L’IDEA RIPARATRICE (9)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (9)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

CAPO SECONDO (2)

LA VITA PERFETTA E LA RIPARAZIONE.

Che nel mondo si diano delle anime che hanno l’ambizione di « star male » collo stesso ardore con cui la massa degli uomini si mostra avida di « star bene », ecco il più bel trionfo della Provvidenza divina. Non è a stupire quindi se, quando gli vien fatto di scoprire qualcuna di queste anime, il Signore, per così dire, esulti in cuor suo e non possa resistere alla voglia di rendersi complice dei loro desideri di immolazione. Tuttavia quella sete è già il Signore che l’ha messa in cuor loro. Quando il Maestro divino vuole ricolmare le anime, prima incomincia a vuotarle Egli stesso direttamente. E così mentre tutto all’intorno la maggior parte degli uomini restano senza aspirazioni e desiderio alcuno, esse sono come torturate da esigenze infinite. E primieramente un bisogno di non lasciar che il Signor nostro soffra così come fa in Croce, di alleggerirne i dolori, di alleggerirli prendendone per sé una parte, di asciugare il sangue che sgorga dalla corona che gli trafigge le tempia, di espiare i colpi di martello delle mani e dei piedi, i solchi lividi della flagellazione, con altrettanti sacrifizi ricercati con ardente amore. Dall’altra parte della Croce c’è ancor un posto vuoto, esse vi si inchioderanno, avide di una cosa sola, di diventare così come una seconda copia, una ripetizione di Gesù Crocifisso. Esse prenderanno alla lettera il consiglio di S. Caterina da Siena: « Che l’albero della Croce sia piantato nel nostro cuore e nell’anima nostra! Fatevi simili a Gesù Cristo Crocifisso; nascondetevi nelle piaghe di Gesù Cristo Crocifisso; bagnatevi nel sangue di Gesù Cristo Crocifisso; inebriatevi e rivestitevi di Gesù Cristo Crocifisso: saziatevi di obbrobrii soffrendo per amore di Gesù Cristo Crocifisso ». In una lettera al suo direttore spirituale « Consummata » si lascia sfuggire questo lamento: « Talora si vorrebbe cantare qualche poco le misericordie del Signore; ma questa povera cetra è troppo vibrante per la durezza della materia di cui è formata; è quasi impossibile servirsi di essa. Giorni sono aveva incominciato a scriverle ma non ho potuto continuare; la prima nota che ne venne fuori fu cosi forte che una seconda avrebbe spezzate le corde. Il mio corpo è troppo piccolo per l’anima mia, e il mio cuore non può contenere l’amore con cui io Lo amo, il mio Gesù… È ben raro che io possa scriverle così come ho fatto sta sera, ma se ho voluto farlo, ho dovuto trattenere il mio sguardo perché non si fissasse in Lui … ». Si narra di una Suora che per grazia speciale del Signore, nella considerazione dei dolori di Gesù Cristo in Croce, provava una tale fitta al cuore, sentiva una tale scossa in tutta la persona, che aveva dovuto fare il proposito di non guardare più il Crocifisso. Siccome per discendere al refettorio comune era necessario passare dinanzi ad un grande Crocifisso appeso al muro, avvenne che un giorno ebbe l’imprudenza di alzare gli occhi; il suo sguardo incontrò la immagine sanguinolente del suo Salvatore ed essa cadde al suolo svenuta. Si dirà: testa esaltata, sensibilità esagerata. Sia pure. Ma tutto ben considerato, ove troviamo maggior ragione di meraviglia? Che si dia una persona che non può mirare il Crocifisso senza soffrirne, ovvero che se ne diano tante che possono benissimo guardarlo anche a lungo senza provarne alcun dolore? Se v’ha dello strano, dite pur voi da quale parte si trovi. – I santi non posseggono come noi la facoltà dì restare indifferenti alla presenza della immolazione di un Dio umanato: i santi, cosa singolare! non possono non soffrire quando vedono il loro Dio a soffrire. « Mi pare che, se questo sentimento di compassione dovesse prolungarsi, non saprei a quale tortura anche crudelissima paragonare quest’intima pena dell’anima, perché essa è ben simile a quella che Nostro Signore sostenne in cuore nel Getsemani quando uscì nel lamento: « L’anima mia è contristata fino a doverne morire » e dopo lunga preghiera prostrato a terra agonizzò e sudò sangue ». Così lasciò scritto il buon S. Alfonso Rodriguez, umile fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, portinaio al Collegio di Maiorca, il quale soleva poi offrirsi al Signore per ogni sorta di patimenti (anche quelli dell’inferno, pena del senso) per ottenere che il Signore non fosse più offeso e più nessun uomo andasse dannato. Negli Acta Sanctorum (Vita Sanctæ Birgittæ) al giorno 8 ottobre si narra di S. Brigida di Svezia il fatto seguente: « Giovanetta ancora, nell’ascoltare un sermone sulla Passione di Gesù Cristo, fu tanto commossa che le dolorose scene di essa le rimasero profondamente impresse nel cuore. E subito la notte seguente essa vide Nostro Signore Crocifisso che si lamentava: Ecco in quale stato mi hanno ridotto! — Essa, semplicetta, domanda al Signore: E chi vi ha trattato così? — Quelli che mi offendono e che sono insensibili al mio amore —, rispose Gesù. Da quel momento Brigida fu tanto sensibile al pensiero della Passione del Salvatore che non poteva trattenersi in essa senza piangere teneramente ». Un’afflizione che si manifesta così in maniera sensibile suppone una grazia speciale e un amore particolare da parte di Dio. Questo però non contraddice punto quanto abbiamo sopra riferito, che cioè il restar del tutto insensibili alle pene del Signore, come fa un troppo grande numero di Cristiani, manifesta un’incoscienza ovvero una ingratitudine che non si può concepire. Oh! a che giova la crocifissione di questo nostro povero Salvatore? Egli è là sospeso tra cielo e terra, mediatore tra Dio e gli uomini, così afflitto, così addolorato!… e intanto così prodigiosamente « inutile »! Che si può fare per compensare tutta questa gloria che dovrebbe risultare al Signore e che gli uomini così ostinati gli rifiutano? — Amare? Ahimè! la meschina parola e soprattutto la povera cosa! Amare! E con che cosa, o grande Iddio? Amare con un sì miserabile cuore quale noi abbiamo in petto. Un cuore umano! Amare Iddio con un cuore sì meschino! Quale derisione, quale ironia! Con quanto vi ha di più debole amare Colui che è infinito; con quanto vi ha di meno generoso amare Colui che si è sacrificato per noi com’Egli solo ha saputo fare: il presepio, la Croce, la Santa Messa, i Sacramenti, la Chiesa; con una facoltà che è gretta quanto mai, amare Colui che si è dato senza misura; con delle piccolezze d’amore, amare Colui che è lo stesso Amore… No, Signore, non è possibile!… – Quale lotta! Dover competere con chi può brandire come arma di combattimento l’infinito è cosa che getta l’anima nello strazio e nella tortura. Voler dare e non poterlo fare; voler dare molto e non possedere nulla; a Colui che è tutto non offrire di continuo che così poco! È vero che non è necessario aver molto per dare molto, perché dà sempre molto chi dà tutto quello che ha, pur avendo poco. Ma… ahimè! anche qui, quale affanno per l’anima, quale angoscia di tutti i giorni. Quel poco che essa possiede, così fosse vero che lo offrisse senza riserva alcuna! Essa invece si conosce intimamente e sa benissimo quante mancanze vadano segnando il cammino di ciascun giorno: difetti leggeri, sì, ma per un cuore che ama queste indelicatezze hanno sempre alcun che di odioso. E quello che dovrebbe servire a calmare la pena non fa che aumentarla. Si consolerebbe il Maestro divino nel suo abbandono col donarsi interamente a Lui; ma si ha coscienza di procedere con raggiri, con grettezza e che l’amor proprio non disarma. « Egli non cesserà di molestarci che un quarto d’ora dopo la nostra morte », ci dice S. Francesco di Sales argutamente. E questo ci accora: vedersi forzati a servire Colui che merita tutto per mezzo di un «nonnulla » che pur non riesce a darsi interamente (Si confronti quanto abbiamo detto più sopra di Suor Geltrude-Maria la quale si rimproverava delle sue indelicatezze nell’amare il Signore. Cosa naturalissima quando si pensi a chi è Dio). – Il Signore tortura i santi con siffatte angosce continue. Non v’ha cosa che tanto sollevi l’animo al di sopra di se stesso quanto il desiderio di cose grandi, e il divin Maestro mette in cuore ai suoi cari questi ardenti ideali appunto per il piacere che prova nel contemplare queste anime grandi, anime veramente magnifiche in mezzo a tante piccolezze che loro sono ripugnanti. « Per vivere in atto di perfetto amore — dirà S. Teresa del Bambino Gesù — io mi offro come vittima di olocausto al vostro Amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi incessantemente e di lasciar riversare nell’anima mia i torrenti della vostra tenerezza infinita così che io diventi martire del vostro amore, o mio Dio!… « … Io intendo rinnovarvi, o Gesù caro, ad ogni battito del mio cuore, infinite volte questa offerta finche, svanite le ombre, io possa di presenza colassù dirvi il mio amore in eterno ». – S. Maria Maddalena de’ Pazzi al termine di una sua orazione in cui ricevette grazie speciali da Dio, così si esprime di San Luigi Gonzaga: « Chi potrà mai apprezzare il valore degli atti interiori e la ricompensa che essi meritano! Non v’ha paragone tra quanto appare al di fuori e quanto avviene nell’intimo dell’anima. E Luigi, durante tutta la sua vita fu costantemente affamato delle ispirazioni interne che il Verbo eterno gli insinuava in cuore. Luigi fu un martire sconosciuto; perché chi vi ama, o Signore, vi vede sì grande e sì infinitamente amabile che per lui è un grande martirio il vedersi incapace di amarvi quanto egli vorrebbe e lo scorgere le creature che invece di amarvi teneramente vi offendono sempre più » (LYONARD: L’apostolat de la souffrance, p. 200). Così almeno l’anima assetata e in cerca di Dio potesse finalmente raggiungerlo, impadronirsene e tenerlo stretto fra le sue braccia… Ma, ahimè! sovente quanto più lo si cerca, tanto più Dio si allontana e si nasconde. Noi abbiamo l’Eucaristia, ma la presenza reale non dura che brevissimo tempo e poi anch’essa è tutta avviluppata di mistero: visus, tactus, gustus in te fallitur. Abbiamo la grazia santificante: ma quella presenza continua di Dio in noi che essa produce, non è la stessa cosa che la presenza continua di noi in noi medesimi. Avviene troppo spesso che noi siamo assenti da noi stessi. Le nulle e mille occupazioni quotidiane ci portano lontano da questo centro prezioso ove. per lo stato di grazia « i Tre », il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo, fanno continuamente la loro dimora. Iddio è dunque in noi: e noi non vi ci troviamo — o molto di rado’ — Abbiamo inoltre la preghiera: ma: lì nella preghiera non troviamo che la fede ove vorremmo il possesso reale: l’ombra, ove vorremmo il dono; la immagine, ove vorremmo la realtà presente. Si vorrebbe un Gesù così com’è naturalmente, e non si può avere che un Gesù « mascherato ». che sfugge continuamente e non si lascia raggiungere. E non dico nulla delle prove terribili dell’aridità in cui il Signore non si scorge più se non a grande distanza, sfumatura appena percettibile e così confusa che ci si domanda se veramente è Lui e si è quasi tentati a dire come gli Apostoli sul lago di Genezareth: « Phantasma est… un fantasma! ». – Eppure Gesù non ignora che noi abbiamo abbandonato tutto per poterlo seguire! Maria de la Bouillerie, poi religiosa del S. Cuore, parlando di sua madre diceva: « Io non l’abbandonerò mai per seguire un uomo! » . Ma abbiamo accettato di abbandonare anche la nostra madre perché sapevamo che seguire Gesù non è seguire un uomo, e con forza di volontà abbiamo detto a Nostro Signore: « Io verrò, dove abitate voi? ». — « Sei deciso?… Vieni! … ». — E ci siamo messi in cammino verso la terra promessa anche sapendo che prima di arrivare fino ad essa avremmo dovuto attraversare il deserto. Che importa? Si cammina per un buon tratto… e un bel giorno si crede di esser finalmente al termine del viaggio, alla casa del Maestro — l’abitazione del Re —. Invece, come quel fanciullo che montato sopra una sedia dinanzi all’altare batteva alla porta del Tabernacolo chiamando Colui che vi si è rinchiuso per amor nostro, anche noi battiamo: « Signore, ci siete voi? ». E come per quel fanciullo la porta del Tabernacolo non si apre e il Signore non dà segno alcuno della sua presenza. Deus absconditus! O Dio che martirizzi le tue anime care restando nascosto, misterioso sempre e inaccessibile. E noi ci fermiamo in faccia a Lui certi ch’Egli è presente, che potrebbe mostrarsi se il volesse, ma preferisce aspettare… e farsi aspettare. Una pena simile a quella della Maddalena al Sepolcro, la mattina della risurrezione. Fin dall’alba si era partita di casa portando con sé come unico tesoro dei poveri aromi — tutto quello che possedeva di utile in quella circostanza — e camminava in tutta fretta. Arriva finalmente… entra… e vede il Sepolcro vuoto… un Angelo, il sudario ripiegato da un lato, qualche cosa che appartenne a Lui, ma Egli non è là. Ed essa cercava Gesù, non soltanto la parola dell’Angelo, ma quella di Gesù. Non soltanto una reliquia di Lui, un documento della dimora sua in quel luogo fino a qualche momento prima, ma Lui, presente nel Sepolcro, che si lasciasse vedere… « Signore, ci siete voi? ». Il divin Maestro però non era lontano: anzi Egli è sempre vicinissimo ad un cuore che lo cerca. « Tu non mi cercheresti se tu non mi avessi già trovato »; parole poste sul labbro di Gesù Cristo da Pascal; e nulla di più vero. Chi cerca sinceramente Gesù e gli dice: « Signore, ove siete voi? » , non è più in cammino ma è giunto al termine della sua via. Nel momento stesso che ha formulata la sua domanda il Maestro gli si fa innanzi presente. Sì, il divin Maestro, ma sempre, secondo la sua abitudine, in modo più o meno velato. – Per la Maddalena Gesù Cristo è in sembianze d’un giardiniere e la poveretta non lo riconosce: ce Ditemi, dov’Egli si trova? Oh! ve ne scongiuro, non mi lasciate più a lungo in pena; io andrò a cercarlo fin là dov’Egli si trova… ». Se Egli si manifestasse interamente colmerebbe il desiderio dell’anima ma non già il proprio. Egli gode nel vedersi così desiderato dalle anime ardenti: imita in ciò la madre che si nasconde per provare il gusto di vedersi ricercata dal proprio bambino. Iddio, dice S. Agostino, non desidera di meglio che vedersi desiderato. Questa è la ragione di questi suoi abili raggiri che danno a noi tanta pena e a Lui procurano tanta gioia. Deus absconditus. Il Signore si nasconde: quindi le anime veramente accese d’amore per Lui soffrono a dismisura. Tutto hanno abbandonato solo per poterlo avere, possederlo e unirsi a Lui: e non giungono mai ad averlo, possederlo e unirsi a Lui come esse vorrebbero. Quindi il lamento della sposa dei Cantici: « Fasciculus myrrhæ dilectus meus. Il mio diletto è come un fascio di amarezza. In queste amarezze Iddio trova una soave dolcezza perché sono una prova certa di un amor grande per parte nostra. – Ma Egli non resiste a lungo e chiama la Maddalena col suo nome: « Maria! ». Così come in un baleno talora Egli si lascia quasi intravedere, e allora ci pare poter gettare ai suoi piedi e tendere le mani a Lui: finalmente lo si possederà e per sempre!. Ahimè! « No, non mi toccare», e questa noli me tangere pone il colmo al nostro martirio. Oh! che vale dunque l’amore se non si può procedere più innanzi? « Signore, sradicate del tutto quanto voi stesso mi avete posto in cuore, altrimenti abbiate pietà di me! ». Anche allora — anzi specialmente allora — il Maestro divino non cambia per nulla la sua tattica. Egli vuole scavare nell’anima degli abissi ancor più profondi, ed esce in quella risposta che sì direbbe crudele, ma in realtà è piena di misericordia: « Non è ancora venuta l’ora. Abbi pazienza ancora un po’ di tempo e poi mi vedrai » . « Che dite voi, o Signore — esclamava a questo proposito Paolina Reynolds — e parlate cosi ad un cuore che vi ama? ». « Sì — potrebbe rispondere Nostro Signore — così parlo ad un cuore che mi ama appunto perché anch’io lo amo. E voi fidatevi di me ». È in mezzo a questi patimenti interiori — che noi ci accorgiamo di non esser riusciti a descrivere, come avremmo voluto (Si legga a proposito il 2° Sermone di Bossuet per la festa dell’Assunzione…: « Egli vuole che si distrugga, si devasti, si annienti tutto quello che non è Lui: e per parte sua Egli si nasconde, e si rende quasi inaccessibile,sì che l’anima per l’una parte distaccata da ogni cosa, per l’altra non trovando modo di arrivare a Dio fuorché colla fede… cade in languori inconcepibili.«O sposo di sangue, date alle vostre spose queste armi che devastano e distruggono affinché esse si uniscano a Voi nel mistero della Croce, e vi portino come dote a voi cara il loro totale spogliamento. – « Questo è il mistero di unità che ogni giorno si opera con un martirio inesplicabile e che si terminerà con una pace che è Dio stesso. – « Oh! qual rovesciamento di cose, quale violenza e qual terribile lavoro, poiché Dio non scioglie dolcemente ma strappa; non piega ma rompe; non separa ma spezza e devasta tutto. Gesù, quando sarà che voi distruggerete interamente quanto ci distrugge?… Ah!come voi siete crudele! ») —patimenti nutriti soprattutto di desideri, che mai si giunge ad appagare, di sacrificarsi in qualche cosa, di sacrificarsi in tutte le cose: che il Signore darà alle anime occasione di mostrarsi un po’ meno inferiori al compito intravisto e alle ambizioni sognate.Offrirsi al Signore, già da lungo tempo si è capito che equivale a soffrire. E per questo appunto si è addolorati perché nell’offerta di se stessi pare che non ci sia abbastanza di penoso.È allora che Iddio invia a quell’animadelle pesanti croci: le aridità, le malattie,il lutto, il tradimento nell’amicizia, la persecuzione, l’insuccesso, le tribolazioni più varie e più dolorose. Nostro Signore in ciò non si trova mai imbarazzato, la sua provvista è abbondante, ha di che scegliere:si direbbe che a Nazareth abbia impiegato il suo tempo a preparare in gran copia delle croci, non abbia fatto altro; e se ne vedono di ogni sorta di legno e di tutte le dimensioni. Ed ecco come procede il Signore: per calmare l’angoscia di chi si lamenta di non soffrire abbastanza, Egli si decide di inviare una buona dose di patimento. Così Egli colma un martirio saziando di dolore, e il risultato di questa singolare interferenza di pene è un’immensa gioia. Si soffre; il Signore moltiplica la sofferenza: come risultato finale, ecco la felicità.Se non fossimo già avvezzi a trovare nelle cose divine di che strabiliare, quale non sarebbe il nostro stupore alla vista di questo strano e divino « circolo vizioso »nel quale l’Altissimo rinchiude le anime che sono tanto generose da consacrarsi senza riserva all’opera riparatrice dell’olocausto? (l’anima mia si nutre di tutti gli « Alleluja ». « Laudate ». • Cantate… », il che non toglie, è vero, la sofferenza, ma mi fa trovare in essa la mia pace, o se preferite: la pena è in me, ma io non sono in pena » – Consummata, 1. c .1).Noi abbiamo già udita l’esclamazione di S. Liduina e delle altre anime consimili ad essa. Al più profondo dei suoi più crudeli martirii un forte grido : « Io non sono da compatire, io sono felice! », il che suggerisce all’autore della sua Vita un commento veramente degno di nota, forse quanto di meglio sia stato scritto sul patimento. Le vittime — dice egli in sostanza — le più offerenti fra le creature, sono nello stesso tempo di tutte le creature le più felici. Offrirsi per l’olocausto è offrirsi per la felicità; perché Gesù si fa onore nel restituire con altrettanta pace e altrettanto gaudio, quanto a Lui si sacrifica con generosità. Per tutti i grandi « immolati » è avvenuto così. Iddio ha compensato la loro donazione con una tale pienezza da farli esclamare: « Ma Signore! questo non è il mio conto: io mi sono offerto per il sacrifizio e non ne ho che felicità!». Sì, quando un’anima s’è offerta a Gesù: « Voglio per me stessa mettermi,o Signore, sulla vostra Croce voglio che Voi siate colui che mi crocifigge ». Gesù accetta questa parte di carnefice e incomincia battere; ma alla vista del sangue che cola, dell’anima che si strugge, il suo cuore si spezza: non ha più il coraggio di continuare e si arresta. Allora si accosta e in un attimo colma l’abisso scavato dal patimento e l’anima allora rimane talmente trasportata che sente il bisogno di pregare il Signore a risparmiarle la gioia, come altri supplica il Signore a risparmiargli il dolore. Essa continua ad offrirsi ma la sua immolazione diventa la sua felicità, o meglio la sua immolazione, che continua ad esser in qualche modo dolorosa, è accompagnata da un tale gaudio divino che l’anima per nessuna cosa al mondo vorrebbe vedersene priva. Questo gaudio le è necessario per mantenere vive le fiamme dell’amore e attizzare il rogo permanente del Sacrifizio; e così con sapiente arte il Signore, per tener l’anima in continuo esercizio, alternale allegrezze e i dolori; le dolcezze sono il battistrada delle tribolazioni e le prove non precedono che di poco le gioie spirituali; ma, a conto fatto, il patimento è come affogato nel gaudio; non si può reprimere il singhiozzo, ma, come felicemente si esprime il Buathier, questi singhiozzi si risolvono in altrettanti cantici di allegrezza.L’abate Perreyve, uno di quelli che hanno meglio compreso e meglio spiegato il sacrifizio incontrato per amore, nell’analizzare questa contraddizione o, se vogliamo, questo equilibrio, lasciò scritto: « Donde viene, o Signore, che appena incamminato sulla via della Croce, io sento dalle vostre labbra parole d’ineffabile dolcezza? ». Infatti non appena Nostro Signore ha pronunziata la prima frase: « Se altri vuol venire dietro di me prenda la sua croce », Egli continua dicendo: «Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero ». — « Appena ho incominciato a soffrire — soggiunge l’abate Perreyve— e già voi mi portate la consolazione;appena ho posto sulle mie spalle la croce e già la vostra mano divina me la rende leggera…« O Gesù! che imponete dei sacrifizi necessari ma che ne diminuite subito la pena col vostro tenero amore: o Gesù! che comandate la rinunzia a tutte le cose ma che fate poi trovare all’anima distaccata da se stessa un cumulo di tesori più grandi di quelli che potrebbe possedere: o Gesù! che ci obbligate a portare ogni giorno la nostra croce se vogliamo veramente seguirvi, ma che mutate poi questa croce in un giogo soave e in un peso leggero; o Gesù! Che spesso vi contentate della più piccola buona volontà dei nostri cuori e che ricambiate con sovrabbondanti consolazioni i nostri più deboli sforzi, no, non ho più paura di voi! Non mi spavento più del vostro Vangelo, io non tremo più al solo nome della Croce! Ormai ho capito che in essa sta il segreto delle grandi consolazioni e del vero appoggio nel cammino della vita, ove, anche contro il volere nostro, conviene soffrire. Io mi accosto quindi alla Croce con tutta confidenza e vengo a cercare ai suoi piedi, nel ricordo della vostra Passione, nuove grazie di forza e di pazienza. Non me le rifiutate, o generoso mio Maestro; e ricevetemi nel vostro corteo, fra quelle anime che trovano, venendo dietro di voi al Calvario, la forza di trar profitto dalle loro pene e di mutare in ricchezze senza fine tutte le amarezze della vita ». E con questa preghiera così bella, così ardente, così confidente, così umile poniamo termine al nostro lavoro. Quest’ultimo carattere di umiltà manifesta e consacra il vero spirito della Riparazione. – Quanti si vogliono dedicare, in unione di Gesù, alla Redenzione del mondo per mezzo del patimento, non possono farlo senza tremare conoscendo in modo evidente la loro assoluta incapacità. Essi comprendono che. lasciati a sé, al primo contatto del dolore essi fuggirebbero ben lontani. – Nessuno sa meglio di loro che essi non sono che la goccia d’acqua che si lascia versare nel vino del calice pel Sacrificio cruento: cosicché quelli che dànno di più sono quelli che sono convinti del « nessun valore » di quanto danno.

CONCLUSIONE

Non era nostra intenzione di scrivere un trattato completo sulla Riparazione: tanto meno un trattato scientifico di molta dottrina. Noi abbiamo semplicemente tentato di mostrare, ricordando brevemente su quali basi teologiche e dogmatiche si appoggi la Riparazione, quale posto dovrebbe avere l’idea riparatrice nel pensiero e nelle opere del buon Cristiano. Ai nostri giorni molti si sentono attirati da questa parte, ma restano esitanti, vanno a tentoni, poi indietreggiano o cambiano rotta perché mancano loro spesso i concetti chiari intorno alla riparazione. Queste nostre pagine vorrebbero risvegliare molti per metterli sull’avviso e ad altri già in guardia e desiderosi di luce, fornire le prime indicazioni. – In siffatta materia certamente una monografia o il contatto vivente d’un’anima riparatrice sono più efficaci che tutto un manuale; perciò abbiamo spesso rinviato il lettore a consultare diverse « Vite » . Tuttavia un breve schizzo della teoria non è inutile; è un allettamento e una prima indicazione. La lettura di opere più complete, il consiglio d’un savio direttore, e la grazia dello Spirito Santo finiranno d’illuminare, di convincere e di stimolare all’impresa. Durante la guerra sulle vie che andavano alla fronte si scorgevano di tratto in tratto degli avvisi a caratteri grossolani con qualche nome e una freccia: « Per il tal posto, seguite questa direzione ». Queste pagine non hanno altra ambizione; esse dicono: « Per andare al sacrifizio mettetevi sulla via della riparazione: non c’è passo più sicuro ». Cioè abbiamo voluto indicare da lungi la strada e non guidare fino alla linea di combattimento e ancora meno descrivere minutamente quanto si trova al termine della via… E come quelli soltanto che vissero nelle trincee della grande guerra hanno « sentito la realtà » della vita che vi si passava e possono parlarne — anche con pericolo di non esser compresi o neppur ascoltati — così solo quelli hanno i dati necessari a descrivere la vita di riparazione, cui il signore ha concesso di conoscere per esperienza propria e per il contatto delle anime altrui le regioni del completo devastamento dell’amor proprio, dello schiacciamento totale, della festa sanguinosa nel dono assoluto di tutto se stesso. Quindi si spiegano qua e colà i diversi punti in cui ci contentiamo di dare idee schematiche, incomplete e anche solo accennate. Non è da noi il penetrare nei domini riservati all’azione del Signore, lo scoprire « i segreti del Re », il far comprendere il modo che tiene nel comunicarsi alle anime privilegiate. Per questo è necessaria un’autorità, una pratica di ascetica e di mistica… e qualche altra cosa ancora, che noi non abbiamo. Un cieco non parlerà mai di luce o di colori. Dunque meglio d’ogni altro noi sappiamo quanto sia lontano questo nostro opuscolo da quello che si potrebbe desiderare. Anche così imperfetto, questo nostro lavoro potrà il Signore adoperarlo come strumento di sua gloria se il vorrà fare. Talora i mezzi in apparenza meno idonei sono quelli di cui Egli si serve per ottenere il risultato che ha di mira. Ci sia lecito aggiungere ancora una parola prima di terminare: un ricordo dell’ultima campagna. – Nel settembre 1917 due soldati di Liévin, in licenza a Hersin-Coupigny presso Pas de-Calais, pensarono di recarsi al villaggio natio per ricercare il loro piccolo peculio che avevano nascosto sotterra al momento dell’invasione. Essi vanno, ma l’uno di essi purtroppo non trova più nulla del suo. Prima di ritornarsene si portano all’antica chiesa del villaggio e la trovano tutta abbattuta al suolo. Solo una pesante croce in ferro fuso non è caduta, ma sta in piedi contro un resto di muro. E il soldato si avanza, la prende e, al cospetto d’un gruppo di Canadesi che applaudiscono, egli la stringe fra le sue braccia dicendo al suo compagno: « T u hai trovato il tuo tesoro, ecco il mio, io lo porto con me ». E in mezzo ai rottami e alle fosse scavate dalle bombe, a stento e gocciolanti sudore e coperti di fango i due amici portano fino ad Hersin la Croce della loro chiesa, Ritrovare la Croce, non già quella d’una chiesa distrutta, in mezzo ai rottami, ma quella del Salvatore del mondo rizzata sulla cima del Calvario si direbbe cosa facile. Ebbene, no! Meditando sulla festa dell’Invenzione di S. Croce, Mgr. d’Hulst ha potuto scrivere: « È una bella invenzione. Già da molto tempo abbiamo la croce dei due ladroni, la croce che disonora, ma la gran novità, essa è la Croce di Gesù… la quale per tante anime non è ancor stata trovata ». Oh! sì, essa è ancora da ritrovare per molte anime. E poi quando sia stata scoperta non convien fermarsi a contemplarla soltanto, ma bisogna prenderla e abbracciarla. I Canadesi applaudirono… il mondo, lui, non comprenderà nulla… e che importa? La croce afferrata a due mani poniamocela risolutamente sulle spalle. I rottami, le buche, le occasioni di cadute non mancheranno; la strada sarà difficile a percorrersi, il cammino un po’ lungo. Verrà spesso la tentazione di liberarsi da un tal peso, di gettare a terra queste due traverse che opprimono le spalle. « Come? — mormora allora Gesù — vorrai tu abbandonarmi?… Non vi sarà qualche Cireneo e qualche Veronica che vogliano aiutarmi a custodire intatta la mia Croce preziosa? ». Non vi sarà nessuno? È forse vero? Un giorno, durante la S. Messa, il Signore comunicò a S. Angela da Foligno una molto viva cognizione delle pene sofferte in Croce; ed essa così narra il fatto: — Sentii la sua voce a benedire i devoti che imitano la sua Passione e che hanno pietà di Lui: « Siate benedetti dalla mano del Padre, voi che avete partecipato e pianto la mia Passione; voi che ricomprati dall’Inferno cogli immensi dolori della mia Croce, avete sentito compassione di me. Siate benedette, fedeli memorie! voi che conservate nel vostro cuore il ricordo della mia Passione. Poiché voi avete offerta ad un Dio desolato la sacra ospitalità del vostro amore. Io era nudo sulla Croce, ero affamato, assetato, e voi aveste pietà di me. Siate benedetti, voi che avete usato misericordia. Al momento terribile di vostra morte io vi dirò: Venite benedetti dal Padre mio, io avevo fame e voi m’avete offerto il pane della vostra compassione… sospeso in Croce, ho pregato per i miei carnefici; che dovrò dire per voi che mi siete cosìdevoti quando verrò nella gloria per giudicare il mondo?». E mi è assolutamente impossibile esprimere l’amore che brillava sopra coloro che hanno pietà. — Al presente, più che in ogni altro tempo, Nostro Signore cerca dei « devoti che imitano la sua Passione ed abbiano compassione di Lui » . – Conceda il Signore a molti dei lettori e delle lettrici di queste pagine il desiderio di arruolarsi nella squadra dei « devoti » e la volontà generosa di fare parte di «quelli che hanno compassione ».

Chi vuole?

— « Oh! Signore, io lo voglio ».

FINE

DA SAN PIETRO A PIO XII (14)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

PARTE SECONDA

DAL 1000 AI NOSTRI GIORNI

CAPO IV.

IL RINASCIMENTO

PREAMBOLO

La civiltà italiana del rinascimento

Lo studio dei classici latini, mai cessato in Italia nel Medio Evo, nel sec. XV, divenne un vero fanatismo; e questo furore, per cui parve rinascere la civiltà romana, fu detto « RINASCIMENTO ». I dotti, trascurando gli studi teologici o divine lettere e preferendo quelli dei classici, chiamati in opposizione: umane lettere, furono detti « umanisti » ed il nuovo indirizzo prese anche il nome di « umanesimo», perché ritornando al naturalismo, si allontanò dall’ideale religioso predicato dalla Chiesa (Se ci si accinge a giudicare oggettivamente la posizione spirituale degli umanisti, essa ci appare come uno svigorimento e, spesso, un annullamento delle tesi più specifiche del Cristianesimo. Mettendo alla pari le due rivelazioni, classica e cristiana, l’Umanesimo abolisce i confini fra naturale e soprannaturale; in nome dell’agostiniano « Omnis veritas a Deo » confonde la verità, che si trova nei classici e quindi è qualcosa di creato, con Dio stesso; nell’astratta contemplazione di tale verità razionale, pone il fine della vita; ed esalta perciò le soddisfazioni conseguibili in questo mondo, perdendo il senso dell’ascesi, del peccato, della preghiera. Idolatra la creatura, celebra 1’attività demiurgica dell’uomo, perde di vista il fatto storico dell’Incarnazione; fa di Dio un’entità astratta che si rivela (necessariamente?) nel Logos ». Così che, nato come reazione al razionalismo averroista, l’Umanesimo si chiude in un nuovo razionalismo – di carattere gnostico e cabalistico – ndr. -). Oltre il latino, si coltivò anche il greco con valenti maestri, quali il Crisolora, il Pletone, il Bessarione; si fondarono accademie a Firenze, a Roma, a Napoli; nacque il senso critico; s’iniziò la filologia e si ripresero le antiche dottrine filosofiche, specialmente quella di Platone (tipicamente gnostica, come il neoplatonismo alessandrino ed il cabalismo giudaico – ndr. -). L’Umanesimo ed il Rinascimento rinnovarono la vita intellettuale, artistica, morale e politica. Tutti i cittadini, non i soli umanisti, sentirono il bisogno di istruirsi e ciò fu reso facile dall’invenzione della stampa che, con il nuovo sistema dei caratteri mobili, divulgò la scienza e sostituì i libri ai costosi manoscritti. Si cominciò ad avere una libertà di pensiero, la cultura divenne sempre più laica e più largamente umana, e, con il ritorno al culto pagano della bellezza, della forza e della gloria, si affinò il senso artistico: Papi, prìncipi e nobili fecero a gara per ornare le città con magnifiche opere d’arte e per avere nei loro palazzi i migliori artisti. Il benessere, la magnificenza e la bellezza artistica giovarono agli Stati per consolidare il loro assolutismo, giacche lo sfarzo, le feste e i giochi pubblici resero i popoli meno gelosi della loro libertà ed attutirono la loro coscienza nazionale. Tuttavia i cittadini, svincolati dalle corporazioni, cominciarono a gustare i primi semi della libertà del lavoro, la donna fu elevata, e s’ingentilirono i costumi con tutto danno dei vincoli morali, rallentati per l’indifferenza religiosa e per il prevalente spirito umanistico razionale e scettico. L’invenzione delle armi da fuoco trasformò poi l’arte della guerra; alle ambascerie occasionali si sostituirono quelle permanenti e nacque la moderna diplomazia. Tra i « mecenati » che promossero ed agevolarono la cultura italiana del rinascimento notiamo: Lorenzo il Magnifico a Firenze, i Visconti e gli Sforza a Milano, i Gonzaga a Mantova, Nicolò V e Pio II a Roma.

