IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (4)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (4)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

CATECHISMO PER I FANCIULLI CHE COMPLETANO LA LORO ISTRUZIONE CATECHISTICA (2)

CAPO III.

Del Decalogo.

(I fanciulli recitino distintamente i Comandamenti del Decalogo).

Art. 1. — DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI DEL DECALOGO CHE RIGUARDANO I DOVERI VERSO DlO.

1° Non avrai altro Dio fuori che me;

2° non nominare il nome di Dio invano;

3° ricordati di santificare le feste.

D. 63. Che cosa proibisce Dio col primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me?

R. Col primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me, Dio proibisce di prestare alle creature il culto dovuto a Lui solo.

D. 64. Quale culto dobbiamo prestare a Dio?

R. A Dio, e solamente a Lui, dobbiamo prestare il culto supremo, ossia il culto d’adorazione.

D. 65. Non dobbiamo forse prestare culto anche ai Santi e alle loro reliquie?

R . Dobbiamo prestare culto anche ai Santi, specialmente alla beata Vergine Maria, e alle loro reliquie, ma un culto diverso e di ordine inferiore, cioè il culto della venerazione, per onorarli e conciliarci il loro patrocinio.

D. 66. Si deve prestare onore e venerazione anche alle sacre immagini?

R . Si deve prestare onore e venerazione anche alle sacre immagini, perché tale onore si riferisce a coloro che esse rappresentano.

D. 67. Che cosa Dio proibisce col secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano?

R. Col secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano, Dio proibisce qualunqueirriverenza verso il suo nome.

D. 68. E proibito di nominare invano anche il nome dei Santi?

R. È proibito di nominare invano anche il nome dei Santi, e specialmente della beata Vergine Maria, per la stessa ragione per cui li dobbiamo venerare.

D. 69. Che cosa comanda Dio col terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste?

R. Col terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste, Dio comanda di consacrare a Lui igiorni festivi, lasciate da parte le cure e i lavori materiali,come vien prescritto dalla legittima autorità.

Art. 2. — DEGLI ALTRI SETTE COMANDAMENTI DEL DECALOGO SUI DOVERI VERSO NOI STESSI E VERSO IL NOSTRO PROSSIMO.

4° Onora tuo padre e tua madre;

5° non ammazzare;

6° non commettere atti impuri;

7° non rubare;

8° non dire falsa testimonianza;

9° non desiderare la donna d’altri;

10° non desiderare la roba d’altri.

D. 70. Che cosa comanda Dio col quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre?

R. Col quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre Dio comanda che si presti ai genitorie a chi ne fa le veci il dovuto onore: cioè amore, rispetto,obbedienza e venerazione.

D. 71. Dobbiamo prestare ai genitori solamente onore?

R . Dobbiamo prestare ai genitori non solamente onore, ma anche aiuto, specialmente nelle loro necessità sia spirituali che temporali.

D. 72. Questo quarto comandamento prescrive solo i doveri dei figli verso i genitori?

R. No: questo comandamento prescrive non solo i doveri dei figli verso i genitori, ma indirettamente anche i doveri dei coniugi verso se stessi e verso i figli, ed anche i mutui diritti e doveri dei sudditi e dei superiori, degli operai e dei padroni.

D. 73. Quali doveri hanno i genitori verso i figli?

R. Per legge stessa di natura i genitori devono curare la buona educazione religiosa e morale dei figli e provvedere secondo le possibilità al loro benessere materiale.

D. 74. Che cosa proibisce Dio col quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare?

R. Col quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare, Dio proibisce di dar la morte o arrecar dannocorporale e spirituale al prossimo o a se stessi, o comunquedi cooperarvi.

D. 75. Che cosa proibisce Dio col sesto comandamento del Decalogo: Non commettere atti impuri?

R. Col sesto comandamento del Decalogo: Non commettere atti impuri Dio proibisce non solo l’infedeltà nelmatrimonio, ma ancora qualunque altro peccato esternocontro la castità e tutto ciò che induce al peccato d’impurità.

D. 76. Che cosa proibisce Dio col settimo comandamento del Decalogo: Non rubare?

R. Col settimo comandamento del Decalogo: Non rubare, Dio proibisce qualunque ingiusta usurpazione odanno alla roba altrui o comunque di cooperarvi.

D. 77. Che cosa proibisce Dio con l’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza?

R. Con l’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza, Dio proibisce la bugia, la falsatestimonianza e qualsiasi parola che possa comunquedanneggiare il prossimo.

D. 78. Che cosa proibisce Dio col nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri?

R. Col nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri Dio proibisce non solo tale cattivodesiderio ma anche qualunque peccato interno contro lacastità, come col sesto ne vieta espressamente i peccatiesterni.

D. 79. Che cosa proibisce Dio col decimo comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri?

R. Col decimo comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri Dio proibisce i desideri ingiusti edisordinati della roba altrui.

D. 80. Qual è il compendio di tutti i comandamenti del Decalogo?

R. Il compendio di tutti i comandamenti del Decalogo è: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; e il prossimo tuo come te stesso.

D. 81. Sono obbligati tutti a compiere anche i doveri del proprio stato?

R . Tutti sono obbligati a compiere con diligenza anche i doveri del proprio stato, cioè que’ doveri, ai quali ciascuno è tenuto in ragione della propria condizione, o del proprio ufficio.

CAPO IV.

Dei precetti della Chiesa.

(I fanciulli recitino distintamente i precetti della Chiesa).

D. 82. Quanti sono i precetti della Chiesa?

R . Molti sono i precetti della Chiesa che il cattolico è tenuto ad osservare; ma al principio di questo Catechismo sono stati numerati solo i cinque che più si riferiscono all’ordinaria vita spirituale di tutti i fedeli.

Art. 1. — DEL PRIMO PRECETTO DELLA CHIESA.

1° Nella domenica ed altre feste comandate udir la Messa ed astenersi dalle opere servili.

D. 83. Che cosa prescrive la Chiesa col suo primo precetto?

R . Col primo precetto la Chiesa prescrive il modo di santificare la domenica e le altre feste di precetto; che consiste specialmente nell’ascoltare la Messa e nell’astenersi dalle opere servili.

D. 84. Quali sono le opere servili?

R . Sono opere servili quelle solite a farsi dai servi o mercenari, quelle cioè che specialmente esercitano le forze del corpo e sono specialmente dirette alla sua utilità.

D. 85. Vi sono opere servili permesse nelle domeniche e nelle altre feste di precetto?

R . Nelle domeniche e nelle altre feste di precetto sono permesse quelle opere servili, che riguardano da vicino il culto di Dio e le ordinarie necessità dei servizi famigliari e pubblici; quelle che la carità esige; quelle che non possono omettersi senza grave incomodo, o che sono tollerate da una legittima consuetudine.

D. 86. Oltre all’udir la Messa, a quali opere conviene che il Cristiano si dedichi nelle domeniche e nelle altre feste di precetto?

R . Oltre all’udirla Messa, nelle domeniche e nelle altre feste di precetto conviene che il Cristiano, per quanto può, si dedichi ad opere di pietà e di religione, specialmente assistendo alle funzioni sacre, alle prediche e al catechismo.

Art. 2. — DEL SECONDO PRECETTO DELLA CHIESA.

2° Nei giorni prescritti dalla Chiesa non mangiar carne ed osservare il digiuno.

D. 87. Che cosa prescrive la Chiesa col secondo precetto?

R . Col secondo precetto la Chiesa prescrive che nei giorni da lei stabiliti si osservi o il solo digiuno, o la sola astinenza dalla carne, o il digiuno insieme e l’astinenza.

D. 88. Che cosa prescrive la legge del solo digiuno?

R. La legge del solo digiuno prescrive che si mangi solo una volta al giorno, senza vietare però di prendere qualcosa alla mattina e alla sera, attenendosi ad una approvata consuetudine del luogo per quanto riguarda la quantità e la qualità dei cibi.

D. 89. Che cosa vieta la legge della sola astinenza dalla carne?

R . La legge della sola astinenza dalla carne vieta l’uso della carne e de’ suoi estratti, ma non già l’uso delle uova, dei latticini e di qualunque condimento di grasso.

D. 90. In quali giorni obbligano queste leggi?

R . Ove non intervenga la dispensa dalla legittima autorità:

1° la legge della sola astinenza obbliga in ogni venerdì;

2° la legge della astinenza insieme e del digiuno obbliga nel mercoledì delle Ceneri, nei venerdì e sabati di Quaresima, nelle ferie dei quattro Tempi e nelle Vigilie di Pentecoste, dell’Assunzione della beata Vergine Maria (modificata in seguito, con la vigilia della festa della Immacolata Concezione – ndr.-), di Tutti i Santi e del Natale;

3° la legge del solo digiuno obbliga in tutti gli altri giorni di Quaresima, eccettuate le domeniche.

D. 91. Vi sono dei giorni in cui queste leggi non obbligano?

R. Sì: nelle domeniche, nelle altre feste di precetto e nel sabato Santo dopo il mezzogiorno, cessa la legge dell’astinenza, dell’astinenza e del digiuno e del solo digiuno, eccettuate le feste di precetto nel tempo di Quaresima; le vigilie poi non si anticipano.

D. 92. Chi deve osservare l’astinenza e il digiuno?

R . Se non vi è legittima scusa o dispensa, devono osservare l’astinenza tutti coloro che, acquistato sufficientemente l’uso di ragione, hanno compiuto il settimo anno di età; il digiuno poi tutti quelli che han compiuto il ventunesimo anno e non han raggiunto il sessantesimo.

Art. 3. — DEL TERZO E QUARTO PRECETTO DELLA CHIESA.

3° Confessarsi almeno una volta l’anno;

4° Comunicarsi almeno in occasione della Pasqua.

D. 93. Che cosa prescrive la Chiesa nel terzo precetto con le parole: Confessarsi almeno una volta l’anno?

R . Colle parole: Confessarsi almeno una volta l’anno la Chiesa prescrive che i fedeli, raggiunta l’età delladiscrezione, facciano almeno annualmente la confessionedei peccati mortali non direttamente rimessi in precedenticonfessioni.

D. 94. Che cosa prescrive la Chiesa nel quarto precetto con le parole: Comunicarsi almeno in occasionedella Pasqua?

R. Con le parole: Comunicarsi almeno in occasione della Pasqua la Chiesa prescrive che ciascun fedele, raggiuntal’età della discrezione, riceva la S. Eucaristia almenonel tempo pasquale.

D. 95. Perché la Chiesa nel terzo e nel quarto precetto usa la parola almeno?

R. La Chiesa nel terzo e nel quarto precetto usa la parola almeno per insegnarci esser cosa molto utile, e da Lei assai desiderata, che i fedeli, anche quelli che non hanno se non peccati veniali o mortali già direttamente rimessi, si confessino più spesso e con pietà e frequenza anche quotidiana, si accostino alla mensa Eucaristica.

D. 96. Cessa il precetto della Comunione, se non sia stato soddisfatto durante il tempo pasquale?

R . No; il precetto della Comunione, se non è stato soddisfatto durante il tempo pasquale, non cessa; ma si deve adempiere quanto prima, nel corso dello stesso anno.

D. 97. Si soddisfa al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale con una Confessione o Comunione sacrilega o con una Confessione invalida?

R. No: non si soddisfa al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale con una Confessione o Comunione sacrilega, né con una invalida Confessione; che anzi, per il nuovo peccato, il precetto urge maggiormente.

Art. 4. — DEL QUINTO PRECETTO DELLA CHIESA.

4° Sovvenire alle necessità della Chiesa e del Clero.

D. 98. Che cosa prescrive la Chiesa nel suo quinto precetto?

R. Nel quinto precetto la Chiesa inculca ai fedeli il divino mandato di venire in aiuto alle necessità temporali della Chiesa e del Clero, secondo gli statuti particolari e le lodevoli consuetudini.

D. 99. Perché tale precetto?

R . Perché è giusto che i fedeli diano ai sacri ministri, che lavorano per la loro salvezza, quanto è materialmente necessario al culto divino e ad un onesto loro sostentamento.

CAPO V.

Della Grazia.

D. 100. Che cos’è la grazia?

R . La grazia è un dono soprannaturale, da Dio concesso gratuitamente alla creatura ragionevole affinché essa possa conseguire la vita eterna.

D. 101. Di quante specie è la grazia?

R . La grazia è di due specie: abituale, che vien detta anche santificante, e attuale.

D. 102. Che cos’è la grazia abituale?

R . La grazia abituale è una qualità soprannaturale, inerente all’anima, che rende l’uomo partecipe della divina natura, tempio dello Spirito Santo, amico e figlio adottivo di Dio, erede della gloria celeste e perciò atto ad acquistare meriti per la vita eterna.

D. 103. È necessaria la grazia abituale per conseguire la vita eterna?

R. Sì: la grazia abituale è assolutamente necessaria a tutti gli uomini, anche ai bambini, perché conseguiscano la vita eterna.

D. 104. Come si perde la grazia abituale?

R . La grazia abituale si perde con qualunque peccato mortale.

D. 105. Che cos’è la grazia attuale?

R . La grazia attuale è un aiuto soprannaturale di Dio, che illumina l’intelligenza e muove la volontà a fare il bene e fuggire il male in ordine alla vita eterna.

D. 106. Ci è necessaria la grazia attuale?

R . Sì: la grazia attuale ci è assolutamente necessaria per fare il bene e fuggire il male in ordine alla vita eterna.

(I fanciulli recitino distintamente e con devozione il Pater Noster e l’Ave Maria).

D. 107. Che cos’è l’orazione?

R. L’orazione è una pia invocazione dell’anima a Dio per adorarlo, ringraziarlo de’ benefici ricevuti, chiedergli perdono per i peccati commessi e per domandargli tutto ciò che a noi o agli altri è necessario o utile.

D. 108. È necessario pregare?

R . Sì, è necessario pregare, perché tale è la volontà di Dio, e perché il Signore generalmente non suole concedere, se non a chi le chiede, tutte quelle cose di cui abbiamo continuamente bisogno.

D. 109. A chi è diretta la preghiera?

R. Ogni preghiera è diretta a Dio, che solo può darci ciò che chiediamo; ma preghiamo anche i Beati, specialmente la beata Vergine Maria, e le stesse anime purganti, affinché intercedano per noi presso il Signore.

D. 110. Come deve esser fatta la preghiera perché sia efficace?

R. La preghiera, perché sia efficace, deve esser fatta nel nome di Gesù Cristo, ai cui meriti si appoggia, con pietà, fede, speranza, umiltà e perseveranza.

D. 111. Qual è la più perfetta di tutte le preghiere?

R . La più perfetta di tutte le preghiere è l’orazione domenicale o Pater Noster, alla quale si suole aggiungere la salutazione angelica o Ave Maria.

SEZIONE 2a . — Dell’orazione domenicale e della salutazione angelica.

Art. 1. — DELL’ORAZIONE DOMENICALE.

Padre nostro che sei nei cieli,

sia santificato il tuo nome,

venga il tuo regno,

sia fatta la tua volontà, come in cielo cosi in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori,

e non ci indurre in tentazione,

ma liberaci dal male. Così sia.

D. 112. Perché il Pater Noster si chiama orazione domenicale?

R . Il Pater Noster si chiama orazione domenicale perché ci fu insegnato dallo stesso Gesù Cristo Signornostro.

D. 113. Nell’orazione domenicale chi invochiamo con le parole: Padre Nostro?

R . Nell’orazione domenicale con le parole: Padre Nostro invochiamo Dio, come padre tenerissimo, peresprimergli il nostro amore e la nostra fiducia e per conciliarcila sua benevolenza e misericordia.

D. 114. Che cosa chiediamo con la prima domanda:

Sia santificato il tuo nome?

R. Con la prima domanda: Sia santificato il tuo nome, chiediamo che il nome santo di Dio venga da tutti conosciutoe da tutti glorificato col cuore, con le parole econ le buone opere.

D. 115. Che cosa chiediamo con la seconda domanda: Venga il tuo regno?

R. Con la seconda domanda: Venga il tuo regno, chiediamo che Dio regni sulla terra, in noi e in tuttigli uomini con la sua grazia, nella società e nelle nazionicon la sua legge, affinché possiamo infine esser partecipidella sua gloria eterna in Paradiso.

D. 116. Che cosa chiediamo con la terza domanda:

Sia fatta la tua volontà?

R. Con la terza domanda: Sia fatta la tua volontà, chiediamo che, come i Beati in cielo e le anime sofferentinel Purgatorio, così tutti gli uomini in terra facciano

con amore, sempre ed in tutto la volontà di Dio.

D. 117. Che cosa chiediamo con la quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano?

R. Con la quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, chiediamo a Dio il pane spirituale, cioè tuttociò che è necessario alla vita dello spirito specialmente laSS. Eucaristia, e il pane corporale, cioè tutto quello cheoccorre alla sostentazione del corpo.

D. 118. Che cosa chiediamo con la quinta domanda: E rimetti a noi….?

R. Con la quinta domanda: E rimetti a noi…., chiediamo a Dio il perdono dei peccati e delle pene che ci siamo meritate, come noi da parte nostra perdoniamo ai nostri offensori le offese ricevute.

D. 119. Che cosa chiediamo con la sesta domanda: E non c’indurre in tentazione?

R. Con la sesta domanda: E non c’indurre in tentazione, noi, conoscendo la nostra debolezza, chiediamo a Dio che ci liberi dalle tentazioni, o almeno ci dia l’aiutodella sua grazia a vincerle.

D. 120. Che cosa chiediamo con la settima domanda: Ma liberaci dal male?

R. Con la settima domanda: Ma liberaci dal male, chiediamo a Dio che ci liberi dal male spirituale, cioè dal peccato e dal demonio che al peccato ci spinge, e da tuttigli altri mali, da quelli almeno che ci possono offrire occasionedi peccato.

Art. 2. — DELLA SALUTAZIONE ANGELICA.

Ave, o Maria, piena di grazia: il Signore è teco; Tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il frutto del ventre tuo, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Così sia.

D. 121. Nella salutazione angelica, di chi sono le parole: Ave, Maria, piena di grazia; il Signore è teco, tu seibenedetta fra le donne?

R . Tali parole sono dell’Arcangelo Gabriele annunziarne alla beata Vergine Maria il mistero dell’Incarnazione; e perciò questa preghiera si chiama salutazione angelica.

D. 122. Di chi sono e che cosa significano le parole:

Benedetto il frutto del ventre tuo?

R. Le parole: Benedetto il frutto del ventre tuo sono di S. Elisabetta, quando accolse nella sua casa la beata Vergine Maria; e significano che il nostro Signor Gesù Cristo, figlio della beata Vergine Maria, è sopra ogni cosa benedetto nei secoli.

D. 123. Di chi sono e che cosa chiediamo con le parole: Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatoriadesso e nell’ora della nostra morte?

R . Tali parole sono state aggiunte dalla Chiesa e con esse chiediamo il patrocinio della beata Vergine Maria in tutte le nostre necessità, ma specialmente nell’ora della morte.

D. 124. La beata Vergine Maria è vera madre di Dio?

R. Sì: la beata Vergine Maria è vera madre di Dio, perché concepì e diede alla luce, secondo l’umana natura, Gesù Cristo Signore nostro, che è vero Dio e vero uomo.

D. 125. La beata Vergine Maria, madre di Dio, è anche madre nostra?

R. Sì: la beata Vergine Maria, madre di Dio, è anche madre nostra per l’adozione che ci rende fratelli del Figlio suo: e Gesù Cristo stesso confermò questa maternità mentre moriva sulla croce.

D. 126. Quali beni si procura chi venera con tenera pietà la beata Vergine Maria?

R. Chi venera con tenera pietà la beata Vergine Maria ha la grande sorte d’esser riamato e protetto da Lei con particolare amore materno.

CAPO VII.

Dei Sacramenti.

(I fanciulli enumerino i Sacramenti della nuova Legge).

SEZIONE la. — Dei Sacramenti in generale.

Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Estrema Unzione, Ordine, Matrimonio.

D. 127. Che cosa s’intende per Sacramento della nuova legge?

R . Per Sacramento della nuova Legge si intende un segno sensibile istituito da Gesù Cristo per significare e conferire, a chi lo riceve degnamente, la grazia.

D. 128. Quale grazia ci danno i Sacramenti?

R . I Sacramenti ci danno o ci accrescono la grazia santificante, ci conferiscono ancora la grazia sacramentale, il diritto cioè ad aiuti speciali per conseguire il fine proprio di ciascun Sacramento.

D. 129. Quali sono i Sacramenti dei morti e quali i Sacramenti dei vivi?

R . Sono Sacramenti dei morti il Battesimo e la Penitenza; tutti gli altri si dicono Sacramenti dei vivi.

D. 130. Perché il Battesimo e la Penitenza si dicono Sacramenti dei morti, mentre tutti gli altri si chiamano Sacramenti dei vivi?

R . Il Battesimo e la Penitenza si dicono Sacramenti

dei morti, perché sono stati istituiti in modo speciale per tutti coloro che si trovano, a causa del peccato, privi della vita soprannaturale, ossia della grazia santificante; gli altri poi si dicono Sacramenti dei vivi perché non possono riceverli se non coloro che già hanno la vita soprannaturale.

D. 131. Chi riceve un Sacramento dei vivi col peccato mortale sulla coscienza, quale peccato commette?

R . Chi riceve un Sacramento dei vivi col peccato mortale sulla coscienza, non solo non ne riceve la grazia, ma commette ancora un grave peccato di sacrilegio.

D. 132. Quali sono i Sacramenti che possono riceversi una sola volta?

R . I Sacramenti che possono riceversi una sola volta sono il Battesimo, la Confermazione e l’Ordine, perché imprimono nell’anima un carattere indelebile.

SEZIONE 2a. — Dei singoli Sacramenti.

Art. 1. — DEL SACRAMENTO DEL BATTESIMO.

D. 133. Che cos’è il Sacramento del Battesimo?

R . Il Sacramento del Battesimo è il Sacramento istituito in forma di abluzione da Gesù Cristo: per mezzo del quale il battezzato diventa membro della vera Chiesa di Gesù Cristo, ottiene la remissione del peccato originale e di tutti i peccati attuali che abbia sull’anima, nonché della pena loro dovuta; e diventa capace di ricevere gli altri

Sacramenti.

D. 134. Quale dovere ha il battezzato?

R . Il battezzato ha il dovere di professare nella Chiesa Cattolica la fede cristiana e di osservare i precetti di Cristo e della Chiesa.

D . 135. Il Battesimo è necessario a tutti per salvarsi?

R . Il Battesimo è necessario a tutti per salvarsi, avendo Gesù Cristo detto: « Chi non rinasce con acqua e Spirito Santo, non può entrare nel Regno di Dio ».

D. 136. In caso di necessità chi può amministrare il Battesimo?

R . In caso di necessità chiunque può, senza solennità, amministrare il Battesimo, versando un po’ d’acqua naturale sul capo del battezzando e dicendo nello stesso tempo: « Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo ».

Art. 2. — DEL SACRAMENTO DELLA CRESIMA.

D. 137. Che cos’è il Sacramento della Cresima?

R . Il Sacramento della Cresima è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per conferire grazia speciale e i doni dello Spirito Santo per i quali il cresimato vien rinvigorito nel professare la Fede con le parole e con le opere,

come si conviene ad u n perfetto soldato di Cristo.

D. 138. Oltre il Battesimo e lo stato di grazia, che cosa si richiede in colui che riceve la Cresima?

R . Oltre il Battesimo e lo stato di grazia, in colui che riceve la Cresima si richiede, se ha l’uso della ragione, la conoscenza dei misteri principali della fede e delle altre verità che riguardano questo Sacramento.

D. 139. La Cresima è assolutamente necessaria a tutti per salvarsi?

R . La Cresima non è assolutamente necessaria a tutti per salvarsi; tuttavia non è lecito trascurarla perché è mezzo per ottenere più facilmente e pienamente la salvezza.

Art. 3. — DELLA SANTISSIMA EUCARISTIA.

D. 140. Che cos’è la Santissima Eucaristia?

R . La Santissima Eucaristia, quasi buona grazia o azione di grazie, è il divinissimo dono del Redentore e mistero di fede, nel quale sotto le specie del pane e del vino si contiene, si offre e si riceve Gesù Cristo stesso: sacrificio insieme e Sacramento della nuova Legge.

A) – Della presenza reale di Gesù Cristo nella Eucaristia.

D. 141. Quando Gesù Cristo istituì la SS. Eucaristia?

R . Gesù Cristo istituì la SS. Eucaristia nell’ultima cena avanti la passione, quando, preso il pane e rese grazie a Dio, lo diede ai suoi discepoli dicendo: « Prendete e mangiate, questo è il mio corpo »; e, preso il calice, lo diede ad essi, dicendo: « Bevete, questo è il mio sangue »; aggiungendo infine: « Fate questo in mia memoria ».

D. 142. Che cosa avvenne quando Gesù Cristo pronunziò le parole della consacrazione sul pane e sul vino?

R . Quando Gesù Cristo pronunziò le parole della consacrazione sul pane e sul vino avvenne la mirabile e singolare conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue di Gesù Cristo, rimanendo tuttavia le apparenze del pane e del vino.

D. 143. Che cosa intese Gesù con le parole: «Fate questo in mia memoria » ?

R. Gesù Cristo con le parole: «Fate questo in mia memoria », costituì i suoi Apostoli sacerdoti del nuovo Testamento e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio di consacrare parimenti, offrire e amministrare il corpo e il sangue suo, sotto le specie del pane e del vino.

D. 144. Quando i sacerdoti esercitano tale potestà ed eseguiscono questo comando?

R. I sacerdoti esercitano tale potestà ed eseguiscono questo comando quando, rappresentando la persona di Gesù Cristo, celebrano il sacrificio della Messa.

D. 145. Che cosa dunque avviene quando il sacerdote nella Messa proferisce sul pane e sul vino le parole della consacrazione?

R. Quando il sacerdote nella Messa proferisce sul pane e sul vino le parole della consacrazione, si fa presente veramente, realmente e sostanzialmente, sotto le specie del pane e del vino il corpo e il sangue del nostro Signor Gesù Cristo insieme con la sua anima e la sua divinità.

D. 146. Quale materia è atta e quali parole sono necessarie per la SS. Eucaristia?

R. La materia atta per la SS. Eucaristia è il pane di frumento e il vino d’uva; è necessario poi pronunziare le stesse parole che Cristo Signore pronunziò nell’ultima cena sopra il pane e il vino.

B) – Del sacrificio della Messa.

D. 147. È la Messa il vero e proprio sacrificio della nuova legge?

R . La Messa è il vero e proprio sacrificio della nuova legge, nel quale Gesù Cristo, per il ministero del sacerdote, con una mistica e incruenta immolazione, offre a Dio Padre, sotto le specie del pane e del vino, il suo corpo e sangue, in rappresentazione e memoria del sacrificio della Croce.

D. 148. Il Sacrificio della Messa è lo stesso sacrificio della Croce?

R . Il Sacrificio della Messa è lo stesso sacrificio della Croce che si rinnova, in quanto ché è la stessa vittima, lo stesso offerente, che si offre ora per mezzo del sacerdote e che allora offrì se stesso sulla Croce, sebbene in modo diverso.

D. 149. Come nel Sacrificio della Messa si applicano i frutti del sacrificio della Croce?

R . Nel Sacrificio della Messa si applicano a noi i frutti del sacrificio della Croce inquantochè Dio, placato da tanta immolazione, concede le grazie che Gesù Cristo ci meritò a prezzo del suo sangue.

D. 150. Qual è la maniera migliore di assistere alla Messa?

R . La maniera migliore di assistere alla Messa è che i fedeli presenti offrano a Dio, insieme al sacerdote, la vittima divina, meditino il sacrificio della Croce e s’uniscano a Gesù con la Comunione sacramentale, o, almeno, con la spirituale.

C) – Del Sacramento della Eucaristia.

D. 151. Che cos’è il Sacramento della Eucaristia?

R. Il Sacramento dell’Eucaristia è il Sacramento istituito da Gesù, nel quale, sotto le specie del pane e del vino, si contiene veramente, realmente e sostanzialmente Cristo stesso, autore della grazia, cibo spirituale delle anime nostre.

D. 152. Che cosa si richiede per ricevere degnamente l’Eucaristia?

R. Per ricevere degnamente l’Eucaristia, oltre il Battesimo, necessario per tutti gli altri Sacramenti, e lo stato di grazia necessario pei Sacramenti dei vivi, si richiede, sotto pena di peccato grave, anche il digiuno naturale.

D. 153. A che cosa obbliga il digiuno naturale?

R . Il digiuno naturale obbliga ad astenersi dal prendere, dalla mezzanotte fino al momento della Comunione, qualsiasi anche piccola quantità di cibo, bevanda o anche medicina.

D. 154. Chi si comunica non digiuno che peccato commette?

R. Chi si comunica non digiuno commette un peccato grave di sacrilegio.

D. 155. Quando è permessa la S. Comunione senza osservanza del digiuno naturale?

R . Senza osservanza del digiuno naturale la S. Comunione è permessa quando urge il pericolo di morte o la necessità d’impedire un’irriverenza al Sacramento.

D. 156. A quali infermi si permette la Santa Comunione senza osservare il digiuno naturale?

R. Agli infermi che giacciono da un mese senza certa speranza d’una sollecita guarigione, dietro prudente consiglio del confessore, è permessa la Santa Comunione una o due volte la settimana, anche dopo che abbian preso qualche medicina o altra bevanda.

D. 157. Che cosa si richiede per una Comunione devota?

R. Per una Comunione devota si richiede una diligente preparazione e un degno ringraziamento secondo le forze, la condizione e i doveri di ciascuno.

D. 158. In che consiste la preparazione alla S. Comunione?

R . La preparazione alla S. Comunione consiste nel meditare per qualche tempo, con attenzione e devozione, Chi si va a ricevere, e nell’esercitarsi con diligenza in atti di fede, speranza, carità e contrizione.

D. 159. In che consiste il ringraziamento dopo la S. Comunione?

R. Il ringraziamento dopo la S. Comunione consiste nel meditare per qualche tempo, con attenzione e devozione, Chi abbiamo ricevuto, e nel fare atti di fede, speranza, carità, fermo proposito, gratitudine e domanda.

D. 160. Quali effetti produce l’Eucaristia in quelli che la ricevono degnamente e devotamente?

R. L’Eucaristia in quelli che la ricevono degnamente e devotamente, produce i seguenti effetti:

1° aumenta la grazia santificante e il fervore della carità;

2° rimette i peccati veniali;

3° giova assai ad assicurare la finale perseveranza, sia diminuendo la concupiscenza, sia preservando dal peccato mortale, sia infine avvalorando nel fare il bene.

Art. 4. — D E L SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

D. 161. Che cos’è il Sacramento della Penitenza?

R . La Penitenza è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per riconciliare con Dio i fedeli ogni qual volta, dopo il Battesimo, siano caduti in peccato.

D. 162. Quando Gesù Cristo istituì questo Sacramento?

R. Gesù Cristo istituì questo Sacramento principalmente quando soffiò sui discepoli adunati insieme dopo la sua resurrezione, dicendo: « Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti » .

D. 163. Chi è il legittimo ministro della Penitenza?

R . Il legittimo ministro della Penitenza è il sacerdote debitamente approvato a ricevere le confessioni.

D. 164. Quali peccati sono materia della Penitenza?

R . Sono materia della Penitenza i peccati mortali, commessi dopo il Battesimo e mai direttamente perdonati in virtù della potestà della Chiesa, ma è utile all’anima il confessare anche i peccati veniali e i mortali già direttamente rimessi.

D. 165. Quali sono le parti di questo Sacramento?

R. Le parti di questo Sacramento sono gli atti del penitente, come materia di esso, e l’assoluzione del legittimo Sacerdote, che n’è la forma.

A) – Degli atti del penitente.

D. 166. Quali atti si richiedono dal penitente perché egli degnamente riceva il Sacramento della Penitenza?

R. Dal penitente, perché degnamente riceva il Sacramento della Penitenza, si richiede:

1° l’esame di coscienza;

2° la contrizione dei peccati commessi;

3° il proposito di non più peccare;

4° la confessione dei peccati;

5° la soddisfazione.

a) — Esame di coscienza.

D. 167. Che cos’è l’esame di coscienza?

R . L’esame di coscienza è una diligente ricerca dei peccati commessi dopo l’ultima confessione ben fatta.

D. 168. Come si deve fare l’esame di coscienza?

R. Nell’esame di coscienza il penitente, dopo d’aver implorato l’aiuto di Dio, richiami diligentemente alla memoria i peccati mortali commessi con i pensieri, colle parole, le opere e le omissioni contro i precetti di Dio e della Chiesa e contro i doveri del proprio stato.

D. 169. In tale esame di coscienza che cosa propria si deve ricercare?

R. In tale esame di coscienza si deve ricercare la specie e il numero dei peccati e le circostanze che ne mutano le specie.

b) — Contrizione dei peccati commessi e proposito di non più peccare.

D. 170. Che cos’è la contrizione dei peccati?

R. La contrizione dei peccati è il dolore dell’animo e la detestazione dei peccati commessi col proposito di non più peccare.

D. 171. Che cos’è il proposito di non peccare?

R. Il proposito di non più peccare è la ferma volontà di non peccare e di fuggire, per quanto si può, le occasioni prossime del peccato.

D. 172. Come deve essere la contrizione dei peccati?

R. La contrizione dei peccati deve essere: interna, che nasce dal cuore; soprannaturale, cioè ispirata da ragioni soprannaturali; somma, che ci fa detestare il peccato come il più grande di tutti i mali; universale, che si estende a tutti i peccati mortali commessi dopo il Battesimo e non ancora rimessi dalla potestà della Chiesa.

D. 173. E se il penitente non ha da accusare se non peccati veniali o mortali già direttamente rimessi?

R. Se il penitente non ha da accusare se non peccati veniali o mortali già direttamente rimessi, è necessario e sufficiente che abbia il dolore di alcuni o almeno di uno di essi.

D. 174. Di quante specie può essere la contrizione?

R. La contrizione può essere di due specie: perfetta, che suol dirsi semplicemente contrizione; imperfetta cheprende il nome speciale di attrizione.

D. 175. Che cos’è la contrizione perfetta?

R. La contrizione perfetta è il dolore e la detestazione dei peccati motivata dalla carità, ossia perché l’offeso è Dio, sommo bene e degno di essere amato sopra ogni cosa.

D. 176. Quale effetto produce la contrizione perfetta?

R. La contrizione perfetta cancella subito i peccati, riconcilia l’uomo con Dio anche fuori del Sacramento della Penitenza, ma richiede il desiderio del Sacramento, che è compreso nella stessa contrizione.

D. 177. Che cos’è la contrizione imperfetta?

R. La contrizione imperfetta è il dolore e la detestazione soprannaturale dei peccati, che generalmente nasce dalla considerazione della bruttezza del peccato o dal timore dell’inferno e delle sue pene.

D. 178. Per ricevere validamente il Sacramento della Penitenza quale contrizione è sufficiente?

R. Per ricevere validamente il Sacramento della Penitenza è sufficiente la contrizione imperfetta, quantunque sia da desiderarsi la perfetta.

D. 179. Quale peccato commette chi scientemente si accosta, senza alcuna contrizione, al Sacramento della Penitenza?

R. Chi scientemente si accosta, senza alcuna contrizione, al Sacramento della Penitenza, non solo non riceve il perdono dei peccati dei quali si è confessato, ma commette ancora un peccato grave di sacrilegio.

c) — Confessione dei peccati.

D. 180. Che cos’è la confessione dei peccati?

R. La confessione dei peccati è la loro accusa, fatta al sacerdote legittimamente approvato, per averne l’assoluzione sacramentale.

