DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù c ristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXXI.

Della conformità alla volontà di Dio che abbiamo d’avere circa i beni della gloria.

Non solamente dobbiamo conformarci alla volontà di Dio circa i beni di grazia, ma anche circa i beni di gloria. Il vero Servo di Dio ha da essere tanto alieno dal suo interesse, ancora in queste cose, che si deve rallegrar più, che si faccia e adempisca la volontà di Dio, di quello che si potesse mai rallegrare per qualunque suo altro maggiore vantaggio. Questa è una molto gran perfezione, al dir di quel Santo (Thomas a Kemp. lib. 3, c. 25, a. 4), il rassegnarsi alla divina volontà, senza cercare il proprio interesse né nel poco, né nel molto, né nella vita temporale, né nell’eterna: e la ragione si è, perché, come egli aggiunge in un altro luogo, La tua volontà, o Signore, e l’amor del tuo onore dev’essere anteposto ad ogni cosa; e questo a chi ti ama dev’esser di maggior consolazione e piacere, che quanti benefizi egli abbia ricevuti, o possa ricevere. Questa è la contentezza e l’allegrezza de’ Beati. Più si rallegrano i Santi in cielo dell’adempimento della volontà di Dio, che della grandezza della gloria loro (Tract. 3. C. 14). Stanno tanto trasformati in Dio e tanto uniti alla sua volontà, che la gloria che hanno e la buona sorte che è toccata loro non la vogliono tanto per l’utilità che ad essi ne proviene e per la contentezza che ne ricevono, quanto perché Dio così gusta e perché quella è la sua divina volontà. E quindi è, che ciascuno sta tanto contento ed allegro con quel grado di gloria che ha, che non desidera di vantaggio, né gli rincresce che l’altro abbia di più; poiché dal vedere uno Dio, resta talmente in Lui trasformato, che lascia di più nulla volere colla privata sua volontà, e comincia a volere colla volontà sola di Dio: e siccome vede, che quello è il gusto e il beneplacito di Dio, così quello stesso è anche il gusto e beneplacito suo. Questa perfezione veggiamo che risplendeva in que’ gran santi, un Mosè ed un S. Paolo, che per la salute delle anime e per la maggior gloria di Dio pare che si dimenticassero e non facessero conto alcuno della propria lor gloria: Aut dimitte eis hanc noxam; aut si non facis, dele me de libro tuo, quem scripsisti (Exod. XXXII, 31, 32), diceva Mosè a Dio: Signore, o perdona al popolo, o scancellami dal tuo libro: e S. Paolo (Ad. Rom. IX,3): Optabam ego ipse anathema esse a Christo prò fratribus meis. Dal quale impararono poi un S. Martino (S. Mart. in ejus Vita et Eccl. In Off.) e altri Santi che protestavansi con Dio: Si adhuc sum necessarius populo tuo, non recuso laborem. Posponevano il loro riposo, e contentavansi di buona voglia, che venisse loro differita quella gloria ch’era già vicina, e s’offerivano di nuovo alla fatica pel maggior servigio e gloria di Dio. Questo è fare la volontà di Dio qui in terra come si fa in cielo; che dimenticati d’ogni nostro interesse, mettiamo ogni nostro gusto nello adempimento della volontà di Dio; e che stimiamo e facciamo più conto del gusto di Dio, che di ogni nostra utilità e del posseder i cieli e la terra. – Da questo potrà ben vedersi la perfezione che ricerca quest’esercizio della conformità alla volontà di Dio. Se dall’interesse de’ beni spirituali, e ancora de’ beni eterni, e dell’istessa gloria, abbiamo da distorgli occhi per metterli nel gusto e nella volontà di Dio; che cosa s’avrà poi da fare circa gl’interessi e i beni temporali ed umani? Dal che s’intenderà ancora quanto è lontano da questa perfezione colui che ha difficoltà nel conformarsi alla volontà di Dio in quelle cose che dicevamo .da principio; nell’esser io posto in questo, o in quell’altro luogo, in questo, o in quell’altro ufficio; nell’esser sano, o infermo; nell’esser da altri dispregiato, o stimato. Stiamo ora dicendo, che abbiamo da stimar più la volontà e il gusto di Dio, che quante eccellenze possono essere ne’ beni spirituali, e ancora negli eterni; e tu, più che alla volontà di Dio vuoi mirare a queste cose basse e transitorie, le quali rispetto alle altre sopraccennate sono come immondezze. A colui che desidera tanto il gusto di Dio e l’adempimento della volontà di lui, che di buona voglia rinunzia alla propria gloria e si contenta di un luogo più basso in essa, non perché gli manchi desiderio d’affaticarsi e di far opere di gran merito, ma solamente per voler più tosto il gusto e beneplacito di Dio, riusciranno molto facili tutte quest’altre cose: poiché rinunzia quella cosa somma che può rinunziare per amor di Dio. Questo è il più che uno possa cedere per conformarsi alla volontà di Dio: se Dio vuole ch’io muoia subito e abbia manco gloria, più tosto voglio questo, che morir di qua a venti o trent’anni, ancorché allora io avessi da avere molto maggior gloria: e per lo contrario ancorch’io avessi certezza della gloria morendo adesso, se Dio vuole ch’io stia in questo carcere e in questo esilio molti anni, patendo e travagliando, più tosto voglio questo, che andar subito alla gloria: perché il gusto di Dio e l’adempimento della volontà sua è il gusto mio e la mia gloria. Tu es Gloria mea, et exaltans caput meum (Psal. III, 4). Si racconta del nostro S. P. Ignazio un esempio ben raro a questo proposito (Lib. 5, cap. 2 Vitæ S. Ignat.). Stando egli un giorno col padre maestro Lainez e con altri, domandò in certo proposito: Ditemi un poco, maestro Lainez, che cosa vi pare che fareste se Dio Signor nostro vi proponesse questo partito, e dicesse: Se tu vuoi morir subito, io ti caverò dalla prigione di questo corpo e ti darò la gloria eterna; ma se vuoi ancora vivere, non ti assicuro di quello che sarà di te: resterai alla tua ventura: se vivrai e persevererai nelle virtù, io ti darò il premio; se mancherai e lascerai di far bene, come io ti troverò, così ti giudicherò. Se il Signore dicesse questo, e voi credeste, che restando per qualche tempo in questa vita, poteste far qualche cosa che ridondasse in grande e singolar gloria della Divina Maestà Sua; che cosa eleggereste? che cosa rispondereste? Il padre Lainez rispose: Io, Padre, confesso a Vostra Reverenza, che eleggerei l’andarmene subito a goder Dio e l’assicurar la mia salute con liberarmi da tutti i pericoli in cosa che importa tanto. Allora il nostro S. Padre disse : Io certamente non farei così: ma se giudicassi, che restando in questa vita potessi far qualche cosa di gran servigio e gloria del Signore, lo supplicherei che mi lasciasse in vita sin a tanto che l’avessi fatta; e metterei gli occhi in essa, e non in me, senza aver riguardo al mio pericolo, o alla mia sicurezza. Né pareva a lui che con tal elezione se ne potesse restar in forse la sua salute, anzi che sarebbe quindi stata questa per lui e più certa e più vantaggiosa, per essersi egli fidato di Dio per quel tempo di più che eletto si fosse di stare in questo mondo per interesse della sua gloria. Perciocché qual è quel Re, o Principe nel mondo, il quale offrendo qualche gran grazia ad alcuno de’ suoi servitori, e non volendo quegli accettar di goderla subito, per potergli far prima qualche notabil servigio, non si tenesse obbligato a mantenere, anzi di più ad aumentare quella grazia ad un tal servitore; poiché egli se ne privò per amor suo e per poterlo meglio servire? Ora se questo fanno gli uomini, i quali sogliono essere sconoscenti e ingrati; che cosa abbiamo da sperar noi dal Signore che talmente ci previene colla sua grazia e ci fa tanti favori? come potremmo mai temere che ci abbandonasse e ci lasciasse cadere, per aver noi differita la nostra beatitudine ed aver rinunziato di godere più presto lui per amore di lui? Non si può credere né temere tal cosa da un tal Signore.

CAPO XXXII.

Della conformità, unione ed amor perfetto con Dio: e come in questo abbiamo da esercitarci.

Per poter meglio vedere la perfezione ed eccellenza grande che rinchiude in sè questo esercizio della conformità alla volontà di Dio, e per poter sapere sin dove possiamo arrivare con esso, per conclusione di questo Trattato diremo qualche cosa dell’esercizio più alto che mettono i Santi e i Maestri della vita spirituale, dell’amor di Dio, il quale par che venga qui a proposito: perché uno de’ principali effetti dell’amore, come dice S. Dionigio Areopagita (D. Dionys. c. 4 de Div. Nom.), è fare, che le volontà degli amanti siano una soia,  cioè a dire, che abbiano un istesso volere

e un istesso non volere: e così quanto uno sarà più unito e più conforme alla volontà di Dio, avrà tanto maggiore amor di Dio; e quanto maggiore amor di Dio avrà, e quanto maggiore sarà quest’amore, tanto più sarà egli unito e conforme alla volontà di Dio. Per dichiarar meglio questa cosa bisogna che ascendiamo in cielo colla considerazione, e veggiamo come stanno colà i Beati amando e conformandosi alla volontà di Dio, con avere un’istessa volontà ed un istesso volere con lui; perché quanto più ci avvicineremo a questo, tanto più sarà perfetto il nostro esercizio. Il glorioso apostolo ed evangelista S. Giovanni nella sua prima Epistola Canonica dice , che la vista di Dio fa i Beati simili a lui: Quoniam cum apparuerit, similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est (I. Jo. III, 2.): perocché subito che veggono Dio, restano di tal maniera uniti e trasformati in Dio, che hanno una medesima volontà e un medesimo volere con Lui. Or veggiamo un poco qual è il volere e la volontà e l’amor di Dio, acciocché così possiamo vedere qual è il volere e la volontà de’ Beati; e da questo poi possiamo ricorrere qual ha da essere il volere, l’amore e la volontà nostra perfetta. Il volere e la volontà di Dio, e l’amor suo sommo e perfettissimo, è il compiacimento e l’amore della sua medesima gloria e del suo essere sommamente perfetto e glorioso. Ora questo medesimo è il volere, la volontà e l’amor de’ Beati; di maniera che l’amor de’ Santi e Beati e un amore e un volere con cui amano e vogliono con tutte le loro forze che Dio sia quegli che è, e sia in sé tanto buono, tanto glorioso e tanto degno d’onore, quanto è: e come veggono in Dio tutto quello ch’essi desiderano, ne siegue in essi quel frutto dello Spirito santo che dice l’Apostolo, Fructus autem Spiritus est gaudium (Gal, V, 22), che è un gaudio ineffabile di veder quello che tanto amano, così pieno di beni e di tesori in se stesso. Con quel che veggiamo di qua possiamo congetturar qualche cosa di questo divino gaudio che in ciò provano i Beati. Guarda quant’è grande l’allegrezza che prova di qua un buon figliuolo per vedere il suo padre, ch’egli grandemente ama, onorato e ben voluto da tutti, savio, ricco, potente e molto stimato e amato dal Re. Veramente vi sono figliuoli tanto buoni che diranno, che non v’è cosa alla quale si possa paragonare 1’allegrezza che sentono al vedere il proprio padre in tanta stima. Ora se quest’allegrezza è tanto grande di qua ove l’amore è tanto debole e i beni tanto bassi e limitati; qual sarà l’allegrezza de’ Santi, veggendo il lor vero Signore, Creatore e Padre celeste, in cui sono tanto trasformati per amore, veggendolo, dico, tanto buono, tanto santo, tanto pieno di bellezza, e in tal modo infinitamente potente, che dal suo solo volere ogni cosa creata ha essere e bellezza, e senza di esso non si può muover una fronda nell’albero? E così S. Paolo dice, che questo è un gaudio tanto grande, che né occhio l’ha mai veduto né orecchio udito, né può cadere in cuore umano (I. ad Cor. II, 9). Questo è quel fiume fecondante che vide S. Giovanni nell’Apocalisse (c. XXII, 1 – Ps. XLV, 5) uscir dalla Sedia di Dio e dall’Agnello, che rallegra la Città di Dio, del quale bevono i Beati in cielo, e inebbriati di quest’amore cantano quel perpetuo Alleluja che dice ivi S. Giovanni, glorificando e benedicendo Dio: Alleluja, quoniam regnavit Dominus Deus noster omnipotens. Gaudeamus, et exultemus, et demus glorìam ei (Apoc. XIX, 6 et 7). Stanno rallegrandosi e facendo festa della grandezza della gloria di Dio, e congratulandosene seco con gran giubilo e gaudio.- Benedictio, et claritas, et sapientia, et gratiarum actio, honor, et virtus, et fortitudo Deo nostro, in sæcula sæculorum, Amen (Ibid. VII, 12).Questo è l’amor de1 Santi verso Dio nel cielo e l’unione e conformità che hanno alla sua divina volontà, parlando secondo la piccolezza del nostro intelletto. Questo dunque è quello che noi altri dobbiamo procurare d’imitare di qua in quel modo che ci può esser possibile, acciocché si faccia la volontà di Dio in terra come si fa in cielo. Inspice, et fac secundum exemplarquod tibi in monte monstratum est, disseDio a Mosè quando gli comandò che facesse il Tabernacolo (Exod. XXV, 40): Avverti di far tutte le cose secondo il disegno che t’ho mostrato nel monte. Così noi altri abbiamo da far qui ogni cosa ad imitazione di quel tanto che si fa colà in quel sovrano monte della gloria; e così abbiamo da star amando e volendo quel che stanno amando e volendo i Beati nel cielo, e quel che sta amando e volendo l’istesso Dio, che è l’istessa sua gloria e il suo essere sommamente perfetto e glorioso. Acciocché meglio possa ognuno far questo, metteremo qui brevemente la pratica di quest’esercizio (M. Avil. Tom. 1, epist.; P. Franciscus Anas p. 2 profectus spirit. Tract. 5, c. 3, 4; P. Luduv. de Puente tom. 2 suarum medìt. p. e.). Quando stai nell’orazione considera coll’intelletto l’essere infinito di Dio, la sua eternità, la sua onnipotenza, l’infinita sua sapienza, bellezza, gloria e beatitudine; e colla volontà statti rallegrando, godendo, compiacendo e gustando che Dio sia quel che Egli è; che sia Dio; che da se stesso abbia l’essere e il bene infinito che ha; che non abbia bisogno di nessuno e tutti abbiano necessità di Lui; che sia onnipotente, e tanto buono, tanto santo, e tanto pieno di gloria, quanto Egli è in se stesso: e così dicasi di tutte le altre perfezioni e de’ beni infiniti che sono in Dio. Questo dicono S. Tommaso (D. Thom. 2 2, q. 28, art. 5 ad a et art. 2) e i Teologi che è il maggiore e più perfetto atto d’amor di Dio ; e così ancora è il più alto e più eccellente esercizio di conformità alla volontà di Dio. Perciocché non vi è maggiore né più perfetto amor di Dio che quello che l’istesso Dio porta a se stesso, che è della medesima sua gloria e del suo essere sommamente perfetto e glorioso: né vi può esser volontà migliore di questa. Dunque tanto migliore e più perfetto sarà l’amor nostro, quanto più s’assomiglierà a questo amore col quale Dio ama se stesso; e tanto maggiore e più perfetta sarà la nostra unione e conformità alla divina volontà sua. Di più dicono colà i Filosofi, che amar uno è volergli e desiderargli bene: Amare est velle alicui bonum (Arist. Reth. lib. 2, c. 4). Dal che viene in conseguenza, che quanto maggior bene desideriamo ad uno, tanto maggiormente lo amiamo. Ora il maggior bene che possiamo volere e desiderare a Dio, è quello ch’Egli ha, cioè il suo infinito Essere, la sua Bontà, Sapienza, Onnipotenza e Gloria infinita. Quando amiamo qualche creatura, non solo ci compiacciamo del bene che già ella ha, ma possiamo inoltre desiderarle qualche bene che ancora non ha; perché ogni creatura è sempre capace di maggior bene e di crescere in esso; ma a Dio non possiamo desiderargli in se medesimo bene alcuno ch’Egli non abbia, perché è totalmente infinito; onde non può aver in sé maggior potenza, né maggior gloria, né maggior sapienza, né maggior bontà di quella che ha. E così il rallegrarci, il gioire, il compiacerci, il gustare, che Dio abbia questi beni che ha, e che sia tanto buono quanto Egli è, tanto ricco, tanto potente, tanto infinito e tanto glorioso, è il maggior bene che gli possiamo volere, e conseguentemente il maggior amore che gli possiamo portare. Di maniera che siccome i Santi che stanno in cielo, e l’Umanità santissima di Cristo nostro Redentore, e la gloriosissima Vergine Signora nostra, e tutti i Cori degli Angeli si stanno rallegrando di vedere Dio tanto bello e tanto ricolmo di beni, ed è tanto grande l’allegrezza e il giubilo che in ciò provano, che non si soddisfano se non con prorompere nelle lodi di questo Signore, e non si saziano di starlo lodando e benedicendo eternamente, come dice il Profeta: Beati, qui habitant in domo tua, Domine: in sæcula sæculorum laudabunt te (Ps. LXXXIII, 5): così noi abbiamo da unir i nostri cuori e da elevare le nostre voci colle loro, come ce l’insegna la Chiesa nostra Madre: Cum quibus, et nostras voces, ut admitti jubeas, deprecamur, supplici confessione dicentes: Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt cœli et terra gloria tua (Eccl. in Præfat. Miss.). Sempre, o quanto più spesso potremo, abbiamo da stare lodando e glorificando Dio, rallegrandoci e gioendo del bene, della gloria e del dominio che Egli ha, dandogliene il buon prò, e congratulandocene seco; e in questa maniera ci rassomiglieremo di qua, nel modo a noi possibile, ai Beati e all’istesso Dio; e avremo il più alto amore e la più perfetta conformità alla volontà di Dio che possiamo avere.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (15)

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (11)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (11)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 – COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO. VII.

Della grazia.

D. 278. Che cos’è la grazia?

R. La grazia è un dono soprannaturale gratuitamente concesso da Dio alla creatura razionale al fine di conseguire la vita eterna (È soprannaturale ciò che supera la natura. Il soprannaturale è di due specie: il primo supera la natura per il modo in cui si produce, mentre in sé è d’ordine naturale, per es.: la vita resa ad un morto; il secondo invece, anche in sé e per essenza, trascende ogni e qualsiasi ordine di natura, in quanto partecipa all’intima vita di Dio; per es.: la grazia santificante, le virtù infuse e i loro atti, e la stessa vita eterna, vale a dire la visione intuitiva di Dio e l’amor beatifico di Dio).

D. 279. Di quante specie è la grazia?

R. La grazia è: una abituale, chiamata anche santificante, ossia quella che giustifica, quella che rende grato; l’altra attuale.

D. 280. Che cos’è la grazia abituale?

R. La grazia abituale è una qualità soprannaturale inerente all’anima, mediante la quale l’uomo diventa partecipe della divina natura, tempio dello Spirito Santo, amico di Dio e suo figlio adottivo, erede della gloria celeste e, quindi, in condizione di porre atti meritori di vita eterna (Sap., VII, 14; Giov., I , 12, 13; III, 5; XV, 4, 14; Paolo, ad Rom., V, 5; VIII, 14-17; I a ad Cor., IV, 7; XII, 3; ad Eph., II, 8 e segg.; 2a di Pietro, I, 4; Ia di Giov., III, 1; Conc. di Tr., Sess. VI De justificatione, can. 11; S. Cir. Al..: In Joann., I, 9. ).

D. 281. La grazia abituale è necessaria per conseguire la vita eterna?

R. A tutti gli uomini, compresi i bambini, la grazia abituale è assolutamente necessaria per conseguire la vita eterna.

D. 282. Che cosa meritiamo con le buone opere da noi compiute, giustificati mercé la grazia di Dio e i meriti di Gesù Cristo?

R. Con le buone opere da noi compiute, giustificati mercé la grazia di Dio e i meriti di Gesù Cristo, noi meritiamo un aumento di grazia, il raggiungimento della vita eterna (purché moriamo nella grazia di Dio), e un aumento di gloria (Conc. d’Orange II, can. 18; Conc. di Tr., 1. e , c. 32.).

D. 283. Come si perde la grazia abituale?

R. La grazia abituale si perde con qualsiasi peccato mortale (Paolo: ad Rom., V I , 23; la ad Cor., VI, 9 e segg.; Giac, I, 15; Ia di Giov., III, 18; Conc. di Tr., 1. C. , can. 27; S. Basil.: Sermo asceticus, I.).

D. 284. In che modo si ricupera la grazia abituale?

R. La grazia abituale si ricupera col cessare dai peccati mortali, e col mettere in uso i mezzi stabiliti da Nostro Signor Gesù Cristo per conseguire la giustificazione(Vedi intorno a questi mezzi la D. 178).

D. 285. In istato di peccato mortale possono farsi alcune opere buone?

R. In istato di peccato mortale possono farsi alcune opere buone, non meritorie però della vita eterna, e pur tali, tuttavia, che con l’aiuto della grazia attuale, il peccatore vien per esse disposto alla giustificazione.(Eccli., XXI, 1; Ezech., XVIII, 30; Dan., IV, 24; Paolo ad Rom., II, 14; Conc. di Tr., 1. C. ; S. Agost.: De spiritu et litterà, 48.).

D. 286. Che cos’è la grazia attuale?

R. La grazia attuale è un aiuto soprannaturale di Dio, a mezzo del quale Dio illumina la nostra mente e muove la nostra volontà onde fare il bene ed evitare il male, in ordine alla vita eterna.

(2  S. Efrem.: De Epiphania, X, 14; S. Cirillo Aless.: De adoratione in spiritu et veritate, I . — Solo la grazia interna sidivide in abituale ed attuale: tuttavia, sotto il nome genericodi grazia si può intendere, e spesso s’intende, qualunque donoda Dio gratuitamente concesso agli uomini in vista dell’eternasalvezza; tali sono le stesse grazie esterne, quali una buonaeducazione, i Sacramenti, il magistero della Chiesa, la sacrapredicazione, la lettura dei buoni libri, gli ammonimenti, lepene; anzi, le stesse malattie e quelli che sogliamo chiamaremali e gl’incomodi della vita, e persino la morte, possono talvoltachiamarsi grazie attuali, in quanto Dio che li vuole o permette, sempre li vuole o permette per la nostra salvezza. È dellamassima importanza che il Cristiano consideri tutti gli eventi della propria vita sotto questo punto di vista soprannaturale)

D. 287. La grazia attuale ci è necessaria?

R. La grazia attuale ci è assolutamente necessaria al fine di operare il bene e di fuggire il male, in ordine alla vita eterna; essendo infatti, questa di ordine soprannaturale, nulla possiamo, con le sole forze naturali, pensare, volere e compiere di quanto è necessario per conseguirla (Paolo: 2a ad Cor., III, 5; ad Philipp., II, 13; Conc d’Orange, II, can. II e segg.; Conc. di Tr., sess. VI De justificatione, can. 1-3; S. Greg. Naz.: Oratio, XXXVII, 13; S. Giov. Cris.: In Genesim, XXV, 7).

D. 288. Concede Iddio a tutti le grazie di cui si abbisogna per la vita eterna?

R. Dio, che tutti gli uomini vuole salvi, a tutti concede le grazie di cui abbisognano per conseguire la vita eterna; senonchè, trattandosi di adulti, è necessario, per raggiungerla, che essi liberamente cooperino con Dio, il quale, col suo aiuto, previene, inspirandole, le loro buone opere e continua ad assisterne il compimento. (Ezech., XXXIII, 11; Giov., I , 9; Paolo: la ad Tim., II, 14; IV, 10; 2a di Pietro, III, 9; Conc. di Tr., 1. c., c. 11; Inn. X, 31 magg. 1653, contra errores Jansenii, prop. la; S . Giov. Cris.: In epist. ad Hebr., XVI, 4.)

D. 289. Quali sono i mezzi principali per conseguire la grazia di Dio?

R. I mezzi principali per conseguire la grazia di Dio sono: la preghiera mediante la quale la grazia s’impetra, e i Sacramenti che la contengono e la conferiscono.

CAPO VIII

Della preghiera.

SEZIONE l a. — Della preghiera in generale.

D. 290. Che cos’è la preghiera?

R. La preghiera è una pia elevazione dell’anima a Dio, intesa ad adorarlo, a ringraziarlo per i benefici ricevuti, ad impetrare il perdono dei peccati e a chiedere quanto crediamo utile o necessario per noi stessi o per gli altri.

D. 291. È necessario per noi di pregare?

R. È necessario per noi di pregare, perché tale è la volontà di Dio, e perché gli aiuti di cui abbiamo continuamente bisogno, Dio, generalmente, suole concederli solo a chi li richiede (2 Eccli., XVIII, 22; Matt., VII, 7, 8; Luca, XI, 9-13; XVIII, 1; Paolo: ad Rom., XII, 12; ad Eph., VI, 18; ad Coloss., IV, 2; la ad Thess., V, 17; S . Giov. Cris.: In Genesim, XXX, 5; Cat. p. parr., p. IV, c. 1, n. 2. — Come il respirare è necessarioalla vita del corpo, così il pregare è necessario alla vita dell’anima: chi è solito pregare si acquista la salvezza; chi non è solito pregare si procura la dannazione. Spesso adunque, o cristiano, implora Dio con la bocca, e più spesso ancora col cuore: adopera con pietà le formule di orazione per la mattina e la sera: e nelle tentazioni, come nelle difficoltà della vita, indirizza a Dio le tue suppliche, tenendo sempre profondamente scolpito nell’animo quel principio: rettamente sa vivere, chi rettamente sa pregare.)

D. 292. Quante specie di preghiera vi sono?

R. Vi sono due specie di preghiera: quella mentale nella quale colla mente e col cuore parliamo con Dio emeditiamo le eterne verità; quella vocale, che, accompagnatadall’attenzione della mente e dalla devozione delcuore, si effonde dalle labbra.

D. 293. Quante forme può avere la preghiera vocale?

R. La preghiera vocale può avere due forme: quella privata, quando vien fatta dall’individuo o dalla famiglia, per sé o per altri, senza l’intervento dei ministri della Chiesa; quella pubblica, quando vien fatta a mezzo dei ministri della Chiesa e in nome della Chiesa; che se la Chiesa la inserisce nei suoi libri, prende il nome di liturgica.

D. 294. Quali debbono essere nella preghiera i principali oggetti delle nostre domande?

R. I principali oggetti delle nostre domande nella preghiera debbono essere: la gloria di Dio, l’eterna salvezza nostra e degli altri, e i mezzi necessari ed opportuni a conseguirla (Matt., VI, 9-13; XXI, 22; XXVI, 41)

D. 295. Ci è lecito di chiedere anche i beni temporali?

R. Ci è lecito di chiedere anche i beni temporali, sempre però in conformità della volontà divina, in quanto, cioè, siano per giovare alla gloria di Dio, ovvero giovino in qualche modo a noi o ad altri per raggiungere la vita eterna, o per lo meno in nulla ostacolino l’una e l’altra Qf1 (Matt., VIII, 2, 6, 25; IX, 18; XV, 22; XVII, 11; Marco, I , 40-42; VII, 32; S. Tom., 2a 2æ, q. 83, a. 6; Cat. p. parr., p. IV, c. IV, n. 1 e segg.)

D. 296. A chi viene indirizzata la preghiera?

R. Ogni preghiera viene indirizzata a Dio, l’unico e solo che possa darci quanto chiediamo; affinché, però, intercedano per noi presso Dio, imploriamo anche i Santi tutti, specialmente la Beata Vergine Maria, e le stesse anime trattenute in purgatorio (Tob., XII, 12; Giob., XLII, ‘ 8; II Macc, XV, 14; Apoc, V, 8; VIII, 3).

D. 297. In qual modo va fatta la preghiera perché sia efficace?

R. Perchè sia efficace la preghiera va fatta nel nome di Gesù Cristo, sui meriti del quale si basa, e con pietà, fede, speranza, umiltà e perseveranza (Tob., VII, 8; Eccli., XXXV, 21; Matt., VI, 5, 6; VII, 7-11; XVII, 20; XX, 22; Marco, XI, 24; Giov., XVI, 23, 24; Giac , I, 5, 6; IV, 16-18; S. Agost.: Trac. 102 in Joannem; S. Tom., 2a 2ae, q. 83, a. 4).

D. 298. Perché non sempre otteniamo quanto chiediamo con la preghiera?

R. Non sempre otteniamo quanto chiediamo con la preghiera, perché o non chiediamo rettamente, o perché quanto chiediamo non è giovevole; nel qual caso non è da dubitarsi che Dio ci accorderà a suo tempo altre grazie, anche maggiori di quelle richieste (Catech. p. parr., p. IV, c. II, n. 4).

D. 299. Qual è la preghiera di tutte la più perfetta?

R. La preghiera di tutte la più perfetta è l’orazione domenicale, vale a dire il Pater noster, alla quale si suole aggiungere la salutazione angelica, ossia l’Ave Maria.

SEZIONE 2a .

Dell’orazione domenicale e della Salutazione angelica.

Art. 1. — DELL’ORAZIONE DOMENICALE.

D. 300. Perchè il Pater noster si chiama orazione domenicale?

R. Il Pater noster si chiama orazione domenicale perché fu Nostro Signor Gesù Cristo in persona ad insegnarcela(Matt., VI, 9-13; Luca, VI, 2-4).

D. 301. Perché l’orazione domenicale è di tutte la più perfetta?

R. L’orazione domenicale è di tutte la più perfetta perché contiene tutto quanto dobbiamo chiedere sia che si riferisca a Dio (nelle tre prime domande), sia che si riferisca a noi stessi e al nostro prossimo (nelle rimanenti)

(« L’orazione domenicale è perfettissima perché, secondo dice S. Agostino (Epist. 130, al. 121, ad Probanti, c. 12): A voler rettamente e acconciamente pregare, null’altro possiamo dire che non sia contenuto in questa orazione domenicale. « Essendo, infatti, la preghiera in certo qual modo l’interprete del nostro desiderio presso Dio, ne consegue che nel nostro pregare solo quelle cose rettamente chiediamo che rettamente possiamo desiderare. Ora, nell’orazione domenicale, non solo tutto chiediamo di quanto rettamente possiamo desiderare, ma lo chiediamo anche nell’ordine preciso in cui va desiderato; indi è che questa preghiera non solo insegna a domandare, ma fissa al nostro affetto tutta la scala dei valori desiderabili ». S. Tom., 2a 2æ, q. 83, a. 9. — È dovere quindi di ogni Cristiano di recitare spesso l’orazione domenicale, con dignità, attenzione e devozione.).

D. 302. Chi invochiamo con le parole: Padre nostro?

R. Con le parole: Padre nostro, noi invochiamo Dio quale tenerissimo padre, per esprimere a suo riguardo il nostro amore e la nostra fiducia, e conciliarci la sua benevolenza e la sua misericordia.

D. 303. Perché chiamiamo Dio Padre nostro?

R. Chiamiamo Dio Padre nostro, non solo perché ci ha creati, ci conserva e governa, ma soprattutto perché  mediante la sua grazia fa di noi i suoi figli adottivi. (Deut., XXXII, 6; Giov., XVI, 26, 27; Paolo: ad Rom., VIII, 15-17; la ad Cor., I, 9; 1a di Giov., III, 1-3; Cat. p. parr.,p. I, c. II, n. 9)

D. 304. Perché diciamo: Padre nostro, piuttosto che: Padre mio?

R. Diciamo: Padre nostro, piuttosto che: Padre mio, perché per il dono dell’adozione divina tutti i fedeli sonofratelli in Cristo; indi è che deve ognuno fraternamenteamare gli altri, e pregare per essi, oltre che per sé  stesso (Cat. p. parr., p. IV, c. IX, n. 14 e segg.).

D. 305. Che cosa intendiamo esprimere con le parole: Che sei nei cieli?

R. Con le parole: Che sei nei cieli, noi veniamo incitati a contemplare l’infinita potenza e maestà di Dio quale rifulge soprattutto nell’opera dei cieli, e nel medesimo tempo veniamo a ricordare che i beni celesti, e quanto va con essi congiunto, noi dobbiamo chiederli soprattutto a Dio (Cat. p. parr.. p. IV. c. IX, n. 19, 20).

D. 306. Che cosa chiediamo con la prima domanda: sia santificato il tuo Nome?

R. Con la prima domanda : Sia santificato il tuo nome, noi chiediamo che il santo Nome di Dio venga atutti reso noto, e che da tutti sia celebrato, col cuore, conle labbra e con le opere buone (Sal. CXII, 1-3; Paolo: ad Philipp., II, 9-11).

D. 307. Che cosa chiediamo con la seconda domanda: Venga il tuo regno?

R. Con la seconda domanda: Venga il tuo regno, noi chiediamo che con la sua grazia Dio regni su noie tutti gli uomini, che con la sua legge regni quaggiù sullasocietà e sulle nazioni, onde possiamo poi esser resi partecipiin cielo della sua gloria eterna.(Paolo: ad Rom., XIV, 17; Ia ad Cor., VI, 9,10; XV, 50; ad Gal., V, 19-21; ad Eph., V, 5; Cat. p. parr. p. IV, c. XI, n. 1 e segg.)-

D. 308. In qual modo possiamo noi cooperare all’avvento del regno di Dio sulla terra?

R. Noi possiamo e dobbiamo cooperare all’avvento del regno di Dio sulla terra, tanto con l’osservare la legge di Cristo e coltivare in noi la vita soprannaturale della grazia, quanto con l’aiutare, mediante la preghiera e le opere, l’opera stessa della Chiesa, il cui scopo è che la vita, sia privata che domestica e pubblica, si conformi alla legge divina, che tutti gli erranti tornino all’unità della Chiesa medesima e che la luce del Vangelo sia portata a quei popoli che ancora siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte.

D. 309. Che cosa chiediamo con la terza domanda: Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra?

R. Con la terza domanda: Sia fatta la tua volontà come in cielo cosi in terra, noi chiediamo che, a somiglianzadei beati tutti del cielo come delle anime delPurgatorio, anche gli uomini sulla terra facciano la volontàdi Dio, con tutto amore, sempre e in ogni cosa.

D. 310. Che cosa chiediamo con la quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano?

R. Con la quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, noi chiediamo che Dio ci elargisca sia ilpane spirituale, vale a dire quanto ènecessario alla vitaspirituale dell’anima, segnatamente il pane eucaristico,sia il pane corporale, vale a dire quanto è  richiesto alsostentamento del corpo.

D. 311. Che cosa chiediamo con la quinta domanda: E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ainostri debitori?

R. Con la quinta domanda: E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, noi chiediamoa Dio che quei peccati da noi commessi contro diLui e quelle pene da noi meritate per i nostri peccati,Egli ce li condoni, come noi stessi condoniamo ai nostrioffensori le offese da loro arrecateci (Matt., VI, 14, 15; XVIII, 35; Marco, XI, 25, 26; Luca, XI, 4).

D. 312. Che cosa chiediamo con la sesta domanda: E non c’indurre in tentazione?

R. Con la sesta domanda: E non c’indurre in tentazione, noi a Dio ricorriamo, consci della nostra debolezza,per pregarlo di liberarci dalle tentazioni, o per lomeno di concederci l’aiuto della sua grazia onde superarequelle tentazioni stesse.

D. 313. Perché permette Iddio che noi siamo tentati?

R. Dio permette che noi siamo tentati, per farci riconoscere la nostra debolezza, perché la nostra fedeltà venga messa alla prova, e infine perché col superare le tentazioni mercé la sua grazia, ci esercitiamo nella virtù e acquistiamo i meriti della vita eterna; mai però Iddio permette che veniamo tentati oltre il limite da noi sostenibile, con l’aiuto della sua grazia (Tob., XII, 13; Sap., III, 5; Paolo: Ia ad Cor., X, 13; Giac., I, 2, 14; 2a di Pietro, II, 9; Conc. di Tr., sess. VI, De justif., c. 11).

D. 314. Quali sono i rimedi più efficaci contro le tentazioni?

R. I rimedi più efficaci contro le tentazioni sono: la fuga delle occasioni, la meditazione dei Novissimi e l’uso frequente dei Sacramenti; nel momento stesso poi della tentazione: il segno della croce, l’umile invocazione dell’Angelo custode e soprattutto quella dei santissimi nomi di Gesù e della beata Vergine Maria (Prov., XVIII, 10; Matt., XVII, 20; XXVI, 41).