D . Che cos’ è il Rinascimento?

— È il periodo storico e letterario, succeduto al Medio Evo e protrattosi lungo i sec. XV e XVI, durante il quale si ebbe un meraviglioso rifiorire dell’antica cultura classica.

D. Come vide la Chiesa il Rinascimento?

— Di buon occhio, anzi Vescovi e Cardinali protessero artisti e letterati. Il capo degli umanisti, Francesco Petrarca, trovò comprensione presso i Pontefici.

D. Quale fu la preoccupazione costante della S. Sede?

— Fu di incanalare il movimento rinascimentale sulla via tracciata dal Cristianesimo, per impedire pericolose deviazioni pagane. In una parola, la Chiesa, assimilando la bellezza dell’arte greco-romana, ha avuto cura di eliminare la concezione puramente naturalistica ed edonistica, ispirata ai principi del paganesimo.

D. Intendendo così lo studio e l’imitazione dei classici che ne veniva?

— Veniva potentemente favorito il progresso medesimo della civiltà

cristiana, in quanto il pensiero cristiano avrebbe trovato un’incomparabile

espressione artistica nelle rinate forme ellenico-romane.

D. Perché i Papi tanto entusiasticamente collaborarono al Rinascimento?

— Proprio perché ispirati da simile intento.

D. È tuttavia facile la conciliazione tra la forma pagana e il contenuto cristiano?

— No, e per questo non sempre seppero sottrarsi al fascino di un’arte troppo naturalistica e corrompitrice.

D. Che ne seguì?

— L’introdursi nel clero e nella corte pontificia di un certo spirito paganeggiante. Parve per un momento che la bellezza classica, pericolosamente accolta e festeggiata in veste d’ancella, fosse per assidersi come sovrana, in seno alla Chiesa di Dio.

D. Che cosa si ebbe?

— Un periodo tanto oscuro per la santità della disciplina ecclesiastica quanto splendido per un fiorire d’opere d’arte immortali.

D. Che cosa verrà poi a richiamare parte dell’alto clero dalle regioni dell’Olimpo alla triste realtà?

— La bufera del luteranesimo, che lo farà correre ai ripari, onde salvare i l salvabile, mediante la grande Riforma Tridentina.

IL SAVONAROLA

Cacciato Piero de’ Medici, la repubblica di Firenze ebbe breve durata e fu difesa nei primi tempi dal domenicano « GIROLAMO SAVONAROLA », nemico dei costumi guasti e corrotti.

I seguaci del frate erano detti per dileggio «piagnoni » come quelli che piagnucolavano sui peccati degli uomini. Suoi avversari erano:

1) i «palleschi» così chiamati dallo stemma a palla dei Medici;

2) gli «arrabbiati » fautori del governo oligarchico;

3) i « compagnacci » che amavano la vita carnevalesca;

4) il papa Alessandro VI, i cui scandali erano stati biasimati dal frate;

5) e i Francescani che mal tolleravano il disprezzo del Savonarola alle censure ecclesiastiche.

Uno di questi ultimi, Francesco di Puglia, assalì dal pulpito il ferrarese come impostore e lo sfidò ad un giudizio di Dio. Domenico Buonvicini, discepolo del Savonarola, accettò la sfida ed intendeva passare sul rogo con il Crocifisso in mano e l’Ostia consacrata. L’opposizione del francescano e la pioggia impedirono la barbara prova e si generò un tumulto; assalito il convento dì San Marco, il Savonarola, il Buonvicini e frate Silvestro Maruffi caddero in mano degli avversari e, dopo un processo sommario, furono impiccati ed arsi. A torto il Savonarola fu giudicato un precursore di Lutero; egli fu « un cattolico puro », bramoso di riformare i costumi del clero e non i dogmi religiosi.

I PAPI DEL RINASCIMENTO

D. Tra i Papi, chi fu il primo fautore del Rinascimento?

— Fu Nicolò V (1447 – 1455). Egli intese di fare di Roma il centro degli studi d’Europa, il focolare della cultura classica per assicurare alla Chiesa che il nuovo movimento letterario rimanesse in perfetta armonia con lo spirito cristiano,

D. Chi chiamò a Roma?

Una folla di artisti, di letterati e di dotti, che sosteneva regalmente con ogni sorta di soccorsi. Fondò anche la Biblioteca Vaticana.

D. Anche i suoi successori coltivarono l’arte, la letteratura ecc.?

Sì, pur non dimenticando la difesa della Cristianità dai Turchi, come fece Callisto  III (1455 – 1458), che li fermò al Danubio in Serbia (1456). Così pure Pio II e Sisto IV, per quanto l’opera loro approdasse a poco, a motivo delle discordie dei principi cristiani.

D. Quale difetto si comincia a notare nei Papi di questo periodo in avanti?

— Il nepotismo, che talora ne oscura la fama e che preparerà la rivoluzione religiosa del sec. XVI.

D. Che dire di Alessandro VI?

— La sua vita privata fu macchiata di gravi manchevolezze, ancorché gli avversari gli abbiano attribuite tante colpe che di fatto non commise.

D. Quale fu la sua colpa maggiore ?

Quella di aver lasciato troppo braccio al figlio Cesare Borgia, il famoso Duca Valentino, che, a forza d’astuzie e di delitti, riuscì ad impadronirsi di molte città delle Marche e della Romagna.

D. Come pontefice tuttavia come si diportò?

— Bene; poiché difese la libertà della Chiesa, propugnandone la purezza della dottrina, inviando missionari nelle terre scoperte proprio in quegli anni da Cristoforo Colombo, promovendo la vita religiosa e il culto della Madonna.

D. Che dimostra la sua vita scandalosa?

— Dimostra come anche nella Chiesa non manchi purtroppo l’elemento umano, capace di recarle serio pregiudizio, ma non mai di comprometterne l’esistenza, la quale poggia sull’assistenza divina.

D. Chi tra i Papi di questo tempo è ricordato tra gl’ingegni più originali del Rinascimento?

— Il famoso Giulio II (1503 – 1513), che chiamò a Roma Raffaello e Michelangelo, e fece gettare al Bramante le fondamenta della nuova Basilica di S. Pietro, « l’impresa architettonica più colossale dei tempi moderni ». Sulla sua tomba troneggia il Mosè di Michelangelo.

D. A chi s’intitola il secolo d’oro del Rinascimento, cioè il ‘500?

A Leone X (1513-1521), grande mecenate, ma per glorificare più la sua famiglia (i Medici di Firenze) e le proprie gesta, che la Chiesa.

D. Fu felice Leone X nella politica?

— No, per i suoi ondeggiamenti tra Carlo V e Francesco1, che lo fecero poi piegare verso Carlo V.

D. Capì almeno l’importanza e la gravità dell’eresìa luterana?

— Neppure; essa scoppia nel 1517 e si propaga con incredibile celerità.

L’IDEA RIPARATRICE (8)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (8)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale; Torino-Roma – Casa Editrice MARIETTI 1926]

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

CAPO SECONDO (1)

LA VITA PERFETTA E LA RIPARAZIONE.

Simona Denniel, la suora di Maria Riparatrice, che noi abbiamo testè citata, morta ancor giovane dopo un lunga e dolorosa infermità ottenuta da Dio come ricompensa dei suoi ardenti desideri, il 4 novembre 1910 scriveva: « Questa mattina, protraendo il ringraziamento alla S. Comunione per ripetere a Gesù che io desideravo ardentemente essere la sua piccola ostia, mi venne in mente ch’Egli forse andava cercando molte ostie… e che sarebbe certo una grande cosa il gettare nelle anime il germe del desiderio di diventare ostie. Pregherò dunque e soffrirò a questo fine che Dio moltiplichi le sue ostie, quelle vere, pure, generose e sante ». – Vi sono infatti delle anime che non si contentano del sacrifizio « a piccole dosi ». Sì sono trattenute troppo a mirare il loro Gesù sulla Croce, hanno misurato con troppa esattezza la profonda miseria del prossimo per non sentire ambizione di diventare anch’esse con Gesù per il bene delle anime come un « riscatto » e ciò nel massimo grado posatale, cioè vittime ». – Questa parola nel linguaggio ordinario ha un certo qual significato che umilia, che spiace. Si dirà più volentieri «sacrificarsi » che « esser vittima »; quest’ultima espressione non si circonda come la prima di una aureola di gloria. Se si dice: « Il sacrifizio dei nostri soldati in guerra », noi intendiamo qualche cosa di eroico: se parliamo delle vittime della guerra non si vede la gloria dell’impresa ma soltanto il dolore provato nel compierla. Tuttavia in sostanza le due espressioni si riferiscono alla medesima realtà di cose; non vi ha sacrifizio senza vittima. Ma sacrificarsi dice anzitutto slancio di affetto, dono di sé, immolazione volontaria, o almeno volontariamente accettata; mentre « esser vittima » lascia supporre facilmente che la pena si subisce un po’ per forza, si sopporta con malanimo, vedendo in essa più che un castigo meritato, una ingiustizia e una persecuzione. È da deplorare che questa parola si prenda spesso in così cattivo senso, e noi non la useremo che escludendo del tutto questo significato indegno del Cristiano. Nella nostra trattazione non significherà «ricevere a malincuore » ma piuttosto « darsi a cuor contento ». Per certe anime, l’abbiamo già detto, non basta rassegnarsi, sottomettersi, esse cercano, vogliono trovare la Croce, e quando finalmente l’hanno trovata, fuor di sé per la gioia esclamano con Andrea l’Apostolo: « O bona Crux! » e la abbracciano e se la stringono al seno e con risoluzione, nonostante lo scricchiolare delle ossa e il ripugnare di tutta la natura, come Gesù, per amore e per la Redenzione del mondo, si stendono sulle due traverse nodose e si offrono al martello che le configgerà, liete nel soffrire, sul legno infame insieme e glorioso. – Noi troviamo fra gli scritti intimi di una giovine (Morta nel 1918 a 29 anni. Essa verso la fine di sua vita dava a sé il nome di « consummata ») ricolma da Dio di grazie, elette, la seguente confidenza: « Una volta Nostro Signore mostrandomi i suoi dolori mi fece comprendere che me lì avrebbe dati tutti a soffrire. Io sapevo bene che non avrei potuto contenerli tutti come aveva fatto Egli stesso, ma compresi che ne sarei rimasta sempre ricolma. Se il mio patimento non avrebbe potuto essere grande come Lui. certo sarebbe stato almeno grande come me ». E aggiungeva: « il mio calice è pieno ma vorrei averne uno più grande ». Esser « ostia », che bel sogno! Sogno strano che non riescono a spiegare quelli che non comprendono le grandi cose, che cioè hanno il cuore piccino. Esser « ostia ». Sogno folle? No, ma sapienza sublime! Sogno forse alla portata di poche anime se per viverlo questo sogno fa d’uopo di grandi virtù e di copiose grazie? No. questo sogno può esser raggiunto da molti più che non si pensi; non tutti sanno parlare, scrivere, insegnare, ma chi non potrà imparare l’arte di soffrire e di sacrificarsi? Già altrove (Ames réparatrices, p, 10), abbiamo fatto notare questo doppio carattere apparentemente contraddittorio della riparazione: Vocazione per l’una parte « difficilissima fra tutte », perché esige assolutamente una rinunzia totale; vocazione per l’altra parte « accessibile a molti » meglio che non si possa immaginare, perché assicurata quest’intima e completa rinunzia, tutto il resto non conta per nulla. In altre parole: È vero che per sacrificarsi come « ostie » nel senso che abbiamo spiegato è necessaria una grazia speciale che il Signore non fa a tutti, ma è certo pure che il Signore tale grazia speciale la concede alle anime sue care ben più spesso che noi non supponiamo. – E qui specialmente va ricordato quanto già abbiamo detto dell’obbligo di consultare non soltanto le ispirazioni della grazia, ma ancora i doveri del proprio stato e il consiglio di un buon direttore spirituale. Offrirsi come vittime è cosa che deve durare a lungo, e per impegnarsi così per l’avvenire in cosa di tanta importanza non basta un fervore sensibile passeggero, uno slancio di divozione, una parola data in istato di consolazione spirituale. Il patimento, quando non è che immaginato, non fa ancora soffrire; quando invece è vissuto allora sì che grava sulle nostre spalle. Ai piedi del Crocifisso e da lontano la parola: « Vittima » sembra scritta a lettere d’oro; da vicino, nella realtà, è scritta a lettere di sangue. Non che domandi sempre il martirio della carne, ma comprende sempre, in tutte le ipotesi, una buona dose di tribolazioni, che quando ci vengano a colpire sconcertano una troppo semplice presunzione. – Fatta questa osservazione, diceva il vero Mgr. D’Hulst scrivendo ad una persona un po’ mondana : « La dottrina delia riparazione noi la troviamo sempre al fondo di ogni vera vita interiore. Ogni vita interiore quando sia vera conterrà implicitamente in ogni caso normale il desideri più o meno sentito di esser ostia ». Ogni vita interiore vera dunque, non solamente nei chiostri, ma anche nel mondo. Certamente la vita religiosa — e noi l’abbiamo già notato — specialmente negli Istituti che della Riparazione fanno un oggetto primario della loro attività, è come il campo più appropriato, ma non unico, allo sviluppo della vocazione speciale di « ostia » . Ma. la Dio mercé, può darsi benissimo, e si dà veramente, come già abbiamo constatato, che nel mondo e sotto le apparenze d’una vita di mondo vivano molte anime profondamente riparatrici. La persona a cui scriveva Mgr. D’Hulst era allora una di queste anime. Nelle tre lettere del 19 novembre 1880, 18 gennaio e 4 ottobre 1895, egli le spiegava meglio il suo pensiero: « Molto vi ha da riparare nel mondo e, diciamolo pur anche e soprattutto nel Santuario e nei chiostri. Nostro Signore aspetta un compenso dalla parte di quelle anime che non hanno abusato di certe sue grazie più scelte… Quale afflizione alla vista di tanti scandali! Solo il pensiero che possiamo riparare ce ne può diminuire l’amarezza. Prendere sopra di sé l’espiazione è rassomigliare a Colui di cui fu detto: Vere languores nostros ipse tulit. Se noi fossimo ben penetrati di questo pensiero, senza cercar grandi penitenze, non faremmo noi ben altra accoglienza alle contrarietà e alle amarezze della vita? ». Poi indica più chiaramente il modo di riparare: « Bisogna riparare per mezzo delle lagrime del nostro cuore, della fedeltà, della pazienza, per mezzo d’una profonda religione, e dell’amore. Bisogna riparare ricorrendo a Maria Santissima ed ai Santi, coll’offerta dei loro meriti, della loro virtù e del loro amore. Bisogna riparare colle nostre pene, colle nostre impotenze rassegnate, colle nostre oscurità, colle nostre angosce, colle nostre debolezze, coi nostri abbattimenti e dire: tutto questo va bene, io lo voglio, non c’è nulla di troppo fin qui: è meglio che sia così, e che io serva come le legna da bruciare per l’olocausto: se io non sono capace a fare da sacrificatore, se non so esser vittima, che io sia almeno quel pezzo inerte che altri abbrucia e consuma alla gloria di Dio » (Vie, t. II, p. 523). Olocausto, ecco il motto finale. Olocausto cioè sacrifizio, non sacrifizio qualunque, ma sacrifizio completo, ove tutta la vittima è sacrificata, nulla è risparmiato; sacrifizio totale. Fra gli atti di culto, di religione, il sacrifizio costituisce il più perfetto, il più glorioso a Dio, il più meritorio per l’uomo perché è la testimonianza più significativa che l’uomo possa rendere alla Sovrana Maestà di Dio, la protesta più solenne che egli possa fare della sua completa dipendenza al cospetto della potenza assoluta dell’Altissimo. – « Le parole — osserva il P. Ramière — non sono che un rumore che passa, che spesso rimane a fior di labbra. I sentimenti del cuore non sono intesi che da Dio e benché il loro linguaggio sia più sincero che quello delle labbra, non è tuttavia a riparo dall’illusione. Ma quando la creatura dà mano alla propria distruzione per onorare il Creatore, allora riconosce in modo efficace che Egli è il principio della sua vita e l’arbitro supremo dei suoi destini. E in questa distruzione di sé consiste propriamente il Sacrifizio. « Il Sacrifizio non è soltanto la testimonianza delle parole, o dei sentimenti, o delle azioni; è la testimonianza di tutta la vita, cioè della morte » (La Divinisation du Chrétien, p. 369). Quando il sacrifizio diventa olocausto raggiunge i limiti estremi di quanto l’uomo può dare: al di là di una simile immolazione radicale non c’è più nulla. Però la difficoltà non è propriamente nel darsi così senza riserve una volta e come in blocco, ma piuttosto, quando già ci si è dati cosi tutto in una volta e in blocco, nel non riprendere in diverse volte e a poco a poco quello che in un fascio era stato gettato sul rogo. La storia delle continuate « rapine nell’olocausto » è talmente umana anche in mezzo a quelli che hanno una virtù solida e una volontà risoluta! E il Signore permette che l’amor proprio tenti sempre qualche offensiva perché non manchino mai le occasioni di acquistarsi qualche merito. Se bastasse l’aver fatta l’offerta una volta sola la cosa sarebbe veramente troppo comoda. Ripetere l’offerta ogni giorno e molte volte al giorno — e sempre l’offerta totale — questo è propriamente offrirsi in olocausto. In pratica, cercando in tutto e sempre il beneplacito del Signore, come faceva Gesù Cristo, il cui cibo era appunto il compiere incessantemente la volontà del Padre (« … Fatemi trovare, o mio Dio, quell’atto si comprensivo e sì semplice che dia totalmente a Voi quello che io sono, che mi unisca a tutto quello che voi siete… « Tu lo senti già, anima cristiana, Gesù te lo dice in cuore che quest’atto non è altro che l’atto di abbandono con cui l’uomo lascia nelle mani di Dio tutto quello che ha e che è: anima e corpo, in generale ed in particolare Tutto abbandono in Voi, o Signore, fatene quello che volete. Mio Dio, io vi abbandono la mia vita e non soltanto questa che conduco nell’esilio a nella cattività sulla terra ma anche quella dell’eternità. Io rimetto nelle vostre mani la mia volontà, vi rimetto pure il dominio che voi mi avete concesso sulle mie azioni… Tutto vi ho dato; non mi resta più nulla, tutto l’uomo è nelle mani vostre. « Quest’atto si riferisce a tutto quanto è nell’uomo e nello stesso tempo anche a tutto quanto è in Dio. Io m’abbandono in voi, mio Dio! Alla vostra unità per esser una cosa sola con voi, alla vostra infinità, ecc. – « Con quest’abbandono non si cade punto nell’inazione; al contrario noi tanto più diventeremo attivi quanto più saremo guidati dallo Spirito Santo; quest’atto con cui noi ci diamo a Lui e alla sua azione in noi ci mette per così dire i n piena attività per Dio » (BOSSUET: Discorso dell’abbandono in Dio). – Così si vede che « l’abbandono in Dio » ben compreso, sfugge a qualsiasi taccia di quietismo. Sovente siamo ricorsi alle parole di Bossuet nel nostro presente scritto appositamente per evitare ogni ragione a dubitare della sicurezza di dottrina nel soggetto trattato); quello che ci piace non farlo mai « per questo solo » che ci piace; fra due azioni indifferenti eleggere quella che più è contraria al nostro gusto (Quest’impegno, sotto forma di voto, vien detto « Voto del più perfetto ». Come facilmente si può capire, chi voglia pronunziare un tal voto conviene che ne richieda l’approvazione dal Padre suo spirituale, che non la concederà se non a persona di virtù soda, di buon senso ed equilibrata; diversamente è una porta aperta a lutti gli scrupoli e a mille stranezze. In sostanza anche qui, come sempre altrove, « una mente che calcola e un cuore che rifugge da ogni calcolo »; ci vogliono le due cose. Con un cuore generoso, uno spirito saggio e ponderato, questo soprattutto.); nulla tenere per sé delle opere buone che possiamo fare, ma metter tutto a disposizione del Signore, sia per lo scopo particolare di suffragare le anime del Purgatorio (pratica dell’ « Atto eroico ») sia in generale per quelle intenzioni che gli sono più care; dare come in prestito a Gesù che non può più soffrire le nostre immolazioni come l’ostia gli dà in prestito la sua forma e le altre sue esteriorità; lasciare che Egli prenda in noi i patimenti che tanto desidera offrire al Padre per la gloria dell’Adorabile Trinità e per la salute delle anime, tendere a diventare Lui sotto le « apparenze » nostre (Nessuno meglio che Huysmans ha esposto questo pensiero con cui si arriva alle più intime profondità dell’Idea riparatrice: « Il Salvatore non può più soffrire in sé stesso; se vuole patire quaggiù noi può fare che nella Chiesa i cui figli formano il suo Corpo mistico. Queste anime riparatrici che ricominciano gli spasimi del Calvario, che si pongono in Croce nel posto lasciato vuoto da Gesù sono quindi in certo modo le sosie del Figlio di Dio; esse riflettono in uno specchio sanguinante il suo povero Volto; esse fanno di più: esse sole danno al Dio Onnipotente qualche cosa che ora a Lui manca, cioè la possibilità di soffrire ancora per noi: che appagano questo desiderio che è sopravvissuto alla sua morte, desiderio infinito come è infinito l’amore che l’ispira ». Esse possono « fare l’elemosina a questo misterioso Mendicante delle loro lacrime e rimetterlo nella gioia dell’olocausto, gioia che non può più provare altrimenti » – S. Liduina, p. 101): domandare umilmente a Dio. desiderare e cercare, sempre nei limiti della discrezione prima e poi dell’ubbidienza, le più minute occasioni che si presentano per sacrificarsi, aspettando di meglio se così piaccia al divin Maestro: — questo è l’incredibile programma che noi vediamo adottato da certe anime le quali seguono con gioia ardente i diversi impulsi della grazia e le varie sfumature della divozione propria di ciascuna di esse. V’ha chi giunge fino ad impegnarsi con voto di vivere come Vittima. Nelle Costituzioni delle Suore Benedettine dell’Adorazione perpetua — costituzioni approvate in forma speciale dalla S. Sede — al c. 58, § 23, si legge: « Voveo et promitto omni studio servare perpetuam SS. Sacramenti altaris adorationem et cultum, uti victima gloriæ ipsius immolata ». Così abbiamo una conferma autentica da Roma di questa qualità di vittima immolata alla gloria di Nostro Signore (Cf. Vita della fondatrice Mechtilde du Saint-Sacrement di M. HERVIN – Bray. Retaux, 1883). – Sua Santità il Papa Pio X, con rescritto del 16 dicembre 1908 e con breve del 9 luglio 1909, ha concessa l’indulgenza plenaria una volta al mese ai Sacerdoti che in date condizioni facessero un tale voto per la riparazione sacerdotale. Ma voti di questo genere — non meno ardui che quello del « più perfetto » che la Chiesa dichiara esser « arduum » (Oremus di S. Andrea Avellino e lezioni del Breviario nella festa di S. Teresa), ed anche « arduissimum » (lezioni del Breviario nella festa di S. Giovanna di Chantal) — tali voti non si possono, come ben si comprende, né fare né consigliare fuorché alle condizioni già indicate di sapienza, di discrezione, di prudenza e di soggezione al Padre Spirituale. Non è quindi nostro intento discorrerne più a lungo, poiché non abbiamo né competenza né mandato per trattare una questione che riguarda esclusivamente i maestri di vita spirituale di lunga esperienza. Ci contenteremo di aggiungere ancora qualche osservazione generale. A nostro parere la prima condizione in questa materia è di determinare in modo ben chiaro quello che noi intendiamo obbligarci a fare. Le promesse possono passare attraverso ad una gamma variabilissima, ma tutte si possono tuttavia ridurre in pratica a due tipi: Accettare giorno per giorno — con atto previo di rassegnazione — insieme col divin Riparatore, quei patimenti che il Signore nell’ordinaria sua Provvidenza ha previsti per noi nella sua eternità. Questa è una prima maniera di costituirsi « vittima » nelle mani di Dio, e di grande perfezione. Domandare a Dio, per soddisfare ad un desiderio di immolazione più completa, che Egli mandi all’infuori delle disposizioni ordinarie di sua Provvidenza una dose supplementare di patimenti (di corpo, di spirito, di cuore, e anche la morte anticipata). – In quale misura questa seconda maniera di costituirsi « vittima » possa dirsi: 1° possibile; 2° lodevole, sono punti da esaminarsi nei casi singoli con un’attenzione tanto più minuziosa e accurata quanto più la materia è fuori dell’ordinario, quindi più soggetta all’illusione; e con una prudenza tanto più ritenuta, con un « discernimento degli spiriti » tanto più illuminato e più severo, quanto più è prossimo il pericolo che la generosità del cuore confini colla temerità (Il ben noto autore di Jesus intime nell’Introduzione alla Vita della M. Maria Veronica del Cuor di Gesù, fondatrice dell’Istituto delle Suore Vittime del Cuor di Gesù (P. PRÉVOST, S. C. J.), lasciò scritto: « Circa il voto di desiderare i patimenti… converrà mostrarsi severi all’estremo. Difficilmente troverete un tale voto nella vita dei Santi. Alle anime generose che si perdono dietro a tali finezze, alle anime meno generose che le cercano per entusiasmo momentaneo, per Trasporto passeggero noi diremo: Voi farete cosa più utile nel nutrirvi prima di tutto di soda dottrina… studiata non soltanto in simili sottigliezze che turbano e snervano, ma nella distesa della sua ampiezza e nelle ricchezze delle sue cognizioni » – Introduction doctrinale sur l’idée, l’état et le voeu de victime, p. XXVII e XXX, par M. Charles SAUVÉ). – Non si creda però che la Vita di riparazione includa necessariamente o l’uno o l’altro di questi voti: essi tutt’al più in determinati casi possono costituirne come il perfezionamento, la corona: ma non ne sono mai il carattere fondamentale. Essi sono come un maximum, un grado estremo, e nella seconda ipotesi lo diremo un « maximum inedito, fuori quadro ». In che consista propriamente l’essenza della vita di riparazione noi l’abbiamo già detto abbastanza fin qui ((« Talora avviene che Nostro Signore si unisce più intimamente a qualche anima privilegiata e la chiama ad una vita più misticamente intensa, confidandole una missione riparatrice ancor più commovente… Queste sono belle ma rare eccezioni. Possiamo esser felici anche se l’invito del Signore ci chiama soltanto per una strada più umile e più accessibile». DE BRETAGNE: La vie réparatrice, p. 7). – 

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/14/lidea-riparatrice-9/

DA SAN PIETRO A PIO XII (13)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

PARTE SECONDA

DAL 1000 AI NOSTRI GIORNI

CAPO III.

LA SCHIAVITÙ AVIGNONESE E LO SCISMA D’OCCIDENTE

PREAMBOLO

1 – DECADIMENTO POLITICO DEL PAPATO

Il tramonto dell’Impero d’Occidente s’iniziò con la morte di Federico II avvenuta nel 1250. Ma, come l’impero, decadde poi politicamenteanche il Papato.

Nel 1294 morto Nicolò IV, i Cardinali, dopo un conclave di 27 mesi, elessero Papa un eremita abruzzese, Pietro del Monte Morone, che prese il nome di Celestino V, e, nauseato della politica, dopo soli quattro mesi, « fece… il gran rifiuto », cioè rinunciò al Pontificato. La tiara passò a Bonifacio VIII, che, malgrado le mutate condizioni dei tempi, volle seguire le idee di Gregorio VII. Per evitare un possibile scisma, Bonifacio tenne prigioniero il vecchio Celestino e, per realizzare il suo sogno politico, bandì nel 1300 il primo GIUBILEO. A Napoli favorì gli Angioini contro gli Aragonesi, in Firenze inviò Carlo di Valois per difendere i Neri e cacciare i Bianchi, a Roma, si schierò contro i Colonna, fautori di Celestino, e, fuori d’ Italia, osteggiò Filippo il Bello che, in lotta con gl’Inglesi ed avendo bisogno di denaro, aveva tassato gli ecclesiastici e steso il « suo braccio secolare » sui beni dei Templari.

* * *

BONIFACIO VIII E FILIPPO IL BELLO

D. Che aveva portato la lunga lotta degl’imperatori tedeschi contro la Chiesa?

— Un indebolimento delle forze dell’impero, di modo che i Papi dovettero procacciarsi l’aiuto della Francia, frattanto cresciuta in prosperità e potenza dopo il governo di San Luigi IX.

D. Ma come rispose il governo degli Angioini?

— Con disordini e distrazioni in Italia, da dove furono cacciati nel 1282 nei famosi Vespri Siciliani, e in Francia con l’ambizione sfrenata di Filippo il Bello, nipote di S. Luigi IX, inteso ad assicurarsi un’assoluta indipendenza dalla Chiesa, usando a tal fine l’ingiustizia, la slealtà e la frode.

D. Chi gli si parò contro a difendere i diritti della Chiesa?

— Bonifacio VIII (1294 – 1303), uno dei Papi più grandi del Medio Evo e dei più calunniati.

D. Quale fu il suo proposito?

— Risollevare e consolidare l’autorità dei Papi e della Chiesa, come avevan fatto Gregorio VII e Innocenzo III, ma i tempi erano mutati e divenuti assai più difficili.

D. Che tentava Filippo il Bello?

— Emancipare la Francia dall’autorità della S. Sede e perciò cominciò a stendere le sacrileghe mani sui beni ecclesiastici.

D. Che cosa emanò Bonifacio VIII allora?

— La famosa Bolla « Clericos laicos », con cui decretava che re e principi non potessero, senza il consenso del Papa, esigere le decime dal clero, sotto pena di scomunica, tanto per i principi quanto per gli ecclesiastici.

D. Come rispose Filippo?

— Dichiarò, continuando la sacrilega rapina, che la Francia non avrebbe più sofferto altra autorità che quella di Dio e del re. Fece poi imprigionare il Legato che il Papa gl’inviava per indurlo a più miti consigli, gli distrusse i documenti ufficiali che egli portava, e inviò al Papa una lettera di villanie, insolenze e calunnie.

D. Come ribatté il Papa?

— Con l’ancor più famosa Bolla « Unam Sanctam » del 1302, con la quale rinnovava l’idea di Gregorio VII e di Innocenzo III, del dominio universale della Chiesa, non soggetta a principe alcuno.

D. Che cosa provocò l’« Unam Sanctam »?

— Le più assurde accuse di Filippo e suoi perfidi consiglieri, contro cui il Papa lanciò la scomunica. Allora il re mandò il francese Nogaret che, con Sciarra Colonna, assalì papa Bonifacio in Anagni, lo insultò e imprigionò. Fu poi liberato dal popolo e ricondotto, fra grandi dimostrazioni di rispetto, a Roma, ma un mese dopo per i dispiaceri e strapazzi sofferti morì (1303).

D. Chi successe a Bonifacio VIII

— Benedetto XI, che tentò di pacificare Filippo il Bello con la Chiesa; ma avendo scomunicato, per il fatto sacrilego di Anagni, il Nogaret e il Colonna, morì improvvisamente, pare di veleno da parte di questi e per istigazione di Filippo il Bello.

2 – L A SCHIAVITÙ’ AVIGNONESE

PREAMBOLO

Il papato avignonese

Clemente V, eletto Papa per influenza di Filippo il Bello, restò in Francia e la sede del Papato rimase in Avignone per 72 anni, dal 1305 al 1377. Durante questo periodo di umiliante asservimento, che a ricordo della schiavitù del popolo ebreo, fu detto « cattività avignonese » o babilonica, si acuirono le lotte della Chiesa e si favorì lo smembramento d’Italia in piccole Signorìe: gli Ordelaffi a Forlì, i Malatesta a Rimini, i Pepali a Bologna, i Da Polenta a Ravenna. Morto Clemente V, i Cardinali discordi, dopo due anni di lotte, elessero Giovanni XXII che aumentò i danni della Chiesa. I francescani  erano divisi in due partiti, i Zelanti o Fraticelli, rigidi seguaci del Poverello d’Assisi, ed i Conventuali, propensi all’acquisto di ricchezze. Il Papa si scagliò contro i primi e poiché, alla morte di Enrico VII, erano stati eletti ad un tempo Ludovico il Bavaro e Federico d’Austria, e Giovanni XXII aveva preso le parti di quest’ultimo, Ludovico appoggiò i Fraticelli, scese in Italia e nominò antipapa Nicolò V. – Roberto di Napoli come capo dei Guelfi marciò in difesa di Giovanni XXII e Ludovico, avendo poche milizie, lasciò Roma ed abbandonò l’antipapa al suo destino. Le lotte e le scomuniche continuarono fino alla morte di Ludovico, ed il Papa riuscì a far riconoscere come imperatore Carlo IV di Boemia. A Giovanni XXII successe Benedetto XII, poi Clemente VI, ed a Roma si disputarono il potere gli Orsini ed i Colonna. Di queste lotte approfittò Cola di Rienzo, figlio di un oste e di una popolana, per restaurare l’antica repubblica. Proclamato tribuno, Cola per le sue stranezze fu obbligato a fuggire presso Carlo IV, che prima lo imprigionò, poi lo mandò ad Avignone. Il nuovo pontefice Innocenzo VI inviò il tribuno in Italia con il card. Egidio d’Albornoz per occupare pacificamente Roma. Ritornato nella Città eterna e fatto senatore, Cola riprese la lotta contro i nobili, ma in un tumulto fu ucciso. L’Albornoz con le armi e con l’astuzia restaurò lo Stato pontificio ed il nuovo papa Urbano V, venuto a Roma, al rinnovarsi dei disordini dopo la morte dell’Albornoz, ritornò ad Avignone. Solo nel 1377 Gregorio XI, esortato da S. Caterina da Siena, si trasferì definitivamente a Roma.