D. 181. Come deve essere la confessione per ricevere validamente il Sacramento della Penitenza?

R. Per ricevere validamente il Sacramento della Penitenza, la confessione deve essere vocale, o tale almeno da supplire la vocale, e integra.

D. 182. Quando è integra la confessione?

R. La confessione è integra quando il penitente si accusa di tutti i peccati mortali, non ancora direttamente rimessi, dei quali è consapevole dopo un diligente esame,

con il loro numero, specie e quelle circostanze che ne mutano la specie.

D. 183. Che cosa deve fare chi non ricorda il numero dei peccati mortali?

R. Chi non ricorda il numero dei peccati mortali deve indicarlo in modo approssimativo, aggiungendo la parola « circa ».

D. 184. E se nella confessione si è omesso senza alcuna colpa un peccato mortale?

R. Se nella confessione si è omesso senza alcuna colpa un peccato mortale, il Sacramento vale e il peccato viene indirettamente rimesso, ma il penitente, quando se ne ricorda, deve accusarlo nella prossima confessione.

D. 185. Quale peccato commette chi colpevolmente tace in confessione un peccato mortale?

R. Chi colpevolmente tace in confessione un peccato mortale, non solo non ritrae dalla confessione nessuna utilità, ma commette ancora un grave peccato di sacrilegio.

D. 186. Come deve essere la confessione per ricevere lecitamente il Sacramento della Penitenza?

R. Per ricevere lecitamente il Sacramento della Penitenza, la confessione deve inoltre essere devota e umile, esclusa ogni parola inutile, così che il penitente si accusi umilmente dei suoi peccati; non li scusi, né li sminuisca, né li accresca; e docilmente accolga gli avvertimenti del confessore.

d) — Sodisfazione.

D. 187. Che cos’è la sodisfazione?

R. La soddisfazione è la pena imposta dal confessore al penitente per i peccati manifestati in confessione: la qual pena, per i meriti di Gesù Cristo, applicati nel giudizio sacramentale, ha il valore speciale di liberare dalla pena temporale dovuta ai peccati.

D. 188. Perché il confessore impone la soddisfazione?

R. Il confessore impone la soddisfazione non solo per la perseveranza nella vita nuova e in rimedio all’umana debolezza, ma anche in riparazione e castigo dei peccati

commessi.

D. 189. Quando il penitente deve eseguire la soddisfazione imposta del confessore?

R. Se il confessore non assegna il tempo della soddisfazione, curi il penitente di eseguirla quanto prima.

B) – Dell’assoluzione sacramentale.

D. 190. Che cos’è l’assoluzione sacramentale?

R. L’assoluzione sacramentale è l’atto con il quale il confessore, in nome di Gesù Cristo, pronunziando la dovuta formula, rimette i peccati al penitente debitamente confessato e pentito.

D. 191. E tenuto il confessore al segreto sacramentale?

R. Il confessore è tenuto all’inviolabile segreto sacramentale, e non solo non può rivelare i peccati uditi in confessione, ma deve guardarsi ancora con ogni diligenza dal rivelare in qualunque maniera, per qualsiasi ragione, con parole o cenni od altro, il peccatore.

D. 192. Con l’assoluzione sacramentale, e compiuta la penitenza imposta dal confessore, vien rimessa sempre tutta la pena temporale dovuta ai peccati?

R. Con l’assoluzione sacramentale, e compiuta la penitenza imposta dal confessore, non sempre si rimette tutta la pena temporale dovuta ai peccati, ma essa nondimeno si può estinguere con altre penitenze volontarie e specialmente con le indulgenze.

D. 193. Che cosa s’intende per indulgenza?

R. Per indulgenza s’intende la remissione dinanzi a Dio della pena temporale dovuta ai peccati già cancellati in quanto alla colpa: remissione che la Chiesa concede fuori del Sacramento della Penitenza.

Art. 5. — DEL SACRAMENTO DELLA ESTREMA UNZIONE.

D. 194. Che cos’è il Sacramento dell’Estrema Unzione?

R. Il Sacramento dell’Estrema Unzione è il Sacramento, istituito da Gesù Cristo, con il quale si danno agli adulti gravemente infermi gli aiuti spirituali, massimamente giovevoli in pericolo di morte e talvolta anche di sollievo delle infermità corporali.

D. 195. Questo Sacramento è necessario alla salvezza?

R. Questo Sacramento non è assolutamente necessario alla salvezza, ma non è lecito trascurarlo, anzi è da curarsi con ogni zelo e diligenza che l’infermo, appena versi in pericolo di vita, mentre ancora ha coscienza di sé, lo riceva quanto prima.

Art. 6. — DEL SACRAMENTO DELL’ORDINE,

D. 196. Che cos’è il Sacramento dell’Ordine o della Sacra Ordinazione?

R. Il Sacramento dell’Ordine o della Sacra Ordinazione è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per costituire nella Chiesa i Vescovi, i sacerdoti e i ministri con la rispettiva potestà e grazia, affinché possano, ciascuno nel proprio grado, compiere bene i sacri uffici.

D. 197. Qual è la dignità del Sacerdozio?

R. Altissima è la dignità del Sacerdozio, perché il sacerdote è ministro di Cristo e dispensatore dei misteri divini, mediatore tra Dio e gli uomini, avente potestà sul corpo reale e mistico di Cristo.

Art. 7. — DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO.

D. 198. Che cos’è il Sacramento del Matrimonio?

R. Il Sacramento del Matrimonio è lo stesso contratto matrimoniale validamente stretto tra cristiani, che, elevato da Gesù Cristo alla dignità di Sacramento, dà ai coniugi la grazia di bene compiere i doveri che essi hanno tra di sé e verso i figli.

D. 199. Si può avere tra cristiani un valido matrimonio che non sia anche Sacramento?

R. Tra Cristiani non si può avere un valido matrimonio che non sia per ciò stesso Sacramento, perché Gesù Cristo si degnò innalzare alla dignità di Sacramento proprio

lo stesso Matrimonio.

D. 200. Quali sono le proprietà essenziali del Matrimonio?

R. Le proprietà essenziali del matrimonio sono l’unità e l’indissolubilità, che nel matrimonio cristiano acquistano una fermezza speciale per virtù del Sacramento.

D. 201. Da quale diritto è regolato il Matrimonio dei Cristiani?

R. Il Matrimonio dei Cristiani è regolato dal diritto divino ed ecclesiastico, salva la competenza della potestà civile circa gli effetti puramente civili.

D. 202. Come si contrae il Matrimonio?

R. Il Matrimonio si contrae esprimendo il mutuo consenso davanti al parroco, o a un sacerdote suo delegato ed almeno a due testimoni.

D. 203. Il Matrimonio celebrato in questa forma consegue in Italia anche gli effetti civili?

R. Il Matrimonio celebrato in questa forma consegue in Italia anche gli effetti civili, perché lo Stato italiano riconosce tali effetti al Sacramento del Matrimonio.

D. 204. Il Matrimonio così celebrato come consegue in Italia anche gli effetti civili?

R. Il Matrimonio così celebrato consegue in Italia anche gli effetti civili, mediante la sua regolare trascrizione nei registri dello stato civile, fatta a richiesta del parroco.

D. 205. Gli sposi cattolici possono compiere anche il Matrimonio civile?

R. Gli sposi cattolici non possono compiere il Matrimonio civile né prima né dopo il Matrimonio religioso: che se lo osassero, anche con l’intenzione di celebrare in appresso il Matrimonio religioso, sono dalla Chiesa considerati come pubblici peccatori.

D. 206. Gli sposi nel contrarre il matrimonio debbono essere in grazia di Dio?

R. Gli sposi nel contrarre il Matrimonio, che è uno dei Sacramenti dei vivi, debbono essere in grazia di Dio, altrimenti commettono un sacrilegio.

CAPO VIII. 

Delle virtù.

D. 207. Che cos’è la virtù?

R. La virtù è l’abito o la costante disposizione che inclina l’uomo a fare il bene e ad evitare il male.

D. 208. Di quante specie è la virtù?

R. Rispetto all’oggetto la virtù è duplice: teologale e morale.

Art. 1. — DELLE VIRTÙ TEOLOGALI.

D. 209. Che cos’è la virtù teologale?

R. La virtù teologale è la virtù che ha per oggetto immediato Dio, come fine soprannaturale, e dirige l’uomo a tal fine.

D. 210. Quante sono le virtù teologali?

R. Le virtù teologali sono tre: fede, speranza e carità.

D. 211. Le virtù teologali sono necessarie per salvarsi?

R. Le virtù teologali sono assolutamente necessarie per salvarsi, perché senza di esse né l’intelletto né la volontà possono debitamente dirigersi al fine soprannaturale.

D. 212. Qual’è la più eccellente tra le virtù teologali?

R. Tra le virtù teologali la più eccellente è la carità che è la perfezione della legge e perdura anche in Paradiso.

D. 213. Che cos’è la fede?

R. La fede è la virtù soprannaturale per cui, con l’ispirazione e l’aiuto della grazia, noi crediamo vero tutto ciò che Dio ha rivelato e ci insegna per mezzo della Chiesa, e lo crediamo per l’autorità dello stesso Dio rivelante, il quale non può né ingannarsi né ingannare.

D. 214. Dobbiamo noi credere tutte le verità rivelate?

R. Noi dobbiamo credere (almeno i n modo implicito) tutte le verità rivelate; per esempio dicendo: Credo tutto ciò che crede la S. Madre Chiesa; dobbiamo poi esplicitamente credere l’esistenza di Dio rimuneratore, e i misteri della SS. Trinità, dell’Incarnazione e Redenzione.

D. 215. Come si manifesta la fede?

R. La fede si manifesta professandola apertamente con le parole e con le opere fino a subire, se ve ne fosse bisogno, la stessa morte.

D. 216. Che cos’è la speranza?

R. La speranza è la virtù soprannaturale, per la quale, fondandoci sui meriti di Gesù Cristo, sulla bontà, onnipotenza e fedeltà di Dio, aspettiamo la vita eterna e le grazie necessarie per conseguirla, come Dio promise a coloro che compiono le opere buone.

D. 217. Come si manifesta la speranza?

R. La speranza si manifesta non solo con le parole ma anche con le opere, mentre, con intima fiducia nelle divine promesse, sopportiamo con pazienza le persecuzioni e i dolori della vita.

D. 218. Che cos’è la carità?

R. La carità è la virtù soprannaturale per la quale amiamo Dio per se stesso sopra tutte le cose e noi stessi e il prossimo nostro per amor di Dio.

D. 219. Come manifestiamo il nostro amore per Iddio?

R. Noi manifestiamo il nostro amore per Iddio osservando fedelmente i suoi precetti ed esercitandoci in altre opere, che, sebbene non comandate, gli sono però accette.

D. 220. Come dobbiamo amare noi stessi?

R. Dobbiamo amare noi stessi cercando in ogni cosa la gloria di Dio e la nostra eterna salvezza.

D. 221. Come dobbiamo amare il prossimo?

R. Dobbiamo amare il prossimo con atti interni ed esterni, sia perdonando le offese, sia astenendoci dal recargli danno, ingiuria o scandalo, sia ancora aiutandolo, secondo le nostre forze, nelle sue necessità, specialmente per mezzo delle opere di misericordia spirituale e corporale.

D. 222. Quali sono le opere di misericordia spirituale?

R. Le opere di misericordia spirituale sono:

1° consigliare i dubbiosi;

2° insegnare agli ignoranti;

3° ammonire i peccatori;

4° consolare gli afflitti;

5° perdonare le offese;

6° sopportare pazientemente le persone moleste;

7° pregare Dio per i vivi e per i morti.

D. 223. Quali sono le opere di misericordia corporale?

R. Le opere di misericordia corporale sono:

1° dar da mangiare agli affamati;

2° dar da bere agli assetati;

3° vestire gl’ignudi;

4° alloggiare i pellegrini;

5° visitare gl’infermi;

6° visitare i carcerati;

7° seppellire i morti.

D. 224. Nell’amore del prossimo è compreso anche l’amore dei nemici?

R. Nell’amore del prossimo è compreso anche l’amore dei nemici, perché anch’essi sono prossimo nostro, e lo stesso Gesù ci diede, di tale amore, e il comando e l’esempio.

Art. 2. — DELLE VIRTÙ MORALI.

D. 225. Che cos’è la virtù morale?

R. La virtù morale è la virtù che ha per oggetto immediato gli atti onesti conformi alla retta ragione.

D. 226. Quante e quali sono le principali virtù morali?

R. Le principali virtù morali sono quattro: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, che si chiamano anchevirtù cardinali.

D. 227. Perché queste virtù si chiamano cardinali?

R. Queste virtù si chiamano cardinali, perché sono come il cardine, cioè la base di tutto l’edificio morale, e ad esse si riducono anche le altre virtù morali.

CAPO IX.

Dei peccati attuali o personali.

D. 228. Di quante specie è il peccato?

R. Il peccato è di due specie: originale e attuale o personale.

D. 229. Che cos’è il peccato attuale?

R. Il peccato attuale è una trasgressione della legge di Dio, scientemente e deliberatamente commessa.

D. 230. In quanti modi si può commettere il peccato attuale?

R. Il peccato attuale si può commettere con il pensiero, con le parole, le opere e le omissioni; e ciò, contro Dio, contro noi stessi e contro il prossimo, secondoché la legge che violiamo riguarda direttamente Dio o noi stessi o il prossimo.

D. 231. Come si divide il peccato attuale?

R. Il peccato attuale si divide in mortale e veniale.

D. 232. Che cos’è il peccato mortale?

R. Il peccato mortale è una trasgressione della legge di Dio commessa scientemente e deliberatamente con consapevolezza della grave obbligazione.

D. 233. Perché questo peccato dicesi mortale?

R. Questo peccato dicesi mortale perché, allontanando l’anima dal suo ultimo fine, la priva della vita soprannaturale che è la grazia santificante; la fa rea di morte eterna nell’inferno; ne rende inefficaci i meriti acquistati così da non farli più giovare alla salvezza, finché non rivivano con la grazia riacquistata; e impedisce infine ogni altra opera meritoria per la vita eterna.

D.234. Che cos’è il peccato veniale?

R. Il peccato veniale è una trasgressione della legge di Dio commessa scientemente e deliberatamente con consapevolezza di lieve obbligazione.

D. 235. Perché questo peccato dicesi veniale?

R. Questo peccato dicesi veniale perché, non allontanando l’anima dal suo fine ultimo, né dandole la morte soprannaturale, più facilmente può ottenere il perdono anche senza la confessione sacramentale, ed è come una infermità dell’anima che, per la natura sua, può essere più facilmente guarita.

D. 236. Quali sono gli effetti più notevoli del peccato veniale?

R. Gli effetti più notevoli del peccato veniale sono che raffredda il fervore della carità, dispone l’anima al peccato mortale e rende l’uomo meritevole di pena temporale da scontarsi in questa o nell’altra vita.

D. 237. Oltre il peccato, dobbiamo fuggirne anche le occasioni?

R. Oltre il peccato, dobbiamo, per quanto possiamo fuggirne anche le occasioni prossime, quelle cioè cheespongono l’uomo a grave pericolo di peccare.

CAPO X.

Dei Novissimi.

D. 238. Che cosa s’intende per Novissimi?

R. Per Novissimi s’intende quanto attende l’uomo nell’ultima sua ora, cioè: la morte, il giudizio, l’Inferno e il Paradiso; dopo il giudizio, però, e prima del Paradiso, può esservi il Purgatorio.

D. 239. Che cosa dobbiamo soprattutto considerare intorno alla morte?

R. Della morte dobbiamo soprattutto considerare che essa è pena del peccato, che è il momento da cui dipende l’eternità, cosicché dopo morte non vi è più tempo né di penitenza, né di merito; che di essa infine è incerta l’ora e sono incerte le circostanze.

D. 240. Che cosa accade all’anima subito dopo morte?

R. Subito dopo morte l’anima si presenta al tribunale di Cristo per subirne il giudizio particolare.

D. 241. Di che cosa sarà giudicala l’anima nel giudizio particolare?

R. L’anima nel giudizio particolare sarà giudicata di tutto: dei pensieri, delle parole, opere ed omissioni e tale giudizio, quasi come in una esteriore manifestazione, avrà la sua conferma nel giudizio universale.

D. 242. Che sarà dell’anima dopo il giudizio particolare?

R. Dopo il giudizio particolare l’anima, se è priva della grazia per il peccato mortale, precipita subito fra le pene dell’Inferno; se è in grazia e libera da qualunque peccato veniale e da qualsiasi debito di pena temporale, sale immantinente in Paradiso; finalmente, se è in grazia, ma con qualche peccato veniale o con qualche debito ancora di pena temporale, resta in Purgatorio finché non avrà soddisfatto completamente alla divina giustizia.

D. 243. Che sarà dei dannati nell’Inferno?

R. Nell’Inferno i demoni e con essi gli uomini dannati, senza il corpo prima del giudizio universale, anche col corpo dopo, sono privati in eterno dalla visione beatifica di Dio e tormentati con un vero fuoco e con altre gravissime pene.

D. 244. Che sarà dell’anima nel Purgatorio?

R. L’anima in Purgatorio sconta, con la privazione della visione beatifica e con altri gravi tormenti, le pene temporali dovute ai peccati e non ancora perfettamente scontate in questa vita, finché non avrà sodisfatto completamente alla divina giustizia così da essere ammessa in Paradiso.

D. 245. Che sarà dei giusti in Paradiso?

R. In Paradiso le anime dei giusti, senza corpo prima del giudizio universale, anche col corpo dopo, godranno in eterno la visione beatifica di Dio e con essa ogni bene, senza mescolanza o timore d’alcun male, in dolce unione con Nostro Signor Gesù Cristo, la Beata Vergine Maria e tutti i Celesti.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (3)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [3]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO VII.

Di altri beni ed utilità grandi che sono in questa conformità alla volontà di Dio.

Un altro gran bene e grande utilità reca seco questo esercizio; ed è, che questa conformità e intera rassegnazione nella volontà di Dio è delle migliori e più principali disposizioni che dal canto nostro possiamo mettere, acciocché il Signore ci faccia delle grazie e ci riempia di beni. E così quando Dio Signor nostro volle far S. Paolo di persecutore Predicatore e Apostolo suo, lo prevenne con questa disposizione. Gli mandò un gran lume dal cielo che lo buttò giù da cavallo, e gli aprì gli occhi dell’anima, e gli fece dire: Domine, quid me vis facere (Act. IX)?Signore, che cosa vuoi tu che io faccia? Eccomi qui, Signore,come un poco di creta nelle tue mani, acciocché faccia di me quello che ti piacerà.E così Dio ne fece un vaso eletto, acciocché portasse e spargesse il suo nome per tutto il mondo: Vas electionis est mihi iste, ut portet nomen meum coram gentibus, et regibus, et filiis Israel (Ibid. IX, 15). Si legge della santa vergine Geltrude (3), che Dio le disse: Chiunque desidera che io venga liberamente ad abitare in lui, m’ha da rassegnar la chiave della propria volontà, senza tornar più a domandarmela. Perciò il nostro S. Padre ci mette questa rassegnazione e indifferenza per la principale disposizione a ricever grazie grandi da Dio: e con questa vuole che s’entri negli Esercizi, e questo è il fondamento che ci propone nel principio di essi; che siamo indifferenti e staccati da tutte le cose del mondo, non desiderando più questa che quell’altra, ma desiderando, che in ogni cosa si faccia e s’adempisca in noi la volontà di Dio. E nelle Regole, o Annotazioni che mette per indirizzo ed aiuto si di quello che dà, come di quello che fa gli Esercizi, nella quinta di esse si dice: Sarà di grandissimo aiuto a quello che fa gli Esercizi, l’offerirsi liberamente, e il mettersi totalmente nelle mani di Dio, acciocché faccia di lui e delle cose sue quello che più gli piacerà (D. Ign. Lib. Exerc.).E la ragione, d’esser questa una così buona disposizione e mezzo per ricevere delle grazie dal Signore, è, perché da una banda si levano via con questa gl’impedimenti dei nostri mali affetti e desideri che vi potrebbero essere; e dall’altra, quanto più uno si fida di Dio, mettendosi affatto nelle sue mani e non volendo se non quello che Egli vuole, tanto più obbliga l’istesso Dio ad aver cura di lui e a provvederlo di tutto quello che gli conviene. È anche per un altro verso questa conformità alla volontà di Dio mezzo molto efficace per acquistare tutte le virtù, perché queste s’acquistano coll’esercizio degli atti loro. Questo è il modo naturale per acquistar gli abiti; e in questo modo vuol anche Dio darci la virtù ; perché Egli vuole operar le opere di grazia a proporzione come opera quelle della natura. Ora esercitati tu in questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio; e in questo modo ti eserciterai in tutte le virtù, e così verrai ad acquistarle tutte: perché alcune volte ti si porgeranno occasioni d’umiltà, alcune altre d’ubbidienza, altre di povertà, altre di pazienza, e così delle altre virtù. E quanto più ti eserciterai in questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio, e più andrai crescendo e perfezionandoti in essa; tanto più andrai crescendo e perfezionandoti in tutte le virtù. Conjungere Deo, et sustine, ut crescat in novissimo vita tua, dice il Savio (Eccli. III, 2). Congiungiti a Dio, e conformati in ogni cosa alla volontà sua. Conglutinare Deo, dice un’altra versione (Supra tract. 5, c. 14 et 15.): Accostati e unisciti con esso, e in quella maniera crescerai e farai molto profitto. Per questo i Maestri della vita spirituale consigliano (ed è meraviglioso consiglio) che mettiamo gli occhi in una virtù superiore, la quale rinchiuda in sé le altre, e che questa procuriamo principalmente nell’orazione; e a questa drizziamo l’esame e tutti i nostri esercizi, perché, mettendo gli occhi in una cosa, è più facile l’andar dietro ad essa, e acquistando quella si acquista ogni cosa. Ora una delle cose principali, nelle quali possiamo mettere gli occhi per questo effetto, è questa rassegnazione e intera conformità alla volontà di Dio: e così in questa saranno molto bene impiegati l’orazione e l’esame, ancorché vi spendiamo molti anni e tutta la vita ancora; perché, se acquistiamo questa, acquisteremo tutte le virtù. – S. Bernardo sopra quelle parole dell’apostolo S. Paolo, Domine, quid me vis facere (Act. IX, 6.)? Signore, che cosa vuoi che io faccia? dice: O verbum breve, sed plenum, sed vivum, sed efficace, sed dignum omni acceptione (D. Bernard, serm. 1 de conv. S. Pauli). Oh parola breve, ma piena, che ogni cosa abbraccia e nessuna cosa lascia: Signore, che cosa volete che io faccia? parola breve, ma compendiosa, ma vivace, ma efficace, e degna di essere grandemente stimata. Se dunque vuoi un documento breve e compendioso per acquistare la perfezione, eccoti questo: Di’ sempre coll’apostolo S. Paolo: Signore, che cosa volete che io faccia? e col profeta David: Signore, il mio cuore è disposto e preparato; è preparato e disposto per tutto quello che voi volete da me (Psal. LVI, 8 et CVII, 1). Porta sempre questo in bocca e nel cuore; e all’istesso passo che andrai crescendo in questo, andrai crescendo in perfezione. Un altro bene e un’altra utilità abbiamo anche in questo esercizio, ed è, che ne possiamo cavar un rimedio molto buono per certa sorta di tentazioni che sogliono venire. Il demonio procura alle volte d’inquietarci con alcune tentazioni di pensieri condizionali e di certe immaginarie domande: Se uno ti dicesse la tal cosa, che risponderesti? Se accadesse la tal altra cosa, che faresti? in tal caso come ti porteresti? e siccome egli è sottilissimo, ci rappresenta le cose in modo, che per qualsivoglia banda pare che ci troviamo perplessi, e non sappiaci come uscirne; perchè sta ivi il laccio teso, non curandosi il demonio, che sia vera, o apparente, o finta, quella cosa colla quale c’inganna. Pur che egli faccia il fatto suo, di tirar l’uomo a qualche cattivo consentimento, non gl’importa più questa che quell’altra cosa. In queste tentazioni dicono comunemente che la persona non è obbligata a rispondere né col sì né col no: anzi che farà meglio a non risponder cosa alcuna, e questo specialmente conviene più a persone scrupolose; perché se cominciano a tener ragionamenti col demonio, e ad entrar in proposte e risposte con lui, questo è quello che egli cerca, perché non mancano mai a lui repliche, né mai usciranno elleno cosi franche dalla scaramuccia, che non n’escano col capo rotto. Ma una risposta trovo io molto buona e giovevole in queste tentazioni, e l’usar questa tengo che sia meglio che il non risponder niente: ed è appunto quello che andiamo dicendo; cioè, che a qualsivoglia di queste cose può uno rispondere ad occhi chiusi: Se questa è la volontà di Dio, io la voglio. Se Dio vuol questo, lo voglio anch’io. Io vorrei in questo quello che volesse Dio. In ogni cosa mi rimetto alla volontà di Dio. Io farei in questo quello che fossi obbligato e il Signore mi concederebbe grazia che in ciò non l’offendessi, ma facessi quel che fosse volontà sua. Questa è una risposta generale che soddisfa pienamente in qualunque caso; e il darla così in generale non porta seco veruna difficoltà, ma più tosto una somma facilità, poiché siamo certi, che se la cosa propostaci in qualunque supposizione è volontà di Dio, è anche buona: se è volontà di Dio, è anche il meglio: se è volontà di Dio, è quello che a me più conviene. Possiamo dunque con tutta sicurezza abbandonarci alla volontà di Dio e dir tutte queste cose; e con ciò il demonio resterà molto burlato e confuso, e noi altri molto contenti e inanimati colla vittoria. Siccome nelle tentazioni di Fede si dà per consiglio, specialmente agli scrupolosi, che non rispondano ad esse in particolare, ma che dicano in generale: Io tengo e credo tutto quello che tiene e crede la santa Madre Chiesa; così in queste tentazioni è molto buon rimedio il non rispondere in particolare cosa alcuna, ma rimetterci in tutto e per tutto alla volontà di Dio, la quale è sommamente buona e perfetta.

CAPO VIII.

Si conferma con alcuni esempi quanto piace a Dio quest’esercizio della conformità alla volontà sua, e la perfezione grande che è in esso.

Racconta Cesario (Cæs. lib. L. 10 dial. a. 6),che in un monastero si trovava un Monaco al quale aveva Dio conceduta tanta grazia di far miracoli, che gl’infermi guarivano solamente con toccar le sue vesti e la sua cintura. Considerando da un canto il suo Abbate attentamente questa cosa, e dall’altro non vedendo in quel Monaco cosa speciale la quale desse indizio di gran santità, lo chiamò da banda e gli domandò onde mai fosse che Iddio per suo mezzo operava tanti miracoli? Ed egli rispose, che non lo sapeva: perché, diceva, io non digiuno più di quello che digiunano gli altri; non mi disciplino più; non fo più penitenze; né fo più lunga orazione; né fatico né veglio più di essi. Quel, che io posso dire di me, si è, che né le cose prospere m’innalzano, né le avverse m’abbattono: nessuna cosa che avvenga mi turba né m’inquieta: l’anima mia se ne sta con un’istessa pace e quiete in tutti gli avvenimenti, per molto diversi che siano, sì propri, come d’altri. Allora l’Abbate gli disse: Non ti turbasti, o inquietasti alquanto l’altro giorno, quando quel gentiluomo nostro contrario attaccò fuoco alla nostra casa di villa e l’abbruciò? No, disse, io non sentii turbazione alcuna nell’anima mia; perché ho rimessa ogni cosa nelle mani di Dio: e così la cosa prospera, come l’avversa, così il poco, come il molto, lo piglio sempre con egual rendimento di grazie, come venuti dalla sua mano. E conobbe allora l’Abbate, che questa era la cagione di quella virtù che aveva di far miracoli. Blosio narra (Blos, in appendice ad institutionem spirit. c. 1 in fine.), che essendo interrogato da un Teologo un certo povero mendico di vita perfetta, come aveva fatto ad acquistare la perfezione; rispose in questa maniera: Io feci deliberazione di mettermi in tutto e per tutto alla sola divina volontà, alla quale conformai talmente la mia, che quanto Dio vuole tanto voglio io. Quando la fame mi dà fastidio, quando il freddo mi molesta, io lodo Dio: sia l’aria serena, o sia rigida, o tempestosa, similmente lodo Dio: qualsivoglia cosa, che Egli mi dà, o permette che mi venga, sia prospera, o avversa, sia dolce, o amara, la ricevo dalla sua mano con grande allegrezza, come cosa molto buona, rassegnandomi tutto in esso con umiltà. Non ho mai potuto trovar riposo in cosa alcuna, che non fosse Dio: e già ho trovato il mio Dio, nel quale godo un riposo e una pace eterna. Il medesimo Biosio racconta di una santa vergine, che essendo interrogata, come avesse acquistata la perfezione, rispose: Ho presi tutti i travagli e le avversità con gran conformità alla volontà di Dio, come venuti dalla sua mano: e a qualunque persona, che mi facea qualche ingiuria, o mi dava qualche molestia, ho sempre procurato di ricompensargliela con qualche particolar beneficio: con nessuno mi son lamentata de’ miei travagli, ma solamente sono ricorsa a Dio, dal quale ho ricevuto subito fortezza e consolazione (Blos, ubi sup,, et cap, 10 monilis spirit.). Riferisce pure di un’altra vergine di gran santità, che domandata con quali esercizi avesse acquistata tanta perfezione, rispose con molta umiltà, che non le erano mai avvenuti dolori, o travagli sì grandi, che ella non desiderasse di soffrirne de’ maggiori per amore di Dio, tenendoli per suoi singolari favori, e di questi pure giudicandosi indegna (Blos., ut supra). – Narra Taulero (Taul. serm. 1 de circumc.), che varie persone si raccomandavano ad una Serva di Dio totalmente rassegnata nelle divine sue mani, acciocché facesse orazione per alcuni interessi d’importanza; ed ella rispondeva, che l’avrebbe fatta. Alle volte però se ne dimenticava; ma tanto e tanto tutto ciò che le raccomandavano succedeva tanto felicemente, quanto quelle persone sapevano desiderare; onde poi tornavano a ringraziarla come se per l’orazion sua avessero conseguito l’intento: sebbene ella se ne confondeva e diceva, che ringraziasser Dio; poiché essa non vi aveva posto niente del suo. E, perché concorrevano a lei molti in questo modo, ella se ne andò a Dio a formare di lui un’amorevole querela, perché facesse sì prosperamente succedere tutti i negozi che a lei erano raccomandati; che di poi da lei ritornasser le genti a renderne grazie, non avendo ella tante volte per ciò fatto nulla, né porta una supplica: al che rispose il Signore: Vedi, figliuola, quell’istesso giorno nel quale tu mi desti la tua volontà, diedi Io a te la mia: e ancorché tu non mi chiegga cosa alcuna in particolare, quando Io so, che gusti di essa, la fo come tu l’avresti saputa chiedere. – Nelle vite de’ Padri si racconta d’un contadino i cui terreni e vigne rendevano frutti in maggior abbondanza di quelli degli altri suoi vicini, che domandato da alcuni di coloro, come andasse la cosa, rispose, che non si meravigliassero dell’avere lui migliori frutti che essi, perché egli aveva sempre i tempi come li voleva: e molto più meravigliandosi coloro di questa risposta, gli domandarono, come potesse ciò essere; al che replicò: Io non voglio mai altro tempo che quello che Dio vuole: e come io voglio quello che vuol Dio, così Egli mi dà i frutti come io li voglio. – Racconta Severo Sulpizio nella vita del beato S. Martino vescovo, che in tutto il tempo che conversò seco mai noi vide adirato né mesto, ma sempre con gran pace e allegrezza: e la cagione di ciò dice che era, perché quello che gli avveniva egli lo pigliava e riceveva come cosa venuta dalla mano di Dio; e così si conformava in ogni cosa alla volontà sua, con grande tranquillità, composizione d’animo ed allegrezza.

CAPO IX.

D’alcune cose che ci faranno facile e soave questo esercizio della conformità alla volontà di Dio.