D. 315. Che cosa chiediamo con la settima domanda: Ma liberaci dal male?

R. Con la settima domanda: Ma liberaci dal male, noi chiediamo in primissimo luogo che Dio ci liberi dalmale spirituale, cioè dal peccato e, quindi, dal demonioche al peccato ci spinge, e in secondo luogo da ogni altromale, per lo meno da quelli che possono offrirci l’occasionedi peccare.

D. 316. Che cosa significa la parola Amen in fine dell’ultima domanda?

R. La parola Amen in fine dell’ultima domanda, significa: così sia, quanto sopra chiedemmo; il che sta anche a dimostrare la nostra fiducia nelle promesse di Dio.

Art. 2. — DELLA SALUTAZIONE ANGELICA.

D. 317. Perché all’orazione domenicale si suole aggiungere la salutazione angelica?

R. All’orazione domenicale si suole aggiungere la salutazione angelica allo scopo di impetrare più facilmente da Dio, mediante l’intercessione della beata Vergine Maria, quanto imploriamo nell’orazione domenicale.

D. 318. Di chi sono le parole: Ave, [Maria] piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra le donne?

R. Le parole: Ave, [Maria] piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra le donne, sono dell’ArcangeloGabriele annunziatile alla beata Vergine Maria il misterodell’Incarnazione; e perciò questa preghiera viendetta: salutazione angelica (Luca, I, 28).

D. 319. Che cosa facciamo quando recitiamo la salutazione angelica?

R. Quando recitiamo la salutazione angelica ci congratuliamo con la beata Vergine Maria per i singolari doni e privilegi di cui Dio l’ha colmata di preferenza a tutte le altre creature, e glorifichiamo Dio medesimo di aver tanto fatto per ella.

D. 320. Di chi sono e cosa significano le parole: Benedetto il frutto del ventre tuo?

R. Le parole: Benedetto il frutto del ventre tuo, sono di Santa Elisabetta quando riceveva, ospite in casa sua, la beata Vergine Maria, e significano che Cristo Signore, figlio della beata Vergine Maria, è su tutte le cose benedetto nei secoli (Luca, I, 28).

D. 321. Di chi sono le parole: Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte, e che cosa domandiamo con esse?

R. Le parole: Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte, sonostate aggiunte dalla Chiesa, e con esse chiediamo il patrociniodella beata Vergine Maria in tutte le nostre necessità,e specialmente nell’ora della nostra morte.

(La Chiesa orientale non ha questa seconda parte della salutazione angelica, ma alle parole angeliche aggiunge un’altra preghiera).

D. 322, La beata Vergine Maria, madre di Dio, è essa anche madre nostra?

R. La beata Vergine Maria, madre di Dio, è anche madre nostra in virtù di quell’adozione per la quale siamo fratelli del Figliuol suo; e ciò Gesù Cristo medesimo volle confermare nel morir sulla croce, quando alla beata Vergine Maria diede per figli tutti gli uomini, nella persona di S. Giovanni, dicendo: Donna, ecco il tuo figlio, Maria, aggiungendo: Ecco la madre tua (Giov.. XIX, 26, 27; Paolo: ad Rom., VIII, 29; Leone XIII: Enc. Adjutricem populi, 5 sett. 1895; Pio X: Enc. Ad illum diem, 2 feb. 1904; Benedetto XV: Epist. ad Sodal. Nostræ Dominæ a bona morte, 22 marzo 1918; Pio XI: Enc. Rerum Ecclesiæ, 28 febbr. 1926).

D. 323. Qual giovamento ottengono coloro che con tenera pietà onorano la beata Vergine Maria?

R. Coloro che con tenera pietà onorano la beata Vergine Maria ottengono questo giovamento importantissimo di essere dalla medesima riamati e protetti con particolare amore materno (S. Bernardo (Omelia II sul Missus est) inculca la pietà verso la beata Vergine Maria con le seguenti parole: « Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa Maria, invoca Maria….; seguendola, non ti smarrisci; pregandola, non disperi; se ti sostiene, non ti abbatti; se ti protegge, non hai che temere; se ti guida, non ti stanchi; se ti è propizia, raggiungi la meta ». Tutte cose che potranno facilmente trovare la loro conferma negli esempi di cui v’è abbondanza nei libri di pietà.).

D. 324. Qual è la devozione più raccomandata dalla Chiesa verso la beata Vergine Maria?

R. La devozione più raccomandata dalla Chiesa verso la beata Vergine Maria è la recita del Santo Rosario.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (13)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (13)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXIX.

Si conferma quel che si è detto con alcuni esempi.

Nelle Cronache dell’Ordine di S. Domenico si racconta (Fr. Hernandus de Castil. 1 p., lib. 1, c. 60 Histor, Ordio. Praedicat.), che un Padre de’ primi dell’Ordine dopo essere stato nella Religione alcuni anni con grand’esempio di vita e con gran purità d’anima, non sentiva alcuna sorta di consolazione né di gusto negli esercizi della Religione, né meditando, né orando, né contemplando, né leggendo: e come sempre sentiva dire del favore che Dio faceva agli altri, e de’ sentimenti spirituali che quegli avevano, stava mezzo disperato; e come tale una notte, nell’orazione dinanzi ad un Crocefisso si pose a dire piangendo amaramente questi spropositi: Signore, io ho sempre creduto, che in bontà e in mansuetudine superi tutte le tue creature. Eccomi qui, che ti ho servito molti anni, e ho sopportate in grazia tua molte tribolazioni, e di buona voglia mi son sacrificato a te solo; e se la quarta parte del tempo che ho impiegato in servizio tuo l’avessi impiegata in servire un qualche tiranno, m’avrebbe egli mostrato oramai qualche segno di benevolenza, almeno con una buona parola, o con una buona ciera, o con un riso, e tu, Signore, non mi hai fatto carezza alcuna, né da te ho ricevuto pur il minor favore di quanti sii solito di fare agli altri; ed essendo tu l’istessa dolcezza, sei verso di me più duro che cento tiranni. Che cosa è questa, Signore? Perché vuoi che la cosa passi così? Stando egli in questo sentì subitamente un fracasso così grande, come se tutta la chiesa se ne fosse venuta in terra; e sopra di essa sentiva un sì formidabil rumore, come se migliaia di cani fossero stati facendo in pezzi il solaro e scompaginando i travi; del che spaventato, e tremando di paura, voltato il capo per veder quel che potesse essere, si vide alle spalle la più brutta e orribil visione del mondo, di un demonio che con una verga di ferro che tenea in mano gli diede si gran percossa nel corpo, che cadutone per terra non potè più alzarsi; gli bastò però l’animo d’andarsi strascinando sino ad un altare che era ivi vicino; senza potersi maneggiare per lo dolore, come se a furia di percosse gli avessero scongiunte le ossa. Quando i Frati si levarono per dir Prima, e lo trovarono come morto, senza saper la cagione di cosi subitaneo e mortai accidente, lo portarono all’infermeria, nella quale per tre settimane intere che vi stette con dolori grandissimi mandava fuori tanto grande e tanto fetente e stomachevole puzza, che in nessun modo potevano i Religiosi entrare a governarlo e servirlo, se non turandosi prima il naso e premunendosi con molti altri rimedi. Passato questo tempo riprese qualche poco di forze, e giunto a potersi tenere in piedi, volle risanarsi della sua pazza presunzione e superbia: e ritornato al luogo ove aveva commessa la colpa, cercò in quello il rimedio di essa, facendo con molte lagrime ed umiltà la sua orazione ben differente dalla passata. Confessava la sua colpa, si riconosceva indegno di bene alcuno, e molto meritevole di pena e di castigo. E il Signore lo consolò con una voce del cielo che gli disse: Se vuoi consolazioni e gusti, ti conviene esser umile, riconoscer la tua viltà, e persuaderti d’esser più vile che il fango, e meno stimabile che i vermi che calpesti co’ piedi. – E con questo rimase tanto avvertito ed instrutto, che per l’avvenire fu un perfettissimo Religioso. – Del nostro S. P. Ignazio leggiamo un altro esempio assai differente. Si narra nella Vita di lui (Lib. 5, c. 1 Vita F. N. S. Ignat.), che considerando i suoi mancamenti, e piangendoli, diceva di desiderare, che per castigo di essi il Signore gli togliesse a volta a volta il favore della sua consolazione, acciocché egli come riscosso da questa tirata di briglia imparasse a procedere con maggior sollecitudine e cautela nel suo servigio: ma che era tanto grande la misericordia di Dio e la moltitudine della soavità e dolcezza della sua grazia verso di lui, che quanto più egli mancava e più desiderava d’essere in tal maniera castigato, tanto era il Signore più benigno e con tanto maggior abbondanza spargeva sopra di lui i tesori della sua infinita liberalità. Onde diceva, che credeva non vi fosse uomo nel mondo in cui in ugual grado concorressero queste due cose come in lui, cioè mancar tanto con Dio, e ricever tante e così continue grazie da Dio. – Il Blosio racconta (Blos. c. 10 mon spir.) di un Servo di Dio, che il Signore gli faceva singolari favori, dandogli grandi illustrazioni e comunicandogli cose meravigliose nell’orazione: ed egli colla sua grande umiltà e desiderio di piacer più a Dio gli domandò, che quando così gli fosse più piaciuto gli avesse tolta quella grazia. Esaudì Dio la sua orazione, e gliela tolse per lo spazio di cinque anni, lasciandogli patir in essi molte tentazioni, aridità ed angustie: e mentre egli una volta stava piangendo amaramente, gli apparvero due Angeli per volerlo consolare, a’ quali rispose: Io non domando consolazione, perché mi basta per consolarmi, che s’adempisca in me la volontà di Dio. – Il medesimo Blosio narra (Idem ibid. c. 4), che Cristo nostro Redentore disse un dì a santa Brigida: Figliuola, che cosa è quella che ti turba e ti mette in fastidio? e ch’essa gli rispose: L’esser afflitta da pensieri vani, inutili e cattivi, e il non poterli scacciar via; e m’angustia grandemente il tuo spaventevole giudicio: e che allora il Signore le disse: Questa è convenevol giustizia; che siccome tempo fa ti dilettavi delle vanità del mondo contra la volontà mia; così ora ti siano molesti e penosi vari e perversi pensieri che ti vengono contra la tua. Hai però da temere il mio giudicio moderatamente e con discrezione, confidando sempre fermamente in me, che sono il tuo Dio: perché devi tenere per cosa certissima, che i cattivi pensieri a’ quali l’uomo resiste, e li ributta, sono purgatorio e corona dell’anima. Se non puoi impedirli, sopportali con pazienza e fa resistenza ad essi colla volontà: e quantunque non dii loro il consentimento, ad ogni modo abbi timore, che non ne nasca in te qualche superbia, e così tu venga a cadere: perché chiunque sta in piedi, è sostenuto solamente dalla mia grazia. – Il Taulero dice così (e l’apporta il Blosio (Taulerus apud Blos, oonsol. pusill.) nella consolazione de’ pusillanimi: Molti quando sono angustiati da qualche tribolazione mi soglion dire: Padre, son maltrattato; le cose non vanno bene per me, perché sono angustiato da diverse tribolazioni e da malinconia; e io rispondo a chi mi dice questo, che anzi le cose vanno bene per lui, e che gli è fatta gran grazia. Allora dicono essi: Signor no; anzi credo, che questo m’avviene per le mie colpe. Al che io replico: Avvenga questo per i tuoi peccati, o no; credi, che questa croce te l’ha data Dio; e ringraziandonelo, sopportala con pazienza e rassegnati tutto in lui. Dicono ancora: Io mi consumo interiormente per la grande aridità e tenebre; e io gli dico: Figliuol caro, sopporta con pazienza, e ti sarà fatta maggior grazia che se avessi molta e gran divozione sensibile. – Si racconta di un gran Servo di Dio che diceva così: Sono quarant’anni ch’io servo il Signore ed attendo all’orazione, e non ho mai avuti in essa gusti né consolazioni; ma in quel giorno che la fo, sento di poi in me gran lena per gli esercizi di virtù; e quando manco in questo, mi sento tanto infiacchito, che non posso alzar le ali per cosa alcuna di buono.

CAPO XXX.

Della conformità alla volontà di Dio che abbiamo d’avere circa la distribuzione delle altre virtù e doni soprannaturali.

Siccome abbiamo da essere conformi alla volontà di Dio, comunque Egli ci tratti nell’orazione; così ancora abbiamo da esser conformi alla medesima, comunque Egli ci tratti in tutte le altre virtù e doni suoi, e in tutte le altre prerogative spirituali. Buonissimo è il desiderio di tutte le virtù, il sospirar per esse, e il procurarle; ma talmente abbiamo da desiderar sempre d’esser migliori e di crescere e camminar avanti nella virtù, che ci diamo pace se non arriveremo a quello che desideriamo, e che ci conformiamo alla volontà di Dio, contentandoci di essa. Se Dio non vuole dare a te una castità angelica, ma vuole che in ciò tu patisca tentazioni gravi, è meglio che tu abbi pazienza e che ti conformi alla volontà di Dio in tale tentazione e travaglio, che non t’inquieti e ti lamenti di non avere quella purità angelica. Se Dio non ti vuol dare così profonda umiltà come ad un S. Francesco, né tanta mansuetudine quanta a Mosè e a Davide, né tanta pazienza quanta a Giob, ma vuole che tu senta movimenti e appetiti contrari; è bene che ti confonda e ti umilii, e che da ciò impari ad aver bassa stima di te; ma non è bene che t’inquieti e che ti vada lamentando e angosciando, per non farti Dio tanto paziente quanto Giob, né tanto umile quanto S. Francesco. Bisogna che ci conformiamo alla volontà di Dio anche in queste cose, perché altrimenti non avremo mai pace. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. c. 23, Audi filia): Io non credo che vi sia stato alcuno tra’ Santi in questo mondo, che non abbia desiderato d’esser migliore di quello ch’era; ma questo non toglieva loro la pace, perché non lo desideravano per propria cupidigia la quale non dice mai basta; ma lo desideravano per amor di Dio, della cui distribuzione si tenevan contenti, ancorché avesse dato lor meno, riputando per contrassegno di vero amore il contentarsi più tosto di quello che Dio dava loro, che il desiderare d’aver molto, con tutto che l’amor proprio faccia dire, che ciò si desidera per servir maggiormente a Dio. Ma mi dirà alcuno, che par che questa sia un volerci dire, che non dobbiamo dunque riscaldarci tanto nel desiderare d’essere più virtuosi e migliori; ma che abbiamo da lasciar fare ogni cosa a Dio, sì quanto all’anima, come quanto al corpo: e così pare che questo sia un darci ansa di diventar tiepidi e lenti, e di non curarci niente di crescere e di camminar avanti. Notisi molto bene questo punto, perché è di grande importanza. È tanto buona questa replica e obbiezione, che questo solo è da temersi in questa materia. Non vi è dottrina quanto si voglia buona della quale non possa uno servirsi male, se non sa applicarla e usarla come si conviene: e così sarà di questa, tanto in quel che riguarda alle orazioni, quanto in quel che riguarda alle altre virtù e doni spirituali; per lo che sarà necessario, che la dichiariamo e l’intendiamo bene. Io non dico, che non abbiamo da desiderare d’esser ogni giorno più santi, e da procurar d’imitare sempre i migliori, e da esser in ciò diligenti e ferventi; che per questo siamo venuti alla Religione; e se non faremo questo, non saremo buoni Religiosi: ma dico, che in ciò abbiamo a procedere a proporzione, come nelle cose esteriori e che appartengono al corpo. In queste, come dicono i Santi, gli uomini hanno bensì ad essere diligenti, ma non ansiosi né soverchiamente solleciti; che questo, dicono essi, viene proibito da Cristo nostro Redentore con quelle parole registrate nell’Evangelio: Dico vobis: Ne solliciti sitis animæ vestræ, quid manducetis, neque corpori vestro, quid induamini (Matth. VI, 25); colle quali parole riprende la soverchia sollecitudine, l’ansia e l’affetto smoderato per queste cose; ma la cura competente e le diligenze necessarie nel procacciarle, non le proibisce né le condanna; anzi ce le comanda e ce le diede per penitenza, laddove disse al nostro primo Padre: In sudore vultus tui vesceris pane (2; Gen. III, 19): Bisogna che gli uominimettano la loro fatica e diligenza nel procurarsida mangiare; il far altrimenti sarebbe un tentar Dio. Ora allo stesso modo si ha da procedere nelle cose spirituali enel procurar le virtù ed i doni di Dio. Bisogna che siamo molto diligenti e solleciti in questo; ma non in maniera tale, che ci tolga la pace e la conformità alla volontà di Dio. Fa tu quello che puoi dal canto tuo: ma se con tutto ciò vedi che non giungi a conseguire tutto quello che vorresti, non hai per questo da lasciarti precipitare in una impazienza la quale sia maggior male che non è il mancamento di quella cosa di cui ti lagni: ed hai a far questo con tutto che ti paia che il mancamento di una tal cosa in te provenga dalla tua tiepidezza; che è quello che suol attristar molti. Procura tu di far moralmente le tue diligenze: e se non le farai tutte, e cadrai in qualche mancamento, non ti spaventare per questo, né ti perdere d’animo, che poco più, poco meno, così accade a tutti. Sei uomo, e non angelo; debole, e non santificato né confermato in grazia. Iddio conosce assai bene la nostra debolezza e miseria: Quoniam ipse cognovit figmentum nostrum (Psal. CII, 13); e non vuole che ci disperiamo per questo, perché ci veggiamo cadere in qualche difetto, ma che ci pentiamo subito ed umiliamo, e che subito ci leviamo su e domandiamo a Lui forza maggiore, procurando di mantenerci in quiete interiormente ed esteriormente (2 p., tract. 6, c. 3 per tot 2); che meglio è, che ti alzi su presto e con allegrezza la quale raddoppia le forze per servir Dio, che sul pretesto di andare piangendo i tuoi mancamenti nel servigio di Dio, venga così a dispiacere più a Lui, col servirlo male col cuore, con replicare altre cadute, e con altri tristi effetti che da ciò sogliono nascere. – Solamente è da temersi qui il pericolo che abbiamo di sopra accennato (Vide supra cap. 24 et seq.), che subentri in noi la tiepidezza, e che lasciamo di far quello che è dal canto nostro, sotto colore di dire: Dio me l’ha da dare; ogni cosa ha da venire dalla mano di Dio; io non posso più che tanto. E dall’istesso pericolo abbiamo da guardarci in quel che dicevamo dell’orazione, che né anche qui subentri la pigrizia sotto lo stesso colore: ma serrata questa porticella, e facendo tu moralmente quanto è dal canto tuo, piace più a Dio la pazienza e l’umiltà nelle debolezze, che coteste angustie e tristezze soverchie che hanno alcuni, per parer loro che non crescano tanto in virtù e perfezione, o che non si possano introdurre tanto nell’orazione, quanto essi vorrebbero. Perché questo dono dell’orazione e della perfezione non s’acquista per mezzo di tristezze, né col fare, come suol dirsi, a’ pugni; ma Dio lo dà a chi Egli vuole, come vuole e quando vuole; ed è cosa certa, che non hanno da essere tutti uguali quelli che hanno d’andare in cielo. Né abbiamo da disperarci noi altri, perché non siamo de’ migliori, né forse de’ mediocri; ma ci dobbiamo conformare alla volontà di Dio in ogni cosa, e ringraziare il Signore della speranza dataci d’averci a salvare per misericordia sua: e se non arriveremo ad essere senza mancamenti, ringraziamo Dio dell’averci Egli data la cognizione de’ mancamenti nostri; e giacché non andiamo in cielo per mezzo dell’altezza delle virtù, come ci vanno alcuni, contentiamoci d’andarvi per mezzo della cognizione e della penitenza de’ nostri peccati, come ci vanno molti altri. Dice S. Girolamo (D. Hier. in prologo Calcato): Offeriscano altri nel tempio del Signore, ciascuno secondo la possibilità sua, chi oro, chi argento e pietre preziose, chi sete, chi porpore e chi broccati; a me basta l’offerire nel tempio peli di capre e peli d’animali. Offeriscano dunque gli altri a Dio le loro virtù e opere eroiche ed eccellenti, e le loro alte ed elevate contemplazioni; che a me basta offerirgli la mia viltà, conoscendomi e confessandomi peccatore, imperfetto e cattivo, e presentandomi nel cospetto della Maestà sua come povero e bisognoso: e ci torna conto rallegrare in questo il nostro cuore, e renderlo gradito a Dio; acciocché non ci levi inoltre, come ad ingrati, quello che ci ha dato. S. Bonaventura, Gersone e altri (D. Bonav. op. de prof. Relig. lib l, c. 33; Gers. tract. De monte contempl.; Fr..barth.de Mart. Archiep. Brachar. in suo comp. p. 2, c. 15), aggiungono qui un punto col quale si conferma bene quel che s’è detto, e dicono, che molte persone servono più a Dio col non avere la virtù e il raccoglimento, e col desiderarli, che se gli avessero: perché con questo vivono in umiltà, e vanno con sollecitudine e diligenza procurando di camminar avanti e di giungere al termine sospirato, e perciò ricorrono spesso a Dio; e con quell’altro forse s’insuperbirebbero, e si trascurerebbero, e sarebbero tiepidi nel servizio di Dio, per parer loro d’aver già quello che faceva loro di bisogno, e non si animerebbero ad affaticarsi per conseguire qualche cosa di più. Questo ho detto acciocché facciamo noi altri moralmente quanto è dal canto nostro, e andiamo con diligenza e sollecitudine procurando la perfezione; e allora ci contentiamo di quello che dal Signore ci sarà dato, e non istiamo attristati e angosciati per quel che non possiamo conseguire, né sta in man nostra: perché questo, come dice molto bene il P. M. Avila (M. Avila, tom. 2 ep. f. 32), non sarebbe altro che star penando, perché non ci sono date ale da poter volare per l’aria.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “CUM ILLUD SEMPER”

Il Santo Padre Benedetto XIV, uno dei più dotti in assoluto tra i Pontefici Romani di Santa Madre Chiesa, fissa i punti che devono regolare la elezione a curato parrocchiale da parte dei Vescovi diocesani e le modalità per eventuali ricorsi da parte degli esclusi. La lettera è molto articolata ed atta a risolvere i cavilli giudiziari che possono sorgere tra vari candidati all’ufficio della cura delle anime. Tanta cura e attenzione da parte del Sommo Pontefice per una questione capitale nella conduzione di anime alla vita eterna, non è stata purtroppo corrisposta come c’era da augurarsi da parte di tutti gli Ordinari, fino a giungere poi all’investire della carica soggetti assolutamente indegni, per dottrina ed esempi di vita, di pascere un gregge attaccato con sempre maggiore accanimento da parte di lupi furiosi e sciacalli famelici di ogni risma, e addirittura a permettere l’infiltrazione di aderenti alle sette di perdizione, a marrani ipocriti, a viziosi manifesti, ad apostati ed eretici, che hanno poi condotto, come sappiamo, alla formazione di un laicato totalmente scristianizzato ed ignaro delle più elementari verità di fede indispensabili per ottenere l’eterna salvezza. Ben sapevano infatti i dirigenti delle sette di perdizione, i servi della bestia infiltrati nella Chiesa affettando santità e devozione apparente, che per rovinare l’operato della Chiesa a salvezza dei fedeli, bisognava modificare lentamente ma progressivamente i costumi e la dottrina delle nuove leve sacerdotali, specie nei seminari e negli ordini religiosi più coriacei, come ad esempio è avvenuto per i Domenicani ed i Gesuiti. Corrotto il pastore, disperso il gregge, è il solito adagio, oggi ancor più vero e calzante: cacciato il Pastore vero, se ne sono insediati due falsi che ubriacano e conducono il gregge allo stagno di fuoco con loro, i falsi profeti, la bestia ed il diavolo. Così li ha descritti San Giovanni Apostolo., e così sarà.


Benedetto XIV
Cum illud semper

La Chiesa Cattolica ha sempre paventato il pericolo che la cura delle anime e la custodia del gregge del Signore fossero affidate a persone indegne e senza benemerenze sacerdotali; perché l’organismo di tutta la famiglia vacilla, se ciò che si pretende dal corpo non si trova nel capo. Perciò con sanzioni canoniche e specialmente con i Decreti del sacro Concilio di Trento si è opportunamente provveduto a che il governo delle Chiese parrocchiali si dovesse affidare a coloro, la cui vita, dalla puerizia alla maturità, fosse trascorsa nel servizio ecclesiastico in modo tale che non fosse lecito dubitare della loro promozione rispetto agli altri, né del voto favorevole dato circa la loro dottrina, i costumi e una costante attività. A poco a poco è invalsa in molti la pregiudizievole opinione che i Decreti del Concilio di Trento prescrivono non di eleggere il più degno, ma solo di non affidare Chiese parrocchiali e altri Benefici che comportano la cura delle anime a persone indegne. Innocenzo XI di santa memoria, nostro Predecessore, condannò come erronea e troppo lontana dalla vera e sincera intenzione dei Padri Conciliari tale opinione e insegnò come si debba essere prudenti e diligenti nell’assegnare un ufficio pastorale.

1. Perciò in seguito alle indicazioni del Santo Sinodo è invalso l’uso che, quando è vacante una Chiesa parrocchiale che l’Ordinario deve liberamente assegnare, si faccia il concorso, in cui si indaghi su età, costumi, dottrina e capacità di ciascun concorrente; il Vescovo poi scelga chi giudicherà più idoneo degli altri.

2. Siccome, a volte, può accadere che o per interesse o per compiacenza o per un giudizio meno equo vengano preferiti i meno degni ai più degni, perciò, affinché non ci fosse nulla di irregolare e di non chiaro in tale elezione, Pio V di santa memoria, nostro Predecessore, con la pubblicazione di una Costituzione molto valida volle che gli ingiustamente respinti nel concorso potessero appellarsi al Metropolita o al Vescovo viciniore o, a volte, alla Sede Apostolica per sottoporre a un nuovo esame il prescelto e rivendicare, se ci fosse il diritto, con un nuovo esame di meriti la Chiesa non legalmente assegnata ad altri. E perché non ci fosse appiglio per un futile appello, nella Costituzione si è opportunamente disposto che al detto appello si deve ricorrere soltanto “in condizione devolutiva“, senza sospendere o in qualche modo ritardare al prescelto dal Vescovo il possesso della Chiesa.

3. Queste giustissime leggi, promulgate al fine di impedire che, in una cosa di così grande importanza, si preferissero gli ignoranti ai maestri, i nuovi arrivati agli anziani, gli inesperti agli esperti, sono state violate dalla frode e dalla malizia degli uomini: il rimedio è divenuto un’arma per gli esasperati. Molto spesso infatti i respinti dall’Ordinario, con il pretesto della Costituzione, erano soliti precipitarsi facilmente sull’alternativa dell’appello e con una ragione anche poco legittima provocare un nuovo esame agli eletti dal Vescovo. Li costringevano, dopo che avevano abbandonato la custodia del gregge e della Chiesa, a intraprendere lunghi viaggi, a sobbarcarsi a sacrifici di fatica interminabile, di tempo e di denaro e a sostenere la causa in seconda, in terza istanza e, a volte, anche oltre.

4. In verità è comprovato anche dall’esperienza che la lite si risolve poi con grave pregiudizio della giustizia. Infatti coloro che si erano sottoposti all’esame e, non conoscendo i legittimi ordinamenti, erano stati respinti nel primo concorso, in seguito, andando la lite per le lunghe, si dedicavano di proposito e con passione alle lettere, meritandosi così di essere preferiti agli altri; si adiravano anche fortemente contro il Vescovo, giudice sì di un’attitudine acquisita, ma non da acquisire, per essere stati ingiustamente respinti.

5. Da qui lamentele a non finire da parte di persone rispettabili e garanti della giustizia. Per placarle la Congregazione Interprete del Concilio di Trento mise ogni cura e diligenza e diede a Noi, che fungevamo da Segretario, l’incarico di tentare, secondo le nostre forze, con una disquisizione, data poi alle stampe, di esaminare a fondo questa faccenda, origine del presente male, e di cercare rimedi atti ad allontanarlo. Esponendo il nostro pensiero in merito, facemmo notare che soprattutto la prassi dell’esame fatto a voce e non consegnato per iscritto era viziata, appunto perché gli eletti alla cura delle anime dall’Ordinario Collatore, convocati a un secondo esame davanti a un altro giudice, non potevano difendere il diritto di legittima collazione con l’attestato certo che avevano di idoneità già provata. Tutta la faccenda sembrava dipendere dall’esito di un nuovo esame da farsi davanti a un giudice di appello del tutto ignaro dei fatti. Di conseguenza, con grave pregiudizio della giustizia, era stata accolta nel Foro [ecclesiastico] quella opinione, secondo la quale si poteva ricorrere ad un altro giudice senza esibire nessun documento della bocciatura non meritata. Tale metodo era troppo lontano dal senso dei sacri Canoni; perciò pensammo che si poteva ovviare a questo malcostume prima di tutto stabilendo una forma sicura e ben appropriata di esame, poi mettendo per iscritto i quesiti proposti agli esaminandi e le loro rispettive risposte, nonché tutta la serie dei fatti, e in fine rimettendo al giudice di appello gli atti integrali di tutto il concorso.

6. La norma da Noi proposta trovò non solo il consenso presso la Congregazione, che la approvò nella seduta del 16 novembre 1720, ma anche il giudizio positivo del Pontefice Clemente XI, esimio garante e assertore della disciplina ecclesiastica. E perché gli Ordinari mettessero in atto tali disposizioni con quella premura e quel filiale ossequio che meritano, esse furono opportunamente scritte di nostro pugno in forma di Lettera il giorno 10 gennaio 1721 e approvate con il consenso e con il responso dello stesso Pontefice. Il loro contenuto, anche se già dato alle stampe e inserito nel Bollario del citato Clemente, nostro Predecessore, abbiamo creduto bene di riportarlo qui.

7. Reverendissimo Signore come Fratello.

Affinché il governo delle Chiese parrocchiali fosse affidato a persone più degne, il santo Concilio di Trento nella sess. 24, cap. 18 stabilì – come è noto – che si indicesse e facesse il concorso, e che tra i concorrenti, una volta esaminati e approvati dal Vescovo o dal suo Vicario Generale e da almeno tre esaminatori, il Vescovo eleggesse colui che per età, costumi, dottrina, prudenza e altre doti necessarie e opportune al governo della Chiesa vacante, giudicasse più degno e più idoneo degli altri. Pio V, santissimo Pontefice di nome e di fatto, aggiunse che, nel caso in cui il Vescovo avesse eletto uno meno adatto posponendo altri più idonei, questi potevano ricorrere contro tale pregiudizievole elezione al Metropolita o, se l’elettore fosse lo stesso Metropolita o un esente, all’Ordinario più vicino come Delegato della Sede Apostolica, o altrimenti alla stessa Sede Apostolica, e convocare il prescelto a un nuovo esame davanti allo stesso giudice di appello e ai suoi esaminatori, con la cautela, però, che l’appello doveva essere non in condizione sospensiva, ma in condizione devolutiva, come è spiegato più ampiamente nella sua trentatreesima Costituzione. E concluse che, una volta constatato e revocato l’irragionevole giudizio dell’elettore, la Chiesa parrocchiale fosse affidata al più idoneo. – Quando poi né con decreto del Concilio né con Bolla del Pontefice si riuscisse a proporre un certo e particolare sistema o metodo di fare l’esame, è difficile a dirsi quante forme diverse di esami ci sarebbero e altre ancora in altre parti, e da qui occasione di querele. – Infatti in qualche parte, non essendo stati proposti a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e gli stessi casi, c’erano sempre di quelli che, in sede o fuori sede, si lamentavano sostenendo che a loro, respinti, erano toccati i quesiti più difficili, mentre al prescelto i più facili. Altrove, invece, sono stati sì proposti gli stessi quesiti, ma né questi né le risposte dei concorrenti venivano consegnate per iscritto o per lettera. In seguito accadeva, e non raramente, che qualcuno dei respinti, in forza della sopraccitata Bolla, convocava l’eletto a un nuovo esame davanti al giudice di appello e ai suoi esaminatori. La Sacra Congregazione considerando che l’impugnativa non si può provare se non con un nuovo esame, stabilì fin dal 1603 che la convocazione per un nuovo esame deve essere accettata, anche se l’impugnativa non è ancora provata, perché le prove sono richieste solo nel successivo giudizio. In tale giudizio, dopo che è provata con il nuovo esame dell’appellante l’impugnativa circa la dottrina, rimane da provare la sua maggior capacità sul già prescelto circa le altre doti richieste per governare la Chiesa, e ciò per poter dare un giudizio sulla maggiore idoneità dell’uno o dell’altro a governare la Chiesa parrocchiale. Non sempre infatti il più dotto è ritenuto o deve essere ritenuto il più adatto o il più idoneo al governo. Gli autori della Sacra Congregazione e i Tribunali lodarono questa sentenza. Soltanto allora in altre Diocesi è invalso l’uso che fossero proposti a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e casi (per non dare occasione al Cancelliere di aggiungere, togliere o mutare qualcosa di sua iniziativa) e che gli stessi concorrenti scrivessero di proprio pugno domande e risposte. Inoltre gli Ordinari che ritenevano questo metodo di esaminare come il migliore, lasciavano spesso alla Congregazione di vedere se, senza prima richiedere le prove dell’impugnativa, era o no il caso di accordare la convocazione dell’eletto per un nuovo esame a coloro che così esaminati e poi respinti, in seguito sogliono ricorrere in appello: perché questi dagli atti del primo esame potevano facilmente provare l’impugnativa circa la dottrina; cosa che gli altri, esaminati con metodo diverso, naturalmente non potevano fare se non con un secondo o un nuovo esame. Né mancarono uomini insigni per onestà ed esperienza in una lunga e lodevole amministrazione delle Chiese, i quali facevano notare che era ora di mettere un freno alla licenza degli appellanti e di moderare le già troppo frequenti convocazioni a un nuovo esame, che non si fanno quasi mai senza grave danno delle Chiese. Infatti quando si deve fare un nuovo esame davanti a un giudice di appello molto lontano dalla parrocchia, l’eletto dal Vescovo, in quanto convocato, è costretto per tutto quel tempo ad abbandonare la parrocchia e a lasciarla a un Economo o a un Vicario, come una sposa a degli sconosciuti, mentre lui, lo sposo, se ne starebbe lontano non momentaneamente, ma per molto tempo; perché la lite di solito è complessa e gli esami prima circa l’eccellenza della dottrina, poi circa le altre qualità atte a integrare l’idoneità, si moltiplicano puntigliosamente gli uni sugli altri, tre o quattro alla volta, e si trascinano a lungo con comodo, per non dire con ozio, prima di decidere a chi dei concorrenti aggiudicare la parrocchia.

Per togliere di mezzo l’occasione sia di lamentele sia di disagi, la Sacra Congregazione Interprete del Concilio di Trento, dopo aver ripassato dall’inizio tutta la faccenda in due sessioni, il 1° ottobre e il 16 novembre del 1720, ha ribadito con forza (ciò che vien messo in atto per mezzo della presente Lettera Enciclica) che tutti e singoli Vescovi e gli altri Prelati che hanno il diritto e l’autorità di fare concorsi, sono esortati a non rifiutarsi a istituire tale esame, come già lo fanno molte Diocesi e la stessa Roma; così lo richiede anche la Dataria Apostolica quando, vacante la Sede, è vacante anche qualche Chiesa parrocchiale, la cui assegnazione spetta alla Sede Apostolica, o quando è vacante una qualche parrocchia “iuxta Decretum”, come si dice, o quando infine, vacante una qualche Dignità maggiore nelle Chiese Collegiali o Cattedrali, alla quale è annessa la cura delle anime, si deve fare un concorso che, come è noto, deve essere rimesso alla Dataria Apostolica, come è chiaramente prescritto nelle Lettere che per ordine del Santissimo provengono appunto dalla Dataria.Pertanto, vacante una Chiesa parrocchiale che deve essere assegnata per concorso indetto con le solite formule, per decreto della Sacra Congregazione si osservi con risoluta decisione quanto segue:

Primo: si assegnino a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e casi e lo stesso testo del Vangelo sul quale comporre un piccolo brano di predica, per dimostrare la capacità di parlare davanti a un’assemblea.

Secondo: i casi e i quesiti da risolvere siano dettati a tutti nello stesso tempo e a tutti ugualmente sia consegnato nello stesso tempo il testo del Vangelo.

Terzo: si stabilisca per tutti lo stesso spazio di tempo entro il quale risolvere i casi, rispondere ai quesiti e comporre il discorsetto.

