamano le cose sante delle cose e i cantici dei cantici perché si diffondono maggiormente, abbracciano più oggetti ed hanno una dignità particolare, così il Battesimo si chiama l’illuminazione, perché per la sua santità supera tutte le altre illuminazioni. E come Gesù Cristo ha vari nomi ed attributi diversi, così questo dono si chiama in modi diversi, nel pervaderci dalla gioia che produce in noi, perché chi ama una cosa le dà una moltitudine di nomi, proprio per la moltitudine dei suoi effetti. « Chiamiamolo dono, grazia, battesimo, unzione, illuminazione, vestito di purezza, bagno di rigenerazione, sigillo, e in altri modi molto più eccellenti ancora. Chiamatelo dono perché è dato senza essere meritato; grazia, perché è dato ai peccatori; battesimo, perché attraverso di esso il peccato è sepolto nell’acqua; unzione, perché è sacra e regale, perché da essa si ha tutto ciò che sia unto; illuminazione, perché è splendore e chiarezza; vestito, perché copre la nostra ignominia; sigillo, perché ci preserva e rappresenta il nostro regno. I cieli sono in gratitudine per esso, gli Angeli lo celebrano, perché per il suo splendore siamo diventati suoi alleati. È l’immagine della beatitudine; vorremmo esaltarlo con inni e lodi, ma la sua dignità è così eccelsa che sarebbe impossibile per noi comprenderla. » San Giovanni Crisostomo avverte che alcuni Cristiani non vedono nel Battesimo altro che la remissione dei peccati, mentre esso contiene in sé magnifiche prerogative: ci rende liberi, giusti, santi, figli di Dio, eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo, membra di Gesù Cristo, templi e strumenti viventi dello Spirito Santo. (San Giovanni Crisostomo, Om. ad Neoph., apud Augustinum, ML: 44, 654-655.).

Il Battesimo è l’ultimo grado dell’ascensione della natura al suo Creatore.

Poiché Dio ha creato tutti quegli esseri cavandoli da Sé fin dall’eternità, tutti tendono a ritornare a Lui, come i fiumi che si dirigono verso l’oceano. Tutta la natura non è altro che una grande opera, uno sforzo con cui le creature si elevano di grado in grado fino a raggiungere una perfezione superiore e si avvicinano così alla perfezione sovrana. Nelle piante, la natura minerale viene portata alla vita vegetativa. Negli animali la natura minerale e vegetale viene elevata a quella sensibile. Nell’uomo i tre regni inferiori si elevano alla vita razionale, il grado più alto nella scala delle perfezioni naturali. Ma tra il massimo grado di perfezione creata e non creata, tra la vita razionale e quella divina, c’è un abisso infinito. Il Battesimo colma questo abisso in parte innalzando la vita razionale alla vita divina e portando l’uomo e tutte le sue nature inferiori nell’ordine divino. In questo modo l’idea di cui gli empi hanno fatto uno dei loro errori più mostruosi si realizza completamente. Dicono che Dio si è fatto, intendendo con questo che Dio non abbia una vera esistenza, e che non c’è altro Dio se non il mondo, che si perfeziona costantemente, avvicinandosi sempre più alla perfezione assoluta. Questo errore, come tanti altri, non è altro che la verità falsificata: cioè che Dio ha voluto, per un atto del suo libero arbitrio, rendere le creature razionali partecipi della sua natura, della sua vita, della sua felicità. Questa comunicazione della vita di Dio si espande costantemente attraverso il Battesimo: il Corpo mistico di Gesù cresce ogni volta che un nuovo membro vi si unisce. In questo modo aumenta il numero degli dèi creati. Dio stesso, secondo l’espressione di San Paolo, cresce, cioè: rimanendo in Sé perfettamente immutato, riceve da noi, attraverso la virtù del Cuore di Gesù, un nuovo prolungamento di vita (Ex quo totum corpus crescit in augmentum Dei. Col. II, 19). Il potere veramente meraviglioso che il Battesimo conferisce al Cristiano consiste nel fatto che lo fa crescere in Dio e fa crescere Dio in lui.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/29/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-10/

SALMI BIBLICI: “SUPER FLUMINA BABYLONIS” (CXXXVI)

SALMO 136: “SUPER FLUMINA BABYLONIS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 136

Psalmus David, Jeremiæ.

[1] Super flumina Babylonis illic sedimus et flevimus, cum recordaremur Sion.

[2] In salicibus in medio ejus suspendimus organa nostra;

[3] quia illic interrogaverunt nos, qui captivos duxerunt nos, verba cantionum; et qui abduxerunt nos: Hymnum cantate nobis de canticis Sion.

[4] Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?

[5] Si oblitus fuero tui, Jerusalem, oblivioni detur dextera mea.

[6] Adhæreat lingua mea faucibus meis, si non meminero tui; si non proposuero Jerusalem in principio laetitiæ meæ.

[7] Memor esto, Domine, filiorum Edom, in die Jerusalem, qui dicunt: Exinanite, exinanite usque ad fundamentum in ea.

[8] Filia Babylonis misera! beatus qui retribuet tibi retributionem tuam quam retribuisti nobis.

[9] Beatus qui tenebit, et allidet parvulos tuos ad petram.

SALMO CXXXVI.

Lamentazione degli schiavi in Babilonia; desiderio della patria e predizione di severi castighi contro i Babilonesi e gli Idumei. Fu aggiunto il titolo aGeremia, perché Geremia predicò imminente ai Giudei la schiavitù babilonica; la pianse; e ne annunziò la fine dopo settant’anni.

Salmo di David a Geremia.

1. Sulle rive de’ fiumi di Babilonia, (1) ivi sedemmo, e piangemmo in ricordandoci di te, o Sionne.

2. A’ salci appendemmo, in mezzo a lei, i nostri strumenti.

3. Perché ivi domandarono a noi, quelli che ci avevano menati schiavi, le parole dei nostri cantici; e coloro che ci avevano rapiti dissero: Cantate a noi un inno, di que’ che si cantano in Sionne.

4. E come mai canteremo un cantico del Signore in una terra straniera?

5. Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra.

6. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se io non avrò memoria di te; se io non metterò Gerusalemme al di sopra di qualunque mia allegrezza.

7. Ricordati, o Signore, dei figliuoli di Edom, i quali nel giorno di Gerusalemme dicevano: Distruggete, distruggete fino ai suoi fondamenti. (2)

8. Figliuola infelice di Babilonia, beato colui che farà a te quello che tu hai fatto a noi. (3)

9. Beato colui che prenderà e infrangerà sulle pietre i tuoi figliuoli.

(1) Questi fiumi di Babilonia sono il Tigri, l’Eufrate ed il Chobar. Il salmista fa qui menzione dei fiumi non come vede Rosen-Muller, perché si costruivano le sinagoghe sulle sponde dei fiumi o correnti di acqua, affinché i Giudei potessero più facilmente lavarsi le mani secondo il precetto della legge; ma perché coloro che sono nella tristezza ed i giusti amano ritirarsi presso i corsi di acqua per librarsi al loro dolore o alle loro ispirazioni poetiche.

 (2) Si vede nel profeta Abdia (11, 12, 13, 14), che quando i Babilonesi invasero la Giudei, gli Idumei si aggiunsero all’armata di Nabucodonosor contro Gerusalemme e lo eccitarono a distruggerla.

(3) Il castigo invocato qui su Babilonia era estato predetto da Isaia, XIII, 16.

Sommario analitico

Questa bella elegia è, propriamente parlando, l’inno patriottico degli Ebrei. Mai l’amor di patria fu espresso in maniera più energica e più toccante. In questo salmo, così pieno di poesia e che traspira la più profonda tristezza, l’amore più tenero per la patria perduta, i Giudei prigionieri a Babilonia: (1)

I. esprimono il dolore che li opprime:

1° Con la loro tristezza e le loro lacrime (1);

2° Con il silenzio dei loro strumenti musicali (2);

3° Con il rifiuto di prender parte ad ogni gioia sacra o profana, trovandosi in disaccordo con le circostanze del luogo e del tempo in cui essi si trovano (3, 4).

II. – desiderano il ritorno in patria.

1° Essi lo hanno continuamente presente nei loro ricordi (5);

2° Essa è sarà sempre il principale oggetto della loro gioia. (6)

III. – predicono la vendetta che Dio attirerà sui loro nemici.

1° Essi pregano Iddio di punire gli Idumei. E danno la ragione per la quale essi meritano il loro castigo (7);

2° predicono ai Babilonesi che la loro città sarà distrutta dai Persiani, come essi hanno distrutto la città di Gerusalemme, e questo castigo terribile si estenderà fino ai lattanti.

(1) La poesia toccante di questo salmo, il suo sentimento così profondo, così vero, malinconico e naturale, è passato nell’anima delle masse e lo ha reso popolare. Esso risponde a tutte le note lamentevoli del cuore umano. A tutte le amarezze, a tutti i segreti, aspirazioni, errori, dolori, a tutti i gemiti e alle noie delle facoltà alterate, dei desideri ingannati, delle speranze deluse sia per gli individui che per le nazioni. È uno dei brani di poesia più pieno di eterna freschezza, rivestito delle più soavi e pure emanazioni del cuore, già dai primi accordi per cui ogni testa si inclina e sogna con la fronte nelle mani. « Super flumina Babylonis! » L’anima non ha più bisogno di intendere di più: l’estasi la sazia ben presto e la trasporta sulle sue ali sopra tutti i brusii della terra; essa canta e piange la sua elegia ineffabile come un’eco vivente, ed i suoi sublimi accenti tengono i cieli sospesi e fanno tacere le lire eterne. (Clause: I Salmi tradotti, etc. ).