Acciocché questo esercizio della conformità alla volontà di Dio ci si faccia facile e soave, bisogna primieramente, che abbiamo sempre avanti gli occhi quel fondamento che mettemmo al principio (Vide supra cap. 1 et 2), cioè, che niuna avversità né travaglio ci può venire, o accadere, che non passi per le mani di Dio e non venga ordinato e misurato dalla sua volontà. C’insegnò Cristo nostro Redentore questa verità non solo in voce, ma anche col suo esempio. Quando comandò a S. Pietro la notte della sua passione, che rimettesse il coltello nella guaina, soggiunse: Calicem, quem dedit mihi Pater, non vis, ut bibam illum (Jo. XVIII, 11)? Non vuoi ch’io beva il calice che m’ha dato il mio Padre? Non disse il calice che m’han procurato Giuda, gli Scribi, i Farisei; perché  sapeva molto bene, che tutti questi non erano altro che come coppieri che lo servivano in porgergli quella tazza preparatagli dal suo divin Padre; e che quello che essi facevano con malizia e con invidia il Padre eterno colla sua infinita bontà e sapienza l’ordinava per rimedio del genere umano. E così disse anche di poi a Pilato il quale vantavasi, che aveva podestà di crocifiggerlo e di liberarlo. Non haberes potesltatem adversum me ullam, nisi tibi datum esset desuper (Jo. XIX, 11): Tu non avresti podestà alcuna contro di me, se non l’avessi avuta dall’alto. Spiegano i Santi: Nisi ex divina dispositione et ordinatione id factum esset ,Di maniera che ogni cosa viene da alto, per disposizione e ordine di Dio. (D. Chrys. hom. 83 in Jo.; D. Cyrill. lib. 12, o. 22 in Jo.; D. Irenœus lib. 4 contra hæreses, c. 34; D. Aug. tract. IV, 26 in Jo.). Disse maravigliosamente questa cosa l’apostolo S. Pietro colà nel capo quarto degli Atti degli Apostoli (IV, (Act. IV, 26 et seq.), spiegando quel testo del Profeta, Quare fremuerunt gentes, et populi meditati sunt inania? Astiterunt Reges terræ, et Principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Chrislum ejus (Ps. II, 1), dice così: Convenerunt enim vere in civitate ista adversus sanctum puerum tuum Jesum, quem unxisti, Berodes, et Pontius Pilatus, cum Gentibus, et populis Israel, facere, qum manus tua et consilium tuum decreverunt fieri: Veramente si unirono in Gerusalemme i Principi e le podestà della terra contra Cristo nostro Redentore per metter in esecuzione quello che nel Concistoro della santissima Trinità era stato determinato e decretato; perché essi non potevano far altro che questo. E così veggiamo, che quando Dio non volle, non fu bastante tutta la potenza del re Erode a privarlo di vita, essendo egli bambino: e sebben fece uccidere tutti i bambini di quel paese circonvicino, nati da due anni in giù; nondimeno non poté incontrarsi in quello che cercava; perché Egli non voleva morire allora. I Giudei altresì e i Farisei vollero più volte metter le mani addosso a Cristo, e dargli morte: una volta tra le altre, nel mentre che trovavasi in Nazaret, lo condussero sulla cima del monte, sul dorso del quale stava edificata quella città, per indi precipitamelo; e dice il sacro Evangelio: Ipse autem transiens per medium illorum, ibat (Luc. IV, 30): Egli se ne andava con molta pace per mezzo di loro; perché non si era eletto quella qualità di morte, e così essi non gliela potevano dare. Un’altra volta lo vollero lapidare; e già avevano alzate le mani per tirargli i sassi; e Cristo nostro Redentore si mette con gran pace a ragionar con essi e a domandar loro: Multa bona opera ostendi vobis ex Patre meo; propter quod eorum opus me lapidatis (Jo. X, 32)? Io ho fatte molte opere buone a benefìcio vostro; per quale di esse mi volete lapidare? Non permise né diede loro licenza di menar le mani: Quia nondum venerat hora ejus (ibid. VII, 30.): Perché non era ancorarrivata la sua ora. Ma arrivata chefu l’ora nella quale Egli aveva determinato di morire, allora poterono eseguire quel tanto che il Signore determinato aveva di patire, perché allora Egli lo volle, ed allora ne diede loro licenza: Hæc est hora vestra et potestas tenebrarum (Luc. XXII, 53): così lor disse quando andarono per prenderlo. Ogni giorno ero con voi nel Tempio, e non mi prendeste mai, perché non era ancor giunta l’ora; adesso è giunta; e perciò eccomi qui, Io son desso quel che cercate. Quanto fece colà Saulle, quanto s’adoperò, quanti mezzi prese, per avere nelle mani David, il che appunto fu figura di quello che poi doveva avvenire nel divin Redentore? Un Re d’Israello contra un uomo particolare: Ut quærat pulicem unum; come disse l’istesso David (I Reg. XXVI, 20, et c. XXIV, 15); e con tutto ciò non gli poté mai riuscire. La divina Scrittura lo nota tanto bene, e ne rende questa ragione: Non tradidit eum Deus in manus ejus (1 Reg. XXIII, 14):Perché non volle Iddio darglielo nelle mani. Qui sta tutto il punto. E così nota molto bene S. Cipriano sopra quelle parole, Et ne nos inducas in tentationem (D. Cypr. serm. de orat. Dom. Matth. VI, 13), che tutto il nostro timore e tutta la nostra divozione e sollecitudine rispetto alle tentazioni e’ travagli hanno da essere in ordine a Dio; perciocché né il demonio, né alcun altro ci può far male alcuno, se Dio prima non ne dà loro licenza. Secondariamente, benché questa verità ben appresa sia da sé sola bastevole e di grande efficacia per indurci a conformarci in tutte le cose alla volontà di Dio; nondimeno non abbiamo da fermarci qui, ma dobbiamo passar avanti ad un’altra cosa che viene in conseguenza di questa, e la notano i Santi (D. Doroth. doct. 13; Nil. c. 29 de orat, in Psal. Dixit Dominus); la qual è, che insieme col venirci tutte le cose dalla mano di Dio, abbiamo da persuaderci, e credere, che vengano per maggior nostro bene e vantaggio (De S. Gertr., ref. Blos. c. 11, mon. spir.). Anche le pene dei dannati vengono loro dalla mano di Dio; non però per utilità e rimedio loro, ma per puro loro castigo: ma le pene e i travagli che Dio manda agli uomini in questa vita, siano giusti, o siano peccatori, abbiamo sempre da credere, e da aver sempre questa ferma fiducia di quella infinita Bontà e Misericordia, che mandandocegli, ce gli mandi per nostro maggior bene e perché questo più ci conviene per l’eterna nostra salute. Così lo disse la santa Giuditta al suo popolo, quando stavano in quell’afflizione e angustia sì grande, assediati da’ loro nemici: Ad emendationem, et non ad perditionem nostram evenisse credamus (Judith VIII, 27). Crediano pure, che Dio ci ha mandati questi travagli, non per nostra rovina, ma per emendazione e utilità nostra. D’una volontà tanto buona, quanto è quella di Dio il quale ci ama tanto, possiamo bene star certi e sicuri, che non vuole se non il bene e il meglio, e quello che più conviene a noi altri: il che appresso si dichiarerà più pienamente (Infra cap. 10 e 22). – In terzo luogo per cavar maggior frutto da questa verità, e acciocché questo mezzo sia più efficace per acquistare una perfetta conformità alla volontà di Dio, non abbiamo da contentarci di conoscere e credere speculativamente, che tutte le cose vengono dalla mano di Dio, né di crederlo in generale e come alla rinfusa, perché così ce lo dice la Fede, ovvero perché così l’abbiamo letta, o udito; ma bisogna, che andiamo attuando e avvivando questa Fede, con procurar di conoscere e di così giudicar della cosa praticamente, di maniera che veniamo a pigliar tutte le cose che ci succedono, come se sensibilmente e visibilmente vedessimo Cristo Signor nostro che ci stesse dicendo: Piglia, figliuolo, che questo tel mando io; è volontà mia, che tu faccia, o patisca adesso questa e questa cosa; perché in questa maniera ci si renderà molto facile e soave il conformarci in tutte le cose alla volontà di Dio. Che se ti apparisse l’istesso Gesù Cristo in persona, e ti dicesse: Vedi, figliuolo, che questo è quello che Io voglio da te; questo travaglio, o questa infermità, voglio che tu patisca adesso per me; in quest’ufficio, o ministero, voglio che tu mi serva; chiara cosa è, che ancorché fosse la più difficil cosa del mondo, la faresti di molto buona voglia tutto il tempo della tua vita, e ti terresti per molto felice, che Dio si volesse servir di te in quella cosa; e per comandartela esso, crederesti, che questa fosse il meglio, e che più ti convenisse per la tua eterna salute, e non ne dubiteresti punto, né ti verrebbe pure un primo moto in contrario. – In quarto luogo bisogna che nell’orazione ci esercitiamo e ci andiamo attuando assai in quest’esercizio, scavando e profondendoci bene in quella ricchissima miniera della provvidenza tanto paterna e tanto particolare che Dio ha di noi altri; perché così facendo c’incontreremo in questo tesoro: il che andremo dichiarando ne’ capì seguenti.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (4)

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (3)

CATECHISMO CATTOLICO

A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (3)

II.

CATECHISMO PER I FANCIULLI CHE COMPLETANO LA LORO ISTRUZIONE CATECHISTICA

CAPO I.

Del segno della Santa Croce.

(I fanciulli facciano bene il segno della Santa Croce e pronunzino distintamente le parole).

D. 1 . Sei tu Cristiano?

R. Sono Cristiano per grazia di Dio.

D. 2. Chi si può dire ed è Cristiano?

R. Si può dire ed è Cristiano chi ha ricevuto il Sacramento del Battesimo, che è come la porta della Chiesa di Cristo.

D. 3. Ma chi si può dire ed è più propriamente cristiano?

R. Si può dire ed è più propriamente Cristiano il battezzato che professa la vera ed intera fede di Cristo, cioè il cattolico; il quale, se congiunge la fede con l’osservanza della legge del Vangelo, è buon Cristiano.

D. 4. Qual è il segno esterno del Cristiano?

R. Il segno esterno del Cristiano è il segno della Santa Croce.

D. 5. Perché il segno della Santa Croce è il segno del Cristiano?

R. Il segno della Santa Croce è il segno del Cristiano perché con esso professiamo esternamente i misteri principali della fede cristiana.

D. 6. Quali sono i misteri principali della fede cristiana?

R. I misteri principali della fede cristiana sono:

1°) l’unità di Dio in tre Persone distinte: Padre, Figlio, Spirito Santo;

2°) l’umana Redenzione compiutasi per mezzo dell’incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, Figlio di Dio.

D. 7. Come il segno della Santa Croce indica questi due misteri della fede cristiana?

R. Il segno della Santa Croce indica questi due misteri della fede cristiana, perché le parole significano l’unità di Dio in tre Persone distinte, mentre la figura della croce che formiamo con la mano ci richiama alla memoria l’umana redenzione compiuta da Gesù Cristo sulla croce.

D. 8. È utile segnarci col segno della Santa Croce?

R. È utile, anzi utilissimo, segnarci spesso e devotamente col segno della Santa Croce, specialmente al principio e alla fine delle azioni principali.

CAPO II.

Del Simbolo Apostolico.

(I fanciulli recitino distintamente gli articoli del Simbolo).

SEZIONE la. — Del primo articolo del Simbolo, che contiene la dottrina circa la prima Persona della SS. Trinità e l’opera della creazione.

1° Credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra.

D. 9. Che significa: Credo in Dio?

R. Credo in Dio significa: credo fermamente che vi è Dio e a Lui tendo come a sommo e perfettissimo e ultimo fine.

D. 10. Che cosa intendi col nome di Dio?

R. Col nome di Dio intendo un purissimo spirito, infinito nella intelligenza, nella volontà e in ogni perfezione, uno nell’unità di natura ma in tre Persone distinte: Padre, Figliuolo e Spirito Santo, le quali sono la SS. Trinità.

D. 11. Perché le tre Persone Divine sono un solo Dio?

R. Le tre Persone Divine sono un solo Dio perché sono consostanziali: cioè hanno la stessa identica natura divina, e perciò le stesse perfezioni o attributi.

D. 12. Quali sono le principali perfezioni o attributi di Dio?

R. Le principali perfezioni o attributi di Dio sono:

Dio è:

eterno, perché non ha e non può avere né principio, né fine, né successione di tempo;

onnisciente, perché sa e vede tutto, anche le future azioni libere delle creature, gli stessi affetti del cuore e i più riposti pensieri;

immenso, perché è in cielo, in terra, in tutti i luoghi che sono e che possono essere;

giusto, perché dà a ciascuno secondo i meriti o in questa vita, o, infallibilmente, nell’altra;

onnipotente, perché può fare, con un semplice atto della sua volontà, tutto ciò che vuole;

buono, perché ha creato, conserva e dispone ogni cosa, con la sua infinita bontà, potenza e sapienza, e perché tutti i beni che godiamo provengono da Lui, ed Egli ascolta benigno le suppliche di chi lo prega;

misericordioso, perché volendo la salvezza di tutti gli uomini, li ha redenti dalla schiavitù del demonio, dona a ciascuno i mezzi necessari alla salute e non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

D. 13. Che significa: Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra?

R. Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra significa che Dio trasse dal nulla le creature spirituali ecorporali, cioè gli Angeli, il mondo, e poi l’uomo.

D. 14. Dio ha cura di tutte le cose create?

R. Dio ha cura di tutte le cose create in quanto le conserva, difende e governa, talmente che niente accade o può accadere senza il volere o la permissione di Dio.

D. 15. Come si chiama la cura che Dio ha delle creature?

R. La cura che Dio ha delle creature si chiama divina Provvidenza.

D. 16. Quali sono, fra tutte le creature, le più nobili?

R. Fra tutte le creature le più nobili sono gli Angeli e gli uomini.

D. 17. Chi sono gli Angeli?

R. Gli Angeli sono puri spiriti, dotati di intelligenza e di volontà, i quali furono creati nello stato di giustizia e santità, affinché, corrispondendo alla grazia di Dio, si meritassero la gloria.

D. 18. Gli Angeli corrisposero tutti alla grazia di Dio?

R. Non tutti gli Angeli corrisposero alla grazia di Dio: coloro che furono fedeli, godono ora in cielo la visione beatifica di Dio e si chiamano semplicemente Angeli; quelli invece che prevaricarono furono precipitati nell’Inferno e si chiamano demoni; il loro capo è Lucifero o Satana.

D. 19. Dio si serve del ministero degli Angeli?

R. Dio si serve in molte maniere del ministero degli Angeli, specialmente nella cura che Egli ha degli uomini, a ciascuno dei quali assegna, fin dalla nascita, un Angelo per custode.

D. 20. Giova nella nostra vita spirituale che noi abbiamo un culto speciale per il nostro Angelo Custode?

R. Giova molto alla nostra vita spirituale che noi abbiamo un culto speciale per il nostro Angelo Custode, venerandolo e invocandolo, specialmente nelle tentazioni, seguendo le sue ispirazioni, degnamente ringraziandolo e non offendendo mai la sua presenza col peccato.

D. 21. Per qual fine l’uomo fu creato da Dio?

R. L’uomo fu creato da Dio per conoscerlo, amarlo, servirlo e così poi goderlo dopo morte nella visione beatifica eternamente in Paradiso.

D. 22. Quali furono i progenitori del genere umano?

R. I progenitori del genere umano furono Adamo ed Eva, che Dio creò e pose nel Paradiso Terrestre, elevandoli all’ordine soprannaturale e arricchendoli di singolari doni di natura e di grazia.

D. 23. Come Iddio elevò i progenitori all’ordine soprannaturale?

R. Iddio elevò i progenitori all’ordine soprannaturale, dando ad essi la giustizia e la santità che intendeva conferire alla stessa natura umana.

D. 24. Che cosa Dio proibì ai progenitori elevati all’ordine soprannaturale?

R. Iddio proibì ai progenitori, elevati all’ordine soprannaturale, di mangiare il frutto dell’albero della scienza del bene e del male.

D. 25. I progenitori osservarono la proibizione di Dio?

R. I progenitori non osservarono la proibizione di Dio e perciò per questo grave peccato di superbia e di disubbidienza perdettero la giustizia e la santità; ed espulsi dal paradiso terrestre, furono soggetti alla concupiscenza, alla morte, agli altri dolori e alle altre miserie della vita.

D. 26. Adamo, nella sua prevaricazione, nacque anche ai suoi discendenti?

R. Adamo, nella sua prevaricazione, nocque anche ai suoi discendenti, perché non solo trasmise ad essi la concupiscenza, la morte e gli altri castighi, ma comunicò loro la stessa natura umana privata della giustizia e della santità; e in ciò consiste il peccato originale trasmesso alla sua discendenza.

D. 27. Vi fu alcuno preservato immune dal peccato originale?

R. La sola B. V. Maria, dal primo istante della sua concezione, in vista dei meriti di Gesù Cristo, fu, per singolare privilegio di Dio, preservata immune dal peccato originale e perciò si chiama: la concepita senza peccato.

D. 28. Quale dottrina tiene la Chiesa circa il transito della beata Vergine Maria?

R. Circa il transito della beata Vergine Maria, la Chiesa tiene la dottrina che il corpo di Lei si separò dall’anima, (cioè che la B. V. morì), ma che poi ricongiuntasi di nuovo l’anima al corpo incorrotto, la B. V. Maria, per ministero degli Angeli, fu assunta al cielo ed esaltata sopra tutti i cori degli Angeli.

SEZIONE 2a . — Degli altri sei articoli del Simbolo che contengono la dottrina sulla seconda Persona della SS. Trinità e l’opera della Redenzione.

2° e in Gesù Cristo, unico suo Figliuolo, Signore nostro;

3° il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine;

4° patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito;

5° discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò da morte;

6° salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente;

7° di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti.

D. 29. Che cosa crediamo col secondo articolo del Simbolo: e in Gesù Cristo unico suo Figliuolo Signorenostro?

R . Col secondo articolo del Simbolo: e in Gesù Cristo unico suo Figliuolo Signore nostro, noi crediamo cheil Figlio di Dio, il quale, fatto uomo, si chiama Gesù Cristo,

è l’unigenito del Padre, Signor Nostro, vero Dio da Dio vero.

D. 30. Che cosa crediamo col terzo articolo del Simbolo: il quale fu concepito….?

R. Col terzo articolo del Simbolo: Il quale fu concepito crediamo che il Figlio di Dio, al di sopra d’ogniordine naturale, per virtù dello Spirito Santo, presel’umana natura, cioè corpo ed anima, nel seno purissimodella B. V. Maria, e che nacque da Lei.

D. 31. Perché il Figlio di Dio si fece uomo?

R . Il Figlio di Dio si fece uomo per liberarci dal peccato e così ridonarci la gloria del Paradiso.

D. 32. Il Figlio di Dio, facendosi uomo, cessò d’essere Dio?

R . Il Figlio di Dio, facendosi uomo, non cessò d’essere Dio ma, rimanendo vero Dio, cominciò ad essere anche vero uomo.

D. 33. Quante nature e quante persone sono in Gesù Cristo?

R. In Gesù Cristo vi sono due nature, la divina e la umana, ma vi è una sola Persona, quella cioè del Figlio di Dio.

D. 34. Che cosa crediamo col quarto articolo del Simbolo: Patì….?

R. Col quarto articolo del Simbolo: Patì crediamo che Gesù Cristo, per redimere col sangue suo prezioso l’umanità, patì sotto Ponzio Pilato, procuratore della Giudea, morì confitto in croce, e fu dalla croce deposto e seppellito.

D. 35. Che cosa crediamo nel quinto articolo con le parole: discese all’inferno?

R. Nel quinto articolo del Simbolo, con le parole: Discese all’inferno, crediamo che l’anima di Gesù Cristo, separata dal corpo, ma congiunta sempre con la divinità, discese al Limbo dei Santi Padri, dove le anime dei giusti aspettavano la promessa e desideratissima redenzione.

D. 36. Che cosa crediamo nel quinto articolo del Simbolo con le altre parole: il terzo giorno risuscitò damorte?

R. Nel quinto articolo del Simbolo con le altre parole: il terzo giorno risuscitò da morte, crediamo che Gesù Cristo, il terzo giorno dalla morte, per virtù propria, riunì di nuovo l’anima sua col corpo, per risorgere così immortale e glorioso.

D. 37. Che cosa crediamo col sesto articolo del Simbolo: salì?

R. Col sesto articolo del Simbolo: salì…. crediamoche Gesù Cristo, quaranta giorni dopo la sua resurrezione,per virtù propria salì in anima e corpo al cielo, dovesiede alla destra di Dio Padre onnipotente.

D. 38. Che cosa crediamo col settimo articolo del Simbolo: di là ha da venire….?

R. Col settimo articolo del Simbolo: di là ha da venire…., crediamo che Gesù Cristo alla fine del mondoverrà dal cielo con gli Angeli suoi, per giudicare tutti gliuomini, e allora renderà a ciascuno secondo i suoi meriti.

SEZIONE 3a . — Degli ultimi cinque articoli del Simbolo che contengono la dottrina sulla terza Persona della SS. Trinità e la nostra santificazione.

8° Credo nello Spirito Santo;

9° la Santa Chiesa cattolica, la Comunione dei Santi;

10° la remissione dei peccati;

11° la risurrezione della carne;

12° la vita eterna. Amen.

D. 39. Che cosa crediamo con l’ottavo articolo del Simbolo: Credo nello Spirito Santo?

R . Con l’ottavo articolo del Simbolo: Credo nello Spirito Santo, crediamo che lo Spirito Santo è la terzaPersona della SS. Trinità, che procede dal Padre e dalFigliuolo.

D. 40. Quando lo Spirito Santo discese visibilmente sugli Apostoli e che cosa operò in essi?

R . Lo Spirito Santo discese visibilmente sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste, li confermò nella fede, e li colmò dell’abbondanza de’ suoi doni affinché predicassero il Vangelo e propagassero la Chiesa in tutto il mondo.

D. 41. Che cosa lo Spirito Santo opera nei fedeli?

R . Lo Spirito Santo, con la grazia santificante, le virtù infuse, con i suoi doni e con le grazie attuali d’ogni specie, santifica, illumina e muove i fedeli, affinché essi, corrispondendo alla grazia, giungano al possesso della vita eterna.

D. 42. Che cosa opera lo Spirito Santo nella Chiesa?

R . Lo Spirito Santo, con la sua specialissima e continua assistenza, vivifica la Chiesa, la tiene unita a sé e con i suoi doni infallibilmente la dirige nella via della verità e della santità.

D. 43. Che cosa crediamo nel nono articolo del Simbolo con le parole: la santa Chiesa Cattolica?

R . Nel nono articolo del Simbolo con le parole: la santa Chiesa cattolica, crediamo che v’è una società soprannaturale,visibile, santa e universale che Gesù Cristo,mentre era in terra, istituì e chiamò sua Chiesa.

D. 44. Perché Gesù Cristo istituì la Chiesa?

R. Gesù Cristo istituì la Chiesa per continuare in terra l’opera sua, perché cioè in essa e per essa fino alla fine dei secoli si applicassero agli uomini i frutti della redenzione, compiuta sulla croce.

D. 45. Come Gesù Cristo volle che fosse governata la Chiesa?

R. Gesù Cristo volle che la Chiesa fosse governata dall’autorità degli Apostoli, con a capo Pietro, e dei loro legittimi successori.

D. 46. Chi è il legittimo successore di S. Pietro nel governo della Chiesa universale?

R. Il legittimo successore di S. Pietro nel governo della Chiesa universale è il Vescovo di Roma, cioè il Pontefice Romano o Papa, perché questi succede nel primato di giurisdizione a Pietro, che fu e morì vescovo di Roma.

D. 47. Quali sono i legittimi successori degli Apostoli?

R. I legittimi successori degli Apostoli sono per divina istituzione i Vescovi, posti dal Pontefice Romano a capo delle Chiese particolari che essi governano con potestà ordinaria sotto la di Lui autorità.

D. 48. Quale dunque, tra le varie Chiese che si gloriano del nome cristiano, è la vera Chiesa istituita da Gesù Cristo?

R . Tra le varie Chiese che si gloriano del nome cristiano, la vera Chiesa istituita da Gesù Cristo è quella governata dal Romano Pontefice e dai Vescovi aventi comunione con Lui.

D. 49. Quale potestà Gesù Cristo diede alla Chiesa per raggiungere il fine della sua istituzione?

R. Per raggiungere il fine della sua istituzione, Gesù Cristo diede alla Chiesa la potestà di giurisdizione e d’ordine: la potestà di giurisdizione comprende la potestà di insegnare.

D. 50. Che cos’è la potestà d’insegnare?

 R . La potestà d’insegnare è il diritto e il dovere della Chiesa di custodire, tramandare e difendere la dottrina di Gesù Cristo e di predicarla a tutti gli uomini, indipendentemente da ogni uman potere.

D. 51. Chi ha nella Chiesa la potestà d’insegnare?

R . Nella Chiesa hanno la potestà d’insegnare il Romano Pontefice e i Vescovi uniti con Lui.

D. 52. Nell’ufficio d’insegnare la Chiesa è infallibile?

R. Nell’ufficio d’insegnare la Chiesa è infallibile quando, sia con l’ordinario e universale magistero, sia col solenne giudizio della suprema autorità, propone alla credenza universale le verità di fede e di morale, o rivelate o connesse con le rivelate.

D. 53. A chi spetta di pronunziare tale solenne giudizio?

R . Pronunziare tale solenne giudizio spetta tanto al Romano Pontefice quanto ai Vescovi e al Papa insieme, specialmente se adunati in Concilio universale.

D. 54. Che s’intende per potestà di giurisdizione nella Chiesa?

R. Per potestà di giurisdizione nella Chiesa, s’intende che il Romano Pontefice in tutta la Chiesa, e i Vescovi nelle loro Diocesi, hanno, per raggiungere il fine stesso della Chiesa, la potestà di governare, cioè il potere legislativo, giudiziario, coattivo e amministrativo.

D. 55. Che cos’è la potestà dell’ordine?

R . La potestà dell’ordine è il potere di celebrare le sacre funzioni, specialmente circa il ministero dell’altare. Tale potestà è conferita alla Sacra Gerarchia, massime ai Vescovi, col sacramento dell’Ordine, e tende direttamente alla santificazione delle anime.

D. 56. Chi è fuori della Chiesa di Gesù Cristo?

R. Fuori della Chiesa di Gesù Cristo sono:

1° i non battezzati;

2° gli apostati manifesti, gli eretici, gli scismatici e gli scomunicati che devono evitarsi.

D. 57. Si possono salvare coloro che sono fuori della Chiesa?

R . Coloro che sono fuori della Chiesa per propria colpa non si possono salvare; quanti invece vi si trovano fuori senza propria colpa possono salvarsi se non muoiono in peccato mortale.

D. 58. Che cosa crediamo nel nono articolo del Simbolo con le altre parole: la Comunione dei Santi?

R. Nel nono articolo del Simbolo con le altre parole: la Comunione dei Santi crediamo che tra i membri della Chiesa, per quell’intima unione che li unisce sotto l’unico Capo Gesù Cristo, vi è una vicendevole comunicazione di beni spirituali.

D. 59. Che cosa crediamo col decimo articolo del Simbolo: la remissione dei peccati?

R. Col decimo articolo del Simbolo: la remissione dei peccati crediamo che nella Chiesa vi è, per i meriti diGesù Cristo, una vera potestà di perdonare i peccati.

D. 60. Che cosa crediamo con l’undicesimo articolo del Simbolo: la resurrezione della carne?

R. Con l’undicesimo articolo del Simbolo: la resurrezione della carne crediamo che alla fine del mondo tuttii morti, richiamati alla vita, risorgeranno per il giudiziouniversale, riprendendo ogni anima il proprio corpo alquale f u congiunta in vita, per non mai più separarsene.

D. 61. Perché Dio volle che i corpi dei morti risorgessero?

R . Dio volle che i corpi dei morti risorgessero, perché l’uomo tutto intero conseguisse, secondo i meriti e per tutta l’eternità, o il premio in Paradiso o la pena nell’Inferno.

D. 62. Che cosa crediamo con l’ultimo articolo del Simbolo: la vita eterna?

R. Con l’ultimo articolo del Simbolo: la vita eterna, crediamo che dopo morte è preparata per gli eletti la perfettaed indefettibile felicità del Paradiso, mentre per ireprobi restano le eterne pene dell’Inferno.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (2)

DELLA PRESENZA DI DIO [2]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO IV.

Che questa perfetta conformità alla volontà di Dio è una felicità e beatitudine qui in terra.

Chi arriverà ad avere questa intera conformità alla volontà di Dio, pigliando tutte de cose che succederanno come venute dalla sua mano, e conformandosi in esse alla sua santissima e divina volontà, avrà acquistata una felicità e beatitudine qui in terra; perché godrà una pace e tranquillità molto grande, e avrà sempre un gaudio ed un’allegrezza perpetua nell’anima sua, che è la felicità e beatitudine che godono di qua i gran servi di Dio: essendo che, come dice l’Apostolo, Non est regnum Dei esca et potus, sed justìtia, et pax, et gaudium in Spiritu sancto (Ad Rom. XIV. 17): Non istà la beatitudine di questa vita nel mangiare e nel bere, né in darsi ai passatempi e ai diletti sensuali; ma nella giustizia e pace e nel gaudio dello Spirito Santo. Questo è il regno del cielo qui in terra e il paradiso de’ diletti che possiamo di qua godere. E con ragione questa si chiama beatitudine, poiché ci fa in un certo modo simili a’ Beati. Perciocché siccome in cielo non vi sono mutazioni, né certi va e vieni; ma sempre stanno fermi e permanenti i Beati in un essere, godendo Dio; così qui quei che sono arrivati a questa intera e perfetta conformità, che tutto il loro gusto e contento sia il gusto e la volontà di Dio, non s’inquietano, né si turbano colle mutazioni di questa vita, né coi vari accidenti che avvengono, perché la lor volontà e il cuor loro è tanto unito e conforme alla volontà divina, che il vedere, che tutte quelle cose vengono dalla sua mano e che si eseguisce in esse la volontà e il gusto di Dio, fa che i travagli si convertano loro in allegrezza; perché vogliono più tosto ed amano più la volontà del loro Signore, che la propria: e così non vi è cosa che possa turbar questi tali; perché se quelle cose che li potrebbero turbare e attristare, che sono i travagli, le avversità, i disonori, sono ricevute da essi e stimate come grazie e favori particolari, per venir loro dalla mano di Dio e per esser quella la divina volontà; non vi rimane cosa che li possa inquietare, né toglier loro la pace e la tranquillità dell’anima. Questa era la sorgente di quella pace ed allegrezza perpetua nella quale leggiamo che vivevano continuamente quei Santi antichi; un S. Antonio, un S. Domenico, un S. Francesco, ed altri simili: e l’istesso leggiamo del nostro S. P. Ignazio (Lib. 5, c. 5 V i tæ P. N. S. Ign.), e lo veggiamo ordinariamente ne’ gran Servi di Dio. Mancavano forse travagli a quei Santi? non avevano forse tentazioni e infermità come noi altri? non avvenivano forse loro vari e diversi casi? sì certamente, e più scabrosi che a noi altri, perché  quei che sono più santi sogliono essere da Dio più provati ed esercitati con cose simili. Come dunque stavano sempre in un medesimo essere? con un medesimo sembiante? con una certa serenità ed allegrezza interiore ed esteriore che sempre pareva che fosse Pasqua per essi? La cagione di ciò era quella che andiamo dicendo; perché erano arrivati ad avere una intera conformità alla volontà di Dio ed avevano posto ogni lor gusto nell’adempimento di essa; e così ogni cosa si convertiva loro in contentezza. Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Ad Rom. VIII, 28): — Non contristàbit justum quidquid ei acciderit (Prov., XII, 21). Il travaglio, la tentazione e la mortificazione, ogni cosa si convertiva loro in allegrezza, perché conoscevano, che quella era la volontà di Dio, e questa era tutta la contentezza loro. Già avevano conseguita la felicità e la beatitudine che in questa vita si può godere, onde stavano come in gloria. Dice molto bene a questo proposito S. Caterina da Siena (D. Cath. Sen. In Dial.), che i giusti sono come Cristo nostro Redentore, il quale non perde mai la beatitudine dell’anima, sebben pativa molti dolori e pene: così i giusti non perdono mai questa beatitudine che consiste nella conformità alla volontà di Dio, ancorché abbiano molte avversità; perché sempre dura ed è permanente in essi l’allegrezza e il gusto della volontà e del voler di Dio che s’adempisce in quelle cose. –  E questa è una perfezione tanto alta e sublime, che l’apostolo S. Paolo dice che supera ogni senso: Et pax Dei, quæ exuperat omnem sensum, custodiat corda vestra, et ìntelligentias vestras in Christo Jesu (Ad Phil. IV): dice, che questa pace supera ogni senso; perché è un dono di Dio tanto alto e soprannaturale, che non può l’intelletto umano da sé solo comprendere, come sia possibile, che un cuore di carne stia quieto, e pacifico, e consolato nel mezzo de’ turbini e delle tempeste, delle tentazioni e de’ travagli di questa vita. S’assomiglia questa cosa a quella meraviglia del roveto che Mosè vide che ardea e non si abbruciava (Es. III, 2); e al miracolo di quei tre giovanetti che stavano nella fornace di Babilonia, i quali in mezzo del fuoco si conservarono sani ed illesi, lodando Dio. Questo è quello che diceva il santo Giob parlando con Dio: Mirabiliter me crucias (Job. X, 16): Mi tormenti, Signore, mirabilmente; dimostrando da una banda il travaglio e dolor grande che pativa, e dall’altra il gusto e la contentezza grande ch’aveva in patirlo, per esser quella la volontà e il gusto di Dio. Cassiano racconta (Cass. coll. 12, c. 13), che stando un santo vecchio in Alessandria circondato da gran moltitudine d’infedeli che gli dicevano molte maldicenze, egli se ne stava in mezzo di essi come un agnellino, sopportando e tacendo con gran quiete di cuore. Lo schernivano, lo percuotevano, gli davano urtoni, e gli facevano altre gravissime ingiurie, e fra le altre cose gli dissero con ischerno: Che miracoli ha fatti Gesù Cristo? Al che egli rispose: I miracoli che ha fatti sono, che mentre io sto patendo le ingiurie che mi fate, non mi sdegni né m’adiri contra voi altri, né mi turbi con alcuna passione; anzi stia apparecchiato a soffrirne ancora delle altre molto maggiori. Questo è un gran miracolo e una molto alta e sublime perfezione. Dicono gli antichi di quel monte della Macedonia chiamato Olimpo, e l’apporta S. Agostino in molti luoghi, che è di tanto grande altezza, che nella sommità di esso non si sentono venti, né vi cadono piogge né nevi: Nubes excedit Olympus (D . Aug. lìb. de Gen. ad litt. in imperfecto, c. 13, et lib. 3, o. 2, et lib, 1 de Gen. contra Manich, c . 15; Lucan. lib . 2 Pharsalic.). Nemmeno gli uccelli vi possono far nido, perché  è tanto alto, che supera questa prima regione dell’aria e arriva alla seconda: e così l’aria è ivi tanto pura e sottile, che non vi si possono né formare né sostentare le nuvole, le quali per ciò hanno bisogno d’aria più densa: e per l’istessa ragione non si possono ivi sostenere su le lor ali gli uccelli, nemmeno vi posson vivere gli uomini, perché essendo l’aria tanto sottile e depurata, non è sufficiente per poter respirare. E di questo diedero notizia alcuni che salivano colà d’anno in anno a far certi sacrifici, ed i quali portavano seco certe spugne bagnate, acciocché mettendosele alle narici potessero condensar l’aria ed essi così respirare. Costoro scrivevano colà su nella polvere certe lettere le quali trovavano l’anno seguente così ben formate e intere come le avevano lasciate; il che non sarebbe potuto accadere, se fossero arrivati colà i venti e le piogge. Or questo è lo stato di perfezione al quale sono ascesi e arrivati quelli che. hanno questa piena conformità alla volontà di Dio. Nubes excèdit Olympus; et pacem summa tenerti. Sono ascesi ed arrivati tanto alto, ed hanno già acquistata una pace così grande, che non vi sono nuvole né venti né piogge che colà giungano, né vi sono uccelli di rapina che insidiino né predino la pace e allegrezza del loro cuore. S. Agostino sopra quelle parole, Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (D. Aug. lib. 1 de serm. Dom. in monte c. 8, in Matth. v. 9), dice, che perciò Cristo nostro Redentore chiama i pacifici, beati e figliuoli di Dio, perché non è in essi cosa che resista né contraddica alla volontà di Dio; ma in ogni cosa si conformano ad essa come buoni figliuoli, i quali in tutte le cose procurano d’assomigliarsi al padre, non avendo altro volere, né altro non volere, che quello che il Padre vuole, o non vuole. Questo è uno de’ più elevati e principali punti che siano nella vita spirituale. Chi arriverà a pigliare tutte le cose che gli avverranno, tanto grandi quanto piccole, come venute dalla mano di Dio, e a conformarsi in esse alla divina volontà sua, di maniera che tutto il suo gusto sia il gusto di Dio e l’adempimento della sua santissima volontà, questo tale ha trovato il paradiso qui in terra: Factus est in pace locus ejus, et habitatio ejus in Sion (Ps. LXXV, 3). Questo tale, dice S. Bernardo (D. Bernard. In sentent.), potrà con ogni sicurezza e fiducia cantar quel Cantico del Savio: In his omnibus requiem qucesivi, et in hæreditate Domini morabor (Eccli. XXIV, 11); perché ha trovato il vero riposo e il pieno e compiuto gaudio che da niuno gli potrà esser tolto. Ut gaudium vestrum sit plenum — Et gaudium vestrum nemo tollet a vobis (Jo. XVI, 24 et 22). Oh se finissimo una volta di metter ogni nostra contentezza nell’adempimento della volontà di Dio, che la volontà nostra fosse sempre la sua e il nostro gusto il suo! Che non avessi io, Signore, altro volere, ed altro non volere, che quello che volete, o non volete voi, e che questa fosse la mia consolazione in tutte le cose: Mihi autem adhærere Deo bonum est, ponere in Domino Deo spem meam (Ps. LXXII, 27). Oh quanto buona cosa sarebbe per l’anima mia unirmi a Dio in questo modo! Oh quanto felici saremmo, se stessimo sempre tanto uniti a lui, che in ciò che facciamo, o patiamo, non riguardassimo altra cosa, se non che stiamo adempiendo la volontà di Dio, e questa fosse ogni nostra contentezza e ricreazione! Questo è quello che dice quel santo uomo: Quegli al quale Dio è ogni cosa, e tutte le cose riferisce a Dio, e vede ogni cosa in Dio, può essere stabile di cuore, e starsene con somma pace in Dio (Thom. A Kemp. Lib. 1, c. 3, n. 2).

CAPO V.

Che in Dio solo si trova contentezza, e chi la metterà in altra cosa non potrà avere contentezza vera.