Quarto: tutti i concorrenti siano chiusi nella stessa stanza, da cui, finché scriveranno (si darà infatti a tutti la possibilità di scrivere), nessuno di loro possa uscire né altri entrarvi, se non dopo aver completato e consegnato lo scritto.

Quinto: tutti, ciascuno con la propria mano, scrivano e firmino le risposte e il discorso.

Sesto: le risposte si scrivano in latino, il discorso nella lingua che si suole usare con il popolo.

Settimo: ogni risposta e ogni discorso, quando verranno presentati da uno dei concorrenti, siano firmati non solo da chi ha scritto e dal Cancelliere del concorso, ma anche dagli esaminatori e dall’Ordinario o dal suo Vicario che interverranno al concorso.

Terminato il concorso secondo questa formula e assegnata la Chiesa parrocchiale a chi sarà giudicato più idoneo e più degno, non si ammetta appello o contro una inesatta relazione degli esaminatori o contro un irragionevole giudizio del Vescovo, a meno che non venga interposto entro dieci giorni dal giorno dell’assegnazione.

Se qualcuno poi ricorrerà in appello entro questo spazio di tempo e chiederà che siano mandati al giudice di appello gli atti del concorso, si mandino o gli stessi atti originali del concorso chiusi e sigillati o almeno una copia autentica preparata dal Cancelliere del concorso e da un secondo notaio e ascoltata davanti al Vicario o ad un altro costituito in dignità ecclesiastica, eletto dall’Ordinario e al quale spetterà anche l’elezione del notaio aggiunto al Cancelliere. La copia sarà firmata dagli esaminatori sinodali che furono presenti al concorso.

Chi, esaminato secondo quanto è stato detto prima, dopo aver interposto l’appello contro l’inesatta relazione degli esaminatori o contro un ingiustificato giudizio del Vescovo, non riuscirà da questi atti o dalla loro autentica copia a provare se non l’impugnativa circa la dottrina, inutilmente chiederà alla Sacra Congregazione la facoltà di procedere a un nuovo esame.

Come pure inutilmente cercherà di perseguire il proprio diritto nel giudizio d’appello chi si lamenta di essere contestato quanto alle altre doti, a meno che, dopo aver interposto a tempo opportuno, come è stato detto, l’appello contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, non riuscirà a dimostrare dagli atti del primo concorso o almeno con testimonianze e documenti extragiudiziali, purché non futili, l’impugnativa circa le altre doti.

Così ritenne la Sacra Congregazione e il Santissimo approvò. Ma se qualche Ordinario, nonostante tutto, continuerà a istituire gli esami diversamente da come è stato detto sopra, anche la Sacra Congregazione continuerà secondo la precedente consuetudine a concedere agli appellanti che si diranno contestati la convocazione a un nuovo esame e senza dover prima provare l’impugnativa. Intanto perché il ricordo di questa Lettera non svanisca, la Sacra Congregazione vuole che essa sia sempre conservata nella Cancelleria di ciascun Ordinario. Mentre notifico a tutti la decisa volontà della Sacra Congregazione, invoco sulla tua Eccellenza ogni bene dal cielo. Roma, oggi 10 gennaio 1721.

Della tua Eccellenza

Come Fratello

P.M. Card. Corradino Prefetto

P. Lambertini Segretario

8. Quanto abbia giovato la salutare istituzione delle leggi sopraddette nell’assegnare rettamente gli uffici ecclesiastici, nell’amministrazione della giustizia, nel comporrei dissidi, nel mantenere i Chierici nel loro ministero, lo abbiamo sperimentato più che a sufficienza quando personalmente abbiamo abbracciato con paterno amore la nostra Sposa, la Chiesa di Ancona prima, e poi quella di Bologna. Appunto perché forti dell’aiuto di queste leggi, abbiamo preposto alle parrocchie e alla cura delle anime i più degni. E ciò accadde, con la benedizione del Signore, con così grande consenso delle anime, che nessuno si è mai lamentato che il premio di un posto più elevato sia stato dato a una persona meno degna o il governo di una Chiesa sia stato ingiustamente affidato ad altri.

9. Ma siccome da certi indizi sappiamo che non così è capitato ad altri Vescovi, ché anzi non mancano coloro che, sviati da privati interessi, presumono spesso di evitare e confutare il giudizio episcopale, Noi solleciti di adempiere, come si deve, da parte Nostra al Nostro ufficio, pensammo di dover aggiungere alcune cose alla sopraccitata Lettera e spiegare più chiaramente altre che vi sono poste come tra le righe e in conciso, perché tutto si svolga rettamente e con ordine.

10. Con dispiacere dunque abbiamo sentito che in molte Diocesi, benché sia stata accolta la lodevole consuetudine, che va custodita con fermezza, di redigere per iscritto l’esame dei concorrenti, tuttavia i voti degli esaminatori sono puntati solo sulla bravura letteraria e non si cerca il loro parere circa l’età, formazione, gravità, bontà di costumi, prudenza dei Chierici, circa gli uffici prima svolti e se, infine, siano in grado di aiutare con le parole e con l’esempio le proprie pecore. Quanto sia lontana questa prassi dalla via indicata dal Concilio di Trento, lo capirà chiaramente chi pondererà le seguenti parole: “Fatto l’esame, siano notificati quanti sono stati da loro giudicati idonei per costumi, dottrina, prudenza e per altre doti opportune per governare la Chiesa vacante” (Conc. Trid., sess. 18, cap. 24, De Reformatione). Essendo bene al corrente di ciò, la Sacra Congregazione Interprete dello stesso Concilio, dichiarò più volte che gli esaminatori mancano al loro dovere se sono solo giudici di dottrina e non indagano quali fra gli altri sono idonei e raccomandabili per bontà di costumi, laboriosità, ossequio verso la Chiesa e per altre doti necessarie nel loro insieme a esercitare l’ufficio di parroco.

11. Terminato l’esame, come è noto a tutti, gli esaminatori hanno soltanto la facoltà di notificare quanti hanno giudicato idonei a governare la Chiesa, perché l’elezione del più degno è riservata al solo Vescovo, come è stato sancito dal Concilio di Trento con queste parole: “Di questi il Vescovo elegga colui che giudicherà più idoneo degli altri“. Nel caso che qualcuno dei Chierici ricorra in appello contro una inesatta relazione degli esaminatori, la cui unica preoccupazione è stata di assodare la dottrina, senza aver fatto nello stesso tempo un’accurata indagine sulle altre doti necessarie all’ufficio di Pastore, l’ordine del giudizio comporterà di conseguenza che anche il giudice, a cui si è ricorso, si fermi alla sola indagine sulla dottrina; che non senza grave danno delle anime e offesa della giustizia, sia preposto alla Chiesa chi sa di lettere, anche se nel resto è meno adatto e, a volte, indegno; e che, viceversa, sia respinto chi, anche se scadente in dottrina, eccelle, però, in costumi, gravità, prudenza, nel buon nome, in un costante servizio della Chiesa e in grande stima di virtù.

12. Inoltre non sembrasi sia fatta molta strada per estirpare gli abusi, quand’anche tanto il Vescovo, come gli esaminatori, con eguale sollecitudine abbiano messo ogni sforzo nell’assegnare con parere unanime la Chiesa a una persona che, anche se inferiore ad altri per scienza e lettere, si distingue però per il complesso di tutte le altre doti. Infatti il respinto, fidandosi troppo della propria dottrina, non di rado prima ricorre in appello contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, poi, dopo aver deferito la causa al giudice di appello, si dà tutto ad acquisire ancor più dottrina e a ribattere l’impugnativa di letterato, senza mai dar alcun peso alle altre doti che si desiderano nell’appellante. I vigilanti Pastori delle Chiese deplorano moltissimo il risultato di tale appello e soffrono nel loro intimo che il governo delle parrocchie sia affidato, come è stato detto, a pastori dotti, non a pastori adatti.

13. Ma quand’anche il giudice di appello desse (cosa che avviene raramente) tanta importanza alla scienza quanto basta, e con maggiore e più accurato esame volesse indagare sui costumi, sulla gravità, sulla prudenza delle persone, sui loro esempi di virtù e infine su tutta la loro vita precedente, se adatta a pascere il gregge, l’appellante gli presenta tante di quelle attestazioni raccolte a bella posta, che il giudice, revocando come irragionevole il giudizio del Vescovo, non teme di dare una mano all’appellante, sorretto da tanti e così ragguardevoli attestati di probità.

14. Infine spesso capita specialmente ai Vescovi che, posti come sono in alto, conoscono le trasgressioni dei sudditi, di vedere che nel concorso gli esaminatori dichiarano idoneo per scienza e per costumi chi è profondamente segnato da marchio di vizio o di crimine, ignoto a tutti eccetto che al Vescovo. Se il Vescovo, per giusto motivo, senza rivelare il crimine, elegge un altro di buona condotta, trascurando in silenzio il colpevole, questi subito con simulata impugnativa si appella a un giudice superiore ignaro del crimine; così, con il solito espediente dell’appello, viene innalzato alla dignità pastorale chi è in grado non di aver cura del popolo, ma di nuocergli, non di garantire il governo, ma di peggiorarlo.

15. Perché dunque uomini di animo cattivo non trasformino il rimedio dell’appello istituito per difendere la giustizia in un mezzo di difesa dell’iniquità, ad alcuni forse sembrerebbe ottima cosa abolire ogni appello e lasciare la cura di designare i Rettori delle anime solo ai Vescovi, che renderebbero conto del loro operato solo a Cristo giudice. In verità non possiamo assolutamente approvare questa tesi (che sarebbe contraria alla mente del Concilio di Trento) che tacitamente permette l’appello “in devolutivo” contro l’inesatta relazione degli esaminatori, come sembrano indicare quelle parole: “Nessuna devoluzione e nessun appello interposti anche alla Sede Apostolica, o ai Legati della stessa Sede, Vice Legati o Nunzi, o ai Vescovi, Metropoliti, Primati o Patriarchi, possono mai sospendere o impedire che la relazione dei predetti esaminatori abbia il suo corso“.

Con tale decisione è d’accordo anche la Costituzione Piana, che ammette l’appello “in devolutivo” contro l’irragionevole giudizio del Vescovo.

16. Perciò, affinché in questo affare tutto proceda rettamente e ordinatamente, pensammo che è proprio del Nostro Ufficio, Venerabili Fratelli, prescrivere quelle norme che per lunga esperienza abbiamo riconosciute valide a formare i Rettori delle anime, perché possano presiedere e giovare al gregge loro affidato.

I. Il Vescovo, avuta la notizia di una Chiesa vacante, vi deputi subito un Vicario idoneo secondo il prescritto del Tridentino, con una congrua assegnazione, a sua discrezione, di una parte dei proventi per il sostentamento della Chiesa finché non le si provveda un Rettore.

II. Si divulghi con bando pubblico la notizia del concorso, che deve essere celebrato in un congruo spazio di tempo, stabilito dal Vescovo. Nel bando si avvertano tutti e chiaramente di presentare, nel termine stabilito, al Cancelliere Vescovile o ad un altro da designarsi dal Vescovo prove, attestazioni giudiziali ed extragiudiziali e altri documenti del genere immuni da frode. Diversamente, trascorso il termine stabilito, tali documenti e altri del genere, non saranno in nessun modo accettati.

III. Arrivato il giorno del concorso, si mettano per iscritto e in compendio, redatti dal Cancelliere, i meriti, le doti e i requisiti (come li chiamano) dei singoli, desunti con assoluta fedeltà dai certificati presentati in tempo utile. Poi una copia del compendio sarà consegnata non solo al Vescovo o al Vicario Generale che ne fa le veci, ma singolarmente a tutti gli esaminatori invitati al concorso, perché diano il loro giudizio sia sulla scienza, sia sulla vita, costumi e altre doti necessarie a governare la Chiesa.

IV. Il concorso si tenga nel giorno stabilito dal Vescovo, osservando accuratamente e in tutto la forma descritta nella Lettera sopra riferita e pubblicata nel 1721; e si esponga minutamente e con diligenza e per iscritto tutta la serie degli atti del concorso. Poi gli esaminatori, per arrivare a un giudizio abbastanza sicuro e chiaro, valutino diligentemente la bravura dei singoli nello svolgere e spiegare a voce qualche punto della Dottrina ecclesiastica, o estratto dai SS. Padri, o dal Sacro Concilio di Trento, o dal Catechismo Romano; e con la stessa diligenza esaminino dai singoli scritti le risposte date ai quesiti proposti; si rendano conto di quanto ciascuno valga nella ponderatezza dei giudizi e nella correttezza di espressione del sermoncino messo per iscritto, e di come è stato adattato al testo evangelico e all’altro tema assegnato. Pari, se non maggiore, accortezza usino gli esaminatori nell’indagare sulle altre qualità necessarie al governo delle anime; indaghino sulla bontà dei costumi, sulla serietà, sulla prudenza, sull’ossequio fino allora prestato alla Chiesa, sul merito acquisito in altri incarichi e sul corredo di tante altre virtù che vanno strettamente congiunte con la dottrina. Dopo aver esaminato tutto in comune, respingano con il loro voto gli inadatti e notifichino al Vescovo gli idonei.

V. Terminato il concorso, il Vescovo, o se egli è impedito, il Vicario Generale insieme con gli esaminatori sinodali, in numero non meno di tre, consegni la scheda, distribuita in antecedenza, riassuntiva dei requisiti, al Cancelliere perché la bruci o la custodisca in un luogo segreto insieme con gli atti e non la mostri a nessuno senza un mandato del Vescovo o del suo Vicario Generale. Subito dopo l’Ordinario, appena gli sembrerà meglio, elegga tra gli approvati il più degno e il possesso [della Chiesa] non gli sia ritardato da nessun pretesto di appello o di divieto.

VI. Se accadrà che qualcuno dei Chierici ricorra in appello contro l’inesatta relazione degli esaminatori o contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, produca davanti al giudice di appello gli atti integrali del concorso. E il giudice non pronunci la sentenza se non dopo averli visti e aver ravvisato l’impugnativa. Inoltre, nel dare la sentenza e nel risolvere l’impugnativa si basi solo sulle prove che risultano dagli atti, sia riguardo alla dottrina, sia riguardo ad altre doti. Siccome poi dalla pubblica indizione [del concorso] fino al giorno del concorso c’è tempo sufficiente per presentare comodamente i necessari certificati, referenze, requisiti e altri documenti in merito, perciò, per precludere ogni via di frode, vogliamo e rigorosamente ordiniamo che detti certificati, referenze, attestati giudiziali ed extragiudiziali e tutti i documenti recuperati ad arte e, come si dice, pescati dopo il concorso, non vengano in nessun modo presi in considerazione. Ciò, nonostante la Lettera ricordata sopra, pubblicata dalla Sacra Congregazione Interprete del Concilio di Trento nel 1721, alla quale deroghiamo in questa parte ad effetto di ciò che è stato premesso, e la quale nel resto e con tutto il suo contenuto rimarrà saldamente in vigore.

VII. Se poi il Vescovo, invece che a uno o ad un altro degli approvati, assegnerà la Chiesa a uno più idoneo per una ragione a lui solo nota, e che pensa di dover notificare al giudice di appello per togliere la taccia di una ingiusta preferenza, ne informi il giudice con una lettera privata, ricordando la legge del segreto inviolabile. Nessuno attribuisca questa prassi alla nostra circospezione: essa deriva da Decreti del Concilio di Trento. Infatti nella sess. 24, cap. 20, “De Reformatione” è così stabilito: “Inoltre se qualcuno, nei casi previsti dal diritto, ricorrerà in appello, o si rammaricherà per qualche impugnativa o altrimenti per la scadenza del biennio, di cui sopra, ricorrerà ad un altro giudice, è tenuto a trasferire al giudice di appello e a sue spese tutti gli atti svoltisi davanti al Vescovo, Avvertendo tuttavia prima il Vescovo che se qualcosa gli sembrerà utile per l’istruzione della causa, la possa notificare al giudice di appello” (Conc. Trid., sess. 24, cap. 20).

E benché a ragione Noi dobbiamo temere che detta prassi una volta in uso di avvertire il giudice, a cui si è appellato, sia oggi caduta in disuso e scomparsa dal Foro [ecclesiastico], tuttavia, se il Vescovo (come è stato detto) per una ragione a lui solo nota e non agli altri, ma che merita di essere accolta, avrà assegnato la Chiesa, denunci e manifesti la ragione al giudice di appello per mezzo di lettera consegnata in segreto. Sappiano poi i giudici che le cause e le ragioni deferite dal Vescovo devono essere custodite sotto garanzia di segreto inviolabile; né si deve tenere in poco conto la testimonianza di quel Pastore, al quale con parola divina si ingiunge di distinguere le proprie pecore. Infatti non si può credere facilmente che i Vescovi siano così non curanti della propria e altrui salvezza, da lasciarsi influenzare dall’avversione o dal favore, per nulla atterriti dalla minaccia del divino giudizio, e da chiamare, in sfregio ai sacri Canoni, “male il bene, bene il male, tenebre la luce e luce le tenebre.

Se poi il Vescovo avrà dei sospetti sulla coscienziosità del giudice al quale si è ricorso in appello, e penserà di non dovergli rivelare i punti riservati delle ragioni, li notifichi per mezzo di lettera segreta al Cardinale della S.R.C., Prefetto pro tempore della Congregazione del Concilio, al quale non mancheranno né saggezza né autorità per indurre il giudice a dare il dovuto posto alla giustizia.

17. Siccome è conveniente anche per l’equità portare a termine nel più breve tempo possibile le cause di appello che con grande scapito e danno della Chiesa sono a volte interminabili, perciò, quando è stata proferita dal giudice di appello una sentenza del tutto conforme alla preelezione fatta dal Vescovo, non si dia altra possibilità di un nuovo ricorso in appello, ma si intervenga d’autorità a por fine alla controversia. Se invece il giudice di appello si pronunciasse diversamente dall’Ordinario, sia lecito al preeletto dal Vescovo che perse la causa, ricorrere ad un altro giudice, mantenendo intanto il possesso della Chiesa parrocchiale. Finalmente, dopo che anche il terzo giudice avrà detto la sentenza, affinché le parti non siano gravate oltre il limite di fatiche e di spese, soprattutto perché si tratta della cura di anime, per la quale è dannoso non avere il conforto di un Pastore fisso, abbia il legittimo diritto di governare la Chiesa colui che ha a suo favore due sentenze, e non si lasci all’eliminato nessuna possibilità di un nuovo ricorso in appello.

18. In verità con queste norme, benché l’appello non sia stato abolito, pensiamo si sia sufficientemente provveduto alla disciplina ecclesiastica. Rimane una cosa sola: che cioè i mezzi fin qui proposti siano debitamente messi in atto, e che a tal fine gli Ordinari dei Luoghi non lascino desiderare la loro vigilanza. Sarebbe inammissibile che ogni giorno venissero deferite nuove querele all’udienza del nostro Ufficio Apostolico e che, per togliere gli abusi, si invocassero nuove leggi da coloro che trascurano e disprezzano quelle che già ci sono.

19. Infine, siccome e non di rado è la Sede Apostolica a conferire Chiese parrocchiali, Dignità, Canonicati e altri Benefici a cui è annessa la cura delle anime, o perché sono rimasti vacanti nei mesi riservati, o perché per altro motivo sono stati riservati alla detta Sede, Noi, sulle orme dei Nostri Predecessori, prescriviamo e ordiniamo che in un caso o nell’altro il concorso sia indetto dal Vescovo senza distinzione alcuna, e senza bisogno di alcun permesso o licenza, e i Vescovi sappiano che è loro stata data con questa nostra Lettera.

20. Terminato il concorso, se si tratta di Benefici Curati, “che sono riservati solo per ragione di mesi“, il Vescovo elegga tra gli approvati il più idoneo e lo comunichi alla Dataria senza trasmettere gli atti, a meno che la Dataria non giudichi opportuno richiederli. Se invece i detti Benefici a cui è annessa la cura delle anime sono riservati alla Santa Sede per altro motivo che non sia quello “dei mesi apostolici“, in questo caso, senza cambiare il vecchio uso, il Vescovo si astenga dal pronunciare il giudizio del più degno e presenti spontaneamente alla Dataria gli atti del concorso.

21. Sarà lecito tuttavia agli Ordinari, a loro arbitrio, con lettere indirizzate al Datario notificargli la persona che giudicano più idonea a governare la Chiesa, e avvertirlo se ci fosse qualche motivo occulto, e giustamente taciuto negli atti, che sia di impedimento a qualcuno di ottenere un Beneficio Curato. Noi stessi in seguito da questa Sede, Guida e Maestra di tutti, insegneremo con un luminoso esempio come si deve stimare il giudizio episcopale e come onorare Voi, chiamati a far parte della Nostra sollecitudine, Venerabili Fratelli, ai quali intanto impartiamo con grande affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 14 dicembre 1742, terzo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica negli anni in cui la Pasqua cade il 24, o il 25 Aprile si anticipa al Sabato (rispettiv. 19, 20 Nov.) con tutti i privilegi della Domenica occorrente, cioè Gioria, Credo, Prefazii della Trinità e Ite Missa est per lasciar luogo rispettivamente nei giorni 20, 21 Novembre alla Domenica ultima dopo Pentecoste. Il tempo dopo Pentecoste è simbolo del lungo pellegrinaggio della Chiesa verso il cielo; le ultime Domeniche ne descrivono profeticamente le ultime tappe. In quest’epoca si leggono nel Breviario gli scritti dei grandi e dei piccoli profeti, che annunziano quello che accadrà alla fine del mondo. Quando i Caldei ebbero condotti gli Ebrei in cattività a Babilonia, Geremia percorse le rovine di Gerusalemme, ripetendo le sue Lamentazioni « Guarda, Signore, poiché è caduta nella desolazione la città che una volta’ era piena di ricchezza, la padrona delle nazioni è assisa nella tristezza. Essa amaramente piange durante la notte e le sue lagrime scorrono sulle sue gote » (3° Responsorio, 1a Dom. Nov.; Antit. del Magnificat, 2a Dom.). E profetizzò il doppio avvento del Messia che restaurerà tutte le cose. « Il Signore ha riscattato il suo popolo e lo ha liberato; e verranno ed esulteranno sul monte Sion e si rallegreranno dei beni del Signore» (1° Responsorio, lunedì 2a settimana). Fra i prigionieri condotti a Babilonia si trovava un sacerdote detto Ezechiele. Egli aveva annunziato la cattività che stava per ricadere su Israele: « Ora la fine è su di te e manderò contro di te il mio furore; e ti giudicherò secondo la tua vita e non avrò pietà » (1a Lezione, Mercoledì, 1a settimana). E nell’esilio egli profetizzò: « Le nostre iniquità e i nostri peccati sono sopra di noi; come dunque possiamo vivere? Ma il Signore ha detto: Non voglio la morte dell’empio, ma che egli si tolga dalla cattiva strada e viva. – Distoglietevi dalle vostre male vie e non morrete » (3a lezione, Lunedì 2a settimana). Dio mostrò al profeta in una visione, il futuro su di un’alta montagna e gli indicò il culto perfetto che Egli attendeva dal suo popolo quando lo condurrebbe verso i colli eterni di Sionne (7a lezione Venerdì 2a settimana). Daniele, che era pure tra i prigionieri di Babilonia, spiegò il sogno di Nabucodonosor, dicendo che la piccola pietra che, dopo aver fatto cadere la statua d’oro, d’argento, di ferro e di argilla, diventò una grande montagna, è figura di Cristo, il regno del quale, consumerà tutti gli altri regni e sussisterà eternamente (Lunedì 3° settimana). – Le guarigioni e le risurrezioni corporali, compiute dal Signore, sono la figura della nostra liberazione e della nostra risurrezione futura: Da tutte le parti ricondurrò i prigionieri » dice Geremia nell’Introito «Tu hai fatto cessare la cattività di Giacobbe» aggiunge il Versetto dell’Introito «Signore, tu ci hai liberato da coloro che ci odiavano » continua il Graduale. « Dal fondo dell’esilio le nazioni hanno infatti gridato verso il Signore, supplicandolo di ascoltare la loro preghiera » spiegano l’Alleluia e l’Offertorio e, come in Dio vi è un’abbondante redenzione, egli riscatterà il suo popolo da tutte le sue iniquità » (stesso Salmo, vers. 7 e 8). Preghiamo dunque con fiducia, poiché se Gesù risuscitò la figlia di Giairo e guarì l’emorroissa, ciò fu fatto secondo la parola del Signore: « Tutto quello che domanderete, lo riceverete ».

Quale terrore quando il giudice verrà ad esaminare rigorosamente ognuno! dice la Sequenza dei Defunti. La tromba squillerà fra le tombe e convocherà tutti gli uomini davanti al Cristo. La morte e la natura resteranno interdette quando la creatura risorgerà per rispondere al giudizio divino. Allorché l’eterno Giudice siederà sul suo seggio, tutto quello che è nascosto sarà palesato e nulla resterà impunito. Giusto Giudice, nella tua clemenza accordami grazia e perdono prima del giorno del rendiconto». Nelle ultime parole dell’Epistola odierna, l’Apostolo allude al libro di vita ove sono scritti i nomi dei Cristiani che la loro condotta esemplare rende degni della vita eterna.

Gesù resuscita la figlia di Giairo con la stessa facilità con la quale noi svegliamo una persona che dorme. Così la sua divin virtù resusciterà i nostri corpi l’ultimo giorno.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio

Orémus.
Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fraglitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.

[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Phil III: 17-21; IV: 1-3

Fratres: Imitatóres mei estóte, et observáte eos, qui ita ámbulant, sicut habétis formam nostram. Multi enim ámbulant, quos sæpe dicébam vobis – nunc autem et flens dico – inimícos Crucis Christi: quorum finis intéritus: quorum Deus venter est: et glória in confusióne ipsórum, qui terréna sápiunt. Nostra autem conversátio in cœlis est: unde etiam Salvatórem exspectámus, Dóminum nostrum Jesum Christum, qui reformábit corpus humilitátis nostræ, configurátum córpori claritátis suæ, secúndum operatiónem, qua étiam possit subjícere sibi ómnia. Itaque, fratres mei caríssimi et desideratíssimi, gáudium meum et coróna mea: sic state in Dómino, caríssimi. Evódiam rogo et Sýntychen déprecor idípsum sápere in Dómino. Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas, quæ mecum laboravérunt in Evangélio cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ.

(“Fratelli: Siate miei imitatori, e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi. Poiché ci sono molti dei quali spesse volte vi ho parlato; e adesso vene parlo con lacrime, i quali si diportano da nemici della croce di Cristo: la loro fine è la perdizione; il loro Dio è il ventre: si vantano in ciò che forma la loro confusione, e non han gusto che per le cose terrene. Noi, invece, siamo cittadini del cielo, da dove pure aspettiamo, come Salvatore, il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso; per quella potenza che ha di poter anche assoggettare a sé ogni cosa. Pertanto, miei fratelli carissimi e desideratissimi, mio gaudio e mia corona, continuate a star così fermi nel Signore, o amatissimi. Prego Evodia ed esorto Sintiche ad avere gli stessi sentimenti nel Signore. E prego anche te, fedel compagno, di venir loro in aiuto: esse hanno combattuto con me per il Vangelo, insieme con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita”.).

OMELIA I

LA MORTIFICAZIONE CRISTIANA

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

S. Paolo, prima di chiudere la lettera ai Pilippesi, li esorta a conseguire la perfezione cristiana. Per raggiungere questo ideale, cerchino di imitare lui e quelli che vivono seguendo il suo esempio; e non badino a quei Cristiani che tengono una condotta affatto contraria alla mortificazione, che ci è predicata dalla croce di Gesù Cristo. Non si dimentichino, che la fine di costoro è la morte eterna. Noi dobbiamo tenere tutt’altro contegno. Centro dei nostri pensieri e dei nostri affetti è il cielo: là dev’essere la nostra vita. Di là aspettiamo Gesù Cristo, che verrà a renderci perfettamente beati, trasformando il nostro vile corpo sul modello del suo corpo glorioso. – Stiamo, dunque, uniti fortemente a Dio. Raccomanda poi la concordia tra Evodia e Sintiche, e prega un suo collaboratore d’aiutarle a questo scopo. – La mortificazione, che ci è predicata dalla croce di Cristo:

1°) è propria dei Cristiani che voglion praticar la virtù,

2°) Non esser nemici della croce,

3°) Non scambiare l’esilio con la patria.

1.

Fratelli: Siate miei imitatori e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi.

Questo invito di S. Paolo era molto importante per i Filippesi, perché non mancavano esempi di cattivi Cristiani, i quali facevano loro Dio il ventre, e si vantavano in ciò che formava la loro confusione, col condurre una vita sontuosa e lussuriosa. L’avvertimento vale anche per tutti noi. Ci sono tanti Cristiani, che al solo pensiero di condurre una vita mortificata, come era quella di S. Paolo e dei suoi seguaci, si spaventano. Non è più comoda la vita di coloro, che mangiano e bevono lautamente, e si godono tutti i piaceri? Sarà una vita più comoda; ma poco cristiana. Niente è più discorde dalla vita cristiana che consumare il tempo nei banchetti, o nel dolce far nulla, e godersi i piaceri. – Gesù Cristo da coloro che vogliono essere suoi seguaci chiede qualche cosa di diverso. A chi vuol portare il suo nome, ed essere suo discepolo chiede la mortificazione. E S. Paolo ci dice molto chiaramente di che mortificazione si tratta : « Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne coi vizi e con le concupiscenze » (Gal. V, 24). Non è questa la mortificazione che, in alcune circostanze e per certi motivi, ammette anche il mondo: mortificare gli eccessi della gola quando potrebbero essere nocivi: ma finché non sono nocivi, passino: mortificare la sensualità quando ne va di mezzo la salute; reprimere l’ira e soffocare i sentimenti di vendetta, quando ci possono portare ad azioni che incorrono nel codice, ecc. La mortifìcazione cristiana è assai più estesa e parte da motivi ben più nobili. Il Cristiano deve percorre la via delle virtù: la mortificazione gli serve per togliere gli ostacoli, che cercano di impedirgli questo cammino, come insegna Gesù Cristo: «Se il tuo occhio destro ti scandalizza, devi cavartelo e gettarlo lontano da te; è molto meglio che perisca un solo tuo membro, piuttosto che venga buttato nella Gehenna l’intero tuo corpo. E se la tua mano destra ti scandalizza, tagliala e gettala via; è meglio per te perdere un solo membro che esser buttato nella Gehenna con tutto il tuo corpo» (Matt. V, 29-30). – Base delle virtù è l’umiltà. Ma la pratica dell’umiltà non è altro che la mortificazione dell’amor proprio, della suscettibilità, della boria ecc. Chi vuol esser generoso verso i poveri deve mortificare la brama delle ricchezze. Chi vuol essere casto deve mortificare i propri occhi, le proprie orecchie, la propria carne. Non si può esser pazienti, senza reprimere i moti d’ira, di sdegno, di ribellione, che ci assalgono per un’ingiuria ricevuta, una contrarietà, una disgrazia. Non si può perdonare ai nemici senza combattere lo spirito di risentimento e di vendetta. Non si può lavorar seriamente al servizio di Dio, senza vincere l’accidia. Le passioni cercano di aver il dominio sulla volontà; il seguace di Gesù Cristo mortifica le passioni per poter sottometterle alla volontà. Chi non sa domare un focoso puledro sarà da lui sbattuto a terra, calpestato, trascinato. Trattandosi delle pretese della nostra corrotta natura, o calpestarle o lasciarsi da esse calpestare. Non potremo mai essere virtuosi senza calpestare i vizi opposti alle virtù. Perciò è assolutamente necessaria al Cristiano la mortificazione, con la quale « s’indice la guerra ai vizi, s’aumenta il progresso d’ogni virtù » (S. Leone M. Serm. 40, 2).

2.

Di quei cattivi Cristiani che conducevano una vita larga, la quale era di scandalo agli altri, dice S. Paolo che si diportano da nemici della croce di Cristo: « poiché se amassero la croce, procurerebbero di condurre una vita crocifissa » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom, 13, 1). – Gesù Cristo per espiare i nostri peccati mortifica la propria volontà. « Padre mio, — dice incominciando la passione — se è possibile, passi da me questo calice! Tuttavia, non come voglio Io, ma come vuoi Tu» (Matth. XXVI, 39). Fa il sacrificio del suo onore. Tutto sopporta: contraddizioni, ingiurie, calunnie. Il suo corpo è assoggettato alle veglie, ai digiuni, alle fatiche continue dell’apostolato, alle privazioni. Egli può dire: « Le volpi hanno delle tane, e gli uccelli dell’aria hanno dei nidi, ma il Figliuolo dell’uomo non ha dove posare il capo » (Matth. VIII, 20). Alla fine è percosso, ferito, trafitto sopra una croce, Da quel momento la croce è il simbolo dell’espiazione, delle privazioni, del sacrificio, delle rinunce. Ora, chi non sa imporsi un limite nel mangiare e nel bere; chi non sa moderare la sua gola, chi non sa allontanare i suoi sensi da ciò che potrebbe essere materia di peccato, è necessariamente nemico della croce. Chi non sa reggere i moti dell’animo, dominandolo nei turbamenti, negli impeti dell’ira, nella brama di sovrastare agli altri, nella tristezza pel bene altrui, nella contentezza per l’altrui male, è necessariamente nemico della croce. Chi non sa sottoporre la propria volontà alla volontà di Dio, è nemico della croce. – I santi compresero molto bene l’importanza di questa crocifissione corporale e spirituale. Chi fugge dalla croce, fugge la via della salute. Ed essi che ci tenevano tanto alla eterna salute propria e a quella del prossimo, si stimavano felici di poter imitare Gesù Cristo nelle opere di mortificazione interna ed esterna; di poter, per mezzo della mortificazione, raffinarsi nella virtù, espiare le proprie colpe e quelle di tanti infelici, che si dimenticano di essere seguaci di Gesù Cristo. – La vita dei gaudenti anziché far loro invidia, era motivo di grande pena. L’apostolo, parlando di costoro, dice: ve ne parlo con lacrime. La croce di Cristo è loro offerta come mezzo di salvezza, ed essi la rigettano. Che diremmo di uno che, caduto in un burrone, rifiuta di attaccarsi alla corda che gli viene calata; che, travolto dalle onde, respinge la mano che tenta di afferrarlo; investito dalle fiamme, si divincola dalle braccia che l’hanno raccolto per portarlo in salvo? La carne con le sue concupiscenze, il nostro interno con tutte le sue debolezze ci investono, ci travolgono, ci portano alla morte spirituale: la croce delle mortificazioni può liberarcene, e noi la respingiamo. «Si accettano volentieri croci d’oro e d’argento; ma le altre ordinariamente si disprezzano», diceva Santa Maria Maddalena Postel (Mons. Arsenio Maria Legoux. Vita di S. Maria Maddalena Postel. Tradotta dal francese. Roma 1925).  La croce della mortificazione è una delle più disprezzate. Le anime buone hanno ben ragione di piangere, come S. Paolo, sullo stato di coloro che pospongono la croce ai godimenti.

3.

