DELLA PRESENZA DI DIO (2)

DELLA PRESENZA DI DIO [2]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VI.

CAPO III.

Degli atti della volontà ne’ quali principalmente consiste quest’esercizio: e come abbiamo da esercitarci in essi.

S. Bonaventura nella sua mistica Teologia (D. Bonav. via 3 et in ep. 15 memorial. c. 22) dice, che gli atti della volontà coi quali in questo santo esercizio abbiamo da alzare il cuore a Dio, sono certi accesi desideri del cuore co’ quali l’anima desidera unirsi con Dio con perfetto amore; certi affetti infiammati, certi sospiri vivi delle viscere co’ quali ella chiama Dio; certi moti pii e amorosi della volontà co’ quali, come con ali spirituali, si stende ed alza in alto, e si va accostando e unendo più a Dio. Questi desiderii e affetti del cuore veementi ed accesi, sono da’ Santi chiamati aspirazioni; perché con essi l’anima s’alza a Dio, che è l’istesso che aspirare a Dio: ed anche, come dice S. Bonaventura (ubi supra), perché siccome respirando ricaviamo e tramandiamo senz’alcun altro atto deliberato il fiato dalla parte più intima del nostro corpo; così con gran prestezza e alle volte senza deliberazione, o quasi senza essa, caviamo questi accesi desiderii dall’intimo del nostro cuore. Queste aspirazioni e questi desiderii vengono dall’uomo espressi con certe brevi e frequenti orazioni che chiamano giaculatorie; Raptim jaculatas, dice S. Agostino (D. Aug. ep. ad Probam, quas est 121); perché sono come certi dardi e saette infocate ch’escono dal cuore e in un punto si lanciano e drizzano a Dio. Usavano assai queste orazioni que’ Monaci dell’Egitto, come dice Cassiano: Breves quidem, sed creberrimæ (Cass. lib. 2 de inst. renunt.); e le stimavano e ne facevano gran conto; si perché, come sono brevi, non istraccano il capo; sì anche perché si fanno con fervore e con spirito elevato, e in un punto si trovano nel cospetto di Dio; e così non danno tempo al demonio di frastornare colui che le fa, riè di mettergli nel cuore impedimento alcuno. Dice S. Agostino certe parole degne di considerazione per tutti quelli che fanno profession d’orazione: Ne illa vigilans et erecta intentìo, quæ tam necessaria est oranti, per productiores moras hebetetur (D. Aug. ep. ad Probam.); e le quali mostrano l’utilità di queste giaculatorie le quali servono acciocché quella vigilante e viva attenzione che è necessaria per orare colla dovuta riverenza e rispetto, non si vada rimettendo e perdendo, come suol avvenire nell’orazion lunga (D. Chrys. hom. 79.). Ora con queste orazioni giaculatorie procuravano que’ santi Monaci di star sempre in questo esercizio, alzando molto spesso il cuore a Dio e trattando e conversando con esso lui (Abbas Isaac collat. 10, c. 10,). Questo modo di stare alla presenza di Dio è comunemente più a proposito per noi altri, più facile e più utile. Ma bisognerà dichiarar meglio la pratica di questo esercitizio. Cassiano (Cass. coll. 10, c. 10) la mette in quel versetto, Deus, in adjutorium meum intende: Domine, ad adjuvandum me festina (Ps. LXIX, 2), che la Chiesa replica nel principio di ciascuna Ora Canonica. Se cominci qualche affare pericoloso, chiedi a Dio che t’aiuti per uscirne bene. Signore, rivolgiti in aiuto mio: Signore, non tardare ad aiutarmi. Per ogni cosa abbiamo necessità del favor del Signore, e così sempre glielo abbiamo d’andare chiedendo. E dice Cassiano, che questo versetto è meraviglioso e molto a proposito per esprimere tutti i nostri affetti in qualsisia stato e in qualsivoglia occasione, o accidente nel quale ci veggiamo; perché con esso invochiamo l’aiuto di Dio; con esso ci umiliamo e riconosciamo la nostra necessità e miseria: con esso ci alziamo su e confidiamo di esser uditi e favoriti da Dio; con esso ci accendiamo nell’amor del Signore che è il nostro rifugio e il Protettor nostro. Per quante battaglie e tentazioni ti si possono presentare, dice Cassiano, hai qui in pronto un fortissimo scudo, una corazza impenetrabile, e un muro inespugnabile: e così l’hai da portar sempre nella bocca e nel cuore; e questa ha da essere la tua continua e perpetua orazione, e il tuo camminare e star sempre alla presenza di Dio. – S. Basilio mette la pratica di questo esercizio nel prendere occasione da tutte le cose di ricordarci di Dio. Se mangi, ringrazia Dio: se ti vesti, ringrazia Dio: se esci in campagna, o vai all’orto, o al giardino, benedici Dio che l’ha creato: se guardi il cielo, se guardi il sole, e tutto il resto, loda il Creatore di ogni cosa : quando dormi, ogni volta che ti svegli, alza il cuore a Dio (D. Basil, hom. in mart. Julitam.). Altri, perché nella vita spirituale vi sono tre vie; una purgativa, che appartiene a’ Principianti; un’altra illuminativa, che appartiene a’ Proficienti; e un’altra unitiva, che appartiene a’ Perfetti; mettono tre sorte d’aspirazioni e d’orazioni giaculatorie. Alcune sono indirizzate a conseguire il perdono de’ peccati e a purgare l’anima da’ vizi e dagli affetti terreni; e queste appartengono alla via purgativa. Alcune altre sono indirizzate all’acquisto della virtù, al vincer le tentazioni, e ad incontrare di buon grado difficoltà e travagli per la virtù; e queste appartengono alla via illuminativa. Alcune altre poi sono indirizzate ad acquistar l’unione dell’anima con Dio mediante un legame di perfetto amore; e queste appartengono alla via unitiva; acciocché ciascuno s’applichi a questo esercizio proporzionatamente al suo stato e alla disposizione in cui troverassi. Ma quanto a questo, sia pur uno quanto si voglia perfetto, si può esercitare nel dolore de’ peccati, e in chieder a Dio il perdono di essi e grazia per non offenderlo mai, e sarà esercizio molto buono e molto grato a Dio. E questo tale, e quegli altresì che attende a purgar l’anima sua da’ vizi e dalle passioni disordinate, e ad acquistare le virtù, si potrà anche esercitare in atti di amor di Dio, per far questo stesso con maggiore facilità e soavità. E così tutti, in qualunque stato si trovino, possono indifferentemente per questo esercizio frequentare questi atti, dicendo: O Signore, non vi avessi mai offeso! Non permettete, Signore, che io vi offenda giammai. Morir sì, ma non peccare. Piaccia alla Divina Maestà Vostra, che più tosto io muoia ben mille volte, che mai cada in peccato mortale. Alcune altre volte può uno alzare il suo cuore a Dio, ringraziandolo de’ benefici ricevuti, così generali come particolari, o chiedendo qualche virtù; quando profonda umiltà; quando perfetta ubbidienza; quando carità; quando pazienza. Alcune altre volte può uno alzare il suo cuore a Dio con atti d’amore e di conformità alla volontà sua santissima, come dicendo: Dilectus meus mihi, et ego IIli (Cant. lI, l6): — Non mea voluntas, sed tua fiat (Luc. XXII, 42): Quid enim mihi est in cœlo? et a te quid volui super terram (Psal. LXXII, 24,)? Queste ed altre simili sono tutte buone aspirazioni ed orazioni giaculatorie, per istare sempre in questo esercizio della presenza di Dio: e le migliori e più efficaci sogliono essere quelle che il cuore mosso da Dio concepisce da se stesso, benché non sia con parole tanto eleganti e tanto ben composte come quelle che abbiamo dette. Né meno è necessario, che siano molte e diverse queste orazioni: perché una sola reiterata spesso e con grande affetto può bastare ad uno per far quest’ esercizio molti giorni e anche tutta la vita. Se ti trovi bene coll’andar dicendo sempre quelle parole dell’apostolo S. Paolo: Signore, che cosa volete ch’io faccia? o quelle della Sposa: Il mio Diletto per me, ed io per esso: o quelle del profeta David: Che cosa ho io da volere, Signore, né in cielo, né in terra se non voi (Act. IX, 6. Reliqua loc. supracit.)? non hai bisogno d’altro: trattieniti in questo, e sia questo il tuo continuo esercizio e il tuo camminare e stare alla presenza di Dio. (1)

CAPO IV.

Si dichiara anche meglio la pratica di questo esercizio, e si propone un modo di camminare  e stare alla presenza di Dio  molto facile ed utile, e di gran perfezione.

Fra le altre aspirazioni ed orazioni giaculatorie che possiamo usare è molto principale e molto a proposito per la pratica di questo esercizio quella che c’insegna l’apostolo S. Paolo nella prima Epistola a que’ di Corinto: Sive manducatis, sive bibitis, sive aliud quid facitis; omnia in gloriam Dei facile (I . ad Cor. x, 31, 1): 0 mangiate, o beviate, o facciate qualsivoglia altra cosa; ogni cosa fatela a gloria di Dio. Procurate in tutte le cose che farete, o quanto più frequentemente potrete, d’alzare il cuore a Dio, dicendo: Per voi, Signore, fo questa cosa: per darvi gusto e per piacere a Voi, perché così Voi volete. La vostra volontà, Signore, è la mia, e il vostro gusto è il mio; né ho io altro volere, né altro non volere, che quello che Voi volete, o non volete: questa è tutta la mia allegrezza, tutto il mio gusto, tutta la mia ricreazione, l’esecuzione e l’adempimento della vostra volontà, il piacere e dar gusto a Voi: né v’è altra cosa che volere, né che desiderare, né in che metter l’occhio né in cielo né in terra. Questo è un modo molto buono di camminare e star sempre alla presenza di Dio molto facile ed utile, e di gran perfezione: perché è star in un continuo esercizio d’amor di Dio. E perché in altri luoghi abbiamo toccato e per l’avvenire toccheremo di nuovo questa cosa (Sup. tract. 3, c. 8, et infra tract. 8, c 4), qui solamente voglio dire, che questo è uno de’ migliori e più utili modi di star sempre in orazione che vi siano e che possiamo usare. Né pare che vi manchi altra cosa per finire di canonizzare e di esaltare questo esercizio, che dire, che con esso staremo in quella continua orazione che Cristo nostro Redentore ricerca da noi, come abbiamo dal sacro Evangelio: Oportet semper orare, et non deficere (Luc. XVIII, 1): perciocché qual orazione può esser migliore che lo star sempre desiderando la maggior gloria ed onore di Dio, e lo starci sempre conformando alla volontà sua, non avendo altro volere, né altro non volere, che quello che vuole, o non vuole Dio, e che tutto il nostro gusto e la nostra allegrezza sia il gusto e la soddisfazione di Dio? Perciò dice un Dottore mistico ((3) D. Dìonys. Rich. lib, 1, de contempl, c. 25), e con gran ragione, che colui che persevererà diligentemente in quest’esercizio con questi affetti e desiderii interni, caverà da esso tanto frutto, che in breve tempo sentirassi mutato e cambiato il cuore, e proverà in esso particolare avversione al mondo e singolare affezione a Dio. Questo è cominciare di qua ad essere cittadini del cielo e famigliari della casa di Dio. Jam non estis hospites et advenæ; sed estis cives Sanctorum, et domestici Dei (1Ad Ephes. II,19). Questi sono quei celesti cortigiani che vide S. Giovanni che avevano il nome di Dio scritto nelle loro fronti, che è la continua memoria e presenza di Dio. Et videbunt faciem ejus, et nomen ejus in froniibus eorum (Apoc. XXII, 4.); perché la loro conversazione non è più in terra, ma in cielo: Nostra autem conversano in cœlis est (Ad Philipp, III, 20). — Non contemplantibus nobis quæ videntur, sed quæ non videntur: Quæ enim videntur, temporalia sunt; quas autem non videntur, alterna sunt (II. ad Cor. IV, 18). Bisogna però avvertire in quest’esercizio, che quando facciamo questi atti, dicendo: Per Voi, Signore, fo questa cosa, per amor vostro, e perché così Voi volete, ed altri simili; abbiamo da farli e da dirli come chi parla con Dio presente, e non come chi volge il cuore, o il pensiero, a cosa lontana da sé, o fuori di sé. Questa avvertenza è di grande importanza in questo esercizio; perché questo è propriamente camminare e stare alla presenza di Dio, e questo è quello che rende quest’esercizio facile e soave, e fa che muova e giovi più. Àncora nelle altre orazioni, quando meditiamo Cristo in croce, o alla colonna, avvertono quei che trattano d’orazione, che non abbiamo da immaginarci, che quel Mistero operossi colà in Gerusalemme e mille e tante centinaia d’anni sono; perché questo stracca più e non muove tanto; ma che dobbiamo immaginarci ogni cosa come presente, e che tutto siegua qui dinanzi a noi, figurandoci di sentire i colpi de’ flagelli e le martellate onde furono confitti i chiodi. E se facciamo la meditazione della morte, dicono, che abbiamo da immaginarci di star già per morire disperati dai medici e colla candela in mano. Quanto dunque sarà più ragionevole, che in quest’esercizio della presenza di Dio facciamo questi atti che abbiamo detti, non come chi parla con chi è assente e lontano da noi; ma come chi parla con Dio presente; poiché lo stesso esercizio lo ricerca e realmente la cosa sta così.

CAPO V.

Di alcune differenze e vantaggi che sono nel fin qui proposto esercizio della presenza di Dio relativamente ad altri che si soglion proporre.

Acciocché si possa veder meglio la perfezione e l’utilità grande di questo esercizio e modo di camminare e di stare alla presenza di Dio, del quale abbiamo ragionato, e resti con ciò la cosa meglio dichiarata, noteremo ora alcune differenze o vantaggi che trovansi in questo esercizio, rispettivamente ad alcuni altri. Primieramente, in altri esercizi che alcuni sogliono proporre di camminare e stare alla presenza di Dio, ogni cosa pare che sia in atto d’intelletto e ogni cosa pare che finisca in immaginarsi Dio presente; ma questo presuppone quest’atto d’intelletto e di fede, che Dio sia presente, e passa avanti a fare atti d’amore di Dio, e in questo consiste principalmente: e questa seconda cosa senza dubbio è migliore e più utile che la prima. Siccome nell’orazione diciamo (Supra tract. 5, cap. II.), che non ci dobbiam fermare nell’atto dell’intelletto, che è la meditazione e considerazione delle cose, ma negli atti della volontà, cioè negli affetti e desiderii della virtù e dell’imitazione di Cristo, o che questo ha da essere il frutto dell’orazione; così qui la parte principale, migliore, e più utile di quest’esercizio, sta negli atti della volontà: onde questa è la cosa nella quale abbiamo da insistere. Secondariamente, il che viene in conseguenza di quello che abbiamo detto, quest’esercizio è più facile e più soave degli altri; perché negli altri vi bisogna discorso e fatica dell’intelletto e dell’immaginativa per rappresentarci dinanzi le cose, che è quello che suole straccare e rompere il capo alle persone, e così non può durar tanto; ma in quest’altro esercizio non vi bisogna discorso, ma affetti e atti della volontà, i quali si fanno senza stanchezza; perché sebbene è vero, che vi è pur qualche atto dell’intelletto, questo però si presuppone per mezzo della Fede, senza che ci stracchiamo per farlo sì espressamente, come quando adoriamo il santissimo Sacramento, che presupponiamo per mezzo della Fede, che sta ivi Cristo Salvator nostro, tutta la nostra attenzione e occupazione si volge ad adorare, riverire, amare e chiedere grazie a quel Signore che sappiamo che sta ivi; così passa la cosa in quest’esercizio. E quindi è, che per essere più facile, potrà uno durare e perseverare in esso più lungamente; perciocché anche agli infermi, i quali non possono fare molta orazione, siamo soliti dar per consiglio, che usino d’alzare spesso il cuore a Dio con alcuni affetti e atti della volontà, essendo che questi si possono far facilmente. Onde, quando bene non avesse in sé altro vantaggio quest’esercizio, che il potersi durare e perseverare in esso più che negli altri, lo dovremmo stimare grandemente; quanto più poscia essendovi tanti vantaggi? – In terzo luogo, e questo è un punto principale e molto qui da avvertirsi, l’esercizio della presenza di Dio non è solamente per fermarci in esso, ma ci dee servire di mezzo per far bene le nostre operazioni. Perché  se ci contentassimo d’aver solamente attenzione all’essere Dio presente, e con ciò nelle nostre operazioni ci trascurassimo, e facessimo mancamenti e byd errori in esse, questa non sarebbe buona divozione, ma illusione. Sempre abbiamo da premere in questo, che quantunque teniamo fisso un occhio alla sovrana Maestà di Dio, l’altro nondimeno stia volto a far bene le opere per amor suo. E il considerare che stiamo alla presenza di Dio ci ha da servire di mezzo per far meglio e con maggior perfezione ciò che facciamo. Or questo si fa molto meglio con questo esercizio che cogli altri; perché cogli altri s’occupa assai l’intelletto in quelle figure corporali che uno si vuol rappresentare innanzi, o nei concetti che vuol ricavare dall’avere presente quel Signore che ha, e per ricavarne il buon pensiero molte volte la persona non guarda a quello che fa, e lo fa malamente; ma quest’esercizio, come in esso non vi è occupazione dell’intelletto, non impedisce punto l’esercizio delle opere, anzi aiuta assai a farle riuscire ben fatte, perché la persona le sta facendo per amor di Dio che la sta mirando; e così procura di farle in tal maniera e tanto bene, che possano comparire innanzi agli occhi di Dio, e non sia in esse cosa indegna della sua presenza. Intorno al qual punto abbiamo già di sopra spiegato (Supra tract. 2, cap. 3) come questo stesso è un altro modo molto buono, e molto utile, e proposto ancora dai Santi, di camminare e stare alla presenza di Dio : e così non istaremo qui a replicarlo.

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (1)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA E STUDIO

DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE

1932

COI TIPI DELLA SOC. ED. (L A SCUOLA)

BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR + AEM. BONGIORNI, Vie. Gen.

INDULGENZE CONCESSE A COLORO CHE INSEGNANO E IMPARANO LA DOTTRINA CRISTIANA

1. Indulgenza plenaria a tutti e singoli i fedeli i quali, per circa mezz’ora e non meno di venti minuti, insegneranno o impareranno la dottrina cristiana almeno due volte al mese, da lucrarsi nello stesso mese due volte, in giorni di loro scelta; purché veramente pentiti, confessati e comunicati, visiteranno qualche chiesa o pubblico oratorio, e vi pregando secondo l’intenzione del Romano Pontefice.

2. Indulgenza parziale di 100 giorni, da acquistarsi almeno con cuore contrito, a tutti i fedeli ogni volta che per il detto spazio di tempo, insegneranno o impareranno la dottrina cristiana.

(Decreto di S. S. Pio XI, 13 Marzo 1930).

PROEMIO

Quello che fu già il voto dei Concilii Tridentino (Sess. XXV, De Reform., Decretum de indice librorum, catechismo etc.) e Vaticano (Cfr. in Appendice I: « Schema di costituzione d’un piccolo catechismo, riformato secondo le correzioni approvate dalla congregazione generale [del Concilio Vaticano].) è oggi vivissimo desiderio comune a tutti quanti si dedicano alla diffusione della dottrina cristiana, cioè che venga pubblicato un Catechismo da usarsi nella Chiesa Universale (affinché come uno è il Signore e una la Fede, così una sia la norma e l’ordinamento comune per impartire questa Fede e per educare il popolo cristiano ai suoi religiosi doveri » (Catechismus ad Parochos, Præf., re. 8).In questi ultimi tempi questa necessità si è resa tanto più grave quanto più è cresciuta l’opportunità e la facilità di mutare domicilio. Noi nelle nostre deboli forze abbiamo procurato di venire incontro a tale desiderio componendo i catechismi che ora diamo alle stampe.I Romani Pontefici, a dir vero, solleciti sempre di diffondere nella Chiesa Universale la conoscenza della dottrina cristiana, in conformità dei voti espressi dai Padri Tridentini curarono la compilazione e — dopo averlo approvato — la pubblicazione di un catechismo dal titolo « Catechismo per i parroci secondo il decreto del Concilio Tridentino » e più brevemente « Catechismo Romano »: con l’intento di offrire ai pastori di anime un compendio che servisse loro per un proficuo insegnamento della dottrina cristiana. Senza dubbio l’utilità di quel catechismo è, nell’insegnamento catechetico, grandissima ; però, come dice il titolo stesso, è destinato principalmente ai parroci e ai catechisti per istruire i fedeli, non per l’uso diretto dei fedeli stessi: senza dire che non espone tutti gli argomenti di un catechismo. Così pure i Romani Pontefici lodarono assai il catechismo che il Santo Cardinale Bellarmino, dottissimo teologo, compose per uso dei fanciulli: parecchi testi di catechismo rispettivamente adatti alle varie età approvò e prescrisse il Papa Pio X di santa memoria, soprattutto per le diocesi della provincia romana: anche molti Vescovi in Italia e alt estero vollero provvedute le loro diocesi di catechismo proprio. Nel comporre i  nostri non abbiamo trascurato nessuno dei catechismi sopra indicati, anzi abbiamo conservato quanto in essi ci parve opportuno. – (Nella Costit. In dominico agro, 14 giugno 1761, Clemente XIII avverte che questo catechismo « fu composto con non poca fatica e diligenza, riscotendo il consenso e le lodi di tutti » e che i Romani Pontefici vi esposero la dottrina « che è comune nella Chiesa e del tutto immune da ogni pericolo di errore ». E Pio XI nella lettera Unigenitus Dei Filius del 19 Marzo 1924: « in esso [cioè nel Catechismo romano] non sapresti se ammirare di più l’abbondante e sana dottrina, oppure l’eleganza dello stile latino » . Il Catechismo tratta del Simbolo, de’ Sacramenti, del Decalogo, dell’Orazione.) –  Le classi di persone che secondo la loro età e capacità hanno bisogno d’istruzione catechistica sono tre: i bambini che per la prima volta si ammettono alla Santa Comunione (Quelli di età maggiore e ancor ignoranti della dottrina cristiana, che desiderano ricevere i Santi Sacramenti della Chiesa, imparino subito, per non ritardare troppo la Comunione, il primo catechismo e così vengano ammessi alla prima Comunione, poi il secondo catechismo, quello dei fanciulli. Per le persone in punto di morte che, ignorando la dottrina cristiana, desiderano il conforto dei Sacramenti, v. nell’Appendice III): i fanciulli che come è loro dovere attendono allo studio del catechismo: gli adulti infine che desiderano una conoscenza più completa della dottrina cattolica: di qui un triplice catechismo. Questi tre catechismi vengono raccolti in un solo volume per comodo dei catechisti, ma in seguito per l’uso di coloro ai quali sono destinati possono e debbono separarsi, sopprimendo nel primo catechismo le note che sono per utilità di chi insegna.Per i bambini che si ammettono alla Prima Comunione il Pontefice Pio X per mezzo della Congregazione dei Sacramenti nel Decreto « Quam Singulari » del giorno 8 Agosto 1910 (Append. II) stabilì a quale età cominci l’obbligo della Confessione e della Comunione e quale istruzione religiosa si richieda perché essi possano e debbano ammettersi alla Prima Comunione (vedi il terzo catechismo per gli adulti d. 262, 264) : spesso però avviene che devono ammettersi alla Prima Comunione fanciulli di età maggiore. Per tutti questi proponiamo il breve schema del catechismo (L’abbiamo, con poche modificazioni, desunto dall’opuscolo: Il Decreto Quam singulari pubblicato di ordine del Sommo Pontefice Pio Pp. X dalla S. Congregazione dei Sacramenti il dì 8 Agosto 1910, pubblicato dal R. mo Mons. Domenico Jorio, segretario della medesima Congregazione. Nel comporre questo piccolo catechismo l’autore ebbe sott’occhio l’opuscolo:« Sulla età della prima Comunione dei fanciulli. – Breve commento del Decreto Quam singulari » del Card. Gennari, che ebbe il principale incarico nel compilare il Decreto stesso e perciò ben conosceva l’indole del Decreto.). L’Ordinario, secondo la sua prudenza e lo stesso catechista dietro consiglio dell’Ordinario o del Parroco potrà apportarvi lievi aggiunte purché non si protraggavi lungo la Prima Comunione né, se si tratta di bambini, si aggravi troppo la loro mente. Nemmeno è necessario che le parole di risposta alle domande sieno mandate a memoria purché se ne comprenda bene il senso (Card. Gennari, l. c.): il catechista da parte sua spieghi brevemente e chiaramente quei punti di dottrina contenuti nelle domande che abbiano bisogno di spiegazione servendosi magari di esempi e di figure. Nessuno però si ammetta alla Prima Comunione se non dopo avere promesso al parroco di continuare lo studio del catechismo, promessa che dovrà essere confermata dai genitori o da chi ne fa le veci (Il Parroco, per consiglio del suo Ordinario, può differire la prima Comunione, per il più breve tempo possibile, a queste due condizioni, se non erriamo: 1°) che il fanciullo, dopo la prima Comunione, non frequenterà il catechismo; 2°) che il medesimo, col differirgli la prima Comunione, frequenterà il catechismo durante il tempo della dilazione. Di fatti questa breve dilazione è minor male che una monca e imperfetta cognizione del catechismo; ora, fino a che non risulti diversa la sua intenzione, la Chiesa è da supporsi che permetterà, per il bene del fanciullo, quel minor male.). – Dopo la Prima Communione, al fanciullo che in luogo di allontanarsi dalla Mensa Eucaristica dovrà frequentarla secondo il consiglio del confessore (Dice il Decreto Quam singulari : « V. Una o più volte all’anno i parroci si dieno premura di annunciare e tenere la Comunione generale dei fanciulli e ammettervi non soltanto quelli della prima Comunione, ma pure gli altri che, col consenso de’ genitori e del confessore, com’è detto sopra, la prima Comunione già l’hanno ricevuta: e per tutti si premettano alcuni giorni d’istruzione e di preparazione »), incombe l’obbligo d’imparare a gradatamente il catechismo intero in proporzione della sua capacità come stabilisce la S. Cong. I. c. n. 11 e  questo obbligo che incombe ai fanciulli ricade anche e specialmente su coloro che ne devono aver cura. (Conf. il terzo catechismo per gli adulti, d. 263). Per catechismo « intero » non s’intenda un catechismo simile al nostro per gli adulti, o per le persone colte, ma uno più breve, dove però la dottrina sia svolta in modo da bastare alla formazione cristiana dei giovani. Nel secondo catechismo noi abbiamo creduto bene di proporre le domande e le risposte con le stesse parole che nel terzo catechismo per gli adulti, affinché il giovane che volesse una conoscenza più completa della dottrina cristiana possa poi ottenerla, usando il nostro terzo catechismo. L’Ordinario potrà, se lo crederà più adatto, seguire un altro metodo, ampliare o restringere il nostro e il catechista da parte sua aggiunga spiegazioni più diffuse del domma, racconti della storia sacra e brevi esortazioni: di tutto ciò troverà esempi nel nostro terzo catechismo. E poiché per apprendere bene il catechismo si richiede da parte dei giovani una notevole e non breve applicazione è necessario che lo studio sia graduale, come avverte la stessa S. Congregazione l.c., proporzionato cioè all’età e alla capacità. Sarà compito quindi dei Vescovi di fare sì che l’insegnamento sia opportunamente adattato alle diverse classi dei giovani e sarebbe desiderabile che tali istruzioni fossero uniformi in tutte le parrocchie di una medesima lingua e nazione (Per ottenere la frequenza de’ giovani al loro catechismo, in talune parrocchie si celebra la solenne rinnovazione delle promesse battesimali. Vale a dire che i fanciulli, per almeno due anni, frequentano la scuola del catechismo: compiuta l’istruzione e subito felicemente l’esame, dopo alcuni giorni d’insegnamento e di preparazione, rinnovano con grande solennità, in giorno stabilito e ricevuta la S. Comunione, le promesse del Battesimo alla presenza de’ genitori, o di chi ne fa le veci, quali mallevadori delle promesse. Altrove si suol fare pubblica e solenne distribuzione di premi ai giovani più assidui e più meritevoli.)

Finalmente lo scopo che avemmo in mente nel compilare il terzo catechismo fu di comprendervi soltanto le dottrine che o sono dalla Chiesa definite o dalla scuola cattolica accettate o conformi alla pratica generale dei fedeli alla quale la Chiesa mai abbia fatto opposizione: che queste dottrine fossero presentate col minore numero di parole possibile senza però cessare di essere di utile aiuto ai parroci e ai catechisti e di offrire agli adulti e alle persone colte la possibilità di conoscere a sufficienza la Religione Cattolica, lasciandone ai teologi la completa spiegazione. Inoltre, se non erriamo, noi crediamo che nelle scuole di religione così opportunamente istituite nei nostri collegi il nostro catechismo possa servire di norma e per l’ordine e per il metodo e per la precisione della frase. A proposito di questo catechismo maggiore bisognerà tenere presenti le seguenti osservazioni che più o meno possono adattarsi anche al secondo catechismo per i giovani. – Vi potrà essere bisogno di confutare determinati errori, propri di alcuni paesi o regioni o per illustrare meglio la dottrina cattolica sarà necessario svilupparne con speciale larghezza alcuni punti, o aggiungervene altri o citare brani della Sacra Scrittura o storici avvenimenti locali; si faccia pure tutto questo con il permesso dei Vescovi; però in modo tale che queste aggiunte appaiano ben distinte dal nostro schema. In esso non si propone che la disciplina comune. Se con il consenso della legittima autorità, in qualche regione o diocesi, questa disciplina fosse stata modificata, queste modificazioni si stampino in fondo alla pagina e il catechista le spieghi. Trattandosi però d’indulti affatto locali basterà la spiegazione data a viva voce dal parroco o dall’insegnante. – Se il nostro catechismo verrà adottato da Chiese orientali:

a) Ogni qualvolta nella domanda si tratterà della disciplina, come p. e. nel terzo catechismo per gli adulti Capo V Dei precetti della Chiesa, d. 242 e seguenti, nella risposta si propone quanto è in vigore nella Chiesa Occidentale: se da questa la disciplina orientale differisce sarà cura degli Ordinari sostituire alle nostre domande e risposte altre domande e altre risposte che rispondano alla disciplina della propria Chiesa;

b) Similmente nel catechismo si riportano alcune tra le più comuni preghiere in uso in Occidente: anche queste naturalmente verranno sostituite da altre preghiere più note in Oriente;

c) Lo stesso dicasi per il Simbolo della Fede. Nel nostro Catechismo si riporta e si spiega il cosiddetto Simbolo degli Apostoli, mentre nella maggior parte delle Chiese Orientali e nel catechismo e nella sacra liturgia è accettato il Simbolo Niceno-Costantinopolitano che anche noi recitiamo (aggiungendo la parola Filioque) nel sacrificio della Messa. Le Chiese Orientali quindi potranno ritenere nel catechismo il proprio Simbolo, purché professino come è di dovere la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. E poiché tra l’uno e l’altro non vi è, vi potrebbe essere, differenza alcuna sostanziale, la spiegazione può essere presa dal nostro catechismo;

d) Finalmente per tralasciare il resto, la materia e la forma di alcuni Sacramenti si propone con parole diverse e dalla Chiesa Latina e dalle Chiese Orientali. Nel nostro catechismo, nel testo si propone la materia e la torma così come è accettata dalla Chiesa Latina, nelle note si indicano la materia e la forma come sono in uso nella Chiesa Orientale. Gli Ordinari orientali però seguano l’ordine inverso, cioè nel testo pongano la loro dizione e nelle note la materia e la forma come sono formulate dalla Chiesa Latina. – Poiché l’insegnamento catechistico mira non soltanto ad illuminare la mente ma e soprattutto a spronare la volontà perché la vita e i costumi si conformino ai precetti della dottrina cristiana, un catechista che o non adattasse la spiegazione alla capacità degli alunni o non li esortasse in modo opportuno al ben vivere, mancherebbe certamente al suo compito. Quelle spiegazioni ed esortazioni quindi che a guisa di esempi vengono suggerite in fondo alla pagina, il catechista, se vuole, le sviluppi e con facilità ve ne aggiunga delle sue. Sempre in fine di pagina sono citati — oltre le testimonianza dei Concili Ecumenici, dei Romani Pontefici, dei Santi Padri, delle Sacre Congregazioni Romane, del Codice di Diritto Canonico — anche i passi della Sacra Scrittura che hanno relazione alla dottrina esposta nel testo affinché il Catechista si abitui a fare uso di essa che « èutile ad insegnare, a ragionare a correggere e ad educare nella santità » (S. Paolo, II a Timot., III, 16) e perché ogni giorno cresca nel popolo la conoscenza e la venerazione per la divina parola (Le testimonianze de’ Concilii Ecumenici, de’ RomaniPontefici, de’ Santi Padri e delle Sacre Congregazioni Romane,recate nei Catechismo, si trovano raccolte in fine dopo il Catechismo.E tali testimonianze, insieme colle citazioni, frequentia pie’ di pagina, dalla S. Scrittura, son la prova più sicura chela dottrina esposta nel Catechismo non è affatto nuova e di recenteinvenzione, ma è contenuta nella S. Scrittura e nel perpetuoinsegnamento della Chiesa.). – Infine desideriamo far conoscere che questo catechismo fu approvato da una commissione speciale di Consultori della S. Congregazione del Concilio presieduta dallo stesso Cardinale Prefetto: fu esaminato da Professori di Teologia nelle Università Cattoliche, da molti Eminentissimi Cardinali e da altre dotte persone: finalmente, nella compilazione del medesimo prestarono la loro utile opera parecchi Consultori e Professori nelle Facoltà Teologiche Romane  (I Collegi Romani, de’ quali i professori ci furono larghi e cortesi d’aiuto, sono i seguenti: Università Gregoriana S. J., Collegio Angelico 0. P., Seminario Romano maggiore, Istituto Pontificio per gli Studi Orientali e Collegio Urbano per la propagazione della Fede.). Se nondimeno per la nostra pochezza fossimo incorsi in qualche espressione contraria o comunque poco conforme alla dottrina e all’intenzione della Sede Apostolica, fino da questo momento vogliamo che sia ritrattata e soppressa.