Quelli che mettono la contentezza loro in Dio e nella sua divina volontà, godono una contentezza ed allegrezza perpetua; perché come stanno appoggiati a quella ferma colonna della volontà di Dio, partecipano di quella immutabilità della volontà divina; e così stanno sempre fermi ed immobili in un medesimo essere. Ma quelli che stanno attaccati alle cose del mondo e in esse tengono posto il cuore e la contentezza loro, non possono avere contentezza vera né durabile; perché camminano insieme con queste cose, e dipendono da esse; e cosi stanno soggetti alle mutazioni delle medesime. Il glorioso S. Agostino dichiara questo molto bene sopra quelle parole del profeta David, Concepii dolorem, et peperit iniquitatem, dicendo: Non enim poterit làbor finiri, nisi hoc quisque diligat, quod invito non possit auferri (D. Aug. in Ps. VII, 15). Tieni per certo, che fino a che non metterai la tua contentezza in quella cosa che da niuno ti può esser tolta contra tua voglia, sempre starai con ansia e con affanno. Leggiamo del nostro P. Francesco Borgia, che arrivato che fu a Granata col corpo dell’Imperatrice, quando si ebbe da far la consegnazione di esso, aprirono la cassa di piombo nella quale stava riposto; e scoprirono la sua faccia, la quale era tanto mutata, tanto brutta e contraffatta, che metteva orrore a quei che la guardavano. Questa cosa cagionò in lui tanto sentimento, che toccandogli Dio il cuore con quel sì gran disinganno del mondo, fece questo fermo proponimento: Io mi risolvo, o mio Dio, di non più servire padrone che mi possa mancare (Lib. 1, c. 7 Vita; P. Franc., de Borgia ). Ora pigliamo noi altri questa risoluzione la quale è molto buona. Io fo proponimento, Signore, di non mettere per l’avvenire il mio cuore in cosa che mi possa mancare, in cosa che possa aver fine, né in cosa che da altri mi possa esser tolta contra mia voglia: perché  altrimenti non potremo avere vera contentezza: Nam cum ea diliguntur, dice S. Agostino, quos possumus contra voluntatem amittere, necesse est, ut prò iis miserrime laboremus (D. Aug. ubi supra): perché se tieni posto il tuo amore e la tua affezione in quella cosa che ti può esser tolta contra tua voglia, senza dubbio quando ti sarà tolta ne sentirai dolore. Questa è cosa naturale, non lasciarsi senza dolore quello che si possiede con amore: e quanto maggiore sarà l’amore, tanto maggiore sarà il dolore: onde confermando questa medesima cosa in un altro luogo il medesimo Santo dice: Qui vult gaudere de se, tristis erit. Se tu metti la tua contentezza nel tal ufficio, o nella tale occupazione, o nello stare nel tal luogo, o in altra cosa simile, cotesta contentezza ti potrà esser tolta facilmente dal Superiore, e così non vivrai mai contento. Se metti la tua contentezza nelle cose che sono secondo la volontà tua, o nell’adempimento di essa, elle si mutano facilmente; e quando bene non si mutassero esse, ti muti tu stesso; perché quello che oggi ti piace e ti gusta, domani ti dispiace e ti disgusta. Se non lo credi, vedilo in quello stolto popolo degl’Israeliti, che favoriti da Dio col miracoloso isquisitissimo cibo della manna, se ne infastidirono e domandarono altro cibo; e vedendosi in libertà, tornarono subito a desiderare la servitù, e sospiravano per l’Egitto e per gli agli e le cipolle che mangiavano colà, e molte volte desiderarono di tornarvi. Non avrai mai contentezza, se la metterai in queste cose: Qui autem de Deo vult gaudere, semper gaudebit; quia Deus sempi ternus est: Ma chi metterà tutta la sua contentezza in Dio e nell’adempimento della sua divina volontà, vivrà sempre contento; perché Dio è sempiterno, mai non si muta, sempre resta e dura in un essere. Dunque, vis habere gaudium sempiternum? dice il Santo, admire Hit, qui sempiternus est: Vuoi tu avere un gaudio e una contentezza perpetua e sempiterna? metti il tuo cuore in Dio che è sempiterno (S. Aug. tract. 24 in Jo.). Lo Spirito santo assegna questa differenza tra l’uomo sciocco e l’uomo savio e santo: Stultus sicut luna mutatur; homo sanctus in sapientia manel sicut sol (Eccli. XXVII, 12). Lo sciocco si muta come la luna, oggi crescente, domani calante: oggi lo vedrai allegro, domani malinconico; ora d’un umore, e tra poco di un altro; perché tien posta la sua contentezza nelle cose del mondo mutabili e transitorie; e così si muove al muoversi di esse, e va variando al variare de’ loro successi. Nel flusso e riflusso de’ suoi affetti, appunto come il mare, va colla luna, ed è lunatico. Ma l’uomo giusto e santo è permanente come il sole, sempre di un istesso tenore e in un medesimo essere: non sono in esso né crescenze né scemamenti. Il vero servo di Dio sempre sta allegro e contento; perché ha riposta la sua contentezza in Dio e nell’adempimento della sua santissima volontà che non può mancare né gli può da alcuno esser tolta. Si dice di quel santo abbate chiamato Deicola, che sempre andava ridendo; e domandato per qual cagione, diceva, Christum a me tollere nemo potest (Abb. Deicol. In Vit. Patr.): Sia quel che si voglia essere e venga quello che vuol venire, che nessuno può togliermi Dio. Quest’uomo aveva trovata la vera contentezza; perché l’aveva posta in cosa che non gli poteva mancare e che da nessuno gli poteva esser tolta. Facciamo dunque così noi altri: Exultate, justi, in Domino (Psal. XXXII, 1). S. Basilio sopra queste parole dice: Avvertite, che il Profeta non dice, che vi rallegriate nell’abbondanza delle cose temporali, nemmeno nella vostra molta abilità ed ingegno, non nelle molte lettere e nei grandi talenti che avete, né che vi rallegriate nella buona sanità e nelle grandi forze corporali, nemmeno nell’esser in molta riputazione e in molta stima presso gli uomini; ma che vi rallegriate nel Signore, e che mettiate tutta la vostra contentezza in Dio e nell’adempimento della sua santissima volontà; perché questa sola cosa è quella che sazia; e tutto il rimanente non può dare soddisfazione né vera contentezza (D. Basil. 8 in eumdem Ps.). S. Bernardo in un Sermone che fa sopra quelle parole di S. Pietro, Ecce nos reliquimus omnia etc., va dichiarando e provando molto bene questa cosa, e dice: Anima rationalis ceteris omnibus occupavi potest, repleri omnino non potest (2 (2) D. Bern. in Matth. XIX, 27): Tutte le altre cose fuori di Dio possono bensì occupar l’anima e il cuore dell’uomo, ma non lo possono saziare; possono provocare e stuzzicare la fame, ma non levarla: Avarus non implebitur pecunia (Eccle. v, 9): come appunto accade all’avaro il quale, per detto del Savio, ha gran fame di denari; ma abbiane quanti ne può avere, non si sazierà mai: e il medesimo è di tutte le altre cose del mondo, che non potranno giammai saziare l’anima nostra. E ne rende la ragione S. Bernardo con dire: Sai perché le ricchezze e tutte le cose del mondo non ci possono saziare? Quia non sunt naturales cibi animæ (D. Bernard., tract. de dil. Deo c. 3 in fine); perché non sono cibo naturale né proporzionato dell’anima. Siccome l’aria e il vento non sono cibo naturale né proporzionato del nostro corpo, e ti rideresti, se vedessi che un uomo, morto di fame si mettesse colla bocca aperta all’aria, come un camaleonte, pensando di potersi con quello saziare e sostentare, e lo terresti per pazzo; così non è minor pazzia, dice il Santo, il pensare, che l’anima razionale dell’uomo, la qual è spirito, si abbia da saziare colle cose temporali e sensuali: Inflari potest, satiari non potest: Si può gonfiare come un otre coll’aria, ma saziarsi è impossibile; perché non è questo il suo cibo. Dà a ciascuno il suo nutrimento proporzionato, al corpo cibo corporale, e allo spirito spirituale; Panis namque animai justitia est, et soli beati, qui esuriunt illam; quoniam ipsi saturabuntur (Idem sup. Illa verba, Ecce nos reliquimus omnia). Il pane dell’anima, il suo cibo naturale e proporzionato, è la giustizia la virtù; e così solamente quei che hanno fame e sete di questa giustizia saranno beati, perché essi saranno saziati. Il beato S. Agostino dichiarando tuttavia più questa ragione ne’ suoi soliloqui, e parlando dell’anima ragionevole, dice: Facto est capax majestatìs tua!, ut a te solo, et a nullo alio, possit impleri (D. Aug. c. 30 Solil.): Facesti, Signore, l’anima ragionevole capace della tua maestà, di maniera tale che nessun’altra cosa la possa appagare né saziare, se non tu. Quando l’incavo e l’incastro di un anello è fatto alla misura di qualche pietra preziosa, nessun’altra cosa che ivi si metta vi sta bene, né finisce di riempier quel vacuo, se non quella pietra preziosa alla cui misura fu fatto: e se l’incavo è triangolare, nessun’altra cosa rotonda lo potrà empire. Ora l’anima nostra fu creata ad immagine e similitudine della santissima Trinità, con un vacuo e un incavo nel nostro cuore capace di Dio e proporzionato per ricever in sé l’istesso Dio. E così è impossibile ch’altra cosa possa riempiere questo vacuo, che il medesimo Dio. – Tutta la rotondità del mondo non basterà ad empierlo. Fecisti nos, Domine, ad te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te (Idem, lib. 1 Confess. c. 1): Ci facesti, Signore, per te; e così non si può quietare il nostro cuore né aver riposo, se non in te. – È molto buona questa cosa, e si dichiara molto bene con quella similitudine che comunemente si suol portare dell’ago, o frezzetta dell’oriuoletto portatile da sole. La natura di quest’ago, dopo essere stato toccata colla pietra calamita, è di volgersi e guardare verso la tramontana; perché Dio gli diede questa naturale inclinazione: e vedrai quanto sta inquieto quell’ago, e quante volte si gira e si rigira, sin a tanto che si drizzi colla punta a tramontana, e come fatto questo subito si ferma. Or così Dio creò l’uomo con questa naturale inclinazione e risguardo a Lui come a sua tramontana ed ultimo fine: onde finché non metteremo il nostro cuore in Dio, sempre staremo, come l’ago suddetto, mobili e inquieti. A qualsivoglia di quelle parti mobili del cielo che guardi quell’ago, non si quieta; e subito che guarda ad un punto del cielo che non si muove, rimane fisso ed immobile: così mentre metterai gli occhi e il cuore nelle cose del mondo mutabili e transitorie, non potrai aver quiete né contentezza: mettilo in Dio, e l’avrai. – Questo ci dovrebbe muovere grandemente a cercar Dio, ancorché non fosse per altro che per nostro proprio interesse; perché  tutti desideriamo d’aver contentezza. Dice S. Agostino : Scimus, fratres, quoti omnis homo gaudere desiderat; sed non omnes ibi quærunt gaudium, ubi oportet inquivi (D. Aug. serm. 20 de Sanct.): Sappiamo bene, Fratelli miei, che ogni uomo naturalmente desidera contentezza e quiete, e la procura quanto può, perché non ne può viver senza; ma tutto il discernimento, o inganno degli uomini sta nell’affrontare a mettere gli occhi e il cuore nella contentezza vera, o nel mettergli in quella che è apparente e falsa. L’avaro, il lussurioso, il superbo, l’ambizioso e il goloso, tutti desiderano aver contentezza; ma uno mette la sua contentezza nel posseder molte ricchezze; l’altro negli onori e nelle dignità; l’altro nel mangiare e banchettare; l’altro ne’ piaceri disonesti: non hanno affrontato a mettere la contentezza loro ove l’avevano da mettere, e così non la troveranno mai; perché tutte queste cose e quanto è nel mondo, non basta a saziare l’anima né a darle contentezza. E così S. Agostino dice: Quid ergo per multa vagaris, homuncio, quærendo bona animæ tuæ et corporis tui? Ama unum bonum, in quo sunt omnia bona, et sufficit: desidera simplex bonum, quod est omne bonum, et satis est. Idem de Spir, et Anima , c»p, 64.): A che fare ti stracchi, uomicciuolo, cercando queste cose di qua? se vuoi avere sazietà e contentezza, ama Dio, e questo basta; perché  in esso stanno tutti i beni, ed Egli solo è quegli che può saziare ed empiere il desiderio del tuo cuore. Benedic, anima mea, Domino, qui replet in bonis desiderium tuum (Psal. CII, 1, 5). Benedetto, lodato e glorificato ne sia Egli in eterno. Amen.

CAPO VI.

Si dichiara per un altro verso come il conformarci alla volontà di Dio è mezzo per aver contentezza.

Il glorioso S. Agostino, sopra quelle parole del Salvatore, Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo , hoc faciam (D. Aug. tract. 73 in Jo.; Jo. xiv. 13). Qualsivoglia cosa che domanderete al mio Padre in mio nome, vi sarà da me conceduta, dice che non deve uno cercar pace e quiete per la via di far la volontà propria e di conseguire quel che appetisce; perché non è questo il suo bene né quello che gli conviene; anzi questo sarebbe forse male per esso; ma ha da procurare di accomodarsi semplicemente in quel bene, o in quel meglio che Dio gli manda, e questo è quello che ha da chiedere a Dio: Quando enim nos delectant mala, et non delectant bona; rogare debemus pótius Deum, ut delectent bona, quam ut concedantur mala: Se non trovi gusto nell’adempimento della volontà di Dio, che è il vero bene, ma il tuo gusto e appetito ti porta a cercare l’adempimento della tua volontà, hai da chiedere e porger suppliche a Dio, che non ti conceda quello che tu vuoi, ma che ti dia gusto nell’adempimento della sua divina volontà, che è il tuo vero bene e quello che ti conviene. E porta a questo proposito quel fatto che si legge ne’ Numeri (Num. XI, 4), quando i figliuoli d’Israello s’infastidirono della manna del cielo che Dio mandava loro, e desiderarono e domandarono carne, che Dio soddisfece al desiderio loro; ma costò loro molto caro, perché, Adhuc esca? eorum erant in ore ipsorum, et ira Dei ascendit super eos. Et occidit pingues eorum, et electos Israel impediva (Ps. LXXVII): Dio li castigò, facendo una grande uccisione d’essi. È cosa chiara, ch’era migliore la manna del cielo che Dio mandava loro, che la carne da essi desiderata e che le cipolle e gli agli dell’ Egitto per i quali sospiravano; onde non dovevano dimandar queste cose a Dio, dice il Santo, ma sì bene, che risanasse loro il palato, acciocché avessero avuto buon gusto del cibo celeste, e così non avrebbero avuto a desiderare altro cibo; poiché nella manna avevano tutte le cose e tutti i sapori che potevano desiderare (Sap. XVI, 20). Nell’istesso modo quando tu stai colla tentazione, o colla passione, ed hai il gusto corrotto e guasto, sì che non gusti della virtù né del bene, ma come infermo appetisci cose cattive e nocive; non t’hai da regolare col tuo appetito, né hai da volere che s’adempisca quel che desideri; perché questo non sarà mezzo per aver contentezza, ma per aver di poi maggior disgusto e maggiore inquietudine e scontentezza. Quello che hai da desiderare e da domandar a Dio, è che ti risani il palato e ti dia gusto nell’adempimento della santissima volontà sua, ch’è il bene e quello che ti conviene; e in questo modo verrai a conseguire la vera pace e la vera contentezza. S. Doroteo (D. Doroth. Doctr. 9) va in questo per un’altra strada, o per dir meglio, dichiara questa cosa in un altro modo, e dice, che colui il quale conforma in ogni cosa la volontà sua a quella di Dio, di maniera che non ha altro volere, né altro non volere che quello che Dio vuole, o non vuole, viene in questo modo a far sempre la sua propria volontà e ad aver sempre molta pace e quiete. Poniamo esempio nell’ubbidienza, e con ciò resterà dichiarato quel che vogliamo dire, e faremo, come suol dirsi, d’un viaggio due servigi. Diciamo comunemente a quei che vogliono essere Religiosi e camminare per la strada dell’ubbidienza: Avvertite, che qui nella Religione non avete da fare la volontà vostra in cosa alcuna; e S. Doroteo dice: Andate pure alla Religione, che in essa potete ben fare la volontà vostra: io vi darò un mezzo da poter fare tutto il giorno la vostra volontà non pur lecitamente, ma santamente e con gran perfezione. Sapete come? Qui propriam non habet voluntatem, suam ipsius semper agit voluntatem: Il Religioso che è vero ubbidiente, e non ha propria volontà, sempre fa la volontà sua, perché fa sua la volontà altrui: Et sic, nolentes propriam explere voluntatem, invenimur illam semper explevisse: Procurate voi che la volontà vostra non sia altra che la volontà del Superiore; e così tutto il giorno andrete eseguendo la vostra volontà, e con gran perfezione e merito: perché in questa maniera io dormo quanto voglio; perché non voglio dormire più di quello che è ordinato dall’ubbidienza: e mangio quel che voglio; perché non voglio mangiar più di quello che mi è dato: e fo l’orazione, la lezione e la penitenza che voglio; perché in tutto questo non voglio se non quello che dall’ubbidienza è tassato e ordinato: e così in tutto il resto. Di maniera che il buon Religioso, non volendo fare la volontà sua, viene a far sempre la sua volontà: e perciò stanno tanto allegri e contenti i buoni Religiosi. Quel far sua la volontà dell’ubbidienza li fa star sempre contenti ed allegri. In questo sta tutto il punto della facilità o difficoltà della Religione, e da questo dipende l’allegrezza e la contentezza del Religioso. Se ti risolvi di lasciare la tua propria volontà e di pigliare per tua la volontà del Superiore, ti si farà molto facile e soave la Religione, e vivrai con gran contento e allegrezza. Ma se hai altra volontà differente da quella del Superiore, non potrai vivere nella Religione. Due volontà differenti non sono compatibili in un solo. Ancora con non avere noi altri se non una volontà sola, pure perché abbiamo un appetito sensitivo che contraddice alla volontà e alla ragione, abbiamo da fare a difenderci da esso, non ostante che questo appetito sia inferiore e subordinato alla nostra volontà; or che sarebbe, essendoci due volontà, ciascuna delle quali pretendesse essere la padrona? Nemo potest duobus dominis servire (Matth. VI, 24): Nessuno può servire a due padroni. La difficoltà della Religione non istà tanto nelle cose e nei travagli che sono in essa, quanto nella ripugnanza della nostra volontà e nella apprensione della nostra immaginazione: questa è quella che ci rende le cose pesanti e difficili. Questo si conoscerà molto bene dalla differenza che esperimentiamo in noi altri quando abbiamo tentazioni e quando non ne abbiamo; perché quando stiamo senza tentazioni, veggiamo che le cose ci si fanno facili e leggiere; ma ti verrà una tentazione e ti si caricherà addosso una tristezza e malinconia grande; e allora quel che ti soleva esser facile ti diventa molto difficile, e ti pare di non poter portare sì gran peso, e che per farlo bisogna che si congiunga il cielo colla terra. Non istà la difficoltà nella cosa, poiché è la medesima ch’era prima; ma nella tua mala disposizione: come quando l’infermo abborrisce il cibo, non istà il male nel cibo, che questo è buono e ben condito, ma nel cattivo umore dell’infermo, il quale fa che il cibo gli paia cattivo e di mal sapore: così è qui nel caso nostro. Questa è la grazia che Dio fa a quei che chiama alla Religione, il dar loro gusto e sapore nel seguire la volontà altrui. Questa è la grazia della vocazione, colla quale il Signore ci ha fatti di miglior condizione che i nostri fratelli rimasi colà nel mondo. Chi ti diede cotesta facilità in lasciare la volontà tua e in seguir quella di un altro? chi ti diede un cuor nuovo per abborrire con esso le cose del mondo e per gustare del ritiramento dell’orazione e della mortificazione? non sei già nato con questo; no certamente, ma più tosto col contrario: Sensus enim, et cogìtatio humani cordis in malum prona sunt ab adolescentia sua (Gen. VIII, 21). Questa è stata grazia e dono dello Spirito santo: Egli fu quegli che come buona madre ti pose nelle poppe del mondo l’aloe, acciocché ti diventasse amaro quello che prima ti era dolce; e pose mele soavissimo nelle cose della virtù e della Religione, acciocché ti diventasse saporito e soave quello che prima ti pareva amaro e di mal sapore: Domine, qui me custodisti ab infantia, qui abstulistì a me amorem sæculi, diceva già quella gran Santa (In Vita B. Agat. et Eccl. in Off. ejus sol.): Ti rendo, Signore, infinite grazie, perché mi hai custodita ed eletta fino dalla mia fanciullezza e perché hai levato via dal mio cuore l’amor del secolo. Ah! che non è gran cosa quella che noi altri facciamo nel renderci Religiosi; ma è bensì molta e grandissima la grazia che Dio ci ha fatta nel tirarci alla Religione e nel far che gustiamo della manna del cielo, mentre gli altri gustano e si trattengono cogli agli e colle cipolle dell’Egitto. Alle volte mi metto a considerare, come quei del mondo si svestono della volontà loro e fanno propria la volontà altrui per i loro guadagni e interessi, cominciando dal primo personaggio che sta al lato del Re, sino all’ultimo staffiere e all’ultimo mozzo di stalla. Mangiano, come essi stessi dicono, secondo la fame altrui, dormono secondo l’altrui sonno, e sono tanto assuefatti a questo, ed hanno fatta talmente lor propria la volontà altrui, che gustano di quella maniera di vivere e la tengono per trattenimento: Et Mi quidem, ut corruptibilem coronam accipiant; nos autem incorruptam (1 Cor. IX, 25). Or che gran cosa è. Che noi altri gustiamo di un modo di vivere tanto ben ordinato, quanto è quello della Religione, e facciamo propria la volontà del Superiore, la quale è migliore che la nostra? Se quelli per un poco di onore e di interesse temporale si fanno tanto propria la volontà altrui, che arrivano ad avere per gusto e per trattenimento il seguirla e il fare della notte giorno e del giorno notte; che gran cosa è, che noi facciamo questo per amor di Dio e per acquistare la vita eterna? Risolviamoci dunque di far nostra la volontà del Superiore, e in questo modo faremo sempre la volontà nostra, e vivremo molto contenti ed allegri nella Religione, e sarà la nostra allegrezza e il nostro gusto molto spirituale. Ritorniamo ora al nostro intento e applichiamo questo al nostro proposito. Facciamo nostra la volontà di Dio, conformandoci ad essa in tutte le cose, e non avendo altro volere, o non volere, che quello che Dio vuole, o non vuole ; e in questa maniera verremo a far sempre la propria volontà nostra e a vivere con gran contento e allegrezza. Chiara cosa è, che se tu non vuoi se non quel che Dio vuole, si farà la volontà tua; perché si farà quella di Dio, che è quello che tu vuoi e desideri. Insino Seneca seppe dir questo (1 Seneca in præfat. lib. 3 nat. quæst.). La più alta e più perfetta cosa che sia nell’uomo, dic’egli, è saper sopportare con allegrezza i travagli e le avversità, e tollerar tutto quello che succede, come se di sua propria volontà il tutto gli succedesse; perché l’uomo è obbligato a volere così, sapendo che questa è la volontà divina. Oh! quanto contenti vivremmo, se accertassimo bene a far nostra la volontà di Dio e a non voler mai se non quello che Egli vuole; non solo perché sempre si farà la volontà nostra, ma ancora e principalmente per vedere, che sempre si fa e si adempie la volontà di Dio che tanto amiamo. Che sebbene abbiamo ancora a valerci di quel tanto che ora si è detto; nondimeno in questo poi dobbiamo finalmente venire a fermarci, e in questo abbiamo da mettere ogni nostra contentezza, nel gusto e soddisfazione di Dio, e nell’adempimento della santissima e divina volontà sua: Omnia quæcumque voluit Dorninus, fecit, in cœlo, et in terra, in mari, et in omnibus abyssis ( Ps. CXXXIV, 9): Tutte le cose che il Signore ha voluto, ha fatte, e farà tutte quelle che vorrà; e può fare quanto può volere, come dice il Savio: Subest enim tibi, cum volueris, posse (Sap. XII, 18): Né vi è chi glielo possa impedire, né chi gli possa resistere: In ditione enim tua cuncta sunt posita, et non est qui possit tuœ resistere voluntati (Esther XIII, 9); Voluntati ejus quis resistit (Ad Rom. IX, 19)?

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (3)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “UBI PRIMUM”

Quanta delicatezza, sapienza, rettitudine di intenti, paterne esortazioni, contiene questa prima lettera enciclica dell’appena eletto Cardinal Lambertini al soglio di Pietro, con il nome di Benedetto XIV. Con grande lungimiranza il Sommo Pontefice comprende che il futuro della Chiesa di Cristo e la sua stabilità morale e dottrinale dipende dalle capacità ed dalla volontà benigna dei Vescovi, successori degli Apostoli ed in comunione con il Vicario di Cristo. Quando le sette della perdizione concepirono il turpe disegno di infiltrare la Chiesa di Cristo per poterla demolire dall’interno – si fieri potest – si concentrarono sui chierici più coriacei – ad esempio i Gesuiti – e particolarmente sui Vescovi cercando, fin dai primi anni di seminario, di avvelenare con falsi sofismi e gnostiche teologie la purissima dottrina evangelica ed il Magistero perenne della Chiesa. Certo la loro opera di infiltrazione minante la sacra Gerarchia è stata lunga e paziente, ma hanno trovato varchi e smagliature dottrinali e liturgiche, oltre che incompetenze e complicità accidiose e infingardia in chi doveva vegliare con attenzione sul gregge preso d’assalto da lupi voraci, lupi che dal 26 ottobre del 1958 e con il conciliabolo successivo anatemizzato con mezzo millenio d’anticipo, hanno preso il sopravvento, ed in tutta tranquillità oggi sbranano pecorelle ed agnelli ignari ma complici per ignoranza colpevole, ingannati da una falsa pietà ed affettata santità, da sorrisetti ammiccanti ed ironici, da un parlare da drago, come recita l’Apocalisse, ben mascherando gli empi propositi – sepolcri imbiancati rivestiti da corna ed insegne luciferine – di condurre tante anime costate sangue al Figlio di Dio incarnato e lacrime alla Madre nostra Maria, all’inferno dai loro capi demoniaci ai quali sono soggetti e referenti. Ma certo la loro opera infame è destinata a perire ed esaurirsi, con il giudizio finale di Cristo Giudice e dei suoi Apostoli seduti sui troni a giudicare con infallibile giustizia chi ha servito rettamente il Figlio di Dio-uomo, e chi ha abusato del suo Nome per servire il signore dell’universo, il baphomet-lucifero imperante nelle false chiese della sinagoga di satana vaticana. E là … sarà pianto e stridor di denti.


Benedetto XIV
Ubi primum

Allorché piacque a Dio, ricco di misericordia, collocare la Nostra umile persona nella Sede suprema del Beato Pietro e assegnare a Noi, benché nessun merito Ci raccomandi, la vicaria potestà di Nostro Signore Gesù Cristo per il governo di tutta la sua Chiesa, Ci sembrò che alle Nostre orecchie risonasse quella voce divina: “Pascola i miei agnelli; pascola le mie pecore“; cioè che fosse imposta al Romano Pontefice, successore dello stesso Pietro, la missione di guidare non solo gli agnelli del gregge del Signore, che sono i popoli sparsi per tutta la terra, ma anche le pecore, cioè i Vescovi, che, come le madri per gli agnelli, generano i popoli in Gesù Cristo e una seconda volta li partoriscono. – Accettate dunque, Fratelli, con questa nostra lettera, anche le parole del Vostro Pastore. Chiamati al compito di spronare, nella pienezza del mandato affidatoci da Dio, Voi comprendete quanto nei Nostri stessi inviti e nelle Nostre esortazioni Ci stia a cuore di non trascurare nessuno dei Nostri doveri, e quanto grande sia la forza della Nostra paterna carità verso di voi: in forza di essa, siamo portati a desiderare al massimo che dal profitto delle sante pecore provengano gioie eterne ai Pastori.

1. Innanzi tutto, in verità, operate con impegno e con ogni Vostra possibilità affinché l’integrità dei costumi e lo studio del culto divino risplendano nel Clero, e che la disciplina ecclesiastica sia conservata integra e sana, e sia ristabilita là dove sia caduta. È abbastanza noto, infatti, che non vi è nulla che più efficacemente ammaestri, stimoli e infiammi tutto il popolo alla pietà, alla religione e alle norme della vita cristiana quanto l’esempio di coloro che si sono dedicati al Divino ministero. – Pertanto l’acutezza della Vostra mente deve essere rivolta prima di tutto a far sì che con accurata scelta siano iscritti alla milizia clericale coloro dai quali a ragione si può prevedere che la loro vita sia oggetto di ammirazione da parte di quanti camminano nella legge del Signore, procedono di virtù in virtù e con la loro opera portano un vantaggio spirituale alle Vostre Chiese. Per certo, è meglio avere pochi Ministri, ma onesti, idonei ed utili, che molti i quali non siano per nulla destinati all’edificazione del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Voi, Fratelli, non ignorate quanta prudenza richiedano in proposito ai Vescovi i Sacri Canoni; quindi non lasciatevi distogliere da quanto prescritto (che deve essere osservato totalmente) né da qualsiasi rispetto umano, né da inopportune suggestioni dell’ambiente, né da richieste di patrocinatori. Soprattutto bisogna osservare il precetto dell’Apostolo, di non ordinare nessuno troppo frettolosamente, allorché si tratta di promuovere qualcuno ai Sacri Ordini e ai Santissimi Ministeri, dei quali nulla è più divino. – Infatti non basta l’età che le sacre leggi della Chiesa prescrivono per ciascun Ordine, né indiscriminatamente deve aprirsi il passaggio a posizioni più elevate, quasi di diritto, a tutti coloro che siano già stati posti in qualche Ordine inferiore. Voi dovete con grande attenzione e diligenza indagare se il modo di vivere di coloro che hanno preso i primi Ministeri sia stato conforme, e il loro progresso nelle sacre dottrine sia stato tale che veramente si debbano giudicare degni di sentirsi dire: “Sali più in alto“. Quanto è meglio, inoltre, che taluni rimangano ad un grado inferiore, piuttosto che siano promossi ad uno più alto, con maggior pericolo per loro e motivo di scandalo per gli altri.

2. E giacché importa soprattutto che coloro i quali sono chiamati al servizio del Signore siano formati fin dalla giovane età alla pietà, all’integrità dei costumi e alla disciplina canonica (come le pianticelle novelle nel loro inizio), Vi deve quindi stare a cuore che, dove eventualmente non siano ancora stati istituiti i Seminari dei Chierici, vengano istituiti quanto prima possibile, o siano ampliati quelli già esistenti se, data la situazione della Chiesa, vi sia bisogno di un numero maggiore di Alunni, impiegando a questo scopo i mezzi che i Vescovi hanno già il potere di procurare, e ai quali Noi ne aggiungeremo altri se da Voi saremo informati della loro necessità. – In verità è indispensabile che gli stessi Collegi siano vigilati dalla Vostra particolare cura: ispezionandoli spesso; esaminando la vita, l’indole e il progresso negli studi dei singoli adolescenti; destinando maestri preparati e uomini forniti di spirito ecclesiastico per la loro formazione; onorando talvolta le loro esercitazioni letterarie o le funzioni ecclesiastiche con la Vostra presenza; infine concedendo alcuni privilegi a coloro che abbiano dato più evidente prova dei loro meriti ed abbiano riportato maggiore lode. Non Vi pentirete di avere somministrato tale irrigazione a questi arboscelli durante la loro crescita; anzi la Vostra opera Vi porterà consolanti frutti nella copiosa abbondanza di buoni operai. Senza dubbio molto spesso i Vescovi furono soliti lamentarsi che la messe era molta e gli operai pochi; ma forse avrebbero dovuto anche dolersi di non aver dedicato essi stessi lo zelo necessario per formare operai pari e adeguati alla messe. Infatti i buoni e valorosi operai non nascono, ma si fanno; e spetta soprattutto alla solerzia e all’impegno dei Vescovi che si facciano.

3. Inoltre è della massima importanza che la cura delle anime sia affidata a coloro che per dottrina, pietà, purezza di costumi e per insigni esempi di buone opere possono far luce negli altri in tal misura da essere giudicati luce e sale del popolo. Costoro sono veramente i primi Vostri collaboratori nell’istruire, reggere, purificare, dirigere sulla via della salvezza, e incitare alle virtù cristiane il gregge a Voi affidato. Quindi è facile comprendere quanto debba starvi a cuore che siano prescelti all’ufficio parrocchiale coloro che meritatamente siano giudicati i più idonei a dirigere utilmente le folle. Ma soprattutto insistete perché tutti coloro che hanno cura d’anime nutrano di salutari parole (almeno le domeniche e nelle altre feste comandate) le genti loro affidate, secondo la propria e la loro capacità, insegnando tutto ciò che i fedeli di Cristo devono apprendere per la loro salvezza e spiegando gli articoli della legge divina, i dogmi della Fede e inculcando nei fanciulli i rudimenti della Fede stessa, dopo aver rimosso del tutto ogni cattiva abitudine, dovunque si manifesti. – E invero, come potranno dare ascolto, se manca il predicatore? O in che modo i popoli potranno comprendere una legge che prescrive un giusto credo e un giusto comportamento, se i pastori di anime saranno stati, in tale ufficio, pigri, negligenti e inoperosi? Non si può comprendere compiutamente con l’animo o spiegare con le parole quanto danno per la Repubblica Cristiana derivi dalla negligenza di coloro, ai quali è affidata la cura delle anime, soprattutto nell’insegnare ai fanciulli il catechismo. Sarà poi di grande vantaggio se vi impegnerete in modo che tanto coloro che hanno cura d’anime, quanto coloro che sono destinati a ricevere le confessioni dei penitenti, per alcuni giorni e ogni anno attendano agli esercizi spirituali: certamente in tale pio ritiro si rinnoveranno nella loro vita spirituale e dall’alto saranno rivestiti di virtù idonee a compiere con più premura e alacrità quei doveri che si rivolgono alla gloria di Dio, al profitto e alla salute spirituale del prossimo.

4. In verità già sapete, Fratelli, che per divino precetto fu ordinato a tutti i Pastori di anime di conoscere le loro pecorelle e di nutrirle con la predicazione del verbo divino, con la somministrazione dei Sacramenti e con l’esempio di ogni opera buona; ma non possono affatto adempiere a questi e agli altri doveri pastorali, come è ovvio, coloro che non vigilano, e non assistono il loro gregge, e non custodiscono assiduamente la vigna del Signore alla quale sono stati preposti come custodi. Pertanto dovete rimanere nel vostro posto di guardia, e conservare nella Vostra Chiesa, o Diocesi, la residenza personale alla quale siete obbligati dal vincolo del Vostro incarico, conforme a quanto dichiarano e prescrivono chiaramente numerosi decreti dei Concili generali e le Costituzioni dei Nostri Predecessori. Guardatevi poi dal credere che sia consentito ai Vescovi essere assenti per tre mesi ogni anno per capriccio o per qualsivoglia motivo. Perché ciò sia lecito ai Vescovi, occorre che una giusta causa richieda una tale assenza, e che ad un tempo si escluda che al gregge possa derivarne alcun danno. – Ricordate inoltre che il futuro Giudice sarà Colui agli occhi del quale tutte le cose sono nude e aperte, perciò fate in modo che la causa sia veramente tale da trovar credito presso questo supremo Principe dei Pastori che quanto prima vi chiederà conto del sangue delle pecore a Voi affidate. In questo processo, invano il Pastore cercherà di difendersi con la scusa che il lupo ha rubato e divorato le pecore mentre egli era assente e ignaro; infatti, se si esamina la questione fino in fondo, appare evidente che nessun male o scandalo si manifesta in una Diocesi tanto abbandonata, che non sia da attribuire a colui che doveva richiamare con le sue ammonizioni i sudditi che uscivano dal retto sentiero, sollecitarli con l’esempio, animarli con le parole, tenerli a freno con l’autorità e con la carità. Chi poi non comprende che è molto meglio affrontare le questioni altrove, quando fosse necessario, per mezzo di altri, piuttosto che dallo stesso Vescovo dimorante fuori della sua Diocesi; e che l’impegno, certo più urgente di tutti, di custodire e dirigere il gregge, sia assolto direttamente dal Vescovo e non attraverso intermediari? Infatti, tali ministri siano pure idonei e stimati quanto si vuole, tuttavia il gregge non è così aduso ad ascoltare la loro voce, come la voce del suo vero pastore; e per vasta esperienza è risaputo che la loro opera vicaria non sostituisce a sufficienza la vigilanza e l’azione dello stesso Vescovo, che è soccorso dalla grazia particolare dello Spirito Santo.