Noi siamo cittadini del cielo. Quaggiù non siamo in casa nostra, siamo esiliati in una valle di lacrime. Il godimento pieno che renderà pago il nostro cuore e felice tutto il nostro essere l’avremo in cielo. Non dobbiam dimenticarci che quaggiù non è il luogo dei godimenti, ma il luogo in cui si meritano i godimenti. Chi si dimentica di questo, non pensa a contrastare e a combattere le tendenze della corrotta natura, e alla fine si accorgerà di aver operato da stolto. Quelli che odiano la mortificazione in questa vita, non faranno mai passaggio dall’esilio alla patria celeste: la loro fine è la perdizione. «Ogni cosa ha il suo tempo stabilito» (Eccles. III, 1). Per i Cristiani il tempo dell’esilio terreno è il tempo stabilito per la propria santificazione, che non si acquista senza una mortificazione continua. Quindi, come osserva S. Agostino, « la nostra occupazione in questa vita è questa: dar morte con lo spirito alle azioni della carne, che dobbiamo affliggere, indebolire, frenare, mortificare» (Serm. 156, 2). Vi è «tempo di guerra e tempo di pace» (Eccles. III, 8). Il tempo del nostro esilio terreno è tempo di guerra continua contro la concupiscenza. Guerra che S. Bernardo chiama « una specie di martirio… più mite di quello in cui vengono tagliate le membra, quanto all’orrore; ma più molesto quanto alla durata » (In Cant. Serm. 30, 11). È una durata che ha termine; è una durata brevissima, se la paragoniamo alla durata della vita celeste; ma la nostra condizione, fin che la vita dura rimane la medesima: una lotta molesta contro le nostre cattive inclinazioni. – Mortificare il proprio corpo, non vuol dire renderlo infelice; tutt’altro. Vuol dire impedirgli la sorte destinata ai corpi dei gaudenti, i quali «fioriscono nel secolo, disseccano nel giudizio, e, dissecati, sono gettati nel fuoco eterno» (S. Agostino. En. in Ps. LIII, 3.). S. Paolo, dopo tanto lavoro per la gloria di Dio e la salvezza delle anime dichiara: «Affliggo il mio corpo e lo riduco in servitù, perché non avvenga che dopo aver predicato agli altri, io stesso sia reprobo» (I Cor. IX, 27). – Mortificare il proprio corpo vuol dire prepararlo a essere circonfuso di splendore e di gloria quando verrà il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso. Questo però avverrà quando l’esilio terreno sarà finito per noi e per tutti i viventi. Finché siamo quaggiù, nostra cura dev’essere questa, di crocifiggere la carne con le sue concupiscenze. Quando gli Ebrei, nell’Egitto, crebbero di numero e di forza, Faraone ne ebbe paura. «Ecco — dice ai suoi — che il popolo dei figli d’Israele è numeroso e più forte di noi. Venite, opprimiamolo con saggezza, affinché non si moltiplichi più». E quando Mosè e Aronne, in nome del Signore, gli chiesero che lasciasse libero il popolo ebreo, risponde: «E quanto si moltiplicherà se date loro qualche sollievo dai lavori?» E dispone di non lasciare, agli Ebrei neppur un momento di respiro (Es. I, 9-10, V, 5 e segg.). È quello che dobbiamo far noi in questa vita: mortificare con saggezza le azioni della carne, perché non prendano il sopravvento; mortificarle sempre appena si manifestano, non lasciando loro un momento di respiro.

 Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno..]

Alleluja

Allelúia, allelúia

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt IX: XVIII, 18-26
In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, ecce, princeps unus accéssit et adorábat eum, dicens: Dómine, fília mea modo defúncta est: sed veni, impóne manum tuam super eam, et vivet. Et surgens Jesus sequebátur eum et discípuli ejus. Et ecce múlier, quæ sánguinis fluxum patiebátur duódecim annis, accéssit retro et tétigit fímbriam vestiménti ejus. Dicébat enim intra se: Si tetígero tantum vestiméntum ejus, salva ero. At Jesus convérsus et videns eam, dixit: Confíde, fília, fides tua te salvam fecit. Et salva facta est múlier ex illa hora. Et cum venísset Jesus in domum príncipis, et vidísset tibícines et turbam tumultuántem, dicebat: Recédite: non est enim mórtua puélla, sed dormit. Et deridébant eum. Et cum ejécta esset turba, intrávit et ténuit manum ejus. Et surréxit puélla. Et éxiit fama hæc in univérsam terram illam.

“In quel tempo, mentre Gesù parlava alle turbe, ecco che uno de’ principali se gli accostò, e lo adorava, dicendo: Signore, or ora la mia figliuola è morta; ma vieni, imponi la tua mano sopra di essa, e vivrà. E Gesù alzatosi, gli andò dietro co’ suoi discepoli. Quand’ecco una donna, la quale da dodici anni pativa una perdita di sangue, se gli accostò per di dietro, e toccò il lembo della sua veste. Imperocché diceva dentro di sé: Soltanto che io tocchi la sua veste, sarò guarita. Ma Gesù rivoltosi e miratala, le disse: Sta di buon animo, o figlia; la tua fede ti ha salvata. E da quel punto la donna fu liberata. Ed essendo Gesù arrivato alla casa di quel principale, e avendo veduto i trombetti e una turba di gente, che faceva molto strepito, diceva: Ritiratevi; perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Ed essi si burlavano di lui. Quando poi fu messa fuori la gente, egli entrò, e la prese per una mano. E la fanciulla si alzò. E se ne di volgo la fama per tutto quel paese”

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra l’impurità.

Mulier quæ sanguinis fluxum patiebatar duodecim annis, accessit retro, et tetigit fimbriam vestimenti eius.

Degno era veramente di compassione lo stato di questa donna, fratelli miei, poiché già da anni dodici era essa da pericolosa malattia afflitta. Ma quanto fu grande ed efficace la sua confidenza per ottenere ciò che domandava! Persuasa del potere di quest’uomo-Dio sopra le malattie del corpo, non credette ella che fosse necessario d’indirizzare a Lui, come agli altri, la sua preghiera; o che Egli imponesse le mani su di essa , come quel capo della Sinagoga (di cui si parla nello stesso Vangelo) lo pregava di fare sulla sua figliuola che poco prima era morta. Purché ella possa attraversare la folla da cui Gesù Cristo è attorniato e toccar solamente il lembo delle sue vestimenta, ella crede che sarà guarita. Quindi prova ella quel che possa presso di un Dio sommamente benefico una viva ed umile confidenza. Essa riceve la guarigione della sua malattia e merita per la sua fede gli elogi di Gesù Cristo medesimo. Donna, abbi confidenza; la tua fede ti ha risanata: Confide, fides tua le salvam fecit. – La malattia di questa donna, che la caricava di confusione a cagion dell’impurità legale che portava seco, ce ne rappresenta, fratelli miei, una molto più ignominiosa che infetta un gran numero d’anime nel seno di una religione che non soffre impurità alcuna. Voi comprendete senza dubbio questo soggetto che io non oso quasi spiegarvi; poiché egli è un peccato che il grande Apostolo ci proibisce di nominare; eh! piacesse a Dio che non fossi obbligato di parlarne, poiché non si può farlo senza tema di offendere le orecchie caste, ed imbrattare l’immaginazione col racconto di cose, cui non si dovrebbe giammai pensare. Io serberei volentieri il silenzio sopra una materia sì critica, se il mio ministero non mi obbligasse a destarvi orrore di un mostro che fa tante stragi, di un male i cui progressi sono sì estesi e che precipita un sì gran numero d’anime nell’inferno. – Facciamo dunque tutti i nostri sforzi per rimediare ad una malattia così contagiosa com’è il vizio dell’impurità. Per riuscirvi, bisogna farvene conoscere la cagione e temere gli effetti: da un canto voi vedrete quanto è facile il cadervi; e dall’altro quanto è funesto l’esservi involto. Quali sono le cagioni del peccato d’impurità; primo punto. Quali ne sono gli effetti; secondo punto. Egli è facile commetterlo; bisogna dunque usare molta precauzione per non cadervi: egli è un gran male averlo commesso; bisogna usare dei rimedi necessari per guarirsene. Questo è il frutto che mi propongo di farvi raccogliere da questa istruzione. Domandiamo a Dio che purifichi le nostre labbra, come fece altre volte quelle di un profeta, affinché nulla ci sfugga che offender possa il pudore e la santità del nostro ministero.

I. Punto. L’impurità è un peccato sì detestabile e sì indegno d’un Cristiano che non possiamo non istupirci al vedere uomini che lo trattano di bagattella, di debolezza degna di perdono, e che sotto questo falso pretesto si abbandonano ciecamente a questa infame passione. Se fossero pagani, idolatri che tenessero un simil linguaggio, ciò recherebbe meno sorpresa; ma che uomini i quali fanno professione d’una religione così pura e così santa riguardino il peccato d’impurità come una cosa indifferente, un passatempo o al più al più una fragilità scusabile, si è ciò che non si può comprendere. Come dunque? Non sanno essi forse o non debbono sapere che lo stesso Dio, lo stesso legislatore che loro proibisce la bestemmia, l’omicidio, l’ingiustizia, proibisce loro altresì l’impurità? Quelli sono peccati perché azioni vietate dalla legge di Dio. Dio non ha forse ancora espressamente vietato all’uomo di commettere qualunque impurità con questo precetto del decalogo. Non mæchabris, voi non farete alcun’azione contraria alla purità! E certamente, se la lussuria non fosse un peccato grave di sua natura, l’Apostolo s. Paolo escluderebbe forse dal regno del cielo i fornicatori, gl’impudici, come gli ubbriaconi, gli avari e altri peccatori di questa specie? Sappiate dunque, fratelli miei, diceva quel grande Apostolo; che ogni fornicatore, ogni impudico non avrà parte alcuna nel regno di Dio: Omnis fornicator aut immundus non habet hæreditatem in regno Dei (Eph. V). Ma siccome io parlo a Cristiani istrutti e persuasi della loro Religione, non mi fermo di più a provar loro che l’impurità è una trasgressione della legge del Signore; per preservarli dalla sua contagione, io mi rivolgo solamente a scoprir loro le velenose sorgenti da cui questo vizio prende la sua origine e come s’introduce nell’anima. Tre principali ne osservo, cioè il difetto di vigilanza sopra se stesso e sopra i suoi sentimenti, la facilità di esporsi all’occasione e l’ozio. – Dico primieramente il difetto di vigilanza sopra se stesso; formati naturalmente sensibili, portati per conseguenza verso gli oggetti che commuovono ed allettano, i nostri sensi sono come i canali per dove essi s’insinuano e fanno impressione sulla nostr’anima. Sono, secondo l’espressione dello Spirito Santo, le finestre per le quali la morte entra nelle nostre case: chiunque per conseguenza non veglia continuamente sopra i suoi sensi, chiunque dà loro una piena libertà di trattenersi indifferentemente in ciò che può soddisfarli, deve aspettarsi di risentire i colpi mortali dei piaceri che gli sono vietati, e di vedere il forte armato comandargli da padrone ed assoggettarlo alla più vergognosa schiavitù. Ed in vero, fratelli miei, donde è venuta la caduta dei grandi personaggi di cui le sacre storie ci fanno la triste descrizione se non da difetto di vigilanza sopra se stessi, da una troppa grande libertà che diedero ai loro sensi? Dina figliuola di Giacobbe ebbe la curiosità di vedere le donne di Sichem, ma quanto pagò caro un sì imprudente passo! Ella fu rapita per forza e divenne la triste vittima della passione d’uno straniero. Qual fu la cagione della caduta di Davide, quell’uomo secondo il cuore di Dio, quel re sì perfetto? uno sguardo che gettò sopra Betsabea moglie di Uria; invece di volger altrove i suoi occhi da quell’oggetto, egli s’invaghì della bellezza di lei, e cedendo all’impeto di sua passione, si rendette adultero e omicida. Ma senza cercare esempi stranieri, quanti non ne fornisce la quotidiana esperienza forse in un gran numero di coloro che mi ascoltano? L’infame peccato d’impurità fa alla bella prima orrore da se stesso ad un’anima pura ed innocente: essa lo riguarda come un mostro, come uno scoglio fatale alla salute: niuno s’immerge ad un tratto in disordini che la Religione e la ragione egualmente condannano: sinché uno sta in guardia e veglia sopra i suoi sensi, è invincibile agli assalti del nemico. Ma l’avidità di vedere senza precauzione tutto ciò che si presenta, di ascoltare tutto ciò che si dice, addomestica insensibilmente l’anima con quel demonio famigliare, che, per avere un libero accesso presso di essa, la tenta con le attrattive degli oggetti che le presenta: uno sguardo di compiacenza, una canzone udita con piacere, una parola poco onesta profferita lasciano nell’anima impressioni di cui ella ha molta pena a disfarsi; si occupa di un’idea che l’ha rapita, e sebbene il corpo non sia ancora imbrattato, l’anima ha di già ricevuto il colpo della morte dal consenso che ha dato ad un malvagio pensiero, dal reo desiderio che ha concepito; e bentosto dai pensieri e dai desideri si viene alle azioni e si cade nei più grandi misfatti. – Tali sono i funesti effetti che produce l’impurità, allorché si permette ai sensi di andar vagando sopra oggetti d’ogni sorta; in tal guisa il veleno fatale della libidine s’insinua in un’anima e ne indebolisce affatto le forze. Ne abbiamo una trista, ma molto sensibile immagine in ciò che avvenne al tempo di Gerosolima allorché i Romani la stringevano d’assedio; un tizzone acceso che un soldato nemico gettò contro quel tempio, vi cagionò un sì grande incendio che fu impossibile estinguerlo: quel ricco e superbo edificio, l’opera di tutti i re, il più bel monumento che si fosse innalzato alla gloria di Dio, fu consumato e ridotto in cenere. Così una scintilla di fuoco impuro che s’impadronisce delle facoltà dell’uomo, vi cagiona il più strano disordine che immaginare si possa: Ecce quantus ignis quam magnam sylvam incendit (Jac. III). Quell’anima, che era il tempio di Dio, ornata della grazia e dei doni dello Spirito Santo, perde tutta la sua bellezza e diventa la schiava del demonio. Che sciagura! Confessatelo, fratelli miei, con altrettanto dolore che confusione, non riconoscete voi qui la cagione delle vostre cadute? Se voi entrate in una esatta discussione del malvagio uso che avete fatto dei vostri sensi, quali rimproveri non avrete a farvi su questo soggetto? Quanti riguardi fermati sopra oggetti che non eravi in alcun modo permesso di desiderare? Il che ha bastato per rendervi colpevole avanti a Dio, poiché questi sguardi sono stati volontari: mentre chiunque, dice Gesù Cristo, getta gli occhi sopra una donna con malvagi desideri, ha di già commesso l’adulterio nel suo cuore. I vostri occhi non hanno forse anche servito, per così dire, di messaggeri al vostro cuore impuro per manifestare i vostri sentimenti all’idolo di vostra passione? Non è forse ancora per la lettura di qualche malvagio libro che il veleno è entrato nella vostr’anima? Mentre se i libri in cui regna lo spirito d’irreligione indeboliscono la fede in coloro che li leggono, si può dire che niente è di maggior pregiudizio all’innocenza dei costumi che quei libercoli infami, in cui la licenza e lo sregolamento si mostrano alla scoperta. Quante canzoni disoneste, quante parole equivoche non si odono mai tutt’i giorni nelle profane compagnie? Quei discorsi osceni, quei racconti tanto più pericolosi quanto che il veleno vi è più sensibilmente e destramente insinuato, formano oggidì il diletto delle conversazioni: coloro che li fanno sono i meglio accolti nelle compagnie; ognuno si compiace nell’ascoltarli e ben presto impara a parlare come essi, perché ognuno crede poter fare come gli altri. Ah quanto sarebbe a desiderare per una parte de’ miei uditori che non avessero giammai intesi certi discorsi, che lor hanno insegnato ciò che avrebbero dovuto sempre ignorare! I loro costumi sarebbero più puri, la loro condotta più regolata, la loro vita più felice. Il gusto che produce pur troppo sovente l’intemperanza e l’ubbriachezza, serve anche d’incentivo all’impurità. Effettivamente una carne nutrita con delicatezza diventa ribella allo spirito e lo strascina seco nel peccato; l’uso smoderato dei liquori potenti non può accrescere il calor naturale senza recar pregiudizio all’anima; la ragione ne è perturbata, ed in questo stato, incapace di mettere un freno alle passioni, è forse da stupire che ne seguiti i traviamenti? Ed è forse per questa ragione che il grande Apostolo, indirizzando la parola ai primi Cristiani, proibiva loro espressamente gli eccessi: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria (Eph.5). Nulla vi dirò io qui, fratelli miei, di quei peccati che si commettono col senso del tatto, che sono le azioni peccaminose vietate dal sesto comandamento: la santità del luogo di cui siamo non mi permette di entrare in una narrazione che offenderebbe le orecchie caste. Ma sotto il nome di queste azioni peccaminose io debbo dirvi che bisogna comprendere certe libertà reciproche le quali non hanno per principio che un amor profano e per fine che un oggetto carnale. Libertà che si trattano da scherzi, da giuochi, da passatempo, da segni d’amicizia, ma che sono veri peccati mortali, i quali divengono più gravi secondo la qualità delle persone, le circostanze del luogo e le conseguenze che seco portano; circostanze di cui dovete accusarvi nel tribunale della penitenza, voi principalmente che siete impegnati nel matrimonio, mentre questo stato è per molti un’occasione di peccato e di perdizione, allorché non sanno contenersi nei limiti della castità coniugale. – La seconda cagione dell’impurità sono le occasioni a cui ci esponiamo. Se l’occasione del peccato è un allettamento per commetterlo, ciò accade particolarmente nel genere di peccato di cui parliamo. Infatti, se questo peccato s’insinua per mezzo dei sensi nel tempo eziandio che gli oggetti sono lontani, che sarà poi quando le circostanze contribuiscano a ravvicinarli? Quindi l’occasione è sempre stata lo scoglio più fatale alla castità. Chi avrebbe Creduto che Salomone, il più savio degli uomini, quel re sì pieno dello Spirito di Dio, che aveva fatte grandi cose per la sua gloria, si fosse dimenticato di se stesso sino ad immergersi nei disordini di questo peccato vergognoso, ed in appresso nelle tenebre dell’idolatria? Or quale ne fu la cagione? Il commercio che ebbe con donne idolatre, che depravarono il suo cuore e gli fecero incensare i loro idoli, dopo essersi rendute esse medesime le vittime della sua passione. Donde vengono tante dissolutezze nella gioventù, tante infedeltà nel matrimonio, se non dai commerci illeciti che si sono mantenuti con persone che non si dovevan mirare o tenere in casa, dalle case sospette che si sono frequentate, dalle visite che si sono rendute o ricevute, dai regali che si sono fatti o accettati, dalle lettere che si sono scritte; mentre tutto questo è compreso sotto il nome di occasioni di peccato, perché tutte queste cose portano al peccato e sono, come dice s. Girolamo, gl’indizi d’una castità moribonda: Morituræ castitatis indicia. Io chiamo ancora occasioni del peccato impuro quelle unioni, quelle veglie, che si fanno in certe case le quali servono di ritiro al libertinaggio, ove Dio è più offeso in una sola notte che non è glorificato da tutte le anime sante che sono sopra la terra, ove la purità è macchiata da mille discorsi indecenti che vi si tengono, dagli oggetti che vi si veggono, e dove i pericoli ed i lacci sono tanto più fatali alla virtù, quanto che le tenebre e la segretezza danno maggior baldanza per commettere il male. – Chiamo occasioni di peccato quei divertimenti, quegli spettacoli in cui le passioni sono rappresentate coi loro più valevoli ad ammollire il cuore; quei balli, quelle danze ove la castità fa ordinariamente naufragio per gli sguardi lascivi che si gettano sopra oggetti pericolosi, o per lo meno per li malvagi desideri, per li pensieri disonesti che vi si formano, e che si fan nascere nel cuore degli altri. Non è forse qui dove le persone di diverso sesso cercano di piacere, di amare e di farsi amare? Non è forse qui dove le passioni, eccitate dai ragionamenti, dalle danze, dal suono degli strumenti, si sfogano senza ritegno e s’immergono negli ultimi eccessi? Oso affermare che è moralmente impossibile alla persona più virtuosa di uscire da quelle combriccole cosi innocente come vi è entrata, e non voglio alcun’altra prova di quel che dico fuor la testimonianza che rendere ne possono quegli e quelle che vi si sono ritrovati. Che diremo noi degli abiti immodesti, degli abbellimenti studiati, di cui le persone del minor sesso si adornano per darsi in spettacolo al mondo, per piacere a coloro che le veggono? Esse sono doppiamente colpevoli, e nell’intenzione che hanno, e nel fine che pur troppo ottengono. – Finalmente io chiamo occasion di peccato quelle conferenze ancora che sembrano innocenti tra persone che hanno di mira il matrimonio; conferenze peccaminose, ove, sotto pretesto di conoscersi, di farsi amare, si oltrepassano i limiti dell’onestà e della modestia: possono vedersi, ma si deve farlo onestamente, raramente ed alla presenza di un padre, di una madre, che debbono vegliare sulla lor condotta. Quando essi fuggono la loro compagnia, quando si cercano le tenebre, quando si veggono tra essi ad ore indebite, non si separano d’ordinario senza peccato. Ma oimè! questa morale non piace a molti, e sovente i padri e le madri favoreggiano pur troppo il libertinaggio dei loro figliuoli; sotto pretesto di far loro trovare un collocamento, danno ad essi la libertà di andare ove loro piace, la notte come il giorno, di frequentare chi loro torna a grado. Conviene poi stupirsi se vi sono tanti disordini nella gioventù, se il libertinaggio e l’impurità fanno tanto progresso nel mondo, poiché si trovano tante occasioni che inducono a questo peccato, cui l’uomo è già così propenso di sua natura, e mentre al difetto di vigilanza sopra se stesso si aggiunge la temeraria facilità di esporsi alle occasioni di commetterlo? – L’ozio gli dà ancora un nuovo impulso. Infatti, se l’ozio, al dire della Scrittura, è l’origine dei vizi, lo è parimente dell’impurità. Simile a quelle acque le quali non avendo alcun corso si corrompono e spargono lontano la contagione di cui sono infette, l’anima che marcisce nell’ozio, esposta in questo stato allo avvelenato soffio dello spirito impuro, vede oscurare tutta la sua bellezza, e perisce finalmente bevendo un veleno che la lusinga: simile ancora ad una piazza senza difesa, che rimane presa al primo assalto che le si dà, il cuore snervato dall’ozio lascia allo spirito tentatore un adito facile; e poco prevenuto contro le astuzie del nemico, diventa ben tosto schiavo. Ne chiamo in testimonio l’esperienza di quelle persone disoccupate, la cui vita si passa in non far nulla; a quanti malvagi pensieri non è la mente loro soggetta? Quanti movimenti sregolati non si sollevano nel loro cuore? Egli è una casa vuota ove il demonio d’impurità trova ben presto da alloggiare. In qual tempo, fratelli miei, siete voi più sovente tentati dallo spirito maligno? In qual tempo avete voi più sovente ceduto alle sue tentazioni? Confessate essere stato in quei giorni in cui, non essendo occupati né dal lavoro né da opere di pietà, vi siete renduti per la vostra inazione accessibili a tutti i colpi del vostro nemico. Confessiamo dunque, fratelli miei, che, sebbene violenta sia l’inclinazione dell’uomo per i piaceri carnali, sebbene potente sia il demonio per trascinarlo al male, l’uomo non sarebbe giammai vinto, se si tenesse in guardia, se vegliasse sopra i suoi sentimenti, se fuggisse l’occasione e l’ozio, che sono le sorgenti fatali dell’impurità. Ma il difetto di vigilanza e di occupazione, la temerità nella condotta, ecco le cagioni ordinarie di questo vizio abbominevole; questo è ciò che lo rende sì comune nel mondo che non àvvene alcuno, dice s. Gregorio, che perda più gli uomini. Questo peccato è una delle cause del piccolo numero degli eletti; perché è certo, secondo l’Apostolo, che niuno di coloro che vi sono soggetti entrerà mai nel regno dei cieli: or un’infinità di persone si lascia signoreggiare da questa passione; i giovani ed i vecchi, i ricchi ed i poveri, coloro che sono liberi e coloro che sono legati in matrimonio; questo peccato è ancora tanto più pernicioso alla salute, quanto che non soffre parvità di materia, come molti altri; tutto vi è mortale, da che vi si dà un intero consenso; benché non fosse che ad un solo pensiero contrario alla purità, non si richiede di più per esser dannato; a più forte ragione bisogna dir ciò dei desideri, delle parole, delle azioni: qual precauzione non si deve dunque prendere per preservarsene? Per indurvi a prendere queste precauzioni, vediamo i tristi effetti di questo peccato.

II. Punto. Per darvi, fratelli miei, qualche idea dei funesti effetti che trascina seco il peccato di cui ragioniamo, io potrei alla bella prima rappresentarvi i terribili castighi con cui Dio l’ha punito anche in questa vita. Sin dal principio del mondo tutta la terra non fu inondata da un diluvio universale se non per estinguere i fuochi impuri, che la concupiscenza aveva accesi nel cuore degli uomini. Cinque grandi città furono ridotte in cenere dal fuoco del cielo, perché esse erano tutte imbrattate dalle infami libidini dei loro abitanti. Più lungi voi vedete ventiquattromila Istraeliti trucidati d’ordine di Dio per essersi abbandonati ai disordini di questa infame passione; io passo sotto silenzio molti altri esempi, di cui fanno menzione i libri santi. Aggiungerei soltanto in confermazione della verità che questo peccato vergognoso è diametralmente opposto agli interessi più essenziali dell’uomo. Non si richiede molto tempo per provare ciò, una fatale esperienza ce lo fa pur troppo vedere; l’obbrobrio, la confusione, l’infamia sono la porzione dei voluttuosi; benché distinti siano essi d’altra parte nel mondo, tosto che sono notati con questa macchia, divengono l’oggetto del dispregio non solo delle persone dabbene, ma dei libertini ancora, i quali sebbene soggetti a questo vizio, non lasciano però di biasimarlo negli altri. La riputazione meglio stabilita non può sostenersi contro un’accusa formata in questo articolo. – Che dirò della perdita dei beni, dalla sanità, della vita medesima, che questo peccato strascina seco? Mentre di che non è capace un uomo soggetto a questa passione? Fa d’uopo consumarsi in folli spese per contentarla ed avere accesso presso dell’idolo cui ha prodigalizzato le sue adorazioni a spese della coscienza, a spese della fedeltà che deve ad una consorte? Egli risparmia su tutto il restante per sacrificar tutto alla sua inclinazione; la famiglia mancherà di tutto e sarà anche sovente la trista vittima dei furori di lui. Fa d’uopo esporre la santità a veglie che lo indeboliscono, a malattie vergognose che accorciano i suoi giorni, la sua vita a pericoli che la minacciano, ed a mille altri mali che passo sotto silenzio. Nulla v’è che non soffra e cui non si esponga per soddisfare una passione ostinata, che lo abbrucia, che lo fa miseramente ed inutilmente languire; sovente egli e frustato nella sua aspettazione, non ha per ricompensa delle sue ricerche che delle infedeltà che lo sconcertano; teme sempre di essere soppiantato da un rivale: se arriva a soddisfare la sua passione, quel preteso piacere non è seguito che da pungenti affanni, da amarezze, da rimorsi di coscienza, da tormenti. Vi dirò di più che questa passione produce le disunioni, i divorzi che sono lo scandalo della religione, le gelosie, gli odi, i duelli, gli omicidi e nulla vi dico, di cui non siensi veduti e non si veggano ancora dei tristi esempi nella città e nelle campagne, nelle provincie e nei regni: ella porta dappertutto la discordia, il disordine e la desolazione. Ma io mi fermo a farvi conoscere i mali infiniti che essa particolarmente cagiona nell’anima di colui che ne è signoreggiato; questi mali sono l’accecamento dello spirito, la durezza del cuore, che lo conducono all’impenitenza finale e alla riprovazione eterna. È proprio del peccato di accecare colui che lo commette, perché esso estingue i lumi della ragione e della fede: infatti in un uomo ragionevole lo spirito deve dominare sulla carne; ma nel voluttuoso si è la carne che domina sullo spirito, che gli comanda, che lo assoggetta al suo impero. Questo spirito, involto nella materia, non vede più quel che fa; egli perde, per cosi dire, l’attività, che è suo attributo essenziale, perché è divenuto affatto terrestre ed animale; noi ci rendiamo ordinariamente simili a quel che amiamo, dice s. Agostino. Quindi in quanti mancamenti egli non cade? A quali traviamenti non è egli esposto? Più non opera che come le bestie, anzi ancora peggio di esse, perché servesi del poco di lume che gli resta per far cose che le bestie medesime non fanno: Comparatus est iumentis insipientibus et simìlis factus est illis (Ps. XLVIII). Convien egli stupirsi se l’anima sensuale perde i lumi della fede? L’uomo animale non può concepire le cose di Dio, dice l’Apostolo: Animalis homo non percipit ea quae sunt spirìtus Dei (1 Cor.2). La legge insegna a quest’anima che essa è creata ad immagine di Dio, che è riscattata col prezzo del suo sangue, che è divenuta per mezzo del battesimo il tempio dello Spirito Santo: qual motivi capaci di ritenere il disonesto! Ma egli non fa attenzione alcuna a tutto questo; egli perde dì vista titoli onde è onorato: di figliuolo di Dio si rende vile schiavo del demonio, prostituisce le sue membra che sono incorporate con quelle di Gesù Cristo; profana vergognosamente il tempio augusto ove lo Spirito Santo ha fatta la sua dimora, per farne una cloaca di iniquità. Quale indegnità! Quale accecamento! L’impudico porta sì lungi il suo accecamento che vorrebbe far credere il suo peccato una cosa indifferente ed anche permessa; egli mette tutto in opera per persuaderlo agli altri, a fine di fare più facilmente soccombere alla sua passione le vittime che vuol sacrificare: si può egli diventare più stupido? E non bisogna forse aver perduto ogni coscienza di doveri e di religione? L’uomo schiavo di questo peccato non ha dunque più sentimento della religione che professa, perché la passione che l’acceca ricopre la sua anima di tenebre che estinguono in lui il lume della fede. Non è forse ancora di questa avvelenata sorgente che si sono veduti nascere gli errori che hanno desolata la Chiesa? Essa è che ha prodotti e produce tuttavia i deisti, gli atei, che non hanno lo spirito guasto in materia di credenza se non perché il loro cuore è dalla lussuria corrotto. Non rigettano essi la religione se non perché ella molesta ed incomoda le loro passioni?Perché mai vediamo noi al giorno d’oggi tanti libertini ragionare, disputare sulle verità del Cristianesimo, combatterle e contraddirle, trattare i nostri santi misteri, gli articoli di nostra fede da favole, da racconti fatti a piacere per intimorire gli spiriti deboli? Se noi risaliamo all’origine dei loro pretesi dubbi, delle loro indiscrete critiche, noi la troveremo in un cuor guasto, il quale vorrebbe che non vi fosse religione alcuna, alcun sacramento, alcuna parola di Dio, alcun Dio vendicatore de’ misfatti, a fine di abbandonarvisi con maggior libertà. Vediamo noi forse che coloro i quali sono schiavi della impurità siano persone ben regolate, assidue all’orazione e alla frequenza de’ sacramenti? No, senza dubbio; se danno qualche segno esteriore di religione si è per salvare le apparenze, per conservarsi una riputazione che loro è necessaria nel mondo, per avere un impiego, per arrivare ad uno stabilimento. Ma se noi li conoscessimo a fondo, vedremmo che il loro spirito è così lontano dalla verità, come il loro cuore dall’innocenza, e che il demonio impuro, da cui sono posseduti, li acceca e li perverte. Non bisogna punto stupirsi se cadono nella durezza di cuore, che è come una conseguenza necessaria dell’accecamento dello spirito. Che cosa è un peccatore ostinato? È un uomo, dice s. Bernardo, che non è tocco dalla compunzione, né intenerito dalla pietà, né attirato dalle promesse, né intimorito dalle minacce: che è insensibile alle correzioni, indocile alle ammonizioni; è un uomo cui l’orazione, la parola di Dio, i Sacramenti e tutti i mezzi di salute che la Religione fornisce, sono inutili. Tale è lo stato deplorabile di un peccatore immerso nel pantano degli osceni piaceri. Questo peccatore non è mosso né dalla bellezza delle ricompense che Dio promette alle anime caste, né dal rigore de’ castighi che riserba agli impudichi. Il fuoco dell’inferno, che sarà il supplizio particolare del voluttuoso, benché terribile gli si rappresenti, non oppone che un riparo insufficiente agl’impeti della passione che lo trasporta. Le altre verità della religione non fanno impression maggiore su di lui. Così la parola di Dio, sebbene potente sia essa stata e lo sia ancora per convertire i peccatori, nulla serve spesso ad un impudico. Egli l’ascolta senza essere colpito né convertito; egli è sordo a tutte le correzioni che gli si fanno; non vuole ascoltare né gli avvisi d’un pastore né le salutevoli ammonizioni che amici caritatevoli gli faranno per trarlo dai suoi disordini; basta solo parlargliene per incorrere la sua disgrazia; si è una piaga che non vuole si tocchi o di cui non si può intraprendere la guarigione che con circospezioni difficili a praticare. Che cosa sarà dunque capace di ricondurre l’impuro al suo dovere? L’orazione? Ma egli punto non prega, o se prega, è sempre lo stesso: perché? Perché non prega con desiderio sincero di essere esaudito; durante l’orazione egli è occupato dell’oggetto che l’ha sedotto; come Agostino peccatore, egli chiede a Dio di spezzare legami che non vuol rompere e che non si romperanno senza di lui. I sacramenti, che sono i gran mezzi di salute che Gesù Cristo ci ha lasciati, non avranno essi forse la virtù di guarirlo? Si, senza dubbio, se vi si accostasse con sante disposizioni; ma l’impudico si allontana dai sacramenti, perché non vuol raffrenare una tirannica propensione; o se egli vi si accosta, invece di trovare la vita in quelle sorgenti di grazie, vi ritrova un fatal veleno che accresce il suo male per la profanazione che ne fa, e questo per due ragioni, che vi prego di ben osservare: si è che ordinariamente l’impudico che s’accosta ai sacramenti, e massime a quello della Penitenza, o non dichiara il suo peccato o non ha un fermo proponimento di correggersi. No, fratelli miei, non evvi alcun peccato che altri sia più tentato di celare nel tribunale della Penitenza e che si celi effettivamente più spesso del peccato d’impurità, perché porta un carattere d’infamia che non si osa manifestare. Ne chiama in testimonio la vostra esperienza: voi che gemete ancora su tante confessioni sacrileghe, qual è la cagione dei vostri rammarichi, se non una trista vergogna che per l’addietro vi fece celare qualcheduno di quei peccati che sono l’obbrobrio della religione e la perdizione del colpevole? Un’altra ragione che rende le confessioni dell’impudico nulle e sacrileghe si è che, supponendo in lui coraggio bastante per dichiarare il peccato, non ha poi un fermo proponimento di correggersi. Io trovo la prova di questa verità nelle frequenti sue ricadute. Infatti non v’è peccato alcuno il cui abito sia sì difficile a correggere. Un voluttuoso non cerca forse incessantemente l’occasione di soddisfare la sua passione? Non contento di averle sacrificata una infelice vittima che egli ha guadagnata con le sue sollecitazioni, fa nuovi tentativi; e se la conquista gli sfugge, trova ben il mezzo di farne delle altre. Se non può riuscire ne’ suoi disegni, egli non è meno colpevole per i cattivi desideri cui il suo cuore s’abbandona. – Quelle persone che per avere un’assoluzione han rotto per qualche tempo i loro malvagi commerci, annoiate d’una separazione che le fa languire, palesano subito il vizio della loro risoluzione, rinnovando ben tosto la catena fatale che le rendeva schiave l’una dell’altra. Ah! quanto è mai raro, trovare peccatori di questa sorte che si convertano sinceramente, sia a cagion della malvagia inclinazione che li predomina ed a cui hanno molta pena a resistere, sia a motivo dei violenti assalti che il nemico della salute dà a coloro che gli hanno aperto l’ingresso del loro cuore. Il che Gesù Cristo ci fa conoscere nel Vangelo quando dice che lo spirito immondo non abbandona un’anima che signoreggia a modo suo, che ha disegno di ritornarvi e di regnarvi allora con un impeto più assoluto, perché tosto che vi è rientrato, lo stato del peccatore diventa peggior di prima; Fiunt novissima hominis ilius peiora prioribus, cioè la sua conversione diventa più difficile per le frequenti ricadute cui il suo abito la espone: queste ricadute lo conducono all’ostinazione, l’ostinazione all’impenitenza, e l’impenitenza alla riprovazione. Ecco fratelli miei, ciò che ha fatto sempre riguardare questo peccato come un grande ostacolo alla salute; ecco ciò che deve destarne in voi un sommo orrore, indurvi a fare tutti i vostri sforzi per non soccombervi e ad usare tutti i rimedi più efficaci per guarirne, se vi siete soggetti. Mentre a Dio non piaccia ch’io pretenda rimandare i peccatori di questo carattere senza speranza di guarigione e di salute! Ma bisogna per questo metter in pratica i mezzi che sono per proporvi terminando questo discorso.