PIETRO CARD. GASPARRI.

ORDINE DEI CAPITOLI DI DOTTRINA CRISTIANA NEL TERZO CATECHISMO PER GLI ADULTI

Il Capo I tratta del Segno della Santa Croce, che è come la tessera o segno distintivo del cristiano.

Il Capo II tratta della rivelazione divina, che è quasi l’ingresso o la porta del Catechismo, perché essa ci insegna in qual modo noi possiamo conoscere Iddio e le verità eterne. Siccome però per conseguire la eterna salute dell’anima (che è l’unica cosa necessaria, essendo il nostro ultimo fine) dobbiamo innanzi tutto credere, perciò il Capo III tratta del Simbolo degli Apostoli, nel quale sono contenute le principali verità della nostra fede. E poiché alla fede dobbiamo aggiungere le opere, perciò il Capo IV tratta del Decalogo, il Capo V Dei precetti della Chiesa, il Capo VI Dei consigli evangelici. – Siccome poi per compiere tutto ciò che è detto nei sei Capi superiori, è assolutamente necessaria la divina grazia, quindi il Capo VII tratta Della grazia. La qual grazia noi possiam principalmente ottenere per mezzo dell’orazione e dei Sacramenti, perciò il Capo VIII tratterà Dell’orazione ed il Capo IX Dei Sacramenti. Ma nella stessa giustificazione noi insieme alla remissione dei peccati otteniamo e le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, donde provengono poi le beatitudini evangeliche e i frutti dello Spirito Santo; quindi il Capo X tratta Delle virtù teologiche, delle virtù morali, dei doni dello Spirito Santo, delle beatitudini evangeliche e dei frutti dello Spirito Santo. Se non che noi, resistendo alla grazia che Dio liberalmente sempre ci concede, possiamo volontariamente violarne la legge e commetter peccato; perciò il Capo XI tratta Dei peccati. Finalmente il Capo XII tratta Dei Novissimi, poiché la meditazione dei medesimi giova moltissimo per evitare i peccati ed è consigliata dalla stessa Sacra Scrittura.

DELLA PRESENZA DI DIO (1)

DELLA PRESENZA DI DIO [1]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VI.

CAPO I .

Dell’eccellenza di questo esercizio e dei gran beni che sono in esso.

Quærite Dominum, et confìrmamini: quærite faciem ejus semper.

Ps. CIV, 4

Cercate Dio con fortezza e con perseveranza, dice il profeta David: cercate sempre la sua faccia.. La faccia del Signore dice S. Agostino che è la presenza del Signore (super Ps. CIV): e così cercare la faccia del Signore sempre, è camminar sempre alla sua presenza, volgendo il cuore a Lui con desiderio e con amore. Isichio nell’ultima Centuria [e lo apporta anche il glorioso S. Bonaventura] dice, che lo star sempre in questo esercizio della presenza di Dio, è cominciare ad esser di qua beati; perché la beatitudine dei Santi consiste in veder Dio perpetuamente, senza giammai perderlo di veduta. Or giacché in questa vita non possiamo veder Dio chiaramente, né come Egli è, perché questo è proprio dei Beati; almeno imitiamoli nel modo nostro e secondo quello che comporta la nostra fragilità, procurando di star sempre riguardando, riverendo e amando Dio. Di maniera che siccome Dio Signor nostro ci creò per avere a stare eternamente alla sua presenza nel cielo, ed ivi goderlo; cosi volle, che avessimo qui in terra un ritratto e un saggio di quella beatitudine, camminando sempre alla sua presenza, contemplandolo e riverendolo, sebbene all’oscuro: Videmus nunc per speculum in ænigmate: tunc autem facie ad faciem (I ad Cor. XIII): Adesso il veggiamo e contempliamo noi per mezzo della Fede come per mezzo di uno specchio; di poi lo vedremo alla scoperta e a faccia a faccia: Ista est meritum, illa præmium: Quella vista chiara, dice Isichio, è il premio e la gloria e beatitudine che aspettiamo; quest’altra oscura è merito per mezzo del quale abbiamo da arrivare a conseguir quella. Ma infine al modo nostro imitiamo i Beati, procurando di non perdere mai Dio di veduta nelle nostre operazioni, siccome gli Angeli santi i quali sono mandati per nostro aiuto, per nostra custodia e nostra difesa, s’occupano in tal maniera in questi ministeri in prò nostro che mai non perdono Dio di vista; come lo disse l’Angelo Raffaello a Tobia: Videbar quidem vobiscum manducare et bibere: sed ego cibo invisibili, et potu, qui ab hominibus videri non potest, utor (Tob. XII, 19): Pareva bene che io stessi mangiando e bevendo con voi altri; ma io uso un altro cibo invisibile ed un’altra bevanda che non può esser veduta dagli uomini. Stanno gli Angeli santi del continuo come nutrendosi e sostentandosi di Dio: Semper vìdent faciem Patris mei, qui in cœlis est (Matt. XVIII, 10): così noi altri sebbene mangiamo, beviamo, trattiamo e negoziamo cogli uomini, e pare che ci occupiamo e tratteniamo in questo; abbiamo nondimeno da procurare, che non sia questo il nostro cibo né il nostro trattenimento, ma un altro invisibile che gli uomini non veggono; cioè lo star sempre riguardando ed amando Dio e facendo la sua santissima volontà. – Grand’esercizio fu quello che praticarono quei Santi e Patriarchi dell’antica legge in ordine a questo punto del camminare sempre alla presenza di Dio: Providebam Dominum in conspeclu meo semper; quoniam a dextris est mihi ne commovear (Ps. XV, ). Non si contentava il reale Profeta di lodar Dio sette volte il giorno; ma sempre procurava di tenerlo presente. Era tanto continuo questo esercizio in quei Santi, che era anche comune linguaggio loro il pregiarsi di questo, soliti di spesso dire: Vivit Dominus, in cujus conspectu sto (III Re, XVII, 1; – IV. Reg. III, 14): Vive il Signore, alla cui presenza io sto. Sono grandi i beni e le utilità che risultano dal camminar sempre alla presenza di Dio, considerando, che egli ci sta guardando; e perciò lo procuravano tanto quei Santi, perché questo basta a fare, che uno sia molto ben regolato e molto composto in tutte le sue azioni. Dimmi un poco, qual è quel servo che dinanzi agli occhi del suo padrone non proceda con molta puntualità? ovvero qual servo si trova tanto sfacciato, che alla presenza del padrone non faccia quello che esso gli comanda, o ardisca di offenderlo sotto a’ suoi occhi? ovvero qual sarà quel ladro a cui basti l’animo di rubare, mentre vede, che il Giudice gli sta guardando alle mani? Ci sta guardando Dio, il quale è nostro giudice ed è onnipotente, che può far che la terra s’apra e che l’inferno inghiottisca chiunque lo fa sdegnare contro di sé, e alcune volte l’ha fatto. Or chi ardirà di muoverlo a sdegno? E così S. Agostino diceva: Quando io, Signore, considero attentamente, che mi state sempre guardando e vegliando sopra di me notte e giorno, con tanta cura, come se in cielo e in terra Voi non aveste altra creatura da governare che me solo: quando considero bene, che tutte le mie operazioni, pensieri e desideri, sono patenti e chiari dinanzi a Voi, mi riempio tutto di timore e mi copro di vergogna (c.(D. Aug. c. 14 soliloq.). Certo ci mette in grand’obbligo di viver giustamente e rettamente il considerare, che facciamo tutte le cose dinanzi agli occhi del Giudice che vede il tutto e a cui nessuna cosa si può celare. Se la presenza d’un uomo grave ci fa star composti, che farà la presenza di Dio? S. Girolamo sopra quello che Dio dice di Gerusalemme per mezzo del profeta Ezechiello, Meique oblita es (Ezech. XXII, 13), Ti sei dimenticata di me, dice: Memoria enim Dei excludit cuncta flagitia: La memoria di Dio esclude tutti i peccati. L’istesso dice sant’Ambrogio (D. Ambr. lib. de fide resurr. Tom. 4). E in un altro luogo dice S. Girolamo: Certe quando peccamus, si cogitaremus Deum videre, et esse prœsentem, numquam, quod ei dispiaceret, faceremus (4 (4) D. Hieron. Ìn Ezeeh. 8 circa illud, dicunt enim, non vldebit Dominus nos). È tanto efficace mezzo la memoria di Dio e il camminar alla presenza sua, che se considerassimo, che Dio è presente e che ci sta guardando, non ardiremmo mai di far cosa che gli dispiacesse. Alla peccatrice Taide bastò questo solo per lasciare l a sua mala vita e andarsene all’eremo a far penitenza, come abbiamo detto di sopra (tract. V.). Diceva il santo Giob: Nonne ipse considerai vias meas, et cunctos gressus meos dinumerat ((2) Job XXXI, 4)? Dio mi sta guardando come testimonio di veduta e mi va contando i passi; e chi ardirà mai di peccare né di far cosa malfatta? Per lo contrario tutto il disordine e tutta la ruina dei tristi nasce dal non ricordarsi, che Dio è presente e che gli sta guardando, secondo quello che tante volte replica la Scrittura divina in persona degli uomini cattivi: Et dixisli: Non est, qui videat me (Isa. XLVII, 10) — Non videbit novissima nostra (Jerem. XII, 4). E così lo notò san Girolamo sopra quel capo 22 di Ezechiello, ove il Profeta, riprendendo Gerusalemme di molti suoi vizi e peccati, viene a conchiudere, che la cagione di tutti essi era l’essersi dimenticata di Dio: e questa stessa cagione nota la Scrittura in molti altri luoghi, Siccome un cavallo senza freno si va a precipitare e una nave senza chi la governi si va a perdere; così levato via questo freno, l’uomo se ne va dietro a’ suoi appetiti e alle sue passioni disordinate: Non est Deus in conspectu ejus: inquinata? sunt via? illius in omni tempore (Psal. IX, 20), dice il profeta David: Non tiene Dio dinanzi a’ suoi occhi, non lo considera presente dinanzi a sé; e perciò le vie sue, cioè le sue operazioni, sono macchiate di colpa in ogni tempo. Il rimedio che il beato S. Basilio in molti luoghi dà contra tutte le tentazioni e’ travagli, e contra tutte le cose e occasioni che ci si possono presentare, è la presenza di Dio (p. Basil, in reg. brev. et in reg. fus. disput.). Onde se vuoi un mezzo breve e compendioso per acquistare la perfezione, il quale contenga e rinchiuda in sé la forza e l’efficacia di tutti gli altri mezzi, questo è desso, e per tale lo diede Dio ad Abramo: Ambula coram me, et esto perfectus (Gen. XVII, 1): Cammina alla mia presenza, e sarai perfetto.  – In questo, come in altri luoghi della sacra Scrittura, l’imperativo si piglia pel futuro, per significare l’infallibilità del successo. È cosa tanto certa, che sarai perfetto se andrai sempre riguardando Dio e se starai avvertito ch’egli ti sta guardando; che da quest’ora ti puoi tenere per tale. Perché, siccome le stelle dall’aspetto del sole che hanno presente, e in cui stanno rivolte, traggono lume per risplendere dentro e fuori di sé, e virtù per influire nella terra; così gli uomini giusti i quali sono come stelle nella Chiesa di Dio, dall’aspetto del medesimo Iddio, dal mirarlo presente, e dal volgere il loro pensiero e desiderio a Lui, traggono lume col quale nell’interiore che Dio vede risplendono con vere e sode virtù, e nell’esteriore che veggon gli uomini risplendono con ogni decenza e onestà; e ritraggono virtù e forza per edificare e santificar altri. Non è cosa nel mondo che esprima tanto propriamente la necessità che abbiamo di star sempre alla presenza di Dio, quanto questa. Guarda la dipendenza che ha la luna Dal sole, e la necessità che ha di star sempre rimpetto ad esso. La luna da sé non ha lume; ha solo quello che riceve dal sole, secondo l’aspetto col quale lo guarda; e opera nei corpi inferiori secondo il lume che riceve dal sole: e così i suoi effetti crescono te scemano secondo che ella stessa va crescendo e scemando: e quando si pone dinanzi alla luna qualche cosa che le impedisca l’aspetto e la vista del sole; subito nell’istesso punto si ecclissa e perde la sua luce, e con essa ancora gran parte dell’efficacia d’operare che aveva mediante il lume che riceveva dal sole. L’istesso accade nell’anima rispetto a Dio che è il suo sole. Perciò i Santi ci esortano a questo esercizio. S. Ambrogio e S. Bernardo trattando della continuazione e perseveranza che dee essere in noi intorno ad esso, dicono: Sicut nullum est momentum, quo homo non utatur vel fruatur Dei bonitate et misericordia; sic nullum debet esse momentum, quo eum præsentem non habeat in memoria (D. Ambr. lib. de dlgu. coni. bum. c. 2; D. Bernard, c. 8, medit.): Siccome non v’è punto né momento nel quale l’uomo non goda della bontà e misericordia di Dio; cosi non vi ha da esser punto né momento nel quale non abbia Dio presente nella sua memoria. E in un altro luogo dice S. Bernardo: In omni actu vel cogitatu suo sibi Deum adesse memoretur; et omne tempus, quo de ipso non cogitai, perdidisse se computet (D. Bern. in spec. mon.): In tutte le sue operazioni e in tutti i suoi pensieri ha da procurare il Religioso di ricordarsi, che ha Dio presente: e tutto il tempo che non pensa a Dio ha egli da tenerlo per perduto. Mai non si dimentica Dio di noi altri: sarà ben di ragione che noi altresì procuriamo di non mai dimenticarci di lui. S. Agostino sopra quelle parole del Salmo XXXI, Firmabo super te oculos meos, dice: Non a te auferam oculos meos; quia et tu non aufers a me oculos tuos (D. Aug. in Ps. XXXI, 8): Non leverò, o Signore, gli occhi miei da te; perché tu non levi mai i tuoi da me: sempre li terrò fermi e fissi in te, come faceva il Profeta: Oculi mei semper ad Dominum (Ps. XXIV, 15). S. Gregorio Nazianzeno diceva: Non tam sæpe respirare, quam Dei meminisse débemus (D. Greg. Naz. In I orat. Theol.): Tanto spesso e tanto frequente ha da esser il ricordarci di Dio, quanto il respirare, e anche più. Perché siccome ad ogni momento abbiamo necessità di respirare, per rinfrescare il cuore e per temperare il calor naturale, così abbiamo necessità di ricorrere in ogni momento a Dio coll’orazione, per raffrenare il disordinato ardore della concupiscenza che ci sta stimolando e incitando al peccare.

CAPO II.

In che cosa consiste quest’esercizio di camminar sempre alla presenza di Dio.

Per poter noi cavar maggior frutto da quest’esercizio, bisogna che dichiariamo in che cosa consiste. In due punti consiste, cioè in due atti, l’uno dell’intelletto e l’altro della volontà (Vide sapra tract. 5, c. 7). Il primo atto è dell’intelletto, poiché questo sempre si ricerca e si presuppone per qualsivoglia atto della volontà, siccome insegna la filosofia. La prima cosa dunque ha da essere il considerare coll’intelletto, che Dio è qui e in ogni luogo; che riempie tutto il mondo; e che sta tutto in tutto, e tutto in qualsivoglia parte di esso, e tutto in qualsivoglia creatura, per piccola che sia. Su questo si ha a fare un atto di fede, perché questa è una verità che la Fede ci propone per crederla: Non enim longe est ab unoquoque nostrum. In ipso enim vivirnus, et movemur, et sumus (Ex Act. XVII, 27, 28.), diceva l’apostolo san Paolo. Non avete da immaginarvi Dio come lontano da voi, o come fuori di voi; perché è dentro di voi. S. Agostino dice di se medesimo (D. Aug. lib. 10 Confess. e. 27): Signore, io cercava fuori di me quello ch’aveva dentro di me. Dentro di voi sta Egli. Più presente, più intimo e più intrinseco è Dio in me, che non sono io stesso. In Esso viviamo, ci moviamo, e abbiamo l’essere: Egli è quegli che dà vita a tutto quello che vive; e quegli che dà forza a tutto quello che opera; e quegli che dà l’essere a tutto quello che è. E s’Egli non istesse presente, mantenendo tutte le cose, tutte lascerebbero d’ essere e si ridurrebbero al niente. Considera dunque, che sei tutto pieno di Dio, e circondato da Dio, e che stai come nuotando in Dio. Quelle parole, Pieni sunt cœli et terra gloria tua (Ex Isa. VI, 3. Eccl. in Prœfat. Missæ), sono molto a proposito per questa considerazione: i cieli e la terra, o Signore, sono pieni della vostra gloria. Alcuni per attuarsi meglio in questo esercizio considerano tutto il mondo pieno di Dio, come in fatti Egli è: indi immaginano se stessi in mezzo di questo mare immenso di Dio, circondati da esso per ogni parte, in quel modo che starebbe una spugna in mezzo al mare, tutta inzuppata e piena d’acqua, e oltre di questo circondata d’acqua da tutte le bande. E non è questa cattiva similitudine rispetto al corto nostro intelletto; ma con tutto ciò ella stessa è assai debole e scarsa, e non arriva ad esprimere a sufficienza quel che diciamo; perché questa spugna in mezzo del mare se sale in alto trova fine; se cala al basso trova terra; se va da un canto all’altro trova lido; ma in Dio non troverai niuna di queste cose: Si ascenderò in cœlum,tu illie es : si descendero in infernum, ades. Si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris, etenim illuc manus tua deducet me, et tenebit me dextera tua (Psal. CXXXVIII, 8, 9, 10): S’io salirò in cielo, ivi sei tu, Signore; e se me ne calerò sino all’inferno, pur Li sei; e se prenderò alI e me ne passerò di là dal mare, colà mi condurrà e mi terrà la tua potente mano. Non vi è fine o termine in Dio, perché è immenso e infinito. Inoltre la spugna, per esser corpo, non può esser totalmente penetrata dall’acqua la quale è un altro corpo; ma noi altri siamo in tutto e per tutto penetrati da Dio il quale è puro spirito. Pur finalmente queste ed altre simili comparazioni, ancorché scarse e manchevoli, aiutano e sono a proposito per farci comprendere in qualche modo l’immensità infinita di Dio, e come Egli è presente e sta intimamente dentro di noi e in tutte le cose. [fondamentale al riguardo è l’opera di B. Froget, l’Inabitazione dello Spirito Santo in noi – ndr.]. E per questo le apporta S. Agostino (D. Aug. ep. 57 ad Dard. et lib. 7 Confessi, e. 5). » Ma è d’avvertire in questo esercizio, che per questa presenza di Dio non fa di bisogno il formarci entro di noi alcuna sensibile immagine o rappresentazione di Dio, a forza di fantasia, figurandoci, che Egli ci stia a lato, o da un’ altra banda determinata, né immaginarselo nella tale o tal altra forma o figura. Vi sono alcuni che s’immaginano di avere avanti di sé, ovvero al lato loro, Gesù Cristo nostro Redentore, che vada, o stia con essi, e gli stia sempre mirando in ciò che fanno: e in questa maniera stanno sempre alla presenza di Dio. Altri di questi s’immaginano Cristo crocifisso, che stia sempre loro dinanzi; altri se l’immaginano legato alla colonna: altri nell’orto in atto di far orazione e di sudar sangue; altri se l’immaginano in qualche altro passo della Passione, o in qualche mistero gaudioso della sua santissima Vita, secondo quello che suole più muovere ciascuno: ovvero per qualche tempo se l’immaginano in una azione e per qualche altro in un’altra. E ancora che questa sia cosa molto buona, se si sa fare; nondimeno, ordinariamente parlando, non è questo quello che più ci conviene e ci è più utile: perché tutte queste figure e immaginazioni di cose corporali straccano, e aggravano, e rompono assai la testa. Un S. Bernardo e un S. Bonaventura dovevano saper far questo d’altra maniera che noi, e vi trovavano gran facilità e quiete; e così se n’entravano in quei buchi delle Piaghe di Cristo e dentro al suo Costato, e quello era il loro ricovero, il loro rifugio e riposo, parendo loro d’udir quelle parole dello Sposo ne’ Cantici (Cant. II, 13,14): Surge, amica mea, speciosa mea, et veni, columba mea, in foraminibus petræ, in caverna maceriæ. Altre volte s’immaginavano il piè della croce piantato e conficcato nel loro cuore, e stavano ricevendo nella loro bocca con grandissima dolcezza quelle gocciole di sangue che stillavano e scorrevano come da aperti fonti dalle Piaghe del Salvatore. – Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris (Isa. XII, 3). Facevano que’ Santi queste cose molto bene, e se ne stavano benissimo; ma se tu te ne vorrai stare tutto il giorno in queste considerazioni e con questa presenza di Dio, potrà essere, che, per un giorno e per un mese che tu lo faccia, perda tutto l’anno d’orazione; perché ti ci romperai il capo. Ben si vedrà quanta ragione abbiamo d’avvertire questa cosa; poiché anche per formarci la composizione del luogo, che è uno de’ preludi dell’orazione col quale ci facciamo presenti a quello che abbiamo da meditare, immaginandoci, che realmente quella cosa si faccia ed accada allora sotto i nostri occhi, avvertono quei che trattano dell’orazione, che non ha la persona da fissare né attuar molto l’immaginazione nella figura e rappresentazione di questo cose corporali che pensa; acciocché non si rompa la testa, e per guardarsi da altri inconvenienti d’illusioni che potrebbero occorrere. Ora se per un preambolo dell’orazione che si fa in così breve spazio di tempo, e stando uno quieto e posato, senza avere altra cosa che fare, vi bisogna tanta avvertenza e circospezione; che sarà volendosi tutto il giorno, e fra le altre occupazioni, ritenere questa composizione di luogo e queste materiali rappresentazioni? Quella presenza adunque di Dio della quale trattiamo adesso, esclude tutte queste immaginazioni e considerazioni, ed è molto lontana da esse; perché ora trattiamo della presenza di Dio in quanto Dio, il quale dico primieramente che non vi è bisogno di fingerselo presente, ma solamente di crederlo, perché questo è verissimo. Cristo nostro Redentore in quanto uomo sta in cielo e nel santissimo Sacramento dell’Altare; ma non istà in ogni luogo: onde quando c’immaginiamo presente Cristo in quanto uomo, questa è un’immaginazione che noi altri fingiamo; ma in quanto Dio è qui presente, e dentro di me, e in ogni luogo, e riempie ogni cosa; Spiritus Domìni replevit orbem terrarum (Sap. 1, 7). Non abbiamo dunque bisogno di fingere quello che non è; ma di attuarci in credere quello che è. Dico in secondo luogo, che l’umanità di Cristo si può bensì immaginare e figurare coll’immaginazione, perché ha corpo e figura; ma Dio, in quanto Dio, non ci può immaginare né figurare com’Egli è; perché non ha corpo né figura, essendo puro spirito. Né anche un Angelo né la nostra propria anima possiamo immaginarci come sien fatti, perché sono spiriti; quanto meno potremo immaginarci né formarci concetto alcuno del come sia fatto Dio? – In che modo dunque abbiamo noi da considerare Iddio presente? Dico, che solamente col fare un atto di fede, presupponendo, che Dio è qui presente, poiché la Fede ce lo dice, senza voler sapere come né in che modo ciò sia: siccome dice san Paolo che faceva Moisè, il quale invisibilem tamquam videns sustinuit (ad Hebr. 1): Essendo Dio invisibile, egli lo considerava e lo teneva presente come se lo vedesse, senza voler sapere né immaginarsi come Egli fosse fatto: come quando uno sta parlando col suo amico di notte, senza voler cercare com’Egli sia fatto né ricordarsi di questo, gode unicamente e dilettasi della conversazione e presenza dell’amico che sa esser ivi presente. In questa maniera abbiamo noi da considerare Dio presente: ci basti sapere, che il nostro amico è qui presente per godere della sua presenza. Non ti fermare a voler guardare come egli sia fatto, che non ci affronterai, essendo di notte adesso per noi altri: aspetta, che si faccia giorno, e quando apparirà la mattina dell’altra vita, allora egli si manifesterà, e potremo vederlo chiaramente com’Egli è fatto: Curri apparuerit, similes et erìmus; quoniam videbimus eum sicuti est (I. Jo. V.). Per questo Dio apparve a Mosè nella nuvola e nell’oscurità: non vuole, che tu lo vegga; ma solamente che creda, ch’egli è presente. Tutto questo che abbiamo detto appartiene al primo atto dell’intelletto che si ha da presupporre. Ma bisogna avvertire, che la principal parte di questo esercizio non consiste in questo; perché non si ha da occupare solamente l’intelletto, considerando Dio presente; ma s’ha da occupare anche la volontà, desiderando e amando Dio, e unendosi con esso: e in questi atti della volontà consiste principalmente quest’esercizio. Del che tratteremo nel capo seguente.

DELLA PRESENZA DI DIO (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “NON MEDIOCRI”

Questa breve lettera Enciclica riguarda la fondazione di un collegio spagnolo che potesse ospitare seminaristi e chierici di quella Nazione sconvolta da tragici avvenimenti bellici e sociali che ne avevano sovvertito le istituzioni ecclesiastiche; questo per poter dare adeguata istruzione religiosa ai futuri chierici che dovevano perpetuare una tradizione cattolica tra le più luminose nel mondo fin dalla fondazione della Chiesa. Quando le forze bestiali del demonio si scatenano contro popoli ed istituzioni sociali, mirano sempre a colpire la Chiesa e le sue strutture, vero bersaglio di ogni pseudo-rivoluzione, che tutte sono la ribellione contro Dio, il suo Cristo e la sua Chiesa. Questo è avvenuto da sempre, ed oggi con maggior forza ancora si sono scatenate le forze dell’Anticristo che non solo combattono la Chiesa frontalmente senza ritegno, con regnanti e governanti indegni e blasfemi, tutti aderenti alle sette di perdizione, e dall’interno per mezzo di falsi non-chierici che affettando santità e devozione che non hanno, ingannano le masse di compiacenti illusi ed ignoranti fedeli, portandone un numero immenso nello stagno di fuoco. Il santo Padre Leone XIII, come altri sommi Pontefici nel passato e fino a Pio XII, hanno cercato di arginare questa bestia satanica – abominio della desolazione – che ha usato ogni strategia, ogni mezzo, per sbarazzarsi della sua nemica giurata, la Chiesa di Cristo, ed in particolare, del successore di Pietro e Vicario di Cristo, il Capo visibile di quella ‘‘Donna vestita di sole’’ (Apoc. XII) che minacciata dal dragone è stata portata nel deserto – la “Chiesa eclissata” di La Salette – per salvarsi dalle bestie del mare e della terra che la minacciano dall’esterno, e dalla « bestia uccisa e risorta », la falsa chiesa dell’uomo che mascherata l’ha infiltrata dall’interno. Ma tutto questo non servirà che a mostrare la natura divina della Chiesa e la forza del vero Dio-Uomo Gesù-Cristo, e le bestie, il dragone, i falsi profeti e tutti gli adepti delle conventicole infernali, compresa quella vaticana – che ne è la peggiore – finiranno nello stagno di fuoco preparato per il demonio ed i suoi adepti. Qui in caelis habitat irridebit eos… et IPSA conteret caput tuum.

NON MEDIOCRI


ENCICLICA DI PAPA LEONE XIII

Ai Vescovi della Spagna circa la Fondazione di un Collegio Romano per i Chierici Spagnoli.

Con non poca cura e vigilanza, come sapete, abbiamo cercato di salvaguardare e di accrescere la causa cattolica tra di voi fin dall’inizio del nostro mandato. In primo luogo ci siamo sforzati di rafforzare la concordia di idee tra di voi e di stimolare la feconda industria del clero. Ora, però, animati dallo stesso zelo, abbiamo rivolto la nostra attenzione al vostro giovane clero affinché, prendendo consiglio con voi, dedichiamo una certa cura alla loro formazione. – A questo scopo, promettiamo la Nostra benevolenza paterna. E giustamente: non ci dimentichiamo degli interessi del popolo spagnolo, né ignoriamo la vostra grande e costante fede di antica data e la vostra obbedienza alla Sede Apostolica. Per questo, come testimoniano i documenti storici, la reputazione della Spagna è salita a tale gloria e la Spagna è diventata un grande impero. La Spagna ci ha spesso aiutato nelle avversità; siamo, quindi, molto lieti di rispondere con affetto di spirito.

Gli Spagnoli sono degni di considerazione.