5. A queste cose Vi ammoniamo ed esortiamo, Fratelli, perché come anche in ogni amministrazione domestica nulla è più utile del fatto che lo stesso padre di famiglia guardi bene di frequente tutto, e promuova con la sua vigilanza l’operosità e la diligenza dei suoi, così Vi comandiamo di visitare Voi stessi le Vostre Chiese e le Vostre Diocesi (a meno che intervenga una grave e legittima causa, che imponga che ciò sia affidato ad altri), affinché conosciate Voi stessi le Vostre pecore e il volto del Vostro gregge. – Quella sicurissima sentenza, che sopra abbiamo ricordata, che non è ammessa scusa per il pastore se il lupo mangia le pecore, e il pastore non lo sa, è certamente ispirata da grande paura e terrore. Senza dubbio il Vescovo ignorerà molte cose, molte gli rimarranno nascoste, o quantomeno le apprenderà più tardi del necessario, se non si reca in ogni parte della sua Diocesi. Se di persona non vede, non ascolta, non verifica dovunque, non sa a quali mali porgere la medicina e quali siano le cause di essi e in quale modo possa con lungimiranza provvedere a che essi, una volta repressi, non possano manifestarsi di nuovo. Inoltre, è tale la fragilità umana che nel campo del Signore (la cura del quale è affidata al Vescovo) a poco a poco crescono sterpi, spine ed erbe inutili e dannose, qualora il coltivatore non ritorni spesso a tagliarle; perciò la stessa floridezza, ottenuta con le sue vigili fatiche, con l’andar del tempo finirà per affievolirsi. Ma non è neppure sufficiente che le Diocesi siano da Voi visitate e che con le Vostre opportune disposizioni si provveda alla loro gestione: vi resta ancora il compito di controllare, con ogni sforzo, che sia veramente messo in pratica tutto ciò che durante le visite fu convenuto. Infatti sarà nulla l’utilità delle leggi, anche se ottime, se ciò che fu stabilito a parole non è tradotto correttamente nei fatti da chi ne ha il mandato. Perciò, dopo che avrete preparato farmaci salutari per espellere o allontanare le malattie delle anime, non per questo il Vostro zelo si attenui, ma dovrete sollecitare con ogni Vostra energia l’applicazione delle disposizioni da Voi impartite; e conseguirete questo scopo soprattutto per mezzo di visite reiterate.

6. Da ultimo, per dire molte cose in breve, Fratelli, è opportuno che in ogni funzione sacra ed ecclesiastica e in ogni esercizio del culto Divino e della pietà, Voi stessi siate promotori, conduttori e maestri, perché sia il Clero, sia tutto il gregge attingano luce quasi dallo splendore della Vostra santità e si riscaldino alla fiamma della Vostra carità. Pertanto nella frequente e devota offerta del tremendo Sacrificio, durante la solenne celebrazione delle Messe, nell’amministrare i Sacramenti, nell’esercizio degli Uffici Divini, nella pompa e nella lucentezza dei templi, nella disciplina della Vostra casa e della Vostra famiglia, nell’amore dei poveri e nell’aiuto che recherete loro, nel visitare e soccorrere gl’infermi, nell’ospitare i pellegrini, infine in ogni manifestazione della virtù Cristiana, sarete Voi il modello del Vostro gregge, in modo che tutti siano Vostri imitatori, come Voi di Cristo, così come conviene ai Vescovi, che lo Spirito Santo pose a governare la Chiesa di Dio, che Egli conquistò col suo sangue. Considerate spesso gli Apostoli, al posto dei quali siete subentrati, per seguire le loro orme nel sopportare le fatiche, le veglie, gli affanni; nel tener lontani i lupi dai Vostri ovili, nell’estirpare le radici dei vizi, nell’esporre la legge evangelica, nel ricondurre a salutare penitenza coloro che hanno peccato. Vi sarà accanto, per certo, Dio onnipotente e misericordioso, il cui soccorso ci rende tutto possibile; a Voi non verrà meno neppure l’aiuto dei Principi religiosi, come senza alcun dubbio crediamo. Inoltre da questa Santa Sede non Vi mancheranno gli aiuti ogni volta che riterrete necessaria la Nostra apostolica autorità. Pertanto con grande coraggio e con grande fiducia venite a Noi, Voi tutti, che amiamo come fratelli, collaboratori e Nostra corona in nome di Gesù Cristo; venite alla Santa Romana Chiesa, madre, guida e maestra Vostra e di tutte le Chiese, da dove ebbe origine la Religione e dove è la pietra della Fede, la fonte dell’unità dei sacerdoti, la dottrina dell’incorrotta verità; nulla infatti può essere per Noi più desiderato e più gradito che insieme con Voi essere al servizio della gloria di Dio e affaticarci per la custodia e la diffusione della Fede Cattolica; per salvare le anime verseremmo con somma gioia, se fosse necessario, il Nostro stesso sangue e la Nostra vita. E ora Vi inciti e Vi stimoli nella Vostra corsa la grande e sicura ricompensa che Vi attende.

Infatti quando apparirà il Principe dei Pastori, riceverete l’incorruttibile corona della gloria, la corona della giustizia che è stata riservata ai fedeli interpreti dei misteri di Dio e agli strenui e vigili custodi della casa d’Israele che è la Santa Chiesa dello stesso Dio. Noi che per quanto indegni facciamo le Sue veci in terra, molto affettuosamente benediciamo Voi Fratelli e con paterno amore impartiamo la Nostra stessa Apostolica Benedizione anche al Vostro Clero e al Vostro fedele popolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 3 dicembre 1740, anno primo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia fa leggere nell’Ufficio divino la storia di Ester verso quest’epoca (5a Domenica di Settembre). Reputiamo quindi cosa utile, al fine di rivedere ogni anno con la Chiesa tutte le figure dell’Antico Testamento e per Continuare a studiare le Domeniche dopo Pentecoste in corrispondenza del Breviario, di parlare in questo giorno di Ester. – L’lntroito della Domenica 21 – dopo Pentecoste è la preghiera di Mardocheo. Non potremo noi vedervi un indizio della preoccupazione della Chiesa di unire, a questo periodo liturgico, la stona di Ester ad una Messa di questo Tempo?

« Assuero, re di Susa in Persia, aveva scelto per prima regina Ester, nipote di Mardocheo. Aman, l’intendente del palazzo, avendo osservato che Mardocheo rifiutava di piegare le ginocchia davanti a lui, entrò in grande furore e, saputo che era ebreo, giurò dì sterminare insieme a lui tutti quelli che fossero della sua razza. Accusò quindi al re gli stranieri che si erano stabiliti in tutte le città dei suo regno e ottenne che venisse dato ordine di massacrarli tutti. Quando Mardocheo lo seppe, si lamentò e fu presso tutti gli Israeliti un gran duolo.- Mardocheo disse allora a Ester che essa doveva informare il re di quanto tramava Aman, fosse pure col pericolo della sua vita medesima. » Se Dio ti ha fatta regina, non fu forse in previsione di giorni simili? ». Ed Ester digiunò tre giorni con le sue ancelle; e il terzo giorno, adorna delle sue vesti regali, si presentò davanti al re e gli domandò di prender parte ad un banchetto con lui e Aman. Il re acconsentì. E durante questo banchetto Ester disse al re: « Noi siamo destinati, io e il mio popolo, ad essere oppressi e sterminati ». Assuero sentendo che Ester era giudea, e che Mardocheo era suo zio, le disse: « Chi è colui che osa far questo? ». Ester rispose: « Il nostro avversario e nostro nemico è questo crudele Aman ». Il re, irritato contro il suo ministro, si levò e comandò che Aman fosse impiccato sulla forca che egli stesso aveva fatto preparare per Mardocheo. E l’ordine fu eseguito immediatamente, mentre veniva revocato l’editto contro i Giudei. Ester aveva salvato il suo popolo e Mardocheo divenne quel giorno stesso ministro favorito del re e uscì dal palazzo portando la veste regale azzurra e bianca, una grande corona d’oro e il mantello di porpora, e al dito l’anello regale ». — Il racconto biblico ci mostra come Dio vegli sul suo popolo e lo preservi in vista del Messia promesso. « Io sono la salvezza del popolo, dice il Signore, in qualunque tribolazione mi invochino, li esaudirò e sarò il loro Signore » (Introito). « Quando cammino nella desolazione Tu mi rendi la vita, Signore. Al disopra dei miei nemici, accesi d’ira, tu mi stendi la mano e la tua destra mi assicura la salvezza » (Off.); il Salmo del Communio parla del giusto che è oppresso dall’afflizione e che Dio non abbandona; quello del Graduale, ci mostra come, rispondendo all’appello di coloro che in Lui sperano, Dio fa cadere i peccatori nelle loro proprie reti; il Salmo dell’Alleluia canta tutte le meraviglie che il Signore ha fatto per liberare il suo popolo. Tutto questo è una figura di quanto Dio non cessa di fare per la sua Chiesa e che farà in modo speciale alla fine del mondo. Aman che il re condannò durante il banchetto in casa di Ester, è come l’uomo che è entrato al banchetto di nozze di cui parla il Vangelo, e che il re fece gettar nelle tenebre esteriori, perché non aveva la veste di nozze, cioè « perché non era rivestito dell’uomo novello che è creato a somiglianza di Dio nella vera giustizia e nella santità, per non aver deposto la menzogna e i sentimenti di collera, che nutriva in cuore verso il prossimo» (Epistola). Cosi iddio tratterà tutti coloro che, pur appartenendo al corpo della Chiesa per la loro fede, sono entrati nella sala del banchetto senza essere rivestiti, dica S. Agostino, della veste della carità. Non essendo vivificati dalla grazia santificante, non appartengono all’anima del Corpo mistico di Cristo, e rinunziando alla menzogna, dice S. Paolo, ognuno di voi parli secondo la verità al suo prossimo, perché siamo membri gli uni degli altri. Possa il sole non tramontare sull’ira vostra » (Epistola). E quelli che non avranno adempiuto a questo precetto saranno dal Giudice supremo gettati nel supplizio a dell’inferno, come pure gli Ebrei che hanno rifiutato l’invito al pranzo di nozze del figlio del re, cioè di Gesù Cristo con la sua sposa che è la Chiesa (2° Notturno) e che hanno messo a morte profeti e gli Apostoli recanti loro questo invito. — Assuero in collera, fece impiccare Aman. Anche il Vangelo ci narra che il re montò in furore, inviò i suoi eserciti per sterminare quegli assassini e bruciò la loro città. Più di un milione di Giudei morirono nell’assedio di Gerusalemme per opera di Tito, generale dell’esercito romano, la città fu distrutta e il Tempio incendiato. Aman infedele, fu sostituito da Mardocheo; gli invitati alle nozze furono sostituiti da coloro che i servi trovarono ai crocicchi. I Gentili presero il posto degli Ebrei e verso di quelli si volsero gli Apostoli, riempiti di Spirito Santo, nel giorno di Pentecoste. E al Giudizio universale, che annunziano le ultime domeniche dell’anno, queste sanzioni saranno definitive. Gli eletti prenderanno parte alle nozze eterne e i dannati saranno precipitati nelle tenebre esteriori e nelle fiamme vendicatrici, ove sarà pianto e stridore di denti.

Bisogna spogliarsi dell’uomo vecchio, dice S. Paolo, come ci si toglie una veste vecchia e rivestirsi di Cristo come ci si mette una veste nuova. Bisogna dunque rinunziare alla concupiscenza traditrice delle passioni che, come figli di Adamo, abbiamo ereditato, e aderire a Cristo accettando la verità evangelica, che ci darà la santità nei nostri rapporti con Dio e la giustizia nei nostri rapporti col prossimo.

« Dio Padre, dice S. Gregorio, ha celebrate le nozze di Dio suo Figlio, allorché l’unì alla natura umana nel seno della Vergine. E le ha celebrate specialmente allorché, per mezzo dell’Incarnazione, lo unì alla santa Chiesa. Inviò due volte i servi per invitare i suoi amici alle nozze, perché i Profeti hanno annunziata l’Incarnazione del Figlio di Dio come cosa futura e gli Apostoli come un fatto compiuto. Colui che si scusa col dover andare in campagna, rappresenta chi è troppo attaccato alle cose della terra; l’altro che si sottrae col pretesto degli affari, rappresenta chi desidera smodatamente i guadagni materiali. E ciò che è più grave, è che la maggior parte non solo rifiutano la grazia data loro di pensare al mistero dell’Incarnazione e di vivere secondo i suoi insegnamenti, ma la combattono. La Chiesa presente è chiaramente indicata dalla qualità dei convitati, tra i quali si trovano coi buoni anche I cattivi. — Cosi il grano si trova mescolato con la paglia e la rosa profumata germoglia con le spine che pungono. — All’ultima ora Dio stesso farà la separazione dei buoni dai cattivi che ora la Chiesa contiene. Quegli che entra al festino nuziale senza l’abito di nozze appartiene alla Chiesa colla fede, ma non ha la carità. Giustamente la carità è chiamata abito nuziale perché essa era posseduta dal Creatore allorché si unì alla Chiesa. Chi per la carità è venuto in mezzo agli uomini ha voluto che questa carità fosse l’abito nuziale. Allorché uno è invitato alle nozze in questo mondo, cambia di abiti per mostrare che partecipa alla gioia della sposa e dello sposo e si vergognerebbe di presentarsi con abiti spregevoli in mezzo a tutti quelli che godono e celebrano questa festa. Noi che siamo presenti alle nozze del Verbo, che abbiamo fede nella Chiesa, che ci nutriamo delle Sante Scritture e che gioiamo dell’unione della Chiesa con Dio, rivestiamo dunque il nostro cuore dell’abito della carità, che deve comprendere un doppio amore: quello di Dio e quello per il prossimo. Scrutiamo bene i nostri cuori per vedere se la contemplazione di Dio non ci faccia dimenticare il prossimo e se le cure verso il prossimo non ci facciano dimenticare Dio. La carità è vera se si ama il prossimo in Dio e se si ama teneramente il nemico per amore di Dio » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]

Ps LXXVII: 1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.
[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.

[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 23-28
“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

(“Fratelli: Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. Perciò, deposta la menzogna, ciascuno parli al suo prossimo con verità: poiché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira siate senza peccato: il sole non tramonti sul vostro sdegno. Non lasciate adito al diavolo. Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno.”)

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

I CARATTERI DELL’UOMO NUOVO

L’epistola è tolta dalla lettera di San Paolo agli Efesini. Nei versetti precedenti l’Apostolo aveva scongiurato gli Efesini a non imitare la vita dei pagani, tra i quali essi vivevano; ma a conformare la loro condotta alla santità inculcata da Gesù Cristo. Perciò, come segue a dire nell’epistola riportata, bisogna deporre il vecchio uomo con tutte le sue inclinazioni, come si depone un vecchio vestito; e bisogna, invece, come si indossa un nuovo vestito, rivestirsi dell’uomo nuovo, rigenerato dalla grazia nella verità e nella giustizia, non più deturpato dagli errori e dalle brutture di prima. Accenna ad alcuni peccati che devono deporsi e ad alcune virtù di cui bisogna rivestirsi: devono rinunciare alla menzogna per praticare la verità; rinunciare alla collera per praticare la dolcezza; rinunciare al furto per praticare il lavoro e l’elemosina. Da quanto è detto nell’epistola possiamo dedurre chi i caratteri dell’uomo nuovo sono:

1. Il bando alle cattive abitudini,

2. La pratica del bene,

3. La riparazione.

1.

Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo.

Nessuno vorrà farsi la domanda che S. Agostino pone in bocca a coloro che vogliono esimersi dal praticare ciò che dall’Apostolo viene inculcato. « Come mi spoglierò dell’uomo vecchio, e mi rivestirò dell’uomo nuovo? Forse io, come terzo uomo, deporrò l’uomo vecchio che possedevo, e prenderò l’uomo nuovo che non possedevo, e così si debbano intendere tre uomini?…» (En. in Ps. XXV, 1). Io dico: Rivestitevi dell’uomo nuovo, è lo stesso che dire « Rivestitevi di Gesù Cristo » (Rom. XIII, 14), chiamato anche: « Il secondo uomo», in opposizione ad Adamo «primo uomo» (1 Cor. XV, 47). Ma per rivestirci di Gesù Cristo, cioè, delle sue virtù, del suo spirito, della sua grazia, è necessario spogliarci dell’uomo vecchio, dell’uomo terreno. – Dopo la caduta di Adamo l’uomo andò attaccandosi sempre più alla terra. Alla terra sono rivolti i suoi pensieri, il suo cuore, le sue inclinazioni. I suoi discorsi, le sue opere non si staccano mai, o si staccano ben poco, dalla terra. Nella sua mente c’è l’errore, nel suo cuore ci sono le passioni, nelle sue opere c’è il disordine. In una parola, egli è l’uomo del peccato, è l’uomo che serve al peccato. – Perché possa piacere a Dio, rivestendosi di virtù, è necessario togliere il peccato. Le piante delle virtù non nascono dai semi dei vizio. Per innalzare un edificio nuovo, si toglie dal terreno ogni ingombro, in modo che il costruttore abbia la più ampia libertà di movimenti nell’seguire i suoi lavori. Per innalzare l’edificio d’una vita virtuosa, bisogna innanzi tutto sgombrare l’anima nostra dal peccato e dalle sue radici. Le abitudini d’una volta devono cessare: il modo di vivere d’una volta va cambiato, i gusti devono essere nuovi; gli idoli delle nostre passioni vanno abbattuti, e abbattuti generosamente. – Il voler rimanere attaccati anche solamente a una sola delle vecchie abitudini cattive è come rimanere attaccati a tutte. Il cuore andrebbe diviso tra la virtù e il vizio; tra Dio e l’idolo della propria passione, e questo è assolutamente inammissibile. « Chi non è con me, contro di me » (Matt. XII, 30), dichiara il Signore. Se tu avessi il cuore attaccato a un solo peccato grave, saresti sempre rivestito dell’uomo vecchio, privo della grazia, nemico di Dio.

2.

Per rivestirsi dell’uomo nuovo non basta deporre l’uomo vecchio col dare il bando alle cattive abitudini! L’astenersi dalle opere cattive non merita gran lode se non si praticano opere buone. « Infatti — nota il Crisostomo — non si è soliti lodare, anzi neppur menzionare alcuno per questo che non commette delitti… Poiché noi usiamo mai attribuire a lode la semplice astensione dalle cattive azioni; in vero ciò sarebbe ridicolo » (In Epist. ad Philipp. Hom. VI, 1). L’odiare il male è cosa assolutamente necessaria per praticare bene, poiché, « se non odiamo il male non possiamo amare il bene » (S. Gerolamo Epist. 125, 14 ad Eust.); ma questo non è tutto. – Il campo non si dissoda e non si libera dalle male piante pel semplice gusto di lavorare; ma per farvi una nuova piantagione, che ripaghi coi suoi frutti abbondanti il valore del terreno e la fatica. “Dimmi un po’, che giova — osserva ancora il Crisostomo — che si siano tolte tutte le spine se non vi si è sparso il buon seme? Se il tuo lavoro sarà rimasto imperfetto si finirà nello stesso danno di prima”. Perciò, anche il nostro S. Paolo, prendendosi cura di noi, non limita i suoi precetti alla amputazione ed alla estirpazione dei mali, ma esorta a far tosto la piantagione del bene (in Epist. ad Eph. Hom. 16, 2). E fa l’enumerazione delle buone opere che dobbiam coltivare, cominciando dalla semplicità, dalla schiettezza. Perciò, deposta la menzogna, ciascun parli al suo prossimo con verità, e continua, insegnandoci come dobbiamo usare della nostra lingua, guidare i moti del nostro cuore, diportarci nelle azioni esteriori. Sono insegnamenti che possono comprendersi tutti in uno: fuggite ogni vizio, e praticate ogni virtù. – La vita nuova, insomma, si riassume in questa norma, fare tutto l’opposto di quel che si faceva prima. San Agostino così commenta l’esortazione dell’Apostolo: Rivestitevi dell’uomo nuovo. « Ha voluto dir questo: Cambiate costumi. Prima amavate il secolo, adesso amate Dio » (Serm. 9, 8). Di questo mutamento di costumi ci dà un mirabile esempio Zaccheo. Zaccheo, capo dei doganieri incaricati di riscuotere le imposte a Gerico, ha la fortuna di ricevere in casa Gesù. Quella visita cangia totalmente il cuore del capo gabelliere. Prima era attaccato alle ricchezze che accumulava con angherie: ora se ne spoglia per prodigarne la metà ai poveri. Prima non badava tanto pel sottile, in fatto di giustizia: ora decide di restituire il quadruplo a chi avesse potuto recare qualche danno. Chi vuol condurre una vita nuova deve precisamente imitare Zaccheo. Se prima era bestemmiatore, ora lodi Dio; se era avaro, ora sia generoso; se era superbo, ora sia umile; se vendicativo, ora sia largo nel perdonare; se impudico, ora coltivi la castità. Pensieri, desideri, inclinazioni, discorsi, opere siano ispirate agli esempi dell’uomo nuovo, Gesù Cristo.

3.

L’Apostolo, parlando della condotta che deve tenere, chi, prima della conversione, rubava, così si esprime: Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno. È chiaro da queste parole che S. Paolo non solo richiede che l’uomo nuovo, invece di rubare lavori e renda quel che ha preso ingiustamente; ma accenna al dovere di mettersi in grado di espiare, con l’elemosina, il male che ha fatto, togliendo ai legittimi possessori ciò che a loro apparteneva. Il pensiero di riparare il mal fatto, di dare buono esempio là dove si era dato scandalo, di dare gloria a Dio in cambio delle offese a Lui recate, fu sempre il segreto dal grande progresso nella via della santità da parte dei convertiti. Una vera riforma di noi stessi comincia col riconoscere la nostra miseria, e confessare con tutta schiettezza al cospetto di Dio: « Eccoci dinanzi a te col nostro peccato » (1 Esd. 9, 15). Poi prosegue, distruggendo in noi il regno del peccato, per mezzo delle buone opere; ma non si ferma qui. Cerca, non fosse che per riconoscenza a Dio, che con la sua grazia l’ha tratto dalla via della perdizione, di distruggere il peccato anche negli altri. Così ha fatto Davide. Alla parola del profeta Natan si scuote: riconosce la propria colpa: «Io conosco la mia prevaricazione, e il mio peccato mi sta sempre dinanzi»; e la confessa sinceramente davanti a Dio: « Contro di te solo ho peccato e ho fatto il male al tuo cospetto »; poi, domanda al Signore la grazia di divenire un uomo completamente nuovo: « Crea in me, o Signore, un cuor puro, e rinnova dentro di me uno spirito retto »; inoltre protesta di voler insegnare ai peccatori a rimettersi, come lui, sulle vie del Signore: « Insegnerò ai peccatori le tue vie, e i peccatori si convertiranno a te » (Salm. L, 4… 5… 11… 14). Chi ha rubato beni materiali, procuri per spirito dì riparazione di mettersi in grado di far l’elemosina ai bisognosi. Chi con i suoi discorsi, con le sue azioni, con la propaganda ha tolto o indebolito la fede, ha prodotto il rilassamento dei costumi, deve fare il possibile per ricondurre a Dio quelli che se ne sono allontanati. E se non gli sarà possibile ricondurre a Dio quegli stessi che furono allontanati da lui, glie ne riconduca degli altri. E cerchi di ricondurgli specialmente quelli che se ne sono allontanati maggiormente. Davide si propone di ricondurre a Dio gli iniqui e gli empi. Quanto più uno è avvolto nelle tenebre, tanto più ha bisogno di chi lo indirizzi pel retto sentiero; quanto più uno è immerso nel pantano, tanto più ha bisogno dell’opera di chi l’aiuti a uscirne. – E se non potrà fare quanto il suo cuore brama per riparare la vita passata, procuri di fare quel che può; e  se non gli è possibile di riparare direttamente, ripari indirettamente con la preghiera, coi patimenti, con le mortificazioni accettati e offerti a Dio con l’intenzione di riparare le mancanze della vita passata.

Graduale

Ps CXV: 2
Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.

[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja

[L’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV: 1

Alleluja

Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja.

[Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt XXII: 1-14
“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum cœlórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo.
Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

(“In quel tempo Gesù ricominciò a parlare a’ principi dei Sacerdoti ed ai Farisei per via di parabole dicendo: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale fece lo sposalizio del suo figliuolo. E mandò i suoi servi a chiamare gl’invitati alle nozze, e non volevano andare. Mandò di nuovo altri servi, dicendo: Dite agl’invitati: Il mio desinare è già in ordine, si sono ammazzati i buoi e gli animali di serbatoio, e tutto è pronto, venite alle nozze. Ma quelli misero ciò in non cale, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio: altri poi presero i servi di lui, e trattaronli ignominiosamente, e gli uccisero. Udito ciò il re si sdegnò; e mandate le sue milizie, sterminò quegli omicidi e diede alle fiamme le loro città. Allora disse a’ suoi servi: Le nozze erano all’ordine, ma quelli che erano stati invitati, non furono degni. Andate dunque ai capi delle strade e quanti riscontrerete chiamate tutti alle nozze. E andati i servitori di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, e buoni e cattivi; e il banchetto fu pieno di convitati. Ma entrato il re per vedere i convitati, vi osservò un uomo che non era in abito da nozze. E dissegli: Amico, come sei tu entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo per le mani e pei piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridor di denti. Imperocché molti sono i chiamati e pochi gli eletti”)

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sul piccolo numero degli eletti.

Multi sunt vocati, pauci vero electi. Matth.XXII.

Si è con questa terribile sentenza che Gesù Cristo finisce la parabola dell’odierno Vangelo, dove paragona il regno de’ cieli ad un re che fece un gran convito per le nozze di suo figliuolo, al quale invitò parecchi che ricusarono di venirvi, e tra quelli che vi assistettero se ne ritrovò uno che non aveva la veste nuziale; il che gli attirò il più rigoroso castigo, poiché fu gettato coi piedi e le mani legate nelle tenebre esteriori. Così è, conchiuse Gesù Cristo; molti sono chiamati, ma pochi sono eletti: Multi sunt vocati, pauci vero electi. Stupenda verità che ha sempre riempiuto di spavento i più gran santi, e che è molto atta a portar nei nostri cuori un salutevole timore per poco che ci resti di religione! Perciò, quando io considero che si è l’oracolo medesimo della verità, cui solo è noto il numero dei predestinati, il quale ci assicura in termini precisi e formali che vi saranno pochi eletti, ah! io tremo, e sull’esempio del re profeta sono penetrato da un timore, che le ossa tutte e l’anima mia conturba: Conturbata sunt omnia ossa mea. Infatti, che vi sia dopo la morte un giudizio terribile che deve decidere della nostra eternità; che coloro i quali in esso saranno condannati, soffriranno tutti i tormenti immaginabili, basta questo senza dubbio per far tremare i più intrepidi: ma vi sarebbe minor motivo di temere, se potessimo accertarci che il numero degl’infelici sarà il più piccolo; tuttavia la fede ci insegna il contrario: pauci electi. Questa è, fratelli miei, di tutte le verità evangeliche quella che io trovo la più sorprendente, e la più capace di mettere in costernazione i peccatori: procuriamo in quest’oggi di penetrarci del salutevole timore che essa deve naturalmente inspirarci: ma guardiamoci dal cadere nell’estremità ove ella potrebbe gettarci, se le si desse un altro senso che quello del Vangelo: mentre a Dio non piace, fratelli miei, che io cerchi di metter in disperazione il peccatore, né anche di scoraggiarlo. Bisogna intimorirlo, ma nello stesso tempo animarlo a lavorare con confidenza al grande affare della salute. Il che mi propongo di fare in quest’oggi sviluppandovi il senso della verità del piccolo numero degli eletti. Perché sì pochi eletti? Primo punto. Che dobbiamo noi fare per assicurare su ciascuno di noi i bisogni di misericordia del Signore? Secondo punto. Da un canto i peccatori troveranno di spaventarsi alla vista dei loro disordini, e dall’altro di che animarsi e convertirsi. Forse la conversione di qualcheduno di quelli che sono qui è annessa a questo soggetto.