D. Che cosa causarono le tristi condizioni in cui si trovò la S. Sede?

— Una sua vacanza per undici mesi e poi l’elevazione dell’Arcivescovo di Bordeaux, che prese il nome di Clemente V; ma le lotte che tenevano in perturbazione l’Italia fecero rifiutare a Clemente V di recarsi a Roma. Fissò la sua sede ad Avignone nel 1305 ed iniziò così quel calamitoso periodo della Chiesa che fu detto « Schiavitù Avignonese » e che durò fino al 1377.

D. Che cosa rappresenta la Schiavitù Avignonese?

— Uno dei periodi più funesti per la Chiesa in generale e per lo Stato Pontificio in particolare; perché l’autorità del Papa vide assai diminuito il proprio prestigio, apparendo influenzata dai re di Francia; e inoltre la lontananza della s. Sede dall’Italia procurò lo smembramento dello Stato Pontificio, con funeste conseguenze per l’ordine pubblico e per le condizioni di vita della città di Roma, divenuta null’altro che una miserabile borgata.

D. Chi caldeggiò il ritorno del Papa a Roma?

— Un’umile fanciulla senese, Caterina Benincasa, le cui suppliche accorate finalmente esaudite indussero Gregorio XI a rientrare a Roma. Era il 17 gennaio del 1377. I Romani l’accolsero con immensa festa.

3 – IL GRANDE SCISMA D’OCCIDENTE

PREAMBOLO

La parola scisma deriva dal greco « schizo », che significa « divido » ed è appunto, lo scisma, una divisione religiosa per cui, rifiutata la comunione con quella società religiosa cui prima si apparteneva, si fa corpo separato, scisso. Alla base di questa lacerazione dell’unità della Chiesa come Corpo mistico di Cristo sta, quindi, il rifiuto — per lo più collettivo — di ubbidienza, una ribellione per sé solo disciplinare alla autorità della Chiesa. Senonchè, dato il dogma del Primato di Pietro, lo scisma implica anche eresia sul piano pratico (C. J. C. can. 1325). Anche in Occidente si ebbe dal 1378 al 1429 un luttuoso periodo storico durante il quale la Cristianità, benché una nella Fede e nello spirito di ubbidienza ad un solo Pietro, non sapeva quale persona fosse il suo legittimo successore.

• * •

D. Quale conseguenza portò la « schiavitù avignonese »?

— Il grande scisma d’Occidente.

D. Come nacque?

— Quando alla morte di Gregorio XI (1378) si adunò il Conclave, venne eletto Urbano VI, santo uomo, ma di carattere focoso, non gradito ai cardinali francesi, che, riunitisi a Fondi, il 20 settembre 1378, fra l’universale sbalordimento, elessero Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. Morto Urbano VI, gli successero poi Bonifacio IX (1389 – 1404), Innocenzo VII (1404 – 1406), e Gregorio XII (1406 – 1417). All’antipapa Clemente VII, trasferitosi ad Avignone, successe Pietro di Luna (1394 – 1437) con il nome di Benedetto XIII.

D. Che si fece per risolvere la questione?

— Dopo infinite discussioni, nel 1409, si apri a Pisa un concilio di cardinali delle due obbedienze (romana e avignonese), depose i due Papi, come fautori di scisma eretici e, nel conclave che ne seguì, uscì eletto Alessandro V .

D. Quale la conclusione?

— Invece dell’unità della Chiesa si ebbero tre Papi simultanei a disputarsi il supremo potere.

D. Che cosa provocarono queste vicende della Chiesa?

— Provocarono dei moti ereticali. L’inglese Giovanni Wycliff, precorrendo Lutero, ammise la superiorità della Bibbia sul Papa e rimproverò al clero lo sfruttamento delle indulgenze.

D. Fu ben accolta in Inghilterra questa eresia?

— Fu avversata. Tuttavia essa trovò in Boemia un campione in Giovanni Huss e, siccome l’agitazione ebbe carattere nazionale e antitedesco, l’imperatore Sigismondo promosse a Costanza il 5 novembre 1414 un concilio che affermò la sua autorità sullo stesso Pontefice e mandò al rogo Huss ed il suo discepolo Girolamo da Praga.

D. Che fece inoltre il Concilio?

— Il concilio depose Giovanni XXIII, che era succeduto ad Alessandro V, scomunicò Benedetto XIII, accettò le volontarie dimissioni del Papa romano Gregorio XII (il Papa legittimo – n.d.r.), ed elesse il cardinale Ottone Colonna, che prese il nome di Martino V (11 novembre 1417).

D. Che fece Martino V?

— Aprì a Basilea, poco prima della sua morte, un altro Concilio, che il successore Eugenio IV cercò di sciogliere, per evitare che affermasse di nuovo la sua superiorità sul Papa. Vi furono delle proteste ed Eugenio IV trasferì il Concilio prima a Ferrara e poi a Firenze, anche per tentare, con la venuta dei prelati greci, la riunione della Chiesa latina con l’ortodossa.

D. Che avvenne intanto?

— Si riaprì lo scisma, perché alcuni Padri del Concilio di Basilea, non volendo ubbidire, deposero Eugenio IV ed elessero Amedeo VIII di Savoia con il nome di Felice V.

L’energia di Eugenio IV e del suo successore Nicolò V posero fine allo scisma, che fu detto « d’Occidente», per distinguerlo da quello d’Oriente provocato nell’880 da Fozio. Felice V depose volontariamente la tiara, ed una Bolla dichiarò eretico il principio della superiorità del Concilio sul Papa.

D. Avrebbe resistito un’istituzione terrena alla fiera tempesta?

— No, risponde il protestante Gregorovius, « ma così meravigliosa era l’organizzazione della Chiesa e indistruttibile l’idea del Papato, che la divisione ne mostrò l’indivisibilità ».

L’IDEA RIPARATRICE (7)

L’IDEA RIPARATRICE (7)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

Come riparare?

Tutti quanti i Cristiani sono tenuti alla riparazione, noi l’abbiamo visto fin qui: non tutti però debbono riparare allo stesso modo. Una madre di famiglia potrà essere una  « riparatrice », ma non come lo dovrà essere una Suora Carmelitana. – I doveri dello Stato, l’attraimento della grazia divina, l’indirizzo di un buon direttore, sono tre fattori che concorrono a formare lo spirito e la pratica della riparazione in ciascuno di quelli che volonterosi si mettono sulla « Via Regale della Croce ». Premessa questa distinzione del tutto elementare, possiamo determinare due gradi nell’offerta di sé all’idea riparatrice, secondo la parte più o meno grande che si vorrà dare alla Croce nella propria vita. Noi l’abbiamo detto: l’elemento principale in questa materia non è altro che la generosità d’animo: tutti dovranno riparare con una vita ordinaria, i più generosi tenderanno invece ad una vita perfetta.

CAPO PRIMO

COME RIPARARE NELLA VITA CRISTIANA ORDINARIA.

Troppo spesso si crede che per darsi alla Riparazione sia necessario ritirarsi nel silenzio d’un chiostro e nelle austerità della vita monastica, e praticare gli esercizi più duri della penitenza cristiana. Questo è un errore. La Riparazione non consiste in un insieme di pratiche presentate con programma determinato, è piuttosto un indirizzo spirituale che facilmente si adatta alle varie condizioni di vita, supponendo però che questa sia sinceramente cristiana. Un indirizzo spirituale. Quindi prima di ogni altra cosa convien porre per base una chiara conoscenza e un intimo sentimento della verità di un Dio Crocifisso e Crocifisso per noi, ma che aspetta la nostra cooperazione, mentre intorno a noi v’hanno delle anime, e purtroppo sono in gran numero, che vanno perdute. Questa Conoscenza è di somma importanza: eppure quanti Cristiani ne sono totalmente privi! Or bene è appunto nel viver animati intimamente da queste due grandi idee che consiste l’indirizzo spirituale o se si vuole lo spirito di riparazione (Il Can. LEROUX di Bretagna dice molto bene: « La vita riparatrice non è per sé una forma speciale di vita cristiana, ma neppure si può dire che sia una vita comune, poiché non si trova purtroppo presso tutti i fedeli ». E la ragione si è che per l’una parte conviene sforzarsi a menare una vita veramente cristiana, il che è più raro di quanto si creda; e dall’altra parte « le attrattive che sente l’anima che pur cerca di santificarsi non sono sempre verso questo ideale particolare. Può provar desideri anche forti della santità in genere senza fissarsi esplicitamente nella pratica della riparazione ». “La vie reparatrice”). E questo ce spirito » manifesta subito le sue esigenze. Un’anima cristiana dominata dall’idea riparatrice comprende che prima di tutto essa dev’esser fedele alle promesse fatte nel S. Battesimo, ai comandamenti di Dio e della Chiesa, e non solo con una fedeltà trasandata come per lo più accade a molti, ma interamente, rigorosamente, senza scuse, senza transazioni, sia nella vita individuale che in quella sociale e famigliare. L’orizzonte si delinea fin dal principio nella sua vastità. Un romanziere americano prese come tema delle sue opere la seguente storia: Un pastore dovendo preparare il suo sermone scelse come testo: « Ecco la vostra vocazione. Gesù Cristo ha sofferto per voi, questo esempio dev’esser seguito da voi passo a passo fino alla perfezione ». Venuta la domenica egli recita il suo discorso dinanzi ad un uditorio mondano che l’ascolta colla solita attenzione. D’un tratto un vecchio mendicante entra precipitoso e grida: « Come non sentite voi vergogna? Voi che osate cantare: Gesù io presi la mia croce pesante E per seguirti tutto abbandonai? e poi vivete così come fate? ». Al termine della sua sfuriata egli cade morto. Impressione enorme tra gli uditori, anche maggior impressione nell’animo del Pastore. Venuta la domenica seguente egli propone alle sue pecorelle di fondare una lega in cui ciascun membro si obblighi a interrogare se stesso al cominciare di ogni azione: « Che farebbe Gesù se fosse qui in questo momento? ». Molti vi danno il loro nome: degli uomini politici, dei commercianti, dei giornalisti… e tosto in conseguenza della parola data s’accorgono di dover mutar completamente la loro vita. Il sig. E. Norman, direttore del Raymond Daily News, è uno dei segnatari: gli si presenta un lungo articolo sulle corse, tre colonne e mezza. Egli s’interroga: « Se Gesù Cristo avesse la responsabilità del giornale lascerebbe Egli uscire queste tre colonne di scritto così com’è…? …No ». E l’articolo è cestinato. E queste notizie politiche?… E gli annunzi di quarta pagina?… ». E il giornale muore. È questo un romanzo — e portato all’esagerazione; — però l’idea non è cattiva, tutt’altro. Quanta perfezione di vita cristiana si potrebbe facilmente avere se, come gli ascritti alla lega del romanzo americano, noi ci proponessimo di riflettere al cominciare delle nostre azioni: « Qui. a mio posto, in questa circostanza, che farebbe Gesù Cristo? ». E chi non vede che d’un tratto noi avremmo certamente una profonda mutazione nella condotta dei singoli individui, nelle relazioni tra i popoli, nella vita delle famiglie e della società? Studiando la questione, delicata insieme e importantissima ai nostri giorni, del ripopolamento della famiglia, materia in cui purtroppo molti Cristiani mancano ad un preciso loro dovere, un autore diede all’opera sua questo titolo : « La Francia ripopolata dai Cristiani praticanti », titolo con cui si formula tutto un programma mentre si esprime ancora unacondanna. – Come in siffatta materia così in tutte le altre di dominio della morale pubblica nulla si potrà « riparare » senza l’intervento efficace dei veri Cristiani: e ancora conviene che non vengano meno al loro compito ma siano Cristiani intrepidi, tutti d’un pezzo, come si esprimeva L. Veuillot, anche « sfrontati ». Le occasioni di praticar la propria fede fino al sacrifizio non mancano mai per le anime generose. Noi abbiamo già combattuta la tendenza che hanno molti Cristiani a farsi una Religione che non li disturbi troppo. Il Card. Manning scriveva: « Noi viviamo in tempi facili. Chi digiuna ancora ai nostri giorni? ». E vero che la Chiesa si mostra indulgente, tuttavia « riflettiamo che anche ai nostri giorni gli israeliti tre volte nell’anno non prendono cibo alcuno dal levare al tramontar del sole: amaro rimprovero per noi che siamo discepoli di Gesù Crocifisso ». Quali sofferenze non hanno dovuto sostenere durante l’ultima guerra certi nostri soldati, ad esempio quei fucilieri di marina dell’epopea di Dixmude, che dovettero rimanere coi piedi nell’acqua per ventisei giorni senz’altro nutrimento che qualche scatola di conserva? La causa che difendevano ne valeva certo la pena. Ma la causa di Gesù Cristo non è forse più nobile ancora? Perché noi vorremmo limitare i nostri sacrifizi? Intorno a noi che non si fa per seguire il mondo, per adattarsi alla moda del giorno! E per le anime? — Per Gesù Cristo? Noi amiamo piuttosto i crocifissi di lusso, non troppo sofferenti, d’avorio su fondo vellutato. Lasciatecelo ripetere: non son quelli i « veri » crocifissi. I veri sono meno fini e sopra di essi non vi si sta troppo comodamente. Quando Eraclio poté ricuperare la Croce, rimasta per quattordici anni bottino di guerra nelle mani dei persiani di Cosroe, volle portarla egli stesso fino alla sommità del Calvario ed a questo fine rivestì gli abiti regali più sfarzosi, colle perle preziose e la sua corona da imperatore. « Non così, Maestà, gli disse il Vescovo di Gerusalemme, non così! C’è troppo contrasto tra il lusso del vostro abbigliamento e la povertà della Croce ». E l’imperatore cambiò il suo oro e le sue perle con un povero cilicio. La Croce del Salvatore è una croce che crocifigge. Infatti è una vera contraddizione quella che vediamo praticare da molti Cristiani, che pretendono seguire Gesù Cristo e poi mettono ogni cura per evitare le penitenze più semplici e più ordinarie imposte per legge dalla Chiesa. Scherzando il Cardinale Manning si rivolge ad essi: « Permettetemi ch’io vi domandi se voi stessi credete al vostro prossimo quando lo sentite dire che non può digiunare, fare le astinenze del venerdì, che queste cose nuocciono alla sua salute, ecc.? » E poi aggiunge: «Se io pervenissi a turbare qualche poco la vostra coscienza non ne proverei dispiacere, poiché io son convinto di vivere in un tempo in cui la mollezza dei costumi tende a far «comparire la dolce severità delle leggi ecclesiastiche ». – Così si vede che senza andar troppo lontano, col solo praticare la lettera — o almeno lo spirito — dei comandamenti di Dio, si presentano a mille a mille le occasioni di offrire al Signore dei sacrifizi ben meritorii per la riparazione. Accettiamo dunque per prima cosa le mortificazioni che ci vengono imposte dalla Chiesa e poi in secondo luogo quelle che ci si presentano nelle diverse circostanze della nostra vita. Anche queste abbondano: rovesci di fortuna, malattie, lutti, disgrazie, dispiaceri d’ogni sorta. La vita ne è colma e può esser paragonata ad una lira con sette corde, sei dedicate al dolore e una alla gioia. Bossuet comparava i minuti di vera felicità nella nostra vita a quei chiodi d’oro che adornano una porta; visti di lontano sembrano migliaia; strappateli, appena riempiono il cavo d’una mano. Le nostre gioie sono come le pietre di un torrente, instabili, e lontane l’una dall’altra, che se volete passarlo appena ponete il piede sopra l’una di esse, subito dovete saltare ad un’altra e così di seguito senza potervi arrestare. Ma tu chi se’ che sì se’ fatto brutto? domanda Dante (Inf. C. 8, v. 35) a un dannato mentre questi lo vede passare nella barca di Virgilio. Rispose: « Vedi che son un che piango ». « Uno che piange!». Ecco quella che può dirsi la definizione di ogni uomo quaggiù, specialmente in certi giorni. E allora come fa pena il vedere che non si sa trarre profitto da quelle lagrime che pur non si può non versare! Ciascuno di noi colla somma dei patimenti di cui è formata la vita, come con un capitale, avrebbe modo di guadagnare dei meriti immensi. E la maggior parte non ne fa nulla, non ci pensa: invece di utilizzare le proprie croci per il Cielo e per le anime, le sciupa, non ne ritrae nulla… peggio, ribellandosi, trova in esse un’occasione di nuovi peccati. Che si direbbe di un uomo che possedendo una fortuna in tutte monete d’oro, invece di portarle alla banca per la « ristorazione nazionale » le andasse gettando ad una ad una dall’alto di un ponte in un profondo abisso?… – Appena siam raggiunti da un qualche patimento la prima cosa che facciamo è per lo più il lamentarci, il prendercela con Dio: « Io vorrei, diceva Nostro Signore a S. Geltrude, che almeno i miei amici non mi giudicassero tanto crudele. Dovrebbero farmi l’onore di pensare che se talvolta li obbligo a servirmi con fatica, e quasi con loro sacrifizio, io lo faccio pel loro bene, anzi pel loro maggior bene. Io vorrei che invece di irritarsi contro i loro dolori, vedessero in essi uno strumento del mio amore di Padre… ». I Cristiani ferventi lo comprendono benissimo. Ai piedi del letto di morte di un loro figlio, giovane religioso, loro rapito da un morbo fulminante, il padre e la madre si scambiano le seguenti parole: « Vuoi che recitiamo il Te Deum? — Oh sì, di tutto Cuore! ». Ampère si era da poco sposato. La vita gli si affacciava tutta in festa: quand’ecco una malattia colpisce la sposa e minaccia di rapirgliela. Ampère, benché tutto immerso nella trepidazione, ha la forza di scrivere: «Mio Dio, io vi ringrazio… Io vedo che voi volete che io viva solo per voi, che tutti i miei istanti vi siano dedicati. Volete voi togliermi tutta la felicità che io posseggo quaggiù? Voi ne siete il padrone, o mio Dio! le mie colpe meritano bene questa punizione. Ma io spero che voi ascolterete ancora una volta la voce della vostra misericordia ». Qual meravigliosa forza può dare al povero cuore di un uomo una fede veramente profonda! – Una madre riceve la notizia che il figliuolo suo è ferito da un obice e spaventosamente mutilato, ma non ha perduto per nulla il suo coraggio eroico. Essa scrive di lui : « Egli soffre una vera passione in unione col nostro caro Gesù e fa meraviglia il veder questo mio figlio felice, crocifisso, steso sulla croce sanguinolente, rimanersene tranquillo e sorridente nel suo martirio di ogni momento… Io ringrazio il Signore… che l’ha messo a parte dei patimenti redentori del Calvario. Noi non possiamo comprendere, così afflitti come siamo, i misteri di misericordia che rimangono nascosti sotto queste prove, ma io credo che in cielo ci saranno svelate le ricchezze di queste sanguinose immolazioni e che intanto questi poveri feriti sono ben potenti presso Dio ». Il povero mutilato si preparava pel sacerdozio, quindi la madre continua: « Poco importa il modo con cui vien fatto il sacrifizio, purché il Signore prenda quanto Egli crede bene e ritragga dalla sua creatura quella gloria che gli è gradita… Se L . . . non potrà più essere sacerdote, sarà certamente Ostia e questo è l’Ufficio di Gesù Cristo: chi dunque potrà lamentarsi nel vedersi trattato come lo fu il Figlio di Dio? ». Poco tempo dopo anche il fratello del povero mutilato cade gloriosamente sul campo; e la madre, forte sempre, esce in questi accenti di rassegnazione: « Povera piccola vittima che si aggiunge a tante altre! Ci fu dato da Dio perché lo conducessimo al Cielo; egli vi è arrivato. Ringraziamo il Signore. Tuttavia per noi che abbiamo una fede ancora debole è cosa dolorosa ». Quante madri, quante sorelle, quante spose che per ragione della grande guerra sono ormai destinate ad essere altrettanto « dolorose »! Così tutte avessero il coraggio di trasformare il sacrifizio che venne loro « imposto » in sacrifizio « volontario » e dicessero al Signore: « Gesù, grazie per avermi associata in questo modo alla vostra Croce. Voi avete voluto il sangue di chi era come una parte di me stessa, voi volete le mie lagrime., io ve le offro tutte quante. Forse in me stessa non troverei la forza di dirvi: prendete… Ma ormai voi avete preso quanto avete voluto, io voglio almeno aver il coraggio di dirvi che voi avete fatto bene… che ho capito… che io mi rassegno… – Io non mi sento ancora di pronunziare l’Alleluja, mormorerò per ora sommessamente: Amen, così sia ». Parlando del proprio figliuolo, vittima come tanti altri nella gloriosa ma sanguinosa guerra, una persona diceva in confidenza ad una sua amica: « Voi lo sapete benissimo, già prima io l’avevo offerto al Signore, quindi al presente rimetto nelle mani sue il mio olocausto non soltanto accettando ma volendo quanto Egli ha disposto ». Si noti che le parole furono sottolineate dalla madre stessa. « II mio povero cuore, scrive una delle sì numerose e sì valorose nostre vedove di guerra, i l mio povero cuore che non può abituarsi alla solitudine prova un’ardente sete di darsi ancor più completamente a Dio, di offrirsi totalmente senza riserva ». — Sete avventurata, così il Divin Maestro la comunicasse questa sete ad un grande numero di anime. — Essa riconosce che « il suo amore era forse troppo umano, diventerà ora più sovrannaturale » . — Questo è appunto il desiderio del Signore, quello che forse Egli aveva di mira nel permettere la tribolazione. — Ed essa prega per « avere il grande coraggio di offrirsi sempre più al Signore ». – Le ammirabili suore che dirigono la Casa di salute di Villepinte hanno fondato fra le loro ammalate un’associazione detta « della riconoscenza ». Una delle ragazze esitava nel darvi il suo nome: « Io temo, diceva, di non saper dire grazie al Signore, quando io soffro ». per riuscire a trionfare di un siffatto timore, ecco un eccellente mezzo e molto pratico per tanti poveri cuori che sanguinano disorientati per gli ultimi avvenimenti: offrirsi a Dio in « ostia » di amore e di riparazione. « Questa è la più grande ricchezza dell’anima, diceva S. Giovanna Francesca dì Chantal, soffrire molto per amore ». I veri Cristiani non lo ignorano e lo mettono in pratica. « L’anima si può unire a Dio colla preghiera, come pure lo può fare col lavoro: ma il patimento accettato per piacere a Dio, il patimento offerto a Dio, il patimento diventato caro per amore di Dio unisce l’anima al suo Signore ben più intimamente. Un patimento simile è la migliore delle preghiere, è la più fruttuosa delle fatiche ». Son queste parole del P. Ramière, ed il P. Ponlevoy rincalza: « La più dolce consolazione di questa vita e la più grande fortuna dell’anima nostra è certamente quella li unirci a Gesù Cristo. Ma non si può negare che v’ha ancora di meglio: ed è di conformarci alla volontà di Dio e di esser confitti in croce insieme a Gesù Cristo, o, che è la stessa cosa, attaccati a Gesù Cristo per mezzo della sua Croce ». – È nota l’ammirabile « Preghiera di Pascal per il tempo delle infermità. » In essa, meglio che altrove, si manifesta l’intenzione di trarre grande profitto dalle malattie tanto penose e così facilmente riparatrici. « Non permettete, Signore, che io possa ricordare l’anima vostra contristata fino alla morte e il vostro corpo pesto dai flagelli e dissanguato per i miei peccati senza sentirmi contento di patir qualche cosa anch’io nel mio corpo e nella mia anima. Difatti che v’ha di più vergognoso e tuttavia anche più frequente nei Cristiani e in me stesso, che mentre voi agonizzate e trasudate sangue noi viviamo tra le delizie? Liberatemi, o Signore, dalla tristezza che l’amor sregolato di me stesso mi potrebbe suggerire… ma infondete nell’anima mia una tristezza conforme alla vostra. Che i miei patimenti servano a dissipare la vostra collera… Io non vi domando né sanità, né malattia, né vita, né morte: ma che voi disponiate della mia sanità e della mia infermità, della mia vita e della mia morte per vostra gloria, per mia salvezza eterna, e per l’utilità della Chiesa e dei vostri Santi ». Degne d’esser citate a fianco della Preghiera di Pascal riferiamo alcune frasi di un’anima che pur visse nel mondo e che aveva per divisa preferita « adoratrice, riparatrice e consolatrice » : « Mio Dio, diceva Elisabetta Leseur (dal suo diario), io sono e voglio esser sempre tutta vostra nella pena e nella gioia, nell’aridità e nella consolazione, nella sanità e nella malattia, nella vita e nella morte. Io non desidero che una cosa sola: che la vostra volontà sia fatta in me e per mezzo mio. Io non ho altra mira e sempre più desidero di non averne mai altra che questa: raggiungere la vostra maggior gloria corrispondendo il meglio che posso ai vostri disegni sopra di me. Io mi offro a voi in un’intima e completa immolazione e vi supplico di servirvi di me come di un vile ed inutile strumento in favore delle anime che vi sono care per vostro servizio ». Secondo il parere di tutti gli autori ascetici le « croci » che ci vengono imposte sono le migliori, « Le migliori croci sono le più pesanti, e sono più pesanti quelle che vanno contro il nostro gusto, quelle che non sono sottoposte al nostro arbitrio: le croci che incontriamo per via. e anche meglio quelle che troviamo in casa nostra… Queste sono più utili che i cilici, le discipline, i digiuni e quante altre austerità si possano inventare. Le croci che sono oggetto di nostra scelta hanno sempre alcun che di amabile e di gradito, perché in esse c’è del nostro, quindi sono meno atte a crocifiggerci. Umiliatevi dunque e ricevete con gaudio quelle croci che vi vengono imposte contro il vostro genio ». Abbiamo riconosciuto in queste parole S. Francesco di Sales. Dobbiamo dunque conchiudere, come per lo più si fa coi Cristiani ordinari, che le penitenze volontarie sono da lasciarsi esclusivamente ai religiosi ed ai claustrali? No, certamente. Ascoltiamo a questo proposito il Card. Manning il quale dopo aver raccomandato la fedeltà alle mortificazioni raccomandate per legge dalla Chiesa come il meno che siamo tenuti a fare, aggiunge: « Andrò più innanzi. V’ha ancora ai nostri tempi chi abbia il coraggio di condurre la vita dei santi? Noi ne leggiamo la vita e li ammiriamo: conosciamo le austerità con cui si affliggevano e la povertà in cui vivevano e ne facciamo oggetto delle nostre lodi, intanto però ci sentiamo i brividi nelle ossa. Che sappiamo noi fare? Quali sono le nostre penitenze? Dov’è per noi la livrea di Gesù Cristo?… Noi cerchiamo… che il mondo ci ponga nelle file di quelli che gli appartengono. E noi ci crediamo Cristiani!». Egli parlava ai suoi compatrioti, gli inglesi, grandi amatori, come tutti sanno, del « comfort »; ma il consiglio non è inopportuno anche al di qua della Manica. Quanti Cristiani in punto di morte non dovranno rivolgere a sé stessi quello stesso rimprovero che in tempo di Esercizi Spirituali e per umiltà Paolina Reynolds (Entrata in convento tra le Carmelitane di Avranches in età di 57 anni) faceva a se stessa: « Non trovo più modo di dilatare questo povero mio cuore destinato ad esser ricolmo di vita divina. Non c’è più tempo. Avrei potuto dispormi con una più fedele corrispondenza a riceverne centomila volte più nell’eternità e non l’ho voluto fare, lo non mi sono voluta disturbare che con “misura” ». Se invece di una fedeltà qualsiasi, d’una fedeltà « dosata abilmente » ci decidessimo ad esser generosi senza alcuna misura, quale cumulo di meriti noi non potremmo versare nel tesoro della Comunione dei santi! Ecco in quale maniera, secondo l’autore della Mission du Saint-Esprit dans les àmes (Card. Manning, p. 450)), noi dovremmo riparare: « Anzitutto colla nostra prontezza nel seguire le inspirazioni dello Spirito divino, poi con una fedeltà proporzionata alla sua grazia e nella stessa misura dei suoi doni e non già con un gesto gretto nascondendo sotterra il talento ricevuto: conviene farlo fruttificare e di mille talenti riprodurne diecimila… Finalmente bisognerebbe servirlo con grande purità di cuore, e con questo intendo due cose: non soltanto l’evitare tutto quanto potrebbe macchiare il nostro cuore, ma ancora il rinunziare a tutto quello che lo potrebbe dividere… ». Come si vede non manca modo di riparare: ma una cosa manca purtroppo! E queste sono le anime che diano mano a questi diversi modi, le anime che accettino di combattere non solo contro il peccato ma contro i minuti difetti; le anime che si consacrino risolute non già a pratiche straordinarie ma al perfetto compimento dei piccoli doveri per riparare. Noi spesso sogniamo imprese impossibili. « È invece nelle piccole cose che si rivela un grande amore; per le cose grandi siamo come portati e non ne sentiamo la difficoltà, ma per le ordinarie, le meschine, le noiose è necessaria una dimenticanza di sé che supera le forze comuni » (Vallery-Radot: Le vase d’albatre, nella Revue des Jeunes del 25 settembre 1917). Mgr. De Ségur diceva colla solita sua finezza e col suo buon senso: « La nostra santificazione è come un edifizio fatto di grani di sabbia e gocce d’acqua; un’occhiata repressa, una parola trattenuta, un sorriso interrotto, una linea incompiuta, un ricordo soffocato; una lettera cara percorsa rapidamente e poi riposta; un piccolo movimento naturale coraggiosamente frenato: un importuno, un noioso dolcemente sopportato: una scappata, un ghiribizzo immediatamente compresso: la privazione di una spesa inutile; una nube di tristezza dolcemente dissipata; una gioia naturale temperata con uno sguardo all’Ospite divino del proprio cuore; una ripugnanza vinta; che so io? cose da nulla, impercettibili all’occhio degli uomini ma ammirabilmente visibili allo sguardo interiore di Gesù Cristo; su queste cose fissiamo tutta la nostra attenzione, esse sono nello stesso tempo piccolissime e grandissime fedeltà che attirano sulle anime nostre veri torrenti di grazie… ». – Oh! i poveretti che siamo noi se queste minuzie di rinunzie bastano a misurare le nostre forze. Ma questo è un fatto e nessuno che abbia provato a praticare di cotali piccole immolazioni, potrà contradire all’osservazione che l’abate Perreyve deduce dall’esperienza: « Quando si è ancor fanciulli sembra cosa del tutto facile e naturale l’essere degli eroi o dei martiri. Ma coll’avanzarsi nella vita si viene a scoprire il prezzo d’un semplice atto di virtù e Dio solo può darci la forza di esercitarlo ». Siamo dunque i fedeli operai delle umili fatiche. Chi potrà dire se durante la guerra la salvezza di più d’uno, caduto nelle trincee o mentre marciava all’assalto non fu il frutto di una povera preghiera d’una umile vecchierella che offriva i suoi dolori pel nipote lontano? Chi sa dove va a colpire durante la mischia la palla tirata dal più umile fantaccino? E non si dica: « Con che cosa e come riparare? Io sono sì miserabile; io non posso che dire col Profeta : A, a, a et nescio locui, io non posso che dare un gemito inarticolato e confessare la mia impotenza. Che potessero riparare i Santi, si comprende., ma io? ». — Voi il potete fare, così quale voi siete, colla vostra fedeltà, compensando per le vostre miserie e facendo un’opera di giustizia. Voi potete fare ancor più: per le vostre miserie lasciate fare al Signore, e i vostri meriti offriteli a Lui per compensare le colpe e i peccati altrui. Noi presi da soli per la riparazione nulla possiamo, è verissimo; ma insieme colla grazia di Dio, che non manca agli umili e ai volonterosi, siamo una forza, siamo un valore più grande di quello che possiamo immaginarci. Gesù Cristo quando tolse la fame ai cinque mila uomini nel deserto, di che si volle servire? Di soli cinque pani e due pesci. Anche allora i mezzi furono per se stessi insufficienti al fine. Per finire di convincerci di questa verità ascoltiamo ancora una « professionista » della Riparazione (Simona Denniel: Une ame réparatrice, p. 75): « Per fare un’ostia il Signore non volle servirsi dell’oro, dell’argento o di pietre preziose, ma di un misero pezzetto di pane, cosa del tutto volgare e di nessun valore ». Chi si faceva coraggio in questa maniera dimostrava pure la sua umiltà, ma per noi le sue parole sono principalmente una verità sicura che deve infonderci lena e coraggio nel praticare la riparazione.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/12/lidea-riparatrice-8/

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “IN GRAVISSIMIS”

In questa drammatica lettera Enciclica, scritta a ridosso dei funesti avvenimenti della massonica rivoluzione francese del 1789, il Santo Padre Pio VI, concede agli ecclesiastici coinvolti dalle tragiche conseguenze della ribellione a Dio e alla sua Chiesa, una serie di indulti straordinari per regolare situazioni anomale concernenti questioni diverse. Ecco come il Sommo Pontefice, nella sua qualità di Vicario di Cristo, assumendosi tutte le gravi responsabilità che il suo augusto ruolo gli impone, interviene in questioni della massima importanza dottrinale e giurisdizionale. Nel suo esordio si citano le parole che San Paolo rivolgeva al suo amato discepolo e da lui fatto Vescovo: Timoteo, parole particolarmente idonee nel rappresentare, seppur succintamente, le condizioni in cui i prelati dovevano operare:  « … in questi tempi pericolosi, nei quali molti, anzi troppi, figurano nel numero di coloro di cui parla profeticamente l’Apostolo, di coloro cioè che “non sopportano più la sana dottrina e si circondano di maestri che corrispondano ai loro desideri, rifiutando di dare ascolto alla verità“… »; sono queste parole che oggi soprattutto sono quanto mai opportune per inquadrare le vicende spirituali e dottrinali dei nostri tempi, tempi in cui ognuno si affida alle proprie fantasie dottrinali, alle favole massoniche spacciate per verità e mascherate da culti blasfemi che solo gli ignoranti [di cose religiose] non riescono a cogliere e delle quali non avvertono il fetore nauseabondo con cui vengono avvolti riti anticristiani, blasfemie diaboliche, adorazioni luciferine, come quelle della messa del baphomet, “signore dell’universo” [quella di BUAN 1365/75 e del patriarca universale degli Iluminati], della setta modernista del N. O. M., che si è insediata là.. dove abita satana (Apoc. ii) , cioè sul colle Vaticano, ove un tempo S. Pietro aveva la sua cattedra di Verità usurpata da Simon mago, anzi dai “simon maghi” della cattedra pestilenziale. Non parliamo poi delle fantasie apocalittiche di cabarettistici eretici e scismatici sedevacantisti, nonché dei paramassonici fallibilisti gallicani, i falsi sacrileghi prelati creati dal 30° F. M. cavaliere kadosh di Lille, fiancheggiatori dei servi della “bestia”, con i quali sono “una cum” e dai quali ricevono prebende e sostegni. Ma tutto Dio permette a nostro castigo e per trarre maggior gloria dall’empietà confusa degli uomini.