2. Il clero spagnolo è stato a lungo rinomato per il suo insegnamento religioso e per l’eleganza dei suoi scritti. Con queste arti, essi hanno promosso la causa cristiana e contribuito non poco alla reputazione del loro Paese. Certamente non mancarono uomini generosi che patrocinarono le arti e offrirono un aiuto adeguato ai tempi. Né mancava il talento per la coltivazione delle discipline teologiche e filosofiche e per le lettere. Per promuovere questi studi sappiamo quanto abbiano contribuito la liberalità dei Re cattolici e il lavoro e la perseveranza dei Vescovi. A sua volta la Sede Apostolica ha fornito ogni tipo di incentivo, essendosi sempre adoperata affinché la santità della morale cristiana fosse incrementata dalla luce della filosofia e dallo splendore delle lettere umane. Alcuni uomini straordinari vi hanno lasciato un’eredità gloriosa in questi campi. Citiamo Francesco Suarez, Giovanni Lugo, Francesco Toletus, e in particolare Francesco Ximenes. Quest’ultimo, per la guida e sotto la protezione dei Romani Pontefici, ha raggiunto una tale eminenza nell’insegnamento che ha illuminato non solo la Spagna, ma tutta l’Europa, soprattutto con la sua Bibbia poliglotta complutense. Da questi uomini i giovani sono stati istruiti con lo splendore della sapienza nella Chiesa di Dio. Essi brillavano come stelle del mattino e illuminavano gli altri sulla via della verità.(Alessandro VI nella bolla Inter cetera, 13 Aprile 1499) Da quella messe, così sapientemente e zelantemente coltivata, nacque una coorte di illustri dotti, dalla quale il Romano Pontefice e il Re cattolico scelsero gli uomini per il Concilio di Trento. Le aspettative di entrambi furono singolarmente soddisfatte. Ed è degno di nota che la Spagna abbia prodotto uomini così grandi. Perché oltre al talento naturale, c’erano a portata di mano gli strumenti e gli aiuti adeguati per perfezionare un corso di studi. Basta ricordare le grandi sedi di studio di Alcala de Henares e Salamanca. Sotto la vigilanza della Chiesa, furono questi, centri rinomati di saggezza cristiana. La loro memoria ricorda spontaneamente altri collegi che hanno offerto una sede adeguata ad uomini di grande talento e passione per la conoscenza.

Sradicamento dei seminari

3. Ma ora ci troviamo di fronte ad un recente disastro. Gli sconvolgimenti degli eventi pubblici che hanno sconvolto tutta l’Europa a partire dal secolo scorso, hanno rovesciato le istituzioni come per una tempesta e ne hanno fatte a pezzi la radice ed i rami; sia le autorità reali che quelle ecclesiastiche avevano eretto queste istituzioni per la crescita della fede e della dottrina. Quando le Università cattoliche scomparvero con i loro collegi, i seminari per i chierici languirono perché la pienezza dell’apprendimento, che proveniva dalle grandi scuole, andò via via appassendo. Inoltre, non potevano mantenere il loro antico patrimonio a causa delle guerre interne e delle sette, che di tanto in tanto azzeravano gli studi e la forza intellettuale dei cittadini.

Restauro dei seminari

4. Col tempo la Sede Apostolica intervenne e cercò seriamente, con il consenso del potere civile, di porre rimedio alle vicende ecclesiastiche che le tempeste precedenti avevano paralizzato. La preoccupazione principale era quella di ripristinare, nell’interesse privato e pubblico, i seminari diocesani, che erano stati luoghi di pietà e di erudizione. Ma sapete che questo non ha avuto successo secondo i piani. Infatti non c’erano risorse sufficienti; né il corso di studi poteva risorgere con la speranza della gloria, perché la distruzione dei Licei aveva causato la mancanza di insegnanti idonei. – Fu concordato tra le due massime autorità che in alcune province si fondassero seminari generali con il potere che dai loro laureati coloro che avevano studiato teologia in modo più completo potessero essere ammessi ai diplomi accademici secondo l’uso antico. Ma c’erano e ci sono oggi molti ostacoli. Senza l’aiuto degli ex Licei rimossi, mancano molte risorse; senza di esse il clero può aspirare solo con difficoltà al pieno e perfetto ripristino dell’erudizione. Quindi c’è la prudente opinione, che è necessario ampliare e riformare il corso degli studi nei seminari.

Educare gli studenti stranieri

5. Siamo quindi molto preoccupati per questo, soprattutto alla luce dello schema lasciatoci dai Nostri predecessori, che non hanno mai tralasciato l’opportunità di incoraggiare gli studi superiori. La notevole perspicacia dei Pontefici traspare soprattutto dal fatto che, proprio in questa città, prima fra tutte le comunità cattoliche, si siano reclutati giovani chierici dall’estero riunendoli in collegi. Si cercavano soprattutto studenti i cui Paesi non avevano adeguate opportunità di insegnamento o di istituzioni solide, dal momento che era stata respinta la vigilanza della Chiesa. A questo scopo furono istituiti molti seminari minori ai quali gli studenti stranieri si portavano per intraprendere gli studi sacri; essi intendevano usufruire di qualsiasi vantaggio che per la mente e lo spirito potessero acquisire a Roma a beneficio finale dei loro connazionali. Poiché da questi sforzi è scaturito molto di buono, anche noi abbiamo ritenuto opportuno aumentare il numero di tali collegi. Perciò abbiamo aperto il collegio per gli armeni a Roma ed uno per i boemi. Abbiamo anche riportato alla sua dignità di un tempo il collegio per i maroniti.

Seminari per gli spagnoli

6. Eravamo addolorati però nel constatare che non erano molti gli spagnoli in questo numero di studenti stranieri. Per questo motivo abbiamo pensato non solo che fosse fondato su solide fondamenta il collegio urbano per i chierici spagnoli, che le sagge fatiche dei sacerdoti pii avevano iniziato non molto tempo fa, ma che ne sarebbe stata possibile l’espansione. È nostro piacere, quindi, che tutti gli studenti della penisola spagnola e delle isole vicine, sotto il governo del Re cattolico, vi si riuniscano sotto la nostra tutela. Essi devono vivere insieme sotto la direzione di autorità scelte e dedicarsi allo studio di quei soggetti che sviluppano efficacemente i loro talenti e le loro menti. Pensiamo di donare un edificio a Roma adatto a quest’opera, un edificio che prende il nome dai suoi precedenti proprietari, i Duchi di Altemps. Esso ora appartiene a Noi e alla Sede Apostolica. È questo particolarmente adatto perché si distingue per il cimitero di S. Aniceto, Papa e Martire, le cui reliquie vi sono custodite. Si segnala anche per il fatto che vi abbia vissuto San Carlo Borromeo. Diamo quindi l’uso legale di questa dimora al collegio episcopale spagnolo, con la condizione che la usino per ricevere ed ospitare i chierici delle loro diocesi, qualora decidessero di mandarne qualcuno qui per i loro studi. Affinché questi progetti possano essere realizzati più rapidamente, e che ci sia tempo sufficiente per adattare gli edifici e fare gli altri preparativi, lasciamo che i chierici utilizzino una certa porzione adeguata della casa dell’illustre famiglia Alteria. Noi designiamo gli Arcivescovi di Toledo e di Siviglia perché trattino con Noi e con i Nostri successori tutte le questioni più importanti del collegio. Per lo stesso motivo decretiamo che chi presiede il collegio debba rendere conto per iscritto ogni anno della sua situazione finanziaria, insieme ad una relazione sulla disciplina e la condotta degli studenti al Nostro Sacro Consiglio degli studi e agli Arcivescovi summenzionati. – Ora è compito vostro assistere ed eseguire ciò che abbiamo iniziato. Fatelo con la stessa rapidità e lo stesso zelo che la questione richiede e che la vostra virtù episcopale promette. – Nel frattempo concediamo con amore la Nostra Benedizione Apostolica come testimonianza della Nostra speciale benevolenza a voi, Venerabili Fratelli, e anche al clero e ai fedeli affidati alla vostra vigilanza.

Dato a Roma, in San Pietro, il 25 ottobre 1893, sedicesimo anno del nostro Pontificato

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semìdoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica, inserita nel Messale dopo il Sabato delle Quattro-Tempora, era anticamente libera. La liturgia della vigilia si prolungava, infatti, fino alla Domenica mattina, e quindi queste giorno non aveva Messa propria. La lezione del Breviario nella Domenica che segue le Quattro Tempora (4a Domenica di settembre) è quella del libro di Giuditta, che S. Ambrogio, nel 2° Notturno riporta a questo tempo di penitenza, attribuendo al digiuni e all’astinenza di quest’eroina la sua miracolosa vittoria. Per continuare il riavvicinamento che abbiamo stabilito fra il Messale e il Breviario, possiamo anche studiare la Messa del Sabato delle Quattro Tempora, che era anticamente quella di questa Domenica in rapporto con la storia di Giuditta. – Nabuchodonosor, re degli Assiri, mandò Oloferne, generale del suo esercito, a conquistare la terra di Canaan. Quest’ufficiale assediò la fortezza di Betulia. Ridotti agli estremi, gli assediati decisero di arrendersi nello spazio di cinque giorni. Viveva allora in questa città una vedova chiamata Giuditta, che godeva grande riputazione. « Facciamo penitenza per i nostri peccati disse ella, e imploriamo il perdono da Dio con molte lacrime! Umiliamo le anime nostre davanti a Lui e preghiamolo di farci sperimentare la sua misericordia. Crediamo che questi flagelli, con i quali Dio ci castiga, ci sono mandati per correggerci e non per rovinarci ». E questa santa donna entrò allora nel suo oratorio rivestita di cilicio e con la testa cosparsa di cenere si prostrò a terra davanti al Signore. Compiuta la sua preghiera, mise le sue vesti più belle ed uscì dalla città con la sua ancella. Sul far del giorno giunse agli avamposti dei Caldei e dichiarò che era venuta per dare i suoi nelle mani di Oloferne. I soldati la condussero dal generale che fu colpito dalla sua grande bellezza « che Dio si compiacque di rendere ancor più abbagliante, poiché aveva per scopo non la passione, ma la virtù ». Oloferne credette alle parole di Giuditta e offrì in suo onore un gran banchetto. Nel trasporto della gioia bevve con intemperanza maggiore del solito e oppresso del vino si distese sul letto e si addormentò. Tutti si ritirarono allora e Giuditta restò sola presso di lui. Ella pregò il Signore di dar forza al suo braccio per  per la salvezza di Israele; poi, staccata la spada appesa al capo del letto, tagliò coraggiosamente la testa di Oloferne, la consegnò all’ancella ordinandole di nasconderla nella borsa da viaggio e ambedue rientrarono a Betulia quella notte medesima. Quando gli Anziani della città appresero quello che Giuditta aveva fatto, esclamarono: « Benedetto sia il Signore, che ha creato il cielo e la terra! ». L’indomani la testa sanguinante di Oloferne venne esposta sulle mura della fortezza. I Caldei gridarono al tradimento ma, inseguiti dagli Israeliti, furono massacrati o messi in fuga. Quando il Sommo Sacerdote venne da Gerusalemme con gli Anziani per festeggiare la vittoria, tutti acclamarono Giuditta, dicendo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la letizia di Israele, tu l’onore del nostro popolo ». S. Ambrogio, nel 2° Notturno della IV Domenica di Settembre commenta questa pagina della Bibbia dicendo: « Giuditta tagliò la testa ad Oloferne in forza della sua sobrietà ». Armata del digiuno, essa penetrò arditamente nel campo nemico. Il digiuno di una sola donna ha vinto le innumerevoli schiere degli Assiri ». La Messa del Sabato delle Quattro Tempora è piena di sentimenti analoghi. Le Orazioni implorano il soccorso della misericordia divina, appoggiandosi sul digiuno e sull’astinenza che ci rendono più forti dei nostri nemici. Perdonaci le nostre colpe, Signore, dice il l° Graduale. Vieni in nostro aiuto, o Dio nostro Salvatore; liberaci, per l’onore dei nome tuo ». « O Signore, Dio degli eserciti, continua il 2° Graduale, presta l’orecchio alle preghiere dei tuoi servi ». « Volgi il tuo sguardo, o Signore; sino a quando volti da noi la tua faccia? aggiunge il 3° Graduale, abbi pietà dei tuoi servi ». — Le Lezioni fanno tutte allusioni alla misericordia di Dio verso il popolo, che ha fatto penitenza. Così parla il Signore degli eserciti: «Come ebbi l’intenzione di far del male ai vostri padri quando essi provocarono la mia collera, cosi in questi giorni ho avuto l’intenzione di fare del bene alla casa di Gerusalemme ». – Il racconto della liberazione del popolo ebreo dalla servitù assira per mezzo di Giuditta (nome che è il femminile di Giuda) dopo che essa ebbe digiunato è un’immagine della liberazione del popolo di Dio alla Pasqua, per mezzo di Gesù (della stirpe di Giuda) dopo la Quaresima. – Più tardi, allorché non si attese più la sera per celebrare il santo Sacrificio il Sabato delle Quattro Tempora, si prese per la 18° Domenica dopo Pentecoste, la Messa che era stata composta al VI secolo per la Dedicazione della Chiesa di San Michele a Roma e che fu celebrata il 29 settembre; infatti tutto il canto si riferisce alla consacrazione di una Chiesa. « Mi rallegrai quando mi dissero Andremo nella casa del Signore (Versetto All’Introito e Graduale). Mosè consacrò un altare al Signore, dice l’Offertorio. « Entrate nell’atrio del Signore e adoratelo nel Tempio Suo santo », aggiunge al Communio, e questa è una immagine del cielo ove affluiranno tutte le nazioni quando verrà la fine dei tempi indicata da questa Domenica e dalle seguenti che vengono alla fine del Ciclo. L’Alleluia è infatti quello delle Domeniche dopo l’Epifania, che annunziava l’ingresso dei Gentili nel regno dei cieli. L’Epistola parla di coloro che attendono la rivelazione di Nostro Signore al suo ultimo avvento; allora essi godranno eternamente, nella casa del Signore, la pace che, come dissero i Profeti, Egli accorderà a quelli che lo attendono (Intr., Graduale). Questa pace Gesù ce l’ha assicurata morendo sulla croce, che è il sacrificio vespertino. Questa pace e questo perdono noi lo godiamo già nella Chiesa, in grazia del potere accordato da Gesù ai suoi sacerdoti. Questa Messa, che segue il sabato delle Ordinazioni fa infatti allusione anche al sacerdozio. Come il Salvatore, che esercitò il suo ministero e guarì l’anima del paralitico guarendone il corpo, quelli che sono ora stati ordinati sacerdoti predicano la parola di Cristo (Epistola), celebrano il santo Sacrifizio (Offert.) e rimettono i peccati (Vangelo). E cosi preparano gli uomini a ricevere irreprensibili il loro divin Giudice (Epistola).

La predicazione evangelica è una testimonianza resa a Gesù Cristo. Quelli che l’accettano ricevono doni celesti in sovrabbondanza e possono attendere con fiducia l’avvento glorioso di Gesù alla fine dei tempi.

Giovanni Crisost. così commenta la risposta data da Gesù agli Scribi che non gli riconoscevano la facoltà di perdonare i peccati: « Se non credete la potestà di rimettere le colpe, credete la facoltà di conoscere i pensieri, credete la virtù del sanare da malattie incurabili i corpi. Più facile sanare il corpo; ma giacché non credete alla maggiore meraviglia, ve ne mostrerò una minore ma aperta ai sensi.  »                                                                           

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Eccli XXXVI: 18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël.

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Ps CXXI: 1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore].

Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Oratio

Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.

[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1: 4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.

[“Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di scienza, essendosi stabilita solidamente in mezzo a voi la testimonianza di Cristo, in modo che nulla vi manca rispetto a qualsiasi grazia; mentre aspettate la manifestazione di nostro Signor Gesù Cristo, il quale vi manterrà pure saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo”.]

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920

LA GRATITUDINE VERSO DIO

Questo brano è tolto dall’introduzione alla prima lettera di San Paolo a quei di Corinto. Nei primi versetti, saluta i Corinti nella sua qualità di Apostolo, e augura loro da Dio la grazia e la pace. Poi — come vediamo dalle parole riportate — assicura che ringrazia continuamente Dio per la grazia concessa a quei di Corinto per mezzo di Gesù Cristo. Grazia che non fu senza frutto; perché, mediante la loro unione con Gesù Cristo, i Corinti ebbero grande abbondanza di doni spirituali; in modo particolare ebbero la rivelazione delle verità del Vangelo, e la loro profonda intelligenza. Spera, poi, che Dio li assista per tutta la vita, così che si trovino con la coscienza monda nel giorno del giudizio. Il ringraziamento che l’Apostolo fa a Dio per l’abbondanza dei doni fatti ai Corinti ci ricorda il dovere della gratitudine verso Dio.

1. Dobbiamo esser grati a Dio per i benefici ricevuti;

2. Non a fior di labbra solamente;

3. Ci disporremo così a ricevere maggiori favori.

1.

Fratelli : lo rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù. L’apostolo fa tanto conto della gratitudine che si deve a Dio per i doni di cui ricolma gli uomini che ringrazia senza interruzione Dio, per l’abbondanza di grazie di cui ha favorito i Corinti. L’obbligo di ringraziare debitamente chi è largo dei suoi doni spetta in modo particolare a coloro stessi che hanno ricevuto il dono. E nessuno mette in dubbio che, venendo meno a questo obbligo, si fa cosa biasimevole. Sarà meno biasimevole l’ingratitudine se riguarda i benefici ricevuti da Dio? Eppure, nessuno è più pagato d’ingratitudine che nostro Signore. Chi può enumerare i benefìci da Lui ricevuti e apprezzarli in tutta la loro grandezza! La nostra esistenza, la conservazione, l’intelligenza, la santità, il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, la terra che ci porta, tutto quanto ricrea e ci solleva sono dono di Dio. Se parliamo delle grazie e dei doni spirituali, con i quali ci ricolma per i meriti di Gesù Cristo, non troviamo parole sufficienti a celebrare la sua larghezza verso di noi. Cerchi l’uomo, se può, qualche cosa che non abbia ricevuto da Dio: cercherà invano. Una cosa sola troverà che non abbia ricevuto da Dio: il peccato. E troverà che, nonostante i suoi peccati, Dio lo ha sopportato. Egli ha abbandonato il Signore, ma il Signore, non ha abbandonato lui. “Se pensassi a ciò, ti sentiresti certamente obbligato al tuo Dio, dal quale tieni tutto quello che possiedi di buono; e dalla cui misericordia ti vien rimesso tutto quello che hai di cattivo” (S. Agostino, in En. in Ps. XLIX, 21). Non solo è un beneficio di Dio la remissione dei peccati, che abbiamo commessi, ma anche la preservazione da più numerose cadute. « Se ci sentiamo in dovere di mostrare il nostro grato animo agli amici, quando ci aiutano a liberarci da qualche noia, da qualche condizione scabrosa o da qualche pericolo che si sovrasta, molto più dobbiamo esser pronti all’ossequio quando vediamo i molti pericoli cui siamo sfuggiti, perché Dio ce ne ha liberati » (S. Giov. Crisostomo. In Epist. ad Tit. I, 1). È più ancora dobbiamo esser spinti all’ossequio e a dimostrare il nostro grato animo a Dio, se pensiamo che i suoi benefici non sono una retribuzione o una ricompensa, ma effetto di pura generosità. «Che cosa fece l’uomo in precedenza, se non peccare?» (S. Agostino. En. In Ps. CXV, 4). Egli si era meritati castighi e non doni. E neppure Dio ci ha largito i suoi doni, perché avesse bisogno di qualche cosa| da parte nostra. « Come potrebbe aver bisogno delle cose nostre quegli, per il quale esiste tutto ciò che è nostro »(S. Ilario, De Trin. L. 3, 7). E d’altronde noi non potremmo mai rendere a Dio la ricompensa dovuta per i suoi doni. Questo però non ci dispensa dall’obbligo della gratitudine: anzi, deve risvegliarne maggiormente i sentimenti nei nostri cuori. Davide si domanda: « Che renderò al Signore per tutti i benefici da lui ricevuti? Prenderò il calice di salute invocando il nome del Signore » (Salm. CXV, 12-13). Questo dobbiamo fare anche noi: rendere a Dio il sacrificio del ringraziamento e della lode. –

2.

Se l’Apostolo ringrazia Dio per i doni elargiti ai Corinti, questi non rimangono inerti. Ringraziano Dio coi fatti, non lasciando infruttuose le grazie ricevute. Mediante la fede e la carità essi si mantengono in intima unione con Gesù Cristo, e in questa unione sono arricchiti d’ogni cosa. Nulla vi manca — dice l’Apostolo — rispetto a qualsiasi grazia; rispetto alle grazie necessarie alla salute propria, e rispetto alle grazie che rendono utile agli altri chi le possiede. I Corinti sapevano usar bene delle grazie ricevute, e il buon uso delle grazie è già un ringraziamento; è un ringraziamento che si dimostra con le opere. Noi ringraziamo il Signore con le opere, mostrandogli la nostra gratitudine, quando diamo a Lui quanto gli aspetta. A lui dobbiamo dare il nostro tempo, impiegandolo nel suo servizio almeno i giorni stabiliti; a Lui dobbiamo dare la nostra intelligenza, sottomettendola docilmente alle verità della nostra santa fede; dobbiamo dare la nostra volontà conformandola alla sua legge; a Lui dobbiamo dare il nostro corpo, con una vita lontana dalle impudicizie, dalle crapule, dalle ubriachezze; a Lui dobbiamo dare la nostra lingua, non imbrattandola con discorsi meno belli, con mormorazioni, con bestemmie. – Si mostra a Dio la nostra gratitudine, servendolo senza tristezza. Siamo tristi perché giudichiamo che altri siano più favoriti che noi. Con questa nostra tristezza veniamo a giudicare l’operato del Signore. Crediamo di non esser trattati bene come gli altri, e non ci sentiamo di accettare la misura da Lui stabilita nella distribuzione dei suoi favori. Gli operai chiamati per primi a lavorare nella vigna, come è detto nella parabola del Vangelo, invece di ringraziare il padrone, quando alla fine della giornata fa distribuire la paga convenuta, brontolano come fossero trattati ingiustamente, perché il padrone ha creduto bene di abbondare con quelli venuti a lavorare per ultimi. Così facciamo anche noi, quando giudichiamo di essere trattati meno generosamente degli altri. Siamo tristi perché ci consideriamo retribuiti al di sotto dei nostri meriti. Quanto abbiamo da Dio, sia tanto, sia poco, è tutto dono di Lui: e dobbiamo in ogni tempo e in ogni luogo mostrarci lieti e contenti della sua generosità. Si mostra pure gratitudine a Dio accettando con animo tranquillo, sottomesso alla sua volontà, i dolori con cui ci purifica. L’uomo che nutre sentimenti di gratitudine verso Dio, datore di ogni bene, in queste circostanze pensa: I miei peccati meritano forse una ricompensa? È vero, Dio mi prova; ma le mie mancanze meritano ancor di più: Dio è pur buono con me. Con questi dolori mi dà modo di espiare i miei peccati: io gli devo esser grato.

3.

I Corinti, finché saranno su questa terra avranno, come tutti i Cristiani, da combattere contro nemici d’ogni genere, ma l’Apostolo spera che Dio li fortificherà con la sua assistenza, mantenendoli saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo. Senza l’assistenza di Dio nessuno potrà perseverare sino all’ultimo. Il mostrarsi grati dei benefici ricevuti è un mezzo efficace per assicurasi questa assistenza. Dopo un luogo periodo di pioggia si invoca un vento di tramontana, che spazzi via le nubi e riconduca il sereno. Ma se il vento è troppo forte e duri a lungo, distrugge presto i benefici della pioggia disseccando il terreno. L’ingratitudine è precisamente come un vento impetuoso che asciuga la sorgente dei benefici. « Perciò è un grave pericolo per gli uomini mostrarsi ingrati a Dio, obliarne i benefici, non far penitenza dopo il castigo, e non rallegrarsi del perdono» (S. Leone Magno: Serm. 84, 1). – Al contrario, la gratitudine predispone il benefattore a concedere nuovi benefici. La gratitudine è lo sprone dei benefìzi, dice un proverbio tedesco. Fermiamoci nel campo della gratitudine verso Dio. Apriamo il Vangelo. Un giorno Gesù, nel recarsi a Gerusalemme attraverso la Samaria e la Galilea, è incontrato da dieci lebbrosi, che da lontano alzano la voce dicendo: «Gesù Maestro, abbi pietà di noi». E Gesù, mosso a pietà, li guarisce. Di questi dieci, uno solo, un Samaritano, si mostra grato del beneficio ricevuto, prostrandosi ai piedi di Gesù, e ringraziandolo. Gesù, che biasima il contegno dei nove lebbrosi i quali non hanno sentito il dovere della gratitudine, apprezza la dimostrazione di riconoscenza di questo estraneo. Il guarito è un Samaritano, cioè appartiene a gente odiatissima dai Giudei, e Gesù ne fa l’elogio: «Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio, salvo questo straniero». Gli richiama alla mente quale fu la causa della sua guarigione: «La tua fede ti ha salvato»; e gli apre la via anche alla salvezza dell’anima, mediante la fede in Gesù Cristo (Luc. XVII,11-19). – Come l’ingratitudine ha per base la superbia, perché l’ingrato stima che tutto quello che ha gli sia dovuto, così la gratitudine ha per base l’umiltà, poiché tutto quanto si possiede è riconosciuto come dono della bontà di Dio, a cui da parte nostra non si ha alcun diritto. E Dio predilige in modo particolare gli umili, come attesta la S. Scrittura: «Dio resiste ai superbi, ma agli umili dà grazia» (Giac. IV, 6). Il ringraziamento, fatto non a fior di labbra soltanto, ma accompagnato da umili sentimenti interni, è come un soave fumo d’incenso che, salendo a Dio, si trasforma in pioggia di nuovi benefici. Assuefiamoci a ringraziar Dio tutti i giorni, assuefiamoci a ringraziarlo fin dai primi anni della vita. Quando il Card. Mercier, sottraendosi per qualche giorno ai profondi studi e alle gravi cure amministrative, si ritirava in campagna a Braine-D’Alleud, incontrava tal volta, nella passeggiata serale attraverso i campi, qualche gruppo di bambini di ritorno dalla scuola. Egli li fermava additando loro le colline rivestite d’oro e di porpora sotto i raggi del sole morente, e diceva: «Guardate, piccini, che bellezza! Chi ha fatto tutto questo? — Il buon Dio. — Si, bambini; ma bisogna ringraziarlo d’avervi fatto così bei doni, e soprattutto bisogna amarlo » (Mgr. Laveille, Le Cardinal Mercier, Paris 1927, p. 116-117). – L a Chiesa, in certe circostanze dell’anno, specialmente nell’ultimo giorno, ci chiama a ringraziar Dio per i benefici ricevuti. Chi sente l’obbligo della gratitudine, non aspetta queste circostanze: lo ringrazia ogni giorno e in ogni luogo, perché in ogni giorno e in ogni luogo trova da ammirare i benefici di Dio. È un dovere di giustizia ed è nostro interesse. Perciò la Chiesa va ripetendo ogni giorno: «E’ veramente cosa degna e giusta, conveniente e salutare, che sempre e in ogni luogo noi ti rendiamo grazie, Padre Onnipotente, Eterno Iddio, per Cristo Signor nostro» (Prefazio com. della Messa).

Graduale

Ps CXXI: 1; 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]

Alleluja

V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja

[V. Regni la pace nelle tue mura e la sicurezza nelle tue torri. Allelúja, allelúja]

Ps CI: 16

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. Allelúja.

 [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. IX: 1-8


“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.

[“In quel tempo Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. E veduta Gesù la loro fede, disse al paralitico; Figliuolo, confida: ti son perdonati i tuoi peccati. E subito alcuni Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia. E avendo Gesù veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate male in cuor vostro? Che è più facile, di dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati; o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la podestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse Egli allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Ciò udendo le turbe s’intimorirono e glorificarono Dio che tanta potestà diede ad uomini].

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la bestemmia ed il giuramento.

“Quidam de scribis dixerunt intra se: Hic Blasphemat”.

Matth. VI.

Siccome presentavasi a Gesù Cristo un paralitico per esserne guarito, il Salvatore disse a quell’uomo: Confida, o figliuolo, i tuoi peccati ti sono rimessi. Dal che gli scribi prendettero occasione di accusar Gesù Cristo di bestemmia, perché, dissero essi, si attribuiva il potere di rimettere i peccati, il quale non appartiene che a Dio. Hic blasphemat. Ma non eran forse piuttosto i dottori della legge che bestemmiavano essi medesimi trattando Gesù Cristo da bestemmiatore, poiché aveva dato loro con i suoi miracoli prove convincenti della sua divinità, e per conseguenza del potere che aveva di rimettere i peccati? Fu altresì per vieppiù convincerli e confonderli che fece in quella occasione un nuovo miracolo, risanando il paralitico. Che cosa è più facile, disse loro, dire a quell’uomo: i tuoi peccati ti sono perdonati, ovvero, sorgi, porta via il tuo letto o cammina? Or, affinché sappiate che il Figliuolo dell’uomo ha la potestà di rimettere i peccati: “sorgi disse al paralitico, porta via il tuo letto e cammina”.

Il paralitico ubbidì all’istante e i testimoni della sua guarigione glorificarono Dio di aver dato un tal potere agli uomini. Così i dottori della legge rimasero confusi, ma non furono convertiti né desistettero di continuar la guerra contro il Salvatore, d’intentare contro di Lui false accuse e di bestemmiare contro la sua divinità. – Peccato orribile la bestemmia, che regna ancora tra i Cristiani e che merita tutta la nostra avversione! Si è per inspirarcene orrore che imprendo quest’oggi a combatterlo, e con lui le imprecazioni e le maledizioni, perché questi peccati, sebbene diversi tra essi, hanno nulladimeno qualche cosa di somigliante nel carattere di malizia che debbo dipingervi nella bestemmia. Ah! perché non posso io, fratelli miei, distruggere questi mostri fra voi! Sono essi così comuni in tutti gli stati che mi stimerei felice di sminuirne il numero. Si bestemmia, si giura, si lanciano maledizioni: le città, le campagne ne rimbombano; i poveri ed i ricchi, i grandi ed i piccoli, i vecchi ed i giovani ne sono colpevoli; appena i fanciulli sanno parlare, che è questo, per così dire il primo linguaggio che esce dalla loro bocca. Qual bene non farei io dunque se potesse mettere un argine a questo torrente che fa tanti danni nel mondo? Per riuscirvi, procurerò di farvene conoscere l’enormità ed i castighi. Quanto le bestemmie e le imprecazioni oltraggiano Dio, voi lo vedrete nel primo punto. Come punisce questi peccati, voi lo vedrete nel secondo punto.