I. Punto. Che siano pochi i predestinati e che i più siano riprovati, nulla di più certo, se consultiamo la sacra Scrittura ed i santi padri. Qui io vedo questo piccolo numero di eletti paragonato alla famiglia di Noè, che sola fu salva dal diluvio; là io lo vedo rappresentato dai pochi frutti che restano sopra di un albero dopo la raccolta, dalle poche spighe che restano dopo la messe. Io odo Gesù Cristo che ci assicura nel Vangelo che vi saranno pochi eletti; che la porta per dove si entra nel cielo è stretta, e che pochi vi ha che la trovino, che ce lo assicura, dico, non già semplicemente come un’altra verità; ma con una specie di esclamazione e di stupore. Oh quanto è stretta, dice Egli, la strada che conduce alla vita! Quanto pochi ve ne sono che la seguono! Oh quam arcta est via, quæ ducit ad vitam! quam pauci sunt qui inveniunt eam! Se mi contentassi di queste testimonianze, io n’avrei detto abbastanza per provarvi la verità da me proposta ed ispirarvi un santo spavento; ma non avrei fatto abbastanza per scoprirvi le ragioni di una verità sì terribile e giustificare la causa di Gesù Cristo. – Iddio chiama tutti gli uomini al suo regno, rappresentato dal convito di cui si parla nel Vangelo, ove molti furono invitati, ed ove i servi del re avevano ordine di far entrare tutti coloro che avrebbero ritrovati, niuno eccettuato: Quoscumque inveneritis, vocate ad nuptias. Niuno è di noi, fratelli miei, cui Gesù Cristo non abbia promesso un posto in questo eterno banchetto. Egli ne ha fatte tutte le spese, ce ne ha aperta la porta coi patimenti e con la morte; Egli ha inviati i suoi servi, gli Apostoli, ed invia ancora tutti i giorni i ministri del suo Vangelo per invitarvi gli uomini: Vocate ad nuptias. Egli dà a tutti loro gli aiuti necessari per meritarvi un posto, senza di che il suo invito sarebbe inutile; poiché, siccome altrove c’insegna la fede, niuno può con le sue proprie forze giungere a quella felicità. Niuno si attribuisce dunque in verun modo la cagione del piccolo numero degli eletti a difetto di volontà dalla parte di Dio per la salute degli uomini, né all’insufficienza dei meriti di Gesù Cristo, né alla sottrazione delle grazie necessarie alla salute. Non è questo il senso che convien dare alla verità che vi predico. Se vi sono sì pochi eletti, non è già, lo ripeto, perché Dio abbia cosi determinato; non è neppure perché questo piccolo numero ci è rappresentato sotto figure sensibili di cui la Scrittura e i padri si servono per istruirci; ciò non è finalmente perché Gesù Cristo l’ha detto nei suoi oracoli; queste figure e questi oracoli provano bensì la verità del piccol numero degli eletti, ma ne suppongono di già la cagione nella condotta degli uomini. Se vi sono dunque sì pochi eletti tra gli uomini, contro di essi soli debbono prendersela. Dio per un effetto della sua bontà li chiama tutti al suo regno: Multi vocati. – E la maggior parte per un effetto della sua indifferenza e della sua malizia non vuole arrendersi ai desideri di Dio. Ecco, fratelli miei, la vera cagione del piccolo numero degli eletti: Pauci electi. Gli uni, simili a quei convitati che ricusarono di andare a quel banchetto, non hanno che dell’avversione per quei beni eterni; gli altri, simili a quell’uomo che non aveva la veste nuziale, meritano per la loro condotta sregolata di essere, al par di lui, condannati a gemere in quel tenebroso soggiorno ove saranno pianti e stridori di denti: bisogna forse stupirsi che, sebbene tutti siano chiamati, vi sieno sì pochi eletti? Pauci electi. Ripigliamo le circostanze della parabola del corrente Vangelo. Il re, apparecchiato il banchetto delle nozze di suo figliuolo, manda i suoi servi ad invitare molti, i quali sotto vari pretesti ricusano di venirvi. Gli uni andarono alla loro villa, gli altri al loro negozio, e non fecero alcun conto dell’onore che voleva loro procurare. Figura molto naturale di un gran numero d’uomini che sono chiamati al convito eterno, alle nozze dell’Agnello immacolato, e che, poco tocchi di questa bella sorte, si abbandonano interamente agli interessi del secolo, non sono ripieni che d’idee materiali e terrene, che aggravano loro il cuore, e li strascinano verso la vanità e la menzogna. – Dio fa i primi passi per attirarli a sé, li invita, li sollecita, o colla voce interiore della sua grazia o per mezzo dei suoi deputati apostolici, a cercare una felicità più degna .della loro attenzione che quella di quaggiù; costoro sono insensibili alla voce che li chiama. Al vederli incessantemente occupati nei negozi o nel lavoro direbbesi che non sono fatti che per la terra. Si parli loro della salute, dell’orazione, della frequenza dei Sacramenti, delle pratiche di pietà; è questo un linguaggio sconosciuto per essi, non hanno il tempo di pensarvi. Simili a quei convitati che conveniva sforzare per entrare nella sala del banchetto, bisogna loro far violenza per farli entrare nella via della salute. Di mala voglia entrano essi nelle nostre chiese per assistervi ai divini uffizi, per udire la divina parola; e molto sopraffatti li vediamo dalla noia e dal fastidio. Raramente si veggono accostarsi ai Sacramenti, differiscono talvolta da un anno all’altro; appena ritenere si possono in compagnia dei fedeli nei giorni consacrati al servigio di Dio; i loro affari temporali ne assorbiscono la più gran parte, che essi impiegano or a fare viaggi, or a formare progetti. Non sono questi forse fatti, di cui l’esperienza non ci somministra che troppo prove. Ogni sollecitudine hanno essi per gli affari del tempo, e non pensano in verun modo a quello della eternità. Or io vi domando, questa indifferenza degli uomini per l’affare della salute lascia loro forse molta speranza di essere del numero degli eletti? Ma non è questa che una cagione della riprovazione degli uomini; il vangelo ce ne scopre un’altra in colui, che comparve al convito senza la veste nuziale. – Ed in vero, fratelli miei, che significava quella veste nuziale che bisognava avere per entrare nel convito delle nozze? Ella significava, secondo s. Gregorio Papa, la grazia e la carità, che sono l’ornamento di un’anima cristiana, e senza di cui non si può entrare nel cielo. Or quanti Cristiani possono lusingarsi di avere questa grazia santificante, questa carità che ci rende amici di Dio ed eredi del suo regno? Questa grazia non può trovarsi che nelle anime innocenti, o veramente penitenti. Niun’altra strada evvi per entrare nel cielo che l’innocenza o la penitenza; ma oimè! quanto pochi vi ha che abbiano conservata la loro innocenza, o che, dopo averla perduta per il peccato, l’abbiano per mezzo della penitenza ricuperata? L’innocenza! ma in qual età, in qual condizione troveremo noi questo tesoro? Ella è forse cosa rara il vedere che il primo uso di nostra ragione comincia dalla perdita di nostra innocenza? Che i fanciulli non sono sì tosto usciti dal seno delle loro madri che divengono prevaricatori degli ordini del celeste Padre? Erraverunt ab utero (Ps. XVII). Che la loro bocca è dedicata alla menzogna, il loro spirito alla dissipazione, il loro cuore ai momentanei divertimenti, e che, troppo suscettibili dei cattivi esempi dei loro genitori, divengono come essi ingiusti, bestemmiatori ed intemperanti? La gioventù sarà dunque la sede dell’innocenza? Ma chi non sa che le passioni si fanno sentire con più di vivacità, dove governano con più d’impero? Quanti si trovano dei giovani che non siano d’una vita sregolata, disubbidienti ai loro genitori, bestemmiatori, libertini, impudichi, dissoluti, pieni di vanità, impegnati in commerci peccaminosi? Quanti matrimoni o profanati da infedeltà o intorbidati dalle risse e dalle dissensioni, e che, ben lungi di mettere un freno alla libidine, non divengono forse che un nuovo stimolo che l’accresce, e fa vedere sino nell’età più avanzata dei disordini di cui non si ha più rossore. Passiamo alle diverse condizioni. Avvenne forse una sola che non possa e non debba rendere questa testimonianza, che non v’è più d’innocenza? I ricchi non hanno che durezza per i poveri, i poveri invidia contro i ricchi: i ricchi ti perdono nell’ozio e nella mollezza, poiché le ricchezze somministrano loro onde contentare le loro passioni: i poveri si dannano nella miseria, perché non la sopportano che con impazienza, e per uscirne passano spesso oltre i limiti della giustizia e della probità. Eh! che importa, fratelli miei, che la vostra dannazione non sia l’effetto di una vita molle e sensuale, se le vostre impazienze, le vostre inimicizie, le vostre ingiustizie ne sono la cagione? Di qualunque siasi stato conviene, per vivere nell’innocenza, seguire le massime del Vangelo e praticarne la morale. – Prendiamo dunque da una parte il Vangelo, osserviamo dall’altra la condotta degli uomini nei diversi stati, e vedrassi se ve ne sono molti che possano pretendere di essere del numero degli eletti. Che cosa insegna il Vangelo? Che bisogna amar Dio sopra ogni cosa ed il prossimo come sé stesso; amar Dio sopra ogni cosa, vale a dire esser pronto a sacrificar tutto, a sofferir tutto piuttosto che offenderlo. Ed è così che si ama allora quando un vile interesse, un sozzo piacere prevale all’ubbidienza che gli si deve? Bisogna amar il suo prossimo come se stesso, senza eccezione de’ suoi più crudeli nemici. E chi sono coloro che non abbiano qualche avversione per il prossimo o che gli facciano tutto quel bene che desidererebbero si facesse ad essi medesimi? Che cosa ci insegna ancora il Vangelo? Che bisogna essere staccato dai beni, dai piaceri del mondo, mortificare incessantemente le proprie passioni, portare di continuo la sua croce. E chi sono coloro che non cedano all’amor delle ricchezze, che resistano all’allettamento del piacere, che non seguano le loro passioni, e che trasportar non si lascino dal torrente del costume? Ah! quanto è mai raro, fratelli miei, trovare di quei perfetti Cristiani che stiano sempre in guardia contro se stessi, che facciansi le necessarie violenze per non soccombere alle tentazioni, per evitare le occasioni di perdersi; di quei perfetti Cristiani, che siano assidui all’orazione e al servigio di Dio, caritatevoli verso il prossimo, umili, pazienti, casti, modesti, riservati! Quanti al contrario vivono in una maniera affatto opposta allo spirito del Vangelo! Basta aprire gli occhi su ciò che accade nel mondo. Vi si vede regnare l’orgoglio, l’invidia, l’ingiustizia, l’odio, la maldicenza, la libidine, la mollezza , in vece della buona fede e della probità, vi si vede la menzogna, l’inganno, le vessazioni. Si esamini quel che accade nelle città e nelle campagne: quante dispute e contrasti! quante gare e liti che mettono in dissensione le famiglie! Si entri nelle case, non vi si odono che bestemmie, che maledizioni, che maldicenze, che parole oscene; non vi si vedono che scandali, che cattivi esempi: Totus mundus in maligno positus est (Jo. V). Tutto il mondo non è ripieno che di malizia e di corruzione; tutti hanno traviato, dice il profeta; non v’ha quasi alcuno che faccia il bene. Convien dunque stupirsi, se sienvi sì pochi eletti, poiché vi sono sì poche virtù e sì pochi Cristiani che compiano i loro doveri? Non è già che si ignorino questi doveri; mancan forse istruzioni? E se questo bastasse per esser salvo, se non si trattasse ancora che di dare alcune prove della sua religione, di pregare, di visitar chiese, di ascoltar messe e di esser associato a pii consorzi, si potrebbe dire che il numero dei santi è più grande che quello dei riprovati; poiché malgrado la generale corruzione del mondo, si vedono ancora molte vestigia di religione. – Ma quel che rende il numero degli eletti sì piccolo è che, coi segni esteriori di religione, regnano molti vizi tra gli uomini; si è che ve ne ha ben pochi che del Signore osservino esattamente tutti i punti della legge: or, basta di mancare ad un solo per essere riprovato. Ah! se i santi, che hanno fedelmente osservata la legge del Signore, che hanno fatto tanti sforzi, che si sono abbandonati a tanti rigori per entrare nel cielo, hanno ancora temuto di esserne esclusi; come mai Cristiani che niuna violenza si fanno per esser salvi, possono sperare di esserlo? Se almeno una vera penitenza riparasse l’innocenza perduta, vi sarebbero altrettanti eletti, quanti veri penitenti, perché la penitenza ha sempre aperto ai peccatori il seno della divina misericordia. Ma chi’l crederebbe? La vera penitenza è quasi così rara come l’innocenza. Infatti che cosa è la penitenza? È una virtù che c’induce a soddisfare alla giustizia di Dio per gli oltraggi fatti alla sua infinita maestà. Far penitenza si è detestare i peccati passati e concepirne un sì grande orrore che siamo risoluti di perder tutto, di sofferir tutto, piuttosto che di ricadervi: far penitenza si è espiare con la mortificazione delle passioni i piaceri che loro si sono permessi e far servire, come dice l’Apostolo, alla santità le membra che hanno servito all’iniquità; si è sopportar con piacere le afflizioni, i dispregi, le perdite dei beni, le malattie, i sinistri accidenti, in una parola tutto ciò che è capace di umiliare, di purificare l’uomo peccatore. Or è forse così, fratelli miei, che voi fate penitenza? Giudicatevi da voi medesimi sulla testimonianza di vostra coscienza; la vostra penitenza è ella conforme alle regole, che vi sono prescritte? Voi vi confessate, è vero, ma le vostre confessioni sono esse precedute da un sufficiente esame, accompagnate da un vivo dolore dei vostri peccati, seguite da un cambiamento di condotta? – Per essere penitente, bisogna ancora soddisfare al prossimo per i torti che gli si sono fatti nei beni, nella riputazione; lo fate voi? Si ode bensì parlare d’ingiustizie, ma quasi mai di restituzione; eppure senza di ciò non si dà vera penitenza. Da tutto quel che ho detto egli è forse difficile a comprendere che vi sono sì pochi eletti? La condotta degli uomini non ne somministra delle prove? La vostra può ella assicurarvi che sarete di questo numero? Rispondete ingenuamente, in quale stato vi trovate voi? Osereste al presente comparire con fiducia al tribunale del supremo Giudice? Possedete voi in un grado molto eminente le qualità che il padre di famiglia esigeva in coloro che faceva sedere alla sua mensa? Se questo non è, mettetevi in buono stato, seguendo le impressioni salutevoli che la verità del piccolo numero degli eletti deve produrre sopra le vostre menti e i vostri cuori.

II. Punto. Dopo quel che vi ho detto del piccolo numero degli eletti, mi sembra fratelli miei, udirvi tener il linguaggio, che tenevano altre volte gli Apostoli al Salvatore sul medesimo soggetto. Se è così difficile di salvarsi, se vi sono sì pochi eletti, chi potrà dunque sperare di esserlo ? Quis poterit salvus esse (Matth. XIX)? Tutti, fratelli miei, sì tutti; ma bisogna, aggiungerò con Gesù Cristo, fare tutti gli sforzi per entrare e camminare in questa via stretta, poiché Dio accorda a tutti le grazie necessarie: Contendite intrare per angustam portam (Luc. XIII). Da questa risposta del Redentore io cavo due conseguenze molto capaci di fare su di noi impressioni vantaggiose, che saranno il frutto della verità che annunzio. Se è possibile andar salvo, e se è per colpa sol degli uomini che vi saranno sì pochi eletti, non conviene dunque disperare di esser di questo piccol numero. Bisogna dunque portare tutte le nostre mire, dirigere tutti i nostri passi verso la celeste patria; tali sono i mezzi che dobbiamo porre in opera per assicurare la nostra predestinazione. Se il piccol numero degli eletti non venisse che dalla scelta che Dio ne avesse fatta; se non dovessero esservi sì pochi predestinati se non perché Dio ha voluto così, senz’alcun personale o imputato demerito dalla parte degli uomini, ah! vi confesso, fratelli miei, che il nostro stato sarebbe molto deplorabile. Incerti se Dio ci avesse distinti in questa scelta, noi non avremmo il coraggio d’intraprendere cosa alcuna per la salute; perché, diremmo, se Dio non vuole ch’io sia salvo, avrò bel fare, io nol sarò giammai. Quindi nascerebbe una orribil disperazione e tutti i più enormi delitti cui gli uomini s’abbandonerebbero. Tali sono le funeste, conseguenze di un errore che ricusa di riconoscere in Dio una volontà sincera di salvare tutti gli uomini. Ma lungi dalle nostre menti, fratelli miei, un pensiero sì ingiurioso alla divinità, e sì tormentoso per noi. – Io non saprei abbastanza ripeterlo; Dio vuole la salute di tutti gli uomini: Egli non ci ha creati per perderci, ma per salvarci. A questo fine ci ha Egli dato il suo Figliuolo, i suoi Sacramenti, le sue grazie e tutti gli altri aiuti necessari: di modo che si può dire che se la nostra salute non dipendesse che da Dio solo, il suo regno sarebbe sicuramente per noi, pensiero infinitamente consolante, fratelli miei, poiché niuno è di noi il quale non possa dire: Iddio mi ha apparecchiato un posto nel suo regno, Egli mi dà tutti i mezzi necessari per arrivarvi, soltanto che io sia fedele alle grazie e son sicuro di mia salute. Qualunque peccato abbia io commesso, posso ottenerne il perdono, perché Dio l’ha promesso ad ogni peccatore che sinceramente a Lui ritorna; io posso dunque sperare, finché sono sulla terra; Dio vuole ch’io abbia questa speranza, io non ho che a voler efficacemente giungere al fine che mi è proposto, ed infallibilmente l’otterrò; e se me ne allontano, non potrò dolermi che di me stesso, poiché il numero degli eletti non sarà piccolo che per sola colpa degli uomini. Tale è, fratelli miei, l’impressione salutevole e consolante che questa verità, sebbene in sé terribile, deve lasciare nelle nostre menti. – Senza fermarvi a fare vani ragionamenti sulla vostra predestinazione, sforzatevi, secondo l’avviso del principe degli Apostoli, di renderla certa con le vostre buone opere: Satagite ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis. Perciocché, in qualunque modo si consideri il mistero della predestinazione, e benché impenetrabile sia ai nostri occhi, noi dobbiamo tenere per certo, conforme ai principi della fede, che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere, che nessuno sarà salvo se non per i suoi meriti, e che nessuno sarà riprovato fuorché per colpa sua. Or, per ciò meritare, due cose si richiedono, la grazia di Dio e la cooperazione dell’uomo. La grazia di Dio non ci manca, non manchiamo dunque noi medesimi alla grazia, e saremo predestinati; non abbiamo a temere che noi, e tutto a sperare dalla parte di Dio. Ecco un riflesso più che bastante a calmare le nostre inquietudini sulla eterna sorte. Se, malgrado queste certezze, voi siete ancora conturbati dal timore di un’eterna riprovazione; se, come il re profeta, qualche volta v’interrogate; non avrò io forse la disgrazia di essere rigettato per sempre dalla faccia del mio Dio? Le mie iniquità non mi chiuderanno esse il seno delle sue misericordie? Numquid in æternum projiciet Deus? Aut in finem misericordiam suam abscindet (Psal. LXXVI). I miei peccati, le mie continue resistenze alla grazia, non mi danno esse luogo di crederlo? E non sono io forse sicuro che se muoio nello stato in cui mi trovo, sarò del numero sgraziato di coloro che saranno sempre privi della vera luce? In tal caso che dovete voi fare per rassicurarvi? Bisogna, come lo stesso re profeta, determinarvi ad una seria conversione e prendere senz’indugio la strada che ad essa conduce: Dixi: nunc cœpi. Ah! dovete voi dire, la risoluzione è presa; io voglio, senza più aspettare, cangiar condotta, lasciar il peccato, rompere quelle illecite corrispondenze, correggermi dai miei cattivi abiti: Dixi: nunc cœpi. Non sarà già per un giorno, per un certo tempo che io osserverò il mio proponimento, ma sì per tutta la mia vita ch’io voglio unirmi a Dio in una maniera sì inviolabile che alcun oggetto creato non sarà capace di staccarmene: giacché dipende da me di essere del numero degli eletti, io vi sarò a qualunque costo, io mi farò tutta la violenza necessaria per venire a capo. Tale è l’altra salutevole conseguenza che tirar conviene dalla verità che abbiamo stabilita; ed è il secondo mezzo efficace di salute. – Ed in vero, fratelli miei, sebbene dipenda da ciascheduno di noi, con l’aiuto della grazia, l’essere del numero dei predestinati, si può sempre dire con verità che ve ne saranno pochi, perché la maggior parte degli uomini si perde di coraggio, alla vista degli ostacoli che s’incontrano nei sentieri della giustizia: non basta dunque, desiderare il cielo; è mestieri ancora fare grandi sforzi per arrivarvi. E a questo appunto i santi tutti sono determinati; testimonio ne sia il grande Apostolo, quel vaso di elezione, quell’uomo innalzato sino al terzo cielo: quantunque la sua coscienza nulla gli rimproverasse, pure non si credeva egli sicuro; e sul timore che, dopo avere predicato agli altri, non fosse riprovato egli stesso, castigava aspramente il suo corpo, portava incessantemente su di sé la mortificazione di Gesù Cristo: Castigo corpus meum, et in servitutem redigo; ne forte, quam aliis prædicaverim, ipse reprobus effìciar (I Cor. IX). Or se questo gran santo, che fu eletto da Gesù Cristo medesimo per annunziare la gloria del suo nome,se questo uomo incomparabile che aveva acquistati tanti meriti, temeva per la sua salute; e se questo sentimento onde era sempre occupato l’induceva a trattarsi aspramente, che non dobbiamo noi medesimi temere e che non dobbiamo fare, noi che siamo così lontani dalla virtù di quel grande apostolo?Gettate ancora gli occhi su quella moltitudine innumerabile di martiri che hanno amato sacrificare la vita al furore dei tiranni, piuttosto che cader nelle mani di un Dio vendicatore. Chi sostenerli poteva in sì aspre prove? Nient’altro che il timore di vedersi esclusi dal regno dei cieli. Qual altro motivo ha potuto indurre ad abitare nei deserti tanti confessori e vergini, che, per non essere esposti a perire con la folla, preferirono le austerità della penitenza a tutto ciò che il mondo può offrire di più lusinghiero nei suoi beni e piaceri? Tali sono gli effetti salutevoli che la verità del piccol numero degli eletti ha prodotto nei santi: sapevano essi che la strada che conduce al cielo è stretta e battuta da pochi; essi l’hanno costantemente seguita; hanno coraggiosamente sormontate le difficoltà che si opponevano all’eseguimento dei loro disegni. Così dovete fare voi pure, fratelli miei; voi sapete, come i santi, che per meritare la corona vi resta a percorrere una strada seminata di triboli e di spine; voi siete certi che la via che conduce alla perdizione è larga e spaziosa e battuta dal maggior numero, perché non presenta che rose e dolcezze. Da un canto vi vedete una felicità incomparabile, dall’altro una miseria senza fine: che fare? Bisogna, senza esitare, dir un eterno addio a coloro che corrono al precipizio, per camminare su quelle tracce che vanno a finire alla gloria: converrà per questo, lo confesso; sostenere molti combattimenti, domare le vostre passioni, portar incessantemente la vostra croce; ma è molto meglio salvarsi col piccol numero che perdersi con la moltitudine; e se le difficoltà vi spaventano, v’incoraggi la ricompensa. – Non apportate più dunque per scusa dei vostri disordini il gran numero di coloro che fanno come voi; mentre è questa una fatale illusione di cui servesi il demonio per perder le anime. La maggior parte lo fa, dicesi ordinariamente, posso dunque farlo ancor io. Ah! ben lungi di ragionare in tal modo, dite a voi medesimi: la maggior parte cerca i beni, gli onori, i piaceri della terra, dunque convien disprezzarli; la maggior parte fugge le croci, la povertà, le mortificazioni, la penitenza; dunque convien abbracciarle: i più sono bestemmiatori, ingiusti, maldicenti, vendicativi, voluttuosi; dunque non bisogna esser tale; se ne vedono pochi al contrario che siano umili, casti, mortificati, pazienti; bisogna dunque imitare quel piccol numero, perché egli è certo che il numero dei reprobi è il più grande. Fa d’uopo dunque; per esser salvo, conchiude s. Agostino, lasciar il gran numero per attaccarsi al piccolo: Esto de numero paucorum, si vis esse de numero salvandorum. A questo segno voi conoscerete se siete dei numero degli eletti. Volete voi ancora separarvi di più dalla folla che si perde ed assicurarvi di essere del piccolo numero che si salva? Mirate la condotta di coloro che vivono in una maniera più regolata che voi, che sono più assidui all’orazione, a frequentare i sacramenti che voi, che sono più mortificati che nol siete voi, mettetevi a confronto con tanti santi religiosi che passano i loro giorni nel ritiro, che vivono in un’intera rinuncia a tutto ciò che può lusingare le loro inclinazioni: quanti ne troverete nel medesimo vostro stato, i quali sorpassano in meriti ed in virtù? Concludete dunque così: come mai posso io sperare di essere del numero degli eletti, mentre vedo altri che hanno maggiori diritti di me, e nulladimeno temono di non esservi? Se temesi con una vita piena di buone opere, come sperare con una vita priva di virtù? Convien dunque, per assicurare la mia salute, ch’io imiti, che io superi anche in virtù coloro che menano una vita più regolata che non è la mia, poiché tra quelli che corrono nella lizza un solo è quegli che riporta il premio; bisogna ch’io raddoppi le forze per giungere al segno; giacché la porta del cielo è così stretta, convien ch’io faccia tutti i miei sforzi per entrarvi. – Se voi mettete in pratica queste utili conseguenze, il numero degli eletti, fosse ben egli ancora più piccolo che non è (ed ecco ciò che consola in questa verità), non vi dovesse essere che un solo predestinato nel mondo, sarete voi quello; il Vangelo e Gesù Cristo ci avrebbero ingannati, promettendoci la salute a queste condizioni, se noi non vi pervenissimo adempiendole; al contrario, se voi vivete nel disordine, se non fate penitenza, se morite nel peccato, benché non vi dovesse essere che un solo riprovato, voi sarete quello, e ciò per colpa vostra: Perditio tua ex te, Israel [Oseæ XIII). Ah! fratelli miei, se vi si dicesse solamente che deve esservene uno in quest’assemblea, non dovreste voi temere di esser quello? che sarebbe poi, se vi si annunciasse che ve ne sarà la metà e molto più ancora? Volete voi sapere se sarete di questo numero? Interrogate la vostra coscienza per sapere in quale stato voi siete, giudicatene da voi medesimi; se non siete in grazia di Dio, se comparite al suo giudizio senz’avere la veste nuziale, voi siete certi di essere precipitati nelle eterne tenebre. Qual cosa più capace d’indurvi; per poco che vi resti di fede, a lasciar il peccato con una sincera penitenza? Tale è il frutto che voi dovete ricavare dalle salutevoli riflessioni che abbiamo fatte sul piccolo numero degli eletti. Cominciate dunque, peccatori, sin dal giorno d’oggi, senza più tardare, la grand’opera della vostra conversione; rinnovatevi, come dice il grande Apostolo, in uno spirito di fervore, rivestendovi di Gesù Cristo, cioè, prendendolo per modello: Renovamini spiritu mentis vestræ. Sbandite dai vostri discorsi ogni parola ingiuriosa a Dio o al prossimo, per farvi regnare la verità. Se l’ira vi ha impegnati in qualche nimicizia col vostro prossimo, andate quanto prima a riconciliarvi con lui, affinché il sole non tramonti sull’ira vostra. Chi faceva ingiustizie, non ne faccia più e le ripari al più presto; anzi fatichi ancora a soccorrere l’indigente. Quanto a voi, giusti, se volete perseverare nella grazia di Dio, meditate sovente questa gran verità: Pauci electi, vi sono pochi eletti; voi troverete in essa una forte difesa contro gli assalti dei vostri nemici. Animatevi al fervore, alla pratica della virtù con queste belle parole che Gesù Cristo v’insegna: Contendite intrare per angustam portam; forzatevi di entrare nel cielo per la piccola porta. Così sia.

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVII: 7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua. [Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta

Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde.

[Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas.

[Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio

Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.

[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (130)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO IX.

Il miracolo de’ miracoli, la conversione del mondo alla fede di Cristo.

I. Ciò che si è divisato fin ora, fa manifesto che le opposizioni eccitate, sì dagli ebrei contra i miracoli di Cristo, e sì dagli eretici contra i miracoli de’ fedeli veri di Cristo, non hanno finalmente nulla di fermo, salvo l’ostinazione degli avversari, che è il solito fondamento de’ loro errori. Tuttavia diamo anche loro, che i prodigi nostri restassero alquanto dubbi; come faranno non pertanto a schermirsi dalla doppia punta con cui gli assale l’acuto s. Agostino ( De Civ. Dei 1. c. 5 ) in quel suo dilemma? O il mondo ha. Ricevuta la fede cristiana mosso dalle miracolose operazioni di quei che la propagarono; e già abbiamo i miracoli contrastati dagl’invidiosi: o l’ha ricevuta senza mirare veruna di tali operazioni; ed ecco un miracolo dunque maggiore di tutti: il mondo convertito senza miracoli. E a ciò che si può rispondere?

II. A voler pertanto penetrar bene la forza di questa argomentazione, tal è la via. La religione di Cristo propone cose sì arduo a credere, sì alte allo sperare, sì difficili all’operarsi, che veggendosi quelle con evidenza e credere e sperare e operar da tanti, non può negarsi, che se ciò è succeduto senza miracoli, convien che Dio abbia interiormente supplito per altro verso. Ma questo non poteva essere se non che sollevando in modo più alto gli uomini, da sé solo, ad aderirgli, con un prodigio maggiore de’ naturali, qual era vincere la resistenza delle materie e de’ corpi (S. Th. 3. p. q.). E chi non sa che niun corpo resiste all’angelo, si che egli di sua virtù non lo possa muovere come vuole? Eppure i cuori degli uomini gli resistono (S. Th. 1. p. q. 111. art. 2). Esset autem omnibus signis mirabilius, si ad credendum tam ardua, ad sperandum tam alta, ad operandum tam difficilia, mundus absque mirabilibus signis inductus fuisset a simplicibus et ignobilibus hominibus (S. Th. contra gentes 1. 2. C. 6). Che un peso minore vinca un maggiore, non sì può conseguire mai senza macchina, dice il filosofo (In Mech. c. 1. n. 2). E questo appunto interviene nel caso nostro, dove pochi e poveri pescatori voltarono sossopra il mondo colla forza di quella leva onnipotente che loro aveva il Redentore apprestata nella sua croce. Ma per concepire giustamente la forza di questa macchina, è di necessità figurarsi al vivo tre cose: l’abisso di quel profondo ove giaceva il mondo, prima di sì ammirabile elevazione di esso alla fede: l’altezza di quel posto a cui fu elevato: e la debolezza dei predicatori evangelici impiegatisi ad elevarlo.

I.

III. Giacea dunque il genere umano in un abisso di tutte le più malvage scelleratezze, e ogni uomo non era più un piccolo mondo, ma bene un piccolo caos di confusione, tanto disordinato in tutto se stesso. Toltone un angolo della Giudea (che pure anche ella rimase offuscata frequentemente dalle tenebre dei popoli circonvicini), tutto il rimanente degli uomini dimorava in un’alta notte. In luogo del vero Dio adorava le creature: né solo le più belle, come il fuoco, il sole, le stelle, o le più benefiche, come le piante fruttuose; ma le più vili, come topi e tafani; e le più nocive, come coccodrilli, scorpioni, serpi, dragoni. Tutti questi ebbero tra le nazioni più colte, non pure dell’Egitto, ma della Grecia, anzi in Roma medesima, i loro adoratori ed i loro altari. E quel che è più, ve gli ebbero uomini peggiori ancor de’ dragoni, cioè uomini pieni di tutti i vizi, o per dir meglio ve gli ebbero fino i vizi stessi degli uomini, convertiti in tanto deità: Ipso, vitia religiosa sunt, atque non modo non vitantur, sed, etiam coluntur (Lact. 1. 1. c. 13. de falsa Rel.). Così potevasi dire allor con Lattanzio: essendosi in fine giunto, non solamente a togliere la vergogna dal volto di tutte le scelleraggini più nefande, ma a coronarle fin di raggi celesti.

IV. Né appariva speranza più di rimedio, mentre i savi stessi del gentilesimo, i quali conoscevan la falsità della lor ingannevole religione, in vece di distoglierne il volgo, ve lo immergevano più altamente, insegnando, che conveniva accomodarsi all’usanza; credere come si volea, ma vivere secondo che si vivea; e praticare quelle cerimonie sacrileghe, se non come grate al cielo, almeno come ordinate dalla consuetudine della patria: che fu appunto ciò che la penna di un Agostino rimproverò sì giustamente a quel Seneca, renduto ahi quanto colpevole, più degli altri, dal suo sapore: Colebat quod reprehendebat , agebat quod arguebat, quod culpabat adorabat (S. Aug. 1. 6. de Civ. c. 50).

V. Che se il ben credere è la prima regola del ben vivere, agevolmente s’intende quanto perversi dovean essere que’ costumi che dipendevano da una fede sì storta! Chi poteva temer di peccare sotto l’imperio di tali dei, che o non conoscevan le colpe, o invece di punirle in altrui, le ammettevano in se medesimi; e dopo avere infamati i talami con gli adulteri insolenti, le torri con gli accessi insidiosi, e le spiagge marittime fin coi ratti non condonabili ai più licenziosi corsari, ostentavano al mondo con caratteri di stelle le loro infamie descritte in cielo? Troppo era naturale il discorso, quantunque pessimo, di colui: Quod, divos decuit, cur mihi turpe putem? Ed infatti tanto erano lontani dal vergognarsi delle loro lascivie questi adoratori di numi sì svergognati, che di esse adornavano le loro solennità, di esse arricchivano i loro sacrifizi, e ad esse davano il nome di riti sacri, benché nell’abbominazione vincessero i medesimi sacrilegi. Onde potè con amaro sdegno esclamare l’istesso s. Agostino: Qualia sunt usacrilegia, si ista sunt sacra? (Libro 2. de Civ.).

VI. Ma forse che il solo popolo vile lasciò lordarsi di questo fango? Arguitelo voi da ciò che il senato di Roma decretò teatri, tempi, onori divini a una tal Flora, laidissima meretrice, in ricompensa di avere questa, morendo, lasciata al pubblico l’eredità de’ suoi beni, cioè l’avanzo infamissimo di quel prezzo che ella aveva ritratto in tanti anni dal vituperoso mercato delle sue carni. Le comete di posto nobile, quali son quelle che appaiono in mezzo al cielo, dilatano più ampiamente i loro effetti malefici sulla terra. Giudicate però quale impressione poteva fare nel mondo soggetto a Roma un esempio si reo, che gli derivava dal senato, capo del mondo.

VII. E pure mi darei qualche pace, se si fossero gli nomini contentati di peccare da uomini, senza volere superare, peccando, nella crudeltà fin le fiere. E qual fiera si trova, che incrudelisca contro i suoi parti innocenti mentre a prò loro divengono anzi le più tenere per amore quelle che sono le più rabbiose per indole? E nondimeno contra i lor parti medesimi tanto già incrudelivano i genitori, che li sacrificavano allegramente, a suono di tamburi e di trombe, dinanzi agl’idoli. Ciò che fu poi costume sì ricevuto tra le nazioni, che anche Gerusalemme, la città eletta dal cielo, più d’una volta non si vergognò d’imitarle, fino ad inzuppare di sangue il più immacolato la terra santa. Così a Lucifero era riuscito il suo secondo disegno, tanto meglio del primo: mentre non avendo egli potuto sollevar se medesimo all’ambita divinità, se n’era da sé quasi formata un’altra, con precipitare tutto il genere umano a dovergli star sotto i piedi per tutta l’eternità, quale schiavo ignobile, in un profondo di mali. Ed egli, benché tiranno, già regnava frattanto per l’universo con pace somma, mentre, da venti secoli almeno, lo possedeva senza contraddizione e senza contrasto. E certamente chi mai poteva voltare indietro la furia di sì gran piena? Quando un rio non è lontano ancor dalla fonte, può divertirsi con qualche facilità; ma come può divertirsi, quando con lungo corso tanto è cresciuto, che allaghi i campi? Un male sì universale, sì vasto, sì inveterato, pareva cambiato in natura. Onde non altro poteva il mondo aspettarsi di quel che accade nelle gravi febbri maligne, quando le viscere infiammate raddoppiano al capo i deliri, e il capo vieppiù fumante per que’ deliri accresce vicendevolmente alle viscere la lor fiamma. Voglio dire che l’intelletto, sempre più ottenebrato dalla volontà perversa, pervertiva sempre più la volontà, e la volontà l’intelletto: e l’intelletto e la volontà aumentavano insieme all’uomo il suo male, affatto insanabile senza cura miracolosa.

II.

VIII. Questo era il baratro, donde aveva il mondo a levarsi. Veggiamo ora il termine dove egli aveva da arrivare; affine di capir bene quanto sia stata grande la resistenza che in tal atto incontrata fu dalla macchina della croce, e pure fu vinta. Questo termine era il sommo della verità e della santità praticabile in su la terra. Intese Cristo di riacquistare al Padre il mondo usurpatogli dal demonio. Intese di sbandirne via tutti i vizi, in un con l’idolatria che tra loro porta corona simile a quella che gode il basilisco tra gli altri draghi. Intese di piantare una legge si bella, che il peccare fosse un amare ciò che ella vieta, e il perfezionarsi non potess’essere se non un eseguire ciò che da lei vien commesso o vien consigliato.

IX. Ora, che Cristo abbia conseguito il suo fine, ne fa ampia fede la vita singolarmente di quei primi Cristiani, chiamati giusti fino dai loro stessi persecutori. Riferisce Eusebio (In vit. Const. 1. 2. c. 49. 50), che l’oracolo delfico, al tempo di Diocleziano, ammutolì sì profondamente, che sollecitato da’ sacerdoti in più modi, non rendé infine altra risposta che questa: Che i tanti giusti turavano a lui la bocca. E i tanti giusti erano i seguaci di Cristo, come i medesimi sacerdoti spiegarono all’imperatore alterato a tal novità. Filone, celebratissimo, non pure tra’ suoi giudei, ma tra gli esterni, i  quel libro che compilò de’ primi Cristiani dì Alessandria, da lui descritti, sotto nome di Esseni, ci fa vedere la loro vita più celestiale, che umana (Baron. an. 46), e Plinio (L. 2. cp. 100), dopo un’accurata ricerca de’ lor costumi, poté scrivere a Traiano, sì avverso alla nostra fede, che ne’ Cristiani non v’era altro di male, che un affetto eccessivo al loro Maestro, da loro amato qual Dio (De Christianis: l. X, lett. 97). Queste sono testimonianze di nemici, e però tanto più autorevoli a chi ci abborre. Onde Atenagora, prima illustre filosofo, e poi più illustre martire del Signore, scrisse già francamente su i primi fogli della sua nobilissima apologia, che niun cristiano cattivo si ritrovava, se pur era vero Cristiano, e non era finto: Nullus christianus malus est, nisi hanc religionem simulanti.

X. La loro fede era sì costante, che i proconsoli e i presidenti si dichiararono presso Cesare, che essi non ritrovavano né croci, né carnefici sufficienti al numero di que’ Cristiani che nelle loro provincie si offerivano generosi alla morte (Anton. Procons. Asiæ, et Tiberius Palæst. Præfect.). La loro carità fu sì accesa, che per essa si discernevano da’ gentili: i gentili attoniti alla nobiltà di spettacolo così nuovo, andavano ogni poco fra sé dicendo: Guardate amore! Volere infino l’uno morir per l’altro: Videte, ut se invicem diligant, ut prò alterutro mori sint parati(Tert. Ap. c. 39). E la loro pudicizia fu sì evidente che più crudo supplizio per qualunque donna cristiana si reputava condannarla a’ lupanari che condannarla ai leoni: Ad lenonem damnando christianam, potius quam ad leonem, confessi estis labem pudicitiæ apud nos atrociorem omni pœna et omni morte reputari (Tert. Ap. c. ult.).

XI. E pure quanto tempo si ricercò a fare questo ammirabile cambiamento di cuori e di costumi nell’universo? Ogni macchina quanto vince di controforza, tanto è necessario che perda di celerità nell’operazione. Ma la macchina della croce non va con sì fatte regole. Quindi è, che una legge, sì ripugnante al vivere di que’ tempi, prevalse sì prestamente, che in capo al secondo secolo poté francamente scrivere Tertulliano (Anno 201. asserit. Spondan. n. 8. scriptum Apol. Tert.), che non v’era più luogo non occupato da’ seguaci di Cristo, fuori di quelli, dov’essi non si degnavano di por piede: Vestra omnia, implevimus, insulas, castella, municipia, conciliabula, castra ipsa, tribus, decurias, palatium, senatum, forum; sola vobis reliquimus tempia.

XII. Pertanto il mondo, da sentina di laidezze cambiossi in un giardino amenissimo di virtù; e la verginità raminga già dalla terra, la poté popolare sì nobilmente, che come scrive Palladio, ne’ giorni suoi, cioè sul principio del quarto secolo, il territorio di una sola città di Egitto alimentava ventimila vergini religiose, viventi tra’ mortali una vita angelica.

XIII. Eccovi il cambiamento de’ costumi, pronosticato dalle sibille sotto nome di secoli d’oro: pronunziato da’ profeti sotto l’allegoria di deserto cambiato in terreno colto: e chiaramente predetto ancora da Cristo innanzi al morire, sotto immagine di trionfo, quando assicurò i suoi fedeli, che Egli, sollevato ormai sul patibolo della croce era per tirare a sé solo tutte le genti: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum. Chi non iscorge però in questa mutazione di giudizii, di voleri, di vita, il dito di Dio, più potentemente impiegato, che non già ne’ portenti sì celebri dell’Egitto, dove pur gli stregoni più contumaci ve l’ebbero a veder chiaro ed a confessarvelo? Digitus Dei est Me.

III.