Pratiche. Per guarir un male, bisogna andar alla sorgente; il peccato d’impurità viene ordinariamente da un difetto di violenza sopra se stesso, dalle occasioni cui uno si espone e dall’ozio. Bisogna dunque vegliare sopra i vostri sensi, fuggir le occasioni ed occuparvi. Vegliate sopra i vostri occhi per allontanarli dagli oggetti capaci di fare malvage impressioni sopra i vostri cuori: Averte oculos meos ne videant vanitatem. Se i vostri occhi sono colpiti dalle ingannatrici lusinghe di una caduca bellezza, per disgustarvene pensate allo stato orribile cui sarà essa dalla morte ridotta, quando diverrà il pascolo dei vermi: questo pensiero vi preserverà dal veleno della libidine. Non leggete giammai libri capaci di darvi la minima idea contraria alla virtù della purità; se voi ne avete qualcheduno, gettatelo al più presto nel fuoco. Non date giammai orecchio alle canzoni profane, ai discorsi lascivi; guardatevi ancora di più dal proferire nei vostri discorsi parola che offenda la modestia, siate esatti su questo punto sino allo scrupolo: fuggite sopra tutto le occasioni pericolose alla castità, mentre se voi mancate di prudenza a questo riguardo, ogni altra precauzione sarà inutile. Occupatevi altresì secondo il vostro stato; ed il demonio, confuso di vedersi forzato sino nell’ultimo trinceramento, non mancherà di abbandonare una piazza che da tutte le parti gli oppone una egual resistenza. Accostatevi sovente ai sacramenti, abbiate ricorso all’orazione, che è un mezzo eccellente per ottenere la continenza; è quello di cui servivasi il grande Apostolo per respingere lo stimolo di satanasso che lo agitava: Ter Dominum rogavi. Mortificate le vostre passioni con l’astinenza e non siate del numero di coloro di cui parla la Scrittura, che facendo del loro ventre un Dio, alimentano con la loro dissolutezza il fuoco impuro che li divora; resistete fortemente al primo pensiero del male con qualche elevazione del vostro cuore a Dio; ditegli con un sentimento di dolore di vedervi esposti a tante occasioni di dispiacergli: Allontanate dalla mia mente, o mio Dio, questo malvagio pensiero. Abbracciate in spirito la croce di Gesù Cristo, tenetevi ad essa attaccati sino che la calma succeda alla tempesta; ogni qualvolta il nemico della salute si sforzerà di farvi cadere nelle sue reti, munitevi del pensiero e della rimembranza del vostro ultimo fine. Come! vorrò io, direte voi allora, per un piacere d’un momento, bruciare durante tutta l’eternità? Se il ritratto dell’ inferno che vi formerete nella vostra immaginazione non è spaventevole abbastanza per allontanare la tentazione, provate a toccar un momento il fuoco di quaggiù e domandate a voi medesimi, come faceva un santo solitario in simili tentazioni: Come potrò io soffrire un fuoco eterno, che sarà il supplizio del mio peccato, io che non posso soffrire un momento un fuoco dipinto? No, no, non voglio comprare ad un sì gran prezzo una soddisfazione passeggera di cui non avrò che una trista rimembranza. Piuttosto morire che imbrattar l’anima mia della minima macchia. Perseverate in questa risoluzione, poiché voi sarete molto risarciti del sacrificio dei piaceri che farete sulla terra dai torrenti di delizie di cui sarete inondati nel cielo. Così sia.

Credo… 

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Pro nostræ servitútis augménto sacrifícium tibi, Dómine, laudis offérimus: ut, quod imméritis contulísti, propítius exsequáris.

[Ad incremento del nostro servizio, Ti offriamo, o Signore, questo sacrificio di lode: affinché, ciò che conferisti a noi immeritevoli, Ti degni, propizio, di condurlo a perfezione.]

Comunione spirituale

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quos divína tríbuis participatióne gaudére, humánis non sinas subjacére perículis.

(Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché a coloro ai quali concedi di godere di una divina partecipazione, non permetta di soggiacere agli umani pericoli.)

Preghiere leonine

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

Ordinario della Messa

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re degli Ebrei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso agli Ebrei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e degli Ebrei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando gli Ebrei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio gli Ebrei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie, dice S. Agostino. E Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – «Questa immagine, che è l’anima nostra, dice ancora Bossuet, passerà un giorno di nuovo per le mani c davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: Di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele» (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo.« Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo,poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la pregherà della Chiesa, sua sposa,che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste).

Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolodomanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono semprestati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche eche egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro caritàdunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento diGesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio.

«Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà» (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, etin defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LA PROPAGAZIONE DELLA FEDE

I Filippesi, fin dai primi giorni della loro conversione coadiuvarono S. Paolo a propagare il Vangelo, mettendolo in grado, con i loro aiuti, di poter diffonderlo con maggiore facilità. Ora l’Apostolo mostra la sua riconoscenza, ringraziando Dio, e pregandolo di concedere il dono della perseveranza in questa cooperazione, e soprattutto il dono della propria santificazione ai cari Filippesi, sempre fedelmente a lui uniti nelle sofferenze, e nei lavori dell’apostolato. Egli prega che la loro carità progredisca continuamente, e che pervengano tutti alla piena conoscenza della verità e al pieno discernimento di ciò che devono fare; così che al giorno del giudizio vengano trovati irreprensibili, ricolmi di buone opere che ridondino a gloria di Dio. Noi posiamo imitare lo zelo dimostrato dai Filippesi nella propagazione del Vangelo, favorendo l’Opera della Propagazione delle fede.

1. E’ un’opera buona,

2. Voluta, dal nostro dovere e dal nostro interesse.

3. Si favorisce con opere e con preghiere.

1.

S. Paolo chiama opera buona lo zelo dimostrato dai Filippesi nella causa della propagazione del Vangelo. Nessuno vorrà mettere in dubbio questa affermazione. È un’opera buona che deve stare a cuore anche ai fedeli dei nostri giorni. – Gesù Cristo ha comandato ai discepoli, che andassero a portare il suo Vangelo in tutte le parti della terra, facendolo pervenire a ogni creatura, nessuna esclusa. I discepoli si misero all’opera; ma non poterono compierla, e non la compirono neppure i loro successori. Ancora due terzi degli uomini sono ignari del Vangelo. L’opera della Chiesa prosegue ancora, e proseguirà sempre, finché il Vangelo non sia pervenuto a ogni creatura. È un’opera voluta da Dio; è l’opera di Dio; è la missione ufficiale da lui affidata alla sua Chiesa. Gesù Cristo è il Buon Pastore. Il suo gregge dev’essere formato di tutte le nazioni della terra. Ma non tutti sono entrati nel suo ovile, non tutti provano la dolcezza di chi si trova sotto la sua guida e ascolta la sua voce. «Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che io conduca; e daranno ascolto alla mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore » (Giov. X, 16). L’opera della Propagazione della Fede procura appunto l’adempimento di questo voto di Gesù Cristo. Va dovunque in cerca di pecorelle da condurre all’ovile dell’unico pastore, ove saranno guidati dalla sua voce, e saziati dall’abbondanza delle sue grazie. – Gesù Cristo è la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo; ma gli infedeli questa luce non l’hanno ancora ricevuta. Essi vanno brancolando tutt’ora nelle tenebre dell’errore. Per le anime degli infedeli, come per le anime nostre, Gesù Cristo ha versato il suo sangue. Quelle anime sono proprietà sua, ma intanto sono escluse dal suo regno. Esse sono create per la felicità eterna, ma sono fuori della via che ve li conduce. Dio, nella sua sapienza e potenza, potrebbe certamente estendere in un lampo il suo regno a tutti gli uomini; ma Egli nei suoi imperscrutabili disegni ha stabilito, che il suo regno venga propagato gradatamente, tra contrasti, per mezzo degli uomini. – Per mezzo della predicazione degli uomini si accoglie la fede. Per mezzo degli uomini si amministra il Battesimo che introduce nella Chiesa. Per mezzo degli uomini, nel sacramento della Penitenza, si vien dichiarati sciolti dalla colpa. In una parola, la salvezza delle anime si procura per mezzo del ministero degli uomini. Si può dare opera più commendevole, di quella che aiuta gli operai del Signore a salvare le anime? No! «Nulla è paragonabile all’anima, neppure il mondo intero. Perciò, se tu distribuissi ai poveri ricchezze immense, non faresti tanto, quanto colui che converte un’anima sola» (S. Giov. Cris. In Ep. 1 ad Cor. Hom. 3, 5).

2.

S. Paolo assicura ai Filippesi: io vi porto nel cuore, partecipi come siete del mio gaudio. Quasi invidiamo la sorte dei Filippesi, che avevano parte al gaudio e ai meriti dell’Apostolo nella propagazione del Vangelo. Partecipare al gaudio e ai meriti di quanti lavorano per la propagazione e il consolidamento della Fede dev’essere premura di tutti quelli che conoscono il proprio dovere e il proprio vantaggio.Noi ci rivolgiamo frequentemente a Dio con la invocazione «Venga il tuo regno». Questa invocazione importa certamente, da parte nostra, l’impegno di far quanto ci è possibile, perché la domanda sia esaudita. Se noi, potendo fare qualche cosa per l’avvento e la dilatazione di questo regno, rimaniamo inerti, siamo dei burloni. Per noi varrebbe l’osservazione che, a proposito della fede senza le opere, fa San Giacomo: «Se un fratello e una sorella sono ignudi e mancanti del pane quotidiano, e uno di voi dica loro : — Andate in pace, riscaldatevi, e satollatevi —, senza dar loro il necessario alla vita a che giova cotesto?» (II, 15-16). – A ogni passo del Vangelo ci è inculcata la carità del prossimo. Nessun dubbio che l’obbligo della carità non devi limitarsi al corpo. Si deve, anzi, dare la preferenza a ciò, che, perduto, non si può più riacquistare, a ciò che, acquistato, porta con sè beni incalcolabili. Nessun bene è certamente paragonabile all’anima. Ce l’assicura Gesù Cristo stesso: «Che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?» (Matt, XVI, 26). Aiutando i missionari avremo ottima occasione di compiere il nostro dovere della carità verso il prossimo in ciò che maggiormente gli è necessario, nel salvar l’anima. Il Salvatore, dando istruzioni ai discepoli sulla loro missione di predicatori del Vangelo, aggiunge: «Chiunque avrà dato da bere un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi più piccoli, solo a titolo di discepolo: in verità vi dico non perderà la sua ricompensa» (Matt. X, 42). Chi non dovrebbe essere invogliato dalla grandezza di un premio tale? Ricevere il premio dell’apostolo che si porta a propagare il Vangelo tra gli infedeli? «Invero, quando egli predica, e tu cerchi di coadiuvarlo e favorirlo, le sue corone sono anche le tue (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom. 1, 2). I Santi, pregavano essi, e chiedevano le preghiere anche degli altri. Noi non abbiam sicuramente minor bisogno di preghiera che. i santi. Favorendo lo sviluppo delle missioni, impegniamo la preghiera di animi riconoscenti. I novelli convertiti, pregheranno per i loro benefattori, per quanti hanno cooperato alla loro conversione, quando gusteranno la felicità d’essere entrati nel grembo della Chiesa cattolica: pregheranno per i loro benefattori, quando andranno a godere la vita eterna. Le preghiere ardenti dei neofiti devono avere molto efficacia, se S. Paolo domanda continuamente preghiere a quelli che ha convertito alla fede.

3.

I Filippesi coadiuvarono l’Apostolo nella difesa e nel consolidamento del Vangelo, condividendo con lui travagli e sofferenze. Perciò dice loro ehe sono partecipi, e nelle… catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Per interessarsi praticamente delle missioni occorrono sacrificio e preghiera. Gesù Cristo, ai discepoli che devono predicar la fede, dice senza ambagi: «Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi… E sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Matth. X, 16 … 22). E i discepoli partirono indifesi come pecore, furono perseguitati, messi a morte. E il sacrificio conquistava le anime. L’Apostolo fa notare ai Filippesi che la sua prigionia a Roma, con tutte le relative conseguenze, contribuiva a far conoscere maggiormente il Vangelo (Fil. I, 12-13). I successori degli Apostoli e dei primi discepoli che continuano a conquistare il mondo a Gesù Cristo, non camminano per altra via che quella dei sacrifici. Abbandonano patria, ricchezze, parenti, amici, forse uno splendido avvenire; si portano indifesi, tra popoli barbari con la previsione di ogni privazione e di grandi difficoltà, non osservati dal gran mondo, anzi, considerati come disillusi, spiriti poveri. Essi non si scoraggiano: il crocifisso, che fu loro consegnato alla partenza, ricorda in che modo fu compiuta la redenzione del genere umano. – Anche noi dobbiamo sottoporci a qualche sacrificio, a qualche privazione. Quando Mons. Comboni, già vescovo, riparte da Verona per l’Africa con missionari e catechisti, è accompagnato alla stazione dal vecchio padre. Il figlio chiede la benedizione al padre, e il padre al figlio, Vescovo. E nell’abbracciarlo esclama: « Mio Dio, non ho che un figlio, e a Voi lo dono di cuore; ma se ne avessi anche molti, tutti li consacrerei a Voi per la vostra gloria e per la salvezza delle anime da Voi redente ». E il Vescovo a sua volta: «Mio Dio, lascio mio padre, forse per non vederlo più… ma ne lascerei cento, se potessi averne tanti, per servir voi mio Padre Celeste, e fare la vostra volontà». E salì in treno e pianse (M. Grancelli — Mons. Daniele Comboni – Verona 1823). Davanti a queste eroiche rinunce che cosa sono le piccole rinunce che noi dovremmo fare per soccorrere i missionari? Essi si privano di tutto, sarà troppo per noi privarci di qualche divertimento, di qualche spesa superflua per concorrere alla salvezza delle anime? Quanti danari in lusso, in divertimenti, in baldorie, che potrebbero essere spesi in aiuto degli Apostoli! Dopo tanti secoli par fatto per i nostri giorni il lamento di S. Leone Magno : «Mi vergogno a dirlo, ma non si può tacere: si spende più per i demoni che per gli Apostoli» (Serm. 84, 1). I vecchi missionari sono concordi nell’insegnare ai novelli operai del campo evangelico, che i pagani vengono alla fede più per la preghiera che per la predicazione. La cosa, del resto, è molto spiegabile. Chi piega i cuori è Dio. Egli si serve dell’opera del missionario, che dissoda, pianta, irriga, ma i frutti non si hanno senza il concorso della sua grazia. All’elemosina, alle piccole privazioni, alle rinunce che ci rendono possibile l’aiuto materiale, aggiungiamo la preghiera. Non potrai sopportare il digiuno, non potrai dormire per terra, non potrai ritirarti nella solitudine; potrai, però, sempre pregare. Se non si potesse pregar da tutti, il Signore non avrebbe imposto a tutti l’obbligo di pregare. E quel Signore che ha fatto obbligo di pregare ha anche detto: «pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua vigna» (Matt. IX, 38). Preghiera necessaria, perché comandata da Dio, preghiera urgente perché « molta è la messe di Cristo e gli operai sono pochi e con difficoltà si trova chi aiuti » (S. Ambr. Epist. 4, 7, ad Fel.). Che un giorno non ci assalga il rimorso di aver lasciate perire delle anime, che potevano essere salvate con il nostro concorso! Ci conforti, invece, all’avvicinarsi dell’ultima ora, la voce dei pagani convertiti che ci ricorderanno: La tua elemosina e la tua preghiera ci hanno sottratti al regno di satana, ci hanno introdotti nella casa del Signore; ci hanno procurato un bene immenso. Il Signore ti sarà benigno: chi fa bene, bene aspetti.

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la restituzione.

Reddite quæ sunt Caesaris Cæsari, et quæ sunt Dei Deo.

Ammiriamo, fratelli miei, la risposta piena di saviezza che Gesù Cristo fa nell’odierno vangelo alla domanda dei Farisei sull’obbligo di pagar il tributo a Cesare: Questa nazione perfida ed in credula aveva tentato più volte di sorprendere Gesù Cristo nei suoi discorsi e nelle sue azioni, affine di trovarvi motivi di condannarlo; ma l’eterna sapienza li aveva sempre confusi. Fanno essi tuttavia in quest’oggi un nuovo tentativo, e gli propongono una questione tanto più fraudolenta, quanto che in qualunque modo egli la decida, deve cadere nulle insidie. Se risponde che si deve pagare il tributo a Cesare, egli si dichiara nemico della nazione giudaica, che si pretendeva esente. Se Gesù Cristo risponde che non si deve pagare questo tributo, egli va contro gl’interessi dell’imperatore e si fa credere un sedizioso. Che farà dunque egli in sì delicata congiuntura? Senza dichiararsi contro il popolo, insegna loro quel che devesi ai principi della terra. Perché tentarmi, ipocriti, loro disse? Recate una moneta e ditemi di chi è la figura e l’iscrizione? Di Cesare, risposero essi. Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare, ed a Dio quel che è di Dio: Reddite ergo quæ sunt Cæsaris Cæsari, et quae sunt Dei Deo. Io mi servo quest’oggi dei termini della domanda e della risposta che Gesù Cristo fece ai Giudei, per proporvi e decidere una questione sulla quale assaissimo importa che voi siate istruiti. A chi appartiene quella roba, quel danaro che possedete? Cuìus est imago hæc? Se li avete acquistati con legittimo titolo, se è retaggio dei vostri antenati o fruttodello vostre fatiche, con conservate quel che la provvidenza vi ha dato; ma se questi, beni son frutto di rapino, se vi riconoscete qualche cosa che non sia vostra, se avete cagionato qualche danno ad altri, rendete a Cesare ciò che odi Cesare, restituite quella roba mal acquistata, risarcite quel danno che avete recato: Reddite, etc. Di già, fratelli miei, voi comprendete su di che voglio ragionarvi; sull’obbligo di restituire, obbligo dei più importanti, obbligo di una vasta estensione, che nulladimeno è molto male osservato: obbligo importante, voi lo vedrete per i motivi che v’inducono a compirlo; obbligo d’una vasta estensione a cagion del gran numero d’ingiustizie che si commettono nel mondo; obbligo molto male osservato, voi lo vedrete per le regole che seguir si debbono per adempierlo. Per rinchiudere in poche parole tutto il mio disegno: quanto è grande l’obbligo di restituire? Primo punto. Quanti sono incaricati di quest’obbligo? Secondo punto. Come dobbiamo adempierlo? Terzo punto.

I. Punto. La restituzione è un atto di giustizia con cui si rimette il prossimo in possesso di una cosa che gli è stata tolta, o col quale si ripara il danno che gli è stato cagionato. Basta essere rischiarato dal lume della ragione per essere convinto dell’obbligo di restituire la roba altrui, e di riparare il torto che gli è stato fatto. Che c’insegna infatti questa retta ragione? Che non bisogna fare ad altri quel che non vorremmo fosse fatto a noi. Or noi non vorremmo che altri s’impadronisse ingiustamente dei nostri beni, che ci portasse danno in quello che ci appartiene; noi ci lamentiamo quando altri ci fa qualche torto; quei medesimi che ne fanno agli altri sono i primi a condannare coloro che non sono gli autori. Si è dunque con altrettanto d’equità che di sapienza che Dio ha fatto un comandamento espresso di non rubare: Non furtum facies. Poiché dall’osservanza di questo comandamento dipende il buon ordine delle vita, e perché, se fosse permesso d’impadronirsi indifferentemente dell’altrui, nulla sarebbe in sicuro, tutto l’universo sarebbe nel disordine; ciascuno, secondo le naturale avidità che ha sì per la roba, spoglierebbe arditamente il suo vicino di quel che avesse legittimamente acquistato o per successione dei suoi antenati o con un penoso lavoro; i più poltroni ed i più arditi sarebbero i più felici. Or se v’è un comandamento che ci proibisce d’impadronirsi dell’altrui, àvvene per conseguenza uno che ci prescrive di restituirlo, o per meglio dire, la medesima legge che ci proibisce il furto, ci comanda di ripararlo con la restituzione; mentre non restituire allorché abbiamo rubato si è fare torto al prossimo, si è continuare l’azione vietata dal comandamento: Non furtum facies. V’è dunque obbligo di restituire quando abbiamo dell’ altrui o quando abbiamo fatto qualche ingiustizia: obbligo fondato sul diritto naturale e sulla necessità della nostra eterna salute, che ne dipende: obbligo dei più indispensabili e che non soffre scusa di sorta. – Ella è una verità incontrastabile della nostra santa religione che non si può andar salvo senz’aver ottenuto il perdono del suo peccato, perché nulla d’imbrattato può entrare nel cielo. Or il peccato non vien rimesso, dice s. Agostino, se non restituisce quel che si è rubato: Non remiltitur peccatum, nisi restituatur ablatum. Il cielo non è pei ladri, dice l’Apostolo s. Paolo; chiunque è carico dell’altrui non entrerà giammai in quel felice soggiorno se non l’abbia restituito. Qualunque bene faceste voi d’altronde, qualunque virtù praticaste; se avete qualche restituzione a fare, cui manchiate per colpa vostra, tutte le vostre buone opere, tutte le vostre virtù a nulla vi serviranno. Passate pure la maggior parte di vostra vita nell’orazione, castigate il vostro corpo con le mortificazioni più austere, fate limosine abbondanti, soffrite anche il martirio come i difensori della fede; se voi morite senza aver soddisfatto a qualche restituzione di cui siete incaricati, le fiamme eterne dell’inferno saranno la vostra porzione. E perché mai? Perché avete mancato ad un punto essenziale che Dio domandava da voi, che era di adempiere a riguardo del prossimo i doveri della giustizia, doveri sì stretti che nulla può dispensacene. I Sacramenti medesimi, qualunque virtù abbiano per santificare e salvare gli uomini, non saranno giammai per voi strumenti di salute sinché non avrete soddisfatto all’obbligo di restituire. Voi potete ottenere il perdono dei vostri peccati in virtù del potere che i sacerdoti han ricevuto di assolvere i peccatori; ma il potere di questi sacerdoti non si estende a liberarvi dai doveri di giustizia a riguardo del prossimo. Quando essi vi rimettono i vostri peccati lo fanno a condizione che ripariate quelle ingiustizie: qualunque contrizione ne abbiate voi concepita ella non è accetta a Dio, se non se in quanto rinchiude il proponimento di soddisfare al prossimo, se voi gli avete fatto qualche danno. Intendete voi questo linguaggio, ingiusti usurpatori dell’altrui? Si è il linguaggio del vangelo di Gesù Cristo. Se voi nol credete, rinuncia alla religione; egli è inutile che vi accostate ai sacramenti, che frequentiate i santi misteri, che vi frammischiate tra i Cristiani e che facciate professione di esserlo, perché il Cristianesimo non soffre veruna ingiustizia, il paganesimo stesso le condanna. Ma se voi credete ciò che la religione v’insegna su questo articolo, voi siete insensati a perdere la vostr’anima, che vale più che tutti i beni del mondo, per beni che non porterete con voi; siete ciechi a perdere una felicità eterna e a precipitarvi in un abisso di miserie, per non voler rilasciare un danaro, un bene che non vi appartiene. Or perdere la vostr’anima o perdere quel bene; o restituire o esser condannato. Or non è forse meglio esser povero e miserabile per qualche tempo, e felice durante l’eternità, che rendersi eternamente infelice per aver posseduto qualche tempo dei beni di cui non resterà che una trista rimembranza? Perdete dunque piuttosto tutto il vostro danaro, dice s. Agostino, che perdere la vostr’anima: Perde pecuniam, ne perdas animam. Tale è la conseguenza, fratelli miei, che voi dovete tirare dai principi che abbiamo ora stabiliti. Io non dubito che voi non siate interamente interamente convinti di quest’obbligo; ma si tratta di ridurlo in pratica. Condanniamo il furto negli altri e sovente siamo colpevoli noi stessi d’ingiustizie cui non pensiamo a rimediare. Siamo eloquenti a provar l’obbligo di riparar il torto che ci è stato fatto; ma non siamo più fedeli a compiere questo dovere e riguardo degli altri. Quanti pochi vi ha che facciansi giustizia su questo punto! Si ode parlare di furti, di rapine, di ladronecci: non vi lamentate voi medesimi tutti i giorni dei danni che vi si fanno? Ma si ode forse parlar di restituzione? Ne chiamo in testimonio coloro tra voi cui è stato recato pregiudizio. Ne avete voi molti che vi abbiano soddisfatto su questo punto? Donde vien dunque, fratelli miei, che si fanno poche restituzioni? S’ignora forse l’obbligo di farle? No senza dubbio: ma una perversa avidità per li beni del mondo sembra dare dei diritti su quello che uno non possiede; si vogliono ricchezze, e per questo non sa egli metter limiti a’ suoi desideri, ed usa tutti i mezzi possibili di accumularne; sieno poi giusti o ingiusti questi mezzi, poco importa, purché si venga destramente a capo dei propri disegni e si risparmi la vergogna di esser tenuto per ladro, purché si schivino i castighi con cui la giustizia degli uomini punisce questo peccato, non si bada più che tanto a rendersi colpevole avanti a Dio; e dacché una volta taluno si è impadronito dell’altrui e l’ha per qualche tempo posseduto, lo riguarda come suo proprio; il reo attacco che ha per esso fa che non possa risolversi a rilasciarlo, trova delle difficoltà per restituirlo, si accieca, si fa una falsa coscienza o soffoca i rimorsi che prova su questo soggetto; sopra vani pretesti egli si dispensa dal restituire; or è un possesso che egli riguarda come un giusto titolo, or un bisogno che ha di quei beni per aiutare la famiglia che teme impoverisca, talora il disonore onde si ricoprirebbe confessandosi colpevole d’ingiustizia colla riparazione che ne farebbe; finalmente l’impossibilità in cui crede essere di adempier quest’obbligo. Tali sono, fratelli miei, i sotterfugi dell’ingiustizia, le vane scuse che si allegano per esentarsi dalla restituzione, all’ombra delle quali si crede taluno in sicurezza della salute; ma pretesti e scuse frivole che non prevarranno giammai alla stretta legge della restituzione. – Non nego che il possesso dell’altrui e l’impossibilità possano dispensare dalla restituzione. Ma qual possesso? Egli dee essere un possesso di buona fede, ed ancora dee avere il tempo prescritto dalle leggi: un possesso di malvagia fede, per quanto lungo possa essere, non sarà giammai un titolo per ritenere l’altrui. Similmente un’impossibilità assoluta sospende la restituzione sinché essa dura, e non già quando cessi, e si venga in istato di risarcire il danno che siasi recato. Ma nella maggior parte di coloro che non restituiscono l’impossibilità che allegano a farlo è un’impossibilità chimerica, la quale non sussiste che nella fantasia. Io ho bisogno, dice taluno, di quella roba per vivere, non posso restituirla senza privarmi del necessario, diverrò povero, rovinerò la mia famiglia. Ma quegli cui voi avete tolta quella roba non ne ha forse egual bisogno di voi? È forse giusto che ne sia privo egli piuttosto che voi, che vi conserviate in una condizione agiata a sue spese? se la condizione cui siete innalzati è il frutto delle vostre ingiustizie, fa d’uopo abbandonarla; se non lo è, convien risparmiare e diminuir le spese per restituire quel che non v’appartiene. Voi temete, mi dite, d’impoverire e di rovinar la vostra famiglia; ma avete voi diritto di vivere a vostro agio e di nutrire la vostra famiglia con ciò che non è vostro? Amate voi meglio esser ricchi in questo mondo e lasciar ricchi eredi, per esser infelici nell’altro, che viver poveri e non lasciare pingui eredità ai vostri figliuoli, per salvar l’anima vostra? In mezzo alle fiamme dell’inferno, ove alla vostra morte sarete condannati, sareste voi molto consolati dalla rimembranza dei beni che avrete posseduto sulla terra, e dei ricchi eredi che profitteranno delle vostre ingiustizie, rimembranza di cui non vi resterà che la pena e i castighi? Che v’impedisce di fare le debite restituzioni e conservare il vostro onore, usando dei mezzi che la prudenza v’ispirerà per render al prossimo quel che gli appartiene? Se non potete far subito la restituzione intera, procurate almeno e con i risparmi’ e con il lavoro di soddisfare poco a poco; prendete una via d’accomodamento, se si può, purché la frode e la violenza non v’abbiano alcuna parte, perché la cessione in tal caso accordata, non essendo libera, non vi sgraverebbe punto dall’obbligo che avete. Vediamo ora chi sono gli obbligati a restituire.

II. Punto. Io non prenderò qui, fratelli miei, a fare un racconto esatto di tutte le ingiustizie che si commettono nel mondo; necessari sarebbero più discorsi per farle conoscere. Quel che può dirsi in generale si è che l’ingiustizia regna quasi in tutte le condizioni della vita. Non è solamente nelle foreste e sulle strade che abitano gli uomini rapaci: se ne trovano quasi in tutte le società del mondo; ve ne sono nelle campagne, nelle città; si commettono del furti nei luoghi pubblici e nelle case dei privati; l’ingiustizia e l’adulterio, come diceva altre volte un profeta, si sono sparsi come un diluvio sulla superficie della terra: Furtum et adulterium inundaverunt (Osea IV). Per convincervene con una descrizione tal quale i limiti d’un discorso me la permettono, bisogna distinguere coi teologi tre principi donde nasce l’obbligo di restituire. Siamo obbligati a restituire: o a cagione dell’altrui che possediamo, o a motivo dell’ingiusta usurpazione che ne abbiamo fatta, o per lo danno che abbiamo cagionato.