I. Punto. Prima di presentarvi, fratelli miei, la grandezza dell’oltraggio che il bestemmiar fa a Dio, bisogna spiegarvi la natura di questo peccato coi diversi gradi di malizia che lo rendono più grave a cagione delle diverse guise con cui si commette. Giurare, si è prender il santo Nome di Dio in testimonio, che quanto si dice è vero; il che non è giammai permesso di fare che con queste tre modificazioni, che il Signore medesimo ci apprende per uno de suoi profeti; voi non giurerete, dice Egli, che per la verità, la giustizia e la necessità: Jurabis in veritate, iustitia et iudicio (Jerem. IV). Non è giammai permesso di giurare, che per una cosa vera, giusta e necessaria. Chi sono dunque coloro che pigliano invano il santo Nome di Dio? Sono 1. Coloro che giurano per una cosa falsa o che dubitano esser vera; che giurano di fare una cosa che non hanno intenzione di adempiere; e questi sono spergiuri. 2. Si piglia invano il santo Nome di Dio allorché taluno si obbliga con giuramento di fare qualche cosa peccaminosa, la quale non è giammai permesso di eseguire quand’anche siasi giurato di farla. 3. Finalmente peccano contro questo comandamento coloro che giurano per una cosa vera e buona in se stessa, ma senza necessità, senza discrezione, senza esservi obbligati da legittima autorità. Ecco, fratelli miei, ciò che Dio ci proibisce quando ci dice di non prender invano il suo santo Nome; ci vieta ancora di giurare per le creature, perché le creature avendo rapporto a Dio, di cui sono opera, assicurare una cosa sulla verità delle creature si è assicurarla sulla testimonianza della Verità increata. Per la qual cosa ci dice Gesù Cristo nel Vangelo di non giurare né per il cielo né per la terra; ma dire semplicemente: questo è, questo non è: Est, est, non, non (Matth.V). Ma se uno è colpevole nel servirsi del santo Nome di Dio per accertare qualche cosa falsa o anche vera, che sarà poi, fratelli miei, attribuire una falsità a questo santo Nome stesso, come fassi con la bestemmia? Mentre la bestemmia, secondo s. Agostino e s. Tommaso, è una parola ingiuriosa a Dio con cui gli si attribuisce ciò che non gli conviene, o con cui gli si toglie quello che ha; peccato ordinario a coloro che mormorano contro la divina Provvidenza. Io rinchiudo ancora nella specie del peccato di bestemmia le maledizioni, le imprecazioni che si proferiscono contro alle creature o a se stesso, perché in queste maledizioni gli uomini invocano il Nome e la possanza di Dio per farla servire alla loro collera; al loro furore, e perché queste imprecazioni contro le creature ricadono in qualche modo sul Creatore, di cui esse sono opera. Or la bestemmia, di qualunque natura ella sia, come ho spiegato, è uno dei peccati che offendono Dio più gravemente. E perché? Perché egli combatte una delle più nobili virtù, che ci porta a Dio; cioè, la virtù della religione, con cui noi gli rendiamo la gloria e l’omaggio che sono dovuti alla sua infinita maestà. Quindi la bestemmia è differente dagli altri peccati, in quanto che questi non attaccano Dio che indirettamente e solo nelle sue creature: laddove quella se la prende contro Dio medesimo, e l’attacca nel suo essere e nelle sue perfezioni. Sì, il bestemmiatore è un reo di lesa maestà divina per l’oltraggio che fa alla grandezza, alla bontà, alla provvidenza di Dio. Egli oltraggia la sua grandezza disonorando il suo santo Nome, avvilendolo coll’uso profano che ne fa, attribuendogli quel che non gli conviene. Egli oltraggia la bontà e la provvidenza di Dio pel dispregio che fa de’ suoi doni e delle sue opere nelle maledizioni che dà a se stesso o agli altri. Giudichiamo da tutti questi tratti dell’enormità di questo peccato, e non temiamo di dire che un bestemmiatore è un uomo senza religione, senza rispetto per Dio, senza carità pel prossimo e per se stesso. Il mio Nome è grande, dice il Signore, tra le nazioni della terra; dal nascer del sole, sino all’occaso si deve rispettare: Magnum est nomen meum in gentibus, a solis ortu usque ad occasum (Malach. 1). Nome di grandezza e di possanza che non si ardiva neppure pronunciare presso il popolo di Dio; Nome di maestà, cui il Re Profeta non credeva poter dare lodi bastanti; Nome rispettabile, innanzi a cui tutto quello che è nel cielo, nella terra e nell’inferno deve piegare le ginocchia; Nome santo per eccellenza, come dice lo Spirito Santo per bocca della più pura delle Vergini: Et sanctum nomen eius (Luc. I), Nome che gli Angeli non cessano di lodare e di benedire nel cielo. Si è ancora per glorificare questo santo Nome che Dio ci ha dato l’uso della parola: si è la prima cosa che Gesù Cristo c’insegna a domandare nell’orazione domenicale: che il vostro Nome, o Signore, sia conosciuto, rispettato, adorato da tutta la terra, come merita, almeno quanto può esserlo da deboli lodare e benedire questo venerabile Nome che la Chiesa mette nella bocca dei  suoi ministri dei cantici di lode negli offici che li obbliga a recitare a gloria dell’Altissimo. – Qual oltraggio non fate dunque a questo Nome sì santo e sì rispettabile, o voi bestemmiatori, che l’impiegate indifferentemente in usi profani; che vi servite della sua autorità per far credere quel che vi piace; che osate misurare la certezza delle vostre cognizioni limitate con la sovrana infallibilità delle cognizioni di Dio; voi che pronunciate ad ogni poco questo santo Nome nelle vostre conversazioni, sovente in facezie, talvolta anche in discorsi osceni. Voi non osereste abusare del nome del vostro re o di una persona per cui aveste qualche considerazione; perché dunque rispettate voi sì poco il Nome del Signore vostro Dio sì degno dei vostri omaggi? Ma qual ingiuria non gli fate allorché ve ne servite per attestare la menzogna e l’impostura! Dio è la verità medesima: Deus verax est (Rom.3). Egli è nemico d’ogni bugia, d’ogni simulazione; e voi pretendete giurando per una cosa falsa che Dio ne sia il testimonio; cioè volete, per quanto è in voi, rendere Dio mallevadore ed autore di una falsità; volete per conseguenza togliergli un attributo essenziale, poiché Egli non può attestare né rendersi mallevadore di una falsità, senza cessar d’essere infallibile verità. Qual oltraggio, ripeto, non gli fate voi dunque, spergiuri? E di qual delitto non vi rendete colpevoli? Mentre questo soggetto non ammette parvità di materia, tosto che l’azione è volontaria; e fosse anche solo per affermare una leggiera menzogna, il vostro peccato è sempre mortale. Quanto a voi, bestemmiatori, portate ancora l’oltraggio molto più lungi; poiché osate attaccare Dio medesimo nella sua natura, attribuendogli quello che non gli conviene o pretendendo togliergli quel che gli appartiene. Se nella società si riguarda come indegno di vivere un uomo che si fa lecito caricare di delitti supposti la riputazione del prossimo, che penseremo, fratelli miei, di colui che attribuisce a Dio difetti incompatibili con le sue adorabili perfezioni ? Ecco nulladimeno l’opera vostra, empi bestemmiatori, che nei trasporti di un cieco furore date alla divinità certi nomi odiosi che non possono convenire che ad un uomo appassionato; che parlate di Dio come di un essere finito e limitato, composto di membri come gli uomini, soggetto a debolezze, alla morte come gli uomini? Non è questo un voler avvilire, annientare, per dir così, la divinità medesima? Il che ha fatto dire a S. Agostino che la bestemmia è una calunnia contro Dio, una specie di maledizione contro di Lui proferita. Qual orrore! una creatura maledire l’Autore del suo essere! Vi si può pensare senza fremere? Ed in vero, qual nome può darsi a questi peccati e come chiamarli? Sacrilegio, empietà? Non basta, egli è una specie di deicidio, egli è il più alto grado di malizia cui possan giungere gli uomini; mentre il bestemmiatore non si contenta di attribuire a Dio ciò che non gli conviene, ma gli toglie ancora, per quanto può, quello che gli appartiene. Sapienza, possanza, bontà, giustizia, provvidenza, questi sono gli attributi inseparabili dal suo Essere. Or la malizia sola dei demoni può misurare la grandezza di questo delitto, mentre il bestemmiatore non la riconosce: ingrato verso il suo Dio, egli annienta la sua bontà; pieno di dispregio per i suoi giudizi, non può paventare la sua giustizia; mormorando continuamente contro i disegni della sua provvidenza, vuole sbandirne la sapienza, finalmente egli fa tutti gli sforzi per indebolire la sua possanza, ricusando di sottomettersi a Lui, come a suo Signore, suo Padre, l’Autore di tutti i suoi beni: diciamo tutto in una parola, egli rinnega il suo Dio. L’unico pensiero dei demoni e dei reprobi nell’inferno è di vomitare contro Dio le più orribili bestemmie, di maledirlo, di detestarlo. Che pensate ancora di quelle maledizioni sì sovente reiterate tra noi? Sono esse forse una piccola ingiuria fatta alla bontà di Dio? Rinunciare al posto che Egli vi ha preparato nel cielo: non volere giammai veder Dio, cioè non godere giammai del suo possesso nel regno eterno; sono questi desideri degni di un Cristiano? Voi appartenete a Dio per un’infinità di titoli, e con le vostre imprecazioni vi abbandonate alla possanza del demonio, cui avete rinunciato nel santo Battesimo; non è questo forse un dispregio formale delle auguste prerogative di cui foste rivestiti in quel giorno fortunato, in cui la Chiesa vi adottò per suo figliuolo? Si può dire, all’udirvi, che voi siete un membro di Gesù Cristo, divino Spirito abita in voi? O piuttosto non è forse il demonio che fa la sua dimora nel vostro cuore, perché voi avete sempre il suo Nome in bocca, e la parola non è che l’interprete dei sentimenti del cuore? Cosa strana che i Cristiani, la cui lingua tante volte bagnata del sangue di Gesù Cristo nella santa Comunione, non dovrebbe essere impiegata che a benedire il suo santo Nome, sia sì sovente profanata con l’abbominevole nome del principe delle tenebre; che Cristiani incorporati a Gesù Cristo si mettano in società col demonio, invochino la sua possanza contro chiunque diventa l’oggetto del loro odio, del loro furore! Non è forse una indegnità di udire questi Cristiani lasciarsi uscir di bocca ad ogni poco contro tutto ciò che loro dispiace, queste parole esecrande, che il demonio porti via, che stermini tutto quello che non possono essi vedere o soffrire? Non si direbbe egli che il demonio ha acquistato su i Cristiani lo stesso impero che altre volte aveva sopra gli idolatri? Poiché questo spirito di menzogna, non potendo più spiegarsi per mezzo delle statue di quei popoli infedeli, ha ritrovato il segreto di parlare per la bocca dei Cristiani, di mettere il suo nome in tutti i loro discorsi, di servirsi della loro lingua per bestemmiare Dio nelle sue creature. Ecco, o Cristiani, le funeste conseguenze che la vostra facilità a bestemmiare, a maledire, a pronunciar ad ogni momento il nome del demonio, ci induce a tirare contro di voi. – Sì, fratelli miei, le imprecazioni che voi pronunciate contro le creature ricadono sul Creatore. La santa Scrittura ci dice che Dio, dopo aver creato il cielo e la terra, le piante, gli animali, trovava buone le sue opere, che le benediva, perché vi vedeva una effusione, una rassomiglianza delle sue divine perfezioni. Le creature infatti ci rappresentano nel loro modo la bellezza, la bontà, la possanza del Creatore, ne sono le immagini e l’espressione. Or si è contro queste immagini che voi vomitate delle imprecazioni; voi maledite a quelle creature che Dio ha benedette: dunque voi ve la pigliate contro Dio medesimo; e non deve Egli forse tenersene altrettanto offeso, come lo sarebbe un re di cui voi trattaste l’immagine col medesimo disprezzo? All’udirvi maledire gli animali, le stagioni, la pioggia, le creature anche ragionevoli, non fate voi conoscere che disapprovate quel che Dio ha fatto e che la sua provvidenza è ingiusta? Le vostre maledizioni sono dunque bestemmie contro Dio; e non dite, per scusarvi, che siete ben lontani dal desiderare che le vostre maledizioni si adempiano sulle persone, o sulle cose che ne sono gli oggetti, o pure che esse sono l’effetto dell’ira che vi trasporta, dell’impazienza che vi assale, dell’abito che vi toglie la libertà. Io voglio benissimo accordare primieramente che tra coloro, i quali lanciano delle maledizioni molti ve ne sono che non vorrebbero vederle effettuare; ma ve ne sono altresì un gran numero che lo vorrebbero; tali sono coloro che le pronunciano per odio, per vendetta contro un loro nemico, contro quelli che han fatto loro qualche dispiacere. Quegli ancora che non ne desiderano l’esecuzione debbono queste disposizioni a certe riflessioni che correggono le prime, mentre molto spesso essi lo vorrebbero nel tempo che le profferiscono, il che basta per renderli colpevoli di peccato, poiché non si richiede che un momento per consentirvi. Ma io suppongo ancora che non abbiano alcun desiderio che il male accada; egli è sempre un male lasciarsi uscire di bocca maledizioni contro qualunque siasi creatura o a motivo dell’ira che ne è il principio, o a cagione dello scandalo che si dà,  o finalmente per lo pericolo cui uno si espone di lanciare queste maledizioni determinatamente contro le creature ragionevoli. – Invano ancora pretendete scusare le vostre imprecazioni sull’ira, l’impazienza, l’abito che ne sono la cagione; si è voler giustificarvi di un peccato con un altro. Ma quand’anche l’ira non fosse da se stessa una colpa, i funesti effetti che essa in voi produce, v’imporrebbero la necessità di non seguire giammai i suoi movimenti. Non crediate neppure che l’abito sminuisca la malizia del vostro peccato, poiché esso ne è ad uno stesso tempo e la cagione e l’effetto. Donde viene questo abito, che voi avete di bestemmiare, di maledire ? Non è forse da un difetto di precauzione che accompagna tutti i vostri discorsi, dalla poco buona volontà che precede i vostri proponimenti? Perciò l’abito essendo volontario, voi avete un bel dire che non fate attenzione alcuna alle imprecazioni, alle maledizioni che profferite; esse sono abbastanza libere nella causa che voi non volete distruggere. Il che indurre vi deve a prender le dovute misure per correggervi, perché non v’è abito alcuno che si contragga così facilmente, e di cui uno sì difficilmente si corregga. – Ma ciò che accresce la malizia di questo peccato si è il motivo per cui vi si cade; negli altri peccati che si commettono, il bene, i piaceri servono di allettamento alla passione: così un avaro è allettato dallo splendore delle ricchezze e dai vantaggi che ne riceve: l’impudico dalle lusinghe d’un piacere sensuale: ma il bestemmiatore è molto più colpevole, poiché, non trovando nel suo peccato né bene né piacere capaci di allettarlo, egli oltraggia Dio per pura malizia, non ha altra soddisfazione che di fargli ingiuria: e perché mai oltraggia egli in tal modo il suo Dio? Sovente per un nulla, per accertare una bagattella, per un vile interesse, per servire una creatura a spese della fedeltà che si deve al Creatore. Si bestemmia, si esce in maledizioni per una leggiera perdita di beni, per un giuoco che non riesce per una parola che offende, per un tratto che dispiace; voi udirete dei padri, delle madri profferire maledizioni esecrabili contro figliuoli colpevoli di qualche leggerezza, padroni e padrone contro dei servi per qualche negligenza nel servigio. Voi udirete operai, artigiani, agricoltori prorompere ad ogni poco in maledizioni contro lo strumento di un lavoro o contro di un nulla che li contraria, che loro dispiace. Essi se la prendono contro Dio, vomitano contro di Lui atroci ingiurie, come se Egli fosse l’autore della loro disgrazia, come se le bestemmie, le maledizioni potessero apportar rimedio ai loro disgusti. Qual ingiustizia! Qual ingratitudine verso un Dio che non ci fa che del bene! Come, o peccatori, Dio vi ricolma ad ogni momento de’ suoi benefizi, Egli vi ha dato una bocca per benedirlo, fate voi attenzione, oltraggiandolo in tal modo, ai terribili castighi che Egli riserba a coloro che non se ne servono che per maledirlo ? Si è il soggetto del secondo punto.

II. Punto. Non si fa impunemente la guerra a Dio; tosto o tardi Egli sa vendicarsi del delitto: Egli è un giudice troppo potente per lasciarlo impunito; e più l’oltraggio che gli si fa è grande, più la vendetta che ne trae è severa. Infatti se la giustizia degli uomini punisce con maggior severità i delitti di lesa maestà che gli altri, perché  attaccano direttamente la persona del principe, si può forse credere che la giustizia di Dio non eserciti i suoi diritti con ugual rigore contro un peccato che se la prende contro Dio medesimo, che gli rapisce la sua gloria ed il suo onore? Egli lo castiga con perdite temporali in questa vita e con perdite eterne nell’altra. – Pene temporali del peccato di bestemmia. – Noi ne abbiamo parecchi esempi nella scrittura. Iddio aveva proibito al suo popolo questo peccato sotto pena di morte. Questa legge era sì rigorosamente osservata che ai tempi di Mosè, un uomo che altercando con un altro aveva bestemmiato il santo Nome di Dio fu condannato per comando di Dio medesimo ad essere cacciato fuori del campo e lapidato. La bestemmia attirò sulla casa di Davide le più terribili vendette del Signore. Perché tu sei stato cagione, gli disse il profeta Natan, che si è bestemmiato il nome di Dio, il tuo figliuolo morrà, e i castighi del cielo non cesseranno di affliggere la tua casa durante il corso di tua vita. Sennacherib re degli Assiri bestemmiò contro la possanza del Dio d’Israele, dicendo che non era potente abbastanza per liberare il suo popolo dalle sue mani; il Signore, per punire questa bestemmia, mandò il suo Angelo sterminatore, che mise a morte in una sola notte centottantacinquemila soldati dell’armata Assira. Donde pensate voi, diceva altre volte s. Giovanni Crisostomo al popolo di Antiochia, che vengano i terremoti e le calamità che vi affliggono, se non dalle bestemmie che hanno regnato nella vostra città? – Non ne dubitate, fratelli miei; i flagelli terribili con cui la giustizia di Dio affligge gli uomini, vengono altresì in parte dalle imprecazioni, dalle bestemmie che si vomitano contro il suo santo Nome. Se le vostre campagne sono devastate da tempeste, desolate da siccità; se voi soffrite perdite di beni ed altri sinistri accidenti, sono le vostre imprecazioni, le vostre maledizioni che vi attirano tutte queste sciagure. Non si odono nel vostro ordinario linguaggio che imprecazioni or contro le stagioni, i venti, le piogge, la terra, or contro gli animali che vi servono; le case rimbombano delle vostre parole esecrande, che s’innalzano come neri vapori sino al trono di Dio; convien forse stupirsi se esse ne fanno discendere i fulmini che abbruciano le vostre case, tempeste che portano via le vostre raccolte, se i vostri animali periscono, se i vostri lavori, i vostri affari hanno cattivi successi? Si vede in voi verificarsi quella terribile predizione del profeta: voi avete amata la maledizione, essa cadrà su di voi: Dilexit maledictionem , et veniet ei. Voi avete rinunciato alle benedizioni del cielo, voi ne sarete privi: Noluit benedictionem, elongabitur ab eo (Psal. CVIII). Voi vi siete rivestiti della maledizione, come di un vestimento, continua il profeta, voi ne avete fatto il soggetto dei vostri discorsi; essa penetrerà dentro di voi nello stesso modo che l’acqua s’insinua nella terra; essa entrerà come l’olio nelle vostre ossa: Fiat eì sicut vestimentum quo operitur, et sicut zona qua semper præcingitur. Espressioni, fratelli miei, che dovrebbe farvi tremare ogniqualvolta voi date maledizioni e a voi medesimi o ad altri; poiché queste maledizioni si verificano sovente in una maniera terribile, permettendolo Iddio per vostro danno in giusto castigo del vostro peccato. E noi dite voi spesse volte che sembra che la maledizione di Dio sia nella vostra casa, che lavorate molto, che tollerate molte fatiche, e che nulladimeno tutte le vostre intraprese non riescono, le calamità si accumulano su di voi e su tutto ciò che vi appartiene? Voi dite il vero, fratelli miei, e parlate ancora più giusto, se dite che la maledizione è veramente nella vostra casa; essa effettivamente vi è: ma che cosa l’attira? Sono le maledizioni che profferite voi medesimi contro tutto ciò che si presenta: voi, o mariti, contro le mogli; voi, o mogli contro i mariti; voi, padri e madri, contro dei figliuoli: prendetevela contro di voi medesimi delle inquietudini che risentite dalla parte degli uni e degli altri; prendetevela contro di voi medesimi, padri e madri, degli affanni che vi cagionano i vostri figliuoli coi loro cattivi costumi, coi disordini in cui s’immergono, col disonore che attirano sulle vostre famiglie; voi non avete che parole di maledizione a dare a questi figliuoli: or li consegnate al demonio, or desiderate loro la morte e quanto poco vi manca che facciate tutto il male che loro desiderate? Invece di attrarre su di essi la benedizione del Signore con le vostre orazioni e con i vostri buoni esempi, voi li abbandonate alla possanza di satanasso, che esercita su di essi il suo impero, che li porta al male, che gli intrattiene in una vita licenziosa, che gl’induce a bestemmiare, a maledire; come voi pervertiti dai vostri cattivi esempi ripetono le imprecazioni, le maledizioni che odono, e Dio voglia che vicendevolmente non ve ne diano ancora! Così questi figliuoli maledetti da voi medesimi, assuefatti e maledire, attirano sopra di essi e su di voi le maledizioni dei Signore, e vi danno tutti gli affanni e le inquietudini che meritate. – Facevasi altre volte tanta stima delle benedizione dei padri e delle madri che si riguardava come la sorgente della felicità della vita; ecco perché il patriarca Giacobbe usò tanta industria per avere la benedizione di suo padre Isacco, e perché Esaù fu si celebre per esserne stato privo. Qual disgrazia non attirò su di Cam figliuolo di Noè la maledizione che suo padre gli diede! S. Agostino riferisce un esempio memorabile di una donna carica di figliuoli, contro cui essa lanciò la sua maledizione per qualche disgusto che ne aveva ricevuto. Questi figliuoli furono tutti colpiti da un orribile tremore in tutte le parti del corpo che li fece andar vagando per tutta la terra e ne fece perire miserabilmente la più gran parte. Temete dunque di proferire alcuna maledizione contro chicchessia, perché tosto o tardi essa cadrà su di voi; e se Dio non vi punisce in questo mondo, Egli vi punirà nell’altro in una maniera più terribile. Sì, fratelli miei, si è nell’inferno che Dio eserciterà le sue vendette su i bestemmiatori. – Hanno essi fatto durante la vita quel che fanno i demoni e i reprobi in quel luogo di orrore; egli è dunque giusto che siano durante l’eternità i compagni del loro supplicio: essi continueranno la maledetta occupazione che hanno imparata; non hanno lodato e glorificato sulla terra il Signore, che li aveva per un tale nobil fine creati, non è giusto dunque che siano in compagnia coi beati, che lo loderanno nel cielo durante l’eternità. La loro lingua e la loro bocca, dice la Scrittura, sono state come sepolcri, da cui sono uscite che esalazioni infette; egli è giusto che questa lingua sia bruciata da un fuoco eterno! Che questa bocca sia abbeverata del fiele dei dragoni, del veleno degli aspidi! Fel draconum , vinum eorum (Deut. 32). Con la loro condotta hanno essi abbandonato Dio, Iddio pure li abbandonerà, e li maledirà durante tutta l’eternità: Ite maledicti in ignem æternum (Matth. XXV). Ahi fratelli miei, per poco che vi resti fede, potete voi non temere di essere del numero di quegli sgraziati che sono eternamente maledetti da Dio? E se voi lo temete, perché vivere schiavi del peccato. che vi attirerà sì grandi disgrazie? Ecco alcuni mezzi che vi suggerisco per correggervi.

Pratiche. Non pronunciate giammai il santo Nome di Dio che con grande rispetto: non ve ne servite mai che per attestare la verità e solamente quando vi siete obbligati per autorità legittima e per qualche motivo d’importanza. Mentre se vi assuefate a giurare senza necessità, anche per cose vere, voi cadrete facilmente nello spergiuro, e dallo spergiuro nella bestemmia. – Per correggervi da ogni bestemmia, di qualunque specie ella sia, andate alla sorgente del male. Questi peccati sono per l’ordinario gli effetti dell’ira, dell’iniquità. Moderate i vostri trasporti, non desiderate al prossimo il male che non desiderereste a voi medesimi; tosto che sentirete qualche moto d’impazienza sollevarsi dentro di voi, mettete un freno alla vostra lingua per condannarla al silenzio. E se vi esce di bocca qualche parola di bestemmia o d’imprecazione, imponetevi una penitenza la quale voi continuerete sintantoché non vi cadiate più, come di fare in quel momento un atto di contrizione, di pronunciare qualche buona parola: il Nome del Signore sia benedetto; ovvero i santi nomi di Gesù, Maria e Giuseppe; oppure di fare qualche limosina ai poveri. Se ogni qualvolta voi bestemmiate, foste obbligati di pagare una somma, benché modica ella fosse, voi sareste ben presto corretti del vostro cattivo abito. Quando vi accade qualche sinistro accidente, in vece di prorompere in imprecazioni, entrate nei sentimenti di Giobbe, quell’uomo sì paziente nelle tribolazioni: il Signore mi aveva dati questi beni, egli me li ha tolti; sia benedetto il suo santo Nome. Sit nomen Domini benedictum. Esaminate ogni sera quante volte sarete caduti in questo peccato, per domandarne altrettante volte perdono a Dio con un atto di contrizione e baciando altrettante volte la terra; non lasciate punto la vostra penitenza se non siate corretti. Non basta distruggere in voi questo peccato, voi dovete ancora distruggerlo negli altri, per quanto dipende da voi, principalmente in quelli che sono soggetti, come i genitori nei figli, i padroni nei servi. Convien servirvi della vostra autorità per imporre loro silenzio e castigarli quando profferiscono simili parole; ma guardatevi sopra tutto di darne loro l’esempio; altrimenti le vostre correzioni sarebbero inutili. Se voi non avete verun’autorità su coloro che udite profferir bestemmie, domandate a Dio perdono per quelli che l’offendono, ripetendo sovente quelle parole dell’orazione domenicale: Sanctificetur nomen tuum (Matth. VI). Perché non posso io, o mio Dio, dovete voi dire nel vostro cuore, risarcirvi con le mie lodi degli oltraggi che gli uomini fanno al vostro santo nome! Evitate la compagnia dei bestemmiatori, perché frequentandoli imparerete ben tosto a parlare il loro linguaggio. Domandate ogni giorno a Dio la grazia di far un santo uso della vostra lingua. Formate ogni mattina la risoluzione di non pronunciare alcuna cattiva parola; io farò in modo quest’oggi di non bestemmiare; l’indomani fate lo stesso, e a poco a poco vi correggerete. Ah! piuttosto, o mio Dio, la mia lingua si attacchi al mio palato che servirmene per oltraggiare il vostro santo nome! Voi me l’avete data per glorificarvi, ed io non me ne servirò che per questo fine, affinché, dopo avere benedetto il vostro santo Nome e cantate le vostre lodi sopra la terra, io abbia la bella sorte di lodarvi per sempre nel cielo. Così sia.

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod. XXIV: 4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.

[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

LA COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.

 [Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio

Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.

[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (129)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO VIII.

Si segue a difendere da due altre imposture ereticali i miracoli della Chiesa, per finir di evincer li sussistenti.

I. Terribile è la passione. Fa questa ai ciechi sognare di aver mille occhi a conoscere le altrui fraudi, quando non ne hanno due soli a vedere le loro neppur vegliando. Privi però gli eretici di miracoli, vogliono ad ogni modo avvilire tutti quelli che accadono fra i cattolici, con criticarci, ora facili nell’ammetterli, ora finti nel raccontarli, che è quasi un di mostrarci tra noi di accordo a vendere una tal merce ed a comperarla per pochi soldi, sol perché ella non è merce legittima, ma falsata. – Ed io dico loro, che se non avessero perduto affatto ogni lume, vedrebbero chiaramente, come imposture si grosse convien che tornino finalmente in obbrobrio del calunniatore più assai che del calunniato. Finiamo dunque per cumulo di vittoria di abbattere parimente ambedue queste opposizioni: il che è agevolissimo, mentre ambedue non hanno altro di sodo, che la fronte de’ loro sostenitori.

I.

II. E per cominciar dalla prima: Che ardire è il loro, dire, che noi siamo facili più del giusto in ammettere ogni miracolo? Non nego io già; che il volgo, mal consapevole di quanto può la natura, non reputi talora per un effetto miracoloso quello che in sé non è, ma sol pare a lui perché non sa donde nasca. Nego bene, che di tal condizione sieno i miracoli, che vengono approvati per tali da’ pastori delle chiese e da’ prelati delle congregazioni stabilite ad esaminarli. Chi si persuade altrimenti, oltre alla malignità, scopre anche la sua ignoranza: mentre non sa quante difficoltà s’incontrino in una Roma prima di ottenere ad un sol prodigio la debita approvazione. Qual tribunale però troverà mai fede, se non la trova questo, sì rigido ad ogni prova, si spassionato, sì santo? Che se pure volessimo noi concedere alla perfidia de’ novatori, errato in qualche caso lor noto; chi però vorrà credere, che erri sempre? Si dia per vero, che il parlamento del regno, dopo anche molti processi, condanni a morte un che egli stimò reo, mentre era innocente; sarà per questo credibile che innocenti sian tutti gli uomini da lui condannati a morire? – Eppure un solo vero miracolo che fosse stato operato nella chiesa romana, a canonizzare la sicurezza de’ suoi oracoli, e la santità delle sue operazioni nello spazio di centosettanta anni in qua, cioè dappoi che uscì in campo Lutero per infamarla di adultera; basterebbe a manifestarla per Chiesa vera di Cristo, come un solo anello del re basta a manifestar la sua vera sposa senza che ella ne porti le dita cariche.

III. Senonchè questa medesima facilità al credere meraviglie che i novatori oppongon tanto ai Cattolici, denota evidentemente, che fra’ Cattolici a volta a volta ne accadano delle vere. Imperocché, donde mai nasce fra noi una tale facilità più che in altri popoli? Forse dall’ignoranza? Non già: attesoché, quanto sanno meno di Dio i popoli dementati dall’eresie, e quanto meno ne sanno anche gli ebrei, i tartari, i turchi ignoranti affatto! Eppure presso a costoro dov’è che trovisi questa facilità di credere successi miracolosi tra loro occorsi?

IV. Dirassi dai novatori, che il demonio stravolge con sì bell’arte la fantasia de’ Cattolici per farli riposar più tranquillamente ne’ loro errori? Ma non ha il demonio tanto maggior possanza su gli infedeli e su gl’idolatri, i quali riconoscono lui per Dio? Come però, per mantenerli in errore, non istravolge egli loro continuamente la fantasia di maniera simile? Conviene a forza che i novatori confessino, come in grembo alla Chiesa Romana sia la sorgente unica de’ miracoli, e che di ciò persuasi i cattolici dallo Spirito Santo, loro intimo illustratore, sentano in se medesimi quella pia propensione a crederli facilmente: propensione, la quale può fare, che essi talora nel giudicarne in privato piglino qualche abbaglio, come lo piglia chi da un principio vero, applicato male, cava una conclusione che non è vera: ma non può fare, che il piglino quando i miracoli con pubblica autorità si deducono al loro foro contenzioso,e quivi restano legittimamente dilucidati. Se in altri popoli una tal propensione non trova luogo, è perché tra loro mai di miracoli non si parla. Chi tiene dal partito di un re potente, che usci armato alla testa di un bravo esercito veterano, agevolmente riceve tosto per vere le prime nuove della vittoria conseguita da lui sotto alcuna piazza. Laddove chi tien del partito di un signore fallito al pari di credito o di danaro, per quanto il brami, non sa prestare tuttora fede alla fama che dice: Ha vinto. La buona causa che però i Cattolici dalla loro, è quella che sì gli inclina a tener per veri i miracoli che si odono narrar da questo o da quello: sapendo che innumerevoli son veri, e che la miniera onde nascono, che è la divina potenza, per quanto scavisi, nulla scema. Una simil credulità per certo fra gli eretici non può incorrersi. Ma perché? Perché di miracoli non v’è tanto fra loro, non dico di verità, ma di verisimiglianza, che basti alla falsità per farne una favola : Validior veritas, quam falsitas , disse colui (Ficinus), et falsitas fallit imagine veritatis. E con questo viene anche a sciogliersi ciò che in secondo luogo voleva opporsi, cioè, che i miracoli nostri siano belle finzioni inventate da quegli istorici che le contano.