XIV. Senonchè ci rimane a considerare anche il meglio, cioè la debolezza de’ predicatori evangelici, eletti a fare un cambiamento sì alto. Quando Archimede con le sue leve spinse in mare una nave carica, di sterminata grandezza, restò Ierone si attonito, che esclamò, non doversi più ad un tal uomo negare di credere quanto mai promettesse di voler fare: Archimedi quidlibet affirmanti credendum est (Athen. 1. 5. c. 7. Proc. 1. 2. c. 3): quasi che nell’arte di lui riconoscesse quel principe compilata una piccola onnipotenza. Ora un’onnipotenza non sognata, ma vera, converrà riconoscere certamente nella conversione del mondo, se si rimiri, quanto da sé erano inabili ad ottenerla dodici Apostoli, noveri, semplici, sconosciuti, e privi affatto d’ogni talento che li potesse rendere riguardevoli ad occhi umani. I principi grandi ad ostentazione della loro potenza prendono a fabbricare talvolta in mare, con ergervi lunghi moli ove andarvi a spasso. Ma con ciò anzi vengono a far palese, che, benché principi, non sono da più degli altri, mentre nel mare conviene che anch’essi cerchino fondo sodo, come si fa sulla terra. Iddio per contrario, non solamente sa fondar le sue fabbriche sopra l’onde, ma sa fondarle sul nulla, cioè sopra spalle sì deboli, che, invece dì sostenere l’opera con lo loro forze, abbiano bisogno di essere sostenute.

XV. E perché questa allo spirito è una contemplazione molto gioconda, figuratevi un savio della terra il quale per via si abbatta in un pescatore, solo, scalzo, negletto, qual era Pietro, quando n’andava a Roma per introintrodurvi la fé di Cristo. E quivi fate ragione, che interrogato de’ suoi disegni l’apostolo gli risponda: Venir lui alla città reina del mondo, per renderla a sé ubbidiente: piantar su quell’inclito Campidoglio un labaro trionfale, non più là apparso, e per fondare in quella regia una nuova religione, da cui sia tosto l’antica mandata in bando: aver lui in cuore di farvi adorar qual Dio un uomo di trentatré anni crocifisso novellamente nella Giudea per consiglio degli scribi, per consenso de’ sacerdoti, e per sentenza di Ponzio, presidente romano, fra due ladroni; volervi persuadere, che questo crocifisso non è più morto, ma risorto già dalla tomba, per virtù propria, ad una vita gloriosa che gode in cielo: e che dal cielo è per tornare una volta a giudicare tutto il genere umano, richiamando dalle lor ceneri a nuova vita tutti mortali, per dare loro quella pena o quel premio, che si saran meritato con le lor opere. Non contento di far lui credere a Roma questo verità puramente speculative, voler che in pratica, per amor di quest’uomo, ella si risolva a sfuggire i piaceri come nemici, ad abbracciare la povertà qual tesoro il più fortunato, e ad anteporre le ignominie e le ingiurie a tutti gli onori che prima si comperavano a sì gran costo: voler che quivi si amino tatti insieme come fratelli, e che, se mai da veruno vengano offesi, contraccambino l’odio con benevolenza, gli oltraggi con benefìzi; e che in una parola ciascun sia pronto ad abbandonare e padroni e padri e figliuoli e sposo e sorelle e quanto si possiede di bene al mondo o può possedersi, per ubbidire a questo giustiziato, di cui si parla, e per mantenere inviolabile a lui la fede: né pretender già esso di persuadere, sì strane cose a semplici femminelle: pretender di persuaderle a senatori, a consoli, a capitani, infino a monarchi, sicché si glorino d’imbrandire un giorno la spada ad onore di questo medesimo crocifisso, e credano di nobilitarsi la fronte con la sua croce più che con tutte le loro gemme orientali: pretender di persuaderle alle più scienziate accademie, ad oratori, a favoleggiatori, a filosofi, a gran politici, e a ministri di stato, usi a librare il mondo sulle lor lance; e quel ch’è più, di persuaderle ad uomini tutti immersi nelle dissoluzioni, sicché, sfangandone, curvino a questo nuovo nume lo spirito riverente, e col timore di lui tengano in briglia da ora innanzi le lor passioni scorrette.

XVI. Or che direbbe mai quel savio all’udir tali stravaganze? Credo, che da principio dileggerebbe senza dubbio l’Apostolo come stolto. Ma quando pure, per le parole replicate di questo, inclinasse a credergli, passerebbe egli attonito a domandargli, con qual apparato di ricchezza, di dottrina, di doti, di nobiltà, di compagni, di fautori, intraprendesse un’impresa sì malagevole. E però quanto crescerebbe in lui lo stupore, quando si udisse a tale istanza soggiungere dal buon Pietro, che i suoi compagni son dodici, e che col seguito di pochi altri, da loro ammessi a tal opera, si sono ripartito tutto il mondo abitato, per soggettarlo a questa novella fede: che in arnese tutti vanno sì poveri, come lui: che non pregiano altra dottrina, altre doti, che l’amore a questo medesimo crocifisso: e che quantunque siano pescatori di mestiere, e Giudei di patria, e come Giudei sappiano d’essere l’odio delle nazioni, tuttavia vengono assicurati dal loro Maestro, che pianteranno di certo una tal credenza sulle rovine del culto già universale de’ falsi Dei, e la pianteranno sì salda che tutti i tormenti inventati dalla rabbia dei Cesari in trecento anni, e ne’ secoli susseguenti, invece di svellerla, concorreranno a farle gettar più valide le radici in qualunque lato: né si guardi, tutti al pari loro essere di una lingua, perché ben sapranno usare, dovunque vadano, tuttavia le lingue di tutti, benché mai da lor non apprese.

XVII. E di fatto così è avvenuto: e se noi stupiti non ammiriamo l’evento, è perché nati in questa fede. e nutritivi, non la consideriamo più qual prodigio, ma qual cosa giustissima ad avvenire. Frattanto, ipse modus, quo eredidit mundus, incredibilior invenitur, dice a ragione sant’Agostino (De Civit. Dei 1. 21. c. 5).Se udissimo raccontare che dodici soldati di Europa, sbarcati nell’America, han soggiogata tutta quella parte di mondo, ci sembrerebbe stranissimo a dover crederlo. Ma finalmente quegl’indiani, mal esperti alla guerra, han lance di canne: onde può essere che quei pochi europei, con andar ben guerniti di qualunque arma, e di ferro e di fuoco abbiano abbattuta col timor di sé quella moltitudine che non potevano vincere con la forza. Ma fingete, che dodici indiani, vestiti alla leggera, con le lor piume, sbarcassero al tempo stesso, quale in un porto di Europa, quale in un altro, e con le loro canne in mano per aste superassero in più fazioni eserciti innumerabili di soldati nostrali i più bellicosi; chi mai penerebbe a credere che tal vittoria avvenisse, non per virtù naturale, ma sovrumana, massimamente se quegl’indiani restassero superiori, non ammazzando gli emuli, ma ammazzati? Ora tale è il caso nostro: senonché tanto egli è ancora più stravagante, quanto è più difficile vincere i cervelli e i cuori, che non i corpi. E potrà uomo di senno non confessare la legge cristiana per un lavoro che vien dall’alto? Nullus his contradixerit, nisi qui valide insanus et totus stupidus sit: come ne parve, tanti secoli fa, alla lingua d’oro di Giovanni il Grisostomo (Homilia quod Christus sit Deus). Il vincere l’audacia con la sommessione, l’astuzia con la semplicità, i re coi poveri, i fastosi con gl’ignobili, i filosofanti con gl’idioti, è un’impresa che non poteva disegnarsi da altri che da Dio solo, e da Dio solo eseguirsi. Egli solo è il padron dell’uomo, e così Egli solo può esercitare nell’intimo di lui dominio totale, piegandolo con dolcezza, a ciò ch’Egli vuole, senza punto violargli la libertà. Il diamante, benché sì duro, pure anch’egli ha le vene proprie, per cui lo sanno fendere i gioiellieri ben intendenti. Sia duro quanto si voglia il cuore degli uomini sia restio, ha le sue vene ancor esso, per cui gentilmente vi opera quel Signore che lo formò.

IV.

XVIII. Ponete ora al confronto le mutazioni che le altre sette hanno fatto ne’ lor seguaci. Socrate, Platone, Aristotile, Tullio, Seneca, Plotino, Plutarco, sono i più riveriti maestri dell’antichità. Ora qual gente essi accolsero sotto le loro insegne? Non h inno potuto neppure fare universalmente accettare quelle verità che sono scritte nel cuore umano dal dito dellanatura. Tal è. non esservi più che un Dio solo al mondo. Così credevano in loro cuore ancor essi. E pure, con tutto il loro sapere, a qual città, a qual castello, a qual infimo villaggetto arrivarono a persuadere che, lasciate il culto degl’idoli, abbracciassero quello di un solo Dio? Similmente conoscevano essi il darsi al mondo un’altissima provvidenza de’ nostri affari:l’anima esser immortale: la virtù non dover andar senza premio; il vizio non dovere andar senza pena, né solo in questo mondo, ma ancora nell’altro E pure in quanti fermamente stamparono tali dogmi? Giudicate poi che avrebbero persuaso le loro parole di quelle verità più difficoltose che sormontano tanto ogni umana capacità.

XIX. Ma che dico io de’ filosofi, i quali avevano una sapienza morta nel cuore, e non un vivo spirito di pietà; onde è che potevano fare assai più di strepito, che di scossa. Abramo, Giuseppe, Giacobbe, Mosè, e gli altri amici più intimi del Signore, ancorché da Lui ricevessero tanti oracoli, e tanti altrui fedelmente ne riportassero, poterono forse persuadere ad una intera provincia là nell’Egitto, che ella aderisse con esso loro al gran Dio da loro adorato? Né anche forse lo persuasero ad un’intera famiglia. E quantunque la legge data a Mosè sul Sinai fosse sì giusta, quantunque fossegli bandita quivi da Dio in un apparato di tant’orrore, che pareva anzi indirizzato a punir prevaricazioni, che a pubblicare precetti: quantunque all’adempimento di essa fosse il popolo scorto con una guida scesa dal cielo, la quale precedevalo ad ogni passo: quantunque fosse alimentato a meraviglia da nuvole rugiadose, da rupi serve, da ruscelli seguaci: quantunque fosse condotto per un sentiero, in cui d’ambo i lati aveva per siepe, a tenerlo in via, folto numero di prodigi; contuttociò quanto ebbe Mosè a penare per farlo stare entro i termini del dovere, sicché, non traboccassero ancor egli nelle abbominevoli usanze degli idolatri, è invece di convertire gli abitatori della terra promessa, non si lasciasse pervertire in pochi anni dai loro costumi? Tanto inferiori sono il Sinai al Calvario, la sinagoga alla Chiesa.

XX. Mi vergogno qui poi di rammemorare il sozzo Maometto. Ma, a confusione di quegli stolti i quali lo fanno andare in cocchio coi sommi legislatori. mostri un poco ancor egli la mutazione che recò al mondo la legge da lui data contro ogni legge. Dov’ella entrò, parve entrarvi subito un fuoco divoratore; sicché quella varietà di scena che si scorge intorno al Vesuvio,prima che egli vomiti le sue fiamme infernali sulle campagne, e dappoiché ve la ha vomitate, quella si scorge parimenti nei luoghi soggetti al turco. Qual paese già fecondo d’ingegni, più culto per arti, più costumato per andamenti, più fiorito per lettere, e qual anche  più venerabile por pietà, che la Grecia, e che la stessa Africa quando obbediva a Cristo? E pure, quale più selvaggio, più stolido, più ignorante che l’Africa, o che la Grecia, poiché passarono sotto il giogo ottomano? E quello che ivi ancora è più da notarsi, ciascuno avria divisato che la legge turchesca, con la molteplicità delle mogli da lei permesse, avesse a popolare i paesi dov’ella arriva, sopra ogni credere; e per contrario ella v i arreca a poco a poco un’orrenda desolazione. L’Egitto fu già tanto popoloso, che Pomponio Mela vi annoverò le città a venti migliaia: ed ora è sì scarso, che Leone Africano non gliene dà più di venti. E laddove nell’Africa, l’anno quattrocento settantuno, furono, per testimonianza di Beda, funestate da Unnerico re ariano, quattrocento trentaquattro città, con l’esilio de’ loro vescovi; ora per dotto dì Leone medesimo suo natio, non ve se ne possono contare più di quaranta, quando anche per città si passino luoghi poco degni di tanto nome (Apud Bazium 1. 15. signo 73). E l’istesso proporzionalmente si può affermare della Grecia e dell’Asia, dove l’imperio ottomano si dilatò: tantoché i turchi medesimi, ammirando la strana sterilità che portano per retaggio con esso sé le loro conquiste, son usi dire, che dove il cavallo del gran signore pone il pie non nasce più erba (Boler in relat.).

XXI. Di questa foggia sono que’ cambiamenti che le sette cagionano ne’ lor popoli, e di peggiore sono quelli che cagionano ne’ costumi, mutandoli di buoni in cattivi, di cattivi in pessimi, fino a precipitarli nell’ateismo; come appunto succede fra’ novatori, i quali, non trovando dove alla fine posare il pie, si riducono ad affermare che ciascuno può salvarsi nella sua legge: non si accorgendo i meschini, che l’approvare tutte le religioni, e il negarle tutte, sembrano due contraddizioni formali, e son due sinonimi. Ma che? Questo è l’esito degli animali nati dal putridume terminare in una corruzione maggiore di quella da cui provennero.

XXII. Tornando all’intendimento: chi non vede frattanto, che la fede di Cristo è la vera dottrina uscita dal cielo, mentre per mezzo di essa ha Dio introdotto nel mondo tanto di sapienza e tanto di santità, e ne ha sgombrato tanto di sciocchezze nelle opinioni, e tanto di sozzure nell’opere? Però, o tutta questa mutazione è succeduta a forza di gran miracoli, ed ecco la sottoscrizione che Dio vi ha aggiunto di man propria, affino di accreditarla; o è succeduta senza miracoli; ed ecco divenire un miracolo ancor maggiore quella mutazione ora detta, che, essendo sì inaspettabile e sì inaudita, è da Dio stata operata senza miracoli, e in sì breve ora, che direi esser la fede scorsa immediatamente da un polo all’altro come la luce, se ciò non fosse dir poco, mentre la luce non ha contrario veruno che le resista; ma quanti n’ebbe la fede! Sicché quale scampo ormai resta a chi non confessi, che dal modo medesimo, con cui questa si è propagata nell’universo, dà chiaramente a vedersi, ch’ella è la vera? E se è la vera, che dunque osare di levarsele contro a guisa di vipera ritta al sole, col collo gonfio di livor velenoso, che spiri morte, e con la bocca piena di spume maligne? Meglio è l’umiliarsi, e concedere nuovamente, che ci vuol più a non volere scorgere dove regni la religione sincera, che a risaperlo.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (1)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (1)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO I.

Si pongono due fondamenti principali in questa materia.

Non sicut ego volo, sed sicut tu (Matth, XXVI,39):

Non si faccia, Signore, come voglio io, ma come volete voi. Per due fini dicono i Santi che discese il Figliuolo di Dio dal cielo e si vestì della nostra carne, facendosi vero uomo: l’uno per redimerci col suo Sangue prezioso, l’altro per insegnarci colla sua dottrina la via del cielo e istruirci col suo esempio: imperciocché siccome non ci avrebbe giovato il saper la via per cui poter camminare, se fossimo rimasi legati nel carcere; così, dice S. Bernardo (D. Bern., serm., 3, in circum., Dom.), non avrebbe giovato il cavarci dal carcere, se non avessimo saputa tal via: e poiché Dio era invisibile, era necessario, che per poterlo noi vedere, seguitare e imitare, Egli si facesse visibile e si vestisse della nostra umanità: in quella guisa che il pastore si veste di un pelliccione formato della stessa delle delle pecore, acciocché queste più facilmente lo seguitino, vedendo la loro similitudine. – E S. Leone papa dice: Nisi enim esset verus Deus, non afferret remedium: nisi esset homo verus, non præberet exemplum (D. Leo P. serm. 1, (le Nat. Dom.): Se Cristo non fosse stato vero Dio, non ci avrebbe apportato il rimedio; e se non fosse stato vero uomo, non ci avrebbe dato l’esempio. L’una e l’altra di queste due cose fece Egli molto compiutamente mercé l’eccesso di quell’amore che portava agli uomini. Siccome dal canto suo fu molto copiosa la redenzione: Et copiosa apud eum redemptio (Psal. CXXIX, 7): così dal canto suo fu anche molto copioso il suo ammaestramento; perché non fu fatto solamente con parole, ma molto più abbondantemente con esempio di opere: Cœpit Jesus facere et docere, dice l’evangelista S. Luca (Act, I, l). Prima cominciò ad operare, il che fece in tutta la sua vita; e dipoi a predicare i tre ultimi anni, ovvero i due e mezzo. – Ora fra tutte le cose che c’insegnò Cristo nostro Redentore, una delle più principali si è che avessimo una piena conformità alla volontà di Dio in tutte le cose: e non solo ce lo insegnò con parole, quando insegnandoci ad orare disse: Una delle cose che avete da chiedere al vostro Padre celeste, è, Fiat voluntas tua sicut in cœlo et in terra (Matth. VI, 10): Facciasi, Signore, la volontà tua in terra siccome si fa in cielo; ma c’insegnò anche e ci confermò molto bene questa dottrina col suo esempio: perché a quest’effetto dic’Egli che scese dal cielo in terra; Descendi de cælo, non ut faciam voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (Jo. VI, 38): Discesi dal cielo, non per fare la volontà mia, ma quella del mio Padre che mi mandò. E al tempo di compiere la grand’opera della nostra Redenzione, il giovedì dopo l’ultima Cena ritiratosi all’orto di Getsemani, ed ivi postosi in orazione, sebbene il corpo e l’appetito suo sensitivo naturalmente ricusavano la morte (onde per mostrare, ch’era vero uomo, disse: Pater mi, sì possibile est, transeat a me calix iste – Matth. XXVI, 39): Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice); nondimeno la volontà sua fu sempre molto pronta e molto desiderosa di bere il calice che il divin suo Padre gli offriva: onde soggiunse subito: No, Signore, non si faccia quello che voglio Io; ma quello che volete Voi. Per pigliar questa cosa dalla sua radice e per fondarci bene in questa conformità alla volontà di Dio, si hanno da supporre due brevi fondamenti, ma molto sostanziali, sopra de’ quali, come sopra due cardini, si ha da appoggiare e raggirare tutto questo affare. Il primo è, che il nostro profitto e perfezione consiste in questa conformità alla volontà di Dio: e quanto questa sarà maggiore e più perfetta, tanto sarà maggiore il profitto. Questo fondamento si lascia intendere facilmente; perché è cosa certa, che la perfezione essenzialmente consiste nella carità e nell’amor di Dio: e tanto sarà uno più perfetto, quanto più amerà Dio. È pieno di questa dottrina il sacro Evangelio; ne sono piene le Epistole di S. Paolo; ne sono pieni i libri de’ Santi: Hoc est maximum et prìmum mandatumCharitas est vinculum perfectionis (Ad Col, III, 14): — Major autem horum est charitas (I ad Cor. XIII, 13). La cosa più alta e più perfetta è la carità e l’amor di Dio. Ora la parte più alta e più pura di questo amore di Dio, e come la sua quint’essenza, è il conformarsi in ogni cosa alla volontà di lui e l’aver un istesso volere e non volere colla Divina Maestà Sua in tutte le cose: Eadem velle et eadem nolle, ea demum firma amicitia est, dice S. Girolamo (Hieron. ep. ad Demetr. ex Cicer. de amicitia), riportando queste parole da lui cavate da quell’antico Filosofo: L’aver un istesso volere e non volere colla cosa amata, è la vera e ferma amicizia. Dunque quanto uno sarà più conforme e più unito alla volontà di Dio, tanto sarà migliore e più perfetto. Inoltre è chiaro che non vi è cosa migliore né più perfetta che la volontà di Dio; dunque quanto più uno si conformerà e si unirà alla volontà di Dio, tanto migliore e più perfetto sarà: come saviamente arguiva lo stesso sovrallegato Filosofo: Se Dio è la cosa più perfetta che si trovi; dunque quanto più una cosa si assomiglierà a Dio, tanto sarà più perfetta. – Il secondo fondamento è, che nessuna cosa può avvenire né succedere nel mondo, se non per volontà e ordinazione di Dio: il che si ha da intendere sempre, eccettuatane la colpa e il peccato; perché di questo non è cagione né autore Dio, né può esserlo. E siccome ripugna alla natura del fuoco il raffreddare, e a quella dell’acqua il riscaldare, e a quella del sole l’oscurare; così ripugna infinitamente più all’immensa bontà dì Dio l’amare l’iniquità. Onde il profeta Abacuc disse: Mundi sunt oculi tui, ne videas malum; et respicere ad iniquitatem non poteris (Habac. 1,13.): Signore, gli occhi tuoi sono mondi, per non vedere il male; e non puoi vedere le iniquità degli uomini. Siccome tra noi, quando vogliamo significar l’odio che uno porta ad un altro, diciamo, che non lo può vedere; così dice che Dio non può vedere le iniquità degli uomini per l’abborrimento e odio grande che porta a quelle: Quoniam non Deus volens iniquitatem tu es, dice David (Ps, V, 5); e altrove: Dilexisti justitiam et odisti iniquitatem (Ps. XLIV, 8). Tutta la sacra Scrittura è piena di espressioni e di formole le quali ci mostrano quanto Dio odia il peccato; onde non può esser cagione né autor di esso. Ma, eccettuatone il peccato, tutte le altre cose e tutti i travagli e i mali di pena che avvengono in questo mondo, tutti avvengono per volontà e ordinazione di Dio. Questo fondamento è anch’esso molto certo. Non vi è fortuna nel mondo: che questo fu errore de’ Gentili. I beni che il mondo chiama di fortuna, non li dà la fortuna, che questa non vi è, ma li dà solamente Dio. Così lo dice lo Spirito santo per mezzo del Savio: Bona et mala, vita et mors, paupertas et honestas, a Deo sunt (Eccli, XI, 11): I beni e i mali, la vita e la morte, la povertà e le ricchezze, Dio è che le dà. E ancorché queste cose avvengano per mezzo d’altre cagioni seconde, è nondimeno certo, che nessuna cosa si fa in questa gran repubblica del mondo; se non per volontà e ordine di quel supremo Imperatore che la governa. Nessuna cosa avviene a caso rispetto a Dio; ogni cosa vien decretata e ordinata da lui, e ogni cosa passa per le sue mani. Tiene Egli contate tutte le ossa del tuo corpo e tutti i capelli del tuo capo; e né pur uno di essi ti sarà tolto senza ordinazione e volontà sua. Ma che dico io di quello che tocca agli uomini? Non cade un uccellino nel laccio, dice Cristo nostro Redentore nel suo Evangelio, senza disposizione e volontà di Dio: Nonne duo passeres asse væneunt: et unus ex illis non cadet super terram sine Patre vestro (Matth. X, 29)? Nemmeno una fronda di un albero si muove senza la sua volontà. Ancora delle sorti, dice il Savio: Sortes mittuntur in sinum, sed a Domino temperantur (Prov. XVI, 33): Sebbene le sorti si cavano da un bussoletto, o da un vaso, non ti pensare che escano a caso; perché escono per decreto della Divina Provvidenza, la quale così vuole e così dispone: Cecidit sors super Mahiam (Act. I, 26): Non cadde a caso la sorte sopra di Mattia; ma fu per decreto e particolare provvidenza di Dio, il quale lo volle eleggere in suo Apostolo per quella via. Arrivarono a conoscere questa verità, anche col solo lume naturale, i buoni Filosofi, e dissero, che sebbene rispetto alle cagioni seconde molte cose sono a caso, nondimeno non sono a caso rispetto alla prima cagione; ma molto di proposito e a bello studio da lei sono prevedute e ordinate: e apportano per esempio: Se un padrone mandasse un servidore in qualche luogo per qualche affare; e per un’altra strada ne mandasse un altro al medesimo luogo, o per lo stesso, o per un altro affare, senza saper l’uno dell’altro, intendendo però egli, che colà si unissero; l’incontrarsi questi due servidori rispetto ad essi sarebbe a caso, ma rispetto al padrone, che lo pretese, non sarebbe a caso, ma cosa pensata e voluta molto di proposito: così qui nel caso nostro, benché rispetto agli uomini avvengano alcune cose a caso, perché essi prima non le intendevano né vi pensavano; nondimeno rispetto a Dio non avvengono a caso, ma con consiglio e volontà sua, che così ha ordinato per i fini segreti e occulti ch’Egli sa. Quel che abbiamo da cavare da questi due fondamenti, è la conclusione , e l’assunto che abbiamo proposto, cioè, che, giacché tutte le cose che ci accadono vengono dalla mano di Dio, e tutta la nostra perfezione consiste nel conformarci alla volontà sua, le riceviamo dunque tutte come venute dalla sua mano e ci conformiamo in esse alla sua divina e santissima volontà. Non hai da ricevere cosa alcuna come venuta a caso, o per industria e per i mezzi degli uomini; perciocché questo è quello che suol cagionare grande angoscia e dolore: non ti pensare che questa o quell’altra cosa ti sia avvenuta, perché quell’altro l’abbia maneggiata; e che, se non fosse stato per la tale o tal altra circostanza, sarebbe succeduta altrimenti: non hai da far conto di questo; ma pigliare tutte le cose come venute dalla mano di Dio, per qualsivoglia via, o giro, che vengano; perché Egli è quegli che le manda per quei mezzi. – Soleva dire uno di que’ famosi Padri dell’eremo (In Vita Patr.), che non potrà l’uomo aver vero riposo né vera contentezza in questa vita, se non farà conto che in questo mondo non vi sia altri che Dio. ed Egli solo. E S. Doroteo dice, che que’ Padri antichi molto attendevano a questo esercizio, dell’assuefarsi a pigliare tutte le cose come venute dalla mano di Dio, per piccole che fossero ed in qualsivoglia maniera elleno venissero; e che con questo si conservavano in gran pace e quiete, e vivevano vita celaste (In Dototh. Doctr. 7).

CAPO II.

Si dichiara meglio il secondo fondamento.

È una verità tanto chiaramente espressa nella divina Scrittura, che tutti i travagli e mali di pena vengono dalla mano di Dio, che non vi sarebbe veru n bisogno di trattenerci in provarla, se il demonio colla sua astuzia non procurasse d’oscurarla; perché dall’altra verità pur certa che abbiamo detta, cioè non esser Dio cagione né autor del peccato, inferisce una conclusione falsa e bugiarda, facendo credere ad alcuni, che, sebbene i mali che ci vengono per mezzo di cagioni naturali e di creature irragionevoli, come l’infermità, la carestia, la sterilità, vengono dalla mano di Dio; perché in queste cose non v’è peccato né vi può essere in creature tali, non essendo capaci di esso; nondimeno il male e il travaglio che accade per colpa dell’uomo, il quale ha dato ferite, o ha rubato ad un altro, o lo ha ingiuriato, non viene dalla mano di Dio, né è guidato dalla sua ordinazione o provvidenza, ma viene dalla malizia e perversa volontà di colui; il che è un error molto grande. Dice molto bene S. Doroteo riprendendo questa cosa, e quegli insieme che non pigliano tutte le cose come venute dalla mano di Dio: Nos vero cum verbum ullum in nos dictum audimus, canes imitamur: hi enim, si quis in eos lapidem jecerit, jaciente dimisso, lapidem remordent; ita nos, Deo relicto, qui nobis tribulationes hujuscemodi ad peccatorum nostrorum purgationem procurata ad lapidem, hoc est ad proximum, currimus (D. Doroth. Doctr. 7): Vi sono alcuni, i quali, quando un altro dice qualche parola contro di essi, o fa loro qualche altro male, dimenticati di Dio, rivolgono tutta la loro ira contro il prossimo; imitando i cani, i quali mordono il sasso, e non guardano alla mano che l’ha tirato, né fanno d’essa alcun conto. Per dar il bando a quest’errore, e acciocché stiamo ben fondati nella verità cattolica, notano i Teologi, che nel peccato che l’uomo commette concorrono due cose; l’una è il moto e l’atto esteriore ch’egli fa, l’altra il disordine della volontà col quale si scosta da quello che Dio comanda. Della prima cosa è autor Dio, della seconda l’uomo. Mettiamo per esempio che un uomo venga a rissa con un altro e che lo ammazzi. Per ammazzarlo gli bisognò metter mano alla spada, alzare e maneggiare il braccio, tirar il colpo, e far altri moti naturali i quali si possono considerare da sé, senza il disordine della volontà dell’uomo che li fece per ammazzar quell’altro. Di tutti questi moti considerati in se stessi ne è cagione Iddio, ed egli li fa, come fa anche tutti gli altri effetti delle creature irragionevoli: perché siccome elleno non si possono muovere né operare senza l’attual concorso di Dio, così neanche potrebbe senza esso maneggiar l’uomo il braccio né metter mano alla spada. Oltre di questo, quegli atti naturali da se stessi non sono cattivi, perché se l’uomo li usasse per sua necessaria difesa, o in guerra giusta, o come ministro della giustizia, e in questo modo ammazzasse un altro, non peccherebbe. Ma della colpa, che è il difetto e disordine della volontà con cui l’uomo cattivo fa l’ingiuria, e di quel traviamento dalla ragione e storcimento da essa, non ne è cagione Iddio; sebbene ciò Egli permette, perché potendolo impedire, non l’impedisce pe’ suoi giusti giudizi. E dichiarano questo con ima similitudine. Si trova uno ferito nel piede, e con esso va zoppicando. La cagione del camminare col piede è la virtù e la forza motiva dell’anima; ma del zoppicare ne è cagione la ferita, e non la virtù dell’anima; così nel- l’opera che uno fa peccando, la cagione dell’opera è Dio; ma l’errare e il peccare operando è del libero arbitrio dell’uomo. Di maniera che sebbene Iddio non è né può essere cagione né autor del peccato, abbiamo nondimeno da tener per certo, che tutti i mali di pena, o vengano per mezzo di cagioni naturali e di creature irragionevoli, o vengano per mezzo di creature ragionevoli, per qualsivoglia via e in qualsivoglia modo che vengano, tutti vengono dalla mano di Dio, e per sua disposizione e provvidenza. Dio è quegli che ha maneggiata la mano di colui che t’ha percosso, e la lingua di colui che t’ha detta la parola ingiuriosa: Si erit malum in civitate, quod Dominus non fecerit (Amos III, 6)? Dice il profeta Amos: ed è piena la sacra Scrittura di questa verità, attribuendo a Dio il male che un uomo ha fatto ad un altro, e dicendo, che Dio è quegli che l’ha fatto. Nel secondo Libro dei Re, parlandosi di quel castigo che Dio diede a David per mezzo del suo figlio Assalonne, per lo peccato d’adulterio e d’omicidio che commise, dice Dio, che un tale castigo glielo avrebbe dato Egli di propria mano: Ecce ego suscitabo super te malum de domo tua, et tollam uxores tuas in oculis tuis, et dabo proximo tuo…. tu enim fecisti abscondite; ego autem factam verbum istud in conspectu omnis Israel, et in conspectus solis (II. Reg. XII. 11, 12.). Quindi è ancora, che i re empii quali per la loro superbia e crudeltà usavanotrattamenti asprissimi col popolo diDio, vengono chiamati dalla Scrittura istrumento della Divina Giustizia: Væ Assur, virga furoris mei (Isa. X, 5): Guai ad Assur, verga del mio furore. E di Ciro re de’ Persi, per mezzo del quale il Signore aveva da castigare i Caldei, dice: Cujus apprehendi dexteram (3 (lbid. XLV, 1), la cui destra mano io ho da maneggiare. Dice molto bene S. Agostino a questo proposito: Impietas eorum tamquam securis Dei facta est. Facti sunt instrumentum irati, non regnum placati. Facti enim hoc Deus, quod plerumque facit et homo. Aliquando iratus homo apprehendit virgam jacentem in medio, fortasse qualecumque sarmentum, cædìt inde fìlium suum, ac deinde projicit sarmentum. in ignem, et filio servat hæreditatem; sic aliquando Deus per malos erudii bonos (D. Àug. in Psal. LXXIII): Procede Dio con noi altri come suol procedere di qua un padre, il quale adirato col figliuolo dà di mano ad un bastone che trova alla ventura, e con esso castiga il figliuolo, gettando poi il bastone nel fuoco e facendo il figliuolo erede di tutti i suoi beni. In questa maniera, dice il Santo, è solito anche il Signore dar di mano a’ tristi e servirsene d’istrumento e di sferza per castigare i buoni. – Nelle Istorie Ecclesiastiche leggiamo, che nella distruzione di Gerusalemme veggendo Tito capitano de’ Romani, mentre passeggiava intorno alla città, i fossi pieni di teste di morti e di cadaveri, e che tutto quel paese circonvicino s’infettava per la puzza, alzò gli occhi al cielo, e a gran voce chiamò Dio per testimonio, com’egli non era cagione che si facesse tanto grande strage (Hist. Eccles. p. 1, lib. 3, c. 1). E quando quel barbaro Alarico andava a saccheggiare e distrugger Roma, gli uscì incontro un venerabile Monaco, e gli disse, che non volesse esser cagione di tanti mali, quanti si sarebbero commessi in quella giornata; ed egli rispose: Io non vo a Roma per volontà mia, ma una certa persona, la quale non so chi si sia, tutto dì mi va stimolando e mi tormenta, dicendomi: Va a Roma, e distruggi la città (Ibid. part. 2, lib. 6, cap. 2). Di maniera che abbiamo a conchiudere, che tutte queste cose vengono dalla mano di Dio, per ordine e volontà sua. E così il real profeta David, quando Semei gli diceva tanti improperii e gli tirava sassi e polvere, disse a quei che volevano di lui farne vendetta: Dominus præcepit ei, ut malediceret David: et quis est, qui audeat dicere, quare sic fecerit (II. Reg. XVI, 10)? Lasciatelo stare, ché il Signore gli ha comandato, che dica tanto male contro di me: e vuol dire, che il Signore l’ha preso per suo istrumento per affliggermi e castigarmi. Ma che gran cosa è riconoscere gli uomini per istrumenti della Giustizia e Provvidenza Divina; poiché ne sono anche istrumenti gli stessi demoni ostinati e indurati nella loro malvagità e ansiosi della nostra rovina? S. Gregorio (D. Greg. lib. 18, mor. c. 3) nota mirabilmente questa cosa sopra quello che dice la Scrittura nel primo Libro dei Re: Spiritus Domini malus arripiebat Saul (I. Reg. XVI, 23). Uno spirito maligno del Signore esagitava Saulle. Lo stesso spirito si chiama spirito del Signore e spirito maligno; maligno, per lo desiderio della sua maligna volontà; e del Signore, per dimostrarci, che era mandato da Dio per dar quel tormento a Saulle, e che Dio glielo dava per mezzo di esso: e lo dichiara ivi espressamente il Testo medesimo, dicendo: Exagitabat eum spiritus nequam, a Domino (I. Reg. XVI, 14). E per l’istessa ragione dice il Santo (D. Greg. lib. 14 mor, c. 18), che i demonii, i quali tribolano e perseguitano i giusti, sono chiamati dalla Scrittura, ladroni di Dio, come leggesi in Giob: Simul venerunt latrones ejus (Job XIX, 12): ladroni per la maligna volontà che hanno di farci male; e di Dio, per dimostrarci, che la potestà che hanno di farci male l’hanno da Dio. E così pondera molto bene S. Agostino (D. Aug. in Psal. XXXI, Job I, 21): Non dixit Job, Dominus dedit, diabolus abstulit: Non disse il santo Giob: Il Signore me lo diede, e il demonio me l’ha tolto: ma ogni cosa riferì egli subito a Dio, e disse: Il Signore me lo diede; il Signore me l’ha tolto; perché sapeva molto bene, che il demonio non può far più male di quello che gli è permesso da Dio. E proseguisce il Santo; Prorsus ad Deum tuum refer flagellum tuum; quia nec diabolus tibi aliquid facit, nisi ille permittat, qui esuper habet potestatem: Nessuno dica, il demonio m’ha fatto questo male: attribuisci pure a Dio il tuo travaglio e il tuo flagello; perciocché il demonio non può far niente, nemmeno toccarti un pelo della veste, se Dio non gliene dà licenza. Né anche ne’ porci dei Geraseni poterono entrare i demonii senza domandarne prima licenza a Cristo nostro Redentore, come narra il sacro Evangelio (Matth. VIII, 31). Come dunque toccheranno te, o ti potranno tentare, senza licenza di Dio? Quegli che senza questa non poté toccare i porci, come potrà toccare i figliuoli?