1°. Siamo obbligati alla restituzione a cagion dell’altrui che possediamo, sia che lo possediamo con mala fede sia che lo possediamo con buona fede. Il possessore di buona fede, cioè colui che possiede l’altrui roba credendo essere sua propria, è obbligato alla restituzione quando riconosce che quella non gli appartiene, che il suo possesso non ha durato il tempo prescritto dalle leggi per esser legittimo o non ha perduto quella roba durante la sua buona fede. Voi avete comprata una cosa rubata da uno che ne credete il padrone, e venendo a riconoscerne il padrone legittimo, siete obbligati a restituirgliela: voi avete ricevuto dai vostri padri beni che riconoscete mal acquistati; bisogna restituirli a chi appartengono, o se non potete scoprire il padrone, potete impiegarli secondo la sua presunta intenzione. Ora vi ha forse di quelli che vogliono spogliarsi di quello che hanno acquistato con buona fede, quando riconoscono che appartiene ad un altro? Perché, dicono essi, mi priverò io di una cosa che non ho acquistato con ingiustizia? Tocca a coloro che han fatto l’ingiuria a ripararla, io non ne ho fatto ad alcuno, poiché era in buona fede. No, voi non avete fatta alcun’ingiustizia nell’acquisto, ma tosto che riconoscete che la roba appartiene ad un altro fate un’ingiustizia ritenendola; siete obbligati di restituirla. Oimè! quanti vediamo noi al giorno d’oggi innalzati ad un’alta fortuna, di cui si potrebbe trovare l’origine nell’ingiustizia e nella malvagia fede di coloro che hanno lasciati loro quei beni; principalmente quando sono fortune assai rapide. Perciocché egli è ben difficile, dice lo Spirito Santo, arricchirsi in poco tempo e conservare la innocenza. Qui festinat ditari non erit innocens (Prov. XXVIII) . Non si diventa ordinariamente ricco in poco tempo che per avere o usurpato destramente l’altrui o esatto da una professione diritti che non erano dovuti; per avere esercitati certi impieghi nei quali si è trovato il segreto di fare guadagni eccessivi; per avere profittato della miseria altrui, come fanno certi uomini avidi, che ammassando tutte le derrate di un paese, vi cagionano orribili carestie e con questo obbligano gli altri a comperarle da essi a prezzi esorbitanti; il che è espressamente vietato dallo Spirito Santo, che minaccia della sua maledizione questa razza d’uomini: Qui abscondit frumenta, maledictus (Prov. XI). Io rimando dunque al tribunale della coscienza questi pretesi possessori di buona fede di certi beni, che sono stati da essi o dai loro padri accumulati in poco tempo, per esaminare avanti a Dio se le loro ricchezze fossero per avventura spoglie altrui, i frutti dell’usura, la sostanza della vedova, del povero e del pupillo; e se non vi riconoscono un possesso legittimo, li rendano, li restituiscano, altrimenti niuna salute per essi. – Veniamo ai possessori di malvagia fede, cioè a coloro che ritengono l’altrui con piena cognizione e contro la testimonianza della propria coscienza. Quanti che si ostinano su di questo! Sanno pur essi che la roba che posseggono non appartiene loro, e non possono risolversi a restituirla; bisogna che il padrone legittimo faccia dei passi e s’affanni, che li chiami avanti ai tribunali; bisogna che, suo malgrado, susciti una lite, che faccia dei viaggi, delle spese per ritirar il suo dalle mani d’un possessore ingiusto e farsi pagare da un malvagio debitore. Imperciocché quanti ve ne ha di questa sorta i quali non pensano in niuno modo a soddisfare un creditore se non venga loro domandato, e non siano obbligati per le vie del rigore! Quanti ricchi che mantengonsi in lusso alle spese d’un mercante, che vivono sul credito di coloro che somministrano loro gli alimenti, e non possono averne per pagamento che rifiuti, o al più al più delle promesse, le quali non si effettuano che più tardi che si può; mentre d’altra parte essi a nulla perdonano di ciò che può appagare la sensualità e la vanità! Quanti che procurano di nascondere una parte dei loro debiti, che non hanno difficoltà, quando possono, di frustrare dei loro diritti coloro cui sono legittimamente dovuti, perché altri non s’accorga della loro ingiustizia! Ah! fratèlli miei, investigate ben bene su di ciò il fondo del vostro cuore ed esaminate se avete sempre pagato esattamente quel che dovevate, se non avete ingannato, occultato, usati rigiri per godere di ciò che non vi appartiene. Qual è l’uomo irreprensibile su questo punto? Quis est hic, et laudabimus eum (Eccli. XXXI)? Non si ascolta che troppo spesso la voce della cupidigia più tosto che quella della giustizia, ed è ciò che cagiona tanta malvagia fede tra gli uomini, che rende l’ingiustizia sì comune, e sì rara la restituzione non solamente dei possessori dell’altrui, ma ancora degl’ingiusti usurpatori: il che si chiama furto o latrocinio. Sotto il nome di furto olatrocinio non bisogna solamente comprendere quelle azioni ingiuste con cui taluno si impadronisce dell’altrui, come fanno i ladri; ma convien intendere ogni sorta d’ingiustizia che fassi al prossimo, tutti i mezzi che si adoprano, tutti gli artifici, tutte le astuzie, tutte le frodi che s’impiegano per appropriarsi l’altrui. Or quante ingiustizie non si fanno nel mondo, nelle campagne, nelle città, nelle case! Ingiustizie nelle campagne, dove si veggono uomini d’una avidità insaziabile che non possono contentarsi nei limiti dei loro poderi, che li ingrandiscono, sia innovandosi su i loro vicini, sia trasportando i termini che li separano al di là del loro punto fisso. I più destri usano dell’ inganno, i più forti della violenza per ottenere un fondo che eccita la loro avidità e che desiderano unire al loro a qualunque siasi prezzo. Voi ne vedete altri che hanno il segreto di fare abbondanti raccolte senz’avere né seminato né lavorato; che nutrono i loro animali sui fondi altrui: non vi lamentate voi sovente del danno che vi si fa in questi differenti casi?Ma ve l’hanno forse risarcito? – Ingiustizie nelle campagne e nelle città tra le persone di commercio, che ingannano vendendo con falsi pesi, con false misure, o cattive merci od oltre al prezzo ragionevole; che comprano a vil prezzo, o a cagione dell’ignoranza d’ un venditore odel bisogno che egli ha di vendere. Quanti monopoli! Quante società in cui uno carica gli altri di tutta la perdita, riservando per sé tutto il profitto! Quante usure, facendo pagar più caro perché si vende a credito! Quante ingiustizie nei contratti per le falsità che vi s’inseriscono, sia nelle date, sia con altre clausole pregiudiziali ad una parte interessata! Tali sono quelli in cui, per toglierle ogni mezzo di ritirare un fondo venduto, si esprime con una somma più considerabile di quella con cui è stato comprato, e che nulladimeno si prende quando l’altro vuole usare dei suoi diritti. – Ingiustizie nei tribunali, dove si vedono litiganti suscitare, senza fondamento, delle liti per ottenere con il favore d’una giudiziale sentenza ciò che loro non è dovuto.- E Come questo? Perché essi sanno inventare raggiri e cavillazioni che i loro competitori non hanno prevedute; perché sono molto potenti in danaro ed in credito per opprimere quelli che non possono loro opporre che una debole resistenza. Così accade sovente che un povero Nabot perde l’eredità de’ suoi padri, invidiatagli dal ricco Acab, a cui è obbligato di cederla, o per una sentenza ingiusta o per un accomodamento irragionevole, che la parte più debole accetta senza esitare, per mettersi al coperto dalle vessazioni ancora più funeste. Sentenze ingiuste, accomodamenti forzati, di cui l’usurpatore si fa un titolo legittimo, ma che non lo giustificano avanti a Dio, il quale conosce l’iniquità del suo procedere. – Si è ancora avanti ai tribunali della giustizia che si vedono comparire falsi testimoni, i quali guadagnati col danaro o ritenuti dal timore tradiscono la verità, affermano la menzogna e portano all’innocente i colpi più funesti. Si è avanti a questi tribunali che sostenere si vedono cause inique, in cui sono state impegnate le parti mal a proposito: dove le buone ragioni soccombono sotto il peso delle raccomandazioni, o pure sono ritardate da una molteplicità di scritture, di nuove istanze, che s’inventano per arricchirsi a costo d’una parte che soffre, che si opprime di spese o a cui si fanno pagare diritti che non sono dovuti, e che so io? E che non direi ancora, se il tempo me lo permettesse? – Ingiustizia nelle case dei privati, dove si vedono i padri di famiglia consumare in bagordi ed in giuochi beni di cui essi non hanno che l’amministrazione; altri che obbligano con violenza le mogli a ceder le loro pretensioni; si veggono delle mogli che dissipano in folli spese beni che loro non appartengono, dei figliuoli che rubano ai padri e alle madri, che prendono nella comune eredità tutto ciò che credono poter servire a contentare la loro vanità, a somministrare ai loro piaceri. Qui io veggo padroni che non pagano i salari dei loro servitori, che li fanno soffrire con ingiuste dilazioni, che ritengono o in tutto o in parte lo stipendio agli operai, peccato enorme che grida vendetta al cielo contro coloro che sene rendono colpevoli: Ecce merces operariorum clamat, et clamor eorum in aures Domini introivit (Jac. V). Là scorgo servi che rubano ai loro padroni sotto pretesto che non sono sufficientemente pagati; operai che non lavorano fedelmente o per difetto del tempo che dovrebbero impiegar nel lavoro, o per la cattiva qualità della materia che v’impiegano, o pure che mettono troppo tempo a fare quel che potrebbe esser fatto più presto, o finalmente che inducono a fare spese inutili coloro che li impiegano al lavoro. – Possiamo dunque dire con tutta verità, fratelli miei, che vi sono ben molti colpevoli d’ingiustizia ed obbligati alla restituzione per li furti e latrocini che si commettono nei diversi stati delta vita. Ma vi è un terzo titolo di restituzione: il danno che si reca al prossimo. – Si può cagionar danno al prossimo direttamente o indirettamente, cioè per sé stesso o per mezzo altrui; per sé stesso, distruggendo il bene che egli ha, o impedendogli ingiustamente d’ acquistare quel che non ha. Gli si cagiona del danno per mezzo d’altrui quando s’induce qualcheduno a fargliene, e allorché non s’impedisce quando vi è obbligo. Non fa bisogno, fratelli miei, né il tempo lo permette, di far conoscere le diverse ingiustizie che si commettono cagionando del danno al prossimo nei suoi beni. Coloro che sono colpevoli in questo punto lo conoscono abbastanza da sé. Io parlo solamente di quella che regna nella comunità, nella distribuzione delle imposizioni edei pubblici carichi. Coloro che vi si sono preposti per farle caricano gli uni più che gli altri, senza consultare le proporzioni dei beni. Quante trame per far cadere i voti di un impiego onoroso sopra alcuni oincapaci di sostenerlo oche non sono ancora obbligati di accettarlo! Quindi il torto fatto alla comunità o a coloro che sono incaricati di si fatti impieghi ordinariamente pregiudiziali; quindi l’obbligo di restituire; ma chi pensa a farle? Si porta ancora del danno al prossimo impedendogli per vie ingiuste di acquistare un bene che non aveva e che poteva lecitamente procurarsi, attraversando con frode e con violenza un disegno che gli era favorevole. – Voi allontanate una persona ben intenzionata a riguardo di un’altra dal farle del bene, diffamandola appresso di essa servendovi di qualche mezzo ingannevole o violento per impedire la buona volontà del benefattore; con le vostre maldicenze e calunnie voi impedite a quel giovane o a quella figliuola di trovar un partito, a quel servo una condizione, a quell’operaio un posto: voi diffamate quel mercante nel suo negozio con le false accuse che contro di lui intentate. Siete obbligati di rifarli dei danni: ma chi vi pensa? Diventiamo finalmente colpevoli d’ingiustizia ed obbligati alla restituzione quando cooperiamo all’altrui danno. Or gli uni vi cooperano in una maniera positiva, gli altri in una maniera negativa. I primi sono coloro che raccomandano, che consigliano, che consentono, che favoreggiano le ingiustizie o approvando o dando asilo a quelli che le commettono. Gli altri sono coloro che non le impediscono, che non le manifestano, allorché sono a ciò per dovere obbligati. Nella prima classe io comprendo i padri e la madri, i padroni e le padrone, tutti coloro che hanno qualche autorità, e che se ne servono per cagionare del danno al prossimo col mezzo di quelli che loro sono soggetti, sono obbligati a ripararlo, come se fossero la causa principale: di modo che se non possono restituire quelli che hanno loro ubbidito, sono essi tenuti a riferirli del danno. – Or quanti vi sono padri e madri, padroni, superiori, che inducono i loro figliuoli, i loro servi, i loro inferiori a rubare ciò che non oserebbero togliere per essi, o per lo meno, che, vedendoli recare del danno, non si servono della loro autorità per impedirlo! Quanti si trovano altresì cattivi consiglieri che sollecitano gli altri a nuocere al prossimo, l’inducono a liti inique, insegnano a questi le misure che possono prendere per riuscire in un’ingiusta intrapresa, indicano a quelli il luogo per cui uno deve passare, gli strumenti di cui può servirsi per un furto che esso medita! Quanti che, con le adulazioni e lodi che danno a coloro che han fatto malvage azioni, di bel nuovo ve li inducono! Quanti che coi rimproveri che fanno al nemico di un altro della sua debolezza e timidità, lo portano a vendicarsi, a cagionargli del danno! Si pensa forse a risarcire i danni che sono la conseguenza dei cattivi consigli? No senza dubbio , si lascia quest’obbligo a coloro che li hanno eseguiti, e si dimentica d’esser gravati del peso medesimo. – Lo stesso si deve dire di coloro che danno asilo ai ladri, che custodiscono o comprano le cose rubate, come accade sovente, dai figliuoli di famiglia e dai servi, i quali non prenderebbero sì facilmente, se non trovassero chi il riceve in casa loro o per comprare quello che fan preso o per loro somministrare l’occasione di spendere. Invano, per scusarsi, diranno che se non avessero comprato essi, altri l’avrebbero fatto, oppure che quei figliuoli avrebbero fatte altrove le medesime spese. Non si può giustificare una malvagia azione con l’altrui esempio. Cessiamo forse d’ esser omicidi, perché senza di noi un altro avrebbe commesso quel delitto? No senza dubbio! Vedete la conseguenza nel suo principio. Rinchiudiamo ancora nell’obbligo di restituire coloro che partecipano all’altrui ingiustizia o dando soccorso o profittando dei latrocini. Finalmente quelli che sono incaricati per dovere d’invigilare alla conservazione degli altrui beni, hanno obbligo di restituire, se, vedendo che si reca del danno, non dicono cosa alcuna, non si oppongono, o non manifestano i danneggiatori quando li conoscono; tali sono coloro che coprono impieghi, uffizi che li obbligano alla conservazione delle cose degli altri, o che ricevono stipendi per questo motivo. Ma oimè! fratelli miei, quanti ve ne ha che adempiono il loro dovere? Quanti al contrario ricevono doppia ricompensa, e da coloro cui si fa un danno che dovrebbero impedire, e da quelli che lo fanno, per non opporvisi! Non ho io avuto ragione, fratelli miei, di dire e le ingiustizie sono molto comuni nel mondo? Che non è solamente sulle strade e nelle foreste che si commette il furto , ma che questo peccato regna in quasi tutti gli stati della vita? Contuttociò quanto è comune l’ingiustizia, altrettanto rara è la restituzione. Bisogna forse stupirsi se il numero dei reprobi è così grande, poiché non si può entrare nel cielo con l’altrui, e moltissimi non possono risolversi a lasciarlo quando lo posseggono? Non siate, fratelli miei, di questo numero infelice; se riconoscete nei vostri beni qualche cosa che non vi appartenga, rendetela al più presto; se avete recato qualche danno, risarcitelo senza differire: perdete tutto quel che avete nel mondo, e conservate un’anima che è costata il sangue d’un Dio; rinunciate ai beni transitori per acquistare gli eterni beni del cielo. Abbiam veduto l’obbligo di restituire, vediamone le regole ed il modo di farlo.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis. [Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Da, miséricors Deus: ut hæc salutáris oblátio et a própriis nos reátibus indesinénter expédiat, et ab ómnibus tueátur advérsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole. ]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (134)

LO SCUDO DELLA FEDE (134)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccuno Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (1)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

A’ MIEI FRATELLI ITALIANI.

Italiani Fratelli! una grande insidia vi è tesa! Già da parecchi anni una moltitudine di scaltri emissarii del Protestantismo vanno di continuo aggirandosi intorno a voi per cogliervi nei loro lacci. Italiani Fratelli! non si tratta di meno che di strappare dai vostri cuori la Santa Cristiana Fede, di stirpare dalla nostra deliziosa Italia la sua gloria più bella, il suo più magnifico e prezioso tesoro, la Cattolica Religione, e a lei sostituire le sinagoghe dei loro errori. Italiani Fratelli! non solo i nostri più avveduti, ma persino alcuni dei loro correligionari di retto cuore e sincero, non lasciano di seriamente avvertirci che il loro scopo primario è tutt’altro che l’aumento della falsa lor religione; che questa non è che un pretesto, un mezzo di cui voglion servirsi per acquistar partitanti tra noi, e quindi aver modo di attaccar brighe co’ nostri,… sotto pretesto di protezione, finché arrivino a farsi nostri duri padroni, a dominar da dispotici il nostro ameno paese! – Infatti, il vedere che tanto tra noi si affaticano, e spendono tanto per acquistar de’ proseliti: che tanta carità ostentano pei nostri poveri, mentre nei loro paesi sono indifferentissimi, e non pochi chi tutto increduli in fatto di religione, ed hanno pei loro poveri un cuore di tigre: il vedere che arruolano per proseliti, e con tanto dispendio, ogni sorta di ribaldaglia, increduli, discoli, oziosi. falliti, le donnacce di mondo, gli avanzi di galera e simili, nulla loro importando che diventino buoni cristiani, né tampoco onestuomini, ma solo contentandosi di far gente; il veder finalmente la smania grande che hanno…. certuni di fermare il piede sulla nostra terra, le brutte mene che a tale oggetto non cessano di adoperare, il grande impegno di proteggere ad ogni costo questi loro emissarii; ci induce necessariamente e credere che qui gatta ci cova, che non senza fondamento sono i nostri sospetti. – Essendo poi questi garbati propagatori di Protestantismo ben consapevoli che non è dalla parte loro la verità, per ottenere l’iniquo intento evitano scaltramente le dimissioni colle persone illuminate e capaci di turar loro la bocca, e presentano agli altri la loro corretta Bibbia allettandoli pur col denaro a prenderla e leggerla: inondino in pari tempo ogni luogo con un diluvio di libercolacci, che posson dirsi compendii dell’errore, dell’impudenza, della malignità e della menzogna; né cessano di spargere per ogni dove, e far gridare ai loro complici ogni sorta di vituperii contro il Vicario di Gesù-Cristo ed il Clero cattolico, onde alienare per tal modo i semplici e i deboli dalla Cattolica Fede. Quanto essi spacciano a voce e in iscritto fu già le mille volte dai Cattolici vittoriosamente confidato: ma tutti ciò non conoscono, e molti essendo incapaci di discernere il vero dal falso, restano colti nelle tramate insidie. Affine pertanto di turar la bocca a questi emissarii e illuminare gli incauti, ho composto la presente Operetta, la quale sarà nelle mani di questi un’arma potente contro le dicerie ed imposture di quelli. Imperocché nella sua prima parte discusse restano quelle materie di dogma e disciplina della Cattolica Chiesa, le quali singolarmente sono da essi prese di mira, e giudicata è la nostra e la loro credenza con la sola autorità della Bibbia, a cui con  tanto sussiego sempre si appettano, e dei primari autori, i protestanti antichi e moderni, compresi i loro medesimi Fondatori. La seconda parte presenta un genuino prospetto del Cattolicismo e del Protestantesimo: chi sia il Papa: presso di chi sia la vera santa Scrittura: chi ne siano i corruttori: chi gli ingannatori de’ popoli: qual delle due sia la Chiesa bottega: qual sia la vera Chiesa di Gesù-Cristo, e quale quella dell’Anticristo, con altre cose di sommo rilievo. – Avrei potuto addurre in prova della nostra causa e a condanna del Protestantismo molte altre sentenze e della Santa Scrittura e di stimatissimi autori protestanti: ma per non rendere questa Operetta troppo voluminosa, ho dovuto ristringermi (non senza mio dispiacere) a citarne quelle soltanto che bastar potevano abbondantemente al mio scopo. – Dispiacerà forse a taluno in questa Operetta la lunghezza dei periodi o degli argomenti come poco conveniente al metodo dialogico; ma spero sapranno perdonarmi, quando avvertiranno: 1.” Che, sebbene qui si proceda a forma di dialogo, non è rigorosamente parlando vero dialogo, ma piuttosto controversia, dibattimento, in cui ciascuna delle parti è in diritto di esaurire le proprie ragioni senza esserne interrotta, come praticar si vede nel sistema giudiziario e parlamentare: 2.” Che far non potevo diversamente senza grave danno della verità, perché attenendomi alla brevità dialogica, dopo aver recata in ciascun luogo una o al più due sentenze della Santa Scrittura, o dei protestanti, avrei dovuto (come ognun vede) omettere assolutamente tutte le altre, le quali, non riguardando che la medesima cosa e sotto il medesimo aspetto, non mi restava più luogo a citarle. – Del resto, qualunque sia il merito di questa Operetta, sono certo almeno che riunite vi sono tali e tante incontrastabili prove della verità della Cattolica Fede e della falsità del Protestantismo, che molto giovar potranno non solo a confermare in quella i vacillanti Cattolici, ma a renderne ancora convinti que’ moltissimi protestanti che con puro cuore e retta intenzione vanno in traccia della verità.

PRIMA PARTE.

L’Appello del Protestantismo alla Bibbia contro la Cattolica Chiesa.

DISCUSSIONE I.

L’ indefettibilità della Cristiana Chiesa.

.- 1. Protestantismo. OSanta Bibbia! Io sono il Protestantismo, vostro fedele seguace, poiché fo professione di non riconoscere altra Norma, altro Maestro che voi. A voi dunque mi appello contro li errori, contro le inique sentenze del Papismo, detto con altro nome, Cattolicismo e Chiesa Romano-Cattolica, il quale mi condanna come setta eretica, etc. etc. perché riprovo i suoi diabolici errori! Sì li riprovo e detesto; e primieramente riprovo in ogni modo e detesto che egli si dica l’antica vera Chiesa di Gesù-Cristo: essendo fuor d’ogni dubbio che questa, sino dal tempo della Passione del Redentore, perdé la fede e cessò quindi di esistere, né tornò a vivere che colla mia Santa Riforma.1 Onde « sotto il Papato il Cielo era chiuso, né mai uomo alcuno vi si è salvato; imperocché chiunque approva la religione dei Papisti è necessariamente e per sempre perduto nell’altra vita. » Lutero, Op. ediz. Vulch. T. X, p. 2541).

Bibbia. È scritto: « Stava vicino alla croce di Gesù la sua » Madre e la sorella di sua Madre. Maria di Cleofa, e Maria Maddalena. E avendo Gesù veduto la Madre, e il discepolo da lui amato, etc… Dopo di ciò Giuseppe d’Arimatea (discepolo di Gesù …. ) pregò Pilato per prendere il Corpo di Gesù…. Venne anche Nicodemo ‘quegli che la prima volta andò da Gesù di notte)! portando di una mistura di mirra e di aloe quasi cento libbre etc. » (Giov. XIX, v. 25, 26, 38, 39) E Gesù…. spirò…. E tutti i conoscenti di Gesù stavano alla lontana, come anche le donne che lo avevan seguito dalla Galilea, osservando tali cose. » « Partì dunque Pietro e quell’altro discepolo, e andarono al monumento. » (Luc. XXIII 46, 49). Hai bene inteso? Dir non potrai certamente che tutte queste persone avessero perduta la fede nel tempo della Passione, e che non formassero in quell’epoca la più eletta parte della Chiesa Cristiana; né dir potrai che perduta l’avessero gli altri credenti; poiché di essi non si fa parola.

Protestantismo. È scritto: « E allora disse loro Gesù (agli Apòstoli): tutti voi patirete scandalo per me in questa notte…. Gesù gli disse (a Pietro): in verità ti dico che in questa notte,prima che il gallo canti, mi negherai tre volte…. Ma (Pietro) negò dinanzi a tutti…. Egli negò di nuovo, etc. »« Apparve (Gesù) agli undici mentre erano a mensa, e rinfacciò ad essi la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano. prestato fede a quelli che l’avevan veduto risuscitato (Marc. XVI14).Tutti questi non avevan forse perduta la fede?

Bibbia. No certamente, perché per la loro fede, e singolarmente per quella di Pietro, già pregato aveva il Redentore, le cui preghiere restar non potevano senza effetto. « Cosi parlò Gesù: e alzati gli occhi al cielo, disse: Padre, è giunto il tempo, glorifica il tuo Figliuolo…. Per essi io prego…. Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che a me hai consegnati, affinché siano una sola cosa con noi. » (Giov. XVII. 1, 9, 11) Disse di più il Signore: Simone, Simone…. Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno. » (Luc. XXII 31, 32). – È scritto ancora: « E allora i suoi discepoli abbandonatolo, tutti fuggirono…. Pietro però lo seguitò da lungi sino dentro il cortile del Sommo Sacerdote. » (Marc. XIV50) « Ma egli (Pietro) negò, dicendo, etc… E il Signore voltatosi mirò Pietro, e Pietro si ricordò della parola dettagli dal Signore: Prima che il gallo canti mi negherai tre volte. E Pietro usci fuori e pianse amaramente » (Luc. XXII, 57, 61, 62) – Da tutto questo è chiaro che lo scandalo patito dagli Apostoli sia la loro fuga, come anche la triplice negazione di Pietro non furono in modo alcuno un effetto di mancanza di fede, ma solo timore, di umana fragilità. Gli riprese poi tutti d’incredulità ma unicamente per rapporto alla sua risurrezione; per la qual cosa non può dirsi che peccato avessero contro la fede, poiché tale articolo non lo avevano ancor conosciuto, siccome è scritto: « Allora pertanto entrò anche l’altro discepolo, che era arrivato il primo al monumento, e vide e credette: imperocché non avevano per anco compreso dalla Scrittura com’Egli doveva risuscitare  da morte » (Giov. XX, 8, 9) Quindi gli riprese non perché non avessero creduto in lui, ma bensì a quelli che lo avevan veduto risuscitato. Finalmente supposto ancora che tutti questi avessero perduta la fede, non ne seguirebbe per questo che perita fosse tutta la Chiesa: poiché essi né erano tutta la Chiesa, né tampoco la maggior parte di essa.

2. Protestantismo. Se non perì la Chiesa in quel tempo certo almeno che ella perì assolutamente nel secolo secondo (Priestley), oppure nel terzo, (Gibbon) oppure nel quarto, (Blondel presso Moore) oppure nel quinto, (Gibbon, D’Aubigne) oppure nel sesto, (Ospiniano) oppure nel settimo (Newman, Palmer) oppure nell’ottavo ( Pastor Claudio verso Bossuet), oppure nel nono (Newman, Palmer).

Bibbia: Questi tuoi tanti oppure, oppure sono una prova più forte per convincerti di turpe contradizione, e di mala fede, il peggio si è che in ciò tu sostieni una grande eresia, contraddicendo al Divin Redentore, il quale ha solennemente promesso chela sua Chiesa non sarebbe mai venuta a mancare. Ecco le sue parole …« E io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei » (Matt. XVI, 18); « Ecco che io sono con voi per tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli » (Matt. XXVIII, 20) E S. Paolo dice : «  Chiesa di Dio vivo (è) colonna e sostegno della verità. » ( I Tim. III, 15; Ps. XLVII; Isa. IX, 7; LXI, 1,8; Mich. IV 7; Luc. I, 13; IV, 18)

3. Prot. È scritto: « Quando verrà il Figliuolo dell’ uomo, credete voi che troverà fede sopra la terra? » (Luc. XVIII, 8). « Non vi lasciate sì presto smuovere…. quasi imminente sia il dì del Signore …  imperocché (ciò non sarà) se prima non sia/seguita la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato (II Tess. II, 12). Qui è chiaramente predetto, che verso la fine del mondo perirà totalmente la Chiesa. Onde ben vedete che quella divina promessa ha sicuramente le sue buone eccezioni.

Bibbia. Parlando del medesimo tempo, dice ancora il Redentore che « Falsi Cristi e falsi profeti faranno miracoli grandi e grandi prodigi, da far che sieno ingannati, se fosse possibile, anche gli stessi eletti. Ma saranno accorciati que’ giorni in grazia degli eletti. » (Matt. XXIV, 22, 24). Oltre a ciò, riguardo al medesimo tempo, sta scritto: Vidi un Angelo che…. gridò ad alta voce ai quattro Angeli, ai quali fu data commissione di far del male alla terra e al mare, dicendo: Non fate male alla terra e al mare, né alle piante sino a tanto che abbiamo segnati nella fronte i servi del nostro Dio. E udii il numero dei segnati, cento quaranta quattro mila segnati di tutte le tribù dei figliuoli d’Israele…. Dopo di questo vidi una turba grande, che nessuno poteva numerare di tutte le genti e tribù, etc. » (Apoc. VII, 2 e segg.) Dunque neppure allora sì perderà la fede, non perirà la Chiesa; giacché un’immensa moltitudine si manterrà costantemente fedele. Pertanto il primo testo da te citato non deve intendersi che tutti perderanno la fede, ma che molti non avranno una fede viva pel raffreddamento della carità; ed il secondo, che la ribellione sarà di molti, non già di tutti. Ciò dichiara lo stesso Divin Redentore, dicendo: « Sorgeranno molti falsi profeti e sedurranno molta gente…. E poiché sarà abbondata l’iniquità, raffredderassi la carità di molti » (Matt. XXIV, 11, 12).

4. Prot. Stringenti sono le vostre ragioni, nè vi è da opporsi, imperocché: «Avendo Gesù-Cristo detto a S. Pietro, ed io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa;facilmente si vede che Cristo con queste parole promette alla sua Chiesa la forza di non perire. » (Rosenmuller) « Il senso pertanto di queste parole di Gesù-Cristo è che niuna forza nemica, anche potentissima e massima, mai potrà rovesciare, o distruggere la sua Chiesa. (Kuinoel) « Se da noi s’immagina che tutti i Pastori della Chiesa abbiano potuto errare ed ingannare tutti i fedeli; come si potrebbe difendere la parola di Gesù Cristo, il quale ha promesso a’ suoi Apostoli, ed in persona diessi ai lor successori, di esser sempre con loro? Promessa che in tal caso non sarebbe verìdica: poiché gli Apostoli viver non potevano sì lungo tempo (sino alla consumazione de’ secoli), se in esse non  fossero alati compresi i successori dei medesimi Apostoli. » (Dr. Bull angl.). « Secondo il sentimento dei Padri, non vi ha dubbio che insieme ai segni ci vengano poste innanzi eziandio le cose stesse, ma in una guisa tatto oltre natura, o soprumana. Coloro che aderiscono ai protestanti (ed è questa l’opinione mia), come fuori d’intelletto pel furore di disputare, pure conoscono troppo bene gli insegnamenti dell’antica Chiesa, e come in oggi continui la Chiesa Cattolica. Se non che fanno le viste di non intender nulla, per aver agio di ordire a loro posta e mettere in ordine le fila di qualche cosa per coloro che si addanno e si acconciano più facilmente co’ sensi del corpo che con quelli dell’anima. » (Grozio). Concludo confessando che « Nel Papato vi hanno verità di salute. anzi tutte le verità di salute che abbiamo ereditate: poiché egli è nel Papato che noi troveremo le vere Scritture, il vero Battesimo, il vero Sacramento dell’altare, le vere chiavi che rimettono  i peccati, la vera predicazione, il vero catechismo, che contiene l’orazione Domenicale, gli articoli della fede, ed aggiungo, il vero Cristianesimo » (Lutero, Op. Germ.) Ecco quanto vi confesso di credere, né perciò punto mi contradico sostenendo le mie prime asserzioni.

IL SACRO CUORE DI GESÙ (36)

IL SACRO CUORE

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ (36)-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE PRIMA

CAPITOLO III.

PRATICHE DELLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE

La beata ci presenta la divozione al sacro Cuore, come un insieme di pratiche determinate, ma la pratica va, per lei, molto al di là di queste pratiche. Nei suoi scritti, come nella sua vita, la sua cara divozione è l’anima di tutto, è uno spirito di amore che penetra e domina tutto. La divozione al sacro Cuore, come ella l’intende, è una formula ammirabile di vita cristiana e perfetta; tutta di Gesù, tutta in Gesù, tutta per Gesù. È l’amore di Gesù che invade l’anima, in tutti i suoi pensieri, i suoi affetti e le sue azioni, per modo che non siamo più noi che viviamo, ma è Gesù Cristo che vive in noi. Tutto ciò si rileva da ogni pagina della beata; non si ha che leggere i suoi scritti, per rendersene conto. Cominceremo col passare in rivista le pie pratiche che ci vengono da lei suggerite; poi accenneremo qualche testo, per mostrare come essa intende la divozione al sacro Cuore.

(Su queste pratiche, si hanno ampi particolari nel: Le règne du Sacre Cceur, t. II. Il tomo III, studia quali sono, secondo Margherita Maria « le virtù domandate dal sacro Cuore a tutti i suoi servi »; il tomo IV studia « le virtù particolari richieste ai Cristiani e ai religiosi » come pure le « diverse divozioni che hanno rapporto al sacro Cuore »).

PRATICHE DELLA DIVOZIONE AL SACRO CUORE

1.

LE PRATICHE

– 1. Immagine. 2. Consacrazione. — 3. Ammenda onorevole. 4. Comunione e divozione verso l’Eucaristia. — 5. Ora santa in unione a Gesù sofferente. 6. Divozione alla santa Vergine. 7. Le anime del purgatorio. 8. Pratiche diverse.

Le pratiche della divozione al sacro Cuore sono, presso a poco, quelle che la beata ha messo in vigore, sia quelle che essa ha approvato e fatto sue proprie e che proponevano, nei loro libri e taccuini, la Madre de Soudeilles, suor Joly, il P. Croiset. Qualcuna le è stata chiesta direttamente da Nostro Signore; altre sono state scelte da lei medesima, siccome molto grate al sacro Cuore; altre ancora ella s’ingegna di trovare, per mettere sempre più in rilievo la sua cara divozione. Qualcuna, fra queste, sono andate in disuso, o quasi.

(Quella, per esempio, dei biglietti che hanno da una parte delle invocazioni al sacro Cuore e dall’altra all’Immacolata Concezione, che si bagnano nell’acqua e s’inghiottiscono a digiuno. Lettera LXXXII (LXXXIIl), t. II, p. 159 (196); G. LXXXIII, 397. La beata parla di guarigione miracolosa, dovuta a questa pratica. Loc. cit. Cf. Lettera LIII (LIV), t. II, p. 104 (141); G. LIX, 344).

Altre sono rimaste, (la consacrazione, l’ammenda onorevole, ecc.), e varie che non si presentavano che in germe hanno preso sviluppo. Tali sono gli uffici, l’apostolato della preghiera, ecc.

1. L’immagine.

L’immagine occupa un gran posto nelle visioni di Margherita Maria, nei desideri e nelle promesse del sacro Cuore. Si capisce, perciò, che occupi pure un gran posto nelle preoccupazioni e nella corrispondenza della beata. Per lei è come un mezzo di propagare la sua cara devozione e una pratica speciale di questa stessa divozione, pratica desiderata da Gesù e alla quale egli ha promesso di annettere molte grazie. Così ella ne vuole ad ogni costo. E quanto si dà da fare per sollecitarne l’esecuzione, come l’aspettativa le sembra lunga! E come è felice quando i suoi desideri sono alfine esauditi e con qual gioia ne fa larga distribuzione! (Vedi nella Vie et Ocuvres, l’indice analitico alla chiamata: Images et tableax. Siccome l’indice è omesso da Mons. GAUTHIER, ecco qualche indicazione della sua edizione delle lettere, t. II, Lettere XL, XLII. XLV. XLVII, LI, LII. LIII (con la nota), LVI, LX,LXVI.). Non ha avuto essa forse le più consolanti promesse del sacro Cuore per coloro che porteranno su di se queste care immagini? Non ha forse avuto la sicurezza di benedizioni speciali, per le case ove saranno esposte e onorate? Gesù non ha forse detto che le vuole in un posto d’onore, anche nel palazzo dei re e sul vessillo di Francia? Nelle visioni della beata ora è il Cuore solo che si mostra, ora Gesù le apparisce mostrandole il Cuore. Nelle prime immagini che furono fatte non si ritrova mai la persona adorabile di Nostro Signore (Ciò dipende, torse, dal fatto che è più tacile disegnare l’immagine del cuore solo); il cuore solo vi è rappresentato. Esso ha la forma convenzionale a cui la divozione alle cinque piaghe aveva ormai abituato. Il carattere simbolico della rappresentazione, è indicato in vari modi; con le fiamme, coi « laghi d’amore », con la corona di spine e la croce, con la parola charitas. Le immagini che fece stampare la Madre Greyfìé, per farne dono alla beata e alle sue novizie, sembrano essere state la riproduzione, allora in uso, delle cinque piaghe (Cf.: Vie et Oeuvres, t. I , p. 223 (452); G. n. 242, pag. 220). Si sa che questa rappresentazione aggruppava tutto intorno al cuore ferito e in questo modo si aveva, per così dire, l’immagine del sacro Cuore, prima che assumesse il suo vero significato. Fu una delle preparazioni provvidenziali alla divozione.

2. La consacrazione.

Per questa deve intendersi due cose: un atto di consacrazione, che si fa e si rinnova, secondo le occasioni, e un dono completo di sé al sacro Cuore, affine di non viver più che per Lui, per i suoi interessi e per l’amor suo. Su questo punto abbiamo dei testi della beata. Eccone alcuni: « Egli mi chiese, dopo la santa Comunione, di rinnovargli il sacrifizio che già gli avevo fatto della mia libertà e di tutto il mio essere, ciò che feci con tutto il cuore » (Mémoire, t. II, p. 321 (374) ; G. n. 48, p. 65). – Qualche volta la donazione è chiesta sotto forme speciali. È la vittima che deve offrirsi per i peccatori, o per la comunità, o per le anime del Purgatorio. Si sa la celebre scena in cui ella dové espiare per la comunità: « Io ti vogli dare il mio cuore, ma prima devi farti vittima d’immolazione per essa » (Mémoire, in Vie et Oeuvres, t. II, p. 338 (395). Riveduto su G. n. 72, p. 84). La donazione su testamento è più originale: « Una volta il mio divino sacrificatore mi chiese di fare un testamento, scritto in suo favore, ossia una donazione intera e senza riserva, com’io gli avevo già fatto di viva voce, di tutto quello ch’io potrei fare o soffrire e di tutte le preghiere e beni spirituali che si farebbero per me sia in vita che dopo la mia morte. Volle ancora che io chiedessi alla mia superiora che volesse fare da notaio a quest’atto, impegnandosi di pagarla solidalmente. La mia superiora accettò di farlo » (Mémoire Atitographe in: Vie et Oeuvres, t. II, p. 348 (406) ; G. n. 84, p. 95).