Spiegazioni e Considerazioni

ff. 1, 2. – La santa Sion è la città di Dio, e Babilonia è la città del mondo. Quali sono i fiumi di Babilonia? «  È tutto ciò che si ama e che passa, vale a dire, i beni deperibili. » Così voi siete interamente dediti alle cure e vi date ai vostri campi e non sognate che di diventar ricchi. Questo benessere al quale voi tendete, non è la città di Sion, è un fiume di Babilonia. Io mi sento dire: è una gran cosa essere soldato; il soldato è temuto dall’uomo dei campi, o tutti gli obbediscono. Quando sarò soldato, il lavoratore tremerà davanti a me. Insensato! Voi vi gettate in un altro fiume di Babilonia, più turbolento e più avido. Un terzo viene e mi dice a sua volta: ciò che è bello, è essere avvocato, potente per eloquenza, veder gli altri pendenti dalle mie labbra, tanti interessi diversi, e tanti uomini attendere con una sola parola, la perdita o il guadagno, la vita o la morte, la rovina o la salvezza … Oh! In quale abisso vi gettate … anche questo è un fiume di Babilonia, più agitato di tutti gli altri e il cui colpo d’onda batte le rocce. Non vedete questo fiume breve, non vedete che precipita? Prendete cura di non precipitarvi (S. Agost.). – Noi ci imbarchiamo ogni giorno sui fiumi di Babilonia, vediamo questi fiumi passare davanti a noi, questi fiumi dei piaceri del mondo; noi vediamo le voluttà passare davanti a noi, le acque ci sembrano chiare, e nell’ardore dell’estate, si trova piacere nel rinfrescarsi; il corso sembra tranquillo, ci si imbarca facilmente e si entra ben avanti nel commercio di questa città criminale. (Bossuet, Serm. p. de d. de Quares.). – Vi sono altri cittadini della santa Gerusalemme che sono nella loro cattività, che considerano voci di questo mondo e le diverse voluttà che si impossessano degli uomini e li conducono qua e là verso il mare. Alla vista di questi pericoli, invece di abbandonarsi ai fiumi di Babilonia, restano seduti sul bordo dei fiumi di Babilonia, e là piangono sia su coloro che si lasciano trasportare dalla corrente dei fiumi, sia su se stessi, che hanno meritato di essere prigionieri in Babilonia. Essi sono seduti là, cioè umiliati: « Sulla sponda dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti ed abbiamo pianto al ricordo di Sion. » O santa Sion, dove tutto dimora e niente scorre? Chi ci ha precipitato in mezzo a questi torrenti? perché abbiamo abbandonato il vostro fondatore e la vostra società, o Sion? Travolti ora in queste acque mobili ed in queste correnti rapide, colui che si trova nel fiume appena riesce a raggiungere un legno di salvezza e sfuggire al torrente. Nell’umiliazione della nostra cattività, sediamoci dunque sulla sponda dei fiumi di Babilonia, non siamo tanto arditi da precipitarci nella corrente di questi fiumi, o di levarci orgogliosamente in mezzo ai mali o alle tristezze della nostra cattività; ma sediamoci e piangiamo. Sediamoci sopra i fiumi di Babilonia, ma non sotto, e possa la nostra umiltà essere grande perché non veniamo sommersi. Sediamoci sopra i fiumi, non nel fiume o sotto il fiume; tuttavia, sedetevi umilmente e non parlate come se foste in Gerusalemme. Voi vi sarete un giorno, perché il profeta lo dice, in un altro salmo, ove parla della vostra speranza e vi dice nei suoi canti: « I nostri piedi stiano dritti negli atri di Gerusalemme. » (Ps. CXXI, 2). Là, voi vi eleverete se vi siete abbassati qui con la penitenza e la confessione: « I nostri piedi si tengano dunque retti negli atri di Gerusalemme. »  Ma « sulla sponda dei fiumi di Babilonia noi ci siamo seduti ed abbiamo pianto al ricordo di Sion. » (S. Agost.) – È una legge di provvidenza che la gioia succeda ai desideri; ed il Cristiano non merita di gioire in cielo, se prima non abbia imparato a gemere in questo luogo di pellegrinaggio; perché, per essere un vero Cristiano, bisogna sentire di essere un viatore, e voi facilmente confesserete che colui che non lo riconosce, non sospira alla sua patria. Ecco perché S. Agostino ha detto queste belle parole che meritano di essere meditate: « Colui che non geme come viandante non gioirà come cittadino: » vale a dire, se comprendiamo, egli non sarà mai abitante del cielo, perché ha voluto esserlo della terra; poiché egli rifiuta il lavoro del viaggio, e non avrà il riposo della patria; ed arrestandosi là dove bisogna camminare, non arriverà dove deve arrivare. Coloro, al contrario, che deplorano il loro esilio, saranno abitanti del cielo, perché non vogliono esserlo di questo mondo, e tendono, con santi desideri, alla felice Gerusalemme. Bisogna dunque che noi gemiamo. A voi, felici cittadini della Gerusalemme celeste, a voi appartiene la gioia; ma, nel mentre che languiamo in questo luogo di esilio, le lacrime ed i desideri fanno la nostra parte. Davide ha espresso i nostri veri sentimenti, quando ha cantato con voce gemente: « Seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia, noi abbiamo gemuto e pianto al ricordo di Sion. » (BOSSUËT, Pan. de S.te Thér.) – Notate qui le due cause del dolore che affliggono un’anima pia che attende con l’Apostolo l’adozione a figli di Dio … È il ricordo di Sion e dei fiumi di Babilonia. Perché non volete che ella pianga, allontanata da ciò che cerca ed esposta in mezzo a ciò che scorre? Ella ama la pace di Sion, e si sente relegata nei turbini di Babilonia, ove non vede che acque correnti, cioè piaceri che passano; e mentre ella non vede nulla che non passi, si ricorda di Sion, di queste felice Gerusalemme in cui tutte le cose sono permanenti. Così, nella diversità di questi due oggetti, essa non sa ciò che di più l’affligga, se Babilonia, in cui si vede, o Sion, da cui è bandita (Bossuet, ibid.). –  « Noi ci siamo seduti ed abbiamo pianto. » Le anime dei giusti piangono i peccati dei loro fratelli: « La carità geme – dice S. Agostino – noi gemiamo sovente sui peccati dei nostri fratelli, soffriamo violenza, il nostro spirito è in preda ad una vera tortura. »   (Serm. XLIV, Sur les par. du Seig.) — Exemple de saint Paul. (ROM. IV, 2.). essi piangono i loro peccati. « I miei occhi hanno sparso torrenti di lacrime, perché non hanno osservato la vostra legge; (Ps. CXVIII, 136); « Io mi sono consumato nei miei gemiti; il mio giaciglio, ogni notte, sarà bagnato dalle mie lacrime ed il mio letto impregnato delle mie lacrime. » (Ps VI, 6). Così, il Profeta dice alla figlia di Sion, infedele e colpevole: « piangi giorno e notte, e le tue lacrime scorrano come un torrente; Gerusalemme non dia riposo alla tua palpebre, e la pupilla del tuo occhio non taccia. » (Lam. II, 6). L’occhio è un oratore eloquente, la pupilla è come la bocca, e senza aver bisogno di parole, si persuade facilmente di tutto ciò che vede. Il torrente non basta, perché esso si dissecca molto presto, c’è bisogno di una fonte inestinguibile di lacrime: « Per questo io sprofondo in lacrime ed i miei occhi spandono torrenti di lacrime. » (Lam. I, 16). Ma bisogna che voi piangiate « al ricordo di Sion. » Non c’è santo dolore, né lacrime feconde, se il ricordo di Sion non viene a mescolarsi. Le lacrime sterili sono quelle che il dolore fa versare senza che la religione le consoli, né le consacri. Molti versano lacrime di Babilonia, perché gioiscono delle gioie di Babilonia. Gioire per un guadagno e piangere per una perdita appartiene egualmente a Babilonia. Voi dovete piangere, ma al ricordo di Sion. Se piangete al ricordo di Sion, piangerete anche quando sentirete le gioie di Babilonia … Che ciascuno esamini la felicità che ha come trasportato la sua anima di allegrezza, che l’ha come glorificata di gioia, l’ha elevate al di sopra di lui stesso e gli fa dire: Io sono felice! Che si domandi se questa felicità non passi e se non possa essere certo che durerà eternamente. Se non è certo e vede scorrere ciò che fa la sua gioia, l’oggetto della sua felicità non è che un fiume di Babilonia; che vi si sieda quindi vicino e pianghi. Egli si siederà e piangerà, se si ricorda di Sion. Oh questa pace che vedremo in Dio! Oh! Questa santa eguaglianza con gli Angeli! Oh! Questa visione, e questo magnifico spettacolo! Senza dubbio, voi trovate belle le cose di Babilonia che vi imprigionano; … che non vi catturino, non vi seducano! Altro è la consolazione dei prigionieri, altra la gioia degli uomini liberi (S. Agost.) – « Noi abbiamo sospeso i nostri strumenti musicali ai salici delle loro rive. » Essi sospendono ai rami gli strumenti della loro gioia, per mostrare ai loro oppressori che avevano più a cuore le loro lacrime che i cantici. Per noi, sospendere i nostri liuti ai salici di Babilonia, è abbandonare gli strumenti della gioia degli uomini di questo secolo, che come alberi sterili, sono irrorati incessantemente dalle acque di Babilonia. –  I cittadini di Gerusalemme hanno i loro strumenti: questi sono le Scritture di Dio, i precetti di Dio, le promesse di Dio, la meditazione della vita ventura; ma quando sono in mezzo a Babilonia, essi sospendono i loro strumenti ai salici. I salici sono degli alberi che non portano alcun frutto; questi alberi sono bagnati dai fiumi di Babilonia e sono sterili. Così come gli uomini cupidi ed avari sono sterili in buone opere, così i cittadini di Babilonia, nutriti di voluttà che procurano loro i beni passeggeri, somigliano agli alberi di questo paese bagnato dai fiumi di Babilonia: voi cercate del frutto in essi e non ne trovate alcuno. Quando dobbiamo sopportare tali uomini, noi viviamo con coloro che sono in mezzo a Babilonia. C’è in effetti una grande differenza tra il territorio di Babilonia e l’esterno di Babilonia; perché vi sono di coloro che non sono in mezzo a questa città, cioè che non sono profondamente affondati nei piaceri e nelle delizie del secolo. Ma, per parlare chiaramente e con poche parole, coloro che sono molto malvagi sono al centro di Babilonia e non sono che alberi sterili, come i salici di Babilonia. Quando li vediamo, li troviamo talmente sterili, che è difficile riconoscere in essi alcun mezzo che li conduca alla vera fede, alle buone opere, o alla speranza della vita futura, o al desiderio di essere liberati dalla schiavitù della nostra condizione mortale. Noi conosciamo le Scritture delle quali potremmo parlare loro, ma non raccogliendo in essi alcun frutto che ci serva da punto di partenza, noi volgiamo gli occhi sopra di essi e diciamo: essi non hanno ancora né gusto, né intelligenza, e tutto ciò che diremo loro, lo prenderebbero come parte cattiva e ce lo rivolgerebbero contro. Differendo dall’intrattenerli con le Scritture, noi sospendiamo i nostri strumenti ai salici; perché noi non troviamo questi uomini degni di portarli (S. Agost.) –  Quando i figli di Dio sono prigionieri in Babilonia, cioè quando lo spirito e le massime del mondo li tengono asserviti alla loro dura tirannia, allora la loro bocca si chiude come il loro cuore. Non più preghiera, non più lode di Dio, non più professione di fede. Si può oltraggiare, bestemmiare davanti ad essi impunemente Dio, Gesù-Cristo, i suoi misteri, la sua Religione, la sua Chiesa; essi restano silenziosi, restano muti: la parola di Dio è incatenata sulle loro labbra, essi tengono la verità di Dio prigioniera nell’iniquità.

f. 3, 4. – Perché era proibito loro di cantare in terra straniera? Perché orecchie profane non erano degne di ascoltare questi canti misteriosi. Essi vogliono dire: non ci è stato permesso di cantare. Noi abbiamo, è vero, perso la nostra patria, ma restiamo inviolabilmente fedeli alla nostra legge, e la osserviamo con scrupolosa esattezza. Così, benché siate i padroni dei nostri corpi, non trionferete mai delle risoluzioni della nostra anima (S. Chrys.). – Coloro in cui agisce il demonio, ci interrogano talvolta e ci dicono: dateci le ragioni della vostra fede, spiegateci perché il Cristo è venuto sulla terra ed in cosa il Cristo è stato utile al genere umano? Dopo la venuta del Cristo, le cose umane non sono che peggiorate rispetto a prima ed erano in altri tempi in uno stato più felice di quanto non lo siano ora! I Cristiani ci dicono che il Cristo abbia apportato il bene sulla terra? In cosa pensano che le cose umane siano più felici, dacché il Cristo è venuto sulla terra? Voi vedete dunque che se i teatri, gli anfiteatri ed i circhi restano sani e salvi, se nulla perisce in Babilonia, se gli uomini navigano nell’abbondanza delle voluttà, cantano e danzano al suono di canzoni oscene, se la corruzione dei libertini e delle donne di cattiva vita segue il suo corso piacevolmente in tutta sicurezza; se colui che grida per far dare onori ai pantomimi, che non aveva da temere la fame nella sua casa, se questo fiume di delizie colava senza diminuzione e senza turba alcuna, se tutte queste frivolezze erano accompagnate da una tranquillità perfetta, allora il nostro tempo sarà da questi dichiarato felice, ed il Cristo avrebbe – secondo loro – apportato alle cose umane una gran somma di felicità. Ma dal momento che le iniquità sono distrutte, che sulle rovine della cupidigia è impiantato l’amore di Gerusalemme, che la vita presente è mescolata all’amarezza, per far desiderare la vita eterna, che gli uomini sono istruiti dai castighi e ricevono colpidel loro Padre, per evitare l’alt del Giudice, il Cristo non avrebbe portato del bene, e secondo loro il Cristo non ha portato che sofferenze. Se cominciate a mostrare all’uomo i benefici del Cristo, egli non vi comprende … E che, egli dice, sono questi i beni che è venuto a portare il Cristo: che un uomo debba perdere ciò che possiede, darlo ai poveri e restare povero egli stesso? Che farete dopo questa risposta? Bisogna allora dire: voi non comprendete i beni che dà il Cristo … Coloro che ci hanno condotti prigionieri, quando entrano nel cuore di certi uomini e ci interrogano con la bocca di coloro che li dominano, ci dicono: « Cantate i vostri cantici. » Dateci le ragioni della venuta del Cristo, e fateci conoscere qual sia l’altra vita. Io non domando che di credere; ditemi solo perché mi ordinate di credere? Io rispondo a colui che mi interroga e gli dico: O uomo! Perché non vuoi ciò che ti ordino di credere … tu sei pieno di cattive convinzioni; se io parlo dei beni della Gerusalemme celeste, tu non li comprendi; occorre dapprima svuotarti di ciò che ti riempie, per poterti riempire di ciò di cui sei vuoto … Cosa gli risponderemo ancora? Babilonia vi porta, vi chiude nel suo seno, Babilonia vi nutre; Babilonia parla con la vostra bocca; voi non sapete comprendere se non ciò che brilla nel tempo, voi non sapete meditare le cose eterne, voi non comprendete ciò che chiedete « … come canteremo i cantici del Signore in terra straniera? » In verità è così! Cominciate a volere annunziare la verità, anche quel poco che conoscete, e vedete come sia inevitabile che abbiate da sopportare simili beffe, che viglio strappare la verità e che sono pieni di falsità … Rispondete loro, a questi ignoranti, incapaci di comprendere ciò che vi domandano, e dite loro, con profondo sentimento di amore per il vostro santo cantico: « Come canteremo noi il cantico del Signore in terra straniera? » (S. Agost.) – Ecco qua lo spirito del mondo che, attraverso la bocca dei più ignoranti e dei più indegni prende piacere nel beffarsi della pietà, nell’insultare coloro che ne fanno professione, che chiede talvolta con sorriso sdegnato: dove sono queste gioie e queste consolazioni spirituali di cui voi riempite la vostra immaginazione, e porta la temerità fino a voler trattare nelle assemblee tutte profane, le questioni più alte e profonde della Religione.

II. — 5, 6.

 ff. 5, 6. – Come il segno dell’oblio era stato il pizzicare l’arpa e cantare i cantici del Signore sulla terra straniera, così questo popolo chiama su di essa tutte le maledizioni, scongiurando il suo Dio di disseccare la sua mano, e attaccare al palato la sua lingua che aveva disimparato i suoi canti, se mai, dimenticando la patria, toccasse un’arpa e facesse ascoltare i cantici di Sion in terra straniera. (Bellarm.). – … che la mia lingua resti attaccata al palato se non mi ricordi di te; vale a dire: che io diventi muto, se non mi ricordo di te. In effetti, a che serve parlare, a che serve cantare se non si canta il canto di Sion? È il cantico di Gerusalemme la nostra lingua. Il cantico dell’amore di questo mondo è una lingua straniera, una lingua barbara, che abbiamo appresa in cattività. Questo dunque sarà muto davanti a Dio se avrà obliato Gerusalemme; ed è poco il ricordarsene, perché i suoi stessi nemici se ne ricorderanno volendo rinchiuderli. Qual è – essi dicono – questa città? Che sono i Cristiani? Che valgono i Cristiani? Oh, se non ci fossero più Cristiani! La folla dei cattivi ha vinto questi tiranni, e tuttavia questi mormorano; essi si abbandonano al loro furore, vogliono far perire questa santa città che viaggia in mezzo ad essi, come il faraone voleva distruggere il popolo di Dio, mettendo a morte i figli maschi, preservando le femmine, affondando le virtù e nutrendo le voluttà. È dunque poco ricordarvi di Gerusalemme, esaminate come ve ne ricordate. Noi ci ricordiamo di certe cose con un sentimento di odio, e di altre con un sentimento di amore; ecco perché, dopo aver detto: « O Gerusalemme, se mai ti dimenticassi, che la mia mano destra sia dimentica di me; che la mia lingua resti attaccata al mio palato, se non mi sovvengo di te, », il Profeta ha immediatamente aggiunto: « Se non faccio di Gerusalemme l’oggetto della mia gioia più dolce. » La nostra gioia più dolce si trova, in effetti, là dove gioiremo di Dio, là ove regna l’unione fraterna e dove saremo in piena sicurezza nell’amicizia dei nostri fratelli e l’unione dei nostri concittadini; là nessun tentatore ci farà violenza, nessuno potrà indurci alla minima sensualità, niente ci causerà gioia che non sia il bene; là si estinguerà ogni necessità, là comincerà una sovrana felicità, » … se non farò di Gerusalemme « l’oggetto della mia gioia più dolce. » (S. Agost.) –  Il Profeta si vota qui ad un’altra pena se dovesse dimenticare Gerusalemme: « Che la mia lingua si attacchi al mio palato. » Egli sa quanto sia grave che la lingua resti muta per le lodi di Dio; egli sa qual virtù felici ed eterne si tengono davanti al trono di Dio,  e non cessano di proclamare le sue lodi, dicendo: « Santo, Santo, Santo è il Signore Dio degli eserciti » (Isai. VI, 3); egli sa che la Scrittura ha detto di coloro che, come i morti, sono muti quando si tratta di lodare Dio: « La loro bocca è un sepolcro aperto, » (Ps. V, 2), perché la loro lingua rimane silenziosa e morta alle lodi di Dio. Il salmista si sottomette a questo castigo del silenzio come punizione del suo oblio, se cessa di ricordarsi di Gerusalemme e se non si propone Gerusalemme come il principale soggetto della sua gioia. Ciascuno di noi ha nelle inclinazioni della sua volontà e nelle affezioni della sua anima, delle cause diverse di gioia. L’ubriacone mette la sua gioia nel vino, l’uomo sensuale nei piaceri della tavola, l’avaro nel denaro, l’ambizioso negli onori, il sedizioso nelle rivoluzioni, il voluttuoso nelle dissolutezze. Il Profeta si propone Gerusalemme come principale oggetto della sua gioia; si rallegra al pensiero che sarà ricevuto un giorno in questa celeste città ove questa vita mortale farà posto all’immortalità, ove sarà riunito ai cori degli Angeli, prenderà possesso del regno di Dio e diverrà conforme alla sua gloria. Egli non conosce altri piaceri, nessun’altra cosa piace alla sua anima, Gerusalemme solo è il principale oggetto della sua gioia. (S. Hilar.). – Il Profeta Isaia ci invita a non conoscere gioia più vera e grande della gioia che risulta dall’amore e dalla speranza di questa santa città non fatta da mano d’uomo, ove risiede la divina allegrezza e della quale è detta nel Vangelo: « Entrate nella gioia del Signore. » (Matth., XXV).- Rallegratevi con Gerusalemme, trasalite di allegrezza, voi tutti che l’amate; unite i vostri trasporti ai suoi, voi tutti che piangete con essa; voi sarete riempiti dalle sue consolazioni, voi sarete inondati dal torrente delle sue delizie, gioirete dello splendore della sua gloria. » (Isai. LXVI, 10, 11).