II.

V. In prima, questa opposizione medesima facevano i gentili alla religione cristiana nei primi secoli, tacciandola di rea fede in tali racconti. Ciò dunque che i novatori, come Cristiani, risponderanno giustamente ai gentili in comun difesa, risponderemo ad essi novatori noi parimente, come Cattolici.

VI. Dipoi nelle sacre scritture si presuppone, che le operazioni miracolose rechino una testimonianza autorevole alla verità della fede, come tante voci di Dio, non imitabili da alcun altro: Contestante Deo signis et portentis (Ad Heb. 2). Dall’altro lato è certissimo, che non ognuno può essere spettatore di queste operazioni miracolose dovunque accadono. Adunque è certo altresì, che la fede umana ha da aver forza ad accreditarle di modo, che chi non le crede si giudichi inescusabile. Né appare donde fosse colpevole più Tommaso, che in non voler piegarsi alle attestazioni che della risurrezione di Cristo gli rendevan gli apostoli suoi colleghi, quando dìcevangli di averlo infino veduto cogli occhi loro: Vidimus Dominum. Mirino però i novatori di qual fallo essi vengono a farsi rei, ricusando di credere a tanti testimoni, per la virtù, per la scienza, e per la saviezza, degnissimi di ogni fede. Tra gli scrittori di prodigi tali si arruolano molti santi: Basilio, Crisostomo, Girolamo, Gregorio Magno, il Nazianzeno, il Nisseno, ed il Turonense, Atanasio, Agostino, Teodoreto, Beda, Bernardo, Bonaventura, Antonino e più altri de’ quali ha Dio fornito ogni secolo. Qual temerità sarà dunque ripudiar tutti questi come ingannati, o ancor come ingannatori, massimamente professandosi anch’essi in molti di que’ prodigi testimoni di veduta, come gli apostoli tutti a Tommaso incredulo? Forse che i novatori lasciano di apportar l’autorità dei dottori pur da lor lodati, dove la stimano favorevole, benché da lungi, a qualcuno dei loro errori?Anzi oh come studiosi ne vanno in busca? Se dunque l’accettano in un caso più per valida ad attestare, come poi vengono a rigettarla nell’altro? Approbans personam testis in uno actu, approbat eam in omni alio simili (L. si Quis testib. C. de test.)

VII. Appresso. non v’hané anche ragione di cavillare la narrazionedi altri scrittori meno santi, ma pure alienissimi dal mentire in materia di religione, dove ogni menzogna equivale ad un sacrilegio. Se gli scrittori, di cui si parla, fossero etnici, o fossero eretici, avremmo veramente qualche motivo di dubitare della loro fede, perché sì gli uni come gli altri non si fanno molta coscienza di dir bugie. Platone (L. 4. de rep.), fra gli etnici stimò laudevolissimo il giovare talora al volgo con una menzogna acconcia, quasi che ciò sia far da medico ben esperto, il quale inganna il fanciullo infermo con pillole confettate, ma per sanarlo. E gli eretici d’oggidì concordano, in affermare, che nessuna scelleratezza sia da temersi dov’è la fede, quasi che questa sugga, per dir così, dalle opere ree qualunque malignità, come dalle serpi il fulmine ogni veleno. Essi dunque a ragione dovranno esserci sospettissimi, quando riferiscano eventi superiori alle forze della natura, mentre, crederanno di far bene mentendo, o almeno crederanno di non far male. Ma non già si hanno a tener sospetti sì facilmente i Cattolici, presso cui è fallo degno di morte eterna il fingere miracoli non sussistenti, ed è caso anche grave d’inquisizione, cioè di un foro che non porta rispetto a veruna persona, a veruna penna per inclita ch’ella sia.

VIII. All’ultimo, chi accusa altri di falsario, è in debito di provarlo: Et actore non probante, reus absolvitur: massimamente quando la reità, non pur non è certa, ma né anche è probabile. Eppure quale argomento può rendere mai probabile la finzione di quei miracoli, non per altro odiosi agli eretici di oggidì, se non perché su’ capi loro riescono tanti folgori? ì Potevasi indovinare mai, che Lutero avrebbe conteso il purgatorio; che Calvino e che Carlostadio avrebbero negata la presenza di Cristo nell’eucaristia; che Zuinglio avrebbe riprovato fl. sacrifizio della messa; quando i Cattolici, tanti secoli prima, raccontaron miracoli attestatoli della verità da costoro oppugnati novellamente?

IX. Aggiungasi, che se tutti i nostri prodigi sono mere fole, non pub capirsi come in tanto spazio di tempo non vi sia stato veruno il quale si ponesse a volerle scoprire per quelle che erano, traendo al chiaro queste ree talpe sì sagaci a intanarsi. È possibile, che tutti i dottori cattolici che sono tanti, tutti i principi, tutti i prelati si lascino sopraffare da tanta stolidità, che non distinguano il falso dal vero, ma facciano una ragione medesima del vetro e del diamante, dove per altro è sì grande la inclinazione che han tutti gli uomini saggi a svelar gl’inganni? Tommaso Moncero (che fu il primo ad isvegliare nella Germania l’error degli anabattisti) si volle provare a fingere dei miracoli in confermazione di tale errore, egli riuscì così poco, che fu chiamato per soprannome il fingitor de’ miracoli da quei suoi popoli stessi che lo dannarono finalmente alle fiamme per altro capo lor più molesto, cioè per l’ubbidienza che da esso toglievasi ai magistrati. Eppure tutta quella Germania medesima approvò una volta per veri gl’innumerabili miracoli quivi fatti da un Bonifazio, confessando ella di avere lei sottoposto per essi l’altero collo al giogo di Cristo; tutta l’Inghilterra approvò quei di Agostino; tutta l’Ibernia quei di Patrizio; tutta la Dania quei di Remberto; e così più altre nazioni approvarono tutte al pari quelli dei loro apostoli, spediti là dal Romano Pontefice a predicarvi. Onde quando vogliasi rivocare punto in questione la verità di tali successi, gettinsi pure alle fiamme l’istorie tutte a conto d’inutili: mentre, come sappiamo per via d’istorie essersi le Gallie rendute già all’imperio romano, e rendute in virtù dell’armi di Cesare; così sappiamo per via d’istorie, essersi quelle nazioni rendute già alla Chiesa Romana, e rendute in virtù de’ miracoli quivi fatti da quei loro famosi conquistatori.

X. Senonchè mirate, come la soave provvidenza ha voluto a questi increduli stessi turar la bocca, con dire a ciascun di loro (come disse Cristo a Tommaso), che venga, e veda: Veni et vide. Ecco però, che a tal effetto ella ha voluti nella sua Chiesa Cattolica alcuni prodigi, non passeggeri, non pellegrini, ma ospiti permanenti, cosicché ciascuno a piacer suo può venire a certificarsi, sol che egli tolga l’incomodo di un viaggio, quale fanno tanti oggidì per ricreazione. Di tali prodigi v’è chi già compilonne un volume giusto (Sylv. Petrasancta). Ma per brevità io mi ristringo al solo regno di Napoli, che tutti alletta per altro anche di lontano coll’amenità del suo paradiso. Quivi, a convincere i pertinaci, ecco prontissimo il sangue di s. Giovanni e il sangue di s. Gennaro. Ambedue questi sangui già congelati, si liquefanno da se stessi, e sobbollono apertamente: quello di s. Giovanni, al leggersi l’Evangelio della sua decollazione: quello di s. Gennaro, nel comparire al cospetto della sua testa. Che sono però questi? Sono racconti istorici, o sono cose esposte al guardo di chi pur segue a ripetere: S’io non veggo, non crederò: Nisi videro, non credam? Gli eretici, che non sanno qui cosa si dire, vorrebbero ridurre sì strani effetti ai moti altissimi di simpatie naturali. Ma questa è la meraviglia che solamente ne’ paesi Cattolici si ritrovino cimpatie sì belle, e nulla n’abbiano i lor paesi infedeli. Tale è la pena giustamente dovuta all’incredulità ben proterva: dovere penar più per non indursi a credere, che per credere.

XI. E poi. siano pur simpatie que’ moti miracolosi pur ora detti: sono più secoli che l’ossa del glorioso s. Nicola, nuotano in Bari dentro un umore prodigiosissimo, che ne sgorga giornalmente in gran copia, e chiamasi manna dalla sanità ch’egli suol portare agl’infermi in diverse parti del mondo donde è richiesto. Dicano però i novatori come può avvenire a forza di simpatia, che ossa morte da tanto tempo, sudino ancora, e nuotando in mezzo a tant’acqua, mai non infracidiscano come l’altre, ma si conservino sempre nel primo fiore? Che accade ricorrere alle occulte ragioni? La cagione è manifestissima; e tale è la provvidenza divina, che con questi ed altri miracoli ancora stabili vuole illustrare la sua Chiesa sì chiaramente, che si discerne apertamente dall’altre che non son sue. Però faccian pure gli eretici quanto sanno co’ loro inchiostri più neri: mai non arriveranno a spegnere una scintilla di raggi sì luminosi, quali son quei ch’ella segue tuttora a vibrar dal volto.

IL SACRO CUORE DI GESÙ (35)

IL SACRO CUORE

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE PRIMA:

CAPITOLO II.

LE GRANDI APPARIZIONI

Le visioni di Margherita Maria non si contano. In più d’una si riscontrano dèi tratti utili per conoscere la divozione al sacro Cuore; ce ne serviremo all’occasione. Ma non è la divozione privata di Margherita Maria che ci preme di studiare principalmente, nè le sue relazioni personali, col sacro Cuore; così ci fermeremo, senz’altro, alle grandi rivelazioni che le furono fatte in vista del culto pubblico che Nostro Signore voleva stabilire per mezzo suo.

I .

LA PRIMA DELLE GRANDI APPARIZIONI

(27 dicembre, molto probabilmente dell’anno 1673)

I segreti del sacro Cuore svelati. Il sacro Cuore nel suo amore appassionato per gli uomini, vuol manifestarsi e aprir loro i suoi tesori. La discepola e l’evangelista del sacro Cuore. Margherita Maria nella sua lettera al P. Croiset, in data3 novembre 1689, segnala come « prima grazia speciale »avente un rapporto diretto con la sua missione e col culto del sacro Cuore, quella che ricevette nei giorno di San GiovanniEvangelista. Ella non ce ne indica l’anno, ma dovetteessere il 1673.A somiglianza di santa Geltrude, fu ammessa, in similegiorno, a « riposare per più ore su quel sacro petto » e ricevéda quest’amabile Cuore delle grazie così preziose cheil solo ricordo bastava, come ella dice a « metterla fuoridi sè ». La beata aggiunge che non stima « necessario lo specificarle» (Lettres inéd. IV, p. 141), ma ne ha conservato molto vivamente « il ricordoe l’impressione ».Ne parla pure in questi termini alla Madre de Saumaise,in una lettera scritta nel gennaio 1685 (È questa la data accennata da Mons. GAUTHEY, Le religiose di Paray, come LANGUET, avevano letto: 1689). « Lo Sposo, divino, dice ella, mi fece la grazia incomprensibile e di cui sono cosi indegna, di farmi riposare sul suo seno, col suo discepolo prediletto e di darmi il suo cuore, la sua croce e l’amor suo » (Lett. XCIII, T. II, pag.). Ma fortunatamente, abbiamo ancora qualcosa di meglio di queste allusioni e impressioni personali in cui, infine, niente indica una missione speciale. La «  Mémoire » scritta per ordine del P. Rolin, ci dà dei dettagli preziosi e precisi. – Margherita Maria si trovava innanzi al Santissimo Sacramento. Nostro Signore, la fece riposare molto a lungo sui suo petto divino; le scoprì le meraviglie del suo amore e i segreti inesplicabili del suo sacro Cuore, « segreti, dic’ella, che Gesù te aveva tenuto nascosti sino allora ». Egli le mostrò il suo Cuore e le disse : « Il mio Cuore è sì appassionato d’amore per gli uomini, e in particolare per te, che, non potendo più contenere in sé le fiamme della sua ardente carità, bisogna che le espanda per mezzo tuo e che si manifesti a loro, per arricchirli dei suoi preziosi tesori. Nel mio Cuore vi è tutto quello che abbisogna per ritrarli dalla perdizione. Io ti ho scelta, soggiunse, per il compimento di questo gran disegno, siccome un abisso d’indegnità e d’ignoranza, affinché tutto sia fatto da me ». Segue qui una di quelle scene simboliche, frequenti nelle vite dei santi. Gesù prese il cuore dalla sua serva e lo mise nel suo adorabile. Lo ritrasse poi come una fiamma ardente, in forma di cuore, se lo rimise al suo posto, dicendo fra le altre cose : « Sino ad ora tu non ti sei chiamata che mia schiava ; ma io ti dò il nome di diletta discepola del mio sacro Cuore » (Mémoire, t. II, p. 5). Così il sacro Cuore si rivela, si mostra appassionato d’amore per gli uomini; vuol manifestarsi loro e arricchirli dei suoi tesori di santificazione e di salute. Margherita Maria è l’istrumento che Egli ha scelto per i suoi disegni.

II.

L A SECONDA GRANDE APPARIZIONE

(1673 o 1674)

L‘immagine simbolica: ultimo sforzo di amore, redenzione amorosa operata dal sacro Cuore; missione di Margherita Maria.

Dopo aver detto al P. Croiset, nella lettera suaccennata, che non stima necessario di specificare cosa alcuna, aggiunge subito: « Dopo questo, il divin Cuore mi si presentò etc… » e segue una descrizione dettagliata e il racconto d’una visione. Ci siamo domandati se si trattasse di una scena distinta dalla precedente, o solamente di nuovi dettagli della stessa scena. Le maggiori verosimiglianze sono per una scena distinta, perché qui la beata specifica e perché le circostanze sono tutt’altre. Ma poco importa la circostanza del tempo, purché sì osservi e si noti il progresso nella manifestazione del sacro Cuore. – Noi abbiamo adesso una visione simbolica dello stesso Cuore, al di fuori del corpo che non apparisce. Egli era « come su di un treno di fiamme, più risplendente del sole, trasparente come il cristallo e con la sua piaga adorabile. Era circondato da una corona di spine sormontato da una croce». Dopo avere spiegato l’emblema delle spine e della croce, la beata aggiunge : « Egli mi fece vedere che il suo ardente desiderio, d’essere amato dagli uomini e di ritrarli dalla via della perdizione dove satana li precipita in gran numero, gli aveva fatto formare il disegno di manifestare agli uomini il suo Cuore, con tutti i tesori di amore, di misericordia, di grazia, di santificazione e salute che contiene ». Ma che cosa ci vuole, per aver parte a tutti questi tesori del cuore di Dio? « Onorarlo sotto la figura di questo cuore di carne ». Seguono delle promesse di grazie e di benedizione; per coloro che onorerebbero anche l’immagine di questo sacro Cuore. Questa divozione, continua la beata, ripetendo le parole di Nostro Signore, è come un ultimo sforzo del suo amore, che voleva favorire gli uomini in questi ultimi secoli di una specie di redenzione amorosa, per ritrarli dall’impero di satana e per metterli, nella dolce libertà del regno dell’amor suo. « Ecco, concluse Nostro Signore, ecco i disegni per i quali ti ho scelta » (Lettres inédites, IV, pag. 141, 140, riveduto su G. CXXXIII 567). Non abbiamo qui solamente il sacro Cuore scoperto; vi è il desiderio chiaramente manifestato, di un culto speciale, con delle promesse magnifiche, per una delle forme di questo culto, (l’onore reso alla immagine); vi è lo scopo indicato da Gesù medesimo, con la missione di Margherita Maria, annunziata e specificata. Tutto questo sta per delinearsi sempre più.

III.

LA TERZA GRANDE APPARIZIONE

(probabilmente nel 1674)

Il sacro Cuore, raggiante d’amore: culto riparatore d’amore; comunione frequente, comunione dei primi venerdì del mese. Ora santa.

Sino ad ora le grandi apparizioni ci hanno mostrato il sacro Cuore pieno di amore e di grazie, desideroso di spanderle e chiedendo un culto di amore e di onore. Noi vedremo ora questo amore come sconosciuto e implorante un culto di amore e di riparazione. È ancora la Mémoire che ci fa conoscere questa nuova apparizione. Nessuna data. Il contesto, però, sembra indicare un primo venerdì del mese e vien notata espressamente la circostanza che il Santissimo Sacramento era esposto. Qualche autore la fissain un giorno dell’ottava del Corpus Domini; altri il 2 luglio, festa della Visitazione, l’anno 1674. Secondo il nostro punto di vista, per altro, la data precisa importa poco. Un giorno dunque, che il Santissimo Sacramento era esposto, Nostro Signore si presentò a lei, « tutto risplendente di gloria, con le cinque piaghe che scintillavano come cinque soli … Da questa sacra umanità si sprigionavano come delle fiamme da ogni parte, ma soprattutto dal suo petto adorabile sì che rassomigliava una fornace». Il petto si aprì, lasciando scoperto « l’amantissimo e amabilissimo Cuore, che era la viva sorgente di quelle fiamme ». Nostro Signore le fece vedere le « meraviglie inesplicabili del suo puro amore, e sino a quale eccesso egli aveva amato gli uomini. » Ma che, purtroppo, non riceveva in compenso che « ingratitudine e sconoscenza e ciò, le disse il divin Maestro, essergli molto più sensibile di tutto quello che aveva sofferto nella sua passione ». « Se essi, aggiungeva Egli, mi dessero qualche corrispondenza di amore, stimerei poco tutto quello che ho fatto per loro e, se fosse possibile, vorrei fare ancora di più; ma essi non hanno che della freddezza e della repulsione per tutte le mie sollecitudini nel far loro del bene ». Questo amore sconosciuto domanda una riparazione, e la domanda, per primo, alla sua serva diletta. « Tu, almeno, le dice, tu dammi questa consolazione, di supplire alla loro ingratitudine, per quanto puoi esserne capace ». Margherita Maria, gli espose allora umilmente la sua impotenza, ma: « Tieni, diss’Egli, ecco con che supplire a tutto quello che ti manca ». E ciò dicendo, dischiuse il suo cuore e ne uscì una fiamma sì ardente, che ella credé rimanerne consunta. Non potendo più sostenerne l’ardore, gli chiese di aver pietà della sua debolezza, al che Egli rispose: « Io sarò la tua forza ». Allora le indicò delle pratiche speciali, da farsi in questo spirito di amore riparatore. « In primo luogo mi riceverai nel Santo Sacramento, quante più volte ti sarà permesso dall’obbedienza … di più farai la Comunione ogni primo venerdì del mese. Nostro Signore vuole di più che ella partecipi alla mortale tristezza a cui si sottomise nel giardino degli Ulivi, tutte le notti del giovedì al venerdì. « Per accompagnarmi nell’umile preghiera ch’io rivolsi al Padre mio, fra tutte le mie angosce, ti alzerai fra le undici e mezzanotte, e ti prostrerai in unione a me, per un’ora, con la faccia contro terra, sia per placare la collera divina, implorando misericordia pei peccatori, sia per addolcire, in qualche modo, l’amarezza ch’io risentii per l’abbandono dei miei apostoli. Durante quell’ora, farai quello che io t’insegnerò » (Mémoire, t. II, p. 327-328; G. u. 55-57. p. 71-72). Qui, come ben si vede, la divozione si delinea come una divozione d’amore riparatore, verso l’amore sconosciuto; di affettuosa compassione verso l’amore sofferente e, in qualche modo, di unione amorosa a Gesù, vittima per l’amore degli uomini e implorante, per loro, misericordia e perdono. Nostro Signore non ne fa qui la domanda che a Margherita Maria: ma queste pratiche, della comunione frequente in spirito di riparazione e di amore, della comunione dei primi venerdì dei mese o comunione riparatrice, dell’Ora santa, o veglia nel giardino degli Ulivi, si sono generalizzate, sin dal principio, siccome quelle che ben rispondevano allo spirito della divozione. Le ritroveremo sulla nostra via. Nostro Signore, del resto, sta per generalizzarle e precisarle da se stesso.

IV.

L A GRANDE APPARIZIONE

(nell’ottava del Corpus Domìni 1675)

« Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini ». Una festa di riparazione. Il P. de la Colombière.

Eccoci arrivati a quella che si può chiamare la grande apparizione, fra le grandi apparizioni. Il P. de la Colombière, che vi era interessato, ne ebbe conoscenza nei primi giorni che seguirono l’avvenimento, e ne fece fare i l racconto dalla beata. È questo stesso racconto che. trascritto da lui, nel suo ritiro di Londra, febbraio 1677, fu pubblicato, col giornale dei suoi ritiri spirituali, e abbandonò al pubblico il segreto delle apparizioni, senza però designare ai non iniziati, né il monastero, né la veggente. È questo stesso racconto che si ritrova, con qualche leggera variante, nella Mémoire autografo, trascritto, molto probabilmente, dalla beata stessa, sulla edizione del P. de la Colombière (É ancora possibile che il racconto redatto dal P. DE LA COLOMBIÈRE, fosse stato conservato dalla beata fra le sue carte). L’apparizione ebbe luogo nell’ottava del Corpus Domini. L’anno non è indicato; ma siccome il P. de la. Colombière si trovava a Paray, non potè essere che nel 1675 o, ai più, nel 1676. Però, tutto porta a preferire la data del 1675, indicata dalle Contemporanee (Vìe et Oeuvres, I, pag. 94 (125). G. u. 151 pag. 136). Siccome d’altronde, vi sono delle ragioni, non però decisive, di credere che abbia avuto luogo la domenica, si può fissarla al 1675, come si è fatto ripetutamente. Ecco il racconto come si trova nella  Mémoire autographe: – La beata era innanzi al Ss.mo Sacramento, e Dio la ricolmava « delle grazie eccessive dall’amor suo ». Siccome ella desiderava a rendergli amore per amore, per contraccambiarnelo, in qualche modo, Egli le disse : « Tu non puoi darmi contraccambio più grande, che facendo quello che ti ho già chiesto tante volte ». Nulla, però, indica chiaramente, a che cosa facciano allusione queste parole. S’intuisce che si tratti di eseguire le intenzioni del Divino Maestro, con lo stabilire il culto del sacro Cuore; ma potrebbe ancora darsi che si trattasse di comunicare alla sua superiora o al suo direttore, quelle stesse intenzioni del Salvatore. Nostro Signore, del resto, sta per manifestare apertamente ciò che desidera. «Ecco, le dice, ecco questo Cuore che ha tanto amato gli uomini, che non ha risparmiato nulla, sino a esaurirsi e consumarsi per testimoniar loro il suo amore. E per riconoscenza, non ricevo, dalla maggior parte, che della ingratitudine, per le loro irriverenze e i loro sacrilegi, per la freddezza e il disprezzo che hanno per me in questo sacramento d’amore. Ma, quello che mi è ancor più sensibile, si è che sieno dei cuori a me consacrati che agiscan così » (Nel testo trascritto dal P. DE LA COLOMBIÈRE si legge: « Ma ciò che mi disgusta, maggiormente si è che sono dei cuori a me consacrati ». Ciò ha maggior forza ed è curioso che la beata stessa abbia addolcito la frase). – Sin qui non si riscontra nulla di molto nuovo, in questa apparizione, tolta la menzione speciale degli oltraggi ricevuti nell’Eucaristia. Ciò che segue, però, è interamente nuovo. Nostro Signore, aggiunge: « È per questi che io ti chiedo che il primo venerdì, dopo l’ottava del SS.mo Sacramento, sia dedicato a una festa particolare per onorare il mio Cuore, facendo la comunione in quel giorno, e offrendogli una riparazione d’amore, con una ammenda onorevole, per le indegnità che ha ricevuto mentre era esposto sugli altari ». Nostro Signore domanda dunque un culto pubblico, che abbia la sua festa, e delle pratiche determinate. « Io ti prometto, continuò, che il mio cuore si dilaterà, per spandere con abbondanza le effusioni del suo divino amore, su coloro che gli renderanno questo amore, o procureranno che gli sia reso » (Mémoire in: Vie et Oeuvres, t. II, pag. 355 2.a edizione p. 413. G. u. 92. pag. 102. Nel primo racconto mancano le parole: e che procureranno che gli sia reso. Non è che a partire dal 1685 che la beata ha fermato l’intenzione sull’apostolato del Sacro Cuore.). Ma come stabilire questa festa? È la terza fase dell’apparizione. Nella sua Mémoire, la beata abbrevia un poco; ma, nel racconto scritto per il P. de la Colombière, la scena si anima: « Ma, Signor mio, a chi vi rivolgete voi dunque? » E, Margherita Maria insiste sulla sua indegnità di miserabile creatura, di povera peccatrice. « Oh! povera innocente che sei, le rispose Nostro Signore, non sai tu forse che Io mi servo dei soggetti più deboli, per confondere i forti? » — « Datemi dunque, diss’ella, il mezzo di fare quello che mi comandate ». — « Rivolgiti al mio servo (Gesù designò il P. de la Colombière, che era allora superiore della piccola residenza dei Gesuiti a Paray), e digli, da parte mia, di fare tutto quello che gli è possibile, per stabilire questa divozione e consolare, così, il mio divin Cuore ». Nostro Signore aggiunse che le « difficoltà non gli sarebbero mancate, ma deve sapere che è onnipotente, chi diffida di sé, per confidare in me unicamente ». – Con questa apparizione, la divozione al sacro Cuore entrava in una fase nuova, e ciò in due modi. Dapprima, Nostro Signore domanda un culto pubblico e, in particolare, l’istituzione di una festa. Poi i disegni di Gesù si manifestano al di fuori. Sino allora, Margherita Maria ne diceva o scriveva qualche cosa, per la sua superiora e per quelli che essa voleva consultare; ma, molto riservatamente, come sì vede nelle note consegnate alla Madre de’ Saumaise e da lei conservate accuratamente. Invece la comunicazione fatta al P. de la Colombière, fu chiara e completa. D’allora, come meglio vedremo in seguito, i disegni di Nostro Signore entrarono in via di esecuzione: la divozione al sacro Cuore cominciò a propagarsi.

V.

IL MESSAGGIO AL RE

(1689)

II sacro Cuore onorato nel palazzo dei re; la sua immagine sullo stendardo reale; un edificio in onor suo e unomaggio solenne. Previsioni per l’avvenire.

Con queste tre o quattro grandi apparizioni, la divozione al sacro Cuore si è costituita da se stessa. Non rimane ora che stabilirla e propagarla. Vedremo come ciò si fece, poco a poco, nei quindici anni che visse ancora Margherita Maria. Sembra che non vi siano state altre nuove rivelazioni, per tredici o quattordici anni, se ne eccettuiamo le promesse di cui parleremo. Nei 1689, però nuovi orizzonti si dischiudono. Gesù vuole che si faccia proposta al re della nuova devozione, che Luigi XIV si consacri al sacro Cuore; che l’onori pubblicamente, che gli consacri una cappella espressamente costruita, e che faccia mettere la sua immagine nelle armi reali e sugli stendardi. – La beata osa appena parlare di questo nuovo desiderio del sacro Cuore, anche con la sua intima confidente, la Madre de Saumaise, tanto sembra andare al di là delle possibilità umane. Ella per tanto lo effettua, secondo l’impulso che le ne è dato. Fu il 17 giugno 1689, venerdì dopo l’ottava del Corpus-Domini, (oggi festa del sacro Cuore) che le fu fatta questa nuova rivelazione. Quali furono le circostanze precise che l’accompagnarono? La beata non ce lo dice, ma ancora sotto l’influenza dei lumi ricevuti scrive: « Questo amabile Cuore regnerà, malgrado satana e i suoi ministri ». E dopo aver enumerato le grazie riservate alla Visitazione e i disegni misericordiosi del sacro Cuore per la salute degli uomini, aggiunge che « Gesù ha ancora più grandi disegni, che non possono essere realizzati che dalla sua onnipotenza, che può tutto quello che vuole; che Egli desidera entrare con pompa e magnificenza nella casa dei principi e dei re, per esservi tanto onorato quanto fu oltraggiato, disprezzato e umiliato nella sua passione ». Bisogna che Egli abbia altrettanta gioia, nel vedere « i grandi della terra abbassati e umiliati, dinanzi a Lui, quanta fu l’amarezza che Egli provò, nel vedersi annientato ai loro piedi ». La beata ha udito a questo proposito, delle parole precise destinate al re: « Fa’ sapere al figlio primogenito del mio sacro Cuore…. che, come la sua nascita temporale fu ottenuta per la divozione ai meriti della mia santa infanzia, così otterrà la nascita alla grazia e la gloria eterna, per la consacrazione che egli farà di se stesso al mio Cuore adorabile, che vuol trionfare del suo, e per suo mezzo, del cuore dei grandi della terra ». Qui il messaggio si precisa: « Egli vuole regnare nel suo palazzo, esser dipinto sui suoi stendardi e scolpito sulle sue armi » (Lettera XCV1II. Vie et Oeuvres t. II, pag., 200 2.a edizione, lettera  XCVII, G. c. 434-436). « Ella, aggiunge la beata, Ella deve ridere, mia buona Madre, della mia semplicità nel dirle tutto questo; ma seguo l’impulso che me né è dato ». Conchiude col domandare il segreto; ma il segreto non può essere che relativo, poiché si tratta di un messaggio che deve trasmettersi. Ella vi ritorna sopra, perciò, (28 agosto 1689) e dilucida qualche punto. « L’eterno Padre, volendo compensare le amarezze e le angosce di cui il Cuore adorabile del suo divin Figlio era stato abbeverato nella casa dei principi della terra, fra le umiliazioni e gli oltraggi della sua passione, vuole stabilire il suo regno nella corte (Le editrici di Prey, hanno scritto: « nel cuore ») del nostro gran monarca ». Si vede che il tono si sublima col soggetto e Dio vuol dunque servirsi del re per l’esecuzione dei suoi disegni… Che cosa si deve fare? « Un edificio, dove sarebbe esposto il quadro del divin Cuore, per ricevervi la consacrazione e gli omaggi del re e di tutta la sua corte ». 1 sacro Cuore ha scelto il re come suo fedele amico, per fare autorizzare, dalla Santa Sede, la Messa in onor suo e ottenerne tutti gli altri privilegi, che devono accompagnare la devozione di questo sacro Cuore. In compenso di ciò, Egli fa al monarca le più magnifiche promesse di beni temporali e spirituali, per la terra e pel cielo. « Felice lui, conclude la beata, se porrà le sue compiacenze in questa divozione, che gli procurerà un regno eterno di gloria e di onore, nel sacro Cuore di Nostro Signore Gesù Cristo, il quale si prenderà cura d’innalzarlo e. renderlo grande nel cielo, innanzi al Padre suo. quanto più questo gran monarca ne prenderà per rialzare, dinanzi agli uomini, gli obbrobri e gli annientamenti che questo Cuore divino ha sofferto ». Ma come fare arrivare il messaggio al re? Dio conta per ciò sul P. della Chaise. « Egli non avrà fatto mai altra azione più utile alla gloria di Dio, più vantaggiosa all’anima sua, e di cui egli, e tutta la sua santa congregazione siano più abbondantemente ricompensati ». L’impresa è difficile, ma Dio è al disopra di tutto. La Madre de Saumaise, aveva proposto di scriverne alla superiora di Chaillot, siccome la più adatta a ben avviare la cosa. L’idea fu approvata (Lettera CIV, Vie et Oeuvre, t. II, pag. 212 – 26o). – Poco dopo, il 15 settembre 1689, la beata ne scrisse ancora al P. Croiset; ma, siccome essa non gli aveva confidato ancor nulla delle sue visioni, così si contenta di lanciare l’idea, e, pur dicendo dì lasciare agire la potenza di questo Cuore adorabile, cerca di mettere il suo corrispondente in traccia di mezzi pratici. La prova non fu fatta, o non ebbe buon esito, presso Luigi XIV. L’idea però non era morta e i devoti del sacro Cuore continuarono a sperare che i disegni del Cuor di Gesù sarebbero realizzati. La basilica di Montmartre, lo stendardo di Paray, la consacrazione del 1873 a Paray-ìe-Monial sono per essi, nello stesso tempo che un principio di realizzazione, anche una promessa per l’avvenire. Bisogna ricordare ciò per comprendere la divozione del sacro Cuore nel passato, bisogna pur ricordarlo per spiegare il suo carattere sociale nel presente e le sue prospettive per l’avvenire.