Pio VI
In gravissimis

Roma, 19 marzo 1792

1. Nelle gravissime e molteplici preoccupazioni che dobbiamo continuamente sostenere, per quella sollecitudine a favore di tutte le Chiese che Ci è stata affidata dal supremo Principe dei Pastori, Gesù Cristo, in questi tempi pericolosi, nei quali molti, anzi troppi, figurano nel numero di coloro di cui parla profeticamente l’Apostolo, di coloro cioè che “non sopportano più la sana dottrina e si circondano di maestri che corrispondano ai loro desideri, rifiutando di dare ascolto alla verità, Noi non troviamo maggiore e più dolce conforto che comunicare con i Nostri Fratelli Vescovi che, chiamati a far parte della Nostra stessa sollecitudine, si dedicano con animo alacre e coraggioso ad eseguire i doveri del loro ufficio e a provvedere alla salvezza del gregge loro affidato con grande diligenza e nel migliore modo possibile.

2. Abbiamo provato recentemente una grande consolazione quando abbiamo letto e riletto la lettera piena di zelo che Ci avete inviato il 16 dicembre dello scorso anno voi che vi trovate a Parigi, e quella che Ci hanno scritto l’8 gennaio del corrente anno i vostri Fratelli Vescovi che risiedono a Roma. Da queste lettere abbiamo appreso che Ci chiedevate di investire con un indulto generale tutti i singoli Vescovi del Regno di Francia e gli amministratori delle Diocesi (per il tempo in cui sono vacanti le Sedi Episcopali) di alcune più ampie facoltà, onde possano pascere e governare più facilmente il gregge affidato.

3. Non abbiamo trovato alcuna difficoltà a riconoscere quanto giusta fosse questa richiesta, così corrispondente alla malvagità dei nostri tempi e così degna dei sacri Presuli che riconoscono i doveri del loro ufficio e intendono compierli con tutte le loro forze. – Alla fine delle lettere di cui abbiamo parlato, essi testimoniano l’ossequio che le Chiese Gallicane professano verso l’autorità della Sede Apostolica mediante alcune dichiarazioni, due delle quali vogliamo riportare. – La prima dichiarazione è: “Non si deve esercitare nessuna facoltà proveniente dalla Santa Sede o in proprio o da usare attraverso delegati subalterni senza una previa dichiarazione da iscriversi nello stesso corpo dell’atto, cioè che si proceda in virtù del potere delegato dalla Sede Apostolica, annotando anche la data della concessione. La seconda dichiarazione è: “Si osserveranno rigorosamente i decreti e le disposizioni dei Sommi Pontefici, dei Concilii, nonché le consuetudini della Chiesa di Roma verso la Chiesa Gallicana nel concedere dispense, nell’assolvere da censure e in tutti gli altri atti compiuti in forza di indulti.

4. Pertanto su consiglio di una speciale Congregazione di Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa tenuta in Nostra presenza il 19 gennaio scorso, concediamo alle vostre Fraternità e a voi diletti Figli amministratori delle Diocesi, per mezzo della presente lettera, per il tempo e nel modo precisati nel presente indulto, le facoltà qui descritte e delle quali devono valersi alcune Sedi Episcopali più di altre.

5. Pertanto confortatevi, Venerabili Fratelli nel Signore, e per la potenza del suo braccio, indossando l’armatura di Dio contro i dominatori di questo mondo di tenebre, combattete come già avete fatto, quali valorosi militi di Cristo. Più che mai in tempo di tribolazione è necessario che i sacri Presuli mostrino quella solida virtù cristiana e quella sacerdotale costanza della quale devono essere dotati, secondo le parole dell’Apostolo, “al fine di essere in grado di esortare i potenti nella sana dottrina e di richiamare coloro che la combattono. – Vi assicuriamo pertanto, sempre, ogni miglior difesa da parte della Nostra autorità pontificia, e la testimonianza della Nostra paterna benevolenza. Come pegno di entrambe impartiamo a voi, diletti Figli, Venerabili Fratelli, con tanto affetto la Benedizione Apostolica. Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.

* * *

FACOLTÀ CONCESSE DALLA SEDE APOSTOLICA

Ai singoli Arcivescovi e Vescovi e Amministratori delle Diocesi del Regno di Francia, che hanno comunione e grazia con la Sede Apostolica.

6. I. Facoltà di assolvere da tutti i casi in qualsiasi modo riservati alla Santa Sede, e particolarmente di assolvere da tutte le censure ecclesiastiche qualsiasi laico ed ecclesiastico, sia secolare, sia regolare, di ambedue i sessi; e anche coloro che aderirono allo scisma e prestarono giuramento civile e perseverarono in esso oltre i quaranta giorni stabiliti nella lettera apostolica del 13 aprile dello scorso anno per la sospensione a divinis, purché tuttavia abbiano ritrattato pubblicamente e palesemente tale giuramento, e abbiano riparato nel miglior modo possibile allo scandalo dato ai fedeli.

7. II. Facoltà di dispensare coloro che, già iniziati allo stato ecclesiastico, devono essere promossi agli Ordini minori o anche agli Ordini sacri, dalle irregolarità contratte in qualsiasi modo; anche da quella che hanno contratto i violatori della sospensione latæ sententiæ comminata con la stessa lettera del 13 aprile, purché essi, prima di essere dispensati, ritrattino il giuramento civile, prestato in modo puro e semplice, con una ritrattazione pubblica e palese. Si eccettuano tuttavia quelle irregolarità che provengono da bigamia accertata o da omicidio volontario: ma anche in questi due casi si concede la facoltà di dispensare se ci fu una precisa necessità o costrizione di lavoratori buoni e probi, purché, riguardo all’omicidio volontario, non sorga scandalo da una tale dispensa.

8. III. Facoltà di dispensare e commutare anche i voti semplici di castità, per una causa ragionevole, in altre pie opere; e questo per quelle Congregazioni di uomini e donne che sono stretti da questi vincoli, ma non dal voto (solenne e perpetuo) di religione.

9. IV. Facoltà di dispensare nei matrimoni già contratti o da celebrare sull’impedimento di pubblica onestà derivante da legittimi sponsali. – Di dispensare sull’impedimentum criminis se nessuno dei due coniugi ha collaborato, e di restituire il diritto di risarcimento del debito perduto in conseguenza dell’impedimento. – Di dispensare negli impedimenti di cognazione spirituale fuorché tra il padrino e il figlioccio. Di dispensare nel terzo e quarto grado di consanguineità e di affinità semplice e anche mista, tanto nei matrimoni già contratti quanto in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi. – Di dispensare anche nel secondo grado di consanguineità semplice e mista, purché in nessun modo si tocchi il primo grado, sia nei matrimoni già contratti, sia in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi. Tutte queste dispense matrimoniali non devono essere concesse se non con la clausola: “Purché la donna non sia stata rapita, e, qualora fosse stata rapita, finché resta in potere del suo rapitore.

Inoltre gli Arcivescovi, i Vescovi e anche gli Amministratori delle Diocesi (onerata con somma gravità la loro coscienza) sono tenuti a trascrivere tutte e singole le dispense matrimoniali concesse o da concedersi in un registro autenticato, che deve essere conservato presso di loro accuratamente e occultamente, con i nomi di tutti coloro che hanno ottenuto la dispensa.

10. V. La facoltà di dispensare, in caso di minore età, di tre mesi per ricevere gli Ordini sacri, salvi gli indulti di dispensare di tredici mesi, in caso di minore età, già concessi dalla Sede Apostolica ad alcuni Vescovi e Amministratori di Diocesi.

11. VI. La facoltà di conferire gli Ordini al di fuori dei tempi stabiliti in caso di utilità o di necessità, se si tratta di Vescovi; e di dispensare a favore di chi deve ricevere gli Ordini fuori dei tempi stabiliti, se si tratta di Amministratori delle Diocesi vacanti.

12. VII. Facoltà di disporre dei benefici parrocchiali e di altri titoli ecclesiastici ai quali è connessa la cura d’anime, in favore di sacerdoti secolari oppure di regolari, di qualsiasi Istituto, senza tener conto della secolarità o della appartenenza religiosa di tali titoli, in mancanza di sacerdoti secolari ai quali conferire i predetti benefici secolari, o in mancanza di sacerdoti religiosi ai quali conferire i benefici degli Ordini religiosi. Si concede pure facoltà di conferire questi benefici, nonostante la regola dei mesi e l’usanza di alternare, per quelle Diocesi nelle quali si osservano la predetta regola dei mesi e l’usanza di alternare.

13. VIII. Facoltà di concedere ai religiosi di qualsiasi Ordine o Congregazione la possibilità di passare in altro Istituto, anche se la regola vigente in quest’ultimo fosse meno austera di quella dell’Istituto nel quale fecero la loro prima professione.

14. IX. La facoltà di concedere ai religiosi regolari esenti e anche non esenti, di qualsiasi Ordine o Istituto, che furono costretti a vivere fuori del convento e a deporre l’abito religioso, di indossare abiti secolari, purché convenienti ad un ecclesiastico; e di continuare a vestire tali abiti sotto l’obbedienza del Vescovo, qualora manchino i relativi Superiori regolari oppure non siano in grado di esercitare qualsiasi giurisdizione sui loro sussidi, fermo sempre restando l’obbligo di osservare i voti solenni.

15. X. La facoltà di presiedere alle elezioni e di confermarle e di dare le obbedienze e di esercitare tutti gli uffici dei superiori immediati nelle case delle fanciulle soggette alla direzione di religiosi, ogni qualvolta questi siano assenti o impediti o negligenti nell’esercizio del loro ufficio. I Vescovi possono procedere come delegati della Sede Apostolica, salvo tuttavia i diritti notoriamente esistenti per qualsiasi titolo nei confronti delle stesse case e delle persone, a norma di speciali clausole canoniche. Parimenti ai medesimi, come delegati della Sede Apostolica, è data facoltà di concedere ai religiosi di ambedue i sessi, anche esenti, sia a tutti collettivamente, sia in particolare ai singoli, la dispensa dall’osservare quella parte di regole e costituzioni che nella presente situazione non può essere osservata senza grave pregiudizio.

16. XI. Facoltà di impartire l’indulgenza plenaria in articulo mortis nella forma prescritta dal Sommo Pontefice Pio VI nella sua costituzione del 7 aprile 1747.

17. XII. Facoltà di rinnovare e prorogare le indulgenze concesse ad tempus dai Sommi Pontefici alle case religiose e alle congregazioni, secondo che sarà richiesto dalle necessità dei tempi e delle circostanze. Inoltre, la facoltà di trasferire tutte le indulgenze (concesse e assegnate per qualsiasi titolo alle Chiese cattedrali o parrocchiali che sono state invase e occupate da pseudo-pastori) a quelle Chiese nelle quali i cattolici possono convenire per celebrare i divini misteri.

18. XIII. Facoltà di estendere e comunicare tali facoltà – eccetto quelle che richiedono l’Ordine episcopale – in toto o in parte, come la loro coscienza avrà suggerito, anche ai sacerdoti idonei, sia per tutti i luoghi, sia per alcuni delle loro Diocesi, per il tempo che riterranno più opportuno, come meglio giudicheranno in Domino; non solo, ma anche facoltà di revocare tali concessioni e anche di moderarne l’uso, sia in relazione al luogo, sia al tempo di esercitarle.

19. XIV. Concediamo il potere di subdelegare ai singoli presbiteri quelle facoltà che non richiedono la consacrazione episcopale e che furono concesse agli Arcivescovi e ai Vescovi di Francia in forza dell’indulto generale del 10 maggio dello scorso anno. Agli Arcivescovi e Vescovi di Parigi e di Lione, e ai Vescovi delle Diocesi più antiche di ogni provincia del regno di Francia, concediamo il potere di subdelegare anche quelle facoltà che in forza delle risoluzioni del 18 agosto furono concesse loro in modo speciale in data 26 settembre dello scorso anno. Queste facoltà vengono prorogate per tutto il tempo di questo indulto.

20. Tutte le predette facoltà vengono concesse per un anno, cominciando da questo giorno, se così a lungo durerà la calamità di questi tempi. Vengono concesse pertanto a condizione che per nessuna ragione si possa usarne fuori delle Diocesi di competenza e neppure nei luoghi non soggetti al Re cristianissimo.

Infine, vengono concesse sotto la precisa condizione che gli Arcivescovi, i Vescovi e gli Amministratori delle Diocesi, nell’esercizio di tali facoltà, espressamente dichiarino che le stesse vengono concesse da loro come delegati dalla Sede Apostolica; tale dichiarazione deve essere inserita nel corpo stesso dell’Atto.

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2020)

X DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2020).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia di questa Domenica ci insegna il vero concetto dell’umiltà cristiana che consiste nell’attribuire alla grazia dello Spirito Santo la nostra santità; poiché le nostre azioni non possono essere soprannaturali, cioè sante, se non procedono dallo Spirito Santo, che Gesù mandò agli Apostoli nel giorno della Pentecoste e che dona a tutti quelli che glielo chiedono. Dunque la nostra santificazione è impossibile se vogliamo raggiungerla da soli, perché, abbandonati a noi stessi noi non siamo che impotenti e peccatori. Dobbiamo a Dio se evitiamo il peccato, se ne otteniamo il perdono, se riusciamo a fare il bene, poiché nessuno può pronunciare neppure il santo nome di Gesù con un atto di fede soprannaturale, che affermi la sua regalità e divinità, se non mediante lo Spinto Santo. L’orgoglio è, dunque, il nemico di Dio, perché si appropria dei beni che solo lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno nella misura che crede conveniente e impedisce alla potenza divina di manifestarsi nelle nostre anime in modo da farci credere che noi bastiamo a noi stessi. Come Dio potrebbe perdonarci (Oraz.), se noi non vogliamo riconoscerci colpevoli? Come potrebbe aver compassione di noi ed esercitare su noi la sua misericordia (Oraz.), se nel nostro cuore non vi è nessuna miseria riconosciuta cui il suo Cuore divino possa compatire? L’umile, invece, riconosce il proprio nulla perché sa che solo a questa condizione discenderà su lui la virtù di Cristo. Mentre la Chiesa sviluppa in questa Domenica tali pensieri, le letture, che fa durante questa settimana nel Breviario, danno due esempi di orgoglio e di grande umiltà. Dopo la figura del profeta Elia che si oppone così fortemente a quella di Achab e di lezabele, dei quali nell’ufficio è ricordato il terribile castigo, vi è quella del giovane Gioas che contrasta fortemente con quella di Atalia. Figlia di Achab e di lezabele, empia come sua madre, Atalia sposa il re di Giuda loram, che morì poco dopo. Allora la regina si trovò padrona del regno di Giuda e per esserlo per sempre fece massacrare tutta la famiglia di David. Ma losabeth, sposa del gran sacerdote Joiada tolse dalla culla l’ultimo nato della famiglia reale e lo nascose nel Tempio. Questi si chiamava Gioas. Per sei anni Atalia regnò ed innalzò templi in onore del dio Baal perfino nell’atrio del Tempio. Nel settimo anno il gran sacerdote attorniato da uomini risoluti e armati, mostrò Gioàs che allora aveva sette anni e disse: « Voi circonderete il fanciullo regale e se qualcuno cercherà di passare fra le vostre file, lo ucciderete! ». E quando il popolo si riversò nell’atrio, all’ora della preghiera, Joiada fece venire avanti Gioas, l’unse e lo coronò al cospetto di tutta l’assemblea che applaudi e gridò: «Viva il Re!». Quando Atalia intese queste grida, uscì dal palazzo ed entrò nell’atrio e quando vide il giovane re assiso sul palco, circondato dai capi e acclamato dal popolo col suono delle trombe, stracciò le sue vesti e gridò: «Congiura! Tradimento!». Il gran sacerdote ordinò di farla uscire dal sacro recinto e quando essa giunse nel suo palazzo venne uccisa. La folla allora saccheggiò il tempio di Baal e non lasciò pietra su pietra. E il re Gioas si assise sul trono di David, suo avo; regnò quarant’anni a Gerusalemme e si dedicò a riparare e abbellire il Tempio (All., Com.). La Scrittura fa di lui questo bell’elogio: «Gioas fece quello che è giusto agli occhi di Dio» È questa l’Antifona del Magnificat dei Vespri alla quale fa eco quella dei II Vespri che è tratta dal Vangelo di questo giorno: « Questi (il pubblicano) ritornò a casa sua giustificato e non quello (il fariseo), poiché chi si esalta sarà umiliato e chi s’umilia sarà esaltato ». – « Quelli che si innalzano sono visti da Dio da lontano, dice S. Agostino. Egli vede da lontano i superbi, ma non perdona loro. « L’umile invece, come il pubblicano, si riconosce colpevole! ». Egli si batteva il petto, si castigava da sé, e Dio perdonava a quest’uomo perché confessava la sua miseria. Perché meravigliarsi che Dio non veda più in lui un peccatore dal momento che si riconosce da sé peccatore? Il pubblicano si teneva lontano ma Dio l’osservava da vicino » (Mattutino). Così l’umile fanciullo Gioas fu gradito a Dio perché la sua condotta avanti a Lui era quale doveva essere. Egli fece ciò che era giusto agli occhi del Signore. Atalia, invece, orgogliosa ed empia, non fece ciò che era giusto avanti al Signore, e sdegnò e insultò quelli che facevano il loro dovere, poiché l’orgoglio verso Dio si manifesta ogni giorno nel disprezzo verso il prossimo. Dice Pascal che vi sono due categorie di uomini: quelli che si stimano colpevoli di tutte le mancanze: i Santi; e quelli che si credono colpevoli di nulla: i peccatori. I primi sono umili e Dio li innalzerà glorificandoli, i secondi sono orgogliosi e Dio li abbasserà castigandoli. « Il diluvio, dice S. Giovanni Crisostomo, ha sommerso la terra, il fuoco ha bruciato Sodoma, il mare ha inghiottito l’esercito degli Egiziani, poiché non è altri che Dio, il quale abbia inflitto ai colpevoli questi castighi. Ma, dirai tu, Dio è indulgente. Tutto ciò allora non è che parola vana? E il ricco che disprezzava Lazzaro non fu punito? … e le vergini stolte non furono discacciate dallo Sposo? E quegli che si trova nel banchetto con le vesti sordide non verrà legato mani e piedi e non morrà? E colui che richiederà al compagno i cento denari non sarà dato al carnefice? Ma Dio si fermerà solo alle minacce? Sarebbe molto facile provare il contrario e dopo quello che Dio ha detto e fatto nel passato possiamo giudicare quello che farà nell’avvenire. Abbiamo piuttosto sempre in mente il pensiero del terribile tribunale, del fiume di fuoco, delle catene eterne nell’inferno, delle tenebre profonde, dello stridore dei denti e del verme che avvelena e rode » (2° Nott.). Questo sarà il mezzo migliore per rimanere nell’umiltà, che ci fa dire con la Chiesa: « Ogni volta che io ho invocato il Signore, questi ha esaudita la mia voce. Mettendomi al sicuro da quelli che mi perseguitavano, li ha umiliati, Egli che è prima di tutti i tempi » (lntr.). « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi, perché i tuoi occhi vedono la giustizia » (Grad.). « Signore, io ho innalzata l’anima mia verso te, i miei nemici non mi derideranno perché quelli che hanno confidenza in te non saranno confusi » (Off.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV: 2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.

[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

[“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”].

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,1921]

LE DIVERSE CONDIZIONI SOCIALI

Nei primi tempi della Chiesa, quando essa aveva maggior bisogno di prove esterne per affermarsi e dilatarsi, ai fedeli venivano concessi, visibilmente e in abbondanza, doni spirituali. Erano doni che dovevano servire non al vantaggio personale di chi li possedeva, ma per il bene generale della comunità cristiana. Nell’Epistola riportata, S. Paolo ne enumera nove. I Corinti, abbondantemente forniti di questi doni se ne insuperbivano. L’Apostolo per togliere tale abuso, stabilita la regola che, per conoscere se tali doni vengono da Dio o dal demonio, è da attendere se promuovono la fede in Gesù Cristo e il suo amore, insegna che, sebbene questi doni siano vari, distribuiti parte agli uni, parte agli altri; è lo stesso Spirito Santo che li distribuisce. Se sono molteplici e diversi i ministeri che si esercitano nella Chiesa; quelli che li esercitano sono tutti servi dello stesso Signore, Gesù Cristo. Se sono molteplici gli effetti prodotti da questi doni e da questi ministeri, è lo stesso Dio che opera in tutti. Il dono, poi, a chiunque sia stato concesso, è stato concesso per utilità degli altri. – La conseguenza da tirare è facile. I Corinti non avevano nessun motivo di orgoglio o di vanità per ì doni ricevuti. Quelli poi che avevano i doni più umili non dovevano invidiare quelli che avevano doni più eccellenti. Conseguenza pratica per noi: date le disuguaglianze che ci sono nella società:

1 I meno favoriti non devono rammaricarsi,

2 I più favoriti non hanno motivo di insuperbire,

3 Tutti devono cooperare a vivere in armonia.

1.

Quella distinzione di grazie, di attività, di misteri, che fa notare S. Paolo nel mistico corpo della Chiesa, può applicarsi alla società in generale. Anche questa, così varia nelle condizioni degli individui, vive una vita unica, a cui partecipano, come parte di un sol corpo, tutti i suoi membri. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore. Altro è il ministero dell’Apostolo, altro quello del Vescovo, altro quello del sacerdote; ma è uno solo che dispensa questi ministeri: Dio. Nella società altra è la funzione di chi governa e di chi è governato; altra quella del ricco e altra quella del povero; altra quella del pensatore e altra quella del bracciante: ina tutti hanno un compito che va a risolversi nell’armonia sociale voluta da Dio. – Si usa considerare la società come divisa in due campi: quello dei ricchi, dei gaudenti, dei parassiti, e quello dei diseredati, degli infelici, dei lavoratori. Naturalmente quelli d’una classe non hanno sempre sentimenti lodevoli verso quelli dell’altra. Ma non dovrebbe essere così. Cominciamo dalla classe dei meno favoriti. Vediamo i lavoratori. Generalmente il lavoro manuale viene considerato come un lavoro di poca considerazione, che avvilisce i lavoratori, mettendoli al disotto di coloro che non attendono a simili lavori. Se il lavoro manuale avvilisse, se mettesse i lavoratori in condizione di inferiorità di fronte agli altri, non si capirebbe come Gesù Cristo abbia lasciato gli splendori del cielo, la compagnia degli Angeli per sudare in una bottega. Quando in un lavoro si ha per compagno Gesù Cristo, chi può affermare che è un lavoro che disonora? Chi lavora, sia pure manuale il suo lavoro, può portar la testa alta come il grande pensatore. Ciò che disonora non è il genere di lavoro, è l’ozio. Vediamo coloro che nella società sono trascurati, non compresi, dimenticati, accanto a coloro che godono onori, posseggono titoli, gradi ecc. Anche questi non dovrebbero rammaricarsi, darsi alla tristezza. Le cose non continueranno sempre così. È questione di un po’ di pazienza. Sulla scena del teatro, chi rappresenta la parte di re, chi di suddito, chi di mecenate, chi di protetto, chi di padrone, chi di servo. Gli uni indossano abiti preziosi, gli altri portano abiti dimessi. Nessuno però, ha invidia della parte rappresentata da un altro, o degli abiti che indossa. Tanto è una scena di breve durata. Quando cala il sipario, tutte le grandezze scompaiono. Quando cala il sipario che chiude la nostra vita, tutti siamo eguali; nessuno porta di là blasoni, titoli, onorificenze. Ci sono i poveri di fronte ai ricchi. Qui il motivo di rammaricarsi è minore ancora. Sorge dalla falsa persuasione che ricchezza e felicità siano una cosa sola. S. Giuseppe Oriol, era chiamato dai suoi Catalani il «Santo allegro ». Un giorno fu visto in coro in preda a una certa inquietudine. Chiestogli da chi gli stava vicino che cosa gli fosse accaduto, rispose di aver in tasca un certo diavoletto che gli cagionava molto fastidio. E, uscito subito dal suo posto, diede a un povero, che trovò nella chiesa, la moneta che lo tormentava. Così riacquistò la sua tranquillità abituale (M. Carlo Salotti, Vita di S. Giuseppe Oriol; Roma, 1909). Si tratta di un Santo, direte; è vero. Ma persuadiamoci pure che le ricchezze turbano l’animo anche di chi non è santo. Per chi si lascia da esse dominare, le ricchezze sono «splendidi tormenti», come le chiama S. Cipriano» (Ad Donatum, 12). E, naturalmente, sono tormenti tanto più gravi, quanto più sono abbondanti. Ne abbiamo la prova ogni giorno. Chi sono quelli che si tolgono la vita, incapaci di resistere alle prove che l’accompagnano? Sono quasi sempre dei ricchi; e tra questi è preponderante il numero dei ricchissimi.

2.

A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia di utilità. Qui è dichiarato lo scopo di questi doni soprannaturali. Essi sono dati non in vista dell’individuo che è ne è fornito, ma in vista dell’utilità della Chiesa. Questi doni hanno un’unica origine, il Signore, hanno un unico fine, l’utilità della Chiesa. Sbagliano, quindi, quei Corinti che si lamentano per averne ricevuti meno che gli altri; e sbagliano quei Corinti che diventano orgogliosi per averne ricevuti di più. Anche rispetto alla società civile possiamo dire che sbagliano tanto quelli che si rattristano, perché si trovano inferiori agli altri, quanto quelli che vanno gonfi, perché si trovano superiori. Se tu hai beni, gradi, titoli che ti fanno superiore agli altri, non devi credere che dipenda tutto da te. Se il Signore non avesse benedetto le tue fatiche, i tuoi tentativi, se non ti avesse posto in particolari condizioni e in particolari circostanze, saresti povero, dimenticato, sconosciuto come gli altri. Quanti hanno sudato, pensato, osato più di te, e si trovano in condizione ben inferiore alla tua. Dove Dio aiuta ogni cosa riesce. Senza la benedizione di Dio, al contrario, tutte le fatiche e tutti i pensamenti degli uomini non riescono a nulla. «Se il Signore non edifica la casa, inutilmente vi si affannano i costruttori» (Ps. CXXVI, 1).Se ti trovi in condizioni sociali migliori di quelle degli atri, pensa che è anche maggiore la tua responsabilità. « A chi molto fu dato, molto sarà richiesto» (Luc. XII, 48) è scritto nel Vangelo. In certo modo, invece di disprezzare chi ti è inferiore, dovresti onorarlo, perché egli ha meno responsabilità della tua, e a lui sarà chiesto conto con meno rigore che a te. L’uomo si giudica dalle sue opere. Se tu con tutti i tuoi privilegi e i tuoi beni, non fai niente di buono; e un altro, povero, disprezzato compie delle buone opere; chi è più degno di stima di rispetto, di considerazione? Se poi entriamo nel campo spirituale, quello che tu stimi a te inferiore, può essere cento volte superiore a te. Chi più grande: S. Isidoro, agricoltore; S. Giuseppe Benedetto Labre, pellegrino medicante; S. Zita, domestica, o tanti fortunati del mondo, che passarono all’altra vita senza biasimo e senza lode?Per quanto possono essere notevoli le disuguaglianze su questa terra, non dovrebbero essere motivo di tristezza o di orgoglio. «Tutte queste disuguaglianze possono essere uguagliate dalla grazia divina, perché quei che restano fedeli fra le tempeste di questa vita non possono essere infelici» (S. Leone M. Epist. 15, 10).

3.

Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno come gli piace. Nessuno, quindi, può domandargli conto o lamentarsi, se agli uni distribuisce doni più abbondanti che agli altri. Se lo Spirito Santo distribuisce a suo piacimento, non fa, però, una distribuzione capricciosa. Tutti i doni distribuiti debbono cooperare al bene comune della Chiesa; perciò, tra essi bisogna che ci sia quella comunicazione che c’è tra le varie membra di un sol corpo. Lo stesso possiam dire delle varie mansioni nella società. La natura della società, stabilita da Dio, è tale che le varie classi, sono collegate tra di loro in maniera che una non possa far senza dell’altra. Esse sono destinate ad armonizzare fra loro, in guisa da produrre un completo equilibrio.Ci deve essere armonia tra padroni e dipendenti. I padroni, i superiori in genere, devono essere animati dal pensiero di procurare la felicità dei loro dipendenti. Proteggerli se deboli; difenderli, se vessati; procurare il loro benessere se bisognosi. Non devono dimenticarsi che i loro dipendenti hanno un’anima da salvare. Perciò devono facilitar loro il vivere secondo le leggi dell’onestà e secondo i comandamenti di Dio. Sull’animo dell’uomo, sia pure un dipendente, nessuno può aver un dominio maggiore di quello che ha Dio. Nessuno, quindi, può comandare ciò che è contrario ai comandi di Dio. Alla loro volta i dipendenti devono considerare i padroni e i superiori come quelli che sono stati da Dio destinati a curare il loro bene, a esser sostegno nelle difficoltà della vita, a esser guida nelle incertezze. E neppure ci deve essere contrasto tra il lavoro della mente e il lavoro della mano. È necessaria l’uno ed è necessario l’altro. Una macchina che proceda senza chi la guidi non potrà andare avanti bene. La sua forza, invece di produrre benefici, produce danni. Lavora tanto chi studia e dà l’indirizzo, quanto chi eseguisce il lavoro. L’importante è che lavorino tutti, poiché «chi non vuol lavorare non deve neppure mangiare» (2 Tess. III, 10). – Armonia ci dev’essere anche tra ricchi e poveri. La sollecitudine moderata di migliorare la propria condizione e di provvedere all’avvenire non è proibita, ma con tutte le sollecitudini e con tutte le provvidenze, non si chiuderà mai la porta alle miserie: queste si affacceranno sempre. E qui il ricco può colmarsi di meriti e di benedizioni: «Se hai dei beni terreni — scrive S. Agostino — usane in modo da far con essi molti beni e male nessuno» (Epist. 220, 11 ad Bonif.). Ti acquisterai vera gloria, poiché « gloria del buono è l’aver chi possa ricolmare dei suoi benefici » (S. Giovanni Grisostomo. In II Epist. ad Thess. Hom. 3, 12). Ti acquisterai la ricompensa delle preghiere dei beneficati, e farai un sacrificio molto accetto a Dio, come ti assicura l’Apostolo: «Non vogliate dimenticarvi di esercitare la beneficenza e la libertà, perché con tali sacrifici si rende propizio Dio» (Ebr. XIII, 16).

Graduale

Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.

[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]

V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.

[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

 Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem.
Allelúja.

[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisæus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

 [“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato”].

Omelia II

Sopra la superbia.

Omnis, qui se exaltat humiliabitur; et qui se humiliat exaltabitur. Luc.XVIII

Noi vediamo, fratelli miei, nell’odierno Vangelo un vivo ritratto del vizio della superbia e della virtù dell’umiltà ad esso contraria. Due uomini, dice il Salvatore, salirono al tempo per farvi le loro orazioni. L’uno era fariseo, l’altro pubblicano, il fariseo, tutto pieno di stima per se stesso, stavasene in piedi, ed indirizzavasi a Dio con queste parole: Io vi ringrazio, o Signore, perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, né tale come quel pubblicano; io digiuno due volte alla settimana, do la decima di tutti i miei beni. Il pubblicano dal canto suo stando lontano, non ardiva neppur alzar gli occhi al cielo, ma percuotevasi il petto, dicendo: Mio Dio, siate propizio ad un peccatore come son io. La preghiera di questi due uomini, come vedete, era molto differente l’una dall’ altra; quindi ebbero ancora un effetto molto differente. Quella del fariseo, che partiva da un cuore orgoglioso e gonfio del suo merito, fu riprovata da Dio e non servì che a renderlo più colpevole: laddove quella del pubblicano, che era il linguaggio della umiltà, gli ottenne il perdono dei peccati, e di peccatore che era , ne fece un giusto ricolmo delle grazie del Signore. Così conchiuse Gesù  Cristo: chiunque s’innalza sarà abbassato, e chiunque s’abbassa sarà innalzato; Omnis, qui se exaltat humiliabitur; et qui se humiliat, exaltabitur. Egli è facile, fratelli miei, il comprendere l’istruzione che Gesù Cristo ha voluto darci nel ritratto di questi due uomini. Nel primo ci fa vedere il carattere ed i castighi della superbia; e nell’altro ci rappresenta le ricompense dell’umiltà. Il fariseo, in vece di comparire in umile atteggiamento come conviensi al luogo santo e davanti alla maestà di Dio, vi sta ritto in piedi, stans; il che fa vedere la gonfiezza e l’orgoglio del suo cuore. In vece di render gloria a Dio di tutto il bene che credeva aver fatto, egli si vanta, si fa gloria d’un merito immaginario; la sua preghiera non è che una ostentazione, un racconto delle sue lodi; e perciò egli vien riprovato da Dio. Il pubblicano, al contrario, è sì penetrato di infusione alla vista dei suoi peccati, che non osa neppure alzar gli occhi al cielo; e per quest’umile via, per questi bassi sentimenti, che ha di se stesso, merita gli sguardi favorevoli del Signore. Il fariseo s’innalza, e Dio s’allontana da lui. Il pubblicano si abbassa, e Dio se gli accosta. Il fariseo esce dal tempio più colpevole che non vi era entrato, ed il pubblicano se ne ritorna giustificato alla sua casa. Ecco, fratelli miei, dei motivi molto atti a farci detestar la superbia, amar l’umiltà. Castigo della superbia nel fariseo; ricompensa dell’umiltà nel pubblicano; due soggetti che danno materia a due istruzioni. – Quest’oggi, non ne tratteremo che uno, che sarà la superbia, riserbandoci di parlar un’altra volta sopra l’umiltà. Come il superbo resiste a Dio, primo punto. Come Dio resiste ai superbi, secondo punto. Innalzamento colpevole e giusta umiliazione del superbo: il suo peccato, il suo castigo.