III. – 7-9

ff. 7-9. – « Ricordatevi, Signore dei figli di Edom, nel giorno di Gerusalemme. » Si tratta del giorno di Gerusalemme sofferente e schiava, o del giorno di Gerusalemme liberata, rientrata dall’esilio, associate all’eternità? « Ricordatevi Signore, dei figli di Edom; » non li dimenticate mai. Quali sono questi figli? « Coloro che dicono: distruggetela, distruggetela fin dalle fondamenta. » Ricordatevi dunque di questo giorno nel quale essi hanno volute distruggere Gerusalemme. In effetti, quali terribili persecuzioni la Chiesa ha sofferto! Con quale rabbia i figli di Edom, cioè gli uomini carnali, sottomessi al demonio ed ai suoi angeli, adoratori della pietra e del legno, schiavi degli adoratori della pietra e del legno, schiavi dei piaceri della carne, gridavano: distruggete i Cristiani; che non ne resti neppure uno solo! Distruggeteli fino alle fondamenta. Non è questo che essi dicevano? E mentre parlavano così, i persecutori erano riprovati ed i martiri coronati. « Ricordatevi dei figli di Edom, … distruggeteli, distruggeteli fin dalle fondamenta. » I figli di Edom dicono: distruggetela, distruggetela, ed il Signore dice loro: servitela. Quale parola prevarrà, se non quella di Dio che dice: il primogenito servirà il più giovane? (S. Agost.). – « Distrugge, distruggete sin dalle sue fondamenta. » Non è ancora il grido di Guerra e lo scopo che la rivoluzione persegue ai giorni nostri? Il trionfo che essa proclama è riservato al nostro secolo, la missione che essa reclama e di cui si glorifica con la bocca dei suoi corifei, non è l’annientamento del Cristianesimo pubblico, il ribaltamento dell’ortodossia sociale? Distruggere i resti ultimi dell’antico edificio dell’Europa Cristiana, ed affinché la demolizione sia definitiva, abbattere la chiave di volta intorno alla quale le ultime pecore ancora sussistenti potrebbero, presto o tardi, riavvicinarsi o ricongiungersi: ecco l’opera alla quale le mille voci dell’empietà convengono apertamente nella nostra generazione; ecco il lavoro della disorganizzazione alla quale – è manifesto – noi assistiamo. E poiché non c’era mai stato un edificio così vasto come l’edificio Cristiano, mai si sono viste rovine così gigantesche (Mgr PIE, Disc, et Instruc, t. V, 2.). – È unanime l’indignazione del Profeta e di un’anima convertita che, riguardando la sua abiezione e la sua miseria, torna su Babilonia, causa unica delle sue disgrazie, degli sguardi di dolore, di collera e di disprezzo. – « Maledetta figlia di Babilonia, » grida, infelice per la tua allegria, infelice per il tuo odio. Ciò che hai fatto, ti sarà reso: « Felice che prenderà i tuoi figli e li sbatterà sulla pietra. » Egli dichiara Babilonia infelice e dichiara felice colui che le renderà ciò che ci ha fatto. Cerchiamo dunque ciò che gli sarà reso e che ci viene detto: « Felice che prenderà i tuoi figli e li sbatterà sulla pietra! » Ecco ciò che gli sarà reso. Cosa ci ha fatto dunque questa Babilonia? Noi l’abbiamo già cantata in un altro salmo: « I discorsi degli empi hanno prevalso contro di noi. » (Ps. LXIV, 4). In effetti, alla nostra nascita, noi veniamo piombati, piccolo infanti, nella confusione di questo mondo, e fin dalla più piccola età, veniamo tuffa nelle vane opinioni e nei diversi errori. E questo bambino, nato per essere cittadino di Gerusalemme, e già veramente Cittadino di questa città nella predestinazione di Dio; ma aspettando, prigioniero in un tempo, cosa apprende ad amare, se non ciò che i suoi genitori mormorano alle sue orecchie? Essi insegnano e fanno apprendere loro l’avarizia, le rapine, le menzogne di ogni giorno, le diverse maniere di adorare gli idoli ed I demoni. Che può fare questo piccolo bimbo, quest’anima tenera e flessibile esaminando ciò che fanno le persone più adulte, se non conformarsi a ciò che vede fare? Babilonia ci ha dunque perseguitato fin dalla nostra infanzia; ma diventati più grandi, abbiamo ricevuto da Dio il dono di riconoscerlo, per non seguire gli errori dei nostri genitori. «Le nazioni, dice Geremia, verranno da tutte le estremità della terra e diranno: Veramente i nostri padre hanno adorato la menzogna e la vanità, da cui non hanno tratto alcun profitto. » (Ger. XVI, 19). Ecco ciò che dicono I giovani che, nella loro infanzia, hanno trovato la morte seguendo queste vanità; che rigettino essi queste vanità e che, richiamati in vita, progrediscano in Dio rendendo a Babilonia tutto ciò che ella ha reso. Cosa gli renderanno? Ciò che ella ci ha dato. Che i suoi figli siano a loro volta sbattuti; in più, i loro piccoli sbattuti che muoiano. Quali sono i piccoli figli di Babilonia? Le cattive passioni nel momento in cui esse nascono. Ci sono in effetti degli uomini che devono combattere passioni inveterate. Quando la concupiscenza è al suo nascere, prima che abbia preso forza contro di voi; quando la concupiscenza è ancora molto piccola, prima che prenda la forza di un’abitudine depravata; quando è ancora piccola, schiacciatela. Ma temete che essa non muoia, benché schiacciata? Schiacciatela « … sulla pietra. Ora questa pietra è il Cristo. » (I. Cor., X, 4). – Qualunque sia la felicità che possa arridervi in questo mondo, non vi mettete la vostra fiducia, e guardatevi dall’intrattenervi con compiacenza nei vostri piaceri. Il nemico è grande? Uccidetelo sulla pietra. È piccolo, schiacciatelo sulla pietra. Uccidete i grandi sulla pietra, schiacciate i piccoli sulla pietra. Che la pietra trionfi su tutti! Costruite anche sulla pietra, se non volete essere trascinati o dal fiume o dai venti, o dalle tempeste. Se volete essere armati contro le tentazioni del secolo, che il desiderio della Gerusalemme eterna cresca e si fortifichi nei vostri cuori. La cattività passerà, la felicità arriverà; il vostro nemico sarà condannato alla fine, e noi trionferemo con il nostro Re, per non morire mai più. (S. Agost.). – Questa è una pietra che porta un nome divino, questa pietra è il Cristo, ed è anche colui che il Cristo ha chiamato Egli stesso … Pietro. Questa pietra salva coloro che essa tocca, resuscita coloro che sfiora. O generazione contemporanea, o figlia sfortunata di questa Babilonia che è la rivoluzione moderna, felice colui che afferrerà i tuoi figli, li fermerà, li schiaccerà sulla pietra, che è Gesù Cristo, e che è l’insegnamento apostolico. (Mgr PIE, Discours, etc., t. VII, 560).

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TIGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “SUPREMA PETRI”

In questa lettera Enciclica dell’inizio del Pontificato di S. S. Pio IX,, c’è un esempio perfetto del vero ecumenismo Cattolico, quello cioè che accoglie tutti i fedeli e gli uomini di ogni Nazione, lingua e cultura nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica, l’Arca fuori dalla quale non c’è assolutamente alcuna possibilità di salvezza dell’anima, secondo la parola evangelica di Cristo. Il grande Pontefice voleva accogliere, come altri Sommi Pontefici già nel passato, così come pure in Concili Ecumenici (es. il Concilio di Firenze), i fedeli Cristiani d’Oriente per riportarli nell’unico ovile del gregge guidato da un solo Pastore, il Vicario di Cristo. Assistiamo qui ad un atto di amore paterno, al desiderio di un padre misericordioso di accogliere tanti figli e fratelli erranti come pecore allo sbando, prede facili di lupi e leoni ruggenti, come di ladri e di briganti, nell’unica arca di salvezza scaturita dal costato di Cristo aperto sulla croce. Anche in quell’occasione però la perfidia e l’empietà di orgogliosi e ribelli uomini ebbe la meglio come già nel passato. E così come lo scisma di Firenze fu punito pochi anni dopo con l’invasione dei musulmani nei Paesi d’Oriente che compirono un terrificante eccidio con la distruzioni di intere città e deportazioni in massa di prigionieri ridotti alla più dura schiavitù, così questo rifiuto altezzoso fu seguito, pochi decenni dopo, dall’instaurazione di una ferocissima dittatura comunista nei Paesi scismatici d’Oriente che procurò morte e distruzione, lacrime e sangue senza misura, eccidi e sterminio di interi popoli e nazioni. Così diverso è invece l’ecumenismo massonico oggi praticato nella falsa chiesa dell’uomo, la “sinagoga di satana” insediata in Vaticano e nella città un tempo santa a perdizione di un infinito numero di anime, ove si pratica un indifferentismo religioso ed un modernismo gnostico mutuato dalle logge più spietate e criminali, quelle adoranti il baphomet-lucifero, il “signore dell’universo” già posto sugli altari come abominio della desolazione già annunciato dal profeta Daniele e ribadito dal Cristo stesso. Ed allora fuggiamo verso i monti, cioè verso la dottrina pura cattolica, rifuggiamoci nelle grotte e negli anfratti della santità, lontani dalla corruzione dottrinale il cui apice è appunto l’indifferentismo religioso, l’ecumenismo satanico che equipara i culti di Baal, di satana, del cabalismo talmudico, dell’idolatria e della stregoneria diabolica, dell’adorazione luciferina, al culto del vero unico Dio trino e del suo unico Figlio-Dio Gesù Cristo nella sua “vera” Chiesa, una, santa, cattolica ed apostolica romana, a perdizione di gran parte dell’intera umanità.   

S. S. PIO IX

Suprema Petri

L’unità della chiesa

Pressante invito alte chiese separate d’Oriente perché tornino all’unità della Chiesa cattolica.