VI.

VISIONE DEL  2 LUGLIO 1688

Missione affidata alle religiose della Visitazione e alla Compagnia di Gesù.

Per realizzale i disegni del sacro Cuore, occorrevano degli strumenti. Per cominciare, Nostro Signore aveva scelto una suora della Visitazione e un Gesuita e volle che le Visitandine e i Gesuiti fossero, come d’ufficio, gli apostoli della nuova divozione. Senza escludere nessuna buona volontà, anzi facendo appello a tutte, diede nondimeno incarico a qualcuno di lavorarvi più efficacemente. Ne fece per loro come un dovere di vocazione, promettendo, se fossero stati fedeli all’avuta missione, una più larga parte dei tesori racchiusi nel sacro Cuore. – La scelta divina era già stata quasi annunziata e se ne sono raccolti più di mille indizi. Ma nulla è così chiaro come le parole della beata. Senza fermarsi ai preliminari, tocchiamo, senz’altro, il punto principale. Era il giorno della Visitazione, 2 luglio 1688. Margherita Maria aveva avuto la felicità di passare l’iutiera giornata dinanzi al SS.mo Sacramento, e il suo Sovrano, com’essa dice, « si degnò di gratificare la sua miserabile schiava con molte grazie particolari del suo Cuore amoroso ». Le fu rappresentato un luogo molto eminente, spazioso e di bellezza ammirabile nel centro del quale si ergeva un trono in fiamme. Essa vi vide l’amabile Cuore di Gesù, con la sua ferita. Questa ferita proiettava raggi cosi ardenti e luminosi, che il luogo ne era tutto illuminato e riscaldato. Questa volta il sacro Cuore non era solo. La santa Vergine era da un lato e dall’altro si trovava San Francesco di Sales con il Padre de la Colombière. Poi venivano le figlie della Visitazione con i loro buoni Angeli accanto, tenendo ciascuno un cuore in mano, probabilmente i cuori dei loro protetti. La santa Vergine, dice la veggente, la invitava con le sue parole materne : « Venite miefiglie dilette, avvicinatevi, perché io voglio rendervi depositarie di questo prezioso tesoro ». Segue qualche commentario dal quale risulta chiaramente che il Cuore di Gesù è tutto Gesù e che il dono del Cuore è il dono stesso di Gesù, con tutto il suo amore, tutti i suoi meriti e tutte le sue ricchezze. Continuando a parlare alle figlie della Visitazione, questa regina di bontà disse, mostrando il divin Cuore: « Ecco quel tesoro divino che vi è manifestato particolarmente », Gesù ama il loro istituto « come il suo caro Beniamino », e lo « vuole favorire di questo dono di preferenza a ogni altro ». Ma esse non lo hanno già per loro sole; bisogna « che si facciano dispensatrici di questa moneta preziosa », che « cerchino di arricchirne il mondo, senza tema che venga loro a mancare; perché più ne prenderanno, più troveranno da prenderne ». Ecco la parte delle Visitandine, ben chiaramente indicata dalla loro amabile Madre e mediatrice. Questa Madre di bontà si rivolse allora al P, de la Colombière e gli disse: « E tu, servo fedele del mio divin Figliuolo, tu hai gran parte di questo tesoro prezioso; perché, se è stato assegnato alle figlie della Visitazione di farlo conoscere, amare e distribuire agli altri, è riserbato ai Padri della Compagnia di farne vedere e apprezzare l’utilità e il valore, affinché se ne tragga profitto, ricevendolo col rispetto e riconoscenza dovuto a sì gran benefizio ». Insomma, come le Visitandine devono essere una continuazione di Margherita Maria, i Gesuiti devono esserlo del P. de la Colombière. Saranno ricompensati come lui, poiché, « a misura che essi consoleranno, per siffatto modo, il divin Cuore, questo stesso Cuore, sorgente di benedizioni e di grazie, le spanderà così abbondantemente sulle funzioni del loro ministero, che produrranno dei frutti al di là delle loro fatiche e delle loro speranze, anche per la salute e perfezione di ciascuno di loro ». La scena si chiude con un magnifico discorso di San Francesco di Sales. Egli invita le sue figlie a venire ad attingere le acque della salute alla sorgente medesima d’ogni benedizione, e spiega loro come la nuova divozione, lungi dall’esser contraria alle loro costituzioni, che già uscirono da quel divin Cuore, presenta loro un mezzo facilissimo di ben soddisfare a ciò che loro è prescritto nel primo articolo del loro direttorio, il quale contiene, in sostanza, tutta la perfezione del loro Istituto : Che tutta la loro vita e tutti i loro esercizi siano per unirsi a Dìo. « È d’uopo perciò, diss’egli, che questo Cuore sia la vita che ci anima e l’amor suo sia il nostro esercizio continuo, siccome il solo che può unirci a Dio per aiutare con la preghiera e i buoni esempi la santa Chiesa e la salute del prossimo. Per questo pregheremo nel Cuore, e per il Cuore di Gesù, che vuol rinnovare la sua mediazione fra Dio e gli uomini. I nostri buoni esempi saranno di vivere conformemente alle massime e alle virtù di questo divin Cuore e coopereremo alla salute del prossimo, propagando questa santa divozione. Cercheremo pure di spandere il buon odore del sacro Cuore di Gesù, in quello dei fedeli, affine di essere la gioia e la corona di questo amabile Cuore » (Lettera XXXV. Vie et Oeuvre, t. II, 1). Idee analoghe, ma ispirate da nuovi lumi, si ritrovano in un’altra lettera alla Madre de Saumaise, il 17 giugno 1689. Era il venerdì dopo l’ottava del SS.mo Sacramento, Margherita Maria ha veduto la divozione del sacro Cuore come un bell’albero, destinato, da tutta l’eternità alla Visitazione », affinché ogni casa « potesse raccoglierne frutti a seconda del suo gusto e del piacere suo ». Si tratta di frutti di « vita e di salute eterna » ; ma questi frutti non sono riserbati unicamente per le Visitandine; esse devono distribuirli « a tutti quelli che desidereranno mangiarne, senza tema che possano venire a mancar loro » (Lettera XCVII1 (XCVII). Vie et Oeuvres, t. II, p. 198 – 232). – Segue il messaggio per il re, di cui si è già fatto menzione. Poi Margherita Maria passa ai Gesuiti, la cui missione le si presenta sempre come complemento di quella della Visitazione. Essa attribuisce questa missione alle preghiere del P. de la Colombière, come attribuisce quella delle Visitandine a San Francesco di Sales. I n grazia sua, la Compagnia di Gesù sarà gratificata insieme alla Visitazione « di tutte le grazie e privilegi particolari della divozione del sacro Cuore ». Questo divin Cuore promette loro di spandere « con profusione le sue sante benedizioni sulle loro opere ». Esso desidera « essere conosciuto, amato e adorato particolarmente da quei buoni Padri ». E, se essi cercheranno « di attingere tutti i lor lumi nella sorgente inesauribile di tutta la scienza e carità dei Santi », darà alle loro parole « l’unzione della sua carità ardente » con delle grazie « si forti e potenti che hanno come delle spade a due tagli, che penetreranno nei cuori più indolenti dei più ostinati peccatori > (Lettera XCVIll. t. II. p. 200 (XCIII, p. 234); G. c. 436. Vedi anche la lettera CIV. t. II. p. 214 (262); G. CVII, 456). « Se è vero, dice ella altrove, che questa amabilissima devozione ha avuto origine alla Visitazione, non posso a meno di credere che progredirà per mezzo dei Reverendi Padri Gesuiti. E credo che sia appunto per questo che Egli abbia scelto il beato amico del suo cuore (il P. de la Colombière) per il compimento di questo gran disegno ». Perché la beata non può impedirsi di avere questa convinzione? Perché Nostro Signore le « ha fatto conoscere, in modo da non poterne dubitare, che era principalmente per mezzo della Compagnia di Gesù che voleva stabilire dappertutto questa solida divozione, e per essa assicurarsi un numero infinito di servi fedeli, di perfetti amici e di figli riconoscenti » (Lettres ìnédites, Lettera III, p. 125. Vi ritorna a p. 130. « Siccome Egli non vuole che un frutto così prezioso sia nascosto, ha scelto i R. Padri Gesuiti per distribuirlo e farne gustare la dolcezza e la soavità. » G. CXXXII, 551 e 554). Forse in nessun’altra parte l’insieme di queste idee è così ben collegato come nella lettera del 10 agosto 1689 al P. Croiset. « Quantunque questo tesoro di amore appartenga a tutti e tutti abbiam diritto, nondimeno è stato sempre nascosto sino al dì d’oggi, in cui si è dato particolarmente alle figlie della Visitazione, siccome quelle che devono onorare la sua vita nascosta, onde esse lo manifestino e distribuiscano agli altri. Nondimeno è riserbato ai Rev. Padri della Compagnia di Gesù di far conoscere il valore e il vantaggio di questo prezioso tesoro, dove più si prende e più si ha da prendere. Non dipenderà dunque che da loro di arricchirsi abbondantemente d’ogni sorta di beni e di grazie, poiché con questo mezzo efficace che Egli offre loro, essi potranno soddisfare perfettamente, come Egli desidera, i doveri del santo ministero di carità a cui son chiamati. Questo divin Cuore spanderà in siffatto modo là soave unzione della sua carità sulle loro parole, che penetreranno come una spada a due tagli nei cuori più induriti, per renderli sensibili all’amore di questo divin Cuore, e le anime più colpevoli e peccatrici saranno ricondotte a una penitenza salutare. Infine per questo mezzo Egli vuole spandere sull’Ordine della Visitazione e su quello della Compagnia di Gesù, l’abbondanza di questi divini tesori di grazia e salute, perché  essi sappiano rendergli quello che Egli ne aspetta, vale a dire un omaggio d’amore, d’onore e di lode e lavorino, con tutte le loro forze, a stabilire il suo regno nei cuori. Per questo, Egli aspetta molto dalla vostra santa Compagnia, ed ha su di essa grandi disegni. Per questo si è servito del buon P. de la Colombière per iniziare la divozione a questo adorabile Cuore, come spero che voi sarete uno di quelli di cui si servirà per introdurla nel vostro Ordine » (Lettres inédites, Lettera II, p. 95. Riveduta su G. II, 531-2). Queste assicurazioni, così spesso ripetute dalla beata, dominano la storia di questa divozione. Senza di queste, non sapremmo spiegarci come le Visitandine e i Gesuiti abbiano preso tanto a cuore il diffonderla. Ma queste ultime rivelazioni hanno anche un altro vantaggio; molti dei tratti che vi sono accennati servono mirabilmente a dare un’idea più completa e precisa della divozione al sacro Cuore.

VII.

RIASSUNTO E CONCLUSIONE

Il sacro Cuore mediatore d’amore. Idea grandiosa della divozione al sacro Cuore.

Si è potuto osservare, più sopra, una parola un po’ strana, nel piccolo discorso di San Francesco di Sales. « Preghiamo, dice egli, nel Cuore e col Cuore di Gesù, che vuol farsi di nuovo mediatore fra Dio e gli uomini ». L’espressione è famigliare alla beata, per quanto possa sembrare ardita. Sino dal 1685 noi la sentiamo parlare di una mediazione speciale del sacro Cuore fra Dio e gli uomini. Scrive infatti alla Madre Greyfìé: « Egli mi ha fatto conoscere che il suo sacro Cuore è il santo dei santi, il santo d’amore, che voleva essere ora conosciuto, per essere mediatore fra Dio e gli uomini, perché Egli è onnipotente, per accordar loro la pace, allontanando da loro i castighi che i nostri peccati ci hanno attirato, e ottenendoci misericordia ». – In un suo biglietto in data 21 luglio 1686. a Suor Maria Maddalena des Escùres, il giorno stesso in cui la comunità dì Paray si era consacrata al culto del sacro Ciiore, la beata scriveva: « Il gran desiderio di Nostro Signore che il suo sacro Cuore sia onorato con qualche omaggio particolare si è per rinnovare nelle anime i frutti della sua Redenzione, facendo di questo sacro Cuore come un secondo mediatore fra Dio e gli uomini ». Qui la parola vi si trova, con la: legazione che le conviene ; ma quando anche manca la parola, si sente che l’idea è sempre presente. E in questo senso, infatti, che essa parla « di un ultimo sforzo » dell’amore di Gesù, nella manifestazione del suo divin Cuore; di una « redenzione amorosa » per la mediazione di questo sacro Cuore; di una nuova effusione, per il dono unico del « Cuore di Dio », di « tutti i tesori d’amore, di misericordia, di grazia, di santificazione e salute » che contiene. Sarebbe ben facile raccogliere nelle opere della beata, mille espressioni della medesima idea. Quelle che più meritano di esser notate, le abbiamo già fatte notare. Se ne troveranno altre, quando parleremo delle promesse del sacro Cuore. Per la beata è dunque un grande avvenimento, nella storia del mondo la manifestazione dei sacro Cuore. È come un’era novella, che comincia, per tutti quelli che vorranno mettersi sotto la protezione di questo Cuore divino. Non già che Gesù non fosse già nostro, con tutti i suoi tesori, per mezzo della Incarnazione e della Redenzione; ma vi è qui come un nuovo passo di Gesù verso di noi, e come una nuova offerta di tutto quello che è, di tutto quello che ha, con questo suo dono del Cuore. Sembra quasi che Gesù si concentri nel suo Cuore, per darci tutto se stesso nell’offrircelo. E il carattere proprio di questa offerta si è di essere un’offerta tutta d’amore. Certamente l’incarnazione, la redenzione, tutti i benefici di Gesù, erano di già l’effetto di un amore appassionato ed erano già stati presentati come tali da Gesù medesimo, da San Giovanni, da San Paolo, da tutta la tradizione cristiana. Ma, nella manifestazione del sacro Cuore a Margherita Maria, si rivela una nuova manifestazione d’amore, così viva ed appassionata, che diviene un nuovo, pressante invito ad amare, Il dono del sacro Cuore è come l’amore di Gesù che si avvicina a noi. La divozione a questo Cuore adorabile, è dunque il culto di quest’amore, l’omaggio che si fa al suo Cuore appassionato d’amore è un omaggio fatto a Gesù; noi andiamo al Cuore, per arrivare a Gesù, amandolo sempre più ardentemente. Si comprende, perciò, tutta l’importanza che Margherita Maria annetteva alla nuova divozione, tutta l’importanza che ha realmente. Non è una divozione inventata dall’uomo, non è che la risposta a una nuova manifestazione dall’amore divino. Quando si riflette a tutto questo, si capisce ancora come Monsignor Bougaud abbia potuto scrivere: « La divozione al sacro Cuore è, certamente, la rivelazione più importante che abbia irradiato la Chiesa, dopo quelle della Incarnazione e della Eucaristia. È la maggiore esplosione di luce che si sia avuta dopo la Pentecoste » (Histoìre de la B. Marguerite Marie, c. XIV, p. 331). Queste parole hanno bisogno d’interpretazione; certo non bisogna attribuire ad esse tutto il rigore teologico (Per quanto, secondo lo storico, le rivelazioni di Paray possano essere autorizzate, sono sempre, però, rivelazioni private, senza valore ufficiale e le cui garanzie e autorità non potrebbero essere confrontate con le rivelazioni fatte autenticamente all’umanità. Del resto questa è chiusa per sempre sino dalla fine dei tempi apostolici), ma, ben comprese, esprimono sempre un pensiero vero. – Così, secondo Margherita Maria, il sacro Cuore riassume tutto Gesù; il dono del sacro Cuore è, per così dire, un nuovo dono di Gesù agli uomini, un nuovo avvicinarsi di Gesù a noi. Veramente non si potrebbe dare una idea più grandiosa e più giusta di questa devozione.

IL CATECHISMO DELLA MAMMA (2)

Il CATECHISMO DELLA MAMMA [II]

LA RELIGIONE SPIEGATA AI BAMBINI DA L’ABATE DE SAINT-.JEAN

Nihil obstat

Ian. 1933

Can.cus DOCT. I. DAL SASSO Cens. Eccl.

Imprimatur:

Patavii, die l4 Ian. 1933

CAN. CUS DOCT. P . CARMIGNOTO Vic. Gen.

Tipografia del Seminario – 1933

QUARTA LEZIONE

SPIEGAZIONE

Gesù Salvatore

Il bambino. – Gesù Cristo, mamma, non era dunque il più forte, poiché si è lasciato uccidere dai cattivi Giudei?

La mamma. – Gesù Cristo, bimbo mio, era, sì, il più forte; Egli era Dio; Egli non avrebbe avuto che a dire una parola, una parola sola come quando creò il mondo, e questa parola avrebbe rovesciato tutti i cattivi Giudei.

Il bambino. – E perché non la disse questa parola?

La mamma. – Perché Gesù Cristo doveva soffrire e morire per noi; sì, per te, mio caro, per la tua mammina, per tutti gli uomini.

Il bambino. – Per noi, mamma?

La mamma. – Sì, mio caro, sono le nostre cattive azioni, voglio dire i nostri peccati, che obbligarono Gesù Cristo a venire sulla terra a soffrire e morire per noi.

Il bambino. – Vuoi dirmi un po’ in qual modo, mamma?

La mamma. – Lo farò, bimbo mio, ma sarà una storia un po’ lunga.

Il bambino. – Tu sai, mamma, che io preferisco le lunghe storie.

La mamma. – La mia lunga storia si chiama storia della REDENZIONE DEGLI UOMINI.

Il bambino – Ripetimi questa difficile parola, mamma.

La mamma. – Dico: Redenzione degli uomini; una storia dove gli uomini tutti sono SALVATI da Gesù Cristo il Figlio di Dio.

Il bambino. – Erano dunque perduti gli uomini, se Gesù Cristo è venuto a salvarli?

La mamma. – Sì, bimbo mio, noi eravamo tutti nello stato orribile di un uomo che sta per annegare. Gesù Cristo è venuto in nostro soccorso; Egli è il nostro Salvatore.

Il bambino. – Allora, mamma, tutti gli uomini sarebbero annegati, senza Gesù Cristo loro Salvatore?

La mamma. – Fu per meglio farti capire la storia della Redenzione che ho detto de l’uomo che annegava. Ecco dunque, mio caro, quello che avvenne. Quando Dio fece il primo primo padre e la prima madre di tutti

gli uomini, che noi chiamiamo Adamo ed Eva, Dio diede loro molta felicità. Essi vivevano in un luogo magnifico chiamato il paradiso terrestre e il loro corpo allora non poteva né soffrire, né morire. Avevano soprattutto la grazia che li faceva tanto cari a Dio.

Il bambino. – Come sarei stato felice io, mamma, se fossi stato al posto di Adamo ed Eva!

La mamma. – Essi perdettero però questa grande felicità per colpa loro.

Il bambino. – In che modo, mamma?

La mamma. — Dio volle sapere se Adamo ed Eva meritavano una felicità che essi dovevano soltanto alla sua bontà. Per conoscere l’obbedienza dei nostri primi genitori, Dio disse loro: « Voi non mangerete il frutto di quel tale albero ».

Il bambino. – Io non l’avrei mangiato quel frutto!

La mamma. – Adamo ed Eva, da principio, parlarono come te; ma il frutto proibito parve loro cosi bello che essi pensarono dovesse essere buono assai; e la nostra madre Eva ne mangiò per la prima e il nostro padre Adamo, per compiacere la sua compagna, a sua volta mangiò pure una parte del frutto.

Il bambino. – E che fece Dio allora?

La mamma. – Cacciò dal paradiso terrestre i nostri primi genitori.

Il bambino. – Ben fatto per loro!

La mamma. – In causa di questa disobbedienza, Adamo ed Eva separati da Dio, perdettero colla grazia tutta la loro felicità, conobbero il dolore, furono obbligati a lavorare penosamente e morirono come muoiono gli altri uomini.

Il bambino. – Come furono disgraziati! E Dio ha loro perdonato?

La mamma. – Dio promise di mandare sulla terra il suo Divin Figliolo a meritare a tutti gli uomini i1 perdono.

Il bambino. – Ma gli altri uomini non avevano mica mangiato il frutto proibito, Dio non aveva dunque niente da perdonare a loro, mamma?

La mamma. – La colpa dei nostri primi genitori aveva portato danno a tutti gli uomini, privandoci del paradiso, dove non avremmo mai potuto entrare.

Il bambino. – Perché, mamma, la porta del paradiso fu chiusa a tutti gli uomini?

La mamma. – Perché la colpa di Adamo aveva impresso su tutta l’umana famiglia una macchia che nessuno poteva cancellare. È quello che si chiama il peccato originale. E non si può entrare in paradiso con una macchia.

Il bambino. – Non ti sembra, mamma, che Dio sia stato molto severo?

La mamma. – Al contrario, figliuolo mio, Dio fu così buono che per cancellare codesta macchia e permettere a tutti gli uomini di entrare in paradiso, ha permesso al Figlio suo di sostenere egli stesso il castigo che Adamo aveva meritato per la sua disobbedienza.

Il bambino. – Allora, mamma, è Gesù che ha preso il posto di Adamo e il nostro?

La mamma. – Sì, figliuolo mio, Gesù stette davanti al Padre suo, come il colpevole.

Il bambino. – E quale fu il suo castigo?

La mamma. – Per meritarci il perdono del suo Padre e ottenerci alla fine della nostra vita la felicità di essere sempre con Dio, Gesù Cristo s’è fatto uomo.

Il bambino. – Lo so, mamma, questo è il mistero de l’Incarnazione.

La mamma. – Ed ora ecco, bimbo mio, il MISTERO DELLA REDENZIONE. Al fine di salvare tutti gli uomini, Gesù Cristo è morto per loro. Capisci ora tu, perché Gesù Cristo si è lasciato mettere a morte senza resistere, senza neppure un lamento, dai cattivi Giudei?

Il bambino. – Lo capisco, mamma, ma dimmi ancora come è morto questo Gesù così buono?

La mamma. – Lo hanno inchiodato sopra una croce fra due ladroni.

Il bambino. – Oh, come i chiodi devono aver fatto male alle sue mani e ai suoi piedi, mamma!

La mamma. – Un male ch’è impossibile ch’io ti dica, bimbo mio. Tu vedi quanto la nostra felicità è costata cara a Gesù!

II bambino. – Mamma, e che giorno è morto Gesù Cristo?

La mamma. – GESÙ CRISTO È MORTO IL VENERDÌ SANTO.

Il bambino. – E dove?

La mamma. – A GERUSALEMME, sopra un monte detto Calvario.

Il bambino. – E poi, mamma, che cosa avvenne?

La mamma. – Il terzo giorno dopo la sua morte, ossia il giorno di Pasqua, Gesù Cristo uscì vivo DAL SEPOLCRO dove il suo corpo era stato deposto.

Il bambino. – Lo si vide dunque ancora, Gesù Cristo?

La mamma. – Sì, mio caro, lo si vide ancora, si toccarono i suoi piedi e le sue mani, trafitti da grossi chiodi, e si mangiò e si bevette con Lui.

Il bambino. – E si può ancora vederlo?

La mamma. – No, bimbo mio, perché È RITORNATO AL CIELO, QUARANTA GIORNI DOPO LA SUA RISURREZIONE, IL GIORNO DELL’ASCENSIONE. Ed è nel paradiso, ossia nel cielo, che Egli ci aspetta.

Il bambino. – Dunque, mamma, Gesù Cristo non ritornerà più sulla terra?

La mamma. – Vi ritornerà alla fine del mondo, per giudicare tutti gli uomini.

Il bambino. – Perché gli uomini saranno giudicati?

La mamma. – Per sapere se essi avranno meritata la felicità del paradiso.

Il bambino. – Ma poiché Gesù Cristo è morto per guadagnare agli uomini il paradiso, gli uomini devono essere sicuri di entrarvi.

La mamma. – Vi sono degli uomini, bimbo mio, che per loro colpa possono di nuovo perdere tanta felicità.

Il bambino. – E come?

La mamma. – Facendo il male e morendo senza averne chiesto perdono a Dio.

Il bambino. – Che ne sarà di codesti uomini cattivi?

La mamma. – Essi saranno puniti, e questa volta il castigo durerà sempre. Questo castigo sarà l’INFERNO.

Il bambino. – E gli uomini buoni, avranno essi una ricompensa che durerà sempre?

La mamma. — Certamente, mio caro. Gli uomini buoni avranno la felicità di vedere Dio sempre e di amarlo sempre. Questo è il cielo.

QUARTA LEZIONE

RECITAZIONE

Gesù Salvatore

D. Perché il Figlio di Dio s’è fatto uomo?

R. Il Figlio di Dio s’è fatto uomo per salvarci.

D. Da che cosa ci ha salvati Gesù Cristo?

R. Dalla morte eterna meritata per il peccato dei nostri primi genitori.

D. Quali furono i nostri primi genitori?

R. I nostri primi genitori, ossia il primo uomo e la prima donna, furono Adamo ed Eva.

D. Come si chiama il peccato dei nostri primi genitori?

R. Si chiama il peccato originale.

D. In qual modo Gesù Cristo ci ha salvati?

R. Soffrendo e morendo per noi sulla croce.

D. Come chiamate il mistero del Figlio di Dio morto sulla Croce per salvare gli uomini?

R. Si chiama il mistero della Redenzione.

D. In che giorno è morto Gesù Cristo?

R. II Venerdì Santo.

D. Gesù Cristo è rimasto fra i morti?

R. – No, Gesù Cristo è risuscitato il terzo giorno dopo la sua morte, vale a dire il giorno di Pasqua.

D. – Che fece Gesù Cristo appena risuscitato?

R. – Durante quaranta giorni Gesù Cristo si mostrò ai suoi discepoli e li istruì.

D. – Che cosa fece in seguito?

R. – Salì al cielo.

D. – In che giorno Gesù Cristo è salito al cielo?

R. – Il giorno de l’Ascensione.

D. – Che cosa fece Gesù quando fu salito al cielo?

R. – Gesù Cristo mandò lo Spirito Santo ai suoi Apostoli.

D. – Che giorno?

R. – Il giorno di Pentecoste, il cinquantesimo giorno dopo Pasqua.

D. – Ritornerà Gesù Cristo sulla terra?

R. – Sì, Gesù Cristo ritornerà sulla terra alla fine del mondo.

D. – Perché?

R. – Per giudicare tutti gli uomini del bene e del male che essi avranno fatto.

QUINTA LEZIONE

SPIEGAZIONE

I comandamenti di Dio

Il bambino. – E il tuo bambino, mamma, credi tu che andrà in Paradiso?

La mamma. – Si, il mio bambino andrà in Paradiso se farà il bene.

Il bambino – Come lo si fa il bene, mamma?

La mamma. – Obbedendo come si conviene a Dio.

Il bambino. – E come si obbedisce a Dio?

La mamma. – Facendo tutto quello che Egli ci ha comandato.

Il bambino. – E che cosa ci ha comandato Dio?

La mamma. – Tu stai imparandolo ogni giorno, mattina e sera, quando reciti con me le tua preghierina. Ricordati, mio caro, dei DIECI COMANDAMENTI DI DIO.

Il bambino. – Dieci ve ne sono, mamma?

La mamma. – Sì, bimbo mio, tanto che i comandamenti di Dio si chiamano: il DECALOGO O le DIECI PAROLE. – Questi comandamenti, Dio li diede a Mosè, sul monte Sinai, fra lampi e tuoni. Mosè era il condottiero degli Ebrei. Egli riportò al suo popolo i dieci comandamenti di Dio scolpiti su tavole di pietra, che furono chiamate le Tavole della legge.

Il bambino. – Vuoi, mamma, spiegarmi i dieci comandamenti, perché io possa obbedire a Dio?

La mamma. – Ben volentieri, mio caro. Ti parlerò anzitutto dei tre primi comandamenti che riguardano Dio. Ascoltami.

Il bambino. – Sì, mamma.

La mamma. – Dio, col primo comandamento ci ordina di rimanere a lui fedeli, il che vuol dire di non dimenticarlo e non abbandonarlo.

Il bambino. – Che cosa si deve fare per rimanere fedeli a Dio?

La mamma. – Quattro cose, figliuolo mio:

1° CREDERE IN DIO, perché Egli non può ingannarsi, né ingannare noi.

2° SPERARE IN LUI, perché Egli mantiene tutte le sue promesse.

AMARLO CON TUTTO IL CUORE e sopra ogni cosa.

4° ADORARE LUI SOLO, perché Egli solo può essere riconosciuto come il padrone di tutte le cose.

Il bambino. – E può un bambino come me fare tutto questo, mamma?

La mamma. – Sì, bimbo mio, tu fai tutto questo mediante le tue preghiere quando reciti con tutto il cuore GLI ATTI di Fede, DI SPERANZA E DI CARITÀ.

Il bambino. – E poi, mamma?

La mamma. — Poi, col secondo comandamento Dio ci domanda di non giurare contro la verità e di non bestemmiare.

Il bambino. – Che cos’è giurare contro la verità?

La mamma. – È quando gli uomini dicono: Giuro davanti a Dio che la tal cosa è vera, ed invece tale cosa è falsa.

Il bambino. – Che cos’è bestemmiare?

La mamma. – È il dire parole ingiuriose contro Dio o contro la sua santa Religione.

Il bambino. – Chi le dice codeste parole ingiuriose?

La mamma. – Gli uomini maleducati, gli empi e quelli che si adirano. S’ingiuria sovente Dio nei momenti di collera. – Passiamo al terzo comandamento.

Il bambino. – Riguarda anche me questo comandamento, mamma?

La mamma. – Riguarda tutti gli uomini, come tutti i comandamenti di Dio. Ed è anche per tutti i bambini ragionevoli come il mio tesorino.

Il bambino. – E che cosa dice esso, mamma?

La mamma. – Ci ricorda che noi dobbiamo passare santamente la domenica.

Il bambino. – Che cosa si deve fare per passare santamente la domenica?

La mamma. – Bisogna andare alla Messa e non lavorare, quel giorno.

Il bambino. – Allora, mamma, io non devo in quel giorno fare il mio compito scritto?

La mamma. – Sono i lavori dei campi e di officina che Dio proibisce, lavori che si chiamano opere servili.

– Vengono adesso altri comandamenti di Dio che riguardano il prossimo.

Il bambino. – Che cos’è il prossimo, mamma?

La mamma. – Son tutti gli uomini, bimbo mio, anche i nostri nemici; intendo quelli che ci hanno fatto del male. Dio vuole che noi siamo buoni col prossimo. E prossimo sono primamente i nostri genitori, poi i nostri maestri. Dio dunque ha fatto questo comandamento per ricordare ai fanciulli i loro doveri verso i genitori e i maestri che li rappresentano.

Il bambino. – Che cosa dice, mamma, questo comandamento?

La mamma. – Il quarto comandamento di Dio ci ordina di obbedire ai nostri genitori e ai nostri maestri. Tu sai, mio caro, come si deve obbedire?