I. Punto. Ella è cosa sohrprendente, fratelli miei, che l’uomo trovando in se medesimo tanti motivi di umiliarsi, sia nulladimeno così pieno di superbia. Questo vizio infetta quasi tutti gli stanti del mondo; il suo dominio si estende sì lungi, che ben pochi vi ha, che non gli siane soggetti. Per guarire dunque coloro che non sono macchiati, e preservarne quelli che nol sono ancora, bisogna quest’oggi farvene conoscere il carattere, la malizia e gli effetti. Che costi è la superbia? È, dice s. Tommaso, un amor disordinato della propria eccellenza, fondato sulla buona opinione di se stesso, il quale fa che uno si stima e ricerca ariosamente la gloria e l’onore: Superbia est amor inordinatus propriæ excellentiæ; e perché il superbo non istima che se stesso, così non ha per gli altri che del dispregio; egli si sforza, per quanto può, di abbassarli per innalzarsi sopra di essi. Stimar se stesso, dispregiar gli altri; ecco il carattere della superbia, quale ci è rappresentato nel fariseo. Quest’uomo, infatuato d’un merito che crede d’avere, si vanta, si applaudisce, racconta le buone azioni che ha fatte. Ma che dice egli degli altri? Li biasima, li carica di delitti, perché crede mettere la sua virtù in maggior luce per lo confronto, che ne fa con gli altrui difetti. – Notate bene la superbia, dice s. Agostino. Io non sono – dice egli – come gli altri uomini. Dicesse almeno come alcuni uomini, come la maggior parte degli uomini; ma si preferisce a tutti, si crede il solo uomo dabbene sopra la terra: qual vanità! Quanti non ne vediamo ancora noi di questo carattere? Ripieni di se stessi, si vantano, si fanno gloria, l’uno della sua nobiltà o delle sue ricchezze, l’altro del suo potere; questi del suo talento, della sua abilità, quegli delle sue virtù, delle sue buone azioni! Quanti che si applaudiscono d’un merito che non hanno! E perché questi superbi credonsi soli degni d’essere stimati e onorati, non hanno per gli altri che del dispregio; li abbassano quanto possono per stabilire la loro riputazione sulla rovina dell’altrui. Or volete voi sapere, fratelli miei, quanto questo peccato è opposto a Dio? Giudicatene dai tratti, che sono per darvene. La superbia rapisce al Creatore la gloria, che gli è dovuta per attribuirla ad altra creatura; distrugge la carità, che si deve avere pel prossimo, ed è la sorgente funesta d’infiniti altri peccati: quale orrore non dobbiamo noi averne? A Dio solo l’onore e la gloria appartengono, dice l’Apostolo: Soli Deo honor, et gloria (1. Tim. 2). L’uomo non ha da se stesso, che il nulla ed il peccato; tutto quel che possiede, lo tiene dalla mano liberale di Dio; vita, sanità, ricchezze, spirito, talenti, beni di natura, di fortuna e di grazia, tutto abbiam ricevuto da Dio. Senza di Lui noi saremmo nel nulla, nell’indigenza d’ogni cosa: non siamo da noi stessi capaci di cosa alcuna, neppure di aver un buon pensiero per la salute. Alla sua grazia noi dobbiamo tutto il bene, che abbiamo fatto, se pure abbiamo fatto qualche cosa per il cielo. Qual ingiuria non fate voi dunque a Dio, uomini vani e superbi? In vece di rendergli gloria dei beni, dei talenti che avete ricevuti, voi vi prevalete dei suoi doni, come se venissero da voi medesimi; invece di riferir a Dio il successo delle vostre intraprese, voi le attribuite alla vostra industria; in vece di riconoscerlo per principio e autore di tutte le vostre buone azioni, ve ne arrogate la gloria, vantandole, pubblicandole, come se fossero unicamente opera vostra, e non già della grazia di Dio. Se tutti i beni, che possedete nell’ordine della natura e della grazia, voi li tenete dalla mano liberale di Dio, perché gloriarvene come se non li aveste ricevuti? dice l’Apostolo. Quid gloriaris, quasi non acceperis (1 Cor. IV)? Non è forse un rapire a Dio la gloria che gliene ritorna? Non è forse imitare l’audacia dell’angelo ribelle, che portò il suo orgoglio sino a disputare a Dio la sua gloria, e la sua indipendenza? Mentre questo fu, come sapete, il suo peccato e la cagione della sua disgrazia. Questo celeste spirito, la più bell’opera che fosse uscita dalla mano di Dio, si accecò coi suoi propri lumi; invaghito della bellezza del suo essere, dell’eccellenza delle sue perfezioni, talmente se ne compiacque, che si credette indipendente da tutti: in vece di sottomettersi a Dio, pretese sollevarsi sino a Lui, rendersi simile all’Autore del suo essere: Similis ero Altissimo. Tale è l’eccesso di temerità, a cui l’orgoglio è capace di portar la creatura. Usurpar gli onori divini, affettar l’indipendenza, che non appartiene che all’Essere supremo; tale è stata l’audacia negli angeli ribelli. che hanno avuto degli imitatori negli uomini, sin dai primi secoli del mondo. Imperciocché, donde pensate voi, fratelli miei, che sia venuta l’idolatria, la quale sparse sì dense tenebre sulla faccia dell’universo, che quasi tutto il genere umano ne fu involto? Fu dalla superbia degli uomini, che ripieni di sé medesimi, infatuati, ebri della loro grandezza, della loro possanza, del loro merito, giunsero a tale accecamento da farsi rispettare come dei da quelli, che erano cotanto ciechi per condiscendere ai loro sentimenti. Gli uni fecero fabbricar tempi in loro nome, gli altri rizzare statue, cui si rendevano onori divini. Tal fu l’orgoglio d’un Nabucco che fece mettere nella fornace tre figliuoli ebrei, che ricusarono di adorarlo. Così la superbia degli uomini è venuta a capo di rapir al Creatore la gloria che gli era dovuta, per attribuirla alla creatura: quale ingiustizia! qual disordine! Se la superbia non porta presentemente gli uomini ad eccessi così mostruosi, non se veggono forse ancora che vorrebbero, per così dire, esser riguardati come divinità sulla terra, sia elevandosi al di sopra degli altri, che pretendono far abbassare avanti ad essi, sia esigendo che si abbiano per essi certi riguardi, perché hanno più di nobiltà, più di beni, più di credito, più d’autorità, più di talento, più di spirito, e perché sono in un grado più elevato? Cenere e polvere, di che v’insuperbite? Quid superbis, terra et cinis (Eccl. III)? Che cosa siete voi avanti a Dio? Nulla e peccato. Ecco di che potete voi vantarvi, o piuttosto di che dovete umiliarvi; tutto il restante non è vostro, la gloria ne appartiene a Dio solo. Voi rassomigliate ad un vaso di terra adornato di vesti preziose, e che non diviene perciò più prezioso in sé stesso: mentre deve tutto il suo splendore a chi l’ha rivestito. Voi dovete tutto a Dio; dunque è un rapirgli la gloria che gli è dovuta il gloriarvi voi medesimi di ciò che avete ricevuto. – Perciocché finalmente, per farvi ancora meglio conoscere l’ingiustizia del vostro orgoglio, e quanto sia egli mal fondato, su di che l’appoggiate voi? Qual è il fondamento della stima che avete di voi medesimi? È forse la nobiltà della vostra origine? Ma questa nobiltà non viene da voi, ella è una cosa straniera; non è già vostro merito l’esser nati da genitori illustri. Sono forse i beni che vi rendono orgogliosi? Ma questi beni non danno il merito, neppur lo suppongono; quelli che han ricchezze sono spesse volte più viziosi. Che avete voi fatto a Dio per avere più beni di tanti altri, che sono nell’indigenza, e forse più dabbene che voi? Donde vi vengono questi beni? Sono le eredità dei vostri antenati che nulla vi han costato; forse sono essi il frutto delle loro ingiustizie, o delle vostre, e per conseguenza non vi appartengono: voi non avete dunque motivo di vantarvene. Ma io voglio che vi appartengano per giusti titoli; forse saranno essi la causa della vostra riprovazione, e lo saranno infatti, se voi ne fate un malvagio uso. Non è forse questo piuttosto un motivo d’umiliarvi? Di che vi gloriate voi ancora? Delle qualità del corpo, dello spirito, della sanità, della bellezza, dei vostri talenti? Ma tutto questo non viene forse da Dio? Non dipendeva che da Lui di ridurvi in uno stato così umiliante come quelli che dispregiate, perché non hanno quell’avvenenza, quelle qualità personali, che sono materia della vostra superbia. La sola cosa che vi fa onore si è la virtù; ma di questa virtù, di queste buone opere, a Dio dovete il merito e per conseguenza la gloria. Se l’attribuite a voi medesimi, voi fate ingiuria a Dio, e la vostra virtù cessa per questo appunto d’essere vera virtù; ella è una virtù farisaica, riprovata da Dio; poiché dal momento che cercate la vostra gloria nella pratica della virtù, che fate buone azioni in vista di piacere agli uomini, di attirarvi la loro stima, non è più la gloria di Dio che si ricerca, come si deve ricercare, ma è un bene che gli appartiene. – Non è forse tuttavia quello che voi fate in mille occasioni, allorché praticate certe azioni virtuose avanti gli uomini, le quali non fareste in segreto e prevedete che vi loderanno, che vi stimeranno? Non è forse anche per un principio di superbia , che voi vi date delle lodi; che raccontate il bene che avete fatto, affinché gli altri ve ne diano; che vi vantate dei vostri talenti, delle vostre belle qualità, delle vostre virtù ? Quante volte per una dannevole ipocrisia vi siete coperti del mantello della virtù, che non avevate, per occultare i difetti cui eravate soggetti, evitando il peccato per il solo timore dal disonore, ma sempre pronti a commetterlo da che l’onor vostro non vi andasse? Forse anche per una detestabile vanità voi vi siete fatta gloria di ciò che doveva coprirvi di confusione, mentre la superbia fa tutto servir ai suoi disegni, così le malvage azioni come le buone. Qual ingiuria non fa dunque a Dio questo peccato? – Ma egli non è già men opposto alla carità, che si deve avere per il prossimo. Il superbo, che non stima che se stesso, tratta gli altri con un sommo disprezzo. Ascoltate il discorso del fariseo. Io non sono – dice egli – soggetto a vizi vergognosi come quel pubblicano: Non sum velut iste publicanus. Egli sparge su la condotta di lui la censura la più inoltrata. Quindi è che il superbo si preferisce a tutti. Io non sono – dice egli – come il tale ed il tale: io avrei fatto meglio in tal occasione. Egli si crede solo aver più di spirito, intendere meglio gli affari. Tutto quel che egli pensa, tutto quel che dice, tutto quel che fa, è sempre meglio che quello che possa pensare, dire o fare gli altri. Unicamente occupato del suo merito, esso non trova negli altri che difetti: sempre a farsi vedere nel bello, non studia che di far scorgere il debole degli altri, sul riflesso che il dispregio che se ne farà, servirà d’ombra al ritratto che egli fa di sé medesimo. Se è forzato di rendere giustizia al merito, egli fa tutto quel che può per oscurarne la gloria  con maligne interpretazioni, che dà alle azioni. Geloso dell’altrui innalzamento non evvi rigiro alcuno, che non metta in opera per soppiantarlo. Egli vuole aver dappertutto il miglior posto nelle assemblee, sino ai piè del santuario. È egli superiore ad altri? Li riguarda come vermi di terra. Quindi quella fierezza, quell’aria d’alterigia, che affetta a loro riguardo: quindi quell’affettazione di non conoscere coloro che gli appartengono per i legami del sangue, perché sono i miseri ridotti in una povera e bassa condizione, mentre d’altra parte egli si vanterà d’appartenere a persone più ricche e più elevate, e che sovente nulla gli sono. Quindi quelle pretensioni ridicole, che tutti accondiscendano al suo parere vero o falso, mentre egli medesimo non ha veruna condiscendenza per l’altrui sentimento. – A questi tratti, fratelli miei, che non fanno che abbozzare il ritratto del superbo, riconoscete, che egli abbia molta carità pel prossimo? Ah! come questa virtù è difficile a trovarsi nei superbi! La carità pensa bene di tutti e non giudica male d’alcuno, dice l’Apostolo. Il superbo fa tutto il contrario; egli la fa da giudice critico dell’altrui condotta e condanna tutti. La carità è paziente per sopportare gli altrui difetti, non si adira punto del male, che le vien fatto; ma un superbo nulla vuol tollerare, si offende del minimo disprezzo, d’una parola talvolta sfuggita a caso, senza disegno di recargli disgusto. Egli è un monte che getta neri vapori, tosto che vien toccato: tange montes, et fumigabunt. Quindi quegli sdegni, quei trasporti cui si abbandona; quelle maledizioni, quelle ingiurie che proferisce; quelle vendette che medita, e che effettivamente eseguisce contro coloro che hanno avuto per lui quei riguardi che si crede meritare. Ed è ciò, che mi ha fatto dire, che la superbia era la sorgente di molti peccati. – Non si attribuiscano – fratelli miei – ad altre cagioni fuorché alla superbia, tanti contrasti e nimicizie, che regnano tra gli uomini. Perché mai quelle persone tra loro nemiche da sì lungo tempo, non sono ancora riconciliate, malgrado gli avvisi d’un confessore? Si è la superbia che le ritiene. Ciascuno crede aver la giustizia dal suo canto, o se conosce il suo torto, non vuol confessarlo. Egli si stima più che un altro, crederebbe abbassarsi, e troppo costerebbe all’amor proprio il fare i primi passi; così rimane esso sempre nel medesimo stato, cioè in uno stato di dannazione. Perché mai s’intentano liti da lui in occasione delle ingiurie reali o pretese? Perché è egli intrattabile su i mezzi d’accomodamento che si propongono? Conviene, dice egli, aver soddisfazione d’un’ingiuria ricevuta, conviene sostenere il proprio onore. Ma che cosa si cerca in questo? Il soddisfare la sua passione, l’umiliare gli altri per innalzarsi. Donde vengono le maldicenze, le calunnie, di cui altri si serve per macchiare la reputazione altrui, se non dalla brama di mettersi al di sopra del prossimo? Così la superbia, il primo dei peccati capitali, ne strascina dopo di sé un’infinità d’altri. Ella fa venire al suo seguito l’invidia, l’ingiustizia, l’ira, la vendetta. Che dirò di più? Initium omnis peccati, superbia (Eccl. X). Ella acceca lo spirito e lo getta in mille errori; ella gonfia il cuore e gli ispira mille sentimenti d’ambizione; ella acceca lo spirito e gl’impedisce di vedere le verità, che deve credere; combatte anche con un’ostinata resistenza quelle che riconosce. Tale è stata l’origine fatale delle eresie, che hanno desolata la Chiesa di Gesù Cristo fin dal suo cominciamento. Uno spirito di superbia, che si è impadronito d’uomini che abbondavano nel loro senso, fece loro preferire i lumi d’un certo ingegno agli oracoli della verità eterna: hanno spregiate le rispettabili decisioni della Chiesa, quantunque abbiano riconosciuto che la sua autorità era la sola regola capace di fissare la loro certezza; ma troppo costava alla loro superbia il ritrattarsi ed essere tenuti per uomini soggetti ad ingannarsi; e perciò ostinati rimasero nel loro errore; hanno fatto naufragio, quando una umile sommissione li avrebbe condotti al porto della salute. Tanto è vero, che, quando la gonfiezza della superbia è giunta sino ad un certo punto, egli è molto difficile il guarirla. Questo veleno s’inoltra anche nel cuore per via delle brame smisurate che vi fa nascere, d’innalzarsi agli onori, di pervenire a certe dignità, ch’esso non è capace di riempiere. La buona opinione ch’egli ha di se stesso, fa tutto intraprendere per venire a capo de’ suoi disegni; e quando una volta si è giunto al punto che erasi proposto, si fanno cadute deplorabili per l’incapacità di adempiere i doveri d’uno stato temerariamente abbracciato. Tali sono le funeste conseguenze della superbia. – Del resto, non crediate, fratelli miei, che questo vizio non s’insinui che nelle case dei grandi; egli regna nelle condizioni più vili e più abbiette. Sovente v’ha più di superbia sotto un abito plebeo, che sotto la porpora ed il diadema: si vede nel semplice popolo la medesima brama di dominar gli uni su gli altri; la medesima ostinazione: il medesimo attaccamento al suo parere; ciascuno vuol comandare; niuno vuol soffrire riprensioni, niuno vuol essere avvertito, corretto de’ suoi mancamenti; li pallia, li scusa, né vuol confessare di aver fatto male. Si giunge anche all’eccesso di giustificare i suoi delitti; si prendono tutte le precauzioni possibili per nascondere quel che è, e farsi vedere quel che non è. Egli è anche rarissimo che tra le persone che fan professione d’una vita regolata, non se ne trovi alcuna che non abbia qualche macchia di superbia. Voi vedrete di quelli che non possono sopportar una parola, un dispregio che offenda la loro delicatezza; che vogliono essere applauditi in tutto e non essere giammai contradetti. Qual cura non hanno essi di mostrare sempre le loro virtù e di occultar i loro difetti? Non ricercano le lodi, ma sono ben contenti di riceverle; amano essi molto meglio gli adulatori che i censori del vizio; non sono disgustati di essere conosciuti per certi tratti che fanno onore, di avere una riputazione nel mondo; ed hanno in orrore tutto ciò che chiamasi umiliazione, abbiezione. – Quante compiacenze e riflessioni non hanno della loro propria virtù, su qualche buon’opera che hanno fatta? Si preferiscono d’ordinario quelle, che fanno onore a quelle, che si fanno nell’oscurità. Qual destrezza a rigettare i loro mancamenti sull’ignoranza, la sorpresa, o qualche altra circostanza che ne sminuisca la confusione? Qual attenzione a far scorgere tutto ciò che può far onore! Ecco ciò che prova che la superbia è un veleno sottile, cui è molto difficile preservarsi. Non è che a forza di combattimenti, che si può sperar di vincere questo formidabile nemico della storia di Dio e della salute dell’uomo. Mentre se la superbia è opposta a Dio, Dio non le è meno opposto; il che si può conoscere dai castighi con cui la punisce.

II Punto. Ella è una regola della giustizia di Dio di proporzionare il castigo alla malizia del peccato, che vuol punire; il che ha Egli osservato ed osserva ancora nei castighi, che esercita sopra il superbo. L’uomo con la sua superbia rapisce a Dio la gloria, che gli è dovuta: Dio vicendevolmente umilia l’uomo superbo e l’opprime di confusione. L’uomo superbo dispregia gli altri; Dio permette che divenga anch’esso l’oggetto dello scherno, e del dispregio degli uomini. La superbia finalmente è una sorgente avvelenata, donde nasce un’infinità di vizi e di peccati; questa sorgente con la sua contagione distrugge il merito delle virtù. Qual colpi fatali non porta ella dunque a coloro che ne sono infetti? Ancor un momento d’attenzione. – In ogni tempo Dio, il quale dà la sua grazia agli umili, ha resistito ai superbi: più i superbi han voluto innalzarsi, più Iddio gli ha abbassati. Noi abbiamo una prova convincente nel castigo degli angeli ribelli, che la superbia sollevò contro Dio, sino all’eccesso di volersi a Lui uguagliare. Appena ebbero essi formato i loro baldanzosi progetti, che furono nell’istante spogli dei doni di natura e di grazia, di cui li aveva Iddio arricchiti. Scacciati dal cielo furono precipitati nel profondo dell’abisso: Quomodo cecedisti de cœlo Lucifer (Isai. XIV). Come mai Lucifero è caduto dal cielo coi suoi partigiani? Come mai quelle sublimi intelligenze di perfette creature che erano, sono divenute orribili demoni? Si è per la superbia. Egli è questo peccato, che ha aperto l’inferno, quella orribil dimora, ove saranno essi per tutta l’eternità, e che sarà il retaggio di tutti coloro, che avranno imitato gli angeli prevaricatori nelle loro ribellioni. – Noi abbiamo ancora nella sacra Scrittura un gran numero di esempi dei castighi della superbia: eccone dei più memorabili. Assalonne, il figliuolo di Davide, è sospeso ad una quercia, e percosso dal colpo della morte, in punizione del progetto ambizioso che aveva formato di salir sul trono di suo padre. Nabucco, spinto da un eccesso di superbia, vuol essere riguardato come il Dio della terra; egli fa erigere una grande statua per essere adorato dagli uomini; ma nel tempo medesimo che s’innalza e si perde nelle sue grandi idee, Dio l’abbassa e l’umilia togliendogli il suo regno, levandolo dalla società degli uomini, e riducendolo alla condizione delle bestie, con cui è obbligato di abitare e di mangiare l’erba nelle foreste. Non è che dopo sette anni d’una sì dura penitenza, che Dio perdona a quel principe cosi umiliato. Tale fu ancora l’umiliazione del superbo Amano, allorché si vide condannato a morire sul patibolo, che aveva fatto alzare per Mardocheo, il quale non voleva piegar il ginocchio avanti a lui. Cosi Dio si compiace di umiliar i superbi: e senza uscir dal nostro Vangelo, consideriamo come Dio vi tratta il superbo fariseo. L’umile pubblicano merita per la sua umiltà il perdono de suoi peccati; ma il fariseo è riprovato da Dio: egli ritorna a casa più colpevole di quel che era prima, che entrasse nel tempio del Signore per farvi comparire la sua superbia. – Questo è ciò, che accade ogni giorno ai superbi; mentre essi cercano d’innalzarsi, di distinguersi, di meritar la gloria e la stima degli uomini, Dio si allontana da essi, ritira da loro le grazie, gli abbandona ai loro sregolati desideri, come dice l’Apostolo, a passioni d’ignominia che li disonorano; così cadono in mancamenti considerabili, che li caricano d’obbrobrio o di Confusione; a misura, che si perdono le idee lusinghiere del loro spirito, la carne li strascina nel fango il più profondo, essendo la superbia ordinariamente seguita dall’impurità. Essere superbo e casto è una specie di chimera: Dio ritira il suo spirito dall’uomo superbo; e tosto che l’uomo non è più condotto dallo spirito di Dio, diventa tutto carne e si abbandona alle sue sregolate passioni; funesto castigo del peccato di superbia, che ricopre l’uomo di obbrobrio avanti a Dio ed agli uomini: Odibilis coram Deo, et hominibus est superbia (Eccl. X). – Così il superbo, che dispregia gli altri, diventa vicendevolmente l’oggetto del loro dispregio, sia per i vizi cui la sua superbia lo strascina, sia per la superbia medesima, che lo rende a tutti insopportabile. No, non si amano punto le persone che presumono tanto, che non fanno che lodarsi, che vantarsi di ciò che han detto o fatto. Se per una condiscendenza che si ha per esse, o per tema di loro dispiacere, altri qualche volta applaudisce, internamente le dispregia, sa benissimo ritrattare in loro assenza le lodi, che in presenza di esse ha loro date; egli si beffa a suo bell’agio della loro maniera di parlare o di agire. Niuno ama d’essere dispregiato, insultato e trattato con alterigia, e siccome il superbo dispregia ed insulta sovente gli altri, e vuole dappertutto signoreggiare, non occorre stupirci se niuno può tollerarlo nel mondo. Tutto dispiace in lui, le sue parole, le sue maniere, il suo contegno, non si vede, che con noia comparire nelle assemblee » perché vi cagiona turbolenze, e si vede sempre uscirne con piacere. Si preferisce anche nel mondo profano la conversazione d’una persona umile e riserbata a quella d’un superbo, che vuol sempre vincerla su tutti: tanto è vero, come diceva il savio, che la gloria fugge il superbo che la ricerca, e segue l’umile, che la fugge: Superbum sequitur humilitas , humilem spiritu suscipiet gloria (Prov. XIX). La sola confusione, che è anche in questa vita il castigo della superbia, dovrebbe bastare per guarir da questa malattia chiunque ne sia attaccato, se vi facesse attenzione. Ma il proprio della passione, principalmente di questa, si è di accecare lo spirito, e di corrompere il cuore. Un superbo non vuol confessare il suo mancamento, e s’inasprisce anche di ciò che dovrebbe guarirlo. I dispregi, le umiliazioni, non fanno che accrescere il suo male. Qual passione più pericolosa per la salute? Ella è la sorgente di tutti i vizi, ella riduce al nulla la virtù. Ella è un vento ardente, dice la Scrittura, che disecca, che consuma ogni cosa. No, fratelli miei, non evvi più merito nelle azioni delle virtù le più eroiche, se l’orgoglio vi ha parte. Recitate lunghe preci, date tutti i vostri beni ai poveri, digiunate, mortificatevi con le più austere penitenze, affaticatevi quanto gli Apostoli alla salute degli uomini, soffrite quanto i martiri; se voi cercate in tutto questo di piacere agli uomini, di meritar la loro stima: se è la vanità che vi anima e non il desiderio di piacere a Dio, di glorificar Dio, voi non ne riceverete giammai ricompensa alcuna nel cielo. Vi si dirà, come ai farisei, che facevano lunghe preghiere, limosine abbondanti, che digiunavano in vista della gloria degli uomini: voi avete ricevuta la vostra ricompensa: receperunt mercedem suam (Matth. VI). La vostra superbia vi farà naufragar con tutte le vostre virtù ed i vostri meriti; e non arriverete al porto della salute. Qual disgrazia! Ma qual follia più tosto! Quale accecamento di tanto travagliarsi inutilmente, di faticare, e di consumarsi per correre dietro ad un fumo d’onore, ove sovente non si può giungere, o che si dissipa tosto che vi si giunge  Mentre che cosa è la stima degli uomini, che voi ricercate nelle vostre azioni? Ella è un’ombra che svanisce. Oggi gli uomini vi lodano, domani vi biasimano. Non si deve dunque fare maggior conto dei loro sentimenti, che dei loro sogni, dice s. Gregorio Nazianzeno; essi s’ingannano sovente nei loro giudizi, stimano ciò che dovrebbero dispregiare, dispregiano ciò che dovrebbero stimare. Non bisogna dunque attaccarsi alla loro stima; ma non ricercare che quella di Dio, il quale sa fare il giusto discernimento della virtù: Quem Deus commendat, Me probatus est (2 Cor. X). Non siamo sicuri di avere la stima degli uomini, quando la ricerchiamo, ma lo siamo sempre di avere quella di Dio. Non ricercate che la sua gloria in tutte le cose, e troverete la vera e soda gloria per voi.

Pratiche. Per preservarsi ancora dal veleno della superbia, osservate la massima seguente. Il proprio della superbia è di stimar se stesso e dispregiar gli altri: fate tutto al contrario; non abbiate che del dispregio per voi medesimi, e della stima per gli altri. Per ciò fare, bisogna cangiar d’oggetto. Esaminate i vostri difetti per considerare le buone qualità del prossimo. La vista dei vostri difetti v’inspirerà del dispregio per voi medesimi, e le perfezioni degli altri ve li faranno stimare. – Ciascuno ha i suoi difetti e le sue buone qualità. Dio ha divisi i suoi doni in diverse maniere, dice s. Paolo: Divisiones gratiarum sunt (1 Cor. XII). Affinché l’uno non avendo ciò, che l’altro possiede, questi non possa innalzarsi su di quello. Non evvi alcuno, che sia perfetto, e che non possa riguardarsi inferiore ad un altro per quel che non ha. Se voi avete qualche talento, qualche virtù che altri non hanno, voi siete soggetti a mancamenti, cui non sono essi soggetti; hanno virtù e qualità, che voi non avete. Sono queste virtù che convien riguardare in essi per stimarle, giacché in questo vi sorpassano; voi troverete nei vostri difetti di che dispregiarvi e nelle loro virtù di che stimarli: se sono caduti in qualche mancamento, che voi non abbiate commesso, non dovete prevalervene, perché non avvi alcuno, dice s. Agostino, che non possa cadere nei medesimi traviamenti che un altro, se Dio l’abbandonasse a sé stesso; quell’ uomo, che voi dispregiate più, sarà forse un più gran santo che voi. Non vi gloriate di cosa alcuna, non vi vantate giammai dei vostri beni, né dei vostri talenti, della vostra origine, della nobiltà dei vostri congiunti, ancor meno delle vostre virtù. – Rimandatene tutta la gloria a Dio, senza il cui aiuto noi non siamo capaci, dice l’Apostolo, di pronunziar solamente il nome di Gesù. Il vostro motto il più frequente sia quello del medesimo Apostolo: Soli Deo honor, et gloria. Siate contenti che le vostre buone opere siano conosciute da Dio solo, giacché egli solo ne deve essere la ricompensa. Così sia.

Credo…

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Offertorium

Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta

Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres.

[A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

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Communio

Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine.

[Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.

[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

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https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

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LO SCUDO DELLA FEDE (123)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO II.

La necessità dì una scuola per la vera fede.

I. Vi ha una fede al mondo? Dunque havvi parimente una scuola dov’ella insegnisi dai mortali. Altrimenti non volendo Iddio farsi a tutti, come ad alcuni, immediato maestro di verità soprannaturali, avverrebbe di leggieri nelle cose udite quello che avviene nell’udito medesimo, che tra i sensi è il più difficile a perfezionarsi, ed è il più facile a perdersi (Arist. Probl., sec. 11. n . 11). 0 non si conseguirebbe mai la dottrina celeste, o si perderebbe di breve per lo mescolamento di vari errori su lei trascorsi. E pure chi può dire quanto rilevi serbarla intatta? Senza di essa qualunque scienza è una totale ignoranza: Et si quis erit consummatus inter filios hominum, si ab illo abfuerit sapientia tua, Domine, in nihilum computabitur (Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini, mancandogli la tua sapienza, sarebbe stimato un nulla.- Sap. VIII. 6). Ora questa scuola, con termine più usuale è detta Chiesa: e quei che apprendono in essa la verità sono intitolati fedeli, tanto più scelti, quanto più disposti ad apprenderla facilmente: Erunt omnes docibiles Dei (Iob. VI. 45). E perché il maestro primario di questa scuola è l’istesso Dio, conviene che ella abbia in sé di legittima conseguenza questi tre pregi: che sia antichissima di tempo: infallibilissima d’insegnamenti: apertissima a chi che sia che desideri quivi luogo.

I.

II. E primieramente, antichissima ella è di tempo. Il paradiso terrestre, avanti ch’egli servisse, con una specie di antiperistasi tormentosa a rincrudelire le nostre piaghe, qual più nobile uso ebbe in terra, che l’essere la prima scuola apertasi dall’Altissimo per addottrinare in Adamo tutti i mortali? Non prima Adamo ebbe l’essere, che comparvegli quivi Dio a manifestargli i suoi disegni segreti, fermando quasi con esso lui questo patto da tramandarsi a’ suoi posteri: Che Dio all’uomo desse l’aiuto della sua grazia bastevole ad operare, e la rimunerazione della sua gloria: l’uomo a Dio rendesse vicendevolmente l’ossequio del culto impostogli, e l’ubbidienza alle leggi che a tempo a tempo ne venisse a ricevere. Tale fu la prima lezione necessarissima. Altrimenti come avrebbe l’uomo potuto mai indovinare quelle verità che sono sopra di lui, e singolarmente la norma di una religione vera e valevole, se Dio stesso non gliele avesse amorevolmente date a sapere? Può forse vedersi il sole, senza il sole medesimo che apparisca, o possono scoprirsi i suoi raggi, senza che la sua luce benefica sia la prima, la quale venga ad incontrar le pupille di lei mancanti?

III. E quindi e l’antichità della fede (L’uomo primo fu creato intelligente e credente ad un tempo, ed il suo Creatore gli apparve insiememente oggetto della sua intelligenza e della sua fede, nel duplice ordine della ragione e della rivelazione, della natura e della grazia) che, coetanea del mondo, nacque con esso ad un parto: in quanto Quegli che fu il creator delle cose, con fabbricar l’universo, intese di fabbricare ancora un liceo, dov’Egli fosse maestro di verità: non potendo avvenir di meno, che se la sua somma bontà lo aveva indotto a formare l’uomo, così la sua somma sapienza non lo inducesse ancora ad ammaestrarlo. Tanto è vaga la sapienza di diffondere se medesima, quanto ne sia la bontà. Onde, siccome a questa par che disdica lo starsene sempre oziosa, senza operare mai nulla in altrui servizio; così a quella par che disdica lo starsene sempre muta senza dir nulla.

IV. È dunque un discorrere da ignorante distinguere tre vere religioni, corrispondenti alle tre leggi di natura, di Mosè, del Vangelo. Un medesimo sole non può mai fare, salvo che un medesimo giorno, quantunque in esso distinguansi rettamente i chiarori dell’alba dagli splendori del sol nascente, e gli splendori del sol nascente dalla luce perfetta del mezzodì.

V. Dopo le tenebre della prima colpa sorsero quei crepuscoli fortunati della promessa di un redentore, ristoratore a suo tempo delle umane rovine, e ristoratore vantaggiosissimo: nella fede di cui si compiacque Dio che Adamo rimanesse giustificato dalla sua colpa, conforme a quello: Eduxit illum a delicto suo (Sap. X. 2). E il credere in questo Redentore il desiderarlo, il domandarlo, il valersi de’ suoi meriti con offerta sì anticipata a salute propria, fu la religione de’ primi secoli.

VI. Seguì Mosè con bell’ordine di profeti, i quali, a guisa degli altissimi monti, scorgendo dalle lor vette i primi raggi del venturo Messia, prima che egli spuntato al nostro emispero si facesse universalmente vedere anche ai piani bassi della gente più comunale, l’additarono con l’ombra delle figure e con l’oscurità delle forme, come si fa nel favellar delle cose che son da lungi.

VII. Finalmente giunta la pienezza de’ tempi comparve il Redentore stesso in persona, compiendo tutti i presagi e tutte le promesse del suo venire, fece di chiaro, e colmò tutto il mondo a un’ora di luce (Così Cristo appare l’alfa e l’omega della vera religione, la pienezza dei tempi, il centro in cui s’appunta ogni “ubi”, ed ogni quando della credente umanità: Ipso res. Quæ nunc religio Christiana nuncupatur, erat et apud antiquos, dice sant’Agostino (L. 1. Retr., c. 12): Nec defiut uti ab initio generis humani, quousque ipse veniret in carne; unde vera religio, quæ itimi erat, cœpit appellavi Christiana. Ecco dunque dal principio de’ secoli sino ad oggi una medesima religione insegnata da un sol maestro. Ecco una medesima verità, ma sempre più dichiarata: ecco una medesima scuola, ma sempre più alta (S. Th. 2. 2. q. 1. art. 7). La distinzione è solo ne’ tempi, nella dottrina è la connessione: Divina eloquia, etiamsi temporibus distincta. sunt tamen sensibus unita. Così anche egli il pontefice s. Gregorio ce lo conferma (In Ezech. hom. 6).