Posti per volontà del Signore, nonostante i pochi meriti, sulla cattedra eccelsa dell’apostolo Pietro e assunta la cura di tutte le chiese, abbiamo rivolto l’attenzione fin dall’inizio delnostro pontificato alle diverse nazioni cristiane dell’oriente e delle regioni limitrofe di qualunque rito che sembravano esigere da Noi un impegno particolare per più di un motivo di rilevanteimportanza. In oriente infatti si manifestò l’unigenito Figlio di Dio fattosi uomo per noi uomini e attraverso la sua vita,morte e risurrezione si degnò di portare a compimento l’opera della redenzione umana. In oriente fu diffuso inizialmente dallo stesso divino Redentore e subito dopo dai suoi discepoli l’Evangelodella luce e della pace; e risplendettero numerosissimele chiese degli apostoli che le avevano fondate, insigni per fama. Ma anche nel periodo successivo, e dopo più secoli, fiorirononelle nazioni orientali i vescovi, i martiri e altri uomini eccellentiper santità e dottrina, tra i quali sono celebrati conencomio univoco di tutto l’oriente Ignazio d’Antiochia, Policarpo di Smirne, Gregorio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, Atanasio di Alessandria, Basilio di Cerea,Giovanni Crisostomo, i due Cirillo, di Gerusalemme e di Alessandria, Gregorio Armeno, Efrem Siro, Giovanni Damasceno,nonché gli apostoli degli slavi Cirillo e Metodio; per tacere poi dì tutti gli altri pressoché innumerevoli, i quali pure affidarono il loro nome al ricordo perenne dei posteri, avendoanch’essi versato il loro sangue per Cristo o scritto cose sapienti ed attuato opere di esimia virtù. Tornano anche a merito dell’oriente i frequentissimi congressi dei vescovi, e soprattutto ipiù antichi concili ecumenici celebrati proprio in quella regione e nei quali sotto la guida del vescovo di Roma fu tutelata lafede cattolica contro quanti in quel tempo cercavano di introdurvi mutamenti, e fu fortificata con solenne giudizio. Infine anche in età successiva, benché una parte non piccola di cristiani d’orientesi fosse staccata dalla comunione con questa santa Sede e perfino dall’unione con la Chiesa Cattolica, e proprio inoriente abbiano preso il potere genti lontane dalla religione cristiana, tuttavia non vi mancò mai un nutrito numero di uomini i quali, fidando nell’aiuto della grazia divina, confermarono la loro saldezza nella professione della vera unica fede cattolica fra molteplici calamità e lunghi pericoli propri soprattutto di quei tempi. A questo punto però non possiamo astenerci dal ricordare con un elogio particolare i loro patriarchi, ì primati, gli arcivescovi e i vescovi, che custodirono con diligenza ilproprio gregge nella professione della verità cattolica; e certo fu per le loro cure, unite alla benedizione di Dio, che. Mitigatasi in seguito la crudeltà dei tempi, si trovò ivi un così gran nume di persone rimaste nell’unità cattolica. – Pertanto Ci rivolgiamo innanzitutto a voi, venerabili fratelli, diletti figli, vescovi cattolici, e chierici e laici di qualsiasi ordine, che siete rimasti saldi nella fedele comunione con questa Santa Sede, o che successivamente, riconosciuto l’errore, vi siete rivolti ad essa con virtù degna di non minor elogio. Benché infatti abbiamo già scritto a molti di voi. dai quali avevamo avuto lettere di congratulazione per la nostra elezione al Sommo Pontificato, e poi dal 9 novembre 1846 ci siamo rivolti per per mezzo di una lettera enciclica a tutti i vescovi dell’intero mondo cattolico, tuttavia è nostra intenzione di farvi consapevoli con questo altro specifico discorso dell’ardentissimo amore con cui Ci prendiamo cura di voi e della vostra situazione. Veramente l’opportunità di scrivere di questi argomenti ci è stata fornita dalla missione del venerabile fratello Innocenzo arcivescovo di Side, il quale è stato inviato da Noi a Costantinopoli presso la Sublime Porta [= nobile corte] ottomana, per incontrarsi in nostro nome col potentissimo Imperatore delle popolazioni turche e per ringraziarlo vivamente per Noi, da oratore qual è, per aver inviato lui per primo ambasciatori a salutarci. Ma abbiamo altresì incaricato scrupolosamente il venerabile fratello di raccomandare con le Nostre parole, con molta cura, allo stesso Imperatore voi e tutto ciò che riguarda la vostra causa e quella della Chiesa Cattolica all’interno del vastissimo Impero ottomano. E non dubitiamo che l’Imperatore stesso, già di per sé ben disposto nei vostri confronti, verrà incontro anche con maggior benevolenza ai vostri bisogni e non permetterà che nessuno dei suoi sudditi subisca dei torti a causa della Religione Cattolica. Poi il già ricordato arcivescovo di Side manifesterà assai eloquentemente l’impegno del nostro amore per voi a quelli tra i sacri presuli e tra i maggiorenti delle vostre nazioni che si troveranno presenti a Costantinopoli; e successivamente, quando vorrà ritornare, si dirigerà, così come lo permetteranno le circostanze del momento, verso alcune altre località dell’Oriente per visitare in nostro nome, con le modalità del mandato avuto da Noi, le chiese dei cattolici di qualsiasi rito che ivi si trovano e per rivolgersi con le nostre parole in modo affettuosissimo – e per confortarli – ai nostri venerandi fratelli e diletti figli che incontrerà in quei luoghi. Egli inoltre consegnerà loro personalmente e farà trasmettere agli altri di voi questa lettera, testimone, come abbiamo detto, del nostro sollecito amore per le vostre nazioni cattoliche; con essa rendiamo noto a voi tutti, e lo garantiamo, che nulla ci sarà più caro che acquisire benemerenza ogni giorno di più da voi stessi e dalla situazione della Religione Cattolica presso di voi. Perciò, poiché tra le altre cose ci è stato riferito che nella normativa ecclesiastica delle vostre nazioni alcuni punti restano ancora incerti per la situazione sfavorevole del passato o sono stati fissati in modo non organico, ben volentieri saremo presenti con la nostra Autorità apostolica affinché tutte le cose vengano ordinatamente composte e fissate secondo la norma dei sacri canoni e osservando le disposizioni dei santi padri. Salvaguarderemo però integralmente le vostre proprie liturgie cattoliche; le teniamo in massimo conto, benché in alcunipunti si discostino dalla liturgia delle chiese latine. Infatti le stessevostre liturgie furono tenute in altrettanta considera dai nostri predecessori; furono invero apprezzate per la veneranda antichità della loro origine, per essere state scritte nelle lingue degli Apostoli e dei Padri, e inoltre perché i loro riti si avvalgono di celebrazioni davvero splendide e magnifiche, adatte a rinvigorire la devota pietà dei fedeli per i divini misteri.  – Aquesto criterio di comportamento della Sede Apostolica nei confronti delle liturgie cattoliche degli orientali fanno riferimento parecchi decreti e costituzioni dei Pontefici Romani, promulgati per la loro conservazione; fra questi documenti sarà sufficiente lodare le lettere apostoliche di Benedetto XIV, nostropredecessore, in particolare quella scritta il 26 luglio 1755, il cui inizio è Allatæ sunt. Tende al medesimo scopo il fattoche ai sacerdoti orientali che vengono in occidente non soloè data libertà di celebrare negli edifici consacrati dei latini,ma sono disponibili chiese edificate proprio per l’utilizzo esclusivo da parte loro. Oltre a ciò non sono mancati monasteri di rito orientale, né altre dimore destinate ad accogliere gli orientali, eneppure collegi fondati allo scopo di educare i figli degli orientali, sia da soli sia con altri giovinetti, alle Scritture e alle scienze e altresì alla dottrina propria del clero, e di renderli idonei in seguito ad affrontare, ciascuno nella propria nazione,i doveri ecclesiastici. E benché alcune di queste istituzioni siano andate perdute per calamità abbastanza recenti, altre restano ancora e sono floride; e in esse, venerabili fratelli,diletti figli, avete una prova davvero evidente del particolareaffetto con cui la Sede Apostolica segue voi e le vostre necessità. – D’altra parte sapete già, venerabili fratelli, diletti figli, che Noi, nella cura delle vostre attività religiose ci avvaliamo dell’operadi promozione della nostra Congregazione di cui fanno parte parecchi cardinali della santa chiesa di Roma, detta «di Propaganda fide». Ma lo sforzo per ben meritare di voi è comune anche a moltissimi altri, sia romani sia stranieri, che dimorano in questa alma città. Tra questi, alcuni presuli di rito latino e anche dei vostri riti orientali, e altri uomini pii, poco tempo fa hanno progettato di costituire una pia società per sostenere con un impegno comune – sotto l’autorità della già ricordata nostra Congregazione – il culto della Religione Cattolica presso di voi, e un suo più fecondo sviluppo, con pie preghiere quotidiane, raccogliendo offerte e con ogni loro risorsa e attività. Per parte nostra, quando quel pio progetto ci fu riferito, lo elogiammo e approvammo e consigliammo loro di por mano all’opera senza indugio. – Ed ora indirizziamo le nostre parole in modo particolare a Voi, venerabili fratelli presuli cattolici degli orientali, di qualsiasi grado, affinché, lodando di nuovo il vostro zelo e quello del vostro clero nel compiere i doveri sacri, accresciamo ancora con questa esortazione  il vostro coraggioso slancio verso la virtù. Pertanto vi supplichiamo nel Signore Dio nostro, affinché confidando nel suo celeste aiuto attendiate con sempre maggior sollecitudine alla custodia del diletto gregge e non desistiate dal fargli luce con la parola e l’esempio, affinché si muova degnamente in modo gradito a Dio in tutto, fruttificando in ogni opera buona. Si impegnino attivamente nella medesima cura i Sacerdoti, che sono sotto di voi, in primo luogo curatori di anime, accogliendo l’invito ad amare il decoro della casa di Dio, a rinvigorire la pietà del popolo, ad amministrare con santità le cose sante e, senza trascurare gli altri aspetti del loro ministero, ad avere particolare diligenza nell’indirizzare i fanciulli ai rudimenti della dottrina cristiana e nel nutrire il restante popolo dei fedeli con eloquio semplice, adatto alla sua capacità di intendere. Dai Sacerdoti e da voi stessi deve essere profuso ogni sforzo affinché tutti i fedeli siano solleciti nel conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace, rendendo grazie a Dio padre dei lumi e delle misericordie, perché in momenti così pericolosi sono rimasti saldi, in virtù della sua grazia, nella comunione cattolica dell’unica Chiesa di Cristo, o sono ritornati in seguito ad essa, mentre altri del loro popolo vagano ancora fuori dall’unico autentico ovile di Cristo, dal quale già da tempo i loro padri erano usciti miseramente. – Non possiamo ora non indirizzare parole di carità e di pace anche a quegli orientali che venerano Cristo, ma non sono nella comunione con questa sede di Pietro. L’amore di Cristo infatti ci sprona a non lesinare sforzi nel seguire, conformemente aisuoi moniti e al suo esempio, le pecore disperse nei luoghi più impervi e aspri e a soccorrere la loro debolezza, affinché un giorno finalmente, ritornino nei recinti del gregge del Signore.

Ascoltate perciò la nostra parola, voi tutti che nei territori d’Oriente e in quelli limitrofi vi gloriate, sì, del nome di cristianima non avete comunione con la santa chiesa di Roma; e soprattutto voi. che presso di loro siete addetti ai sacri ministeri, o che, insigniti di un grado ecclesiastico anche più elevato, esercitate la vostra autorità sugli altri. Riflettete e richiamatealla memoria l’antica condizione delle vostre chiese,quando di comune accordo si tenevano unite tra di loro e con le altre chiese del mondo cattolico nel vincolo dell’unità: pensatequindi se siano state per voi fonte di qualche vantaggio le divisioni che successivamente sono subentrate e a causa delle quali non siete stati in grado di conservare non solo con le chiese occidentali, ma neppure tra voi stessi l’antica unità sia della dottrina sia del sacro governo. Ricordate il simbolo della fede, nel quale insieme con noi confessate di credere «la Chiesa una santa cattolica e apostolica»; e valutate quindi se davvero possa ritrovarsi questa unità cattolica della Chiesa santa e apostolica nella divisione così profonda delle vostre chiese, mentre proprio voi vi rifiutate di riconoscere l’unità nella comunione della Chiesa romana, sotto la quale altre numerosissime chiese in tutto il mondo sono cresciute sempre insieme in un sol corpo, e ancora crescono insieme. E per comprendere più a fondo la ragione di quella unità, per la quale deve risplendere la Chiesa Cattolica, richiamate alla memoria quell’orazione scritta nel Vangelo di Giovanni, nella quale Cristo Figlio unigenito di Dio così pregò per i suoi discepoli: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi»; e subito dopo aggiunse: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come Padre, sei in me e Io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv XVII, 20 ss). In verità lo stesso Artefice della salvezza degli uomini, il Cristo Signore, pose il fondamento della sua Chiesa – l’unica contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno – in Pietro primo degli Apostoli; a lui consegnò le chiavi del regno dei cieli (Mt XVI, 18-19); per lui pregò, perché non gli venisse mai meno la fede, dandogli anche mandato di confermare in essa i fratelli (Lc. XXII, 31-32); a lui infine affidò i suoi agnelli e le sue pecore (Gv XXI, 15 ss), e anzi tutta la Chiesa, che è formata dai veri agnelli e dalle vere pecore di Cristo. Queste prerogative sono state conferite anche ai Vescovi Romani successori di Pietro; infatti la Chiesa, che è destinata a durare fino alla fine dei secoli, non può essere privata, dopo la morte di Pietro, del fondamento sopra il quale fu edificata da Cristo. Perciò sant’Ireneo, discepolo di Policarpo – che aveva ascoltato personalmente l’apostolo Giovanni – e poi Vescovo di Lione, considerato dagli orientali non meno che dagli occidentali uno fra i più illustri lumi dell’antichità cristiana, volendo riportare contro gli eretici del suo tempo la dottrina tramandata dagli Apostoli, ritenne inutile elencare le successioni di tutte le chiese di origine apostolica, affermando che per lui era sufficiente allegare contro quelli la dottrina della Chiesa romana, perché «è necessario che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, si volga, in forza della sua origine superiore, a questa Chiesa, nella quale è stata conservata sempre dai fedeli di ogni luogo la dottrina tramandata dagli apostoli».Sappiamo che voi tutti desiderate rimanere fedeli alla dottrina custodita dai vostri avi. Seguite dunque gli antichi Vescovi e gli antichi fedeli di Cristo di tutte le regioni orientali, a proposito dei quali moltissimi documenti dimostrano che essi concordarono con gli occidentali nel riconoscere l’autorità dei Pontefici Romani. Tra i più significativi esempi di tale comportamento provenienti dall’Oriente stesso (oltre al passo di Ireneo che ho appena lodato) piace qui ricordare ciò che fu fatto nel IV secolo della Chiesa nella causa di Atanasio vescovo di Alessandria, illustrissimo per santità non meno che per dottrina e zelo pastorale, il quale, condannato senza alcun fondamento da certi presuli orientali nel concilio che si tenne prevalentemente a Tiro, e cacciato dalla sua chiesa, venne a Roma; qui giunsero anche altri Vescovi provenienti dall’Oriente, allontanati pure essi ingiustamente dalle loro sedi. «Allora il Vescovo Romano» (che era il nostro predecessore Giulio), «dopo aver conosciuto le cause dei singoli e averli trovati tutti credenti nella dottrina della fede nicena, li accolse nella comunione. E poiché per la dignità della sede spettava solo a lui la cura di tutti, restituì a ciascuno la sua chiesa. Scrisse anche ai Vescovi orientali, rimproverandoli perché nelle cause sopra ricordate non avevano giudicato rettamente e turbavano lo stato delle chiese». Anche all’inizio del V secolo Giovanni Crisostomo Vescovo di Costantinopoli, di altrettanta chiarissima fama, che nel sinodo di Calcedonia [tenuto nell’agosto del 403 da alcuni vescovi] in località La Quercia era stato condannato con sommo oltraggio, fece ricorso lui pure per mezzo di lettere e di messaggeri a questa Sede Apostolica e fu dichiarato innocente dal nostro predecessore sant’Innocenzo I.Della venerazione che i vostri avi ebbero per l’autorità dei Pontefici Romani resta un esempio insigne nel sinodo di Calcedonia del 451. Infatti i Vescovi, che erano convenuti lì in numero di circa seicento, e provenivano quasi tutti (con poche eccezioni) dall’Oriente, dopo che fu letta ad alta voce nella seconda sessione del Concilio la lettera del Romano Pontefice s. Leone Magno, esclamarono: «Così ha parlato Pietro per bocca di Leone». Subito dopo, portato a termine quel sinodo sotto la guida dei legati pontifici, gli stessi Padri conciliari nella relazione mandata a Leone sui lavori svolti affermarono che lui tramite i legati già ricordati aveva presieduto l’assemblea dei Vescovi «così come il capo presiede le membra». D’altronde non solo dagli atti del concilio di Calcedonia, ma anche dalla storia degli altri antichi sinodi orientali sarebbe possibile produrre altri numerosi documenti, dai quali risulta che i Pontefici Romani ebbero il primo posto principalmente nei sinodi ecumenici, e che la loro autorità era invocata sia prima della celebrazione dei Concili, sia inoltre al momento della conclusione. E anche al di fuori dell’argomento dei Concili, potremmo addurre moltissimi altri scritti e fatti di Padri e di antichi orientali dai quali pure si evince con chiarezza che la suprema autorità dei Romani Pontefici ebbe vigore sempre presso i vostri avi nell’intero Oriente. Ma poiché sarebbe troppo lungo considerare qui tutti quegli esempi, e quello che abbiamo già riferito è sufficiente per dimostrare la verità dell’assunto, ricorderemo soltanto, a questo punto, a guisa di Coronide, come si comportarono in età antichissima, proprio al tempo stesso degli Apostoli, i fedeli di Corinto nelle discordie dalle quali la loro chiesa era stata turbata in modo molto grave. I corinzi appunto con lettere portate da Fortunato, venuto qui a questo scopo, presentarono quelle loro discordie a s. Clemente, il quale pochi anni dopo la morte di Pietro era stato fatto Pontefice della Chiesa di Roma. Allora Clemente, ponderata con attenzione la cosa, rispose per mezzo dello stesso Fortunato e dei suoi addetti e messaggeri Claudio Efebo e Valerio Vitone: da loro fu portata a Corinto quella celebratissima epistola del santo pontefice e della Chiesa Romana, che fu tenuta in tanta considerazione sia presso gli stessi corinzi sia presso gli altri orientali da essere letta pubblicamente in parecchie chiese anche in epoca successiva. Conformemente a questi esempi, vi esortiamo e vi supplichiamo a ritornare senza ulteriore indugio nella comunione di questa santa Sede di Pietro, nella quale è il fondamento della vera Chiesa di Cristo, come dimostrano sia la tradizione dei vostri avi e degli altri antichi Padri, sia le parole di Cristo Signore riportate nei santi Vangeli, che abbiamo ricordato prima. E non potrà mai accadere che siano nella comunione della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica quelli che abbiano voluto restare lontani dalla solidità della pietra, sopra la quale la Chiesa stessa fu edificata per volere di Dio. In più, non c’è davvero nessuna ragione per la quale possiate sottrarvi a questo ritorno alla vera Chiesa e alla comunione con questa Santa Sede. Sapete infatti che nei doveri inerenti alla professione della fede in Dio non c’è niente di così gravoso che non debba essere sopportato per la gloria di Cristo e per il premio della vita eterna. In verità, per quanto ci riguarda, attestiamo e garantiamo che nulla Ci sta più a cuore che, lungi dall’affliggervi con qualche imposizione che possa sembrare troppo dura, accogliervi invece, secondo l’uso costante di questa Santa Sede, con molto affetto e con benevolenza davvero paterna. Pertanto non vi imponiamo altri oneri fuorché questi necessari: che dopo essere ritornati all’unità, consentiate con noi nella professione della vera fede custodita e insegnata dalla Chiesa Cattolica e conserviate la comunione con la Chiesa stessa e con questa suprema Sede di Pietro. Conseguentemente, per ciò che attiene ai vostri sacri riti, sarà da respingere solo quanto vi si sia insinuato nei tempi della separazione, in contrasto con la stessa fede e unità cattolica: eccetto questo, conserverete perfettamente integre le vostre liturgie orientali; abbiamo già espresso nella prima parte di questa lettera l’apprezzamento di cui esse godettero presso i nostri predecessori e la grandissima stima che Noi ugualmente nutriamo per la loro venerabile antichità e per le cerimonie adatte ad alimentare la pietà. Inoltre siamo risoluti a tenere nei confronti dei sacri ministri, sacerdoti e presuli, che da queste nazioni tornino all’unità cattolica, lo stesso comportamento dei Nostri predecessori, sia quelli più vicini nel tempo, sia quelli vissuti in età più lontane: a mantenere cioè a quelli, inalterati, gradi e cariche e quindi ad avvalerci della loro opera non meno di quella del resto del clero cattolico orientale per conservare e diffondere il culto della Religione Cattolica fra i loro connazionali. Infine accoglieremo sia loro sia i laici che torneranno nella nostra comunione con lo stesso affetto riservato agli altri Cattolici d’oriente; anzi Ci sarà caro adoperarci in ogni modo per renderci benemeriti ogni giorno di più degli uni così come degli altri. Voglia Dio clementissimo degnarsi di dare a questo Nostro discorso la voce della virtù; benedire lo zelo dei Nostri fratelli e figli, che insieme con Noi si danno pena della salvezza delle vostre anime; allietare la Nostra umiltà col conforto di vedere ripristinata l’unità cattolica fra i Cristiani d’Oriente e di avere nell’unità stessa il sostegno per diffondere sempre di più la vera fede di Cristo tra i popoli che gli sono ancora lontani. Noi certamente non desistiamo dall’implorare ciò in ogni Nostra preghiera e supplica da Dio, Padre dei lumi e delle misericordie, per mezzo del suo Unigenito, il nostro Redentore; e di invocare al medesimo scopo il patrocinio della beatissima Vergine Madre di Dio, e dei santi Apostoli, Martiri, Padri dai quali con la predicazione, il sangue, le virtù e gli scritti fu diffusa ai primordi nell’Oriente, e poi conservata, la vera religione di Cristo. Mentre attendiamo con vivo desiderio di congratularci per il vostro tanto atteso ritorno nel seno della Chiesa Cattolica e di benedirvi come Nostri fratelli e figli, salutiamo frattanto tutti i Cattolici, Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi, chierici, laici che si trovano ora in Oriente e nei luoghi ad esso vicini e impartiamo di vivo cuore a tutti loro l’apostolica benedizione.