Quest’atto ci è stato conservato nelle Contemporaines (Vie et Oeuvres, t. I, p. 128 (159) ; G. n. 191, p. 172: cf. G. Ecrits de la Mère Greyfié, n. 50, p. 408: « Viva Gesù nel cuore della sua sposa, Suor Margherita, per la quale e in virtù del potere che Dio mi da su di lei, offro, dedico e consacro, puramente, inviolabilmente al sacro Cuore dell’adorabile Gesù tutto il bene che ella potrà fare durante la vita e quello che verrà fatto per lei, dopo la sua morte; affinché la volontà di questo divin Cuore ne disponga secondo il suo beneplacito e in favore di chiunque a lui piacerà, sì vivo che trapassato. Suor Margherita Maria protesta che si spoglia volonterosamente di tutto, eccettuata la volontà di stare continuamente unita al divin Cuore del suo Gesù e di amarlo puramente per Lui stesso. In fede di che, ella ed io, firmiamo questo scritto, fatto l’ultimo giorno di dicembre 1638. Suor Pierina Rosalia Greyfié, attualmente superiora e della quale suor Margherita Maria implorerà tutti i giorni la conversione da quel Cuore divino e adorabile, insieme alla grazia della perseveranza finale ». La stessa Margherita Maria ci dice come fece la sua firma: « Io la segnai sul mio cuore con un temperino, col quale scrissi il sacro nome di Gesù, come il mio divin Maestro voleva e come segno ancora qui: suor Margherita Maria, discepola del divin Cuore dell’adorabile Gesù ».) ed è in data del 31 dicembre 1678. Nostro Signore, in compenso, la costituì erede dei tesori dei sacro Cuore con un atto che essa scrisse col suo proprio sangue, come lo leggeva nel cuore del Divin Maestro. Abbiamo anche quest’atto (Vie et Oeuvres, t. I, p. 119 (159): G. n. 192, p. 173. Cf. Lettres inédites, Lettera I V , p. 145; G. CXXXI1I, 511-572, et CROISET, Abrégé, p. 48-49. Ecco quest’atto come lo danno le Contemporaines: « Io ti costituisco erede del mio Cuore e di tutti i suoi tesori,per il tempo e per l’eternità, permettendoti di usarne secondo il tuo desiderio, io ti prometto che non mancherai di soccorso che quando il mio Cuore mancherà di potenza. Tu ne sarai sempre discepola prediletta, oggetto del suo beneplacito, olocausto dei suoi desideri e Lui solo sarà l’oggetto di tutti i tuoi desideri e riparerà e supplirà ai tuoi diletti, e ti aiuterà a soddisfare ai tuoi obblighi. » La beata ci dice (loc cit.) che Nostro Signore la faceva scrivere col di lei sangue a misura che le dettava. Ella ne scriveva così al P. CROISET. « Egli mi fece leggere (nel suo Cuore) e poi scrivere quello che vi aveva già scritto per me. Eccone qualche riga, con un testamento fatto in mio favore. » Le due formule han riscontro in quanto al senso, ma alcune espressioni sono del tutto diverse: Ciò che vi ha di ricercato e di dubbio nell’atto riportato qui sopra è spiegato nella lettera in termini chiari e naturali. Ciò sia detto per quelli che studiano la mistica e la psicologia). – La beata chiedeva questa consacrazione a tutti gli amici del sacro Cuore, il P. de la Colombière la fece, dicono, sino dal 21 giugno 1675 e la rinnovava frequentemente (Contemporaines, t. I, p. 94 (124): G. n. 153, p. 138 ; CROISET, La dévotion au Sacre Coeur, 3.» parte, c. 4 : Offrande, p. 179: Cf. 1°. parte, c. 2, p. 10). La prima festa del sacro Cuore, celebrata a Paray dalle novizie della beata il 20 luglio 1685, per Santa Margherita, ebbe per punto principale la consacrazione: « Ella ci lesse un atto di consacrazione, che aveva composto in onore del divin Cuore…., e c’invitò a scrivere ciascuna il nostro atto di consacrazione, promettendoci di aggiungervi una  qualche parola di suo pugno, a seconda delle nostre disposizioni » (Contemporaines, t. I, p. 207 (237); G. u). Ci sono state conservate una o due delle consacrazioni della beata e non vi ha chi non ne abbia veduta una stampata o in fac-simile. La beata l’aveva unita a una lettera diretta alla madre di Soudeilles, il 15 settembre 1686; e ne aveva pur mandato copia, con qualche parola cambiata, a Suor de la Barge. Le editrici del 1867 l’hanno riprodotta, ma confondendo i due testi (Lettera XLVIII (XLIX), t. II, p. 92 (129); Lettera XLIX, 238, p. 215, t. II, p. 98 (135); G. LIII, 328, LIV, 332). Si hanno ambedue gli autografi:

(Ecco la copia di uno dei fac-simili dell’autografo della Madre di Soudeilles riprodotto esattamente, meno l’ortografia e le abbreviazioni. « Io N. N. offro e consacro al sacro Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo la mia persona e la mia vita, le mie azioni, pene e sofferenze, per non più servirmi di parte alcuna dal mio essere, che per amarlo, amarlo, e glorificarlo. E’ mia volontà irrevocabile d’essere tutta sua e di far tutto per amor suo, rinunziando con tutto il cuore a tutto quello che potrebbe dispiacergli. Io vi prendo dunque, o sacro Cuore, per l’unico oggetto dell’amor mio, il protettore della mia vita, la sicurezza della mia salute, il rimedio della mia incostanza, il riparatore di tutte le mie mancanze, il mio asilo sicuro per l’ora della mia morte. Siate dunque, o Cuore di bontà, siate la mia giustificazione presso Dio Padre e distogliete da me i colpi della sua giusta collera. O Cuore d’amore! Io ripongo in voi tutta la mia confidenza; temo tutto dalla mia debolezza, ma tutto spero dalla vostra bontà. Consumate dunque in me tutto quello che potrebbe resistervi o dispiacervi! Che il vostro amore si addentri così profondamente nel mio cuore, che non possa dimenticarvi mai più, ne essere separata da voi. Vi scongiuro, per tutta la vostra bontà, che il mio nome sia inscritto in voi, poiché voglio far consistere tutta la mia felicità, nel vivere e morire come vostra schiava ». Dal facsimile riportato in testa alle Elévatìons sur le Cceur de Jesus, del Padre F. DOYOTTE, Parigi, 1873). È questa, senza dubbio, la « piccola consacrazione », come ella la chiama, che avrebbe voluto vedere inserita nel libro del P. Croiset: « Le dirò solamente d’inserirvi la piccola consacrazione, perché, venendo da Lui, Egli non desidererebbe, se non m’inganno, che venisse omessa » (Lettres inédìtes, Lettera X, p. 209; G. CXXXÌX, 617). Questo desiderio non fu realizzato. Si ha, è vero nel libro del P. Croiset una consacrazione al sacro Cuore, che sembra esser piaciuta alla beata. « Io non credo, scrive, che vi sia da cambiar cosa alcuna (al libro), né la consacrazione, né l’ammenda onorevole » (Lettres inédites, Lettera X, p. 209; G. CXXXIX, 617). Ma non è già « la piccola consacrazione » che ella avrebbe voluto vedervi. Parla, altrove, di una formula più lunga, per una consacrazione generale (Lettera XXXVI ((XXXVII), t. II . p. 74 (111); G. XI.II, 307, ù. a. X, p. 209 ; G. ibìd.) e possiamo supporre che sia la formula dei livret autografo (Vedi nella Vie et Oeuvres, t. II, p. 477 (539); G. 780.). Non si tratterebbe, forse, di quella che fu letta alla prima festa dei sacro Cuore, il 20 luglio 1675? Nella sua insistenza per ottenere questa consacrazione al sacro Cuore, la beata ci rivela, nello stesso tempo, il suo modo d’intenderla. Ella scrive alla Madre de Saumaise il 10 agosto 1684; « Bisogna cominciare sul serio a non più vivere che per Lui e in Lui. È per questo, mia carissima Madre, che ella farebbe, mi sembra, cosa gratissima al sacro Cuore di Nostro Signore, se gli facesse un intero sacrificio suo, un venerdì dopo la santa Comunione, protestando di non volersene più servire ad altr’uso che a quello del suo puro amore, procurandogli tutto l’onore e la gloria che sarà in suo potere. Non le ne dico di più, perché mi sembra che ella abbia già fatto tutto questo; ma io credo che Egli si compiacerà, se lo ripeterà di frequente e lo praticherà fedelmente onde perfezionare la sua corona » (Lettera XXV (XXVI), t. II, p. 50 (87); G. XXVII, 277. 11. a.). La beata vi ritorna nelle sua lettera del 24 agosto 1685, designando il primo venerdì del mese come giorno propizio a ciò (Lettera XXXVII (XXXVIII), t. II, p. 65 (102); G. XXXVI, 297). È ancora più pressante ed esplicita in una lettera alla Madre de Soudeilles, il 3 novembre 1684: « Se Ella desidera vivere unicamente per Lui e giungere alla perfezione che Egli vuole da lei, bisogna che faccia al sacro Cuore un intero sacrificio di sé e di tutto quello che dipende da lei senza riserva alcuna e per non volere più altra cosa che ciò che vuole questo amabile Cuore, e non più amare che attraverso i di Lui affetti, e non agire che secondo i suoi lumi, e non intraprendere mai nulla senza prima implorare il suo soccorso ed aiuto; dando a lui gloria di tutto, ringraziandolo così nei cattivi successi delle nostre intraprese, come nei buoni, rimanendo sempre contente, senza turbarci di nulla. Infatti deve ben bastarci che questo Cuore disino sia soddisfatto e glorificato ed amato. Se ella, Madre mia, desidera di essere nel numero delle sue amiche, le offrirà questo sacrificio di se stessa, un primo venerdì del mese, dopo la Comunione che farà a questa intenzione, e si consacrerà tutta a Lui per rendergli e procurargli tutto l’amore, l’onore e la gloria che sarà in suo potere; e tutto questo nel modo che le ispirerà. Dopo ai che non si riguarderà più che come appartenente e dipendente dall’adorabile Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo, a lui avendo ricorso in tutte le sue necessita e stabilendovi la sua fissa dimora più che potrà. Egli riparerà tutto quello che potrebbe trovarsi d’imperfetto nelle sue azioni e santificherà le buone, se sarà fedele ad unirsi a tutti i suoi disegni su di lei, che son grandi, e che gli procureranno molta gloria, per mezzo suo, se lo lascerà fare Tutta sua nell’amore del sacro Cuore, che unisce e trasforma i nostri in Lui, per il tempo e per l’eternità» (Lettera XXVI (XXVII), t. II. p. 52 (89). L’autografo era a Moulins ; fu inviato il 2 giugno 1789 a DB RESCON, vicario generale di Oloron. Ora è perduto. Vedi: GAUTHEY, XVIII, 278, n). – Leggendo questo, si comprende ciò che la beata scrive a suo fratello: « Mi sembra che non vi sia più breve cammino, per arrivare alla perfezione, né mezzo più sicuro, che di consacrarsi a questo divin Cuore » (Lettera LIII (LIV), t. II, p. 104 (141); G . LIX, 314).

3. L’ammenda onorevole.

Occupa questa un gran posto nella divozione al sacro Cuore. E doveva esser così, poiché è una divozione di riparazione per l’amore oltraggiato. E’ così, del resto, che Nostro Signore la propone nella grande apparizione. Egli chiede che il giorno della futura festa, si onori il suo Cuore, « facendo la Comunione, facendogli pure riparazione d’onore, con una ammenda onorevole, per riparare le indegnità ricevute, mentre stava esposto sugli altari » (Mémoire, t. II, p. 355 (414); G. n. 92, p. 102). Queste parole bastano a illustrare ciò che è l’ammenda onorevole e il suo scopo. Come la consacrazione, essa è un atto preciso, determinato; è come una tendenza generale dell’anima devota, gelosa dell’onore di colui che ama. Questo spirito di riparazione invade tutta la vita della beata e si ritrova in tutti i suoi scritti. Nel Petit livret, scritto di suo proprio pugno, si trova una formula di ammenda onorevole (Vìe et Oeuvres, t. II, p, 473 (534); G. 771). Fu senza dubbio, composta da lei stessa. Fra le pratiche che ella raccomandava alle sue novizie, si trova la seguente: « Farete trentatrè comunioni spirituali, e una sacramentale, per fare ammenda onorevole al sacro Cuore di Gesù Cristo e implorare da Lui misericordia per tutte le cattive comunioni che si fanno e sono state fatte da noi e dai cattivi Cristiani » (Écrits divers, t. II, p. 468 (530) ; G. p. 733). Monsignor Languet assicura essere della beata l’ammenda onorevole che si trova nel libro del P. Croiset (Terza parte, c. 4. Ammenda onorevole, p. 174). Ma ciò non è probabile, perché, secondo ogni apparenza, è quella stessa che la beata approvava, nella sua lettera del 21 agosto 1690: « Il tutto, scriveva essa, è così perfettamente di suo gusto (del sacro Cuore), che io non credo dovevasi cambiar nulla, né la consacrazione né l’ammenda onorevole » (Lettres inédites, X, p. 209; G. CXXXIX, 617).

4. La comunione e la divozione all’ Eucaristia. —

Una delle pratiche che Gesù chiede a Margherita Maria, è di « fare la santa comunione quanto più spesso potrà ». E sia nella sua vita, come nei suoi scritti, la divozione ai SS. Sacramento è strettamente unita a quella del sacro Cuore. Davanti al SS. Sacramento ella è favorita delle principali rivelazioni; soprattutto all’altare ella vede Gesù oltraggiato; all’ altare gli fa ammenda onorevole e gli offre i suoi omaggi e le sue riparazioni. Si sa quante lunghe ore ella passasse dinanzi al SS. Sacramento, immobile, in estasi, o quasi. Uno dei desideri più cari al suo cuore è quello di consumarsi come un cero ardente, dinnanzi al santuario (C’est ma plus grande envie d’y consommer ma vie, Comme un cierge allume, Devant mon Bien-Aimé. (il mio più grande desiderio è consumare la mia vita come un c’ero acceso, davanti al mio diletto) Cantico al Sacro Cuore, t. II, p. 514 (575); G. 841). La Comunione è una delle sue migliori attrazioni, è una delle pratiche che raccomanda più insistentemente; ed è subito dopo la Comunione che vuole si faccia la consacrazione al sacro Cuore. Molti degli esercizi che la beata fa e raccomanda, io onore del sacro Cuore, si riferiscono all’Eucaristia. Non si stanca di proporre alle sue novizie le pratiche per onorare le diverse vite di Gesù nel Santo Sacramento, dove le due devozioni si collegano e si uniscono strettamente. (Vie et Oeuvres, t. II, p. 465 (527) ; G. 730).

5. Ora santa e unione a Gesù sofferente. — Si può dire della Passione quasi lo stesso che della Eucaristia; è una divozione che la beata riguarda come inseparabile dalla divozione al sacro Cuore. Sarebbe troppo lungo di rilevarne tutti i rapporti; basterà ricordarne qualcuno. L’ora santa, che Gesù aveva chiesto a Margherita Maria, come già sappiamo (Vedi più sopra, c. 2, § 3, pag. 25), non è altra cosa che un esercizio di unione con Gesù che soffre. La beata passava, in questa unione, la notte dal giovedì al venerdì santo, dinanzi al SS. Sacramento, tutte le volte che le era permesso. La Madre Greyfié ci descrive così una di queste notti: « Ella usciva da una lunga malattia…. Nondimeno, mi venne a chiedere come una grande grazia, il permesso di vegliare dinnanzi al SS. Sacramento. Io non giudicavo possibile che potesse farlo, ma per darle qualche consolazione, acconsentii che rimanesse nel coro dalle otto sino a dopo la processione della città (Questa processione arrivava alla Visitazione circa le 10 di sera). Accettò la mia prima offerta e con molta dolcezza e umiltà mi pregò di prolungarle questo tempo. Io le concessi la notte, ed ella non mancò di prendere il suo posto in coro alle otto e mezzo…. ; vi stette sin d’allora in ginocchio, con le mani giunte, senza punto appoggiarsi, senza fare alcun moviménto, come se fosse stata una statua, sino all’indomani all’ora di Prima, in cui riprese il suo posto nel coro. Quando ella venne a rendermi conto delle sue disposizioni in tutto questo tempo, mi disse che Nostro Signore le avevo fatto la grazia di renderla partecipe della sua agonia nel giardino degli Ulivi e che aveva sofferto tanto da sembrarle ad un tratto che l’anima le si separasse dal corpo » (Contemporaines, t. I, p. 158 (187) ; riveduto su G. Écrits de M. Greifié, n. 12, pag. 358). L’immagine del sacro Cuore, che le fu mostrata in una apparizione (corona di spine, ferita, croce), è tutta impregnata della idea della Passione. Fra le grandi grazie che ricevé da Gesù nel suo ritiro per la professione, « sorvegliando un’asina col suo asinello, nel giardino », essa annovera la conoscenza che le dette « del mistero della sua santa morte e passione ». « Ma, aggiunge, sarebbe un compito soverchiamente difficile il descriverlo ». Così non ne dice che una parola. « Ciò mi ha dato un amore sì grande per la croce, che non posso vìvere un momento senza soffrire; ma soffrire in silenzio, senza consolazione, sollievo o compatimento, e morire con questo sovrano dell’anima mia, oppressa sotto la croce di ogni sorta d’obbrobri, di umiliazioni, di dimenticanze e disprezzo » (Mémoire, t. II, p. 323 (376); G. n. 50, p. 66).  Gli scritti della beata, infatti, ci danno l’impressione di una vita strettamente unita con Gesù sofferente, senza altra gioia che la gioia stessa di « soffrire amando ». Si conosce la famosa visione nella quale Nostro Signore le presentò un doppio quadro; questo di una vita tutta pace e consolazione, e quello di una vita interamente crocefissa, e come Egli stesso scelse per lei la seconda (Ibid, t. II, P . 333 (389); G, n. 66, p. 78). Ella scriveva al P. Croiset, il 15 settembre 1689: « Io non posso vivere un sol momento senza soffrire, e il mio più dolce alimento è la croce…. Oh! Che felicità poter partecipare quaggiù alle angosce, alle amarezze e agli abbandoni del sacro Cuore! » (Lettres inédites, III, p. 119; G. CXXXII, 547). Una pratica che aveva imparata da Nostro Signore, per il tempo del giubileo, le fu sempre cara; consisteva nell’offrire all’Eterno Padre le ampie soddisfazioni che Egli rese alla Sua giustizia sull’albero della croce, pregandolo a rendere efficace il suo sangue prezioso per tutte le anime peccatrici (Contemporaines, t. I, p. 160 (189); G. n. 95, p. 106). E a questa univa la beata molte altre pratiche, in cui il sacro Cuore e la Passione non formavano, per così dire, che un solo oggetto di divozione.

6. Divozione alla Santa Vergine.

Vi sarebbe molto da dire su questo soggetto. Ma la parte della santa Vergine nella divozione al sacro Cuore non è diversa, secondo la nostra beata, da quella che le perviene in ogni vita cristiana. Se le relazioni fra la santa Vergine e Margherita Maria sono ammirabili, non è tanto perché Margherita Maria è stata la discepola e l’evangelista del sacro Cuore, quanto perché è stata una gran santa dei tempi moderni, e perché Dio le ha fatto esperimentare, nella sua propria vita, ciò che Maria opera segretamente in ogni anima che si santifica. Qualche tratto, nondimeno, merita di esser notato. – Si sa come, sino dalla sua infanzia, Nostro Signore, che voleva farla tutta sua, la confidò alla SS. Vergine: « Io ti affidai, le diss’Egli, alla, mia Santa Madre, affinché ella ti lavorasse  secondo i miei disegni » (Mémoire, t. II, p. 304 (356); G. n. 22, p. 46). Maria fu per lei « una buona Madre », ed ella fu una figlia per Maria, parlandole « come alla sua buona Madre ». Fu per essere la « figlia della santa Vergine » che scelse di entrare alla Visitazione; e fu Maria che la preparò alla sua missione di apostolo del sacro Cuore. Un giorno ella vide il suo cuore, molto piccolo, fra i cuori di Gesù e di Maria, e « i tre non ne formavano che uno ». « Era, dic’ella, il giorno della festa del Cuore della santissima Vergine » (Contemporaines, t. I , p. 91 (122); G. t. II, p. 164). Si vede, da queste rivelazioni, che Maria interviene per disarmare il sacro Cuore, irritato, e ottenere le sue buone grazie (Ibid, t. I, p. 266 (293); G. t. II, p. 170). Ed è pure la Madre di Dio che interviene affinché il sacro Cuore sia affidato, come un deposito alla Visitazione. « Venite, figlie mie, avvicinatevi, perché io voglio farvi depositarie di questo tesoro prezioso » (Visione del 2 luglio — Lettera LXXXV (LXXXVI) ; t. Il p. 167 (201); G. XXCX, 405). – A sua volta, Margherita Maria non separava Maria da Gesù. Una delle sue lettere termina con la promessa delia più tenera affezione « nei sacri Cuori di Gesù e di Maria » (Lettera IX, t. II, p. 16 (49); riveduta su G. IX, 241). Non solo ella onora e fa onorare la SS. Vergine, perché « non potremmo far cosa più gradita a Dio, che onorare la sua santa Madre » (Avis, LUI (LIX), t. II, p. 441 (502); G. LIX, 737), ma perché, come dice a una sua novizia, « se è in tutto una vera figlia di santa Maria », Maria la. « renderà una perfetta discepola del sacro Cuore » (Avis, XIV, t. II, p. 388 (440) ; G. XXII, 670). E, per contro, assicura quelli che vogliono essere « i perfetti amici » del sacro Cuore, che la santa Vergine sarà la loro « speciale protettrice, per farli arrivare a quella vita perfetta » (Lettres inèdites, III, p. 130; G. CXXXIII, 554). Così, Ella vuole che ci si unisca « di cuore e di spirito «La SS. ma Vergine, per rendere omaggio al Verbo incarnato, adorandolo e amandolo in silenzio con lei ». Ella vide il sacro Cuore in atto di offrire i suoi sacrifizi all’Eterno Padre « sull’altare del cuore della madre sua »; e prega, e vuol che si preghi « il divin Cuor di Gesù, vivente nel cuore di Maria, di vivere e regnare in tutti i cuori » (Lettres inèdites, m. p. 130; G. CXXXII, 554). Di più, ella desidera che la Mediatrice del sacro Cuore, « chieda alla santa Vergine di interporre tutto il suo merito affinché Egli (il sacro Cuore) faccia sentire gli effetti del suo’ potere a tutti coloro che a Lui si rivolgeranno » (Avis, L1V (LV). t. II. p. 441 (502); G. LXX, 749). Ella stessa imparò da Nostro Signore a tenersi accanto alla Croce « con le stesse disposizióni che animavano la santa Vergine »; ad ascoltare la Messa in unione a queste disposizioni ; a fare la santa Comunione, offrendo al sacro Cuore « le sue disposizioni nel momento dell’Incarnazione, cercando di penetrarvi i l più possibile, domandandolo per la sua intercessione, e ripetendo con lei: « ecco la serva del Signore » (Lettera XLIV (XLV), t. II, p. 86 (123) ; G- L. 323), e finalmente, a fare la sua orazione offrendo « le disposizioni che animavano la Vergine santa nella sua presentazione al tempio » (Contemporaines, t. I, p. 6 9 (100); G. n. 115-116, p. 116). Da ciò si comprende come la santa chiedesse al P. Croiset d’inserire nel suo libro del sacro Cuore « le litanie del sacro Cuore della SS.ma Vergine » (Lettres inèdites, t. II, p. 99; G. CXXXI, 534). Ella torna ad insistere un mese dopo, il 15 settembre 1689, (Lettres inèdites, t. III, p. 123; G. CXXXII, 550) e in un’altra lettera del 16 maggio gli ricorda questa sua raccomandazione: « Non dimenticate le litanie della SS.m a Vergine, nostra buona Madre » (Lettres inèdites, IX, p. 200 ; G. CXXXVIII, 613). Per la beata la divozione a Maria e al cuore di Maria è inseparabile dalla divozione a Gesù e al cuore di Gesù.

7. Pregare e soffrire per le anime del Purgatorio.

L’amore del sacro Cuore accompagna le anime al loro uscir dalla vita, quando hanno bisogno di purificarsi nell’altra. Così vediamo Margherita Maria, tutta animata dalla compassione del divin Cuore per le « sue amiche sofferenti », farsi vittima per loro e attingere nei tesori del sacro Cuore per sollevarle. La prima festa del sacro Cuore a Paray fu impiegata, per la maggior parte, in loro favore. Le Contemporaines ci dicono infatti « che ella desiderò che il resto della giornata fosse impiegato a pregare per le anime del Purgatorio e condusse le sue novizie al nostro piccolo cimitero, ove fece dir loro gran quantità di preghiere per suffragarle » (Vie et Oeuvres, t. I, p. 209 (239) ; G. n. 238, p. 21S). PI scrive pure alia Madre de Saumaise : « Il sacro Cuore di Gesù abbandona spesso la sua miserabile vittima alle anime del Purgatorio, affinché soddisfaccia per loro alla divina giustizia. È allora eh’ io soffro quasi la loro stessa pena, non trovando riposo né il giorno né di notte » (Lettera LXXXVII (LXXXVIII), t. II, p. 178 (215); G. XCII. 416). La beata parla spesso di questo purgatorio dell’anima sua e di ciò che soffriva in tali circostanze. In compenso però Gesù non sapeva rifiutar nulla alla sua diletta, e le sue pratiche, in onore del sacro Cuore, avevano una speciale efficacia per sollevare le anime purganti. E’ ciò che le faceva scrivere alla Madre de Saumaise. « Se sapeste con quale ardore queste povere anime invocano questo nuovo rimedio, che ha forza sovrana per sollevarle! È così che esse chiamano la divozione al sacro Cuore, e particolarmente le Messe dette in onor suo » (Lettera LXXXV (LXXXVI), t. II, p. 170 (207) ; G. XC, 408). Con le Messe, ella chiede delle Comunioni, degli atti di virtù in amore del sacro Cuore e in spirito di riparazione, degli atti di unione al sacro Cuore, per soddisfare a Dio Padre con i meriti di questo Cuore divino. Scrive alla Madre de Saumaise : « Il soccorso che io le domando è di accordarmi nove pratiche ogni giorno, da oggi, sino all’Ascensione: quattro di carità e cinque di umiltà, per onorare, con le prime, l’ardente carità del sacro Cuore di Gesù, e riparare, con le altre, le umiliazioni principali che subì nella sua Passione » (1). Nelle sua « sfida » per l’ottava dei defunti ella assegnava alle sue novizie un metodo ben regolato che è insieme santificante per loro e utile alle povere anime. « Ecco, diceva ella, la maniera che mi sembra più conforme ai desideri del sacro Cuore di Gesù, per soddisfare, il più fedelmente alla promessa che avete fatta, in favore delle sante anime che soffrono nel Purgatorio. In primo luogo « penetrerete, come al solito, nel sacro Cuore, offrendogli tutto quello che direte e penserete ». Seguono diversi atti per i diversi momenti della giornata. Da tale ora alla tal’altra, « cinque atti di purità d’intenzione, con cinque atti di adorazione, unita con quella che Egli rende al Padre suo, nel santissimo Sacramento dell’altare, da offrirsi a Dio, per soddisfare alla sua giustizia, compensandolo, con la purezza del sacro Cuore, per la mancanza di purezza d’intenzione di quelle povere anime ». Così per tutto il giorno, sempre in unione con Gesù: pratica del silenzio, in unione con « quello di Gesù nel santo Sacramento; « pratica di carità » in unione con l’ardentecarità del sacro Cuore. per compensare le mancanze di quelle povere anime; « pratiche di umiltà, in unione dell’umiltà di quel Cuore divino, sempre per pagare coi suoi meriti, i debiti di quelle povere afflitte ». Esorta poi le sue novizie a fare, « alla sera, un. piccolo giro per il Purgatorio, in compagnia del sacro Cuore, consacrando a Lui tutto quello che avrete fatto nel giorno, pregandolo di volerne applicare il merito a quelle sante anime penanti. E queste pregherete, in pari tempo, a volere interporre il loro credito, per ottenervi la grazia di vivere e di morire nell’amore e fedeltà al sacro Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo, corrispondendo ai suoi desideri su di noi, senza resistenza alcuna » ((ì) Avis, t. Ili (LIV), t. II, p. 440 (501); G. LIX, 735. Per maggiori particolari vedere l’opuscolo composto da una Ausiliatrice del Purgatorio. Le sacre Coeur, la B. Marguerite Marie et les àmes du Purgatoire, Paris, s. d.).

8. Pratiche diverse. —

Dagli scritti della beata, si possono rilevare diverse altre pratiche (Litanie, Piccolo Ufficio, etc.). Qualcuna di esse ha molta analogia con varie pratiche che hanno preso di poi grande sviluppo. I diversi Offici da disimpegnare in onore del sacro Cuore, discepolo, servo, adoratore, amico, mediatore, riparatore, zelatore, ecc., cominciano già a esserci rivelati dalla beata. Ella scrive alla madre Greyfié, parlandole di una suora. « Egli (il sacro Cuore, le ha assegnato il suo ufficio, costituendola sua Mediatrice…. e desidera che presso di lei si trovi una suora che gli renda il medesimo servizio; ma vuole che sia tirata a sorte. Egli vuole avere ancora una Riparatrice, e in quanto a lei, Madre mia, avrà l’ufficio di offrire a questo amabile Cuore, tutto il bene che verrà fatto in onor suo. (Lettera XLIV (XLV,. II, p. 86 (123); G. L. 323). – In una lettera al Padre Croiset ella chiede che si stabilisca una associazione di questa divozione (del sacro Cuore), i cui associati parteciperebbero al bene spirituale gli uni degli altri. È l’ideale dell’apostolato della preghiera e della Guardia d’onore. La beata vorrebbe pure stabilire una particolare unione e divozione ai santi Angeli, « che sono più particolarmente destinati ad amarlo (il sacro Cuore), onorarlo e servirlo nel divin Sacramento d’amore, affinché essendo uniti e associati a loro, supplissero per noi alla sua divina presenza, tanto per rendergli i nostri omaggi, quanto per amarlo per noi e per tutti quelli che non lo amano e per riparare le irriverenze che commettiamo alla sua santa presenza » (Lettres inèdites, II, p. 100; riveduto su G. CXXXI, 535). Questa unione con gli Angeli è stata realizzata negli Uffici.

II.

LO SPIRITO DELLA DIVOZIONE

L’amore, con ciò che ha di più vivo, tenero, generoso, zelante e pratico.

(Les Demeures dans le sacre Camr, t. II’, p. 469 (531); G. LC, 725: e « La manière d’ honorer les diverses vies de Notre Seigneur au Saint-Sacrement », t. II, p. 465 (527) ; G. LXII, 730.)

Considerando queste pratiche diverse, non crediamo già che la divozione al sacro Cuore, come la intende la beata, non consista che in questo. E’ più e meglio. La sua sostanza, consiste in una vita di unione con questo cuore amante, per sentire quello che ei sente, volere ciò che egli vuole, amare ciò che egli ama ; e per piacere a Dio, appropriandosi i suoi sentimenti e i suoi meriti, a Lui offrendoli, in una vita, infine, tutta d’amore e di riparazione amorosa (Vedi la « sfida » alle Novizie per prepararsi alla festa del sacro Cuore nel 1685. E’ troppo lungo riportarla qui per intero, ma eccone alcuni tratti: « Svegliandovi, entrerete nel sacro Cuore, consacrandogli corpo, anima, cuore e tutto quello che siete, per non più servirvene che per la sua gloria e il suo amore. « Quando andrete all’orazione, avrete cura di unirla a quella che Egli fa per voi, nel SS.mo Sacramento. « Quando direte l’ufficio, vi unirete alle lodi che Egli dà a Dio suo Padre, in questo divin Sacramento. « Per ascoltare la santa Messa, vi unirete alle intenzioni di questo amabile Cuore, pregandolo a volervene applicare il merito a seconda dei suoi adorabili disegni su di voi ». « Così l’intera giornata, coi suoi differenti esercizi e occupazioni, è tutta orientata verso il sacro Cuore nel SS.mo Sacramento. Le stesse mancanze sono utilizzate. Quando avrete commessa una qualche colpa, andrete a prendere nel suo divin Cuore la virtù contraria alla vostra colpa, per offrirla all’eterno Padre », etc. Avis. L (LI); p. 434 (495); G. LIII, 717). – Nelle pratiche, qualunque sieno, la beata non vede che un esercizio, di amore. Amare il divin Cuore che ci ama tanto e che ha sete d’esser riamato, rendergli amor per amore, ecco quàl è, per lei, il fondo della divozione al sacro Cuore. Così, per la beata, tutto è racchiuso in questa reciprocità d’amore; « Gesù, nel suo amore per noi, ha sete d’esser riamato » (Vedi Lettres inèdites, VI, p. 180 ; G. CXXXV, 600). L’anima che ha ben compreso questo, non vive più che per amarlo e farlo amare. Questo amore prenderà tutte le forme, impiegherà tutti i mezzi: pregherà, agirà, soffrirà sopratutto. Ma tutto si trasformerà in amore.

(E’ la lezione che N. S. si degnò dare alla sua serva, dopo il suo voto di perfezione, 31 ottobre 1686. Dopo avere scritto la lunga lista delle sue risoluzioni, la beata ebbe paura. “Nella moltitudine di tutte queste cose io mi sono sentita vinta da un si gran timore di non esservi fedele, che non avevo il coraggio di obbligarmi ». N. S. la rassicurò, dicendole nel più intimo del cuore: « Di che cosa temi, poiché Io rispondo per te?…. L’unità del mio puro amore ti terrà luogo d’attenzione nella moltiplicità di tutte queste cose». Contemporaines, t. I, p. 252 (280); G. n. 253, p. 238). E così, per mezzo dell’amore, l’anima devota del sacro Cuore, farà vivere Gesù in lei. La sua vita sarà la vita di Gesù. La beata scrive alla Madre de Soudeilles, il 15 settembre 1686: « Infine io desidero che siano tutte del sacro Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo, per non più vivere che della sua vita, non amare che per il puro amor suo, non agire e soffrire che secondo le sue sante intenzioni, lasciandolo operar in noi e per, noi e come più gli piace (Lettera, X L VIII (XLIX), t. Il, p. 95 (132); riveduto su G. LIII, 331). Parlando un giorno di sé stessa al P. Croiset, (lettera 14 aprile 1489) essa dice: « Ebbi altra volta tre desideri così ardenti, da poterli riguardare siccome tre tiranni, che mi facevano soffrire un continuo martirio, senza darmi tregua. Bramo di amare il mio Dio, di soffrire e di morire in questo amore ». Ora, però, Margherita Maria è arrivata a non poter più volere o desiderare cosa alcuna. « lo vorrei affliggermene, qualche volta, continua, ma non lo posso: non appartenendo più a me stessa, non ho più nessun volere o libertà su di me. Ed ecco il pensiero che mi consola. È che il sacro Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo, opererà tutto questo per me. Se lo lascio fare, Egli amerà e vorrà in mia vece, e supplirà a tutte le mie impotenze e imperfezioni ». E il 10 agosto: « Io sacrificherei tutto, senza riserva, poiché il mio cuore non sentendosi più suscettibile, mi sembra, che, degli interessi di questo divin Cuore, non mi preoccupo più in qual maniera mi tratti, da che mi usò la misericordia di consacrarmi Egli stesso alla sua gloria e al suo onore. Mi basti che Egli sia soddisfatto. Che m’innalzi o mi abbassi, che mi consoli o mi affligga, sono ugualmente contenta del contento suo…. Purché infine io possa amarlo, non voglio altro » (Lettres inèdites, II (autografo) p. 91; riveduto su G. CXXXI, 529). Le pagine di questo genere, non si contano nella sua corrispondenza. Un lungo passaggio di una delle sue lettere, ci mostrerà meglio che dei brevi estratti, ciò che è in lei e ciò che opera in lei la divozione al sacro Cuore. Ella scrive a Suor de la Barge, verso la fine d’ottobre 1689. « È dunque questa volta, cara amica, che dobbiamo consumarci tutte, senza eccezione, né remissione, in questa ardente fornace del sacro Cuore del nostro adorabile Maestro, da cui non bisogna mai uscire. Dopo avere annientato il nostro cuore di corruzione in quelle divine fiamme del puro amore, bisogna formarcene un nuovo che ci faccia vivere, ormai, di una vita tutta nuova, con un cuore nuovo, che abbia pensieri e affetti nuovi e che produca opere di purezza e fervore in tutte le nostre azioni. Vale a dire, che non si tratti più di noi stesse, ma che questo divin Cuore sia talmente sostituito al nostro, che lui solo agisca in noi e per noi; che la sua santa volontà annienti talmente la nostra, sì che possa agire assolutamente, senza incontrar resistenza da parte nostra. Infine, che i suoi affetti, pensieri e desideri, prendano il posto dei nostri, ma soprattutto i l suo amore, per modo che ami sé stesso in noi e per noi. Così se quest’amabile Cuore sarà il nostro tutto in ogni cosa, potremo dire con san Paolo che non viviamo più noi, ma è lui chi vive in ‘noi…. Mi sembra che non dobbiamo più respirare che fiamme del puro amore, amore crocifiggente e interamente sacrificato, per una immolazione di noi stesse alla divina volontà, affinché si compia perfettamente in noi; contentandoci, per parte nostra, di amarlo e lasciarlo fare, sia che ci abbassi o c’innalzi, che ci consoli o ci affligga; tutto deve esserci indifferente…. Purché Egli si contenti, ciò deve bastarci ». « Amiamolo, dunque, quest’unico amore delle anime nostre, poiché Egli ci ha amato il primo e ci ama ancora con tanto ardore, che ne abbrucia continuamente nel santissimo Sacramento. Non ‘ci bisogna altra cosa, per farci sante, che amare questo Santo dei santi. Chi potrà dunque impedirci di esserlo, poiché non abbiamo dei cuori che per amare, e dei corpi per soffrire? (Lettere (VIII -autografa-, t. II, p. 227 (275); riveduto.su G. CX, 467). La beata termina quest’inno all’amore, con questa specie di strofa ritmica, che narra i vantaggi dell’amore per arrivare alla perfezione: « Non vi ha che il suo amore che ci faccia fare tutto quello che gli piace; non vi ha che questo perfetto amore che ce lo faccia fare in quel modo che gli piace; non può esservi che questo amore perfetto, che ci faccia fare ogni cosa quando gli piace ».

IL SACRO CUORE (37)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (10)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (10)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO. IV.

Del Decalogo

SEZIONE 2A. — Dei rimanenti comandamenti del Decalogo, che si riferiscono a noi stessi e al prossimo.

Art. 4. — DEL QUARTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 207. Che cosa comanda Iddio nel quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre?

R . Nel quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre, Dio comanda che ai genitori e a coloro che ne fanno le veci venga reso l’onore dovuto; dal quale onore sono poi inseparabili, l’amore, l’obbedienza e l’ossequio (Esod, XX, 12; Deut, V, 16; XXVIII, 16; Eccli.,  VII, 29-30; Paolo: ad Eph., VI, 1-3; ad Coloss., III, 20. — Il Catechismo dei parroci, p. III, c. V, n. 7: « Onorare vuol dire aver di qualcuno onorevole concetto, e far grandissimo conto di tutto quanto possa riguardarlo. Da tale onore sono inseparabili questi altri doveri: l’amore, il rispetto, l’obbedienza e l’ossequio »).

D. 208 . Ai nostri genitori dobbiamo noi soltanto rendere onore?

R . Ai nostri genitori noi non dobbiamo soltanto rendere onore, ma dobbiamo ancora aiutarli, specie nelle loro necessità spirituali e temporali.

D. 209. Che sorta di premio promette Iddio ai figli che rendono onore ai genitori?

R . Ai figli che rendono onore ai genitori Dio promette la sua benedizione, e, qualora lo giudichi espediente all’anima, una lunga vita (Deut., V, 16; Eccli, III, 2-18; Paolo: ad Eph., VI, 1-3; Cat. p. parr, p. III, c. V, n. 17-19).

D. 210. Questo comandamento si limita forse a tracciare i doveri dei figli verso i genitori?

R. Questo comandamento non si limita a tracciare i doveri dei figli verso i genitori, ma traccia indirettamente anche quelli dei coniugi, sia mutui che verso i figli, come pure i mutui diritti e doveri tanto dei sudditi e dei superiori, quanto degli operai e dei padroni (Solo la Chiesa di Cristo può mantenere pace e concordia fra le diverse classi in cui gli uomini si dividono; la diversità, infatti, delle classi sociali non mira a renderle nemiche nell’odio, ma strette invece dal vincolo di un mutuo amore e soccorso, come si conviene a fratelli in Cristo. Questi e molti altri principi insegna ed inculca Leone XIII nella sua Encicl. Rerum Novarum, del 15 maggio 1891).

D. 211. Quali sono i doveri dei coniugi fra loro?

R . I doveri dei coniugi fra loro sono: l’amore, l’aiuto, la fedeltà vicendevoli; dovere della moglie verso il marito: l’ubbidienza (Paolo: I. ad Cor., XI, 3; ad Eph., V, 23-33; ad Coloss., III, 18-19; ad Tit., II, 4-5;» di Pietro, III, 1; Cod. Dir. Can., can. 1033, § 28).