II.

VIII. Che poi questa scuola sia nelle sue dottrine infallibile, non sarà punto malagevole a credere, se si miri, che per maestro ell’ha Dio: Ponam universos filios tuos doctos a Domino (Is. LIV, 13). Pertanto la sapienza di tutte le scuole aperte dai Platoni, dai Socrati, dai Senofonti, dagli Aristoteli e da qualunque altro sia de’ savi terreni, è sottoposta ad errare. L’acque loro sono come l’acque che scorrono sulla terra: tutte però capaci d’intorbidarsi. Ma la sapienza di sì nobile scuola, qual è la chiesa, non erra mai. Le sue acque sono come l’acque riposte sul firmamento, tutte purissime, come son purissimi i cieli dove hanno il letto: Principium verborum tuoruni veritas (Ps. XVIII). La prima Verità, non soggetta né a macchinare inganno né a riportarlo, è il fondamento di ciò che insegna la Chiesa: e però come volete che ella sia soggetta ad errore? Questo è quel padiglione fortunatissimo dove Dio per gran sorte nostra promette di custodirci dalle contraddizioni delle varie lingue che ci assaliscono a guisa di tanti dardi: Protege eos in tabernaculo tuo a contradictione linguarum. I maestri della terra ci pongono tutto in lite, fino se ci moviamo, come Zenone; e fino se vegliamo o se vaneggiamo in guisa di addormentati, come gli scettici. E quel che è più, non fanno altro che dirci cose contrarie, senza convenire neppure in un punto massimo, qual è quel dell’ultimo fine. Chi potrà pertanto sperare d’imparar mai nulla di vero fra le contraddizioni di tante lingue? (Come al di sopra della molteplicità delle dissi leali e fallaci sette filosofiche sta immutabile e sempre vero il lume di ragione, fonte del senso comune, cosi sopra delle molteplici ed erronee religioni umane sta la vera religione, figlia del cielo, e madre della retta umanità). Eccovi chi, ripiglia sant’Agostino. Chiunque se n’entri in questa scuola autorevole della chiesa, dove Dio parla, e ponga mente a ciò che si approvi in essa, o che si ripruovi: Diversæ doctrinæ personant, d.iversæ hæreses oriuntur. Curre ad tabernaculum Dei, id est ccclesiam catholicam, ibi protegeris a contradictione linguarum (S. Aug. conc. 1. in Ps. XXIX).

IX. Ha poscia Iddio, per giunta de’ suoi favori, dato a questa scuola un tal libro, presso cui gli altri libri possano dirsi tante fiaccole spente, se alla fiamma di quello non piglian lume. Tal è la divina scrittura, compresa ne’ due testamenti, vecchio e nuovo, che si riguardano insieme, come i due cherubini su l’istess’arca. concorrendo ambo d’accordo a beneficarci. Mentre noi diveniamo dal vecchio dotti, dal nuovo anche doviziosi. Erudimur prædictis. et ditamur impletis (S. Leo ser. 11): possedendo in virtù del nuovo, ciò che in virtù del vecchio ci fu annunziato. Leggansi ambedue di proposito: e si vedrà, che il testamento vecchio promette il nuovo, il testamento nuovo dichiara il vecchio (S. Greg. hom. 6. in Ez.).

X. So non esser mancati, singolarmente tra’ maomettani, certi uomini di mezza testa, che questo divin volume hanno detto di ripudiare, perché egli falsificato da’ Cristiani, non sia più quello (Chi dice falsificato col tempo il divino volume, suppone di necessità, che esso fosse verace e degno di fede nella sua prima origine; e per di più deve riconoscerne anche di presente l’esistenza, a fine di paragonarne il vero col falsificato): ma sia quel rio che dal lungo correre l’atto sopra la terra abbia a poco a poco perduta la limpidezza donata a lui dalla vena.

XI. Ma io dico in prima, secondo tutte le leggi (Bal. in rub. de fide instrum.), che per togliere fede ad un istrumento ricevuto per vero da lungo tempo, non basta l’asserire animosamente che sia falsato, convien provarlo. Potranno gli avversari provare ne’ libri sacri il falsificamento da loro opposto? Su quali autori lo fondano? su che testi? Su che tradizioni, o di qual maniera possono i meschini affermar che egli succedesse?

XII. Anzi, ripiglio io, che da’ nostri non solamente non è stato adulterato mai questo libro dalla prima sua dettatura, ma che nemmeno era possibile adulterarlo.

XIII. Pruovo che non fu adulterato: altrimenti quella parte in cui fosse avvenuto un tale adulteramento non corrisponderebbe più con l’altre, come era innanzi, ma ne discorderebbe. E pure tutte le corde di un istrumento, il più armonico che si trovi, non concordano mai tra sé tanto giustamente, quanto giustamente concordano tutte le pagine e tutte le proposizioni di questo gran volume, puro affatto da ogni contraddizione, benché lievissima: di modo che questo solo argomento dovria bastare a qualunque sano intelletto. Per fargli credere, che se de’ vari libri, onde vien formata la bibbia sacra, furon diversi i secoli e gli scrittori, l’autore nondimeno ne fu sempre uno, cioè Colui che è sopra tutti i tempi o tutte le teste, né mai si muta.

XIV. Pruovo che non fu né anche possibile adulterarlo: attesoché gli esemplari, tanto del vecchio testamento, quanto del nuovo, furono fin dai principii della Chiesa divulgati per tutto il mondo, per l’Europa, per l’Asia, per l’Africa, e in ogni parte allor conosciuta. Furono trasportati in tutte 1e lingue, nella caldaica, nella greca, nella latina, nell’arabica, nell’armena, nell’etiopica, nella schiavona. nella siriaca. Furono del continuo letti pubblicamente, nelle occasioni che i Cristiani concorrevano insieme alle lor vigilie devote, a stazioni, a salmeggiamenti. Come sarebbe però potuto riuscire, né ad un uomo privato, né ad una setta falsificare tutte le copie di ciò ch’era in man di tanti?Non fiorirono sempre tra’ Cristiani uomini eminentissimi, che non avrebbero mai, come dotti ignorato un tale adulteramento, né mai, come zelanti dissimulatolo? per non ricorrere ora alla provvidenza, la quale, se in tante vicende di questo basso mondo non ha lasciato mai perire una specie di creature, per minima ch’ella fosse, come poteva lasciar perire la verità di quei libri, nei quali ella ci aveva dettata di bocca propria la via che dovevamo tenere nel venerare il nostro padron Sovrano sopra la terra, e nell’incamminarci a goderlo in cielo? Possiamo noi sospettare, ch’ella sia vaga di un culto falsificato, e che s’ella è curante de’ nostri affari minori, trascuri il sommo, sino al permettere che tante migliaia di persone piissime, le quali giorno e notte meditano la legge divina attentissimamente su questo libro, abbiano ad abbracciare una vana larva, invece di una solida verità? Non possono queste cose cadere in capo, se non a chi vi falsifichi il suo cervello, per poter con più libertà tener chi gli piace in conto di falsatore (Che non fosse possibile adulterare il divino volume, io ne scorgo un nuovo argomento in questo che Dio non può fallire al suo scopo provvidenziale: e fallito avrebbe, se, dopo di avere largito all’uomo il libro delle verità religiose, avesse poi permesso, che venisse adulterato a segno da non potersi più riconoscere la sua divina impronta).

XV. Ma ciò che ha più da stimarsi, è che Iddio insieme col libro ha data alla sua Chiesa la mente sì per intenderlo e sì per interpretarlo. Altrimenti a che gioverebbe quello, senonché a rendere gli errori più perniciosi? Come non v’è cicuta la più nocevole di quella che si beve nella malvagia; così non vi sarebbe inganno più pestilente di quello che si bevesse nella parola divina intesa a capriccio. E pure chi può dire per altro quanto sia facile, ora il cavar da esso gli errori, ora il confermarli, all’usanza di tanti eretici abusatori del sacro testo, sol perché ciascuno si arroga una stessa miniera si cava e terra e metallo e medicamenti e veleni. Ora su questo affare è così protetta e così privilegiata da Dio la Chiesa, che un Agostino protestò ad alta voce che non crederebbe neppure al Vangelo stesso, se l’autorità della Chiesa Cattolica non fosse quella che glielo porgesse in mano, con accertarlo, che quella è dettatura di Dio. Ego evangelio non crederem, nisi me catholicæ ecclesiæ eommoveret auctoritas (Cont. ep. fond. c. 5. 6). E perché ciò, se non perché ad essa da Dio fu conferito lo spirito necessario a discerner bene qual sia la parola di Dio, e quale non sia? Per questa prerogativa si mostra ella degna del titolo più sublime di cui l’ornò l’Apostolo, ove chiamolla colonna e fermamento di verità: Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis (1. Tim. III. 13. s. Th. ib.) Colonna per la saldezza ch’ella ha in se stessa: fermamento per lo sostegno che dà ad altrui. Non è adunque la interpretazione delle scritture quella che rende ferma la Chiesa, ma è la Chiesa quella che rende ferma la interpretazione delle scritture, come non è l’edifizio quello che rende stabile la colonna, ma la colonna quella che rende stabile l’edifizio. Né da ciò ne vien che la Chiesa si arroghi superbamente d’esser da più delle scritture divine (come i suoi calunniatori tentarono fin di apporle), ma d’ essere bensì da più di quegli uomini particolari e privati, i quali espongono le scritture divine.

III.

XVI. E pur tutti questi pregi sarebbero, per dir così, un tesoro nascosto, e conseguentemente di nessun prò, so con essi non andasse congiunto l’essere questa scuola una scuola pubblica che sta sempre aperta a ciascuno. Se ella fosse scuola ignota, o invisibile, ne seguirebbero que’ medesimi sconci i quali avverrebbero, se o non fosse al mondo questa comunanza di uomini da Dio retta con certezza infallibile nel suo culto; o se, essendovi, non fosse discernevole agevolmente dalle altre comunanze che non son tali. Rileverebbe per ventura gran fatto, che non mancasse al mondo il vero sentiero dì andare a Dio, quando questo fosse sì inospito o sì intralciato, che non si potesse discernere dai sentieri al tutto contrari? In tal caso quella provvidenza medesima che si stende a fornire i vermicciuoli più vili di conoscimento bastevole a rintracciare con sicurezza i mezzi proporzionati a trovar i lor cari pascoli, avrebbe poi lasciati gli uomini in una ragionevole dubbietà di ciò che sia d’uopo al conseguimento del loro ultimo fine. Proposizione che da nessuna bocca può vomitarsi senza appestar tutta l’aria. Il che per più forte ragione hanno da concedere ancora lo tanto sette de’ Cristiani, che, o per l’eresie o per lo scisma, si son divise dalla comunione cattolica. Conciossiaché, avendo il Figliuolo di Dio comandato sì espressamente a’ propri seguaci, che ne’ loro dubbi faccian ricorso alla chiesa, die ecclesiæ, sotto pena che sia contato tra gl’infedeli chi contumace ricusi di accertarne le decisioni: Si ecclesiam non audierit. sit tibi sicut ethnicus et publicanus (Matt. XVIII); qual dubbio c’è che evidentemente si debba poter discernere quale sia questa Chiesa ornata da Dio di tanto incontrastabile autorità? da che più d’una (come sopra mostrammo) non può mai essere: onde chi da lei si diparte, non può non perdersi, quasi fuori dell’arca, in un generale diluvio che non ha scampo.

XVII. Oltre a che, se tutti i Cristiani hanno un precetto sì rigoroso di amarsi scambievolmente, con un amore più nobile e più notabile di quello che regni in altri: In hoc cognoscent omnes, quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem (Io. XIII, 35): come potrebbero essi adempire sì bel precetto, se non si distinguessero apertamente i fratelli dagli inimici, i fedeli dagli increduli, e i confederati dagli stranieri?

XVIII. Finalmente questa Chiesa, che in riguardo agli uomini è scuola di verità, in riguardo a Cristo è suo regno. E però quale onore, o quale ossequio ritrarrebbe egli mai da questo suo dominio sopra la terra, se fosse, dirò così, una terra incognita, e non avesse altri vassalli, che alcuni uomini, o smarriti o sepolti? Infino la sinagoga da lui distrutta lo potrebbe insultare di miserabile, con dimostrarsi ella più nota nelle sue sconfitte medesime che non sarebbe il reame di Cristo nei suoi trionfi.

XIX. Però la Chiesa non è invisibile ad altri, che a chi (come disse sant’Agostino) vuol chiudere apposta gli occhi per non vederla: Hanc ignorare nulli licet (Tr. 2. in ep. Io). E Chiesa? Dunque è congregazione, mentre tal è la forza del suo vocabolo. E s’ella è congregazione, come almanco non è ella visibile ai congregati? Né poteva da Cristo venire paragonata, or ad aia, or a cena, or a convito, ora greggia, se uno che è quivi non sapesse nulla dell’altro. Che più? Non è ella quella città, non posta al piano, ma posta sulla montagna? Civitas super montem posita (Is. XVI. 18). Adunque non solo è nota a chi dentro v’abita, ma ancora a chi ne sta fuori. Ben ha da stimarsi cieco chi non arriva a scorgerla fin da lungi. Tanto più che Isaia la chiamò la città del sole, civitas solis vocabitur; e però niun potrà dire che non la scorse, perché egli si abbatté a passarvi di notte.

IV.

XX. Tale adunque è la scuola, maestra di fede alle genti, antichissima di tempo, infallibilissima negl’insegnamenti, apertissima a chi brami di entrarvi qual suo scolaro. Solo qui si vuole avvertire, com’ella ha una porta bassa per cui non è permessa l’entrata che a capo chino (Qui ci soccorrono alla mente quei versi manzoniani del Cinque maggio: » Che più superba altezza » Al disonor del Golgota » Giammai non si chinò). Certe menti orgogliose non v’hanno luogo: Non est fides ruperborum, sed humilium (S. Aug. ser. 36. de verb. Dom.). Iddio è un sole, ma non già un sole simile al materiale, il quale illumina di necessità da per tutto: Sol iliuminans per omnia (Eccli. 42. 15): né è mai padrone di ritirare i suoi raggi quando a lui piaccia. E sol volontario, che se diffonde la luce, la diffonde per elezione. Onde, invece d’illustrar maggiormente le cime più rilevate, ritira da esse i suoi splendori ad un tratto e le lascia nelle tenebre folte da loro elette. Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Iac. 1. 21).

L’IDEA RIPARATRICE (6)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (6)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO II

Chi deve riparare?

CAPO TERZO

IL SACERDOZIO E LA RIPARAZIONE.

Nell’annunciare un volume di Lettres des Prètres aux armées. G. Goyau definisce la S. Messa « il più grande avvenimento della Storia umana ». poi soggiunse: « Ogni giorno il Sacerdote introduce nei destini della famiglia umana l’azione efficace del Dio Redentore: con un gesto sovrano fa entrare nella trama dei nostri peccati quotidiani il riscatto divino: al disopra del caos delle colpe pubbliche e delle colpe private egli solleva in alto la vittima di espiazione. Per alcuni, e diciamo pure per molti, questo compenetrarsi della storia umana per mezzo del moltiplicato sacrifizio di un Dio — moltiplicato e nello stesso tempo sempre unico — non è che una cerimonia priva di valore. Eppure sotto i loro occhi per opera del sacerdote si ripete l’ora decisiva in cui il genere umano, tutto insieme peccatore e giustamente diseredato, fu d’un tratto rimesso sulla via della pienezza della vita soprannaturale per mezzo di due portenti inauditi: l’Incarnazione e la Redenzione. « Operaio scelto da Dio per continuare attraverso ai secoli questi stessi portenti, il Sacerdote non si lascerà distogliere, avvengano pure le più rovinose catastrofi, da un tale impegno, il quale dal giorno della sua ordinazione si è come identificato colla stessa vita dell’anima sua per l’eternità ». Non si saprebbero condensare in più breve giro di parole la grandezza e la responsabilità del sacerdozio. Che fa il Sacerdote? Egli continua la vita di Gesù Cristo. Orbene Gesù Cristo .è venuto sulla terra per dare al Padre in se stesso un Pontefice, un Sacerdote capace di adorare e di espiare in modo conveniente. Il Sacerdote, destinato a continuare Gesù sulla terra, dovrà imitarlo offrendosi con Lui in testimonianza di adorazione e di espiazione. Come è consecrante con Gesù, il Sacerdote sarà anche « ostia » con Gesù. Egli non comprende che la metà del suo ministero se, mentre accetta la parte attiva di distributore del Corpo SS., della parola e del perdono di Gesù Cristo non accetta pure insieme la parte passiva di vittima del suo Maestro, di Colui di cui fa le veci e perpetua le funzioni. In tutto il tempo di sua vita quaggiù il divin Salvatore fu « ostia ». Non contento, volle, prima di morire, prolungare il suo sacrifizio, e nell’ultima Cena ne diede l’incarico ed il potere all’uomo. Così noi abbiamo la Messa che riproduce con rito incruento l’immolazione cruenta del Calvario. Sul Golgota Gesù Cristo, sospeso tra cielo e terra, faceva da schermo tra la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo. E la sua mediazione era accetta al Padre per causa delle sue piaghe aperte e del suo sangue sparso. Nella Messa Gesù Cristo, posto sull’altare tra cielo e terra, ancora una volta fa da schermo tra la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo: ciascuna « elevazione » compensa per le molte nostre bassezze, per le nostre cadute nel peccato e questo perché  la medesima virtù del sangue e delle piaghe divine estende la sua efficacia attraverso ai tempi; non vi hanno due sacrifizi, ma quello stesso della Croce che si manifesta in maniera diversa. Su questo punto le parole del Concilio di Trento sono chiare (La stessa vittima e lo stesso offerente ora per ministero dei sacerdoti, Colui che offrì se stesso in Croce, ma il modo di offrirsi è diverso (Conc. Trid., Sess. XXII, c, 2 –  Nel divin sacrifizio della Messa è presente lo stesso Cristo e viene immolato in modo incruento Colui che in Croce si offrì in modo cruento (ibid). – Non è nostro compito lo svolgere questa tesi e tantomeno l’entrare in discussioni teologiche sulla maniera di spiegare l’immolazione mistica. Nessuno meglio di Bossuet – Meditaz. sul Vangelo, la parte, « La Cena » – presenta quanto dobbiamo sapere su questo punto. Altri si potrà servire anche dei Metodi e formole per ben ascoltare la S. Messa, che ha scritto l’autore della Pratica progressiva della Confessione. Potremmo citare dei trattati speciali, ci basti indicare come eccellenti: CONDREN, Le Sacerdoce et le Sacrifice de Jéau-Christ. — GIRAUD, Jesus Prétre et victime é Prètre et Hostie. Non è questa tuttavia una bibliografia completa. ma la citazione di qualche opera di polso che non si può ignorare del tutto senza inconveniente. – opere di prossima pubblicazione tradotte sul blog – ndr. -): Quanti purtroppo assistono alla Messa senza dar segno di pur sospettare un così adorabile mistero! Quanti, se pregano, si valgono di formole adatte a tutt’altra circostanza. Quanti sanno a memoria le parole: « Santo Sacrifizio della Messa » , ma non comprendono a quale realtà precisa e terribile esse corrispondono. Si cita il caso di quel buon contadino che durante la Messa della domenica se ne stava colle spalle volte all’altare pregando ai piedi d’un gran Crocifisso di un’antica Missione collocato ad un pilastro. Un cotale gli fece osservare che il Signore era presente sull’altare, si voltasse per adorarlo: ed egli rispose tranquillamente: « Il vostro Signore sarà come voi dite sull’altare, il mio eccolo qui », e indicò il Crocifisso. Ignoranza più comune di quanto si creda. Ma di quelli stessi che credono fermamente l’identità del sacrifizio dell’altare con quello della Croce, non tutti conoscono il preciso loro dovere di offrire se stessi insieme coll’ostia santa che si offre a Dio. Se vogliono assistere alla Messa secondo lo spirito della Chiesa e l’intenzione di Nostro Signore. – Eppure questa necessità di unire nella S. Messa la propria all’immolazione del divin Salvatore è provata da molti argomenti: dalla nozione stessa di sacrifizio e dall’uso fattone fin dai tempi più antichi; dalla tradizione cattolica fin dalle origini; dalla dottrina comune dei SS. Padri sull’Eucaristia; dalla liturgia della Messa; da certi riti particolari, come dalla composizione delle specie sacramentali… ecc…. Per quanto andiamo indietro nella storia del Sacrifizio, si trova sempre che la vittima sostituisce quelli che assistono alla sua distruzione per esprimere a Dio i loro sentimenti di adorazione e di riparazione. Questa sostituzione diventerebbe un atto farisaico e puramente materiale quando per mezzo del Sacerdote e insieme con lui i fedeli non offrissero a Dio l’omaggio della loro religione e del loro pentimento, omaggio di cui nell’immolazione dell’Ostia abbiamo come un simbolo. Nell’antica Legge ciascuno posava la mano sulla vittima per dimostrare che si univa ad essa. La stessa cosa fa al presente il Sacerdote quando prega colle parole: « Noi vi scongiuriamo, Signore, ricevete quest’oblazione della nostra servitù e di tutta la vostra famiglia » (« Oblationem servitutis nostræ sed et cunctæ familiæ tuæ ». Molte preghiere della Messa esprimonol’unione del Sacerdote e dei fedeli con Nostro Signore — delle piccole ostie colla Grande. — servi tui sed et plebs tua. Noi tuoi servi e tutto il tuo popolo ..). Nei primi tempi del Cristianesimo ciascun fedele presentava la sua offerta, una parte del pane e del vino che doveva esser consacrato simbolo della sua partecipazione spirituale al S. Sacrifizio. Per formare le oblata — notano i Santi Padri — fa d’uopo unire insieme molti chicchi di grano e molti acini d’uva: questo prova che tutti i fedeli riuniti in un solo corpo si debbono offrire a Dio. Sempre la stessa dottrina veramente magnifica e fondamentale: Gesù Cristo non è « completo » se non unito al suo corpo mistico; la sua oblazione non sarà intera che per l’unione della nostra alla sua. Bossuet nella sua Exposition de la doctrine catholique, libro scritto per i protestanti, così spiega il modo con cui i fedeli assistono alla Santa Messa: « Presentando Gesù Cristo a Dio noi impariamo nello stesso tempo ad offrire noi stessi alla Maestà divina, in Lui e per mezzo di Lui quasi altrettante ostie viventi ». E S. Agostino: « Nell’offerta che la Chiesa fa al Signore del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, essa offre ed immola se stessa… Il vero sacrifizio del Cristiano consiste nel non fare che un corpo solo in Gesù Cristo » (De Civ. Dei, 1. 10, c. 6). Ahimè! Troppo spesso i fedeli son ben lontani da questo ideale che pur dovrebbe esser la regola comune. La regola comune per ogni Cristiano, quanto più per ogni Sacerdote! « Che bello spettacolo presenterebbe la Chiesa se tutti i Cristiani — e noi aggiungiamo: se tutti i Sacerdoti — comprendessero così la legge del proprio Sacrifizio! Tutti intorno a Gesù, che si posa come morto sull’altare, i Cristiani spiritualmente immolati dovrebbero formare una sola Ostia di adorazione riparatrice. Fate, o mio Dio, che così sia di noi tutti; dateci di esser delle ostie immolate con Gesù-Eucaristia » (GRIMAL: Le sacerdoce et le Sacrifice de Jesus-Christ. p. 277. Libro utilissimo ai sacerdoti per comprendere la necessità che hanno di vivere come «Ostie ». Noi l’abbiamo consultato spesso nello scrivere il presente capitolo.). Un Sacerdote che comprenda appieno la Messa che celebra e per così dire la viva integralmente, tutto opera colla sua « Ostia » e nulla senza essere unito ad Essa. Per Ipsum et cum Ipso et in Ipso. Tutto per per mezzo di Gesù « Ostia » , insieme con Gesù « Ostia », in Gesù « Ostia » . Vivere senza esser crocifisso dovrebbe essere per lui una contraddizione. Victima Sacerdotii