Roma, presso Santa Maria Maggiore, 6 gennaio 1848, anno II del Nostro pontificato.

PIUS IX

DOMENICA FRA L’ASCENSIONE (2020)

DOMENICA FRA L’ASCENSIONE (2020)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

Noi celebreremo l’Ascensione del Signore rettamente, fedelmente, devotamente, santamente, piamente, se, come dice S. Agostino, ascenderemo con Lui e terremo in alto i nostri cuori. I nostri pensieri siano lassù dove Egli è, e quaggiù avremo il riposo. Ascendiamo ora con Cristo col cuore e, quando il giorno promesso sarà venuto lo seguiremo anche col corpo. Rammentiamoci però che né l’orgoglio, né l’avarizia, né la lussuria salgono con Cristo; nessun nostro vizio ascenderà con il nostro medico, e perciò se vogliamo andare dietro il medico delle anime nostre, dobbiamo deporre il fardello dei nostri vizi e dei nostri peccati (Mattutino). Questa Domenica ci prepara alla Pentecoste. Prima di salire al cielo Gesù, nell’ultima Cena ci ha promesso di non lasciarci orfani, ma di mandarci il Suo Spirito Consolatore (Vang., All.) affinché in ogni cosa glorifichiamo Dio per Gesù Cristo (Ep.). — Come gli Apostoli riuniti nel Cenacolo, anche noi dobbiamo prepararci, con la preghiera e la carità (Ep.) al santo giorno della Pentecoste, nel quale Gesù, che è il nostro avvocato presso il Padre, ci otterrà da Lui lo Spirito Santo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 7, 8, 9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja.

[Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore, e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Ps XXVI: 1 Dóminus illuminátio mea et salus mea: quem timébo?

[Il Signore è mia luce e la mia salvezza: di chi avrò timore?].

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja.

[Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore,e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Oratio.

Orémus. – Omnípotens sempitérne Deus: fac nos tibi semper et devótam gérere voluntátem; et majestáti tuæ sincéro corde servíre. [Dio onnipotente ed eterno: fa che la nostra volontà sia sempre devota: e che serviamo la tua Maestà con cuore sincero].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet IV: 7-11

“Caríssimi: Estóte prudéntes et vigiláte in oratiónibus. Ante ómnia autem mútuam in vobismetípsis caritátem contínuam habéntes: quia cáritas óperit multitúdinem peccatórum. Hospitáles ínvicem sine murmuratióne: unusquísque, sicut accépit grátiam, in altérutrum illam administrántes, sicut boni dispensatóres multifórmis grátiæ Dei. Si quis lóquitur, quasi sermónes Dei: si quis minístrat, tamquam ex virtúte, quam adminístrat Deus: ut in ómnibus honorificétur Deus per Jesum Christum, Dóminum nostrum.”

[Carissimi: Siate prudenti e perseverate nelle preghiere. Innanzi tutto, poi, abbiate fra di voi una mutua e continua carità: poiché la carità copre una moltitudine di peccati. Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri senza mormorare: ognuno metta a servizio altrui il dono che ha ricevuto, come si conviene a buoni dispensatori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come fossero parole di Dio: chi esercita un ministero, lo faccia come per virtù comunicata da Dio: affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo nostro Signore.]

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

L’Apostolato

Il brano è tolto dalla I lettera di S. Pietro. Passerà il mondo, passerà la vita presente. Presto per noi verrà la fine di tutte le cose e il giorno del giudizio. È necessario che i Cristiani vi si preparino con la prudenza, la vigilanza, la preghiera e, soprattutto, con la carità scambievole. Questa si dimostrerà con l’ospitalità cordiale; — così necessaria in oriente ai tempi di S. Pietro — con il buon uso dei doni spirituali, sia in parole, sia in opere. I Cristiani devono considerare questi doni come ricevuti da Dio per usarne a vantaggio degli altri, e non devono proporsi altro fine che l’onore e la gloria del Signore. Le esortazione di S. Pietro ci suggeriscono di parlare dell’Apostolato.

L’Apostolato:

1. È vario,

2. È doveroso per tutti,

3. È facile per chi cerca la gloria di Dio.

1.

Da buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno metta a servizio degli altri il dono ricevuto. – I doni e i favori che Dio concede ai Cristiani, e peri quali essi possono rendersi utili al prossimo sono vari. Se sono varie le attitudini e i talenti dati da Dio a ciascuno, è chiaro che vario è pure il campo dell’apostolato che ciascuno deve esplicare. Non è necessario che tutti si trovino nelle medesime condizioni e nelle medesime circostanze. Secondo le condizioni di ciascuno, e sempre usando quella discrezione e quella prudenza che sono suggerite dalle varie circostanze, gli uni saranno apostoli nella famiglia, gli altri nella scuola, nei campi, nelle officine, nelle botteghe, nei salotti, negli uffici, nei ritrovi, nei viaggi, ecc.Non è neppure necessario che l’apostolato prenda delle forme appariscenti. Chi ha la dovuta attitudine e preparazione faccia dell’apostolato, osservando le dovute norme, con istruzioni, con conferenze, con manifestazioni grandiose. Chi ha danari faccia dell’apostolato aiutando istituzioni benefiche, istituzioni che curano la formazione cristiana della fanciullezza; sostenga le opere di culto; aiuti la buona stampa, che tanta diffidenza e noncuranza trova anche da parte dei Cattolici, e che pure è tanto necessaria per contrastare alle conseguenze della stampa atea e immorale.Ma si può portare il sassolino all’edificio dell’apostolato, anche con mezzi, all’apparenza, più modesti. Un’affermazione fatta a proposito, un ammonimento dato a tempo opportuno, una verità fatta sentire a chi ne ha bisogno; un rimprovero fatto con carità, un consiglio a uno che non sa decidersi, possono ben spesso ottenere l’effetto di un lungo e dotto discorso. Chi non può sostenere le opere buone con mezzi finanziari, può aiutare i promotori e gli apostoli di queste opere, con parole di approvazione e di incoraggiamento, che tante volte son più necessarie del danaro. C’è, poi, una forma d’apostolato che può dirsi la più necessaria, ed è possibile a tutti indistintamente, l’apostolato della preghiera. Senza la grazia di Dio tutte le nostre opere non approderanno a nulla, come non approdò a nulla, senza la presenza di Gesù, la pescagione fatta dagli Apostoli per un’intera notte. Senza l’aiuto di Dio, alla fine di tutte le nostre fatiche dovremmo confessare, come gli Apostoli: «Abbiam affaticato tutta la notte, e non abbiamo preso niente » (Luc. V, 5). E l’aiuto di Dio si ottiene con la preghiera. A essa tutto è stato promesso:« Tutte le cose che domanderete nella preghiera, abbiate fede di ottenerle, e le otterrete » (Marc. 11, 24), disse Gesù. E anche voi, o vecchi, che non avete più il vigore necessario per le opere materiali, potete essere apostoli con i lumi della vostra esperienza, con l’offerta a Dio delle noie della vita. Voi, infermi, che state inchiodati sul letto, potete essere apostoli, unendo i vostri dolori a quelli di Gesù Cristo in offerta per la salvezza delle anime.

2.

S. Pietro vuole che ciascuno metta a profitto degli altri il dono ricevuto. Se i doni della grazia sono vari, e c’è chi ha ricevuto uno, e chi ha ricevuto cinque, nessuno ne è senza. Perciò sbagliano quei timidi, e quegli amanti del dolce far nulla, che vorrebbero l’apostolato come opera esclusiva dei Sacerdoti e dei religiosi. In guerra ci sono i capi che guidano, e che hanno maggior responsabilità degli altri. Ma tutti, dal comandante in capo all’ultimo soldato, combattono per lo scopo comune, che è la vittoria. Tutti i Cristiani sono soldati che devono combattere per il trionfo del regno di Gesù Cristo. Chi ha una parte principale, chi una parte secondaria, ma l’azione dev’essere comune a tutti. Clero e laicato, uomini e donne, adulti e giovani, padroni e dipendenti, professionisti e operai devono formare una esercito unico, che riconduca Gesù Cristo nella mente e nel cuore della nostra società. Qui la parola, là la penna. Ora il prestigio del proprio nome e della propria condizione; ora il contributo materiale. Quando l’opera privata, e quando l’opera collegata delle associazioni. Che l’Apostolato debba interessare tutti i Cristiani di qualsiasi condizione è cosa chiarissima per se stessa. È possibile che un Cristiano soffra indifferentemente che l’onore di Dio venga offeso, che il nome del Signore sia disconosciuto, magari bestemmiato, che la sua legge sia calpestata?« I miei occhi — dice il salmista, rivolto al Signore — spargono rivi di lagrime, perché non si osserva la tua legge » (Salm. CXVIII, 136).Non piange sulle sventure toccategli, sulle umiliazioni subite, piange perché i nemici non osservano la legge del Signore. Non si può rimanere indifferenti a vedere la rovina delle anime per le quali Gesù Cristo ha versato il suo sangue. Ci commoviamo alla notizia di un terremoto, di un’alluvione, di un incendio, che hanno seppellito e distrutto ricchezze e preziose opere d’arte; tanto più dobbiam commuoverci alla rovina delle anime create da Dio a sua immagine, e rese preziosissime, perché riscattate col prezzo del suo sangue. Le anime fredde provocano il disgusto di Dio. Ma « nulla è più freddo — dice il Crisostomo — d’un Cristiano che non si cura della salvezza delle anime» (In Act. Ap. Hom. 20,  4). Gesù Cristo ci ha detto di chiedere al Padre l’adempimento della sua volontà. È un’invocazione e, nello stesso tempo, un impegno che ci assumiamo di cooperare al trionfo di questa volontà. Ci impegniamo presso Dio a operare per le anime dei nostri fratelli poiché: « Volontà di Lui sopra ogni altra è la salvezza di coloro che ha Adottato » (Tertulliano – De orat. 4).