CAPO III.

De’ beni e delle utilità grandi che rinchiude in sé questa conformità alla volontà di Dio.

Il beato S. Basilio dice, che la somma della santità e perfezione della vita cristiana consiste in riconoscere, che tutte le cose, tanto grandi quanto piccole, vengono da Dio, come da primaria loro cagione, e in conformarci in esse alla sua santissima volontà. Ma acciocché possiamo meglio conoscere la perfezione e l’importanza di questa cosa, e quindi affezionarci più ad essa, e perché procuriamo di farlo con maggior diligenza, andremo dichiarando in particolare i beni e le utilità grandi che rinchiude in sé questa conformità alla volontà di Dio. Primieramente questa è quella vera e perfetta rassegnazione che magnificano tanto i Santi e tutti i Maestri della vita spirituale; e dicono, che è principio e radice d’ogni nostra pace e quiete; perché  rende l’uomo soggetto e lo mette nelle mani di Dio, come un pezzo di creta nelle mani del vasaio acciocché ne faccia quel che vuole; non volendo esser più suo, né vivere per sé, né mangiare, né dormire, né faticar per sé, ma fare ogni cosa per Dio e per piacere a Dio. Or questo opera questa conformità, che con essa si abbandona uno in tutto e per tutto alla volontà di Dio, di maniera tale che altra cosa non desidera né procura, se non che in esso s’eseguisca perfettamente la volontà divina, sì circa quello che l’istesso uomo dee fare, come circa tutto quello che gli può avvenire; e sì circa le cose prospere e di consolazione, come circa le avverse e di tribolazione. Il che piace tanto a Dio, che per questo il re David fu chiamato da esso Dio, uomo secondo il cuor suo: Inveni virum secundum cor meum, qui faciet omnes voluntates meas (Act. XIII, 22, et I. Reg. XIII, 14): perché aveva il suo cuore tanto attaccato e soggetto al cuor del Signore, e tanto pronto e disposto per qualsivoglia cosa ch’Egli avesse voluto imprimere in esso, di travaglio, o d’alleggerimento, quanto è una cera molle per ricevere qualsiasi figura o forma che se le voglia dare: che per questo egli disse una e due volte: Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum (Psal. LVI,  et CVII, 1). Sta disposto il mio. cuore, o mio Dio, sta disposto e preparato. Secondariamente, chi avrà questa interae perfetta conformità alla volontà di Dio, avrà acquistato intera e perfetta mortificazione di tutte le sue passioni e male inclinazioni. Sappiamo bene quanto necessaria è questa mortificazione, e quanto lodata e commendata dai Santi e dalla Scrittura sacra. Ora questa mortificazione è un mezzo che necessariamente si ha da presupporre per venire ad acquistare questa conformità colla volontà di Dio. Di maniera che questo è il fine, e la mortificazione è il mezzo per conseguirlo; e il fine principale sempre suole essere più alto e più perfetto che il mezzo. Che la mortificazione sia mezzo necessario per venire ad acquistare quest’unione e intera e perfetta conformità alla volontà di Dio, si vede molto bene; poiché quello che c’impedisce questa unione e conformità è la nostra propria volontà e il nostro appetito disordinato:e così quanto più uno negherà e mortificherà la sua volontà e il suo appetito, tanto più facilmente si unirà e si conformerà alla volontà di Dio. Per unire e aggiustare un legno rozzo con un altro molto lavorato e pulito, bisogna prima lavorarlo e sgrossarlo; perché altrimenti non si potrà unire né congiungere bene coll’altro. Ora quest’effetto fa la mortificazione; ci va sgrossando,spianando e lavorando, acciocché così ci possiamo unire e congiungere conDio, conformandoci in ogni cosa alla sua divina volontà: e così quanto più uno s’andrà mortificando, tanto più s’andrà unendo e aggiustando colla volontà di Dio: e quando sarà perfettamente mortificato, arriverà a questa perfetta unione e conformità. Quindi ne viene per conseguenza un’altra cosa che può esser la terza; che questa rassegnazione e intera conformità alla volontà di Dio è il maggiore, il più accetto e aggradevole sacrificio che l’uomo possa fare di sé a Dio. Perciocché negli altri sacrifizio fferisce le cose sue, ma in questo offerisce sé medesimo; negli altri sacrifici e mortificazioni la persona si mortifica in parte; come per esempio nella temperanza, o nella modestia, o nel silenzio, o nella pazienza, offerisce a Dio una parte di sè; ma questo è un olocausto nel quale uno s’offerisce interamente e totalmente a Dio,acciocché faccia di lui tutto quello che vuole, come vuole e quando vuole, senza cavarne, eccettuarne, o riservarne per sé cosa alcuna. E così quanto è più pregevole l’uomo delle cose dell’uomo, e quanto è più pregevole il tutto della parte; tanto è più pregevole questo sacrificio che gli altri sacrifizi e le altre mortificazioni. E stima tanto Dio questa cosa, che questa è quella che Egli vuole e domanda, danoi altri. Præbe, fili mi, cor tuum mihi (Prov. XXIII, 36): Figliuolo, dammi il tuo cuore. Siccome l’astore, uccello reale, non si ciba se non di cuori; così Dio nessuna cosa prezza e stima più che il cuore: e se non gli dai questo, con nessun’altra cosa lo potrai contentare né dargli soddisfazione. Né ci domanda Egli molto, domandandoci questo; perciocché se tutto quello che Dio ha creato non basta per contentar e saziare noi altri che siamo un poco di polvere e di cenere, né resterà soddisfatto questo piccolo nostro cuore con niente meno che con Dio; come pensi tu di contentare e soddisfare Dio, non dandogli né anche tutto il tuo cuore, ma solamente una parte di esso, e riservando l’altra per te? Tu stai in un grande inganno, che il nostro cuore non si può spartire né dividere in questa maniera. Coangustatum est enim stratum, ita ut alter decidat: et pallium breve utrumque operire non potest (Isa. XXVIII, 20): Il cuore è un letto piccolo e stretto, dice il profeta Isaia; non cape in esso altro che Dio solo: e perciò la Sposa lo chiama lettuccio piccolo: In lectulo meo per noctes quæsìvi quem diligit anima mea (Gilib. abb. serm. 2 in Cant, apud Bern; Cant. III, 1): perché aveva il suo cuore talmente ristretto, che non vi capiva altro che i l suo Sposo. E chi vorrà stendere e dilatare il suo cuore per ammettervi un altro, ne scaccerà Dio. E di questo si lamenta la Maestà Sua per mezzo d’Isaia: Quia juxta me discooperuisti, et suscepisti adulterum: dilatasti cubile tuum, et pepìgisti cum eis fœdus (1(1) Isa. LVII, 8 ). Hai adulterato, ricevendo nel letto del tuo cuore qualche altro fuori del tuo Sposo; e per coprir l’adultero scopri e scacci fuori Dio. Se avessimo mille cuori, li dovremmo offrire tutti a Dio, e ci dovrebbe ancora parer poco rispetto a quello che siamo tenuti di fare verso così gran Signore, – Per la quarta cosa, come dicevamo al principio (Sup. cap. I), chi avrà questa conformità, avrà altresì perfetta carità e amor di Dio; e quanto più crescerà in essa, tanto più andrà crescendo in amor di Dio e conseguentemente nella perfezione che consiste in questa carità ed amore. Il che, oltre quel che s’è detto, si raccoglie bene da quello che ora abbiamo finito di dire; perché l’amor di Dio non consiste in parole, ma in opere: Probatio dilectionis exhibitio est operis, dice S. Gregorio (D. Greg. hom. 30, in Evang.): La prova del vero amore sono le opere: e quanto più le opere sono difficili e ci costano più, tanto maggiormente manifestano l’amore: onde l’apostolo ed evangelista S. Giovanni, volendo esprimere sì l’amor grande che Dio portò al mondo, come il grande amore che Cristo nostro Redentore portava al suo eterno Padre, dice del primo: Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Jo, III, 16) ibid. xiv. 31): Fu tanto grande l’amore che Dio portò all’uomo, che ci diede il suo unigenito Figliuolo, acciocché patisse e morisse per noi altri; e del secondo ci riferisce come detto del medesimo Cristo: Ut cognoscat mundui, quia diligo Patrem; et sicut mandatum deditmihi Pater, sic facto; surgite; eamus hinc (idib. XIV, 31): Acciocché il mondo conosca, che io amo il mio Padre, levatevi su, e andiamcene via di qua: e l’affare per cui di là partiva era per andare a patire morte di croce. In questo mostrò egli e die testimonianza al mondo d’amare il Padre nel mettere in esecuzione il suo tanto rigoroso comandamento. Di maniera che nelle opere si dimostra l’amore, e tanto più, quanto elleno sono maggiori e più faticose. Ora questa intera conformità alla volontà di Dio, come abbiamo detto, è il maggior sacrifizio che gli possiamo fare di noi altri; perché presuppone una perfettissima mortificazione e rassegnazione colla quale uno si offerisce a Dio, e si mette totalmente nelle sue mani, acciocché faccia di lui quello che vuole. E cosi non vi è cosa nella quale uno mostri più l’amore che porta a Dio, che in questa; poiché gli dà e gli offre tutto quello che ha e tutto quello che possa mai avere e desiderare, e se più avesse e potesse, tutto pure glielo darebbe.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (2)

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (2)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (2)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE

1932

COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR + AEM. BONGIORNI, Vie. Gen.

PRINCIPALI FORMULE E PREGHIERE NECESSARIE O ASSAI UTILI PER TUTTI (*)

(*) Il Catechista procuri che gli alunni imparino a memoria queste formule e preghiere. Per coloro che devono ricevere la prima Comunione, vedasi lo speciale Catechismo.

I. – Segno della santa Croce.

Nel nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.

II. – Orazione domenicale.

Padre nostro che sei ne’ cieli,

sia santificato il tuo nome:

venga il tuo regno:

sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano;

e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo

ai nostri debitori;

e non c’indurre in tentazione,

ma liberaci dal male. Così sia.

III. – Saluto angelico.

Ave, o Maria, piena di grazia; il Signore è teco; tu

sei benedetta tra le donne, e benedetto il frutto del ventre

tuo, Gesù. –

Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatori

adesso e nell’ora della nostra morte. Così sia.

IV. – Simbolo degli Apostoli.

1° Io credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo

e della terra;

2° e in Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, Signore nostro;

3° il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine;

4° patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito;

5° discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò da morte;

6° salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente;

7° di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti.

8° Credo nello Spirito Santo;

9° la Santa Chiesa cattolica, la comunione dei Santi;

10° la remissione dei peccati;

11° la risurrezione della carne;

12° la vita eterna. Amen.

V. – Salve, o Regina.

Salve, o Regina, madre di misericordia, vita, dolcezza

e speranza nostra, salve! A Te ricorriamo esuli figli

di Eva; gementi e piangenti in questa valle di lagrime, a

Te sospiriamo. Orsù, dunque, Avvocata nostra, rivolgi a

noi quegli occhi tuoi misericordiosi. E mostraci, dopo

questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del ventre tuo, o

clemente, o pietosa, o dolce Vergine Maria!

VI. – In onore della Santissima Trinità.

Gloria al Padre e al Figliuolo e allo Spirito Santo,

com’era nel principio, e ora, e sempre, e nei secoli de’ secoli. Così sia.

VII. – Orazione all’Angelo Custode.

Argelo di Dio, che sei il mio Custode, illumina, custodisci,

reggi e governa me, che Ti fui affidato dalla Pietà celeste. Così sia.

VIII. – Preghiera per i fedeli defunti.

L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Così sia.

IX. – I principali misteri della Fede.

1° Il mistero di un solo Dio in tre distinte Persone:

Padre, Figliuolo e Spirito Santo;

2° Il mistero dell’umana redenzione per mezzo della incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, Signor Nostro, Figlio di Dio.

X. – Il Decalogo o I Comandamenti di Dio.

Io sono il Signore Dio tuo:

1° Non avrai altro Dio fuori che me.

2° Non nominare il nome di Dio invano.

3° Ricordati di santificare le feste.

4° Onora tuo padre e tua madre.

5° Non ammazzare.

6° Non commettere atti impuri.

7° Non rubare.

8° Non dire falsa testimonianza.

9° Non desiderare la donna d’altri.

10° Non desiderare la roba d’altri.

XI. – I Precetti della Chiesa.

1° Nelle domeniche ed altre feste comandate udir la Messa ed astenersi dalle opere servili.

2° Nei giorni prescritti dalla Chiesa non mangiar carne ed osservare il digiuno.

3° Confessarsi una volta l’anno almeno.

4° Comunicarsi almeno in occasione della Pasqua.

5° Sovvenire alle necessità della Chiesa e del Clero.

XII. – I Sacramenti (*)

1° Battesimo;

2° Cresima;

3° Eucaristia;

4° Penitenza;

5° Estrema Unzione:

6° Ordine;

7° Matrimonio.

(*) Gli Orientali chiamano Chrisma la Cresima e Benedizione degli infermi la Estrema Unzione, la quale dai Latini è detta anche Olio Santo.

XIII. – Atto di Fede.

Mio Dio, io credo fermamente che Voi siete un solo Dio in tre Persone distinte, Padre, Figliuolo e Spirito Santo,

che il Figliuolo, per la nostra salvezza si è incarnato, ha patito ed è morto, risuscitò da morte e darà a ciascuno, secondo i suoi meriti, o il premio in Paradiso o la pena nell’Inferno. Questo e tutto quello che insegna la Chiesa Cattolica io lo credo, perché l’avete rivelato Voi, che non potete né ingannarvi né ingannare.

XIV. – Atto di Speranza.

Mio Dio, essendo Voi onnipotente, misericordioso e fedele, spero che mi darete, per i meriti di Gesù Cristo, la vita eterna e le grazie necessarie per conseguirla, che Voi avete promesso a coloro che faranno opere buone, come, col vostro aiuto, propongo di fare.

XV. – Atto di Carità.

Mio Dio, io vi amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché Voi siete infinitamente buono ed infinitamente amabile; e per amor vostro amo il mio prossimo come me stesso e gli perdono le offese che può avermi recato.

XVI. – Atto di Contrizione.

Mio Dio, mi pento con tutto il cuore dei miei peccati, li detesto perché peccando non solo ho meritato i giusti castighi che Voi avete minacciati, ma specialmente perché ho offeso Voi sommo bene degno di essere amato sopra ogni cosa. Perciò propongo fermamente col vostro aiuto di non peccare mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato.

XVII. – I Misteri del santo Rosario.

MISTERI GAUDIOSI.

1° La beata Vergine Maria è salutata dall’Angelo.

2° La beata Vergine Maria visita santa Elisabetta.

3° Gesù Cristo nasce nella grotta di Betlemme.

4° Il fanciullo Gesù è presentato nel tempio.

5° Il fanciullo Gesù è ritrovato nel tempio fra i dottori.

MISTERI DOLOROSI.

1° Gesù Cristo prega e suda sangue nell’orto.

2° Gesù Cristo è flagellato alla colonna.

3° Gesù Cristo è coronato di spine.

4° Gesù Cristo, condannato a morte, sale il Calvario portando la croce.

5° Gesù Cristo, confitto in croce, muore alla presenza della Sua Madre.

MISTERI GLORIOSI.

1° La risurrezione di Gesù Cristo.

2° L’ascensione di Gesù Cristo.

3° La discesa dello Spirito Santo sulla beata Maria Vergine e sugli Apostoli.

4° L’assunzione della beata Vergine Maria al cielo.

5° L’incoronazione della beata Vergine Maria e la gloria degli Angeli e dei Santi.

SALVE, REGINA.

Salve, Regina, mater misericordiæ,…

LE LITANIE LAURETANE.

Kyrie, eleison.

Christe, eleison….

CATECHISMO CATTOLICO

Tutti debbono, ciascuno nella propria condizione, imparare accuratamente la dottrina cristiana e far sì che la imparino anche coloro che da lui dipendono; non vi è dottrina più importante di questa, la quale ci insegna la via della nostra salute eterna, che è il nostro ultimo fine. Che giova all’uomo guadagnare il mondo universo, se poi perde la sua anima? Qual cambio potrà egli dare per l’anima sua? (S. Matteo, cap. XVI, v. 26).

I.

CATECHISMO PER I BAMBINI IN PREPARAZIONE ALLA PRIMA COMUNIONE

A NORMA DEL DECRETO « QUAM SINGULARI » DI PlO PP. X.

Il segno della Santa Croce.

Orazione domenicale.

Ave, o Maria.

Simbolo degli Apostoli.

Atto di contrizione.

I Sacramenti (*).

(*) Attenda il catechista con ogni cura a che tutti i fanciulli pronunzino distintamente e con devozione le parole dell’orazione domenicale, del saluto angelico, del simbolo degli Apostoli e del segno della santa Croce, e che facciano bene, con ogni compostezza, il segno del Cristiano. Narri loro inoltre l’origine del Pater Noster e dell’Ave Maria, e ne esponga brevemente il significato. Non ometta di aggiungere che la Beata Vergine Maria è sì Madre di Dio, ma è anche madre nostra che ci ama tutti con materno amore. Li esorti perciò a riamare con affetto di figli questa Madre celeste, a recitare spesso, con devozione, alla mattina e alla sera specialmente, l’orazione domenicale e il saluto angelico e a segnarsi col segno della santa Croce. In quanto al simbolo degli Apostoli e all’atto di contrizione non è necessario, benché sia utilissimo, che il piccino sappia recitarli a parola prima della sua prima Comunione, purché li abbia studiati, ne conosca il senso e dopo la prima Comunione continui a studiarli fino ad impararli a memoria, preparandosi così alle successive Confessioni e Comunioni; frattanto si supplisce con ciò che è detto in fine di questo Catechismo.

D. 1. Chi ti ha creato?

R. Mi ha creato Dio.

D. 2. Chi è Dio?

R. Dio è purissimo spirito, infinito in ogni sua perfezione, che ha creato quanto esiste sia in cielo, sia in terra. (*)

(*) Adattandosi all’intelligenza degli uditori, il Catechista esponga brevemente la creazione dal nulla di tutte le cose e il fine che Dio ebbe nel creare il mondo e l’uomo. Narri la caduta degli Angeli e ingeneri nel bambino l’idea degli Angeli buoni, specie dell’Angelo custode, e dei demoni. Descriva la felicità dell’uomo nel paradiso terrestre, il peccato originale commesso dai progenitori, la sua trasmissione in tutti, eccettuata la B. V. Maria, e la sua remissione col Battesimo; e finalmente insegni come Dio nello stesso paradiso terrestre si sia degnato di promettere ad Adamo ed Eva peccatori un Redentore che è Cristo Signore.

D. 3. Perché Dio ti ha creato?

R. Dio mi ha creato per conoscerlo, amarlo, ubbidirlo e così dopo morte goderlo in Paradiso (*).

(*) Noi conosciamo Dio con l’intelligenza e per mezzo della rivelazione e lo amiamo e lo serviamo osservando fedelmente i suoi comandamenti ed anche seguendo i suoi consigli,tutte le opere cioè che gli sono gradite, sebbene da Lui non comandate.Non trascuri il Catechista di richiamare su questo l’attenzione dei fanciulli.

D. 4. Come Dio punisce coloro che lo disubbidiscono?

R. Dio punisce coloro che lo disubbidiscono con l’inferno (*).

(*) Il Catechista esponga in poche parole che cosa avverrà dell’anima in Paradiso, e che cosa nell’Inferno: che nel Paradiso l’anima, nella visione a faccia a faccia del Signore, godrà d’una perfetta e perpetua felicità, in compagnia di N. S. Gesù Cristo, della B. V. Maria e di tutti i Beati; che nell’Inferno invece essa, privata per sempre della visione beatifica di Dio, sarà tormentata col fuoco eterno e con altre indicibili pene, nella orribile compagnia di satana, degli altri demoni e dei dannati.

D. 5. Dov’è Dio?

R. Dio è in cielo, in terra, in ogni luogo.

D. 6. Dio ha principio e fine?

R. Dio non ha né principio nè fine, perchè è eterno.

D. 7. Dio conosce tutto?

R. Dio conosce tutto, anche le future azioni libere

delle creature, gli affetti del cuore, gli stessi pensieri.

D. 8. Dio è uno?

R. Dio è uno, perché una è la natura divina, ma è in tre Persone distinte, le quali si chiamano Padre, Figlio e Spirito Santo, e formano la Santissima Trinità.

D. 9. Quale Persona divina si è fatta uomo?

R. Si è fatta uomo la seconda Persona divina, cioè il Figlio di Dio.

D. 10. Come si chiama il Figlio di Dio fatto uomo?

R. Il Figlio di Dio fatto uomo si chiama Gesù Cristo.

D. 11. Come il Figlio di Dio si fece uomo?

R. Il Figlio di Dio si fece uomo, prendendo, per virtù dello Spirito Santo, corpo ed anima umana nel seno purissimo della beata Vergine Maria (*).

(*) Narri il Catechista la missione dell’Arcangelo Gabriele alla B. V. Maria, la nascita di Gesù Cristo in Betlemme, l’Epifania del Signore e la sua vita privata trascorsa per trent’anni in Nazareth. Ne tragga per i fanciulli motivo d’esempio al lavoro e all’obbedienza che si deve ai genitori.

D. 12. Perché il Figlio di Dio si fece uomo?

R. Il Figlio di Dio si fece uomo per liberarci dal peccato e così condurci in Paradiso.

D. 13. Che cosa fece Gesù Cristo per liberarci dal peccato e così condurci in Paradiso?

R. Per liberarci dal peccato e così condurci in Paradiso, Gesù Cristo patì e morì sulla croce, indi risuscitò e salì al cielo e di là verrà a giudicare i vivi e i morti (*).

(*) Il Catechista esponga brevemente il ministero della umana redenzione narrando la passione, la morte, la resurrezione ed ascensione al cielo di Gesù; ed ancora la sua venuta alla fine del mondo per il giudizio universale. Cose queste che dimostrano ad evidenza il grande amore di Dio verso gli uomini, i quali allora si devono sentire spinti ed obbligati a riamarlo con tutto il cuore.

D. 14. Che cosa sono i Sacramenti?

R. 1 Sacramenti sono mezzi istituiti da Gesù Cristo per darci la grazia.

D. 15. Quale Sacramento hai ricevuto finora?

R. Finora ho ricevuto il Sacramento del Battesimo che mi ha fatto Cristiano e mi ha reso capace di ricevere gli altri Sacramenti.

D. 16. Quali Sacramenti ora desideri ricevere?

R. Ora desidero ricevere i Sacramenti della Cresima, della Penitenza e della Eucaristia.

D. 17. Che cos’è la Cresima?

R. La Cresima è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per donare la grazia speciale e i doni dello Spirito Santo che danno al cresimato forza e coraggio per professare e praticare la fede (*).

(*) Se l’aspirante alla santa Comunione ha già ricevuto il sacramento della Cresima, si correggano le domande 15 e 16 e si ometta la 17.

D. 18. Che cosa è la Penitenza?

R. La Penitenza è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo.

D. 19. Che cosa si richiede per ricevere bene il sacramento della Penitenza?

R. Per ricevere bene il sacramento della Penitenza si richiede:

1° l’esame di coscienza;

2° il dolore dei peccati;

3″ il proposito di non peccare mai più;

4° l’accusa dei peccati;

5° l’adempimento della penitenza imposta dal confessore (*).

(*) Il Catechista insegni ai suoi fanciulli il modo di fare l’esame di coscienza e di confessarsi, di compiere la penitenza imposta dal confessore e di emettere il proposito di non peccare più; l’atto di contrizione si trova nella nota alla D. 25.

D. 20. Quali peccati dobbiamo accusare nel sacramento della Penitenza?

R. Nel sacramento della Penitenza dobbiamo accusare tutti i peccati mortali commessi dopo il Battesimo, ma possiamo utilmente anche accusare i peccati veniali e gli stessi mortali già ben confessati.

D. 21. Che cos’è l’Eucaristia?

R. L’Eucaristia è il Sacramento del corpo e del sangue del Signore. (*)

(*) Il Catechista potrà così esporre questo altissimo mistero di nostra fede. Nella celebrazione della Messa, prima delle parole della consacrazione, che il sacerdote celebrante pronunzia, l’ostia è semplice pane; ma dopo quelle parole essa non è più pane, ma sotto le apparenze di pane è lo stesso Gesù Cristo con la sua divinità ed umanità: altrettanto dicasi del vino. Noi dobbiamo ammettere e credere questo mistero perché Gesù Cristo ce lo manifestò apertamente e la S. Madre Chiesa l’ha sempre insegnato ed insegna tuttora. Il Signore istituì l’Eucaristia nell’ultima Cena, perché con la celebrazione della Messa fosse rinnovato e riprodotto il sacrificio della croce, perché Egli potesse rimanere tra gli uomini nascosto nel S. Tabernacolo mentre nello stesso tempo siede glorioso in cielo, ed infine per unirsi a noi nella S. Comunione. Non mai ci dovrà cadere dalla memoria sì grande pegno del divino amore; dobbiamo perciò, almeno in tutti i giorni festivi, assistere al sacrificio della Messa con la stessa comprensione e pietà come se assistessimo al sacrificio del Calvario; visitare con tutta devozione il Santissimo Sacramento conservato nel Tabernacolo, e comunicarci spesso con pietà e devozione.

D. 22. Dov’è Gesù Cristo?

R. Gesù Cristo come Dio è in ogni luogo, come Dio-Uomo è in cielo e nella santissima Eucaristia.

D. 23. Che cos’è dunque fare la Santa Comunione?

R. Fare la santa Comunione è ricevere lo stesso Gesù Cristo vivo e vero nel Sacramento Eucaristico.

D. 24. Perché desideri fare la santa Comunione?

R. Desidero fare la santa Comunione perché Gesù Cristo mi ama e perciò desidera venire in me, e anch’io amo Gesù Cristo e perciò desidero molto di riceverlo.

D. 25. Che cosa si richiede per ricevere bene il sacramento dell’Eucaristia?

R. Per ricever bene il sacramento dell’Eucaristia si richiede:

1° lo stato di grazia, cioè l’amicizia di Dio;

2° il digiuno dalla mezzanotte al momento della Comunione;

3° una diligente preparazione ed un degno ringraziamento (*).

(*) Il Catechista, dopo aver spiegato il primo e il secondo punto, insegni praticamente ai bambini e li aiuti a fare gli atti di preparazione e di ringraziamento; egli ne legga lentamente le parole, che i bambini ripeteranno. Il Cardinal Gennari, nell’opuscolo che abbiam citato nel Proemio, pone i seguenti atti:

PRIMA DELLA COMUNIONE.

Atto di fede. — O buon Gesù, credo fermamente quanto Tu mi hai insegnato per mezzo della Chiesa, e in modo speciale che T u sei vivo e vero nell’Ostia consacrata.

Atto di speranza. — Fidente nella tua bontà e nelle tue promesse, o buon Gesù, spero da Te la tua santa grazia, ogni bene e la vita eterna.

Atto di dolore. — Mi pento, o mio Dio, d’aver peccato, perché ho meritato i tuoi castighi, ma molto più perché ho offeso Te somma Bontà.

Atto di umiltà. — Ecco, Gesù buono, la tua creatura, piena di miserie e di peccati, indegna di riceverti.

Atto di desiderio. — O buon Gesù, desidero ardentemente di averti nel mio cuore: vieni, Signore, non più tardare.

DOPO LA COMUNIONE.

Atto di adorazione. — O buon Gesù, Ti adoro presente nell’anima mia, mi prostro e mi umilio dinanzi a Te, sbigottito insieme e commosso da tanta tua bontà.

Atto di ringraziamento. — O buon Gesù, come potrò mai degnamente ringraziarti? Ti offro, o Signore, le azioni della beata Vergine Maria, dei Santi e di tutte le creature che Ti amano.

D. 26. Che cosa prometterai a Gesù nel giorno della tua prima Comunione?

R. Nel giorno della mia prima Comunione prometterò a Gesù di ascoltare la Messa nei giorni festivi, di accostarmi frequentemente ai Sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia, di frequentare l’insegnamento catechistico, di obbedire ai genitori e di fuggire i cattivi compagni.

FESTA DELLA B. V. DEL SACRATISSIMO ROSARIO (2020)

FESTA DELLA B.V. DEL ROSARIO (2020)

Dal libro dell’Ecclesiastico.
Sir XXIV:11-31

Cercai per tutto un luogo di riposo, e ho scelto di abitare nei domini del Signore.
Allora il Creatore di tutte le cose diede ordini e mi parlò, e, colui che m’ha creata, riposò nel mio tabernacolo,
E mi disse: Abita in Giacobbe, sia in Israele la tua eredità, e fra i miei eletti metti le (tue) radici.
Da principio e prima dei secoli io sono stata creata, e fino all’età all’età futura non cesserò di esistere, e ho servito nel santuario alla presenza di lui.
E così ebbi stabile dimora in Sion, e nella città santa trovai anche il mio riposo, e in Gerusalemme la mia potenza.
E misi radici in mezzo al popolo glorificato, che ha la sua eredità nei domini del mio Dio, e la mia dimora è nella riunione del santi.

Mi elevai come il cedro sul Libano, e come il cipresso sul monte di Sion:
Mi elevai come la palma in Cades, e come la pianta di rose in Gerico:
M’innalzai come un bell’olivo nei campi, e come un platano nelle piazze presso l’acque.
Mandai profumo come la cannella e il balsamo aromatico: come di mirra squisita ho spirato soave profumo;
E come storace e galbano e onice e mirra stillante e come incenso ch’esce senza incisione ho profumato la mia abitazione, e come balsamo senza mistura è l’odor mio.
Io ho disteso i miei rami come il terebinto, e i miei son rami d’onore e di grazia.

Io sono la madre del bell’amore, e dei timore, e della scienza, e della santa speranza.
In me c’è tutta la grazia della via e della verità, in me tutta la speranza della vita e della virtù.
Venite a me tutti voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti;
Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e il mio possesso è più del favo di miele.
Il mio ricordo traverserà il corso dei secoli.
Quelli che mi mangiano, avranno sempre fame, e quelli che mi bevono, avranno sempre sete.
Chi ascolta me, non sarà confuso, e quelli che operano con me, non peccheranno.
Quelli che mi pongono in luce, avranno la vita eterna.

* * *

Allorché l’eresia degli Albigesi s’estendeva empiamente nella provincia di Tolosa mettendovi di giorno in giorno radici sempre più profonde, san Domenico, che aveva fondato allora l’ordine dei Predicatori, si applicò interamente a sradicarla. E per riuscirvi più sicuramente, implorò con assidue preghiere il soccorso della beata Vergine, la cui dignità quegli eretici attaccavano impudentemente, ed a cui è dato di distruggere tutte l’eresie nell’intero universo. Ricevuto da lei l’avviso (secondo che vuole la tradizione) di predicare ai popoli il Rosario come aiuto singolarmente efficace contro l’eresie e i vizi, stupisce vedere con qual fervore e con qual successo egli eseguì l’ufficio affidatogli. Ora il Rosario è una formula particolare di preghiera nella quale si distinguono quindici decade di salutazioni angeliche, separate dall’orazione Domenicale, e in ciascuna delle quali ricordiamo, meditandoli piamente, altrettanti misteri della nostra redenzione. Da quel tempo dunque questa maniera di pregare incominciò, grazie a san Domenico, a farsi conoscere e a spandersi. E, ch’egli ne sia l’istitutore e l’autore, lo si trova affermato non di rado nelle lettere apostoliche dei sommi Pontefici. – Da questa istituzione si salutare promanarono nel popolo cristiano innumerevoli benefici. Fra i quali si cita con ragione la vittoria, che il santissimo Pontefice Pio V e i principi cristiani infiammati da lui riportarono presso le isole Cursolari (a Lepanto) sul potentissimo despota dei Turchi. Infatti, essendo stata riportata questa vittoria il giorno medesimo in cui i confratelli del santissimo Rosario indirizzavano a Maria in tutto il mondo le consuete suppliche e le preghiere stabilite secondo l’uso, non senza ragione essa si attribuì a queste preghiere. E ciò l’attestò anche Gregorio XIII, ordinando che a ricordo di beneficio tanto singolare, in tutto il mondo si rendessero perenni azioni di grazie alla beata Vergine sotto il titolo del Rosario, in tutte le chiese che avessero un altare del Rosario, e concedendo in perpetuo in tal giorno un Ufficio di rito doppio maggiore; e altri Pontefici hanno accordato indulgenze pressoché innumerevoli a quelli che recitano il Rosario e alla confraternita di questo nome. – Clemente XI poi, stimando che anche l’insigne vittoria riportata l’anno 1716 nel regno d’Ungheria da Carlo VI, imperatore dei Romani, su l’immenso esercito dei Turchi, accadde lo stesso giorno in cui si celebrava la festa della Dedicazione di santa Maria della Neve, e quasi nel medesimo tempo che a Roma i confratelli del santissimo Rosario facendo preghiere pubbliche e solenni con immenso concorso di popolo e grande pietà indirizzavano a Dio ferventi suppliche per l’abbattimento dei Turchi e imploravano umilmente l’aiuto potente della Vergine Madre di Dio a favore dei Cristiani; perciò credé dover attribuire questa vittoria al patrocinio della stessa Vergine, come pure la liberazione, avvenuta poco dopo, dell’isola di Corcira dall’assedio parimente dei Turchi. Quindi perché restasse sempre perpetuo e grato ricordo di si insigne beneficio, estese a tutta la Chiesa la festa del santissimo Rosario da celebrarsi collo stesso rito. Benedetto XIII fece inserire tutto ciò nel Breviario Romano. Leone XIII poi, in tempi turbolentissimi per la Chiesa, e nell’orribile tempesta di mali che da lungo tempo ci opprimono, ha sovente e vivamente eccitato con reiterate lettere apostoliche tutti i fedeli del mondo a recitare spesso il Rosario di Maria, soprattutto nel mese d’Ottobre, ne ha innalzato di più la festa a rito superiore, ha aggiunto alle litanie Lauretane l’invocazione, Regina del sacratissimo Rosario, e concesso a tutta la Chiesa un Ufficio proprio per la stessa solennità. Veneriamo dunque sempre la santissima Madre di Dio con questa devozione che le è gratissima; affinché, invocata tante volte dai fedeli di Cristo colla preghiera del Rosario, dopo averci dato d’abbattere e annientare i nemici terreni, ci conceda altresì di trionfare di quelli infernali.

***

Sappiamo allora a chi conformarci e come operare: se San Domenico è riuscito a sconfiggere la peste panteista dell’eresia degli Albigesi, noi – pusillus grex – sebbene indegni, possiamo, con l’aiuto della Vergine Regina delle Vittorie e la grazia del Salvatore, debellare la pandemia panteista della setta modernista usurpante il Vaticano e la Cattedra di S. Pietro, l’apocalittica prostituta che rappresenta la somma di tutte le eresie e le diffonde a perdizione delle anime redente dal preziosissimo Sangue di Cristo. Forza fedeli del Corpo mistico! Come Davide prendiamo tra le mani la fionda del Rosario ed abbattiamo, con il sasso della fede e delle opere di carità, il gigante modernista Golia, il lupo vorace che sta là dove abita satana (Apoc. c. II) e vuole sbranare, se possibile, tutte le anime dei Cristiani. Non c’è tempo da perdere … et IPSA conteret caput tuum! 

BATTAGLIA DI LEPANTO

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: FESTA DEL SANTO ROSARIO