sui et sacerdos suæ victimæ, diceva San Paolino: « Vittima del proprio Sacerdozio e sacerdote della propria vittima ». Certo, debole e fiacco, avrà sovente delle manchevolezze, ma il suo ideale sarà questo: Esser l’uomo del Santo Sacrifizio, l’uomo del Sacrifizio. – La sorella di Mgr. d’Hulst, dietro ad una immagine che gli mandava in occasione dei suo suddiaconato, aveva scritto: « Non essere mai Sacerdote senza essere ostia » . — Bel motto che fa per noi tutti. Non soltanto la vera e completa intelligenza della S. Messa dovrebbe condurre naturalmente ogni fedele — e a più forte ragione ogni Sacerdote — ad offrirsi a Dio in immolazione ogni qual volta gli è concesso assistere al divin Sacrifizio o celebrare, ma anche la vera e completa intelligenza della S. Comunione dovrebbe spingere ugualmente ogni fedele — e a più forte ragione ogni Sacerdote — ad una offerta analoga ogni volta che ha la buona sorte di ricevere Gesù « Ostia ». Possiamo considerare la S. Comunione sotto due aspetti, ambedue essenziali, ambedue dogmatici, che possono ad ugual misura influire nella pietà cristiana: la Comunione, incorporazione alla vita di Nostro Signore; la Comunione, incorporazione alla sua morte. Praticamente però, questi due diversi aspetti della Comunione non trovano nelle anime uguale accoglienza. Quanti si accostano alla S. Comunione conoscono e vi cercano l’unione colla vita del Salvatore. Forse pochi conoscono e vi cercano la partecipazione al suo Sacrifizio, alla sua immolazione, alla sua morte, che pure è il tema obbligato della predicazione eucaristica di S. Paolo. « Poiché la morte di Gesù è sempre presente nell’Eucaristia — dice Bossuet (Meditazioni sul Vangelo, ll parte, «La Cena», 46° giorno.) — l’impressione della morte di Gesù Cristo dev’essere sentita in ogni fedele che deve rendersi vittima anch’esso ad imitazione del Figliuolo di Dio. Questa è la virtù della Croce, virtù sempre vivente nell’Eucaristia ». « Non dimenticate — scriveva S. Paolo ai Corinti — che nel comunicarvi voi “annunziate la morte del Signore ” ( I Cor., XI). Voi dovete dunque, tale è la mente di S. Paolo, unirvi alla sua immolazione, comunicare colla sua morte » (Id., ibid., 19° giorno). La stessa dottrina troviamo neWImitazione di Cristo (lib. IV, c. 8): « Nella stessa maniera che io mi sono offerto spontaneamente al Padre pei suoi peccati, le mani stese sulla Croce e il corpo tutto impiagato, nulla risparmiando che mi appartenesse, ma tutto offrendo in sacrifizio per la divina riconciliazione, così anche tu devi spontaneamente offrire te stesso a me in oblazione pura e santa, ogni giorno nella S. Messa, quanto più intimamente puoi con tutte le tue forze e con tutti gli affetti tuoi ». S. Paolo dice ancora: « Quelli che mangiano le carni immolate forse che non partecipano al Sacrifizio? » ( I Cor.. X, 18). Parole che non si possono comprendere che ricordando i riti e il simbolismo dei sacrifizi offerti nel tempio di Gerusalemme. Mangiare delle carni offerte voleva dire collocare se stessi sull’altare e domandare di esser considerati come parte della vittima: e questo sapevano benissimo i Corinti. Sempre il cibarsi dell’oblazione fatta fu considerato come una intima unione con la stessa oblazione. L’Apostolo quindi colle sue parole altro non fa che ricordare come nella nuova legge si continua lo spirito dell’antica, e l’effetto della nostra partecipazione all’« Ostia » è ancor sempre di unirci strettamente al Cristo immolato, di metterci in « comunione » con Lui. Comunione vuol dire appunto unirsi, diventare una cosa sola con l’Ostia — quindi offrirsi in ispirito con essa — dunque « offrire la propria carne ad esser crocifissa coi suoi vizi e colle sue concupiscenze » (Gal., V, 24), abbandonare nelle mani di Nostro Signore la propria vita, le fatiche, le pene, le preghiere affinché Egli le pervada tutte dello spirito di sacrifizio. Al IV secolo era di consuetudine, appena comunicati, di posar il dito sulle labbra ancor umide del Preziosissimo Sangue e segnarsi poi con esso sugli occhi, sulla fronte e sulla bocca. Al contatto dell’Ostia impariamo ancor noi a purificare e santificare le nostre affezioni e i nostri pensieri, il nostro cuore e i neutri occhi, tutte le nostre membra, tutta l’anima nostra e imporci a questo fine i sacrifizi necessari. – « Voler ricavare profitto dal S. Sacrifizio  nella S. Comunione senza fare dei sacrifizi, volerci divinizzare per mezzo dell’Ostia senza immolarci con Essa. è pretendere di vivere come “parassita dell’Altare”. è cercare la salvezza fuori della Croce » (GRIMAL: Ibid., pag. 329). La Comunione ben intesa non è soltanto divinizzante, ma deve esser pure immolante. anzi perché divinizzi conviene che immoli. – L a Comunione ben intesa non è soltanto un tesoro che ci viene dato, non consiste solo nel ricevere un’ostia, ma anche nell’offrire, nel darne un’altra. Non si può ricevere degnamente la Vittima dell’altare se non a condizione che noi pure ci offriamo sull’altare come vittima in ispirito di adorazione e di espiazione (« La doppia funzione dei fedeli alla S. Messa, li costituisce offerenti e offerti nello stesso tempo, è così vera che la liturgia del S. Sacrifizio non si può intendere altrimenti, se non vogliamo avere delle contraddizioni in termini » . DOM VANDEUR O. S. B., La Sainte Messe,  p. 135). Mgr. Batiffol ha lasciato scritto: « Il concetto di S. Paolo della comunione al Sacrifizio è destinato a rimaner sempre oscuro per la pietà cristiana, la quale sarà sempre più attirata dal concetto di S. Giovanni: che cioè la S. Comunione è una partecipazione alla vita divina » . Noi non crediamo questo giudizio definitivo, anzi vogliamo sperare invece che quando ciascun Sacerdote sarà meglio penetrato egli stesso della dottrina di S. Paolo sulla « Comunione che immola » , egli si troverà in grado di insegnare pure ai fedeli la necessità in cui sono di offrirsi con Gesù in Sacrifizio ogni volta che si accostano a riceverlo nell’Ostia santa. È un fatto che le anime riparatrici sono in piccolo numero: esse si moltiplicheranno certamente quando molti siano i Sacerdoti che posseggono a fondo la dottrina della Riparazione. Come possono sapere i semplici fedeli se coloro che li istruiscono non sanno, o se possedendo in teoria la grande idea paolina sulla comunione o partecipazione al Sacrifizio di Gesù Cristo, essi poi in pratica non la vivono e non si danno attorno con tutte le loro forze per farla vivere nel gregge di Cristo? Molto a proposito dice l’autore di Sacerdoce et Sacrifice de Jésus-Christ: « Lo spirito di sacrifizio è la grande lezione che cidà l’Ostia. L’Eucaristia riproduce la Croce…L’effetto immediato e necessario dellaS. Comunione è unirci all’’Ostia come tale,cioè a Gesù che è immolato e che immola.« Riceve la S. Comunione con vero spirito chi vede nell’Ostia Gesù Crocifisso ed entra nelle sue intenzioni di Ostia. Chi non si comunica con questo spirito di sacrifizio, benché sia in istato di grazia e provi certi sentimenti di divozione, si potrebbe dire che non si comunica che per metà (Si noti il « si potrebbe dire ». Non intendiamo affatto negare il valore dell’opus operatum). Egli non comprende che voglia dire Ostia, forse perché nelle spiegazioni, che gliene vennero fatte, troppo si è indugiato sulla virtù eucaristica secondaria o metaforica a danno di quanto v’ha di più importante. Egli non scorge sui nostri altari sempre presente e operante la Croce, forse perché  chi doveva farlo non gliel’ha mostrata coll’insistenza dovuta ». E poi continua: Nella nostra predicazione eucaristica noi avremo di mira sovratutto il far vedere sui nostri altari il Memoriale vivente della Morte di Nostro Signore per istillare nelle anime questo spirito d’immolazione che le renderà Ostie insieme con Gesù nella loro vita quotidiana… (Grimal, ibid. p. 357). Non temiamo d’incorrere nel rimprovero di troppo insistere sul lato doloroso del Cristianesimo, di presentare tanto la Passione di Nostro Signore, quanto la vita e la morte di ogni Cristiano come un’immolazione espiatrice. Potremmo noi fare altrimenti… attenuare o nascondere il dogma fondamentale di nostra fede, di nostra salute? Predichiamo questo dogma sempre e tutto intero: L a Croce che si continua nell’Eucaristia e ci porta al Cielo; — la Croce retaggio del credente che si comunica immolandosi per mezzo di Essa ma per vivere in eterno; — la Croce che sempre attraverso ai secoli, ed oggi più che mai, attira le anime privilegiate, le anime più pure, le più nobili che s’innamorano dei patimenti per continuare e completare la Passione di Gesù. Chi potrà dire la bellezza, la fecondità della Croce quando domini tutto l’orbe cristiano? Chi potrà dire la bellezza, la fecondità di queste anime elette  che attingono nell’Ostia lo spirito di vittima, che immolate con Gesù sono il profumo e la salvezza del nostro povero mondo? « Concedeteci, o Gesù, d’esser nel bel numero di queste anime, concedeteci di moltiplicarlo questo numero col nostro insegnamento e colla nostra direzione » (Grimal, l. cit.). Ai nostri giorni poi, mentre si propaga ognor più la divozione alla S. Eucaristia e Roma favorisce in tutte le maniere e incoraggia la Comunione frequente e quotidiana, sforziamoci ancor noi affinché quanti si accostano di frequente alla S. Mensa lo facciano collo spirito di cui abbiamo ragionato: quali « Ostie ». Praticare la mortificazione è cosa buona ma non basta; bisogna « vivere » mortificati abbracciando con ardore tutte quelle mille occasioni di vincersi che si presentano ad ogni istante lungo il giorno. E si può fare meglio ancora: nei SS. Tabernacoli, sugli altari, Gesù benché vivo vuol stare in sembianza di morto; Egli si abbandona nelle mani del Sacerdote che lo muove e lo distribuisce a sua volontà: « A me pare, scrive un’anima santa, che il rimetterci totalmente al volere di Dio, l’abbandonare nelle sue mani quanto possiamo fare, soffrire e meritare perché Egli ne disponga come gli piace, anche senza che noi ne possiamo saper nulla, quest’atto, dico, di abbandono completo, a me pare che sia il più grande sacrifizio possibile per un’anima, quello che più glorifica Gesù-Ostia perché spoglia l’anima di quello che ha, di quello che è, per farne un omaggio all’Ostia divina e arricchirne la povertà volontaria con tutto quello che una creatura può dare e possedere » Essa aggiunge e a proposito: «Questo dovrebbe essere lo stato ordinario delle anime che si uniscono spesso a Lui nel suo Sacramento di amore perché un tale abbandono si può dire la condizione richiesta per la unione eucaristica come ne è il frutto e la conseguenza necessaria … Quello che rende più amara la tristezza del Cuore di Gesù si è che le sue più care anime sono per lo più dominate dallo spirito egoistico che loro fa dimenticare quello che sono per ufficio e per dovere, cioè un supplemento di espiazione e di intercessione per tutto il genere umano e quindi esse non appartengono più a sé stesse ma a Gesù ». Molte anime, vogliam dire di quelle che frequentano la S. Comunione, certo procederebbero più innanzi nella santità se invece di badare quasi esclusivamente ai propri interessi anche spirituali, cercassero prima di tutto quello di Dio, e invece di comunicarsi a proprio profitto, si comunicassero a « profitto di Gesù ». La divozione eucaristica di un’anima riparatrice deve tendere a questo ideale. Sul cominciare, il sentimento che domina un amore di compassione: il disprezzo, l’indifferenza, gli oltraggi: alcuni non sanno, altri non se ne curano, altri, ancor peggio, perseguitano; delitti degli empii, colpe dei buoni, peccati dei migliori, di quelli cioè che Gesù Cristo chiama « suoi », che si è particolarmente eletti — pur troppo ve n’ha anche di questi! — e si cerca di riparare. Il Maestro è troppo spesso lasciato solo; e si va a visitarlo. Durante la S. Messa le chiese sono purtroppo vuote; e il più spesso possibile si assiste al S. Sacrifizio. Nelle chiese vuote, le Sacre Pissidi restano colme; e ogni giorno si va alla Sacra Mensa. La Riparazione porta così all’Eucaristia. Or ecco a sua volta l’Eucaristia che conduce alla Riparazione; l’Eucaristia non considerata tanto dal suo lato, se si può dire così, esteriore (il poco valore attribuito dagli uomini alla « moneta » troppo comune dei tabernacoli), ma piuttosto nella sua realtà intima; l’Eucaristia che dà al mondo Gesù, la Vita eterna nello stato di vittima espiatrice. Il pane ed il vino sono « apparenze morte »; il Cristiano che si comunica « apparenza vivente » del Salvatore; quanto tutto questo supponga di immolazione l’abbiamo già visto (si rilegga ove furono ricordati i desideri eucaristici del Cuore del Divin Salvatore). L’altare del Sacrifizio sarà sempre la miglior scuola del Sacrifizio. Tocca al Sacerdote di acquistare per sé e trasfondere in altri una intelligenza netta e profonda di quello che è il Sacramento per eccellenza dell’amore reciproco fra Dio e l’uomo. – Del resto, se pur non si è perduta la memoria e non si sono dimenticati anche i desideri della giovinezza e le aspirazioni della propria ordinazione, il Sacerdote deve riconoscere che le aspirazioni al Sacerdozio sentite in cuor suo allora si confondevano con dei sogni ardenti di sacrifizio, che le sue risoluzioni d’esser fedele sempre ai doveri del Sacerdozio nel giorno dei suoi impegni definitivi coincidevano nel suo cuore colla promessa di una donazione completa e di una cosciente immolazione. I desideri di un giovane che si prepara al Sacerdozio! Chi potrà dire le ambizioni che spuntano in un cuor di fanciullo alla lettura della vita d’un S. Francesco Zaverio. d’un S. Damiano apostolo dei lebbrosi, d’un missionario qualunque dell’Alaska o dello Zambese, o del Santo Curato d’Ars? « Si isti et illi curnon et ego? Quello che hanno operato costoro per Gesù Cristo, perché noi potrò anch’io? ». Ancor piccini hanno imparato alla scuola d’una santa donna, la madre loro, a fissar lungamente il Crocifisso. Certe cose facilmente si comprendono quando si ha la fortuna d’aver una santa per madre. Il loro cuore di fanciullo ha intuito nel Crocifisso qualche cosa di misterioso e di straordinario che l’invita ad una impresa che ancora non comprende troppo, pel presente e per l’avvenire. Gesù si è sacrificato per loro, è ben giusto che essi si sacrifichino per Gesù. E in una maniera od in un’altra avranno anch’essi imitato il gesto di quel bambino a cui essendo stata narrata la storia della Passione di Gesù, si stende subito lungo il muro colle braccia in croce domandando alla sua serva che gli pianti dei chiodi nelle mani e nei piedi … Come si può « star bene » quando Gesù « soffre tanto? ». Questi sentimenti naturali e profondi il fanciullo li prova certamente se tra le mura domestiche si ha cura di sviluppare in lui l’educazione del Sacrifizio. Ma si danno dei genitori che su questo punto sono completamente nulli; altri all’opposto fanno di questo « particolare » l’oggetto essenziale delle loro cure e avvezzano i loro figliuoli a punirsi per sé stessi nei loro falli, ad essere austeri nella loro vita, e spiegano loro non solo la Passione che Gesù Cristo dovette soffrire un tempo andato, ma anche la sua presente Passione nella Chiesa di Dio e fanno loro capire, anche senza dirlo in modo esplicito, che il Signore aspetta da loro più tardi qualche prova d’amore in compenso. Così quel padre di famiglia che, in occasione degli Inventari, va alla Chiesa per fare il suo atto di protesta col suo figlio per mano, e al momento in cui si forzano le porte per 1’entrata degli inviati dal governo persecutore egli alza il proprio figlio al disopra del proprio capo perché veda meglio come si difendono le libertà di Dio. Così pure quella donna, madre di Mgr. de Quélen, la quale durante la grande Rivoluzione del 1789 conduce il proprio figlio alle prigioni dei Carmelitani perché sappia come sono trattati i sacerdoti di Gesù Cristo e non si spaventi. Così ancora quest’altra, la madre del P. Varin, che spesso vuole che i suoi piccini si mettano in ginocchio dicendo: « Recitiamo un’Ave Maria per Giuseppe (altro suo figlio) perché egli non è ove la vocazione del Signore lo vuole »: e poi morrà sul patibolo offrendo la propria vita affinché quel suo figlio non resista più a lungo al volere di Dio che lo chiama al sacerdozio. Dopo i desideri della giovinezza ecco le aspirazioni verso il sacerdozio. Il sacerdote non potrà mai dimenticare che dedicandosi al sacerdozio aveva già ben compreso fin d’allora che si dedicava ad una vita di sacrifizio. Il giorno di sua ordinazione — giorno forse già lontano ma sempre dinanzi agli occhi come presente — quando prostrato sul pavimento davanti all’altare, uno degli avventurati della bianca schiera palpitante, egli si offriva a Dio. non comprendeva forse che da quel momento unico suo «mestiere», o meglio unico suo « sogno » sarebbe stato il vivere in Croce col suo Maestro? « Ricevi la potestà di offrire il divin Sacrifizio » ha detto il Vescovo ordinante, e poi ha continuato : « Quello che tu tocchi, la patena, il Calice e gli altri strumenti dell’olocausto, pensa che sono pure gli strumenti del suo sacrificio. Imitamini quod tractatis. Tu avrai tra le tue dita l’Ostia. Pensa che dovrai imitare quello che ogni giorno avrai da trattare ed essere Ostia anche tu nella tua vita. Quatenus mortis dominicæ mysterium celebrantes, mortificare membra vestra a vitiis et concupiscentiis procuretis. Gesù Cristo è morto, converrà vivere mortificandosi, ostia colla tua Ostia, vittima colla tua Vittima. Altrimenti non sarai un vero sacerdote, « procuretis ». Questa dev’esser la tua principale cura, accordare, intonare la tua vita sopra quella di Gesù Cristo per farne due vite sincrone, due oblazioni, due immolazioni anch’esse sincrone ». « Io mi prendevo gusto — così parla il Sig. Olier — di guardar nelle chiese attraverso alle fessure e vedendo le lampade accese: Ah! io dicevo, come voi siete felici nel consumarvi completamente alla gloria di Dio e nell’ardere continuamente per onorarlo! È l’ufficio dei sacerdoti il consumarsi così, poiché essi debbono essere insieme come Nostro Signore e sacrificatori e ostie. Se dei Cristiani tutti è detto: Fate dei vostri corpi un’ostia vivente: con più forte ragione va detta questa parola dei sacerdoti i quali ogni giorno ripetono: Hoc est corpus meum ». I veri sacerdoti ci danno esempio magnifico nella pratica di questo spirito di vittima, in cui sanno bene che consiste la parte essenziale del loro ministero. – L’Abate Perreyve nel giorno della sua ordinazione domanda al Signore queste tre grazie: « Non cadere mai in colpa grave: restar sempre un semplice sacerdote; dare il proprio sangue per Gesù Cristo » . E celebra con paramenti di color rosso, color di sangue, per dar maggior forza alla sua ultima preghiera con un segno simbolico del sacrifizio. Prima di restituire a Dio la sua anima generosa aveva scritto sulla morte del Sacerdote una meditazione ove faceva notare che « il sacerdote deve riguardare la morte come una delle funzioni del suo ministero. Dev’esser per lui come la sua ultima Messa ». Imitando il Maestro divino egli deve servirsi essenzialmente del proprio corpo non per altro che per immolarlo. Egli deve incominciare questa morte nella castità, continuarla nella mortificazione, terminarla finalmente nella vera morte, che è la sua oblazione finale, il suo ultimo sacrifizio. Essi, come avete fatto voi, Signore, debbono incominciare ben da lontano a morire… ». – Un giovane chierico del Seminario Maggiore di Nevers, morto il 6 aprile 1907, non ancora suddiacono, aveva lasciato scritto nel suo testamento spirituale: « Io rimetto la mia anima nelle mani di Dio in unione di Nostro Signore Gesù Cristo che muore, desideroso di morire, vittima come Lui, con Lui ed in Lui. Questo che dovrebbe essere il carattere dell’intera mia vita per vocazione e per dovere, lo sia almeno dei miei ultimi istanti … Volendomi distaccare sempre meglio da me stesso in Dio perché  Egli regni totalmente sul mio cuore, io godo nell’offrir a questo divin Maestro i dolori benefici della mia agonia e il sacrificio della mia vita in riparazione della sollecitudine con cui troppo sovente ho cercato di evitare i patimenti e le mortificazioni. Io vi offro pure la mia vita per la Chiesa, per la patria, per la mia famiglia… » (Grimal, in op. cit. p. 385). Durante l’ultima guerra, molti prevedendo che il Signore poteva loro domandare il sacrifizio della vita si sono offerti di gran cuore all’immolazione totale. – « Oh! quanto è bello, scrive il P. Gilbert de Gironde, morire giovane… morire sacerdote sotto le armi, attaccando il nemico, correndo all’assalto, in pieno esercizio del ministero sacerdotale, forse impartendo un’ultima assoluzione… versare il mio sangue per la Chiesa, per la patria, per i miei amici, per tutti quelli che hanno in cuore la stessa mia fede e per gli altri ancora, affinché possano godere la gioia di credere… Oh! quanto è bello …! ». E l’Ab. Liégeard, del Gran Seminario di Lione, caporale nel 28° battaglione dei cacciatori alpini: « Io offro la mia vita perché siano dissipati i malintesi tra il popolo di Francia e i suoi sacerdoti ». –  E il P. Federico Bouvier, della Compagnia di Gesù, uno dei più eruditi nella Storia delle religioni: « Io do volentieri la mia vita, egli dice, per i miei commilitoni dell’ 86° Reggimento, affinché questi uomini retti e onesti a cui non manca altro che il vivere in Dio e secondo la loro fede, ritornino sinceramente a Lui ». Un seminarista, caporale del 90° di Fanteria, l’Ab. Chevolleau, che abbiamo già citato, scriveva in una sua lettera: « Pregate perché il mio abbandono in Dio sia perfetto. Che vale la vita, l’altare visto in lontananza, le anime da salvare in tempi che non verranno per me, se al presente il Signore mi vuole per sua vittima? ». Come non ricordare qui due valorosi a cui mi legano memorie personali troppo forti perché possa lasciarli da parte: il P. Gabriele Raymond e l’Ab. de Chabrol, l’uno e l’altro cappellani militari? Il primo — che già conoscevo da lungo tempo — venne a prendere il mio posto in fondo alla mia tana di prima linea nell’Artois, di fronte alle famose costruzioni bianche del «Plateau d’Angres » fra Loos e Souchez. Al secondo io a mia volta succedetti a Tracy-le-Val nell’agosto 1916: e tutti e due furono uccisi poco appresso. E soldati e ufficiali erano concordi a magnificare il loro coraggio e una cosa appariva evidente, che essi erano troppo facili ad esporsi, quindi la loro affrettata morte. Nessuno mai potrà sapere quale fu l’eroismo di tali uomini, sempre calmi e dimentichi di sé stessi. Il P. Raymond fu schiacciato sotto un riparo. Dell’Ab. de Chabrol così parla un « ordine del giorno » commemorando un attacco e attestando il suo coraggio: « Le ondate dei nostri uomini che si succedevano, si sono inchinate dinanzi al rappresentante di Dio, il cappellano della Divisione, de Chabrol, che sotto la mitraglia tracciava colla sua mano il segno della redenzione e della vittoria ». In un attacco il cappellano fu colpito dalla mitraglia e cadde, avendo egli da lungo tempo fatto l’offerta della sua vita, come il P. Raymond – e « come mille e mille altri – per la Redenzione del mondo e per la vittoria. – Un ultimo esempio, quello del P. Lenoir, anch’egli cappellano militare, morto sul campo dell’onore il 9 maggio 1917, vittima della sua carità verso i feriti. Dopo la sua morte fu trovato sulla sua persona il seguente scritto che il Luogotenente Colonnello volle comunicare al Reggimento per cui il glorioso caduto dopo trenta mesi di fatiche aveva sacrificato la propria vita: « In caso di mia morte, Io rivolgo la mia parola a tutti i miei figliuoli del caro reggimento 4° Coloniali e dico loro — arrivederci —.  Con tutto l’affetto di sacerdote e di amico io li supplico a volere assicurare la salvezza eterna dell’anima loro restando fedeli a Nostro Signore Gesù Cristo e alla sua legge, facendo penitenza delle loro colpe e unendosi a Lui nella S. Comunione il più spesso che sarà loro possibile. A tutti io do appuntamento in cielo; per loro a quest’intenzione io offro, ben contento, se sarò esaudito, il sacrifizio della mia vita nelle mani del Divin Maestro Gesù Cristo. Viva Gesù! Viva la Francia! Viva il 4° Coloniali! P. LENOIR S. J. » .

L’Ab. Buathier, nel suo libro Le Sacrifice, ha tracciato questa bella pagina:« Un’anima sconosciuta abbandona questo esilio, a cento passi da essa il fatto è ignorato e nessuno si turba. Tutt’al più qualche vicino dirà senza dare nessuna importanza alle sue parole: “il tale è morto”, e tutto finirà lì, tutti gli altri han visto nulla.« Ma nella sua umiltà quest’anima oscura è unita alla Vittima del Calvario, essa conosce intimamente il valore dell’atto che compie: essa comprende che non solo paga il debito dei propri peccati ma che può ancora pagare per altri, moltiplicare i propri meriti e rifonderli nel tesoro di Santa Chiesa, far vivere colla sua morte molte anime e darle a Gesù: essa conosce tutto questo, lo vuole, lo desidera e si offre. La sua offerta sale verso il Cielo e nel breve giro delle sue ultime ore il suo sacrifizio si termina in una gioia raggiante pace e gloria celeste. Per essa come per Gesù sulla Croce la morte non è altro che il supremo slancio dell’amore. Gli uomini nulla possono scorgere di tutto questo, ma gli Angeli ne restano ammirati ed il Signore premia colla gloria del Paradiso » . — Qualche cosa di simile noi troviamo nei poveri morti di cui abbiamo parlato. – Son pochi anni che si andava dicendo: « La Chiesa di Francia ha bisogno di Santi ». E la Chiesa di Francia ebbe i suoi Santi, come ne ha pure al presente. Gli esempi recati fin qui ce l’attestano e noi potremmo moltiplicarli (« Che diremo del nostro Clero? … V’ha chi dice che al presente non abbiamo più dei santi. Oh! Se la Chiesa mel permettesse io direi che ce ne sono ancora e saprei dire pure ove si trovano! ». Lettera inedita di E. Psichari all’abate Tournebize.). Verrà giorno, si può sperare, in cui ci sarà dato conoscerli tutti e ciascuno in particolare. Ma non dimentichiamo che se avvenimenti straordinari, come fu la guerra ultima, ci rivelano tanto la santità come l’eroismo, essi non hanno potuto crearli di sana pianta: già esistevano. La morte di quelli che così generosamente si danno come vittima riparatrice col Maestro Divino, non è cosa impensata, che avviene per caso, ma suppone una lunga preparazione, un proposito chiaramente voluto. Nessuna improvvisazione; al contrario: conclusione necessaria di premesse. Immolarsi ogni giorno nell’oscurità della vita ordinaria colla mortificazione, colla castità, coll’umiltà, collo zelo… questo solo può render capaci a mostrarsi poi nell’ultimo sanguinoso istante, che chiude la vita, così spontanei, così generosi, nel darsi totalmente come « ostia » alla riparazione. Questi valorosi sono morti così come noi abbiamo ricordato, sol perché ben « alla lunga si sono avvezzati a morire ».

SACRO CUORE DI GESÙ (33): CONSACRAZIONE AL CUORE DI GESÙ

Sac. Prof. Albino CARMAGNOLA: La vittima della carità ossia IL SACRO CUORE DI GESÙ; Società Editrice Internazionale, TORINO, 1920

DISCORSO XXXIII.

Consacrazione al S. Cuore di Gesù.

Una sera gelata d’inverno un uomo si aggirava solingo e pensieroso in luogo alquanto remoto della vicina città. Egli era un genio, ma accasciato sotto il peso di gravi sventure. Dopo di avere camminato alquanto, lo ferisce all’orecchio il suono della campana d’un vicino convento. A quel suono, come alla voce d’un amico, che lo chiamasse per consolarlo, quell’uomo volge ad un tratto i suoi passi frettolosi a quel convento e ne batte alla porta. Un frate si avanza, ed aprendo, così saluta: La pace sia con te, o pellegrino; che cerchi tu? — Che cerco io? Cerco appunto la pace che tu mi auguri, ma che finora non ho trovato. Cerco la pace! Miei cari, questo anelito così ardente di Dante Alighieri è l’anelito di tutta l’umanità. Pace, pace si cerca da tutti; pace, pace da tutti si invoca. Ciascuno vuol pace nel suo cuore; ogni famiglia vuol pace nel suo seno; ogni società vuol pace tra i suoi membri; e tutto il mondo vuol pace fra i suoi stati. E per avere, per mantenere, per promuovere la pace si istituiscono dei comitati, si fanno dei congressi, si diramano circolari, si fanno proposte, si suggeriscono mezzi, si danno delle norme; e ciò si fa dagli stessi più grandi sovrani del mondo. Tanto è vero che la pace è uno dei maggiori beni che si possa godere quaggiù dall’umanità. Ma con questa brama irrefrenabile, che da tutti si ha della pace, con questa aspirazione sì infuocata di tutti gl’individui, di tutte le famiglie, di tutti gli stati, di tutto il mondo si cerca davvero la pace là dove essa esiste? La pace, ha detto il più grande dottore, S. Agostino, è la tranquillità dell’ordine. Ma la base, il principio, la radice di ogni ordine serbato e tranquillo è la conoscenza, l’amore, il servizio di Gesù Cristo, la totale consacrazione della nostra vita a Lui. Senza la nostra vita in Cristo è scossa, è tolta anzi la base di ogni ordine, ed allora non più pace, ma agitazione, scompiglio e guerra. Sì, Gesù Cristo è la nostra pace: ipse est pax nostra; (Eph. II, 14) Gesù Cristo è colui che la può far regnare in mezzo al mondo, perché Egli è il principe della pace: princeps pacis; (Is. IX, 6) Gesù Cristo è colui che la dona, perché è il Dio della pace: Deus pacis. (Hebr. XIII, 20) Appena nato sopra questa terra la fece annunziare agli uomini per mezzo degli Angeli: Et in terra pax hominibus; (Luc. II) prima di andare a morire per noi la lasciò come in retaggio a’ suoi apostoli: Pacem relinquo vobis; (Io. XXI) e dopo la sua risurrezione, il primo saluto, il primo augurio, la prima promessa, che fece ai discepoli, fu la pace: Pax vobis. (Luc. XXIV, 36). È da Lui pertanto, da Lui solo, che ci può venire la pace, opperò è in Lui, in Lui solo che dobbiamo ricercarla. E chi fra di noi, riconoscendo dove stia la pace, non vorrà recarsi lì a farne l’acquisto? Miei cari, siamo arrivati al termine del mese consacrato al Cuore di Gesù. In questo mese ci siamo studiati di conoscere questo Cuore più intimamente che ci fu possibile, ed abbiamo cercato di metterci innanzi i motivi più grandi che devono spronarci a crederlo, ad amarlo e servirlo fedelmente. Ora che altro ci rimane se non risolvere di mantenere costantemente il frutto di queste sante cognizioni? A tal fine non dobbiamo far altro quest’oggi che consacraci interamente a Lui. Ma intendiamoci bene, o miei cari. Invitandovi io quest’oggi, a fare la vostra consacrazione al Cuore Santissimo di Gesù, non crediate, che io vi inviti ad una funzione religiosa vaga e indeterminata, ad un’espansione passeggera di una tenerezza sensibile verso di Lui: no affatto. Io vi invito a fare una consacrazione soda, totale e costante di voi medesimi al Cuore di Gesù Cristo, a prendere cioè una risoluzione decisiva di vivere d’ora innanzi unicamente in Lui, con Lui e per Lui, nella fede ferma alla sua dottrina, nella pratica esatta della sua legge, nel servizio fedele della sua Persona; giacché, orMai lo abbiamo ben inteso, dire Cuore di Gesù è dire Gesù Cristo Figliuolo di Dio fatto uomo per nostro amore e per nostra salute è sempre la stessa cosa. E la salute nostra non sta in altri che in Lui: Non est in alio aliquo salus.(Act. IV, 12) Non altro Nome vi è sotto il cielo, che possa essere il segno della nostra elezione divina; Gesù Cristo principio di tutte le cose ne è pure il fine; tutto da Lui procede e tutto mette capo a Lui. Nessuno va al Padre se Egli non lo conduce colla grazia, con quella grazia che ha la sorgente nel suo Sacratissimo Cuore: Gratia Dei per Iesum Christum Dominum nostrum.- (Rom. VII, 25) Se noi pertanto cercassimo la verità fuori di Lui, non la troveremmo che incompleta e mutilata, perché è Egli la verità; se noi camminassimo verso i nostri destini lontani da Lui, noi ci perderemmo, perché Egli è la via unica e sicura: se noi pretendessimo di vivere senza di Lui, noi resteremmo mai sempre in potere della morte, perché Egli è la vita. Ego sum via, veritas et vita. (Io. XIV, 17) Insomma pensieri, affetti, nobili e sante abitudini, buone opere tutto sarebbe inutile, tutto andrebbe irrimediabilmente perduto, se noi non ci unissimo a Lui, se non ci dessimo a Lui del tutto, se a Lui non ci consacrassimo, giacché senza di Lui non possiamo far nulla: Sine me nihil potestis facere. Tutto per Lui, tutto con Lui, tutto in Lui: Per ipsum, cum ipso et in ipso! Oh quanto importa adunque che noi ci consacriamo con una consacrazione vera, soda, decisiva al Cuore SS. di Gesù: Egli ne ha tutti i titoli e noi ne abbiamo tutto l’interesse. Ed ecco appunto ciò che vi dirò in quest’oggi: —O Cuore adorabile di Gesù, dona oggi tale forza alla mia parola che valga ad ottenere davvero che tutti questi cuori si rifuggano per sempre dentro di te.

I. — Il primo titolo che il Cuore SS. di Gesù ha alla nostra consacrazione si è l’essere Egli il Cuore del nostro Maestro divino, sia perché come tale fu veramente mandato da Dio, sia perché è Dio Egli stesso. No, in Gesù Cristo non abbiamo soltanto uno di quei grandi sapienti e profeti, quali furono quelli che Iddio inviò nell’antica legge; in Lui non v’ha soltanto un semplice riflesso della luce eterna, ma è il sole medesimo sorto nel inondo per inondarlo della sua luce, penetrarlo del suo calore, è la Sapienza divina incarnata, è il Verbo, la Parola divina fattasi vivente in un corpo e in un’anima umana, è insomma il Maestro supremo, il Maestro dei maestri. Se adunque Gesù Cristo è il Maestro nostro per eccellenza, non dovremo noi consacrarci del tutto al Cuore divino per accettare e credere tutti gl’insegnamenti e per osservare tutti i precetti che ne ha fatto uscire per la salvezza nostra? Oh! sì, senza dubbio. Che importa adunque che Egli ci apprenda delle verità che noi colla sola nostra ragione non possiamo né presentire, né penetrare? Che importa che egli ci ammaestri intorno a misteri inscrutabili e superiori al nostro intendimento? Le verità non lasciano di essere verità dal momento che partono dalla bocca di un Maestro divino, che le vede e le afferma. Vi sono stati, vi sono tuttora dei maestri dotati di gran genio, che si impongono per tal guisa alle menti dei loro discepoli da ingenerare in essi una sicurezza la più grande della loro dottrina; sicurezza tale per cui questi discepoli a qualsiasi obbiezione, a qualsiasi difficoltà fosse loro fatta contro la dottrina del maestro rispondono decisamente: L’ha detto il nostro maestro : Magister dixit. Ma questa fiducia così imprudente, che non tiene conto della debolezza che trovasi nella mente umana, fosse pure la più elevata, la più nobile, a quanti sbagli, a quanti errori può andare incontro! Or si potrà dire la stessa cosa di noi quando noi prestiamo fede a Gesù Cristo, ancorché Egli ci insegni cose incomprensibili alla mente nostra? No, non mai, perché se noi a qualsiasi obbiezione o difficoltà che alla dottrina di Gesù si affacci alla mente nostra sia per parte della nostra ragione riottosa, sia per parte dei falsi maestri del mondo, se noi, dico, a qualsiasi obbiezione o difficoltà rispondiamo: Magister dixit, è lo stesso che rispondere: Deus dixit: l’ha detto Iddio, quel Dio che è di una scienza infallibile e di una veracità suprema, ragione per cui noi saremmo del tutto colpevoli se gli rifiutassimo la perfetta sommissione del nostro spirito. Dunque fede piena e totale a tutto ciò che Gesù Cristo ci insegna intorno alla natura di Dio, alla vita delle tre Persone divine, alla sua eterna generazione, alla sua propria Persona, al valore delle sue azioni, all’estensione de’ suoi meriti, alla comunicazione della sua vita, a’ suoi santi Sacramenti, alla virtù della sua grazia, alla nostra origine, ai nostri destini. Sì, fede piena e totale, senza riserva alcuna, senza alcuna restrizione. È vero, oggi non è più la sua bocca divina quella che direttamente ci ammaestra intorno a tutto ciò che dobbiamo credere, ma è la sua Chiesa docente, quella Chiesa che Egli ha costituita a tenere le sue veci, che ha fatta depositaria sicura della sua dottrina, che ha resa infallibile nella promulgazione della medesima, ed alla quale perciò dobbiamo quella medesima fede che si deve a Gesù Cristo, avendo Egli detto alla Chiesa: Qui vos audit me audit; chi ascolta voi, ascolta me, (Luc. x, 16) e chi disprezza voi, disprezza me, e chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato: Qui vos spernit, me spernit. Qui autem me spernit, spernit eum qui me misit. (Ib.) Ma il nostro divino Maestro Gesù non solamente ci insegna le verità che dobbiamo credere, ma eziandio le opere che dobbiamo compiere, e non solo ce le insegna, ma ce le comanda. Propriamente perché Egli è il Maestro divino, perciò ancora è il precettore, quegli cioè che ci dà dei precetti e ci ordina di eseguirli, e se noi ci sottraessimo alla sua indiscutibile autorità, se noi non lo volessimo obbedire, se noi avessimo la stolta pretesa di obbedire a Lui ed obbedire alle nostre passioni, alle massime del mondo, ai suggerimenti di satana, guai! noi saremmo perduti, perché è solo nell’obbedir a Gesù Cristo e nell’obbedire a Lui unicamente che siamo certi di far sempre il bene, evitar sempre il male, ed operare la nostra salvezza. La legge di Gesù è una legge che non soffre rivalità di sorta, avendo detto Egli stesso apertissimamente, che nessuno può servire a due padroni ad un tempo: nemo potest duobus domini servire. Sarà vero adunque che per osservare i precetti di Gesù Cristo noi dovremo fare violenza a noi stessi,giacché regnum Dei vim patitur et violenti rapiunt illud: il regno di Dio patisce forza e solamente quei che si fanno violenza riescono a guadagnarlo; sarà vero che perciò dovremo rassegnarci a sacrificare il nostro orgoglio, il nostro amor proprio, il nostro io; sarà vero che dovremo mortificare i nostri sensi, contenere le nostre ambizioni, moderare le nostre cupidigia, regolare i nostri affetti, vegliare sui pensieri della nostra mente, comprimere i traviamenti dell’immaginazione, soffocare i desideri malnati del nostro cuore, distaccarci dai beni miserabili e caduchi del mondo per attaccarci unicamente ai beni veri ed imperituri del cielo; sarà vero in una parola che dovremo rinunciare all’amore di noi per crocifiggere la nostra carne con quella di Gesù Cristo: ma questo è tutto ordinato e voluto da Lui. È Egli che ci comanda di essere mansueti ed umili di cuore, come lo è Lui; è Egli che ci ordina di essere casti e mortificati; è Egli che ci impone di essere benefìci, misericordiosi,generosi nel perdonare; è Egli che ci intima di pregare,di onorarlo sempre, ma specialmente nei giorni a Lui consacrati;è Egli che vuole che noi andiamo a gettarci ai piedi del sacerdote suo rappresentante per confessargli e piangere i nostri peccati, Egli che ci chiama ad accostarci a riceverlo nei nostri cuori colla santa Comunione, Egli! E siccome Egli continua ad esercitare il suo impero sopra di noi in modo visibile per mezzo della sua Chiesa, alla quale ha dato la facoltà di prescriverci tutto ciò che ella crede più conveniente, più utile, più necessario per ottenere da noi l’adempimento vero e perfetto dei precetti di Lui, perciò è anche ai precetti della Chiesa, che dobbiamo assolutamente obbedire per poterci dire veri obbedienti di Gesù Cristo in tutto e per tutto. Ecco, o miei cari, il primo titolo che Gesù Cristo ha alla consacrazione nostra al suo Sacratissimo Cuore, e che cosa importa per questo riguardo la nostra consacrazione: il Cuore di Gesù è il cuore del nostro Maestro e noi dobbiamo credere tutti i suoi insegnamenti e praticare tutti i suoi precetti. -Ma a questo primo titolo un altro se ne aggiunge anche più toccante per il nostro cuore. Gesù Cristo non è solo il nostro Maestro, ma è pure il nostro amico. Sì, incredibile a dirsi, ma pur vero. Gesù è il nostro amico. Egli non fa come i maestri e precettori di questo mondo, che tolta qualche rarissima eccezione, pur prendendo a nutrire dell’affetto ai loro discepoli, difficilmente li ammettono a godere della loro intima amicizia, troppo temendo che questo sentimento che conduce alla famigliarità riesca di danno al rispetto che desiderano mai sempre ottenere. No, Gesù Cristo non fa così; Egli si sbriga da questi riguardi e costumanze umane, perché  Egli sa che quanto più noi diventeremo famigliari con Lui, quanto più ci stringeremo a Lui intimamente e teneramente, tanto più diventerà profonda in cuor nostro la riverenza per Lui e tanto più affettuosi e perfetti saranno i servigi che gli renderemo. Epperò fin dal tempo della sua vita mortale Egli ha preso a nutrire verso tutti coloro che lo volevano corrispondere il sentimento della più tenera amicizia. E non si rivelò egli il più affezionato degli amici verso de’ suoi Apostoli, e non li riguardò, essi, come amici suoi? Ah! udite le commoventi parole che loro indirizza: Voi siete gli amici miei. No, non vi chiamerò Io col nome di servi, perché il servo non sa quello che faccia il padrone; ma vi chiamerò con quello di amici, perché Io non tengo con voi segreto alcuno, e tutto quello che Io intesi dal Padre mio, tutto ve lo feci sapere. (Io. XV, 14, 15). E in conformità a questa professione di amicizia Gesù vuole gli Apostoli sempre con sé, e non ostante che siano sì rozzi, sì difettosi, sì meschini, li compatisce nei loro difetti, li avvisa dei loro mancamenti, li assiste nei loro bisogni, li difende nei loro pericoli, li anima nelle difficoltà, li premunisce contro le persecuzioni,nulla, assolutamente nulla risparmia di fare per rendere onore alla sua parola, per dimostrare che Egli è veramente il loro amico e che essi sono gli amici suoi. Ma quella bontà e tenerezza di amicizia che Gesù Cristo ha dimostrato durante la sua mortal vita, ritenetelo bene, non è venuta meno presentemente per nessuno di noi. Basta che noi rispondiamo all’amor suo perché anche a noi Egli faccia il grande e affettuosissimo onore di averci per amici suoi e di far sentire a noi tutti gli effetti dolcissimi della sua amicizia,per largire cioè e comunicare anche a noi nella massima abbondanza quei tesori di grazie che egli ha fatto scaturire dal Cuore suo durante la sua vita e’ soprattutto durante la sua passione e morte. Sì, il Cuore di Gesù sarà sempre anche per noi il cuore del vero amico, dell’amico per eccellenza, dell’amico potente ed amoroso al quale attingeremo a piene mani tutti i beni di cui abbiamo bisogno. Siamo noi nella nostra intelligenza offuscata da dubbi, da incertezze, da esitazioni intorno alla fede? Rechiamoci al Cuore dell’amico Gesù, ed egli spanderà nel cuor nostro la luce. Vogliamo noi essere diretti sapientemente nei nostri studi, ne’ nostri lavori, nelle nostre imprese, nei nostri interessi sì temporali che eterni affine di non giovare soltanto a noi, ma anche ai nostri prossimi? Andiamo al Cuore dell’amico Gesù, ed Egli verserà nel cuor nostro il dono del Consiglio.Ci sentiamo freddi nell’adempimento dei nostri doveri, soprattutto nell’adempimento di quelli che abbiamo con Lui, ci sentiamo freddi nella divozione, nella pietà, nella pratica della Religione? presentiamoci al Cuore dell’amico Gesù ed egli è la fornace dell’amore. Ci sentiamo assaliti dalle tentazioni terribili di satana, dalle lusinghe prepotenti del mondo, dalle punture stimolanti delle nostre passioni? Corriamo al Cuore dell’amico Gesù: Egli è la forza dei deboli. Abbiamo l’anima lacerata pei dispiaceri avuti dagli uomini, pei tradimenti che ne abbiamo patito, per le calunnie di cui ci hanno oppressi, per la guerra che ci hanno fatto, pel disonore che ci hanno causato, per la rovina che ci han procacciata, per la miseria a cui ci hanno ridotti? Oh! non tardiamo un istante ad appressarci al cuore dell’amico Gesù, ed egli verserà nel cuor nostro il balsamo della consolazione. Finalmente siamo noi oppressi dalle colpe della nostra vita passata, gemiamo noi sotto il peso di tanti peccati? Ebbene anche allora rechiamoci al Cuore dell’amico Gesù, perché neppur allora Gesù, se noi lo vogliamo davvero, neppur allora Ei ci rifiuta la sua misericordia;anzi è allora che più particolarmente ce la farà sentire,perché anche allora continua ad essere l’amico nostro.Non di meno, o miei cari, non dimentichiamoci che la vera amicizia non è riposta nello sfruttare l’altrui cuore per sé, no; essa suppone e vuole reciprocanza di affetti, scambio di doni,serie non interrotta di generosità. È vero, noi siamo poveri,pur tuttavia Gesù si accontenta che noi gli diamo quel poco che noi abbiamo; si accontenta del nostro cuore per quanto meschino, si accontenta della nostra buona e risoluta volontà di amarlo, si accontenta del nostro impegno costante per non offenderlo, si accontenta della nostra compassione e della nostra riparazione per gli oltraggi che Egli riceve, massimamente nel Sacramento d’amore; si accontenta delle nostre preghiere, delle nostre pratiche devote, delle nostre comunioni, delle nostre mortificazioni; si accontenta dell’offerta delle opere nostre e noi diamogli volentieri tutto questo. Che anzi diamogli qualche cosa di più. Giacché con satanico furore si fa di tutto per togliere Gesù di mezzo alla società, di mezzo alla scienza, di mezzo alle lettere, di mezzo alle arti, di mezzo alla scuola,di mezzo all’officina, di mezzo alla famiglia, e noi pieni di zelo lavoriamo per quanto possiamo ad impedire sì esecrando e sì fatale delitto; lavoriamo a mantenere Gesù dappertutto, lavoriamo a rimetterlo in onore ed in amore per ogni dove. Lavoriamo colla preghiera, lavoriamo col buon esempio, lavoriamo coll’impiego del denaro alla sua santa causa, lavoriamo col partecipare vivamente e seriamente all’Azione Cattolica, lavoriamo col sacrificare perciò generosamente lo nostre mire personali e le nostre comodità. Oh allora sì, Gesù sarà sempre l’amico nostro e noi saremo sempre gli amici suoi: e sempre ci farà risuonare all’orecchio questa dolce parola: vos amici mei estis.Ma un terzo titolo che ha Gesù Cristo alla nostra consacrazione al suo Santissimo Cuore si è che desso è vita della nostra vita.Ego sum vita, Egli ha detto, e per questo sono venuto al mondo, perché gli uomini abbiano per me la vita e l’abbiano abbondantemente: Ego veni in mundum ut vitam habeant et abundantius habeant. (Io. x, 10) Né crediate che quando Gesù asserisce di essere la nostra vita adoperi un linguaggio poetico e figurativo, no; Egli adopera un linguaggio vero, reale, profondamente vero e reale. Egli è anzitutto vita della nostra stessa vita fisica, giacché questa vita corporea che noi abbiamo è Egli che come Dio ce l’ha data, Egli che come Dio cela conserva, Egli che come Dio è padrone di togliercela quando gli pare e piace. Ma soprattutto Egli è vita della nostra vita spirituale, vita dell’anima nostra elevata all’ordine soprannaturale. Questa vita è vero noi l’avevamo perduta per il peccato del nostro primo padre. Ma Gesù venendo sopra di questa terra a patire e morire per noi ce l’ha sovrabbondantemente riacquistata. Epperò questa ce l’ha ridonata, a ciascuno di noi, quando l’acqua salutare del santo Battesimo discendendo esteriormente sul nostro corpo purificò interiormente l’anima nostra per mezzo della grazia. Questa vita fu rafforzata in noi in quel dì, in cui lo Spirito Santo, che Gesù Cristo ha mandato, è disceso nell’anima nostra per mezzo della santa Cresima, apportandoci insieme con un’altra grazia abbondantissimi tesori. Da ultimo questa vita fu resa più ricca, più feconda, più gloriosa ogni qual volta noi ci siamo accostati alla mensa eucaristica a nutrirci delle carni immacolate di Cristo e a bere il suo preziosissimo Sangue. Ora, dopo tutto ciò, essendo stati noi pienamente vivificati da Gesù Cristo,non è Egli in diritto, nell’assoluto diritto che noi ci consacriamo a Lui, al suo Sacratissimo Cuore, e che prendiamo pur noi a vivere della vita sua? Sì certamente; ognuno di noi dobbiamo vivere in guisa da poter dire ognuno: Mihi vivere Christus est. (Philipp, I, 21) Vivo ego, iam non ego, vivit vero me Christus.Ma poniamo ben mente che vivere della vita di Gesù Cristo, menar davvero vita cristiana non importa soltanto una certa conformità dei pensieri nostri coi pensieri suoi, di affetti co’ suoi affetti, di azioni colle, sue azioni, ma soprattutto una penetrazione permanente della vita di Gesù Cristo in noi, un’abitazione continua sempre più attiva della sua grazia per modo che le nostre opere, le nostre parole, i nostri pensieri, i nostri affetti siano impregnati di questa grazia e di questa vita di Gesù Cristo e in tutto quel che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo, in tutto abbiamo a farci dei meriti innanzi a Dio per Gesù Cristo, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo. Ahimè! quanti vi sono che si credono vivi della vita di Gesù Cristo e invece sono morti!quanti vi sono che meritano ciascuno quel rimprovero dell’Apocalisse; Nomen habes quod vivas, et mortuus es! Non parlo no, di coloro, i quali rinnegando il loro battesimo e la loro educazione cristiana ricevuta sulle ginocchia della madre-Chiesa e della Chiesa-madre vorrebbero ora se fosse possibile cancellare dall’anima loro l’indelebile carattere del battesimo. Ah!costoro non ignorano di essere morti alla vita di Gesù Cristo e forse anche son arrivati a tal punto di irreligiosità e demenza da farsene vanto. Io parlo invece di coloro che conservano la fede, che pregano ben anche, che frequentano le Chiese, che si sottomettono volentieri e persino con ostentazione alla legge del magro e del digiuno, che accorrono sollecitamente ad ascoltare la parola di Dio, che si consolano della pietà delle loro mogli, che esigono le pratiche religiose nei loro figli, che mirano con spavento i progressi dell’irreligione, che provano sdegno contro ogni pubblica dimostrazione dell’empietà,che quando si parla di Cristiani Cattolici, servi ed amici di Gesù, si fanno anche arditamente innanzi per dire: noi siamo del loro numero; ma che intanto sono morti alla vita di Gesù Cristo, perché resistono alla sua volontà dichiarata, perché rimangono da anni e da anni schiavi del peccato, perché da anni e da anni non vanno più a gettarsi ai piedi di un confessore per riacquistare la grazia divina, perché da anni e da anni non si accostano più alla sacra mensa. Ah! miei cari, che gran pena al cuore il pensare a costoro! Perciocché sia pure che costoro per non avere totalmente abbandonato Gesù Cristo possono sperare che Gesù Cristo non abbandoni totalmente essi, ma intanto se essi continuano in questo stato di morte non si va sempre più aggravando sopra il loro capo lo sdegno del cielo? e non potrà essere che in quel dì istesso a cui han rimandato la loro risurrezione alla vita cristiana,in quel dì istesso, prima che’ essi la compiano, siano chiamati dallo stesso Gesù Cristo a render conto dell’abuso continuato che fecero delle sue misericordie? Ah! miei cari, se mai vi fosse tra di voi qualcuno di questi sventurati, si decida ormai a risorgere e a riacquistare la vita di Gesù Cristo, non rimandando neppur più a domani quello che potrà fare ancor oggi. Tutti poi dandoci alla vita veramente cristiana, facciamo di essere perseveranti in essa; no, non più infedeltà; non più ricadute, non più ingratitudini. Che ciascuno di noi possa sempre ripetere in fondo dell’anima sua con tutta verità: Ho trovato alfine chi ama l’anima mia, ho trovato il cuore di un Maestro divino, di un amico divino, di una vita divina; ho trovato il Cuore SS. del mio Gesù, al quale mi dono e mi consacro per tutta la vita senza più mai separarmi da lui: Inveniquem diligit anima mea, tenui eum nec dimittam. (Cant. III, 4)