3.

Anche quelli che sono persuasi di dover essere apostoli, secondo la propria condizione, non trovano mai il momento di cominciare sul serio il loro apostolato. Ora la preoccupazione di non urtare i sentimenti degli altri, ora lo spirito d’inerzia impediscono di mettersi a lavorare davvero e alacremente per la gloria di Dio. Costoro pensano poco alla santità del fine dell’apostolato, quale ci viene descritto da S. Pietro: Se uno esercita un ministero, lo eserciti come usando una forza che vieti da Dio, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo dì Gesù Cristo Signor nostro. Il Cristiano non deve servire il prossimo per far risaltare il proprio io, per far pompa dei doni che Dio gli ha dato. Egli deve essere apostolo per un fine ben diverso: perché sia glorificato Dio. È un fine che, per chi ama Dio, ha una forza che tutto vince. Quanto più è grande l’amore che si porta a Dio, tanto più ci si sente spinti a operare per il suo onore e per la sua gloria. Dove manca l’amor di Dio si spiegano troppo bene le incertezze, i « se », i « ma », i « poi »,e tutte le tergiversazioni, suggerite dalla paura della fatica e del sacrificio. Amiamo il Signore e la sua gloria e ci sembrerà facile ogni cosa difficile; stimeremo breve tutto ciò che è lungo» (S. Gerolamo. Epist. 22, 40 ad Eust.). Amore non sente peso né fatica. Chi fa le cose per amore non dice mai: adesso basta; ho fatto anche troppo. Facciano gli altri la loro parte, che io ho fatto la mia. – Tra coloro che negli ultimi anni si dedicarono con zelo instancabile alle opere dell’apostolato per trarre anime a Dio, non è ultimo il Servo di Dio, Don Luigi Guanella, Trattato da pazzo, da visionario, sul suo cammino non incontrò che amarezze e avversità. Ma le avversità degli uomini e dei tempi non fiaccarono la tempra di questo apostolo invitto. Un giorno gli si rivolse una domanda, che le circostanze giustificavano: « E se tutto crollasse? E se contro di voi si scatenassero le persecuzioni più violente, e se i vostri preti e le vostre suore vi abbandonassero, che cosa fareste? ». A questa domanda inquietante Don Luigi Guanella rispose con calmo sorriso: Tornerei da capo» (Mons. C. Salotti: Prefaz. al libro – Pietro Alfieri Tognini, Don Luigi Guanella. – Roma 1927). Così son disposti a fare gli uomini, che nel compiere opere di apostolato cercano la gloria di Dio. Cacciati da una porta ritornano per un altra. Fermati da un ostacolo, trovano presto il modo di riprendere il cammino con la stesso alacrità di prima; come la corrente che, urtata e divisa dallo scoglio, tosto lo supera, e continua la sua rapida corsa. Distrutto il frutto delle loro fatiche non posano sfiduciati; ma ritornano al lavoro con la stessa fermezza e con la stessa speranza che sostenevano i primi tentativi. E se dopo anni e anni di lavoro non vedono alcun frutto, se non c’è speranza d’una adeguata corrispondenza? Non sostano ancora, perché sanno di far piacere a Dio. « Negli amici infatti non si richiede l’effetto, ma la volontà » (S. Girol. Epist. 68 ad Castrut.).

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XLVI: 9

V. Regnávit Dóminus super omnes gentes: Deus sedet super sedem sanctam suam. Allelúja.

[Il Signore regna sopra tutte le nazioni: Iddio siede sul suo trono santo. Alleluja.]

Joannes XIV: 18 V. Non vos relínquam órphanos: vado, et vénio ad vos, et gaudébit cor vestrum. Allelúja.

[Non vi lascerò orfani: vado, e ritorno a voi, e il vostro cuore si rallegrerà. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XV: 26-27; XVI: 1-4

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum vénerit Paráclitus, quem ego mittam vobis a Patre, Spíritum veritátis, qui a Patre procédit, ille testimónium perhibébit de me: et vos testimónium perhibébitis, quia ab inítio mecum estis. Hæc locútus sum vobis, ut non scandalizémini. Absque synagógis fácient vos: sed venit hora, ut omnis, qui intérficit vos, arbitrétur obséquium se præstáre Deo. Et hæc fácient vobis, quia non novérunt Patrem neque me. Sed hæc locútus sum vobis: ut, cum vénerit hora eórum, reminiscámini, quia ego dixi vobis”.

[In quel tempo: Disse Gesù ai suoi discepoli: Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio. Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi. Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato.].

OMELIA II

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Sulle disposizioni per ricevere lo Spirito Santo.

“Cum venerit Paraclitus, quem ego mittam. vobis a Patre, Spiritum veritatis, qui aPatre procedit, ille testimonium perhibebit de me, et vos testimonium perhibebitis quia ab initio mecum estis.”

 Jo. XV.

Perché  non volle Gesù Cristo, il Salvator del mondo, (domanda s. Agostino) far discendere il suo Santo Spirito sopra gli Apostoli se non dopo la sua gloriosa Ascensione al cielo? Ciò fu per far loro conoscere il bisogno che essi ne avevano. Imperciocché, mentre godevano della presenza visibile del loro divin Maestro, il sensibile attaccamento per la sua Persona li occupava in maniera ch’essi nulla pensavano a domandargli questo divino Spirito che doveva loro insegnare ogni verità; ma quando furon separati da Gesù Cristo conobbero allora il sommo bisogno che avevano di riceverlo. Essi dovevano annunziare il Vangelo a tutto il mondo, ed essere perciò esposti all’odio e ai furori degli uomini, soffrire le più atroci persecuzioni, come era loro stato da Gesù Cristo predetto. Qual coraggio, qual forza dunque era loro necessaria per condurre a buon esito una sì grande impresa! Ma Gesù Cristo li aveva più volte incoraggiati con le promesse d’inviar loro il suo Santo Spirito, che insegnerebbe ad essi ogni lingua e darebbe loro coraggio nei combattimenti. – Quando sarà venuto, diceva loro, sopra di voi lo Spirito consolatore ch’Io v’invierò, Egli renderà di me testimonianza, e conoscerete ch’Io non vi ho ingannati, e voi medesimi renderete testimonianza alla gloria del mio nome. Sarete scacciati dalle sinagoghe, e per un falso ragionare si crederanno di dar gloria a Dio nel farvi morire. Tutte queste cose Io vi dico, affinché non restiate scandalizzati e, allorché avverranno, vi ricordiate esservi state da me predette. Erano certi gli Apostoli che le predizioni di Gesù Cristo dovevano adempiersi; e perciò dopo l’Ascensione del loro divin maestro si ritirarono nel cenacolo per domandare il promesso Spirito consolatore; e con sì grande istanza lo domandarono, che finalmente il ricevettero; e sì gran forza loro fu da Lui comunicata che in istato si videro di potere adempiere la loro missione. – Non ai soli Apostoli promise Gesù Cristo il suo Santo Spirito, ma a tutti i fedeli eziandio e a tutti i membri della sua Chiesa: lo comunica insieme con tutti i suoi doni a coloro che sono bene disposti. Preparatevi dunque, fratelli miei, a ricevere questo Spirito consolatore, e a questo fine vi dimostrerò il sommo bisogno che ne avete, primo punto. E le disposizioni che dovete apportare per ricevere un sì gran dono: secondo punto.