Il bambino. – Sì, mamma, prontamente e senza mormorare.

La mamma. – Siamo giunti al quinto comandamento.

Questo ci PROIBISCE DI UCCIDERE E OFFENDERE il prossimo.

Il bambino. – Ma se il prossimo, mamma, fosse stato cattivo con noi?

La mamma. – Il male che noi faremmo al prossimo non sanerebbe quello che a noi fosse stato fatto; non vi sarebbe che un male di più, quello fatto da noi. E poi, bimbo mio, noi dobbiamo perdonare, se vogliamo che Dio perdoni a noi.

Il bambino. – Allora, mamma, non si possono picchiare i compagni, quando i compagni hanno picchiato noi?

La mamma. – No, bimbo mio, e quando si è litigato non bisogna mai rifiutare di fare la pace coi compagni.

Il bambino. – Sì, mamma, perdonerò.

La mamma. – Sta bene, figliuolo mio; se tu vuoi conservarti un fanciullo onesto e meritarti con la fiducia dei genitori quella dei tuoi compagni, non dimenticare mai ciò che proibiscono il settimo e l’ottavo comandamento di Dio.

Il bambino. – Oh, dimmi dunque, che cosa proibiscono essi?

La mamma. – Il settimo comandamento proibisce di PRENDERE E RITENERE QUELLO CHE NON È  NOSTRO.

L’ottavo comandamento proibisce di mentire. Capisci, bambino mio?

Il bambino. – Sì, mamma, non bisogna essere né ladro, né bugiardo.

La mamma. – Poiché tu hai così bene inteso, non ho bisogno di spiegarti il decimo comandamento, il quale non fa che completare il settimo. Questo decimo comandamento ci proibisce perfino di desiderare quelle cose che non ci appartengono.

Il bambino. – Credo, mamma, che tu abbia dimenticato di parlarmi del sesto e del nono comandamento di Dio.

La mamma. – Questi due comandamenti ci proibiscono i pensieri e le azioni impure.

Il bambino. – E se si disobbedisse ai comandamenti di Dio, che cosa ne verrebbe, mamma?

La mamma. – Un peccato, bimbo mio. Tutte le disobbedienze ai comandamenti di Dio sono peccati. Ve ne sono di più gravi che si chiamano MORTALI e meritano l’inferno; e di meno gravi che si chiamano VENIALI, e fanno sì che il Signore ci ami meno.

Il bambino. – E che cosa si acquista quando si obbedisce come si deve, ai comandamenti di Dio?

La mamma. – Il Paradiso.

QUINTA LEZIONE

RECITAZIONE

I comandamenti di Dio

D. Che cosa dobbiamo fare per salvarci?

R. Bisogna obbedire ai comandamenti di Dio.

D. Quanti sono i comandamenti di Dio ?

R. I comandamenti di Dio sono dieci.

D. Recitateli:

Io sono il Signore Dio tuo:

Non avrai altro Dio fuori di me.

Non nominare il nome di Dio invano.

Ricordati di santificare le feste.

Onora il padre e la madre.

Non ammazzare.

Non commettere atti impuri.

Non rubare.

Non dire falsa testimonianza.

Non desiderare la donna d’altri.

Non desiderare la roba d’altri.

D. Che cosa ci ordina Dio col primo comandamento?

R. Dio ci ordina di rendere a Lui tutto quello che gli è dovuto.

D. Che cosa dobbiamo noi a Dio ?

R. Noi dobbiamo: 1° Credere in Lui; – 2° Sperare in Lui; – 3° Amarlo con tutto il cuore; – 4° Adorare lui solo.

D. Quali sono le virtù inerenti a tali atti?

R. Credere in Dio, è la virtù della Fede; sperare in Dio, è la virtù della Speranza; amare Dio con tutto il nostro cuore, è la virtù della Carità; adorare Lui solo, è la virtù della Religione.

D. Che cosa ci ordina Dio col secondo comandamento?

R. Ci ordina di non giurare contro la verità e di non bestemmiare il suo santo nome.

D. Che cosa ci ordina Dio col terzo comandamento?

R. Dio ci ordina di passare santamente la Domenica.

D. Che cosa si deve fare per santamente passare la Domenica?

R. Bisogna andare alla S. Messa e non lavorare quel giorno in opere servili.

D. Che cosa ci ordina Dio col quarto comandamento?

R. Dio ci ordina di rispettare i nostri genitori, di obbedir loro e venir loro in aiuto.

D. Non si devono rispettare altre persone?

R. Sì, i nostri superiori, i nostri maestri.

D. Che cosa ci ordina il quinto comandamento?

R. Dio ci ordina di rispettare la vita del prossimo, ossia di non ucciderlo, né fargli del male, né dir male di lui.

D. Che cos’è il prossimo?

R. Prossimo, sono tutti gli uomini.

D. I nostri nemici, sono anch’essi prossimo nostro?

R. Sì, e noi dobbiamo pregare per essi.

D. Che cosa ci ordina il sesto comandamento?

R. Il sesto comandamento ci ordina di essere puri di corpo e di spirito.

D. Che cosa ci ordina il settimo comandamento?

Col settimo comandamento, Dio ci ordina di non prendere né ritenere quello che non ci appartiene.

D. Che cosa ci ordina l’ottavo comandamento?

R. Dio ci ordina con l’ottavo comandamento, di non mentire.

D. Che cosa ci ordina il nono comandamento?

R. Dio ci ordina di non pensare a cose impure e di non desiderare di commettere impure azioni.

D. Che cosa ci ordina il decimo comandamento?

R. Col decimo comandamento Dio ci ordina di non desiderare quei beni che non ci appartengono.

IL PECCATO E I FINI ULTIMI

D. Qual male commette colui che disobbedisce ai comandamenti di Dio ?

R. Colui che disobbedisce ai comandamenti di Dio commette un peccato.

D. Vi sono più sorta di peccati?

R. Sì, perché vi sono più sorta di disobbedienze, di gravi e di leggere.

D. Come chiamate una grave disobbedienza ai comandamenti di Dio?

R. – Chiamo questa disobbedienza un peccato mortale.

D. — Come chiamate una disobbedienza leggera ai comandamenti di Dio?

R. – Chiamo questa disobbedienza un peccato veniale.

D. – Qual è il castigo meritato per il peccato mortale?

R. – È l’Inferno.

D. – Che cos’è l’Inferno?

R. – È la separazione eterna da Dio, con tormenti che non finiranno mai.

D. – Qual è il castigo meritato pel peccato veniale?

R. – È il Purgatorio.

D. – Che cos’è il Purgatorio?

R. – È la temporanea separazione da Dio, con delle sofferenze per purificare le anime dai resti del peccato.

D. – Conoscete voi altri peccati a l’infuori delle disobbedienze ai comandamenti di Dio?

R. – Vi sono sette altri peccati che si chiamano capitali, perché sono la sorgente di tutti gli altri peccati.

D. – Quali sono?

R. – 1° La superbia; 2° l’avarizia; 3° la lussuria; 4° l’ira; 5° la gola, 6° l’invidia; 7° l’accidia.

D. – Quale sarà la ricompensa di coloro che avranno obbedito ai comandamenti di Dio e che avranno fuggito il peccato?

R. – Il Cielo.

D. – Che cos’è il Cielo?

R. – È la vista e il possesso di Dio per sempre.

SESTA LEZIONE

SPIEGAZIONE

La grazia e i sette sacramenti

II bambino. – È molto difficile, mamma, di non disobbedire proprio mai ai comandamenti di Dio?

La mamma. – Questo sarebbe perfino impossibile, mio figliuolo, SENZA LA GRAZIA DI DIO.

Il bambino. – Che cos’è la grazia di Dio?

La mamma. – È l’aiuto di Dio. Noi non potremmo obbedire come si conviene a Dio, se Dio stesso non ci aiutasse ad obbedirgli.

Il bambino. – Ma se proprio lo si volesse, mamma, non credi tu che si potrebbe obbedirgli anche da soli?

La mamma. – Non sempre, bimbo mio. Noi siamo così deboli e la voglia di disobbedirgli è talvolta così grande, che per restar buoni noi abbiamo bisogno della forza di Dio.

Il bambino. – Allora, mamma, quando io sono cattivo è perché Dio non ha voluto aiutarmi ad essere buono?

La mamma. – No, mio caro; Dio non rifiuta mai di aiutarci, perché Egli non ci rifiuta mai le sue grazie. Ma Dio non può costringerci a fare il bene contro la nostra volontà.

Il bambino. – Ma si, mamma, poiché Dio è il più forte!

La mamma. – Dio è più forte de l’uomo, ma l’uomo è libero, egli può scegliere tra il bene ed il male. E Dio, caro bambino, ha voluto che l’obbedienza de l’uomo fosse libera per poterla ricompensare.

Il bambino. – E quando si è prescelto il male e si è rifiutato la grazia di Dio, Dio si disgusta con noi?

La mamma. – Iddio, mio caro, perdona sempre; ma quando si è commesso un peccato, la grazia si spegne ne l’anima nostra, come il fuoco sul focolare. Essa si spegne un poco se il peccato è veniale; si spegne completamente se il peccato è mortale.

Il bambino. – E non può più riaccendersi la grazia?

La mamma. – Sì, Iddio può ancora riaccendere la sua grazia nelle anime nostre, purché ci pentiamo dei nostri peccati secondo il modo che Egli ha stabilito, come ti spiegherò più tardi.

Il bambino. – La grazia, mamma, può anche crescere nell’anima nostra?

La mamma. – Sì, mio caro, con le preghiere, con le opere buone, e specialmente con l’uso dei SS. Sacramenti a ciò destinati. I Sacramenti racchiudono la GRAZIA e la riversano nelle anime nostre, come i piccoli canali portano l’acqua al fiume.

Il bambino. – Che cosa sono i Sacramenti?

La mamma. – Anziché dirtelo, preferisco darti una spiegazione; tu capirai meglio, bimbo mio. Stammi attento.

Il bambino. – Sì, mamma.

La mamma. – Quando sei ritornato dalla scuola, l’altro giorno, che cosa recavi sul petto?

Il bambino. – La croce d’onore.

La mamma. — Che cosa significa quella croce, bimbo mio?

Il bambino. – Che io avevo studiato bene e che ero stato molto buono.

La mamma. – La croce era dunque un SEGNO del tuo merito, voglio dire la prova del tuo lavoro e della tua bontà.

Il bambino. — Sì, mamma.

La mamma. — Vedi ora il fumo che esce dal camino?

Il bambino. — Lo vedo, ed è ben azzurro quest’oggi.

La mamma. – Dimmi, poiché lo vedi, che cosa ti indica quel fumo azzurrino?

Il bambino. – Mi indica che sul focolare arde il fuoco.

La mamma. – Benissimo, bimbo mio. Ora tu potrai forse capire che cosa sia un Sacramento. È un SEGNO SENSIBILE scelto da Gesù Cristo per darci la grazia.

Il bambino. – Che cos’è un segno sensibile?

La mamma. – È un segno che si può vedere, toccare, udire.

Il bambino. – E perché Gesù Cristo ha Egli scelto dei segni per darci la grazia?

La mamma. – Perché noi meglio intendessimo quello che ogni Sacramento produce nelle anime nostre. I Sacramenti sono un po’ come i rimedi del farmacista. Sono i rimedi di Dio; ve ne sono per tutte le malattie e per tutti i bisogni delle nostre anime.

Il bambino. – Dimostrami come, mammina.

La mamma. – È facilissimo, bimbo mio. Tu sai come l’acqua serve a lavare quello che è sudicio. Essa fu scelta da Gesù Cristo come segno sensibile del Sacramento che deve lavare l’anima nostra dal peccato originale. L’olio rende più forti e più flessibili le membra de l’uomo. Esso è il segno sensibile del Sacramento che dà la forza e la dolcezza alle anime nostre. Il pane è stato usato per un altro Sacramento, affine di dimostrarci che l’anima nostra ha bisogno di un nutrimento, come il nostro corpo. E cosi per ogni Sacramento.

Il bambino. – Ve ne sono dunque molti Sacramenti, mamma?

La mamma. – Sono sette, mio caro.

Il bambino. – Sai tu, mamma, come si chiamano?

La mamma. – Ecco il loro nome: Il Battesimo, la Cresima, l’Eucaristia, la Penitenza, l’Estrema Unzione, l’Ordine, il Matrimonio.

Il bambino. – Qual è, mamma, il Sacramento che, come tu mi hai detto, lava l’anima dal peccato originale?

La mamma. – Tu lo hai ricevuto, bimbo mio, appena nato, la prima volta che ti portarono alla chiesa; questo Sacramento si chiama il Battesimo.

II bambino. — Come hanno fatto, mamma, per darmi il Battesimo?

La mamma. – Il sacerdote ha versato l’acqua sulla tua fronte dicendo: Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. In quel momento tu sei divenuto CRISTIANO, un FIGLIOLINO DI DIO.

Il bambino. – Ma sono però sempre figliolino tuo, mamma?

La mamma. – Sì, mio caro, tu fosti e sarai sempre mio figlio. Ma nel farti battezzare io ti ho dato a Dio perché Egli ti protegga sulla terra e ti doni più tardi il suo Paradiso. Gesù stesso volle essere battezzato da Giovanni Battista per santificare le acque del nostro Battesimo.

Il bambino. – E il Sacramento per il quale si adopera l’olio, come lo chiami, mamma ?

La mamma. – Vi sono tre sacramenti dei quali l’olio è il segno sensibile. Vi è dapprima il Sacramento della Cresima che fa scendere in noi lo Spirito Santo, la terza Persona della SS. Trinità. E lo spirito Santo ci rende miti e forti insieme.

Il bambino. – E l’altro, mamma?

La mamma. – L’altro è il Sacramento della Estrema Unzione che si dà agli ammalati per aiutarli a morir bene, ed anche per guarirli, se così piace a Dio.

Il bambino. – E l’altro?

La mamma. – L’altro è quello che si riceve per divenire sacerdote. È il Sacramento de l’Ordine.

Il bambino. – Tu mi hai anche parlato, mamma, di un Sacramento del quale è segno il pane?

La mamma. – È il Sacramento che tu riceverai quando farai la tua prima comunione, è l’Eucaristia. – Tu hai veduto in chiesa la piccola ostia bianca che il sacerdote trae dal tabernacolo durante la Messa? Quando quell’ostia verrà sulle tue labbra, non dimenticare, bimbo mio, che il sacerdote l’avrà mutata in quello che è il corpo, il sangue, l’anima e la divinità di Gesù Cristo.

Il bambino. – Dì, mamma, non soffre Dio, quando lo si mangia?

La mamma. – No, mio caro, Gesù Cristo risuscitato non può più né soffrire, né morire.

Il bambino. – Di’ ancora, mamma, come può Dio venire nella piccola ostia?

La mamma. – Egli vi viene per la potenza che ha data al sacerdote. Questi rappresenta Gesù Cristo a l’altare; egli non ha che a ripetere le parole dette da Gesù Cristo la vigilia della sua morte: « QUESTO È IL MIO CORPO, QUESTO È IL MIO SANGUE ». E la piccola ostia bianca diventa il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Questo è il pane del cielo offerto alle anime nostre per nutrirle.

Il bambino. – E quando le dice, il sacerdote, queste parole?

La mamma. – Durante la Messa, a l’elevazione, nel momento che il campanello suona e tutte le teste si chinano. Il campanello ci annuncia che il pane del Cielo, vale a dire Gesù Cristo, è sceso su l’altare per nutrire le anime nostre.

Il bambino. – E tutti, mamma, possono mangiare questo pane del cielo?

La mamma. – Sì, mio caro, tutti quelli che credono Gesù presente ne l’ostia e non hanno a rimproverarsi alcun peccato mortale, possono mangiare di questo pane, cioè comunicarsi.

Il bambino. – E quando si ha rimorso di un peccato mortale, che cosa si deve fare?

La mamma. – Si va in Chiesa, dal signor Parroco o da un altro sacerdote, gli si dice il nostro peccato o piuttosto tutti i nostri peccati. È quello che si chiama CONFESSARSI. E se noi siamo molto addolorati delle nostre colpe e ben decisi a non più commetterle, il sacerdote ci dà l’ASSOLUZIONE, che vuol dire il perdono di Dio. Noi allora avremo ricevuto il Sacramento di Penitenza. Hai capito, mio caro?

Il bambino. – Sì, mamma.

La mamma. – Avrei a parlarti ancora del settimo Sacramento, ma tu non sei in grado di riceverlo.

Il bambino. – Quale, mamma?

La mamma. – È il Sacramento del Matrimonio.

I I bambino. – Quando si riceve il Sacramento del Matrimonio?

La mamma. – Quando ci si sposa in chiesa.

Il bambino. – E quelli che non vanno a sposarsi in chiesa?

La mamma. – Possono essere sposati davanti al mondo, ma non sono sposati davanti a Dio.

Il bambino. – Dunque, mamma, quelli che non si sposano in chiesa, non amano Dio?

La mamma. – Senza dubbio, mio figliuolo.

SESTA LEZIONE

RECITAZIONE

La grazia e i sette sacramenti

PARTE PRIMA

Della grazia

D. Possiamo noi con le sole nostre forze obbedire come si conviene ai comandamenti di Dio?

R. No; noi non lo possiamo che con la grazia di Dio.

D. Che cos’è la grazia?

R. È il soccorso che Dio ci dà per aiutarci a fare il bene.

D. Chi ci ha meritato la grazia?

R. Nostro Signore Gesù Cristo.

D. Che cosa si deve fare per ricevere la grazia meritataci da Gesù Cristo?

R. Bisogna domandarla con la preghiera e renderci cari a Dio mediante le nostre buone opere.

D. Qual è la migliore delle preghiere?

R. È il Padre Nostro o l’Orazione Domenicale, la preghiera che ci ha insegnato Gesù Cristo stesso.

D. Qual è, dopo il Padre nostro, la preghiera più bella?

R. È l’Ave Maria o la Salutazione Angelica, la preghiera che noi indirizziamo alla Vergine Santa, nostra Madre del Cielo.

D. Che cosa chiamate voi opere buone?

R. Tutto quello che noi facciamo per venire in aiuto al prossimo e piacere a Dio.

D. Dio, non ci dà egli la grazia in altra maniera?

R. Sì, Egli ce la dà anche e sopra tutto per mezzo dei Sacramenti.

PARTE SECONDA

Dei Sacramenti

I.

IL BATTESIMO E LA CRESIMA

D. Che cosa sono i Sacramenti?

R. Sono segni sacri scelti da Nostro Signore Gesù Cristo per darci la grazia e renderci santi.

D. Quanti Sacramenti vi sono?

R. Vi sono sette Sacramenti: Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Estrema Unzione, Ordine e Matrimonio.

D. Che cos’è il Battesimo?

R. È il Sacramento che lava l’anima dal peccato originale.

D. Il Battesimo non opera null’altro in noi?

R. Esso ci fa Cristiani, ossia figli di Dio e della Chiesa.

D. Quando avete voi ricevuto il Battesimo?

R. Ho ricevuto il Battesimo il giorno che il sacerdote versò dell’acqua sulla mia fronte dicendo: Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo.

D. Che cos’è la Cresima?

R. È un sacramento che ci dona lo Spirito Santo e che ci rende perfetti Cristiani.

II.

LA PENITENZA

D. Che cos’è il sacramento della Penitenza?

R. È il sacramento che cancella i peccati commessi dopo il nostro Battesimo.

D. Quando si riceve il sacramento della Penitenza?

R. Quando si va a confessarsi e il sacerdote ci dà l’assoluzione.

D. Che cos’è l’assoluzione?

R. È il perdono di Dio.

D. Che cosa si deve fare per ricevere be ne il perdono di Dio?

R. Si devono fare tre cose:

Detestare i propri peccati.

2° Accusarli al sacerdote senza tacerne neppur uno.

3° Dire le preghiere imposte dal sacerdote.

D. Quale preghiera si deve dire mentre il sacerdote ci dà l’assoluzione?

R. Si deve dire con tutto il cuore l’atto di contrizione.

D. Dite l’atto di contrizione.

R. Mio Dio, mi pento con tutto il cuore dei miei peccati. Mi pento per l’inferno che ho meritato e per il Paradiso che ho perduto. Ma molto più mi pento perché peccando ho offeso un Dio così buono, così grande come siete Voi. Vorrei prima esser morto che avervi offeso, e propongo fermamente di non peccare più per 1’avvenire e di fuggire le occasioni prossime di peccato.

III.

L’EUCARISTIA

Che cos’è l’Eucaristia?

È il sacramento che ci dà Nostro Signore Gesù Cristo.

D. Quando si riceve il Sacramento dell’Eucaristia?

R. Quando ci si comunica.

D. Che cosa vuol dire comunicarsi?

R. Ricevere il corpo, il sangue, l’anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo presente ne l’ostia.

D. Quando Nostro Signore Gesù Cristo discende ne l’Ostia?

R. Durante la Messa, quando il sacerdote cambia l’ostia nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo.

D. Come il sacerdote cambia l’ostia nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo?

R. Dicendo nel nome di Gesù Cristo : « Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue».

D. Bisogna desiderare di comunicarsi?

R. Sì, noi dobbiamo desiderarlo con tutto il cuore.

D. Chi può comunicarsi?

R. Colui che crede che Gesù Cristo è presente ne l’ostia e sa di non essere in peccato mortale.

D. – Chi si comunicasse sapendo di essere in peccato mortale che colpa commetterebbe?

R. – Farebbe un sacrilegio, ch’è un enorme delitto.

D. – Si può mangiare, prima di comunicarsi?

R. – No, bisogna essere a digiuno, ossia non avere bevuto né mangiato niente dalla mezzanotte.

IV.

L’ESTREMA UNZIONE, L’ORDINE E IL MATRIMONIO

D. – Che cos’è l’Estrema Unzione?

R. – È il Sacramento che ricevono quelli che sono gravemente malati.

D. – Perché si dà questo Sacramento ai malati?

R. – Per aiutarli a morire santamente e anche per guarirli se così piacerà a Dio.

D. – Che cos’ è l’Ordine?

R. – È il Sacramento che si riceve per divenir ministri della Chiesa.

D. – Che cos’è il Matrimonio?

R. – È il Sacramento che santifica l’unione de l’uomo e della donna.

D. – Come il Matrimonio santifica l’unione de l’uomo e della donna?

R. – Dando loro la grazia di vivere insieme cristianamente e di educare i loro figli ne l’amore di Dio.

SETTIMA LEZIONE

SPIEGAZIONE

La Chiesa

Il bambino. – In qual libro, mamma, hai tu imparato le belle storie che mi hai raccontato intorno a Dio e al piccolo Gesù?

La mamma. – Nel catechismo, bimbo mo.

Il bambino. – Che cos’è il catechismo?

La mamma. – È un piccolo libro che parla come noi parliamo, con domande e risposte.

Il bambino. – E sono vere, mamma, le storie di quel piccolo libro?

La mamma. – Vere, mio caro, quanto è vero il mio amore per te.

Il bambino. – E chi l’ha fatto, il catechismo?

La mamma. – È stata la Chiesa, figlio mio.

Il bambino. – La Chiesa, mamma? La Chiesa?

La mamma. – Sì, la Chiesa; e ti dirò che cosa essa sia. È la grande famiglia religiosa della quale Gesù Cristo è il capo.

Il bambino. – E come fece la Chiesa per fare il catechismo?

La mamma. – È pur questa una bella storia che ti posso narrare, bimbo mio.

Il bambino. – Dì su, mamma.

La mamma. – Gesù Cristo scelse dodici uomini ai quali insegnò la sua religione.

Il bambino. – Come me l’insegni tu, mamma?

La mamma. – Sì, un po’ così, bambino mio. Di questi poveri uomini Gesù volle fare i predicatori della sua religione, ovvero i suoi Apostoli. Prima di lasciare la terra, Egli disse dunque ai dodici Apostoli: ” Andate a battezzare tutti gli uomini e insegnate loro tutto quello che Io ho insegnato a voi ,,.

Il bambino. – E lo fecero, mamma?

La mamma. – Sì, essi fecero tutto quello che il loro Maestro aveva comandato; essi portarono nel mondo la buona novella della religione di Gesù Cristo.

Il bambino. – Ma il piccolo catechismo, mamma?

La mamma. – Aspetta un poco. Eccomi al piccolo catechismo. Siccome i dodici Apostoli dovevano andare ciascuno per la propria via, prima di separarsi si misero d’accordo per predicare ovunque le medesime cose, voglio dire le medesime verità.

Il bambino. – E come fecero, mamma, per predicare ovunque le medesime cose?

La mamma. — Composero quella preghiera che tu reciti mattina e sera e si chiama il Simbolo degli Apostoli o il Credo. È il primo catechismo, quello che ha servito a comporre il catechismo che tu imparerai per la tua prima comunione.

Il bambino. – Ma se lo hanno fatto gli Apostoli, mamma, il primo catechismo, non fu più la Chiesa a farlo?

La mamma. – Gli Apostoli hanno fatto il primo catechismo e hanno diffusa, nello stesso tempo, la Chiesa istituita da Gesù Cristo.

Il bambino. – Raccontami anche questa storia, mamma!

La mamma. – Ti dissi, bimbo mio, che la Chiesa era la grande società religiosa della quale Gesù Cristo era il capo.

Il bambino. – No, tu m’hai detto: una grande famiglia religiosa.

La mamma. – Una grande famiglia religiosa o una società religiosa, è la stessa cosa. In una famiglia come in una società, vi sono quelli che comandano e quelli che obbediscono. Così è anche in casa nostra, lo sai.

Il bambino. — Sì, mamma; papà e mamma comandano, ed io obbedisco.

La mamma. – E così è anche nella Chiesa. Gesù Cristo è il padre, ossia il capo di famiglia; tutti quelli che credono in lui e obbediscono ai suoi comandamenti, sono suoi figli. Si chiamano i fedeli.

Il bambino. – Sì, mamma, i fedeli sono i figli della Chiesa.

La mamma. – Questa società i cui fedeli sono oggi in tutti i paesi del mondo, è Gesù Cristo che l’ha fondata e diffusa poi a mezzo dei suoi Apostoli e loro successori. È Lui che ha dato un capo alla Chiesa.

Il bambino. – Ma il capo, mamma, non era bell’e pronto, poiché era Gesù Cristo?

La mamma. – Senza dubbio, mio caro. Ma Gesù Cristo non doveva rimanere sempre sulla terra. Occorreva qualcuno che lo sostituisse.

Il bambino. – Un luogotenente, mamma?

La mamma. – Sì, bimbo mio, e questo luogotenente fu un Apostolo.

Il bambino. – Come si chiamava egli?

La mamma. – Si chiamava Pietro; e Gesù Cristo lo fece sotto i suoi ordini capo della Chiesa quando gli disse: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa „.

Il bambino. – E gli altri Apostoli, mamma, non furono dei capi?

La mamma. – Essi pure comandarono sotto gli ordini de l’Apostolo Pietro, come l’Apostolo Pietro comandava sotto gli ordini di Gesù Cristo.

Il bambino. – E quelli che dovevano obbedire, quelli che tu chiami i fedeli, chi li diede alla Chiesa, mamma?

La mamma. – Gli Apostoli, figliuolo mio. Tutti quelli che ebbero fiducia negli Apostoli, si strinsero intorno ad essi. Essi credettero tutto quello che credevano gli Apostoli, essi fecero tutto quello che gli Apostoli dissero loro di fare. Fu una famiglia modello, la Chiesa.

Il bambino. – E sono morti, gli Apostoli?

La mamma. — Sì, bimbo mio.

Il bambino. – Allora non c’è più Chiesa, poiché non c’è più nessuno che la comandi?

La mamma. – La Chiesa non muore, mio caro.

Il bambino. – Perché, mamma?

La mamma. – Perché Gesù Cristo deve sempre rimanere con essa, ossia sempre guidarla da l’alto del Cielo.

Il bambino. – So bene che Gesù Cristo non muore. Ma gli Apostoli sono morti. Furono essi sostituiti?

La mamma. – Sì, bimbo mio; essi ebbero i loro successori.

Il bambino. – Qual è il successore di S. Pietro?

La mamma. – È il Papa. Da Gesù Cristo in poi, sempre vi furono dei Papi e sempre ve ne saranno. Il Papa d’oggi si chiama Pio XI.

Il bambino. – E dov’è?

La mamma. – A Roma, dove tutti lo possono vedere.

Il bambino. – Ma tu non mi hai detto chi abbia sostituito gli Apostoli?

La mamma. – I successori degli Apostoli sono i Vescovi.

Il bambino. – E i primi figli della Chiesa, chi li ha sostituiti?

La mamma. – Tutti quelli che seguono la religione di Gesù Cristo e obbediscono ai capi che Egli ha posti sulla terra.

Il bambino. – E i sacerdoti, a chi obbediscono?

La mamma. – Essi obbediscono ai Vescovi dei quali sono i rappresentanti, come i Vescovi obbediscono al Papa. È per questo che noi dobbiamo ascoltare i sacerdoti quando ci parlano nel nome di Gesù Cristo, come i figli ascoltano il loro padre.

Il bambino. – Come si chiamano oggi i figli della Chiesa?

La mamma. – Si chiamano i CATTOLICI, bambino mio.

Il bambino. – Che cosa significa questo nome?

La mamma. – Il nome di cattolico vuol dire che si appartiene ad una religione fatta per tutti gli uomini e diffusa per tutto l’universo.

Il bambino. – Sono io cattolico, mamma?

La mamma. – Sì, bimbo mio; ma devo dirti che per essere buon cattolico bisogna credere tutto quello che la Chiesa c’insegna e fare tutto quello che essa ci dice di fare. Tu reciti, per esempio, nella tua preghiera, i cinque comandamenti della Chiesa; ebbene, quando sarai più istruito nella tua religione, dovrai obbedire a questi comandamenti.

Il bambino. – E quando si è morti, mamma, si appartiene ancora alla Chiesa?

La mamma. – Quando si muore, bambino mio, con dei peccati mortali dei quali non si è ottenuto il perdono, questi peccati ci conducono immediatamente in un luogo di supplizi che si chiama l’INFERNO e dove si rimane per sempre. Allora da se stessi ci si cancella dal libro della Chiesa.

Il bambino. – E se non si muore con peccati mortali?

La mamma. – Si può morire, mio caro, con dei peccati veniali e andar a soffrire in PURGATORIO per i propri peccati. Ma si resta in Purgatorio solo quel tanto che occorre per fare la propria penitenza. E si è sempre della Chiesa che prega per la nostra liberazione.

Il bambino. – E se quando si muore l’anima fosse candida candida…?

La mamma. – Si va subito in CIELO, mio caro. E in Cielo si ritrova ancora la Chiesa, non più nella prova e nella sofferenza, ma nella felicità e nella gloria.

Il bambino. – E quelli che vanno in Cielo, mamma, non dimenticano quelli che restano sulla terra?

La mamma. – No, bimbo mio. La Chiesa della terra, la Chiesa del Purgatorio e quella del Cielo, che sono come un corpo solo del quale Gesù Cristo è il capo, non possono dimenticarsi. La Chiesa della terra viene in aiuto con le sue preghiere e le sue buone opere alla Chiesa del Purgatorio, e la Chiesa del Cielo intercede le grazie a quella della terra. È questa unione del Purgatorio, del Cielo e della terra, che si chiama la Comunione dei Santi.

Il bambino. – Che cosa sono i Santi?

La mamma. – Quelli dei quali l’anima è senza macchia davanti a Dio, come quella del bambino appena battezzato.

Il bambino. – E quando si faccia una macchia ne l’anima, non si può più essere santo?

La mamma. – Bisogna lavare codesta macchia facendo penitenza, e allora ritorniamo quali Dio ci vuole.