II. — Ed è questo il nostro supremo interesse: l’unico mezzo, col quale potremo godere la pace in vita, in morte e dopo morte. Taluni pensano che la pace consista nel possesso delle ricchezze, epperò si danno a ricercarne l’acquisto con un ardore di passione. Ah! esclama qualcuno, se io arriverò a possedere qualche centinaio di migliaia di lire sarò felice. E perciò va, viene, compra, vende, si agita, si sacrifica… e poi? Il denaro, miei cari, non dà la pace; quanto più se ne ha, tanto più se ne vorrebbe; e per poco che se ne abbia, sempre si sta in agitazione per la paura di perderlo. Gesù Cristo ha chiamato le ricchezze spine, e le spine, tutt’altro che contentare il cuore dell’uomo, lo pungono e lo fanno soffrire. Perché nelle ricchezze l’uomo trovasse la pace, bisognerebbe che queste fossero il suo ultimo fine. Ma è forse così? L’oro e l’argento, secondo il piacevole modo di esprimersi di S. Bernardo non è altro che terra rossa e terra bianca, terra rubra et terra alba; e l’uomo creato da Dio, ad immagine e somiglianza di Dio, avrà per suo ultimò fine la terra che calpesta co’ suoi piedi? Il pretenderlo sarebbe un avvilire la nostra natura e rendere il nostro cuore schiavo miserabile della materia. – Tali altri credono trovare la pace nei godimenti e vi si abbandonano senza tregua. Festini, balli, teatri, gozzoviglie, piaceri del senso, si succedono, si avvicendano, si intrecciano del continuo nella loro vita gaudente. Ma sono essi felici? No, certamente. È questo il caso di dire col poeta:

Se a ciascun l’interno affanno – Si leggesse in fronte scritto, – Quanti mai che invidia fanno – Ci fariano pietà. – Si vedria che i lor nemici – Hanno in seno, e che consiste – Nel parere a noi felici – Ogni lor felicità. Rincasando la sera, o dirò meglio il mattino, dalle ore del piacere, cotesti bruti non possono tuttavia aver perduto ogni avanzo della loro grandezza per non sentire in fondo all’anima un vuoto e più ancora un rimorso, che li strazia o li getta per lo meno nella più cupa malinconia. No, noi non siamo fatti per contender le ghiande dei sensuali diletti agli animali immondi. Se fosse così non capirei più perché Dio mi abbia dato l’intelligenza ed il cuore. Se fosse così, dignità, onore, virtù, dovere, sacrifizio sarebbero parole da stupido.Non pochi altri sperano trovar pace negli onori. – La bramosia della gloria li punge, e lavorano a tutta possa per conseguirla.Ma quando pure siasi conseguita per vie onorate,senza averla vilmente comprata col denaro o col sacrificio della propria libertà, si avrà trovato in essa il pieno appagamento del proprio cuore? No, neanche allora. Ogni gloria dicono le Sacre Scritture, è come un fiore, che in uno stesso giorno si chiude e cade a terra avvizzito: Omnis gloria… sicut flos agri. (Is. XL, 6) E la storia dei più grandi uomini è lì ad attestarlo: oggi il Campidoglio e domani la Rupe Tarpea: oggi viva! e domani morte! E quando la gloria non avesse nemico né il tempo, né lo spazio, avrebbe pur sempre nemica l’invidia, che nasce insieme con lei, con lei vive per tormentarla e solo con lei morirà. – Adunque non denari, non piaceri, non onori danno all’uomo la pace. Tutto ciò, se anche si potesse sommare insieme e riunirlo nella vita di un sol uomo, sarebbe sempre troppo meschino e troppo indegno della sua grandezza; il mondo intero non arriverebbe a soddisfarlo.Dove adunque si trova la pace? Dove? La pace risulta dall’armonia delle parti, che compongono un tutto, dall’equilibrio degli elementi, che si incentrano in un punto, a cui tendono di lor natura. Se nel cielo, ad esempio, è pace, ciò proviene dall’ammirabile armonia degli Astri i quali con quella duplice forza di attrazione e di ripulsione, di cui sono dotati, si equilibrano perfettamente tra di loro,aggirandosi gli uni attorno agli altri e tutti intorno al centro, che Dio ha loro fissato. Così se vi ha pace nel seno di un popolo, ciò accade, perché tutti gli elementi che lo compongono, letterati, filosofi, poeti, artisti, operai, soldati, magistrati, ricchi, poveri, tutti di comune accordo convergono verso uno stesso ideale, che li soddisfa, la prosperità della patria. E se tutte le nazioni, per quanto diverse per clima, per indole, per bisogni, per industrie, per cultura cercano tuttavia ciascuna nella sua sfera ciò che può formare l’ideale completo del genere umano, la ricchezza, la grandezza, la sicurezza dell’intera umanità, allora nell’accordo di queste forze molteplici,nel loro equilibrio allo scopo ad esse proporzionato si ha la pace nel mondo. Ma se invece nel cielo, per ipotesi, un qualche astro volesse, rompendo l’ordine stabilito, deviare dalla sua orbita per non più aggirarsi intorno al suo centro;se presso un popolo taluno degli elementi, che lo compongono, si fa a scindere il comune accordo e diverge dal comune scopo; se nel mondo un qualche stato trasmoda nelle relazioni, che lo congiungono agli altri stati, e volge le sue forze aduna mira, che non è quella dagli altri stati voluti, allora la pace vien meno e vi sottentra il disordine, la lotta e la guerra.Così pure, perché vi sia pace nell’uomo, fa d’uopo che tutti gli elementi, che la compongono, in perfetta armonia tra di loro, tendano tutti a quel punto, cui devono tendere di lor natura; solamente per tal guisa vi può essere nell’uomo la tranquillità dell’ordine, ossia la pace. L’intelligenza umana fu da Dio creata con una capacità infinita di conoscere; epperò per quanto vaste siano le cognizioni che acquista, non dice mai basta. Sempre vuole acquistarne delle altre, sempre vuol andare più innanzi in ciò, che le è ancora incognito,essa tende insomma a conoscere la Verità influita, la Verità assoluta, che è Dio. Epperò è Dio solo che può contentarla e darle pace. Così si dica del cuore. Anch’esso fu da Dio creato con una capacità infinita di ricevere il Bene. E per quanto siano numerosi e grandi i beni di questo mondo non lo sazieranno mai. Egli griderà sempre: Ancora! Ancora! Di più! Di più. Perché esso vorrebbe possedere tutto, godere tutto, possedere e godere insomma il bene infinito ed assoluto, che è ancora Dio. Epperò è anche Dio solo che può contentare il cuore umano e dargli pace. Dirò di più. Siccome l’uomo non è solo spirito, ma è anche carne, così non è soltanto col suo spirito, che tende a Dio, ma vi tende altresì colla sua carne, colle sue ossa, co’ suoi sensi. Senza dubbio la pace materiale.de’ suoi sensi, delle sue ossa, della sua carne esiste, quando gli elementi, che lo compongono, essendo tra di loro giustamente equilibrati, lo tengono in sanità. Ma per rapporto alla vita, che il corpo deve menare in unione collo spirito, solamente allora vi ha pace per la stessa carne, quando può esultare al cospetto di Dio, pura dalla macchia del peccato. Che importerà che materialmente non sia in pace, perché informa o ben anche travagliata da luride piaghe? Vivente per Iddio, off 5therta e sacrificata a Lui, troverà ne’ suoi patimenti una ragione di più per poter dire col santo Re Davide: Cor meum et caro mea exsultaverunt in Deum vivum:(Ps. LXXXIII, 3) Exsultabunt Domino ossa humiliata. (Ps. L, 10) Ecco adunque l’Uno necessario, a cui è di mestieri che l’uomo rivolga e consacri tutto se stesso, la sua mente, il suo cuore, gli stessi suoi sensi per stabilire l’ordine e l’armonia della sua natura e conseguentemente godere la pace. Ma appunto perché non solo colla mente e col cuore, ma eziandio coi sensi noi dobbiamo volgerci e consacrarci a Dio per godere la pace, anche per ciò Iddio si è manifestato agli uomini e si è messo in comunicazione con loro per mezzo di Gesù Cristo, suo Divin Figliuolo Incarnato. Ed è perciò ancora,che secondo il detto dell’Apostolo è Gesù Cristo la nostra pace: ipse est pax nostra. Sì, Gesù Cristo solo, via, verità e vita di quanti uomini vengono al mondo, può dare la pace alla nostra mente, la pace al nostro cuore, la pace ai nostri sensi, la pace a tutto il nostro essere: ipse est pax nostra, purché noi con tutto il nostro essere a Lui solo tendiamo, e Lui crediamo, Lui amiamo, Lui serviamo fedelmente. Colui pertanto che non dà a Gesù Cristo la sua mente, che cioè non s’applica alla sua scienza, non crede alle sue dottrine, non si affida del tutto a’ suoi santi insegnamenti,che non ha la fede in Lui, ancorché ricco di ogni genere di cognizioni umane, sarà sempre agitato, incerto ed infelice. Perciocché quest’uomo scompiglia l’ordine di sua natura. In lui non è più Iddio che pasce e nutre la sua intelligenza della sua divina verità, ma è la creatura che si forma la scienza,scienza terrena e vana, incapace di contentarla.Così è di colui che a Gesù Cristo nega il suo cuore, che non segue la sua legge e i suoi esempi, che non pratica le sue virtù, che in fatto di morale prende per unica sua norma i suoi istinti e le sue passioni, che non pensa che alle creature, che le idolatra e non vive che per esse. Anche costui diverge una delle sue forze dal centro che le è proprio, rompe l’armonia voluta dalla sua natura ed invece del riposo della pace, della vera felicità, non trova sul suo cammino che il dolore e la tortura del cuore istesso: Contritio et infelicità in viis eorum, et viam pacis non cognoverunt. (Ps. XIII, 3) Che anzi, il suo cuore, come ha detto Isaia, sarà simile ad un mare, perpetuamente in preda alle più furiose tempeste: Cor impii, quasi mare fervens, quod quiescere non potest- (LXXVII, 20). E così è infine di chi a Gesù Cristo nega l’omaggio de’ suoi sensi, della sua stessa carne. Giacché essendo essa destinata,conforme alla bella dottrina di S. Paolo, a portare e glorificare Iddio in se stessa, non può fare a meno che trovare il tormento nel rendersi carne di peccato. E qui, bisogna pur dirlo, quando è la carne che si strappa dalla mortificazione di Gesù Cristo per abbandonarsi in preda al disordine, all’ebbrezza, allo stravizio, al piacere infame, non è più la pace morale soltanto che si perde, ma è pur anche la pace materiale del corpo, la sanità e la bellezza. L’estasi dei sensi tramonta ben presto. Il voluttuoso a forza di godere distrugge se stesso e non tarda a sorgere per lui il giorno, in cui sentirà alle spalle il passo del becchino, che viene a coprire di terra i suoi scomposti e ignominiosi avanzi. « Tant’è – esclama S. Agostino – e così hai stabilito, o Signore, che ogni animo disordinato sia pena a se stesso. E gira e rigira, tutto è duro,tutto è aspro, tutto è penoso, e tu solo sei pace. »Or ecco adunque perché Gesù Cristo che tanto ci ama e che altro non desidera che di vederci nella pace, con parole così tenere, con espressioni così calde, con accenti così insistenti ci invita e ci sprona a recarci a Lui, a consacrarci alla sua fede, al suo amore, al suo servizio, a dedicarci massimamente al suo Cuore Sacratissimo, fonte di ogni conforto e di ogni felicità. Auditis ut suavissimis invitet omnes vocibus? « Venite a me, o voi tutti, che siete affaticati e vi curvate sotto il peso della miseria della vita, ed Io vi ristorerò. Prendete sopra di voi il giogo della mia fede, del mio amore, del mio servizio, ed imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore, e troverete il riposo alle anime vostre: poiché il mio giogo è soave ed il mio peso è leggiero. Venite ad me omnes qui laboratis et onorati estis, et ego reficiam vos. Tollite iugum meum super vos et discite a me, quia mitis sum et humilis corde, et invenietis requiem animabus vestris. Iugum enim meum suave est, et onus meum leve. » (MATTH. XI, 28, 29). -Ed, oh fortunato colui, che ascoltando questo affettuosissimo invito farà davvero una totale consacrazione di se stesso a Gesù Cristo, al suo Sacratissimo Cuore. Egli avrà eletto davvero optimam partem, la parte migliore, cioè la migliore ricchezza, la migliore felicità, la migliore gloria, la migliore pace, quella pace che al dir di S. Paolo supera tutti i godimento sensibili: Pax Dei exsuperat omnem sensum, (Phil. IV, 7), quella pace che conforme al Salmista, non si perde per alcun inciampo: Pax multa diligentibus legem tuam, et non est illis scandalum; (CXVIII, 165) né per l’ingiustizia degli uomini,né per la perdita dei beni terreni, né per quella della sanità,della libertà, dell’onore, né per qualsiasi altro male del mondo che possa incorrere, quella pace insomma, che qui in terra è pregustazione dolcissima della pace che si godrà in cielo.

III. — Ma se bella è la pace in vita, più bella ancora è la pace a quel punto di morte, da cui dipende la eternità. Ah! miei cari. Dibattiamoci pur fin che vogliamo: facciamoci pure un nome grande nella politica, quella scienza, nell’arte, nell’industria nel commercio; sudiamo pure da mane a sera a conquistar tesori e raccogliamone anche dei mucchi smisurati; incoroniamoci pur di rose e inebriamoci di ogni piacere; con tutto ciò non varremo giammai e rattenere la vita. Essa va, essa corre, essa precipita e in un baleno si trova a quel giorno, in cui è giocoforza si estingua. E allora… quello è il giorno del conoscimento: In die cognitionis (Eccl., XXVIII VII, 9) il morente si trova ad un supremo convegno colla verità: ed alla luce che questa gli sfavillerà alla mente, lo sciagurato che è vissuto lontano dalla fede, dall’amore e dal servizio di Gesù Cristo, dovrà pure suo malgrado riconoscere lo sbaglio spaventoso che egli ha commesso. Egli non credeva a Gesù Cristo, non l’amava, avrebbe fatto per sempre senza di Lui … ed ora sta per presentarsi al suo divin tribunale, sta per essere colpito dall’ira sua. E come mai a questo pensiero non si sentirà schiantare l’anima dal petto! E che cosa gli gioverà ora l’essersi fatto un nome grande, anche come quello di Cesare o di Napoleone? l’essersi ingolfato in ogni sorta di godimenti, anche come un Tiberio nell’isola di Capri? l’aver ammassate tante ricchezze, anche come un Creso o un Saladino? Tutto ciò non gli gioverà ad altro che a rendere più triste e più agitato il suo passaggio dalla vita alla morte. Avrà un bel ricercare la pace, un beli’ invocarla a gran voce, ma indarno, perciocché non potrà sfuggire il tormento della sua mala coscienza. Tant’è: lo Spirito Santo lo ha detto, e la sua parola si va pur troppo ogni giorno avverando: Angustia surperviente, pacem requirente et non erit: conturbati!) super conturbationem veniet. (EZECH. VII, 25) Ben diversamente invece coloro che avranno creduto, amato e servito Gesù Cristo, che si saranno consacrati al suo Cuore Sacratissimo ed in Lui saranno vissuti, moriranno un giorno nella più bella pace: Iustorum animæ in manu Dei sunt; non tanget illos tormentum mortis  autem sunt in pace. (Sap. III, o) Il padre Suarez morì con tanta pace, che morendo giunse a dire: Non mi sarei mai creduto che fosse così dolce il morire. S. Luigi Gonzaga al ricevere l’annunzio della sua prossima morte, proruppe giubilando in quelle .parole del Salmo: Lætatus sum, in his, quæ dieta sunt mihi, in domum Domini ibimus. (CXXXI) S. Francesco di Assisi morendo cantava allegramente ed invitava gli altri al canto, tanta era la consolazione che provava. E l’invitto Cardinal Roffense condannato da Enrico VIII ad essere decollato, perché  non aveva voluto sottoscrivere alle sue ingiustizie ed empietà, uscì dalla prigione squallido, dimagrato e che stentava a dare un passo per la podagra. Ma a vista del ceppo su cui doveva lasciare il capo, riempitosi di brio e di gioia, buttato via il bastone disse: Suvvia, piedi miei, suvvia, fate bene il vostro ufficio, il Paradiso non è lontano. E prima di morire intonò il Te Deum. Ma non crediate da questi esempi che la pace in morte sia privilegio soltanto dei servi famosi di Gesù Cristo, no. Essa è propria di ogni Cristiano timorato, che assecondando la grazia di Dio, in qualsiasi condizione, in qualsiasi stato, in qualsiasi età abbia fatto quanto gli era concesso dalle suo deboli forze “per conoscere, amare e servire Gesù Cristo. È bensì vero, che questo cristiano, gettando lo sguardo sulla vita passata, vedrà egli pure dei giorni, dei mesi e forse degli anni senza Dio, senza fede, senza Cristianesimo, e tale vista dovrebbe riempirlo di amaritudine e di spavento. Ma se egli ricorda i suoi trascorsi, ricorda pure quel giorno sì bello, in cui tocco dalla grazia di Gesù Cristo ha detto con fermezza: Nunc cœpi! Ora comincio davvero ad essere quel che devo essere, buon Cristiano! Ricorda pure quelle lagrime di pentimento, colle quali a somiglianza di Pietro e di Maddalena ha lavato le sue colpe; ricorda pure quel distacco dalle cose terrene, in cui d’allora in poi è vissuto; ricorda quelle preghiere, quelle visite a Gesù in Sacramento, quelle Comunioni, quelle pratiche ad onore del Cuore di Gesù Cristo fatte ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno… E a questi soavi ricordi gli pare di sentirsi a ripetere in fondo all’anima: Pax tecum: ego sum, noli timere: Pace, pace a te, mio amico fedele: sono io, Gesù Cristo, che te l’auguro, che te la voglio, che te la dono: non avere alcun timore: io ti ho perdonato, io più non ricordo le tue passate colpe, io non vedo più altro in te che gli anni della tua vita cristiana: pax, pax tecum! E pace gli darà Gesù Cristo pel sacerdote che verrà ancor una volta nel Sacramento della Penitenza ad assolverlo dalle sue colpe; pace gli darà nel Sacramento dell’Estrema Unzione, con cui gli toglierà dall’anima ogni avanzo di peccato; pace gli darà nel Sacramento dell’Eucaristia, per cui anche lì, sul letto di morte, Gesù Cristo verrà ad unire il suo Cuore adorabile al cuore del suo amante per accompagnarlo nel gran viaggio dal tempo all’eternità; pace nel Santo Crocifisso che bacerà con tutto il cuore sulle labbra; pace nell’immagine del Sacratissimo Cuore che gli starà appesa innanzi e gli ricorderà la divozione per esso avuta, pace negli stessi parenti Cristiani, che sebbene gravemente afflitti per la sua morte imminente, lo aiuteranno tuttavia coi loro santi suggerimenti a ben morire; pace insomma, giocondissima pace, sicché potrà ben ripetere col Santo re Davide: In pace idipsum dormiam et requiescam: (VI, 9) Io muoio in Dio, nel Cuore di Gesù Cristo, e muoio in pace. Ma non finisce lì la ricompensa della nostra vera e totale consacrazione al Cuore di Gesù Cristo. Se Egli ha promesso di portare in sé scritti i nomi de’ suoi devoti, non è in certa guisa, se non per ricordarli nel giorno della retribuzione, e dopo la pace in vita ed in morte donare agli stessi la pace del cielo. L’infelice, che vive lontano dalla fede, dall’amore e dal servizio di Gesù Cristo, comincia ora a menare giorni di angoscia e di agitazione; al termine della vita farà una morte piena di spavento; e poi… dopo morte cadrà nella disperazione eterna. La disperazione!… E che cosa è la disperazione se non la suprema convulsione di un’anima, che invoca la pace, ed a cui nessuno risponde, nemmeno la propria illusione? La disperazione eterna! E che cosa è questa eterna disperazione se non la eterna negazione della pace? Sventurato peccatore! Eccolo, lì per sempre a soffrire, per sempre in pianto, per sempre in rimorsi, per sempre in imprecazioni, in maledizioni, in lotta con se. stesso, per sempre senza pace. Ah! davvero che egli ha guadagnato assai nel fidarsi di sua ragione, nel vivere a suo capriccio. Ma, oh sorte al tutto contraria e felicissima di chi è vissuto nella fede, nell’amore e nel servizio di Gesù Cristo! Ricordando le tendenze della nostra natura, noi abbiamo conosciuto che l’uomo cerca e attende la felicità, che la vuole piena ed immutabile, quella sola che vale a saziarlo, che le viene dall’unico Vero, dall’unico Bene, dall’unico Necessario, da Dio. E sarà appunto questo il gran premio, che nell’altra vita toccherà a ohi avrà amato davvero Gesù Cristo e sarà vissuto consacrato al suo servizio. Ah! udite questa parola adorabile dello stesso Dio: Ego merces tua magna nimis; (Gen. XV, 1) Io stesso sarò la tua ricompensa: Io, senza immagini, senza velo, senza distanza, ma ricolmando d’ogni bene l’abisso de’ tuoi desideri, e donandoti perciò la pace suprema, che accheterà le voglie tutte della tua mento, del tuo cuore, della tua carne, di tutto il tuo essere: Ego merces tua magna nimis. Sì, lassù in cielo nell’ordine perfetto di tutto ciò che lo forma, nell’armonia ammirabile di tutti gli esseri che vi appartengono, nell’intimità dolcissima di tutti gli eletti e soprattutto nella visione incessante, nell’amore imperituro, nel possesso indefettibile di Dio, di Gesù Cristo, del suo Cuore Sacratissimo, fonte di ogni gaudio, il Cristiano che lo ha creduto, che lo ha amato, che lo ha servito in vita, godrà la pace senza fine. O pace ultima, o pace suprema, o pace inalterabile, o pace che cominci quaggiù nell’intelligenza per la fede alla parola di Gesù Cristo e discendi nel cuore per la pratica de’ suoi divini precetti, e circoli nelle nostre membra per la cristiana mortificazione, e ne consoli al punto di morte per la vita passata nel divin servizio, o pace che ti fai piena e perfetta in tutto il nostro essere e per tutta l’eternità lassù in cielo, tu sarai sempre il nostro ideale, la nostra mira, l’oggetto continuo delle nostre brame. È vero hl, noi dovremo interrompere vane amicizie, dovremo troncare relazioni peccaminose, dovremo vincere cattive abitudini, dovremo frenare impeti malvagi, dovremo scuoterci dalla nostra indifferenza, dovremo credere fermamente, dovremo operare in conformità alla nostra fede, dovremo praticare i doveri religiosi, pregare, confessarci, comunicarci, ascoltar Messa, frequentar la Chiesa, vivere insomma uniti a Gesù Cristo, nascosti nel suo Cuore Divino, ma tutto è poco per noi che siam risoluti di possederti in vita, in morte e in cielo! – Se è adunque così, o miei cari, non tardiamo più un istante a gettarci ai piedi di Gesù Cristo per fare al suo Cuore Sacratissimo la nostra Consacrazione. Vengano gli Angeli e i Santi del Paradiso ad essere testimoni del grande atto, che stiamo per compiere; venga Maria, la Madre Santissima di Gesù e nostra a darci il suo aiuto e la sua assistenza; venga Santa Margherita Alacoque, l’apostola della divozione al Sacro Cuore a suggerirci ella medesima la formula, con cui dobbiamo esprimere i nostri sentimenti ed i nostri propositi. Io intanto andrò innanzi a voi nel recitarla, parola per parola, e ciascuno di voi la ripeterà dopo di me a voce alta e con tutto l’affetto.

Formula di consacrazione al Divin Cuore

COMPOSTA DA SANTA MARGHERITA ALACOQUE

Io consacro e dono al santissimo Cuore del nostro Signore Gesù Cristo la mia persona, la mia vita, le mie pene, i miei patimenti, per dedicarmi in avvenire interamente alla sua gloria ed al suo amore. È mia ferma ed irrevocabile intenzione di darmi perfettamente a Lui, di compiere ogni cosa per amor suo, e con tutta l’anima mia rinunziare a quanto può dispiacere a questo Divin Cuore. – Perciò io Vi eleggo, o Sacratissimo Cuor di Gesù, ad unico oggetto del mio amore, a sostegno della vita mia, a sicurezza della mia salute, ad appoggio della mia debolezza. O Cuore della bontà e della mansuetudine, siate Voi il mio sicuro rifugio anche nell’ora della morte, siate Voi la mia giustificazione innanzi a Dio, e da me allontanate i castighi della giusta sua collera. O Cuore di amore, io ripongo in Voi tutta la mia speranza. Dalla mia malizia io temo tutto, dalla vostra bontà tutto io spero. Togliete da me quanto Vi dispiace, e quanto Vi è contrario. Imprimete così profondamente nel mio cuore l’amor vostro, che non mai Vi dimentichi, non mai da Voi ini separi. O Divin Cuore, io Vi scongiuro per l’infinita vostra bontà, che il mio nome sia scritto dentro di Voi, poiché nel vostro servizio io voglio vivere e morire. Così sia.