I. Punto. Non v’ha alcuno che non desideri nelle sue afflizioni un consolatore, un medico nelle sue malattie e contro i nemici un protettore. Ora questo è ciò che opera lo Spirito Santo in un’anima che ha la bella sorte di riceverlo, e ciò deve farci comprendere il gran bisogno che abbiamo di Lui. Non fa d’uopo, fratelli miei, ch’io qui vi dimostri ciò che una trista esperienza ci fa pur troppo sentire, che la vita dell’uomo è tutta piena di miserie e d’afflizioni e che non v’ha condizione veruna nel mondo che dalle croci sia esente. Altri, dalle malattie, altri dalla perdita dei beni si vedono afflitti; questi abbandonati dagli amici, quelli perseguitati dai nemici; ora ci vediamo rapiti i beni ingiustamente, ora la calunnia ci toglie l’onore. Quante amarezze in casa ci fa soffrire l’indole difficile di coloro con cui dobbiamo convivere, e quante pene di corpo e di spirito per sovvenire ai bisogni della famiglia e per adempiere alle obbligazioni del proprio stato! Ma dove potrà cercarsi sollievo ai mali che ci affliggono? Inutil cosa sarebbe sperarlo dagli uomini; rarissimi sono gli amici che entrino a parte dei nostri affanni. Siccome l’amicizia degli uomini è per l’ordinario interessata, nelle prosperità ci sono d’intorno, ma nelle avversità si allontanano. Se qualche consolatore si trova, sarà piuttosto molesto e incomodo e, somigliante a quegli amici del santo Giobbe, altro non ci darà che compassionevoli parole, senza procurare di recarci sollievo. Voi solo dunque, o divino Spirito, potete essere il vero nostro consolatore: Voi solo potete alleggerire le nostre pene e temperare l’amarezza dei nostri mali. Epperciò noi vi chiamiamo il divino Paraclito, cioè l’unico e vero consolatore: qui diceris Paraclitus; perocché, essendo voi la sorgente di tutti i beni, potete non solamente riparare le nostre perdite, ma far tornare in vantaggio nostro i mali stessi che soffriamo… Imperciocché queste sono, fratelli miei, le due maniere con cui lo Spirito Santo consola un’anima da Lui visitata.. Quest’anima ha ella sofferta qualche perdita? Lo Spirito Santo che la visita la risarcisce del bene ch’ella ha perduto con un altro più prezioso: invece dei beni di fortuna ad essa rapiti, le da i beni della grazia di gran lunga maggiori che tutti quanti i beni del mondo: invece della sanità, che è stata alterata dalle malattie, Egli spande nel cuore di lei una salutevole unzione che raddolcisce i suoi dolori: invece di quell’amico, di quel protettore che l’hanno abbandonata, Egli medesimo è il suo protettore, il suo amico. In una parola, Egli le vale per tutto e la rifà di tutte le sue perdite. In questa maniera lo Spirito Santo, consolò gli Apostoli afflitti per l’assenza del loro divin Maestro: essi provavano una sensibile consolazione quando godevano sulla terra della sua divina presenza, e non poterono tralasciare di fargli conoscere la loro tristezza allorché vicini si videro ad esserne separati, e sentirono infatti dopo questa separazione un amarissimo dispiacere: essi avevano perduto il loro padre, il loro maestro, e si vedevano esposti al furore e alle persecuzioni dei loro nemici. Ma quando lo Spirito Santo scese sopra di loro, li riempì d’ineffabile consolazione, e fece lor sentire con la sua presenza un soavissimo contento, maggiore ancora e più perfetto di quello che avevano provato nell’affetto alla santa umanità di Gesù Cristo. Egli farà lo stesso con voi, o anime afflitte; voi conoscerete dagli effetti della sua visita che era espediente per voi l’essere privati delle sensibili consolazioni che trovavate nelle creature per meritare quelle del divino Spirito, che le supereranno di gran lunga in soavità ed in dolcezza. Farà di più ancora lo Spirito Santo per rendere più abbondante il vostro contento; Egli vi farà ricavare vantaggio da’ mali e dalle pene che soffrite. E in che maniera? Sollevando il vostro cuore e la vostra mente al di sopra dei castighi della natura, vi farà considerare queste pene come mezzi sicuri ed infallibili per procurarvi beni eterni: Egli dirà al vostro cuore che tutte le tribolazioni di questa vita non sono degne di essere messe in confronto con la ricompensa della gloria del cielo, e che un leggiero momento di tribolazioni può condurvi al possedimento d’una eterna felicità: Momentaneum et leve tribulationis nostræ æternum gloriæ pondus operatur in nobis (2 Cor.IV). A questo fine sopporterete non solamente con pazienza, ma con gioia eziandio tutte le afflizioni che Iddio vorrà inviarvi. Voi direte con l’Apostolo che siete ripieni di gaudio nelle vostre tribolazioni: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra ( 2 Cor. VII).Per qual cagione, fratelli miei, si vedono molti oppressi dalle avversità, e ciò non ostante egualmente tranquilli e contenti come se godessero delle dolcezze della prosperità, soffrire con eroica pazienza i dolori delle malattie, il rigore della povertà, gli affronti, i dileggiamenti e ogni sorta d’ingiustizia.Altro non è che l’allegrezza dello Spirito Santo di cui hanno ripieno il cuore, la quale li rende insensibili al dolore e superiori ad ogni disgrazia. Oh quanto è avventurato chi possiede in sé stesso una sì abbondante sorgente di consolazioni, come è lo Spirito Santo! Sta in vostre mani, fratelli miei, il farne esperienza, e troverete inoltre in Lui un possente medico che vi guarirà dalle vostre malattie.Le malattie di cui dobbiamo, fratelli miei, desiderare la guarigione sono i nostri peccati: malattie più funeste e più da temersi di quelle del corpo: imperciocché l’anima infetta dalla malattia del peccato, si trova in uno stato di morte, incapace per conseguenza di produrre alcuna azione di quella vita soprannaturale che ci unisce a Dio e degni ci rende delle sue ricompense. Oh quanto è lagrimevole lo stato di quest’anima! Quanto le è necessario un possente medico per guarirla! Un ammalato può ancora desiderare e chiedere la sua guarigione, ma l’anima morta per il peccato non può nemmeno per se stessa desiderare d’essere risanata né domandare il rimedio ai suoi mali, se lo Spirito, che è il suo medico, non le inspira questi buoni desideri. Imperciocché da noi medesimi, dice l’Apostolo, non siamo valevoli a formare un buon pensiero per la salute; non possiamo pronunziare il nome di Gesù, se non coll’aiuto dello Spirito Santo: Non sumus sufficientes cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis (2 Cor. 3). Quanto è grande adunque il bisogno che abbiamo dello Spirito vivificante, affinché ci tragga dallo stato di morte a cui ci ha ridotto il peccato, e col soffio salutevole ci renda la vita che abbiamo perduta. Ed ecco appunto l’effetto che la sua visita produce in un’anima che ha la bella sorte di riceverlo. Egli incomincia a prevenire quest’anima con una grazia che le fa desiderare la sua conversione, che l’aiuta a cercar rimedio ai suoi mali; equando quell’anima corrisponde fedele alla grazia che la chiama e la previene, allora questo divino Spirito compie l’operach’Egli ha incominciata e infiamma il cuore di lei col fuoco del suo amore, il quale distrugge il regno del peccato, spezza le catene che la rendevano schiava del demonio e le rende la libertà dei figliuoli di Dio. Allo Spirito Santo siamo dunque noi debitori dell’opera della nostra santificazione; imperciocché Egli diffonde, come dice l’Apostolo, nel nostro cuore quella carità soprannaturale, che ci rende amici di Dio ed eredi del suo regno. Egli è vero che Gesù Cristo con i suoi patimenti e con la sua morte ci ha meritata la grazia della riconciliazione col suo eterno Padre e ha sparso il suo sangue sulle nostre piaghe per guarirle, ma egli è lo Spirito Santo quello che ci applica i meriti di Gesù Cristo con la infusione della grazia che ci giustifica; perché essendo questa grazia effetto del puro amore di Dio per gli uomini, lo Spirito Santo, che è per eccellenza l’amor del Padre e del Figliuolo, è il principio di questa grazia, la quale ci purifica dalla macchia del peccato per unirci a Dio col vincolo d’una perfetta carità: Abluti estis, santificati estis in nomine Domini nostri Jesu Christi (1 Cor.VII) E perciò egli è dal Concilio di Trento chiamato remissione de’ nostri peccati, e la santa Chiesa gli dà il titolo di Spirito vivificante, Spiritum vivificantem. – Siete ora persuasi, fratelli miei, del bisogno che avete dello Spirito Santo? Non posso io dirvi, come già disse il profeta Ezechiello alle ossa sparse che gli furono mostrate in una celebre visione, per farle ritornare in vita? Ossa aride, ascoltate la voce del Signore: ecco ch’io vi rendo lo spirito e la vita: Ossa arida, audite verbum Domini: ecce intromittam in vos Spiritum, et vivetis (Ezech. XXXII). Voi rassomigliate, o peccatori, a queste ossa sparse che non avevano alcun principio di vita: il peccato ha fatto in voi ciò che fa la morte nel corpo ch’ella spoglia della carne e lo riduce in fracidume, e del quale non rimangono dopo qualche tempo che alcuni avanzi inanimati. Il peccato vi ha spogliati della vita della grazia e di tutti gli ornamenti con cui Iddio aveva adornata l’Anima vostra: voi siete rinchiusi in un sepolcro come miserabili avanzi di morte; ascoltate dunque la voce del Signore che vuol richiamarvi a vita e restituirvi nel pristino stato dal quale eravate decaduti: audite verbum, Domini etc, uscite dal sepolcro, o peccatori, o voi che dormite in seno alla morte: Exurge, qui dormis, et exurge a mortuis. Ma invano io indirizzo le mie parole a questi morti per farli uscire dalla tomba, se Voi, o Spirito onnipotente, non li risuscitate e non date loro i primi eccitamenti, affinché possano ritornare in vita. Fate sentire a questi morti il vostro soffio salutevole che li rianimerà: Insuffla super interfectos istos, et reviviscent (Ezech. XXXVII). Illuminate questi ciechi che chiudono gli occhi alla luce, toccate questi cuori duri e insensibili alle vostre chiamate: imperciocché dalle più dure pietre voi potete trarne figliuoli d’Abramo, e dai più grandi peccatori farne i più gran santi. Piaccia al Signore Iddio, o fratelli miei, che le mie preghiere siano ascoltate e che io veda rinnovellato quel prodigio che operò già Dio per mezzo del profeta, allorché le ossa sparse si riunirono e si rianimarono a nuova vita. – Se voi corrisponderete alla grazia dello Spirito Santo che vi chiama, Egli vi darà la vita, anzi egli sarà la vita dell’anima vostra e il principio di tutti i vostri movimenti, in quella guisa che l’anima vostra è principio di tutti i movimenti del vostro corpo; Egli penserà in voi, parlerà, opererà in voi e imprimerà in tutte le vostre parole, pensieri e azioni un carattere di santità che sarà per voi una caparra dell’eterna vita: Unxit nos Deus et signavit nos et dedit pignus spiritus in cordibus nostris (2 Cor. 1). Se voi temete che i nemici della vostra salute vi rapiscano il prezioso tesoro della grazia di cui vi arricchirà, Egli sarà il vostro protettore per difendervi contro tutti gli assalti: ed è questo un benefizio che dovete ancora sperare da Lui e che deve farvi conoscere il sommo bisogno che avete della sua presenza. – Ora quanto dovete voi temere questi formidabili nemici, ai  quali lo Spirito Santo avrà ritolte quelle anime che aveva debellate. Il demonio scacciato dalla sua casa, farà ogni sforzo per rientrarvi e s’aggirerà intorno a voi come un leone che rugge per divorarvi: non perdonerà ad artifizio né a stratagemma per ingannarvi, egli si servirà delle vostre passioni e le solleverà contro di voi per farvi cadere nei suoi lacci; da altra parte il mondo vi tormenterà con lo splendor dei suoi beni, con gli allettamenti dei suoi piaceri, col fasto degli onori; sarete astretti a soffrire i dileggiamenti degli empi e dovrete resistere al torrente delle cattive usanze e alle seduzioni dei compagni: in una parola, sarete esposti a tutti i colpi di questi due feroci nemici, ma fatevi coraggio, il divino Spirito che in voi abiterà vi coprirà con l’ombra delle sue ali, sarà Egli stesso la vostra difesa: Scapulis suis obumbrabit tibi, et sub pennis eius sperabis (Psal. XC). Egli farà andare a vuoto tutti i colpi a voi diretti, e non riceverete alcuna ferita: Non accedet ad te malum. Nella stessa guisa che un principe, un conquistatore, il quale si è impadronito d’una città, la fa fortificare, mette opportune sentinelle e tutto dispone per guardarla e non esser sorpreso, così questo divino Spirito vi farà custodire dagli Angeli, anzi vi custodirà Egli medesimo e farà ridondare in vostro vantaggio le tentazioni stesse a cui sarete esposti. Che cosa avrete da temere con un siffatto protettore, che non vi abbandonerà giammai se non è da voi abbandonato? Se voi gli sarete fedeli, Egli vi guiderà di maniera tra gli scogli che vi circondano che arriverete felicemente al porto, ed Ei vi coronerà con la grazia finale, che è un dono speciale che la sua bontà comparte a coloro che ogni cura pongono a conservarlo, procurate dunque di riceverlo, e preparategli una stanza nel vostro cuore. Voi conoscete ora il bisogno che avete di riceverlo, ma che cosa dovete fare per meritare questa grazia?

II. Punto. Io non posso, fratelli miei, miglior via additarvi per disporvi a ricevere lo Spirito Santo che quella che han tenuto gli Apostoli. Ora la Scrittura Santa c’insegna che essi, dopo essere stati testimoni della gloriosa Ascensione del loro divin Maestro, si ritirarono nel cenacolo, secondo l’ordine che a loro era stato dato, in cui ritirati passarono dieci giorni nell’esercizio di ferventissima orazione: erant perseverantes unanimiter in oratione (Act. I). Ecco, Cristiani miei, la regola che dovete seguire per prepararvi a ricevere nei vostri cuori lo Spirito Santo. Il ritiro, la preghiera, la purezza dell’anima sono le disposizioni alle grazie che Egli vuol compartirvi. Il ritiro fu sempre stimato il più acconcio per ricevere le comunicazioni dello Spirito Santo; Egli non fa udire la sua voce nello strepito e nel tumulto, ma nella solitudine egli parla al cuore: Ducam eum in solitudinem et loquar ad cor eius (Ose.II). E perciò tante anime devote risolvono di separarsi dal mondo e vanno a seppellirsi in luoghi impenetrabili agli oggetti creati, ed altra cura non hanno che di parlare con Dio e pensare alla propria salute. Io so, fratelli miei, che non tutti sono chiamati a questo genere di vita, che è pure il più sicuro e il più perfetto. Iddio ha stabilite diverse condizioni nel mondo; nelle quali chi si trova impegnato può tuttavia operare la sua salute e sperar di giungere al regno dei cieli. Ma benché si viva in mezzo al mondo, si può di tempo in tempo dare qualche giorno al ritiro, come si pratica da’ molti Cristiani che hanno zelo per la loro salute, i quali depongono per qualche tempo ogni pensiero di affanni temporali per pensare all’eternità. – Se le occupazioni del vostro stato non vi permettono di seguitar questo esempio, o se non ne avete il comodo almeno dovete farvi un ritiro interiore, che sciolga il vostro cuore e la vostra mente dall’eccessiva premura che avete per gli affari del mondo e vi renda applicati all’affare della salute, che merita tutta la vostra attenzione: ogni Cristiano è obbligato a questo ritiro, cioè ad un raccoglimento delle potenze dell’anima, che la faccia rientrare in sé  stessa, per far serie considerazioni sul suo ultimo fine e sui mezzi di ottenerlo; ecco ciò che lo Spirito Santo esige assolutamente da un’anima alla quale Egli vuole comunicare sé stesso. In pericolo ciò che invano sperate, fratelli miei, di ricevere questo divino Spirito, se vivete in una continua dissipazione, e se la vostra anima s’aggira vagando sopra ogni sorta di oggetti che le stanno intorno, e se di tanto in tanto non si raccoglie in se stessa per trattenersi con Dio e pensare alle cose di Dio. Sin tanto che quest’anima si abbandonerà tutta alle occupazioni d’uno stato, al commercio del mondo, ella sarà sempre ripiena di mille fantasmi, che alcun luogo non lasceranno alle comunicazioni dello Spirito Santo. Conviene dunque purificare la mente e il cuore da tutti quegli oggetti esterni che impediscono di ascoltare la voce del divino Spirito e prendere le massime e i sentimenti dell’uomo interiore, che vive della fede, che cerca il regno di Dio. e la sua giustizia prima d’ogni altra cosa. Ecco, fratelli miei, il ritiro che lo Spirito Santo vi domanda per comunicarsi a voi. Se non vi separate affatto dal mondo, come gli Apostoli (il che non è però assolutamente necessario), dovete almeno separarvi da certe compagnie pericolose, da certi impegni che sono per voi occasione di peccato e che saranno sempre un ostacolo alle grazie dello Spirito Santo finché vi sarete affezionati. Se il vostro stato vi obbliga a star nel inondo, fa d’uopo almeno separarvi dal mondo perverso, il cui spirito, le cui massime sono incompatibili con quelle dello Spirito di Dio. Imperciocché se voi conservate lo spirito del mondo e seguite le sue usanze e le sue massime, voi non riceverete lo Spirito Santo giammai. Ciò sarebbe un volere unire le tenebre colla luce, accordar Gesù Cristo con Belial. Perciocché, lo sapete pure, fratelli miei, quali sono le massime del mondo che si cercano, che si amano nel mondo, i beni, gli onori, i piaceri; ecco gli oggetti delle inclinazioni degli amatori del mondo. Essi sono il soggetto dei loro ragionamenti, il fine delle loro azioni e dei loro pensieri. Ma che v’insegna lo Spirito di Gesù Cristo? Lo staccamento da tutte le cose, l’amore della povertà, delle umiliazioni e dei patimenti: che cosa può ritrovarsi più contraria allo spirito del mondo? E perciò Gesù Cristo ci assicura che il mondo non può ricevere il Santo Spirito: quem mundus non potest accipere (Jo. XIV). – Voi non potete dunque ricevere questo divino Spirito se non rinunciate allo spirito del mondo con un intero distacco dai suoi beni, dai suoi onori e dai suoi piaceri: non potrà giammai lo Spirito di Dio accordarsi con lo spirito mondano, cioè con quello spirito che giudica delle cose secondo il mondo, che regola i suoi desideri, le sue inclinazioni secondo le leggi del mondo, che ha in orrore ciò che il mondo abborrisce, e fa stima di ciò che il mondo ama ed onora. Se questo è lo spirito che vi conduce, non isperate che lo Spirito di Dio venga a fare in voi la sua dimora. Voi dovete ancora, per attirarlo ne’ vostri cuori, aver ricorso alla preghiera, che fu il mezzo di cui si servirono gli Apostoli per ottenerlo. Erant perseverantes etc. Oh! chi potrebbe esprimere l’ardore con cui essi porgevano i loro voti al cielo? Con quanti fervorosi gemiti domandavano questo Spirito consolatore, che doveva risarcirli della perdita del loro divino Maestro! Essi conoscevano il grande bisogno che avevan di Lui e sapevano ch’Egli sarebbe stato loro in luogo di padre, di maestro, di liberatore e di protettore, che li avrebbe illuminati e avrebbe loro data la forza necessaria per pubblicare il Vangelo, cui per comando di Gesù Cristo dovevano annunziare a tutta la terra che li avrebbero incoraggiati contro il furore e le persecuzioni degli uomini; – che senza di Lui non avrebbero mai condotta a fine la grand’opera per cui erano inviati: e perciò lo chiedevano così instantemente e con sì grande perseveranza che per dieci giorni continui non cessarono di pregare sin tanto che non l’ebbero ottenuto. Voi lo chiederete con lo stesso fervore e con la medesima costanza, fratelli miei, se conoscete il bisogno che ne avete. Or non vi ha fatto sentir questo bisogno ciò che vi è stato detto nella prima parte di questa istruzione? Non vi unirete voi dunque con la mente e col cuore ai desideri di quella santa adunanza degli Apostoli e dei discepoli, che pregavano tutti insieme lo Spirito Santo affinché discendesse sopra di loro? Se voi pregherete come essi, parimenti l’otterrete. E tanto più siete sicuri di ottenerlo perché, chiedendo a Dio il suo Santo Spirito, voi chiedete una cosa degna di Lui e a voi necessaria. Se domandaste beni ovvero onori del mondo, forse Iddio non vi esaudirebbe perché potrebbero forse essere ostacoli alla vostra salute. Ma lo Spirito Santo è un bene assolutamente necessario all’uomo, perché nulla può senza di Lui, ed ha bisogno delle sue ispirazioni per essere illuminato, della sua forza per essere fortificato e della sua grazia per operare la propria salute. Or se voi altri, quantunque malvagi, dice Gesù Cristo, non potete negare ai vostri figliuoli il pane che è lor necessario per vivere, con quanta maggior ragione il Padre celeste, che è tutto bontà per voi, vi darà il suo Santo Spirito, il quale deve essere vostro sostegno, vostra forza, vostro cibo e vostra vita? Si vos cum sitis mali, nostis bona data dare filìis vestris; quanto magis Pater vester de cœlo dabit spiritum bonum petentibus se (Luc. XI)? Ma non vi contentate d’indirizzare al cielo qualche voto passeggero, alcune preghiere d’un momento; perseverate sull’ esempio degli Apostoli nel santo esercizio della preghiera per chiedergli il suo divino Spirito, servendovi di quella che dalla Chiesa ci viene insegnata: Venite, o Santo Spirito, a riempiere i cuori dei vostri fedeli e ad infiammarli del fuoco del vostro divino amore: Veni, Sancte Spiritus. Recitate a questo fine sette volte il Pater e l’Ave per domandare i sette doni dello Spirito Santo. Ma invano, fratelli miei, voi preghereste lo Spirito Santo a venire a far dimora in voi, se voi non purificate il vostro cuore da tutto ciò che può essere di ostacolo alle grazie ch’Egli vuole compartirvi. – Ora quale è questo grande ostacolo alle grazie dello Spirito Santo? Voi lo sapete, egli è il peccato, suo mortale nemico. Sin tanto che regna in un’anima il peccato, ella non può essere la dimora dello Spirito Santo. Imperciocché come mai lo Spirito Santo, che è sì amico dell’umiltà, potrebbe abitare in un cuore gonfio d’orgoglio? Questo Spirito di carità come potrebbe alloggiare in un cuore divorato dall’invidia? Come mai questo spirito di pace e di mansuetudine, che comparve al battesimo del nostro Redentore sotto la figura d’una colomba, per farci conoscere ch’è nemico d’ogni fiele, potrebbe accordarsi con l’amarezza d’un cuor vendicativo? Come mai questo spirito di purità che non ama stare fuorché tra i gigli, potrebbe stare in un cuor voluttuoso e sensuale? No, dice il Signore, il mio Spirito non dimorerà con l’uomo sensuale: Non permanebit spiritus meus in homine; quia caro est (Gen. VI). Questo Spirito è lo sposo delle anime caste, e l’orrore che egli ha pel vizio opposto alla purità fa che non può in guisa alcuna comunicarsi ad un’anima che ne è infetta. Invece di compartirle i suoi favori, serba per essa soltanto i tesori del suo sdegno. Sappiate, dice l’Apostolo, che nel Battesimo i vostri corpi sono divenuti il tempio dello Spirito Santo; ora se alcuno profana questi templi con peccati vergognosi e brutali, Iddio lo perderà, dice lo stesso Apostolo: Si quis violaverit templum Domini, disperdet illum Dominus (1 Cor. III). – Riflettete dunque, fratelli miei, qual è quel peccato che vi signoreggia, se è l’orgoglio che vi tiene schiavi, se la collera vi trasporta, l’invidia vi divora, il piacere vi snerva; sbandite senza timore dal vostro cuore sì malvagi ospiti e date luogo allo Spirito Santo, che vuole farvi dimora. Mondatevi da ogni malvagio fermento che vi corrompe il cuore, affinché possiate gustare le dolcezze dello Spirito Santo; abbassate quell’orgoglio coll’umiltà, la carità sottentri all’invidia, scacciate dal vostro cuore quella impura passione, resistete a tutti i movimenti, a tutti ancora i pensieri contrari alla virtù della purità, e lo Spirito Santo farà sua delizia di abitare in voi. In una parola, qualunque peccato voi abbiate commesso, adoperate tutti i mezzi possibili per cancellarli con una penitenza sincera e con una buona confessione, che dovete fare in queste sante vicine feste: anzi non aspettate quel giorno per accostarvi al sacro tribunale, o almeno preparatevi fin da questo momento a render certa la vostra riconciliazione, rinunziare ai cattivi abiti, allontanarvi dalle occasioni, praticare le virtù cristiane. Ma ciò non è tutto ancora. Siccome questo spirito d’amore è uno spirito geloso che non può soffrire che altro affetto abbia parte nel vostro cuore, ma tutto ne vuole per sé il possedimento, fa d’uopo, fratelli miei, distaccarlo da ogni affetto per certi oggetti, i quali, quantunque non peccaminosi, non lascerebbero ciò nulla di meno di mettere ostacolo alle grazie di cui Egli vi vuol ricolmare. Santo pareva pure l’affetto che avevano gli Apostoli per la persona di Gesù Cristo; eppure questo divin maestro loro dice che era espediente ch’Egli si separasse da loro perché se egli non se ne fosse dipartito, non sarebbe su loro venuto lo Spirito Santo. E perché ciò? domanda qui sant’Agostino. Perché gli Apostoli, essendo troppo sensibilmente affezionati alla presenza di Gesù Cristo, non erano in istato di ricevere le comunicazioni del Santo Spirito; era d’uopo che si fossero privati della dolcezza di questa presenza visibile, affinché una maggior dolcezza ricever potessero dalla presenza invisibile dello Spirito Santo che doveva in loro fare la sua dimora. – Ora se a tal segno giungere doveva lo staccamento degli Apostoli per ricevere la pienezza dei doni dello Spirito Santo, con quanta maggior ragione dovete voi rinunciare ad ogni inclinazione per certi oggetti che potrebbero essere d’inciampo alla vostra virtù! Togliete dunque affatto dal cuore tutte le affezioni terrene; quanto più il cuor sarà vuoto di tali affezioni; tanto più sarà atto ad essere ricolmato delle dolcezze, delle inclinazioni e delle grazie dello Spirito Santo. Pregatelo che giustifichi Egli stesso il vostro cuore, che spezzi e consumi col suo celeste fuoco le catene che vi tengono avvinti alle creature e che prepari egli stesso la sua dimora nel vostro cuore, affinché vi abiti nel tempo e nell’eternità. Cosi sia.