Il bambino. – Si conoscono i Santi, mamma?

La mamma. – Tu troverai i loro nomi nel calendario, ma ve ne sono altri, e sono così numerosi che non si possono contare. Dio li conosce, e tanto basta.

Il bambino. – E d io, mammina, posso essere santo?

La mamma. – Sì, bimbo mio.

Il bambino. – Che cosa si deve fare?

La mamma. – Bisogna in primo luogo non somigliare ai fanciulli disobbedienti, bugiardi, invidiosi, cattivi, golosi, vani, pigri. E poi ricorda bene quest’ultima lezione.

Il bambino. – Quale, mamma?

La mamma. – Tutto quello che tu fai, bambino mio, fallo per piacere a Dio.

SETTIMA LEZIONE

RECITAZIONE

La Chiesa

D. – Che cos’è la Chiesa?

R. – È la società religiosa l’ondata da Gesù Cristo per continuare L’opera sua sulla terra.

D. – Quali sono i capi di questa società?

R. – Il Papa e i Vescovi.

D. – Chi è il Papa ?

R. È il successore di S. Pietro.

D. – Chi era S. Pietro?

R. – Un povero pescatore di Galilea che Gesù Cristo scelse per farlo capo dei suoi Apostoli e della sua Chiesa.

D. – Che cos’erano gli Apostoli?

R. – I primi predicatori della religione cristiana.

D. – Che cosa sono i Vescovi?

R. – Sono i successori degli Apostoli.

D. – Dove si trova la Chiesa?

R. – Essa è diffusa su tutta la terra.

D. – Si deve obbedire ai capi della Chiesa?

R. – Sì, noi dobbiamo obbedir loro, perché essi rappresentano Nostro Signore Gesù Cristo.

D. – Vi sono comandamenti della Chiesa?

R. – Sì, ve ne sono cinque.

D. – Quali sono?

R. – 1. Udir la Messa le domeniche e le altre feste comandate.

2. Non mangiar carne nei Venerdì e negli altri giorni proibiti, e digiunare nei giorni comandati.

3. Confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi almeno a Pasqua.

4. Soccorrere la Chiesa nelle sue necessità, secondo le leggi e le usanze.

5. Non celebrare solennemente le nozze nei tempi proibiti.

D. — Che cosa ci ordinano i comandamenti della Chiesa?

R. – Il primo comandamento ci ordina di passare santamente i giorni di festa. – Il secondo, ci ordina di osservare il digiuno e l’astinenza nei giorni comandati dalla Chiesa, quando l’età ce ne fa un obbligo. – Il terzo, ci ordina di comunicarci almeno una volta a l’anno, a Pasqua. – Il quarto, ci ordina di fare elemosina e soccorrere la Chiesa nelle sue necessità. – Il quinto, di non celebrare nozze solenni nei giorni proibiti.

D. – La Chiesa, si trova essa soltanto sulla terra?

R. – Essa esiste anche nel Cielo, dove sono le anime dei santi, e nel Purgatorio, dove sono le anime di coloro che sono morti in grazia di Dio, ma che hanno ancora da scontare qualche pena per i loro peccati.

D. – I santi del cielo, le anime del Purgatorio, e i fedeli della terra, sono essi uniti fra loro?

R. – Sì, essi sono uniti fra loro coi vincoli della carità e della preghiera.

D. – Come chiamate voi questa unione?

R. – Io la chiamo la Comunione dei Santi.

D. – Quali sono in Cielo i compagni dei Santi?

R. – Gli angeli.

D. – Che cosa sono gli angeli?

R. – Sono spiriti.

D. – Che cosa fanno gli angeli in Cielo?

R. – Essi lodano Dio e gli obbediscono.

D. – Non vi sono degli Angeli che Dio ha incaricato di vegliare su di noi?

R. — Sì, e si chiamano gli Angeli custodi.

D. – Dove vanno coloro che seguono i consigli dei loro Angeli custodi?

R. – In Cielo, dove questi Angeli hanno ricevuto missione di condurli.

D. – Gli Angeli custodi come ci fanno sentire i loro buoni consigli?

R. Colle buone inspirazioni e mediante la voce della nostra coscienza.

D. Che cos’è la coscienza?

R. È la voce interiore che ci dice: Questo è bene, questo è male. Bisogna fare il bene, bisogna evitare il male.

D. Si deve obbedire alla propria coscienza?

R. Sempre.

* * *

PREGHIERE DEL BAMBINO

Nel nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.

Mio Dio, credo in Voi.

Spero in Voi.

Vi amo e vi adoro con tutto il mio cuore.

PADRE NOSTRO

Padre nostro, che sei nei cieli: sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno: sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non c’indurre in tentazione: ma liberaci dal male. Così sia.

AVE MARIA

Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e ne l’ora della nostra morte. Così sia.

CREDO

Io credo in Dio Padre onnipotente creatore del cielo e della terra; ed in Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, nostro Signore; il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso morto e seppellito; discese all’inferno; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica, la comunione dei Santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Così sia.

A L’ANGELO CUSTODE

Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla pietà celeste. Così sia.

* * *

Mio Dio, vi dono il mio cuore, il mio spirito e la mia vita.

* * *

Nel nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA – OTTOBRE 2020

OTTOBRE  è il mese che la Chiesa Cattolica dedica al Santo Rosario, agli Angeli custodi, a CRISTO RE.

Indulgenze per il mese di OTTOBRE:

398

Fidelibus, qui mense octobri saltem tertiam Rosarii partem sive publice sive privatim pia mente recitaverint, conceditur:

Indulgentia septem annorum quovis die;

Indulgentia plenaria, si die festo B . M. V. de Rosario et per totam octavam idem pietatis obsequium præstiterint, et præterea admissa sua confessi fuerint, ad eucharisticum Convivium accesserint et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitationem instituerint;

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si post octavam sacratissimi Rosarii saltem decem diebus eamdem recitationem persolverint (S. C. Indulg., 23 iul. 1898 et 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932). 81028

RECITATIO ROSARII

395

a) Fidelibus, si tertiam Rosarii partem devote recitaverint, conceditur: Indulgentia quinque annorum;

Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem præstiterint (Bulla Ea quæ ex fidelium, Sixti Pp. IV, 12 maii 1479; S. C. Indulg., 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932 et 22 ian. 1952).

ORATIO AD D. N. IESUM CHRISTUM REGEM

Indulg. plenaria suetis condicionibus semel in die (272)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

 La Festa di Cristo Re

Scopo della festa di Cristo Re

[SS. Pio XI: Quas primas]

… E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. – Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale. – D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace. – E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori. – In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. – Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza. – Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i Cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

* * *

« Tutte le volte che ci è data l’occasione di accrescere nel popolo Cristiano il culto e l’amore verso la gloriosa Madre di Dio, la Nostra gioia e la Nostra soddisfazione sono al colmo. E ciò perché non solo la cosa è di per sé stessa importantissima e feconda di buoni frutti, ma si armonizza anche nel modo migliore con i sentimenti più intimi del Nostro cuore. Succhiata, in verità, col latte materno, la Nostra pietà verso Maria è poi sempre venuta crescendo e rassodandosi in Noi, con il passare degli anni. E ciò perché la Nostra intelligenza sempre più chiaramente comprendeva quanto fosse degna di amore e di lode colei che Dio stesso amò per il primo ,e con tale affetto da innalzarla al disopra di tutte le creature, arricchirla dei più magnifici doni, e sceglierla, infine, per sua Madre. D’altra parte, le numerose e fulgide prove della sua bontà e benevolenza verso di Noi – prove che Noi non possiamo ricordare senza la più profonda gratitudine e senza versare lacrime di commozione – aumentarono sempre più in Noi questa pietà e più ardentemente la infiammarono. Poiché, in mezzo alle molte, svariate e terribili vicissitudini, che abbiamo attraversato, abbiamo fatto sempre ricorso a lei e a lei abbiamo sempre rivolto il Nostro sguardo, E dopo aver deposte nel suo seno tutte le Nostre speranze e i Nostri timori, le gioie e le tristezze, fu Nostra costante premura di supplicarla, perché volesse, in ogni occasione, assisterci come una madre tenerissima, e ottenerci, in cambio, il singolare favore di poterle testimoniare il Nostro affetto devoto e filiale… »

[S. S. LEONE XIII: Magnæ Dei matris]

Le feste del mese di OTTOBRE 2020 sono:

1 Ottobre S. Remigii Episcopi et Confessoris    Feria

2 Ottobre

Ss. Angelorum Custodum    Duplex majus *L1*

          PRIMO VENERDI

3 Ottobre S. Theresiæ a Jesu Infante Virginis    Duplex

          PRIMO SABATO

4 Ottobre Dominica XVIII Post Pentecosten II. Octobris    Semiduplex Dom. Min.

                     S. Francisci Confessoris    Duplex majus

5 Ottobre Ss. Placidi et Sociorum Martyrum    Feria

 6 Ottobre S. Brunonis Confessoris

7 Ottobre Beatæ Mariæ Virginis a Rosario  Duplex II. classis *L1*

8 Ottobre S. Birgittæ Viduæ  Duplex

9 Ottobre S. Joannis Leonardi Confessoris    Duplex

10 Ottobre S. Francisci Borgiæ Confessoris    Semiduplex

11 Ottobre Dominica XIX Post Pentecosten II. Octobris    Semidup. Dom. min.

               Maternitatis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

12 Ottobre Sanctae Mariae Sabbato    Simplex

13 Ottobre  S. Eduardi Regis Confessoris   

14 Ottobre S. Callisti Papæ et Martyris    Duplex

15 Ottobre S. Teresiæ Virginis    Duplex

16 Ottobre S. Hedwigis Viduæ    Semiduplex

17 Ottobre S. Margaritæ Mariæ Alacoque Virginis    Duplex

18 Ottobre Dominica XX Post Pentecosten III. Octobris  Semidupl. Dom. minor

                    S. Lucæ Evangelistæ    Duplex II. classis

19 Ottobre S. Petri de Alcantara Confessoris    Duplex

20 Ottobre  S. Joannis Cantii Confessoris   

21 Ottobre S. Hilarionis Abbatis  Feria

23 Ottobre S. Antonio Maria Claret Episcopi et Confessoris

24 Ottobre

S. Raphaëlis Archangeli  Duplex majus *L1*

25 Ottobre Dominica XXI Post Pentecosten IV. Octobri  Semidupl. Dom. minor *I*

                Domini Nostri Jesu Christi Regis    Duplex I. classis *L1*

                    Ss. Chrysanthi et Dariæ Martyrum    Feria

26 Ottobre S. Evaristi Papæ et Martyris    Feria

28 Ottobre

Ss. Simonis et Judæ Apostolorum    Duplex II. classis *L1*

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (42)

SUNTO STORICO DELLE ERESIE NEL LORO RAPPORTO COL PANTEISMO E COL SOCIALISMO (5).

[A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. I – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

Eresie del terzo periodo – III –

VIII. — Mentre l’esperienza di questa verità si compieva in grande nella guerra degli albigesi, essa ricominciava nelle cattedre filosofiche di Parigi e riusciva rapidamente alle medesime conseguenze, Amalrico di Chartres professava la logica e l’esegesi all’università di Parigi. Interpretando falsamente questa proposizione di Erigena: « Ogni cosa è di Dio, ogni cosa è manifestazione di Dio » , egli diffuse tra i suoi contemporanei una dottrina strettamente panteistica. Quantunque egli avesse avviluppato il suo errore in un insegnamento in apparenza ortodosso, pur la Chiesa, sentinella vigilante della fede e dell’incivilimento, lo scoprì; la Sorbona di Parigi pronunziò contro di lui una sentenza che il Papa confermò, e che fece morir Amalrico di angoscia e di rabbia. Alla sua morte fu manifesto che egli aveva un certo numero di aderenti, tra i quali Guglielmo di Champeux e Davide di Dinan, pel cui mezzo la peste del panteismo distese i suoi guasti. Da questa fatale proposizione che egli aveva insegnato: « Tutto è uno; e uno è tutto; questo tutto è Dio,—l’idea è la medesima cosa che Dio, « fu veduta uscirne la sovversione di ogni idea morale e sociale. Il dogma della Trinità, donde esce cosi mirabilmente il dogma dell’Incarnazione, il quale mediante i sacramenti va a cogliere l’umanità ne’ suoi diversi stati, e col mezzo del concorso della libertà e della grazia, l’unisce al Cristo per unirla a Dio; quest’ammirabile economia della dottrina cattolica, in cui tutto è distinto e tutto è unito per essere santificato, diventava ciò che vediam qui nell’eresia di questi settarii: « Bisogna intendere pel Padre il periodo reale della storia del mondo, nella quale la vita dei sensi domina come avvenne ne’ tempi dell’antico Testamento; il Figliuolo è il periodo ideale e reale, durante il quale l’uomo entra in sé medesimo, senza però che lo spirito possa ancor trionfare del mondo esteriore e che l’ideale e il reale siano coordinati. Finalmente, lo spirito si manifesta nel periodo puramente ideale e consegue la vittoria. Per conseguenza i sacramenti istituiti dal Cristo il Battesimo, la Penitenza, l’Eucaristia, non hanno più senso: e ciascuno trova la sua salute nell’ispirazione immediata dello Spirito Santo e senza alcuna pratica esteriore. L’ispirazione risulta dal raccoglimento dello spirito in sé. La santificazione non è altro che la coscienza della presenza di Dio, il pensiero dell’uno e del tutto. Il peccato consiste nello stato dell’uomo limitato nel tempo e nello spazio. Chiunque è nello Spirito Santo non può più contaminarsi, anche quando si abbandona alla fornicazione; ciascuno di noi è lo Spirito Santo (Engelhardt, Amalrico di Bene. – Trattato di storia ecclesiastica, n. 3 Conc. di Parigi. Atti) ».

IX. —Davide di Dinan si spogliò di questo viluppo mistico e confessò francamente il paganesimo panteistico, che fa di Dio il principio materiale di tutto. In breve il torrente di questa filosofia perversa andò a confondersi con quello di tutti i sistemi eretici dei catari, dei valdesi e degli albigesi. Movendo dal principio medesimo, cioè dal panteismo, gli uni e gli altri s’incontrano, non ostante la diversità dei loro errori, nel medesimo risultato, che è la barbarie. Da questa scuola, fulminata dalle decisioni del concilio di Parigi nel 1209, derivò la setta in parte montanista, in parte panteista, dei fratelli e delle sorelle del libero spirito, i quali traevano il loro nome dalla dottrina che professavano. Essi consideravano tutto le cose come una emanazione immediata di Dio e applicavano a sé medesimi le parole del Cristo : Io e il mio Padre siamo uno. Chiunque è giunto a questa convinzione, dicevan essi, non appartiene più al mondo dei sensi, non può più esserne contaminato, e non ha per conseguenza più bisogno di sacramenti. Separando assolutamente il corpo dallo spirito, essi pretendevano che gli eccessi della sensualità non hanno alcuna influenza sullo spirito, e perciò alcuni di loro si abbandonavano in tutta sicurezza alle più vergognose disonestà; non ammettendo alcuna differenza tra il vizio e la virtù, negavano l’inferno e la giustizia, e si lasciavano andare agli eccessi più abbominevoli. – Vestiti in guisa strana e talvolta ancora neppur vestiti, andavano qua e là errando in apparenza di mendicanti. Furono chiamati begardi o piccardi in Alemagna, e in Francia turlupini. Questi sanculots del Medio evo portarono il disordine del loro selvaggio comunismo a tal punto che la società e la Chiesa dovettero porre tutto in opera per rintuzzarli (Engelhardt, Storia ecclesiastica, tom. IV, pag. 151.— Alzog, tom. II, pag. 388. — Hurter, Storia d’ Innocenzo III, tom. II, pag. 302.—Moehler,  La Simbolica, tom. I, pag. 276).

X. — In questi tempi di pazzi e degradanti traviamenti si lovava sull’orizzonte del mondo cattolico uno de’ più sublimi, più vasti e più puri intelletti che abbiano onorato l’umanità; del quale non è detto quando si vorrebbe neppure applicando ad essa il supremo elogio che la Scrittura fa della natura umana denominandola per alcun poco inferiore agli angeli; Minuisti eum paulo minus ab angelis (Psal. VIII. 6). Io ho nominato l’angelo della teologia, l’aquila della filosofia, il gran san Tommaso. Questo luminoso genio fu suscitato da Dio in questo tempo di aberramento degli spiriti razionalisti e alla vigilia del gran divorzio tra la ragione e la fede mercé il protestantismo, per stringere tra l’una e l’altra la più bella alleanza, per determinare in qualche modo tutta l’altezza alla quale lo spirito umano può toccare, e tutta la possanza, la pienezza, la gravità che la ragione sviluppata sotto la scorta della fede può avere, e così far meglio sentire alla ragione tutta la fiacchezza, tutto l’oscuramento, tutta l’abiezione in cui cade, quando si separa dalla fede. – La gran Somma di san Tomaso pone e risolve tutte le questioni possibili sulla natura e i rapporti del finito e dell’ infinito. Ella sviluppa e determina al tempo stesso tutte le soluzioni con una sicurezza, facilità e rettitudine luminosa, la quale movendo dalla fede come da un centro comune, si spande in raggi intellettuali, che vanno in ogni verso a illuminare il più vasto orizzonte che possa essere aperto all’occhio dell’intelletto. In quest’opera incomparabile non si sente né timidezza, né ardimento, non stanchezza, non sforzo, non insufficienza, né esagerazione; ma un pieno, naturale e sicuro esercizio del pensiero, che bilancia il suo volo colla sua sommissione e riceve dalla fede una specie d’infallibilità intellettuale. Non v’ha questione agitata che san Tomaso non tratti a fondo, e ne eccita altre moltissime che non erano neppur sospettate. Ma dove lo spirito umano non può che suscitare le questioni senza risolverle, san Tomaso è in grado di risolverle prima di eccitarle, e non le eccita in certo qual modo che per la forma e per mostrare il rigore delle sue soluzioni, nessuna delle quali in sostanza forma questione, cotanto vi si fanno sentire la giustezza, l’armonia, la precisione propria della verità. Cosa sopra tutto notevole è che, mentre la ragione degli eresiarchi fin dal primo passo cade nel panteismo, la ragion cattolica di san Tommaso va sull’ orlo de’ precipizii, sino alle estremità più remote della natura e del fine delle cose, non vacillando né fallendo mai, trovando al contrario in queste medesime estremità la giustificazione armonica delle sue vedute e come la sonora ripercussione della verità. Oltre questa grand’opera, questa magnifica piramide della dottrina cattolica, che previene tutti gli errori e li distrugge implicitamente coll’esposizione e colla statica della verità, san Tomaso scrisse specialmente contra quel panteismo satanico ad una o due teste, che, venuto dall’ India e dalla Persia e raccogliendo tutti gli errori analoghi delle scuole talmudiche ed elleniche, aveva creato il primo pericolo all’incivilimento cristiano nelle sette gnostiche e neoplatoniche che lo aveva messo di bel nuovo in pericolo nelle eresie degli albigesi e de’ valdesi, e che respinto dal mezzogiorno dell’Europa, la pigliava ora da un altro lato introducendo il suo veleno in seno alle razze slave e germaniche. Il genio di san Tomaso venne in ajuto dell’incivilimento con due opere speciali: la Somma contra i gentili, nella quale la fede cattolica combatte gagliardamente il manicheismo (SUMMA CONTRA GENTES, in qua, libris quatuor, catholica fides in omnes orthodoxæ ecclesiæ perduelles acerrime propugnutur), e il suo trattato contra gli errori degli Orientali. Nelle quali dilegua le tenebre del panteismo ristabilendo con invincibile chiarezza la vera nozione diun Dio essenzialmente distinto da tutti gli esseri creati; considerando Dio in sé medesimo; poscia Dio per rapporto alle creature; indi lecreature per rapporto a Dio; e improntando queste distinzioni fondamentali e questi rapporti naturali coll’esposizione dell’unione ineffabile di Dio colla natura umana nell’incarnazione del Verbo, e di tutto il destino dell’uomo nel disegno generale del Cristianesimo.Quando la dottrina cattolica ebbe cosi ricevuto, sotto la penna di questo gran genio identificato colla fede, tutto lo sviluppo della sua esposizione e della sua sintesi, Dio permise all’errore di raccogliere anch’esso per mezzo di poderosi settari tutti gli elementi di falsa filosofia e di teologia errata, da cui l’Occidente era allora ammorbato.Viclefo e Giovanni Hus vennero ad apparecchiar le vie a Lutero.Dire che la loro separazione dalla dottrina cattolica e la loro caduta nel panteismo furono una cosa medesima, è indovinare infallibilmente i fatti, cotanto assoluta è la legge di questo rapporto.L’inglese Giovanni Viclefo si rendette da prima segnalato per la sua opposizione sistematica contro la Chiesa; e della negazione dell’autorità di lei egli, forse pel primo, fece l’oggetto della sua eresia.In breve vi mescolò un attacco contro i dogmi, segnatamentecontra quello della transustanziazione: e mentre abbandonava la Dottrina cattolica, le sostituiva la seguente dottrina: « Ciò che è Dio,secondo l’idea, è Dio medesimo, o l’idea è Dio. Ogni natura èDio, ed ogni essere è Dio. » —Non è cosa che arresti l’eresiarca nelle conseguenze del suo sistema: « Dunque, dice egli, un asinoè Dio (De ideis, cap. 2.) Staudenmaier, Filosofia del cristianesimo.— Alzog, Storia universale della Chiesa, tom. II, pag. 5883). »Ammesso una volta questo principio dell’identificazione panteistica di Dio coll’idea, tutto il rimanente del sistema conseguitava molto facilmente. Viclefo trascorreva sino a sostenere l’eternità reale delle cose e del tempo; la creazione tutta quanta non era che un’emanazione; il che trae seco il fato e la necessità del male che Wiclefo professa apertamente, non temendo punto di sottoporre a questa necessità Dio medesimo, di distruggere la sua libertà, del paro che quella della creatura, e di soggettare ogni cosa al giogo di questa stupida necessità. A questa dottrina già sì perversa Viclefo ne mescolava un’altra che aveva preso dagli albigesi, contro la proprietà. Gli albigesi avevano attaccato principalmente le proprietà ecclesiastiche; Viclefo generalizzò questo attacco stendendolo ad ogni proprietà, fondato su questo, che, per avere un dritto legittimo di possedere qualche cosa sulla terra, bisogna esser giusto, e che un uomo perdeva ogni diritto ai suoi possedimenti allora che commetteva un peccato mortale; e questa dottrina ei l’applicava ai signori, ai principi ed ai re, delparo che ai papi ed ai vescovi (Plaquet, dizionario delle eresie.).Viclefo vedeva chiaro che apriva col suo sistema la porta a tutti i delitti e alla distruzione d’ogni società. « Ma , soggiungeva egli,« se non mi si danno ragioni migliori di quelle che mi si vengono dicendo, io rimarrò confermato nel mio sentimento senza dirne parola (Bergier, Dizionario di Teologia). »Per mala ventura egli non stette silenzioso, e le sue predicazioni sovversive fecero nascere la setta de’ viclefiti, la quale s’ingrossò di quella de’ lollardi, che veniva dalla Boemia e aveva per autore Lollardo Walter, il quale non aveva fatto che riprodurre gli errori manichei degli albigesi contra i sacramenti e la penitenza, il matrimonio, la giustizia e la proprietà, e che aveva sopra questi tessuto quella dottrina realmente infernale, che i demonii erano stati ingiustamente scacciati dal cielo, che san Michele e gli angeli sarebbero un giorno dannati eternamente, del paro che quelli che non abbracciassero la sua dottrina. (La filiazione di tutte queste eresie è attestata da tutti gli storici: esse si completavano e si spiegavano le une per mezzo delle altre; a tal che per conoscere ciascuna di esse, si vogliono conoscer tutte, e non si fa alcuna ingiustizia dicendo che quella che sembrava la più innocente era solidaria della più colpevole. Era il medesimo veleno, il medesimo virus, ora latente, ora prorompente, e più pericoloso forse nel primo stato che nel secondo, perché si distendeva maggiormente. Bisogna esserne ben convinti che ogni eresia porta nel proprio seno la morte).

XI. — Giovanni Hus fu il discepolo el’erede immediato di Viclefo, egli non poté afferrare tutte le dottrine del teologo inglese; ma non gli sfuggirono i principali risultati, eli seppe difendere con abilità. Egli prese da esso sopra tutto la dottrina della predestinazione assoluta, dividendo gli uomini in eletti ed in riprovati da tutta l’eternità, checché facessero, non considerando che gli eletti come membri della vera Chiesa, e togliendone irremissibilmente gli altri, senza che alcun pentimento, alcuna ammenda potesse farveli rientrare. Egli mosse da questo punto per dire coi lollardi e coi valdesi che le potestà della Chiesa e la virtù dei sacramenti dipendevano dalla santità dei loro ministri e perivano in mani indegne di esercitarli. Estese naturalmente questa dottrina ai re, ai principi, ai signori e a tutte le superiorità sociali. E per conseguenza decise che quelli che sono viziosi sono di pien diritto scaduti dalla loro autorità e spogli del loro diritto, e che il popolo può a grado suo correggere i suoi padroni quando cadono in qualche colpa (Proposizione di Giovanni Hus condannata dal concilio di Costanza nella sua ottava sessione). Si comprende che la distruzione di ogni ordinamento sociale è l‘effetto immediato di una tale dottrina. Ciò non sarà vizioso e nol diventerà sopra tutto agli occhi di coloro che sono interessati a trovarlo tale? Chi è che non cada in qualche colpa?Gesù Cristo non ha eccettuato dalla comune miseria i ministri medesimi delle sue grazie, e fece con ciò due grandi cose: la prima, di far risplendere tanto più vivamente la purezza soprannaturale della dottrina, l’infallibilità del suo insegnamento e la virtù de’ suoi effetti, che si mantengono invariabilmente non ostante tutti gli accidenti umani, ed anche di quelli che ne sono l’organo; la seconda, di sostenere tutta quanta la società al di sopra del caos di questi accidenti, facendo poggiare l’autorità, che a tutti i gradi ne costituisce le basi, sopra un diritto superiore e indipendente. Tutta la società era dunque interessata nella controversia suscitata da Giovanni Hus contra la Chiesa e le sovranità. La santità de’ rappresentanti della Chiesa era del resto oscurata e come eclissata a quella età da una di quelle ombre che la terra getta talvolta sugli astri medesimi che la devono illuminare, e che anche dietro queste ombre sono non pertanto gli apportatori della luce. Non ci è per niun modo grave di confessarlo; nella parte terrestre della sua esistenza, non esente dalla corruzione della nostra natura, la Chiesa appresentava allora uno spettacolo affliggente di rilassatezza e di disordine. Sicuramente essi furono colpevoli e responsabili di molti mali quelli per la cui via giunse lo scandalo; ma non lo furono così da scaricar quelli che si scandalizzarono, e sopra tutto coloro che promossero lo scandalo e se ne giovarono, della responsabilità della rivolta, la quale ha voluto delle violazioni della dottrina accusare la dottrina stessa e abusò del male per far rigettare il rimedio, invece di provare l’infallibilità del rimedio applicandolo al male. Ciò che vi ha di peggio al mondo non sono le cattive azioni, sono le cattive dottrine che le scatenano. Per favorir quelle che egli voleva diffondere, Giovanni Hus, come tutti i settari che lo hanno seguito, esagerava sino alla calunnia il quadro della rilassatezza de’ costumi clericali in quel tempo, a tal punto di essere un giorno interrotto da un grave e onesto uditore, il quale gli disse: « Maestro , io sono andato a Roma, vi ho veduto il Papa e i cardinali; ma in verità essi non sono così cattivi come voi li dipingete. — Ebbene, se il Papa ti piace tanto, ripigliò Hus, corri un’altra volta a Roma e restaci. — No, maestro, replicò il suo interlocutore, io son troppo vecchio per fare il viaggio; ma voi che siete giovane andatevi, e troverete, ve Io ripeto, che le cose non vi sono così cattive come voi dite »

La Chiesa non chiudeva la bocca di quelli che manifestavano gli abusi de’ suoi ministri se non allora che questo appello alla riforma, era un appello alla ribellione, e non era ispirato che dallo spirito di orgoglio e di sovversione. Sempre saggia, anche ne’ rappresentanti che umanamente non erano sempre tali, essa ascoltava, che anzi suscitava de’ veri riformatori nel suo seno e riconosceva in essi con gioja il diritto e il dovere di rianimare la vita comune de’ fedeli, sino a fare dell’esercizio di questo diritto un titolo medesimo ai supremi onori della santità. Cosi furono accolti, incoraggiati e onorati, fra una moltitudine di altri, san Bernardo e santa Brigida, i quali dipinsero sotto i colori più vivi la rilassatezza della disciplina e ne invocarono con tutte le loro forze la riforma. Cosa ammirabile! Brigida fu precisamente canonizzata dal concilio che condannò Giovanni Hus. L’uno e l’altra avevano domandato la riforma; ma Brigida cominciando dal riformar sé medesima, e Giovanni Hus, come dopo di lui Lutero, lasciando libero il freno a tutte le passioni. Queste, scatenate e infiammate da Hus, tramutarono per ben sedici anni tutta l’Alemagna in un campo di stragi spaventevoli, d’incendi, di rapine, di orrori inauditi. La questione per la quale avvennero così gran guai sembra a prima giunta di nessun momento, e la filosofia moderna non mancò di gettar sul secolo che l’agitava e sulla Chiesa che la sosteneva tutti i superbi dileggi della ragione. Si trattava di sapere se il popolo farebbe o no, come il clero, la comunione sotto le due specie. Tale era la questione per la quale il suolo d’Alemagna fu seminato d’ossa umane. – Ma una tale questione, sebbene in apparenza semplice e leggiera, era la più gran questione che fosse stata agitata in seno alla società, o della barbarie o dell’incivilimento, una question di vita o di morte sociale, la question medesima che ci mette oggidì in tanto spavento; il socialismo, il comunismo. Quando le orde barbare degli ussiti si levarono mettendo il grido LA COPPA AL POPOLO! essi domandavano che fosse tolta ogni distinzione tra il clero e i fedeli, e che tutti fossero ammessi a bevere nella medesima coppa. Essi inauguravano sotto la forma più sacra la selvaggia divisa di eguaglianza e di fratellanza che ha insanguinato i nostri ultimi tempi. Essi trasformavano il dogma della carità infinità di Dio, la comunione, in comunismo, non pel fatto in sé medesimo della comunione sotto le due specie, ma per l’intenzione che la faceva loro domandare; intenzione al maggior segno perversa, poiché non credevano alla transustanziazione più che il loro capo Giovanni Hus che l’aveva attaccata, e perché la loro esigenza non era che la formula sacrilega di tutte le selvagge passioni contro la società. Del resto, fedeli eredi de’ gnostici, e precursori pe’ socialisti, al grido LA COPPA AL POPOLO! aggiungevano l’altro: LA PROPRIETÀ’ AL POPOLO! che ne derivava naturalmente; e i socialisti moderni non hanno mancato di salutare in essi con trasporto i loro fratelli ed amici e di stendere ad essi attraverso quattro secoli una mano congiurata contra la società e le sue sante leggi. – Col suo senso di profondo incivilimento e colla sua fermezza inflessibile, la Chiesa sostenne la furia della procella e pose al sicuro un’altra volta ancora, contra l’invasione della barbarie, l’ingrata società che doveva un giorno maledirla. Ma non era questo che il prologo di un più gran dramma, e questo secolo pieno di amarezza, come dice Bossuet, aveva partorito Lutero.