Credo …

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Offertorium

Orémus

Ps XLVI:6. Ascéndit Deus in jubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúja.

 Secreta

Sacrifícia nos, Dómine, immaculáta puríficent: et méntibus nostris supérnæ grátiæ dent vigórem. [Queste offerte immacolate, o Signore, ci purífichino, e conferiscano alle nostre ànime il vigore della grazia celeste].

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Communio

Joannes. XVII: 12-13; 15 Pater, cum essem cum eis, ego servábam eos, quos dedísti mihi, allelúja: nunc autem ad te vénio: non rogo, ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo, allelúja, allelúja.

[Padre, quand’ero con loro ho custodito quelli che mi hai affidati, allelúia: ma ora vengo a Te: non Ti chiedo di toglierli dal mondo, ma di preservarli dal male, allelúia, allelúia.]

Postcommunio.

Orémus.

Repléti, Dómine, munéribus sacris: da, quæsumus; ut in gratiárum semper actióne maneámus.

[Nutriti dei tuoi sacri doni, concedici, o Signore, Te ne preghiamo: di ringraziartene sempre.]

Ultimo Vangelo e Preghiere leonine

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https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

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LO SCUDO DELLA FEDE (113)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIII.

Se l’astrologia vaglia punto ad invalidare la provvidenza.

I. E comune a tutti i ribelli il riconoscere ogni padrone più volentieri, che il proprio: onde a gittar questo dal soglio, non temerebbero di sostituirvi un Nerone. Mirate dunque se gli ateisti sono ribelli solenni. Purché Dio non sia quegli che li governi con la sua provvidenza da uomini ragionevoli, giungono a sognar sino un fato là su le stelle, che li governi da bruti.

II. E vero che non tutti procedono ad egual passo: mentre alcuni, più cauti nel favellare, se non più religiosi nel credere, protestano di non assegnare ai pianeti la parte di padroni nel gran teatro delle umane vicende, ma di messaggi. Contuttociò questi ancora, benché men empi, non però meno vani, conviene avvolgere in un’istessa rovina, precipitandoli per mano della ragione giù da quel cielo che essi con le lor predizioni infamano tanto, quanto i poeti lo infamarono con le loro insanie.

III. Conosco bene a qual cimento io mi esponga, pigliandola a viso aperto con un tal genere di persone ingannevoli, e pur amata: Genus hominum sperantibus fallax, quod semper vetabitur, semper et retinebitur (Tac. hist.1. 1). E l’ingegno umano sì avido di antivedereil futuro, che non si vergognò ne’ secolipiù vetusti di mendicarne gli annunzi da ridicolissime osservazioni: tanto che il garrirdegli uccelli, il tripudiar de’ polli, il trapassarde’ porci, ed altri sì vani auguri, valevan piùin una Roma ad accelerare le determinazioni o a sospenderle, di quello che valessero i voti de’ senatori. Ed oggi non ha tra noi chi tien per infausto l’inciampar su l’uscio di casa, l’abbattersi in un tal cane, l’ascoltare una tal civetta, o l’essere in un tal ruolo di convitati? Non è meraviglia però se riesca agli astrologi di ottenere dal commercio con gli astri, da lor vantato, quella credulità che ottenevano già gli aruspici dal budellame dei montoni, o dei manzi, da loro aperti a tal fine; e quella che più vecchierelle ottengono anche oggi per via di superstizioni più fievoli e più fallite, che vanno in volta. Tanto più che gli astrologi, a vantaggiare il loro partito, si travestono da politici, e promettendo sì al pubblico, sì al privato, con la previsione de mali un prò inesplicabile, qual è quello di ripararli fan sì che il dir loro contra sembri un volere opporsi all’umana felicità: né di ciò paghi, abbigliano i loro pronostici di voci sì pregnanti, sì pellegrine, che, benché non intese neppur da essi quando le proferiscono, fanno tuttavia rimanere la gente attonita, quasi perle tratte dagli stipi più ignoti della sapienza.

Oroscopo, mezzo cielo, aspetti, direzioni, dignità, esaltazioni, transiti, triplicità, erezioni, capo di dragone, coda di dragone, combustioni, stelle che veggano, ma non odano, stille che odano, ma non veggano, magne congiunzioni, magne rivoluzioni, case celesti, raggi felici, retrogradazioni funeste, gradi lucidi e tenebrosi, ed altrisì fatti, misteri tutti al dir loro, e pur null’altroin sé che palloni, tanto più vuoti diverità, quanto più gonfi di suono. Difficilissimoè pertanto pigliarsela in poche carte contracostoro, che coi soli vocaboli inauditi fannocorrersi dietro la gente matta.

IV. Mi basta nondimeno, o lettore, che voi siate contento di stare in bilico, senza declinar con l’affetto più ad una parte che all’altra; ed io confido nel peso delle ragioni, che in poco d’ora concorrerete voi pure da voi medesimo senza spinta, a dispregiare qual bugiarda una ciurmeria che va fra molti col passaporto di scienza; anzi ad abbominarla qual traditrice, mentre ella invece di giovar mai alla repubblica, come falsamente promette, perturba la repubblica insieme e la religione, porgendo nel latte di una verità immaginaria mille veleni di errori, tanto più nocevoli al mondo, quanto meno sospetti, e più dilettosi.

V. Senonchè prima di passare innanzi, conviene che io mi spieghi bene. E però, siccome io non voglio per mio nimico chi nimico non è della religione, così sappiate come io qui non intendo di uscire in campo contra l’astrologia naturale, che è quella la quale dagli aspetti de’ cieli predice i nuvoli, i nembi, le siccità, e le ricolte, or povere, or piene, agli agricoltori. Questa, a dir giusto, è più congettura, che arte. Perchè qualor vi fossero uomini daddovero intendenti di tali cose, a che prezzo non si torrebbono dai monarchi? Se Filippo II re delle Spagne, quando stava in procinto di porre in mare quella formidabile armata, che egli inviò contra l’Inghilterra, avesse in corte avuto un astrologo, il quale gli presagisse quella furiosa burrasca che gliela mandò tanto male; che non gli avrebbe egli dato di ricompensa? E così quanto pagherebbero i principi d’ogni grado, aver chi loro dinunziasse con sicurezza le carestie, le contagioni, i tremuoti, ed altri infortuni, che preveduti, potrebbero distornarsi opportunamente, o almeno debilitarsi? Eppur vediamo tutto di, che non gli hanno. Adunque è segno che tale scienza non v’è, e se pur v’ è, v’è da scena, non v’è da cattedra. Contuttociò, perché ella non va punto a ferire la provvidenza, non è dovere impiegare gli strali contra una fiera sì dimestica, quando frattanto scappano via le selvagge. Quella che non può soffrirsi è l’audacia de’ genetliaci, i quali non si curando di dar la buona ventura alle campagne, agli alberi, agli animali (da cui non possono cavar nulla di lucro), la danno agli uomini, con predir loro la vita, ora lunga, ora breve, e gli avvenimenti, ora prosperi, ed ora avversi: volendo che, come già gli egiziani aspettavano dal Nilo, e non dal cielo, la loro fertilità; così noi dal cielo, e non dal Fattore del cielo attendiamo la nostra sorte. Intendo io dunque di far vedere che tutta l’arte di questa professione superba è, se ben si rimira, sognar con arte. Ed eccovi su ciò la mia schietta proposizione.

VI. L’astrologia giudiziale è un ritrovamento fondato in aria, senza ragione alcuna, e senza esperienza bastevole a sostenerla. Cominciamo la ragione (L’astrologia giudiziale, od astromanzia, ebbe la sua culla nell’antico Oriente, e viene reputata una corruzione di antichissime dottrine astronomiche, detta per ciò da Keplero una figlia pazza di madre saggia; e la sua pazzia è così universalmente riconosciuta, che non v’ha oggidì uomo di senno, nonché pensatore serio, che la tenga in qualche conto)