D. 212 . Quali sono i doveri dei genitori verso i figli?

R . In forza dello stesso diritto naturale i doveri dei genitori verso i figli sono: prender cura della loro retta educazione, soprattutto religiosa e morale, e similmente provvedere secondo le proprie forze al loro bene temporale (Eccli., VII, 25-27; XXX, 1-3; Paolo: ad Eph., VI, 4; ad Coloss., III, 21; Cod. Dir. Can., can. 1131; Catech. p. parr, p. III, c. V, n. 21. — La disciplina religiosa e morale, venendo per lo più a basarsi sull’istruzione catechistica, ne consegue che strettissimo dovere dei genitori è quello di far debitamente istruire i propri figli nel Catechismo. Più che a tutti ciò spetta alla madre, la quale, fin dai primi passi, deve man mano insegnare ai suoi bambini i primi rudimenti del Catechismo. Che se le circostanze costringessero i genitori a delegare ad altri l’educazione dei figli, ricordino essi il loro dovere santissimo e l’obbligo di scegliere tali istituti e precettori che siano idonei a far le loro veci nell’espletare così nobile missione. Né trascurino di esercitare un diligente controllo sull’educazione religiosa e morale impartita ai loro figli; e qualora la riscontrino manchevole, ne colmino le lacune, e qualora positivamente difettosa, non esitino ad affidare i figli a migliori educatori.).

D . 213. Oltre che ai genitori, a chi compete il diritto e il dovere di prender cura della retta educazione della gioventù?

R . Il diritto e il dovere di prender cura della retta educazione della gioventù, compete, oltre che ai genitori, anche allo Stato, in quanto supplisce per il bene della comunità dove non bastino i genitori; a un titolo ben più alto compete alla Chiesa, in quanto l’incarico affidato dallo stesso Nostro Signore Gesù Cristo le impone di ammaestrare tutte le genti e di guidarle alla santificazione soprannaturale fino alla vita eterna. (Pio XI: Encicl. Divini illius Magistri, 31 dic. 1929).

D. 214 . Quali sono i doveri dei sudditi verso i loro legittimi superiori?

R . Ai loro legittimi superiori, sia ecclesiastici, sia civili, i sudditi debbono riverenza ed ubbidienza con un sentimento analogo a quella pietà che i figli debbono ai genitori (Paolo: ad Rom., XIII, 1-7; I. a ad Tim., II, 1-3; ad Hebr., XIII, 17; 1.» di Pietro, II, 13-18; Leone XIII: Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885).

D. 215 . Quali sono i superiori ecclesiastici cui è dovuta non solo riverenza, ma anche ubbidienza?

R . I superiori ecclesiastici cui è dovuta non solo riverenza, ma anche ubbidienza a norma dei sacri canoni, sono: il Romano Pontefice, il proprio Vescovo od altro Prelato investito di ecclesiastica giurisdizione, e il proprio parroco nell’esercizio del ministero parrocchiale.

D. 216 . Perché all’autorità civile è dovuta riverenza e ubbidienza?

R . Alla legittima autorità civile, qualunque sia la persona che ne risulti investita, è dovuta riverenza ed ubbidienza, perché, non meno della società, essa si origina dalla natura e, quindi, dallo stesso Dio, autore della natura (Sap, VI, 4; Prov, VIII, 15; Paolo: ad Rom., XIII, 1, 2.: « Non vi è potere se non da Dio : orbene, quei poteri che sono, sono stati ordinati da Dio. Chi dunque resiste al potere, resiste all’ordine di Dio; e quelli che resistono cagionano a se stessi la dannazione ». Leone XIII: cit. Encicl. Immortale Dei, n. 6, 7, 11; S. Giov., Cris, In Epist. ad Rom., XXXIII, 1).

D. 217. A che cosa son tenuti i superiori riguardo ai propri sudditi?

R. I superiori, ognuno secondo la natura delle proprie funzioni, debbono aver cura dei propri sudditi e dar loro in tutto il buon esempio, atteso che ne dovranno render ragione non agli uomini soltanto, ma a Dio medesimo (Paolo: ad Hebr., XIII, 11; ad Tim., I V , 12).

D. 218. A che cosa son tenuti gli operai verso i loro padroni?

R. Verso i loro padroni gli operai son tenuti: a integralmente e fedelmente rendere quanto liberamente ed equamente venne pattuito, a non arrecar danni alle cose, a non offendere la persona dei padroni, ad astenersi dalla violenza quand’anche si trattasse di difendere le proprie ragioni, a non suscitar mai sedizioni e a non immischiarsi con criminali mestatori (Paolo: ad Eph., VI, 5-8; ad Coloss., III, 22-25; ad Tit., II, 9-10; la di Pietro II, 18; Leone XIII: Encicl. Rerum Novarum, 15 mag. 1891; Cat. p. parr, p. III, c. VIII, n. 9).

D. 219. Quali sono i doveri dei padroni verso i loro operai?

R. I padroni debbono cordialmente amare i loro operai, come fratelli in Cristo, debbono retribuirli con la dovuta mercede, aver cura di farli attendere alle pratiche di pietà durante un idoneo spazio di tempo, a nessun patto frastornarli dalla vita domestica e dall’amore dell’economia, infine non imporre loro fatiche che, o nuocciano alla salute o superino le forze, o non si confacciano all’età e al sesso (Paolo: ad Eph., VI, 9; ad Coloss., IV, 1; Giac, V, 4; Cod. D. C , can. 1524. — « Più di un elemento va considerato prima di poter stabilire su basi di equità la misura della mercede; ma in linea generale ricordino i ricchi e padroni che né divino né umano diritto li autorizzano a schiacciare bisognosi e miserabili al fine di procurare il proprio utile, né a realizzar guadagni sfruttando l’altrui povertà. Defraudare, poi, un uomo, chiunque esso sia, della mercede dovutagli, costituisce un delitto gravissimo che chiama a gran voce l’ira e la vendetta del Cielo: La mercede degli operai…. da voi defraudata, ecco che grida; e il grido loro ha colpito l’orecchio del Signore degli eserciti. (Giac, V, 4). I ricchi infine si guardino religiosamente dal danneggiare in checché sia i risparmi dei proletari, insidiandoli con la violenza, l’inganno o le arti usuraie: e tanto più se ne guardino che quei meschini poco e male valgono a difendersi contro le ingiustizie altrui e la propria impotenza, e che la loro sostanza quanto più piccola, tanto più va rispettata »; Leone XIII: cit. Encicl. Rerum novarum).

D. 220. Quand’è che dobbiamo non ubbidire ai genitori e agli altri superiori?

R. Dobbiamo non ubbidire ai genitori e agli altri superiori, quando s’imponga il precetto di un’autorità maggiore della loro, se, per esempio, venissero ad esigere alcunché di contrario ai comandamenti di Dio o della Chiesa (Matt, X, 37; Luca, XIV, 26; Atti, V, 29: «Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini » ; Leone XIII: Enc. Quod apostolici muneris, 28 dic. 1878; S. Tom, 2a 2æ, q. 104, a. 5).

D. 221. Quand’è che agli stessi possiamo non ubbidire?

R. Agli stessi possiamo non ubbidire quando il loro ordine abbia per oggetto cosa in cui non siamo sudditi, per esempio: un ordine circa la scelta di uno stato nella vita. (Nella scelta del genere di vita è indubbio che sia in potere ed arbitrio dei singoli di scegliere l’una o l’altra di queste due cose: o abbracciare il consiglio di Cristo circa la verginità, o legarsi col vincolo matrimoniale ». Leone XIII: cit. Enc. Rerum Novarum).

Art. 2, — DEL QUINTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 222 . Che cosa proibisce Dio nel quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare?

R . Nel quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare, Dio proibisce di arrecare al prossimo la morte o altro danno del corpo o dell’anima, come pure di cooperarvi (Esod, XX, 13; Deut, V, 17; Matt, V, 21, 22, 43-47; XVIII, 6-9. — Ne consegue che anche l’aborto procurato vien proibito da questo stesso Comandamento. — Ma tutte le leggi e tutti i codici consentono di respingere la forza con la forza contro un ingiusto aggressore, salva però quella moderazione che deve accompagnare ogni giusta difesa).

D . 223. In qual modo si arreca un danno all’anima?

R. Si arreca un danno all’anima con lo scandalo, vale a dire con parole od azioni meno rette, tali da offrire al prossimo occasione di rovina spirituale (S. Tom, 2a 2æ, q. 43, a. 1.).

D. 224. A che cosa è tenuto chi arrecò un danno alla persona del prossimo?

R. Chi arrecò un danno alla persona del prossimo è tenuto, per quanto può, a riparare il danno arrecato.

D. 225. Con questo comandamento proibisce Dio anche il suicidio?

R. Con questo comandamento Dio proibisce anche il suicidio, atteso che, non meno dell’omicidio, esso va contro la giustizia col ledere i diritti di Dio sulla vita umana, e contro la carità che dobbiamo a noi stessi come agli altri, e toglie al colpevole il tempo stesso di pentirsi (Cod. Dir. Can., can. 1240, § 1, n. 3, e can. 2350, § 2; S. Tom., 2a 2æ, q. 64, a. 5).

D. 226 . Questo comandamento vieta pure il duello?

R. Questo comandamento vieta pure i l duello, per qualunque ragione venga deliberato di privata autorità, perché il duello riveste la malizia e dell’omicidio e del suicidio (Aless. VII: Prop. 2 Inter damnatas, 24 sett. 1665; Leone XIII: Epist. Pastoralis officii, 22 sett. 1891; Cod. Dir. Can., can. 1240, § 1, n. 4, e can.. 2351).

D. 227. Solo queste azioni vengono proibite dal presente comandamento?

R. Dal presente comandamento vengono proibite non solo queste azioni, ma anche le vendette private, le ire, gli odi, le invidie, gli alterchi, gli oltraggi, tutte cose che facilmente provocano le sopradette azioni (Matt., V, 21, 22; la di Giov, III, 15).

Art. 3. — DEL SESTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 228. Che cosa proibisce Dio nel sesto comandamento del Decalogo: Non fornicare?

R. Nel sesto comandamento del Decalogo: Non fornicare, Dio proibisce, non solo l’infedeltà nel matrimonio, ma anche qualsiasi altro peccato esterno contro la castità, e quanto può indurre al peccato d’impurità (Esod, XX, 14; Deut, V, 18; Matt,, V, 27, 28; Paolo: ad Rom., I , 26, 27; I.a ad Cor., V, 9 e segg.; VI, 9, 10, 13 e segg, ad Eph., V, 3-7; l. a ad Thess., IV, 4; I. a ad Tim., I, 9,10; ad Hebr., XIII, 4. Il peccato contro la castità deriva dall’incontinenza o lussuria, che così si definisce: il disordinato desiderio od uso di una soddisfazione venerea; e direttamente voluta, espressamente cercata e compiuta con piena deliberazione, è sempre peccato mortale. Col sesto comandamento del Decalogo è proibito l’esterno peccato di lussuria; col nono, il peccato interno. H Prov, VII, 5 e segg.; Eccli, IX, 1,13; XIX, 2; XLII, 12; Paolo: I. ad Cor., XV, 33; ad Eph., V, 3, 4, 18; ad Coloss., III, 8; Pio XI: Encicl. Divini illius Magistri, 31 die. 1929. — Dovendo custodire la bellissima virtù della castità, ti è d’uopo, o cristiano, una vigilanza assai maggiore che non per difendere le altre virtù; e la ragione si è che ad insidiare continuamente quel prezioso tesoro non sono soltanto gli esterni allettamenti, ma anche i moti dell’animo e gli appetiti della voluttà, quali nascono e si destano dalla nostra carne medesima. Ma, quanta diligenza possa usarsi, sarà questa priva di qualsiasi effetto se non vien sorretta dall’aiuto divino; aiuto che Dio non rifiuta a nessuno che debitamente lo richieda. Perciò, o cristiano, se non parola per parola, almeno a senso ripeti spesso quella piccola preghiera che il sacerdote recita nel prepararsi alla Messa : « Brucia, o Signore, col fuoco dello Spirito Santo i nostri reni e il nostro cuore, onde possiamo con casto corpo servirti e con mondo cuore piacerti ».

D. 229. Quali sono le cause precipue che inducono al peccato contro la castità e che sono da evitarsi accuratamente?

R. Oltre le suggestioni diaboliche e i moti della concupiscenza, le cause precipue che inducono al peccato contro la castità e che sono da evitarsi accuratamente, sono: l’ozio, l’intemperanza nel mangiar e nel bere, la cattiva società, i discorsi osceni, le cattive letture, i turpi spettacoli, le danze immodeste, le vesti indecenti, le familiarità e le occasioni pericolose ( 1 ).

D. 230. Quali sono per lo più le principali conseguenze del peccato d’incontinenza?

R. Oltre i danni che spesso ne vengono alla salute, le principali conseguenze del peccato d’incontinenza sogliono essere: l’oscurarsi della mente, il dileguarsi dell’amor di Dio, il tedio delle cose divine e della virtù, la durezza del cuore, la perdita della fede, e non di rado l’impenitenza finale (Giobbe, XXXI, 9-12; Prov, XXIII, 27; XXIX, 3; Os, IV, 11, 12; V, 4; Paolo: ad Rom., I , 24 e segg.; L» ad Cor., II, 14; V, 1-5; ad Eph., V, 3, 4; ad Coloss., III, 5-8; l a di Pietro, IV, 3, 4. — S. Tommaso, 2a 2ae, q. 153, a. 5, ove vengono enumerate e spiegate le conseguenze (figlie) della lussuria: la cecità della mente, l’inconsideratezza, la precipitazione, l’incostanza, l’amore di se stesso, l’odio di Dio, l’affetto al mondo presente e l’orrore di quello futuro.

D. 231. Quali sono i mezzi principali per conservare la castità?

R. I mezzi principali per conservare la castità sono: la custodia e la mortificazione dei sensi, la fuga delle cattive occasioni, la temperanza nel mangiare e nel bere, l’orazione, e una tenera pietà verso la beata Vergine Maria, e soprattutto la Confessione e Comunione frequente.

Art. 4. — DEL SETTIMO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 232. Che cosa proibisce Iddio nel settimo comandamento del Decalogo: Non rubare?

R. Nel settimo comandamento del Decalogo: Non rubare, Dio proibisce qualsiasi ingiusta usurpazione o danneggiamento della roba altrui, come qualsiasi cooperazione all’una o all’altra. (Esodo, XX, 15; Deut, V, 19; Paolo: I. ad Cor., VI, 10; Apoc, IX, 21.

D. 233. A che cosa è tenuto chiunque viola questo comandamento?

R. Chiunque viola questo comandamento è tenuto per giustizia e secondo le sue forze a restituire la roba altrui e a riparare il danno.

D. 234. Quand’è che l’obbligo della restituzione e della riparazione è grave?

R. L’obbligo della restituzione e della riparazione è grave quando grave ne sia stata la materia, a giudizio dei più, o in base alla gravità del danno patito dal padrone della roba.

Art. 5. — DELL’OTTAVO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 235. Che cosa proibisce Iddio nell’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza?

R. Nell’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza, Dio ci proibisce di proferir menzogne, di giurare il falso, e di arrecare comunque danno al prossimo con le nostre parole (Esodo, XX, 16; Deut, V, 20; Prov, VI, 19; XII, 22; Sap, I, 11; Eccli., VII, 13; XX, 26-28; Paolo: ad Eph., IV, 25; ad Coloss., III, 9).

D. 236. In qual maniera si arreca danno al prossimo con le parole?

R. Si arreca danno al prossimo con le parole, principalmente con la calunnia, la detrazione, la contumelia,

il giudizio temerario espresso, la violazione del segreto (La menzogna, strettamente parlando, è una proposizione scientemente contraria alla verità e atta per sè stessa a indurre il prossimo in errore. La calunnia è la lesione del buon nome altrui mediante la narrazione di un qualche falso crimine; chi, per contro, venisse a ledere senza giusto motivo l’altrui fama col racconto di un crimine vero sì, ma ignorato, commetterebbe una detrazione. La contumelia, per sé stessa, è la lesione dell’onore, arrecata a persona o fisicamente o moralmente presente: in un senso più largo comprende ugualmente la lesione dell’onore arrecata a persona assente, o a voce o per iscritto. Il giudizio temerario vien definito come un giudizio fermamente concepito, senza ragione sufficiente, circa un peccato altrui. La violazione del segreto è la ricerca o la manifestazione ingiusta di una cosa occulta o da occultarsi, come pure l’uso del segreto ingiustamente raggiunto. « Maledetto il sussurrone e l’uomo di lingua doppia; molti infatti ne verranno turbati che ora godono pace », Eccli., XXVIII, 15; Prov, VIII, 13; San Tom, 2a, 2æ, q. 73, a. 2 : « Togliere la fama a qualcuno è grave peccato, in quanto la fama vien considerata fra tutte le cose temporali come la più preziosa; l’esserne infatti privato significa per l’uomo aver preclusa la via a molte buone attività ». Indi è che l’Eccli., XLI dice: « Abbi cura del tuo buon nome: imperocché questo ti rimarrà più che non mille grandi e preziosi tesori. »

D. 237. A che cosa è tenuto chi ha leso con le sue parole la buona riputazione del prossimo?

R. Chi ha leso con le sue parole la buona riputazione del prossimo è tenuto per obbligo di giustizia a risarcirla per quanto è in lui e a compensare il danno arrecato: e tale obbligo è grave, se grave è stato il danno arrecato.

Art. 6. — DEGLI ULTIMI DUE COMANDAMENTI DEL DECALOGO.

D. 238. Che cosa proibisce Iddio nel nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri?

R. Nel nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri, Dio proibisce non solo questo malvagio desiderio, ma eziandio qualunque peccato interno contro la castità, mentre quello esterno lo proibisce nel sesto comandamento (Esod., XX, 17; Deut, V, 21).

D. 239. Che cosa proibisce Iddio nel decimo comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri?

R. Nel decimo Comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri, Dio proibisce di bramare ingiustamente e disordinatamente i beni degli altri (Esod, XX, 17; Deut, V, 21; Paolo: la ad Tim., VI, 10).

D. 240. Qual’è il riassunto di tutti i comandamenti del Decalogo?

R. Il riassunto di tutti i comandamenti del Decalogo è questo: Amerai i l Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze, e il prossimo tuo come te stesso ((3) Lev, XIX, 18; Deut, VI, 5; Matt, XXII, 37-40; Marc, XII, 30-31; Luc., X, 27; Paolo: ad Rom., XIII, 10; ad Gal. V, 14; Giac, II, 8; S. Leone M.: Serm. IX De jejunio septimis mensis: « Amare il prossimo è amare Dio, il quale, proprio nell’unità di questo duplice amore, ha costituito la pienezza della legge e dei profeti » ; S. Tom, la, 2æ, q. 100, a. 3° ad l.um; Cat. p. parr., p. III, c. I, n. 1).

D. 241. Sono tutti tenuti anche ad osservare i doveri del proprio stato?

R. Tutti sono tenuti anche a diligentemente osservare i doveri del proprio stato, quelli, cioè, cui ognuno è astretto, a ragione della propria condizione e del proprio ufficio.

CAPO V.

Dei Precetti della Chiesa.

D. 242. Quanti sono i precetti della Chiesa?

R. I precetti della Chiesa, tutti da osservarsi dal Cattolico, sono parecchi; per esempio: non leggere né tenere libri proibiti, non ascriversi a setta massonica o ad altre sette del genere, astenersi dalla solenne benedizione delle nozze in tempo chiuso, non cremare i cadaveri dei fedeli, ed altri ancora; ma all’inizio del presente catechismo cattolico, ne sono enumerati cinque soltanto, che hanno maggiore attinenza all’ordinaria vita spirituale di tutti i fedeli.

Art. 1. DEL PRIMO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 243. Che cosa prescrive la Chiesa nel primo precetto: Nelle domeniche ed altre feste di precetto ascoltare la Messa e astenersi dalle opere servili?

R. Nel primo precetto: Nelle domeniche, ecc., la Chiesa prescrive il modo di santificare la domenica e le altre feste di precetto: e ciò si fa innanzi tutto ascoltando la Messa e estenendosi dalle opere servili (Cod. D . C , can. 1248).

D. 244. Non esige forse lo stesso diritto naturale che l’uomo consacri un dato tempo al culto divino?

 R. Lo stesso diritto naturale esige che l’uomo consacri un dato tempo al culto divino, astenendosi dagli affari e lavori corporali, onde possa col corpo e con l’anima piamente onorare e venerare quel Dio creatore, dal quale ha ricevuto sommi ed innumerevoli benefici (Cat. p. parr, p. III, c. IV, n. 11).

D. 245. Quali sono le feste di precetto nella Chiesa universale?

R. Sono feste di precetto nella Chiesa universale, all’infuori delle domeniche: la Natività, la Circoncisione, l’Epifania, l’Ascensione e il Corpus Domini, l’Immacolata Concezione e l’Assunzione della beata Vergine Maria, S. Giuseppe suo sposo, i SS. Pietro e Paolo Apostoli e tutti i Santi (Cod. D . C , can. 1247 e segg.).

D. 246. Oltre che ad ascoltare la Messa, a quali opere conviene che il cristiano si applichi le domeniche e le altre feste di precetto?

R. Oltre che ad ascoltare la Messa conviene che le domeniche e le altre feste di precetto il Cristiano si applichi, per quanto sta in lui, ad opere di pietà e di religione, soprattutto assistendo alle sacre funzioni, ascoltando le sacre predicazioni e la spiegazione del catechismo.

D. 247. Quali opere vengati chiamate servili?

R. Vengon chiamate servili le opere compiute per lo più da servi e mercenari, e sono quelle che richiedono uno sforzo prevalentemente fisico, e che hanno per fine precipuo l’utilità corporale.

D. 248. Vi sono alcune opere servili permesse nella domenica e nelle altre feste di precetto?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto vengon permesse le opere servili che abbiano diretta attinenza sia col culto di Dio, sia con le consuete necessità del servizio pubblico o domestico, quelle richieste dalla carità, e quelle infine che, o non si possono omettere senza grave incomodo, o che sono autorizzate da provata consuetudine.

D. 249. Nelle domeniche ed altre feste di precetto bisogna astenersi soltanto dalle opere servili?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto bisogna astenersi non soltanto dalle opere servili, ma anche dalle azioni forensi e, salvo che legittime consuetudini o particolari indulti altrimenti permettano, dal pubblico mercato, dalle fiere ed altre pubbliche compere e vendite.

D . 250. Peccano coloro che non osservano le domeniche ed altre feste di precetto, oppure impediscono agli altri di osservarle?

R . Gravemente peccano coloro che senza giusto motivo non osservano le domeniche ed altre feste di precetto, oppure impediscono gli altri di osservarle.

Art. 2. — DEL SECONDO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 251. Che cosa è prescritto nel secondo precetto: Astenersi dal mangiar carne ed osservare il digiuno nei giorni fissati dalla Chiesa?

R. Nel secondo precetto: Astenersi, etc, è prescritto che nei giorni fissati dalla Chiesa noi osserviamo o il solo digiuno, o la sola astinenza, o il digiuno e l’astinenza assieme (Cod. D. C , can. 1250 e segg.).

D. 252. Che cosa ordina la legge del solo digiuno?

R. La legge del solo digiuno ordina che si faccia in giornata un pasto soltanto, ma non vieta di prendere qualche po’ di cibo la mattina e la sera, attenendosi, riguardo alla quantità e qualità di cibi, alla comune consuetudine locale.

D. 253. Che cosa vieta la legge della sola astinenza dalla carne?

R. La legge della sola astinenza dalla carne vieta di mangiar carne e sugo di carne; non vieta, invece, le uova, i latticini e i condimenti di qualsiasi genere anche se c’entri il grasso di animale.

D. 254. In quali giorni obbligano le suddette leggi?

R. A meno che la legittima autorità altrimenti disponga per indulto:

1° la legge della sola astinenza obbliga tutti e singoli i venerdì;

2° la legge dell’astinenza e del digiuno assieme, il mercoledì delle Ceneri, i venerdì e sabbati di Quaresima, i giorni di Quattro Tempora, le vigilie della Pentecoste, dell’Assunta (poi sostituita dall’Immacolata), di tutti i Santi e della Natività del Signore;

3° la legge del solo digiuno, obbliga nei rimanenti giorni di Quaresima, salvo le domeniche.

D. 255. Vi sono certi giorni in cui le leggi suddette non hanno applicazione?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto, e nel Sabbato Santo dopo mezzogiorno, la legge dell’astinenza, o della astinenza e digiuno, o del digiuno soltanto, non hanno applicazione, salvo che la festa di precetto cada in Quaresima; le vigilie poi non si anticipano (Can. D. C , can. 1252, § 4).

D. 256. Quali persone debbono osservare l’astinenza e il digiuno?

R. A meno di avere una legittima scusa o una dispensa, deve osservare l’astinenza chiunque, in sufficiente possesso della ragione, ha compiuto il settimo anno; tutti poi indistintamente, son tenuti alla legge del digiuno, da vent’anni compiuti a sessanta iniziati.

257. Per qual ragione la Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno?

R. La Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno onde i fedeli facciano penitenza dei peccati commessi, si guardino dai futuri, e così attendano più efficacemente alla preghiera (Tob, XII, 8; Gioel, II, 12, 15; Matt., VI, 16; IX, 15; XVII, 20; Marco, II, 20; Luca, II, 37; V, 35; Paolo: ad Rom., XIII, 13; 2a ad Cor., V I , 5; X I , 27; ad Eph., V, 18; la ad Thess., V,6; ad Tit., II, 2).

Art. 3. — DEL TERZO E QUARTO PRECETTO DELLA CHIESA.

D . 258. Che cosa prescrive la Chiesa nel terzo precetto: Confessare i propri peccati almeno una volta all’anno?

R. Nel terzo precetto: Confessare i propri peccati almeno una volta all’anno, la Chiesa prescrive ai fedeli pervenuti all’età di discrezione di fare almeno una volta nell’anno la confessione dei peccati mortali, non direttamente rimessi nelle confessioni precedenti (Conc. Lat. IV, cap. 21; Conc. di Tr., sess. XIV, de Pœnitentia, c. 5. — Se vuoi custodir l’anima tua immune dai peccati, se vuoi condurre una vita degna di un cristiano, avvicinati di frequente al sacramento della Penitenza, sempre, ben inteso, con una diligente preparazione; prendi, poi, la buona abitudine di confessarti come se dovessi immediatamente e dopo morire. Ricevuta l’assoluzione, rendi grazie a Dio d’essersi mostrato tanto misericordioso verso di te; poscia, se lo puoi, fa subito la tua penitenza.).

D . 259. Che cosa prescrive la Chiesa nel quarto precetto: Ricevere il Sacramento dell’Eucaristia almeno a Pasqua?

R. Nel quarto precetto: Ricevere il Sacramento dell’Eucaristia almeno a Pasqua, la Chiesa prescrive ad ogni fedele che abbia raggiunto l’età di discrezione, di ricevere l’Eucaristia, almeno entro il tempo pasquale (Conc. Lat, IV, 1. e; Conc. di Tr., sess. XIII De Eucaristia, can. 9; Cod. D. C , can. 859, § 1).

D. 260. Debbono i fedeli soddisfare a questo precetto, ognuno nel proprio rito e nella propria parrocchia?

R. Per quanto i fedeli non abbiano al riguardo alcun obbligo stretto, vanno tuttavia consigliati di soddisfare a tale precetto, ognuno nel proprio rito e nella propria parrocchia; chi poi avesse soddisfatto in un rito diverso dal suo o in una parrocchia estranea, abbia cura d’informare il proprio parroco del compiuto precetto (Cod. D. C., 1. c, § 3, e can. 866, § 2. — Nella Chiesa latina la Santa Comunione vien somministrata sotto l’unica specie del pane ; sotto le due specie nella maggior parte delle Chiese orientali).

D. 261. Perché nel terzo e quarto precetto la Chiesa ha aggiunto quella parola: Almeno?

R . Nel terzo e quarto precetto la Chiesa ha aggiunto quella parola: almeno, per insegnarci essere assai utile e conforme ai suoi desideri che i fedeli — pure quelli che hanno soli peccati veniali, ovvero mortali già direttamente rimessi — si confessino spesso e si accostino di frequente, anzi ogni giorno, con pietà alla mensa Eucaristica (S. Congr. d. Conc: Decr. Sacra Trid. Synodus, 20 dic. 1905; S. Congr. d. disc, dei Sacr. : Decr. Quam singulari, 8 ag. 1910, n. VI. — Accostati di frequente alla Santa Comunione, con purezza d’animo e ardor di desiderio. Non v’è tempo più prezioso di quello in cui ti stringi intimamente a te unito l’amantissimo tuo Salvatore. Non ti sia di peso il prolungare alquanto il tempo che trascorri con Lui nel ringraziamento).

D. 262. Qual è l’età di discrezione in cui cominciano ad obbligare ì due precetti della Confessione e della Comunione?

R . L’età di discrezione in cui cominciano ad obbligare i due precetti della Confessione e della Comunione, è quella in cui il bambino comincia a ragionare, ossia verso il settimo anno d’età, sia sopra sia anche sotto (S. Congr. d. discipl. dei Sacr., 1. e, n. I).

D. 263. Quest’obbligo che grava sui bambini, ricade pure su altri?

R . Quest’obbligo che grava sui bambini, ricade pure e principalmente sulle persone che debbono aver cura di essi, quindi sui genitori, sui tutori, sui maestri, sul confessore e sul parroco (S. Congr. d. discipl. dei Sacr, 1. c, n. IV; Cod. D. C., can. 860, 1340).

D. 264. Quale conoscenza della dottrina cristiana è richiesta perchè un bambino possa e debba venir ammesso alla prima comunione?

R. Perché un bambino possa e debba venir ammesso alla prima comunione:

1° in pericolo di morte, basta ch’egli sappia discernere il corpo di Cristo dal cibo comune e riverentemente adorarlo;

2° fuori del pericolo di morte, si esige inoltre ch’egli comprenda, secondo la sua capacità, almeno quei misteri della fede necessari di necessità di mezzo, e distingua il pane Eucaristico da quello comune e corporale, e ciò affinché possa accostarsi all’Eucaristia con tutta la devozione consentita dalla sua età.

 (S. Congreg. d. discipl. d. Sacr, 1. c, n. II, III D. C, can. 854; Cat. p. parr, p. II, c. IV, n. 62, 63, e c. V, n. 44. — Le condizioni requisite per degnamente e devotamente ricevere la Santa Comunione vengono esposte nelle DD. 339 e segg.).

D. 265. Fatta la prima comunione, a che cosa son tenuti i bambini?

R . Fatta la prima comunione, i bambini son tenuti ad imparare per intero a grado a grado e nella misura della loro intelligenza, il catechismo espressamente composto per essi. (S. C. d. disc. d. Sacr., 1. e, n. II).

D. 266. Qual è, in materia, il dovere dei genitori e di quanti hanno cura dei bambini?

R. Il dovere dei genitori e di quanti hanno cura dei bambini è, in materia, quello gravissimo di provvedere a che i bambini medesimi vadano ad assistere alle pubbliche lezioni di catechismo; in caso contrario, di supplire in altro modo alla loro istruzione religiosa (S. C. d. disc. d. Sacr., 1. e, n. VI).

D. 267. Da quando decorre il tempo pasquale in ordine alla Comunione da riceversi?

R. Il tempo Pasquale in ordine alla Comunione da riceversi decorre dalla Domenica delle Palme alla Domenica in Albis, salvo che la legittima autorità della Chiesa abbia altrimenti disposto (Cod. D. C , can. 859, § 2).

D . 268. Cessa il precetto della Comunione non soddisfatto durante il tempo pasquale?

R . Il precetto della Comunione non soddisfatto durante il tempo pasquale, non cessa affatto per questo, anzi bisogna compierlo subito appena sia possibile, entro lo stesso anno.

D. 269. Si ottempera al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale mediante una Confessione o Comunione sacrilega, oppure una Confessione volontariamente invalida?

R. Né mediante una Confessione o Comunione sacrilega, né mediante una Confessione volontariamente nulla si ottempera al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale, anzi in seguito al nuovo peccato il precetto stringe maggiormente (Cod. D. C , can. 97; S. C. del S. Ufficio: Decr. 24 sett. 1665, prop. 14 damn.).

Art. 4. — DEL QUINTO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 270. Che cosa comanda la Chiesa nel quinto precetto: Sovvenire alle necessità della Chiesa e del clero?

R. Nel quinto precetto: Sovvenire alle necessità della Chiesa e del Clero, la Chiesa inculca ai fedeli il divino comandamento di sovvenire alle necessità temporali della Chiesa e del clero, a norma di particolari decisioni

e di lodevoli consuetudini (Deut., XVIII, 1-8; Matt, X, 10; Luca, X, 7; Paolo, 1a ad Cor., IX, 9-14; la ad Tim., V, 18; Cod. D. C., can. 1502; S. Tom, 2a, 2æ, q. 87, a. 1).

D. 271. Perché vien ciò comandato?

R. Ciò vien comandalo perché è giusto che ai ministri del culto che si affaticano per la loro salvezza i fedeli somministrino quanto è necessario a coprire le spese del culto divino e ad un onesto loro sostentamento.

CAPO VI.

Dei consigli evangelici.

D. 272. Oltre i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa vi sono pure dei consigli?

R. Oltre i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa vi sono pure dei consigli, dati per la prima volta nel Vangelo da Nostro Signor Gesù Cristo, e perciò chiamati Consigli evangelici.

D. 273. Che cosa sono i consigli evangelici?

R. I consigli evangelici sono dei mezzi proposti da Gesù Cristo per conseguire con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale.

D. 274. Quali sono i principali consigli evangelici?

R . I principali consigli evangelici sono: la povertà volontaria, la perfetta castità e una speciale obbedienza da prestarsi per amore di Gesù Cristo (Della povertà: Matt, XIX, 21; Marco, X, 21; Luca, XVIII, 22. Della castità: Matt, XIX, 12; Paolo, 1a ad Cor., VII, 25, 32, 34. Dell’obbedienza: Luca, X, 16; Giov., XIII, 20; S. Tom, 2a, 2æ, q. 86, a. q. ad l.um).

D. 275. In qual modo con la pratica di questi consigli acquistasi con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale?

R. Con la pratica di questi consigli si acquista con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale in quanto, col dedicare a Dio la volontà mediante l’ubbidienza, il corpo mediante la castità e i beni esterni mediante la povertà, noi veniamo disposti alla carità perfetta (Pio XI, Encicl. Quas primas, 11 dic. 1925, verso la fine; S. Tom, la, 2æ, q. 108, a. 4).

D. 276. Chi è che deve seguire i consigli evangelici?

R. Deve seguire i consigli evangelici chi ad essi si è liberamente astretto; per esempio i Religiosi, i quali per voto son tenuti ad osservare i tre consigli evangelici secondo la regola del proprio Istituto.

(Coloro tutti che, rispondendo all’appello divino, abbracciano un qualsiasi Istituto di vita religiosa approvato dalla Chiesa, mentre si applicano, come ne hanno il diritto, alla cristiana perfezione secondo i consigli evangelici, nel medesimo tempo si rendono utilissimi alla salvezza del prossimo come alla stessa civile società; e ciò o con l’assidua orazione, o con l’esempio delle virtù, o curando gl’infermi e gl’infelici di ogni sorta, o educando la gioventù, o approfondendosi nelle cose divine e nelle lettere. È quindi giusto che tanto gl’individui, quanto le famiglie e la società li facciano segno di particolari espressioni di riverenza, di ammirazione e di gratitudine. — Leone XIII, Lett. al Card. Gibbons, 22 genn. 1889; e la Lett. al Card. Richard, 23 dic. 1900; Pio XI, Lett. Unigenitus Dei Filius, 19 mar. 1924 ; Cod. D. C., can. 487).

D. 277. Per poter credere, come dobbiamo, quanto è da credersi, per poter osservare i comandamenti di Dio

e i precetti della Chiesa e seguire i consigli evangelici, abbiamo noi bisogno di un qualche aiuto?

R. Per poter credere, come dobbiamo, quanto è da credere, per potere osservare i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa e seguire i consigli evangelici noi abbiamo bisogno della grazia di Dio. (Giov, XV, 5; Paolo, Ia ad Cor., III, 6; IV, 7; 2a ad Cor., III, 5; ad Eph., II, 8-10).

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (11)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (12)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [12]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXVII.

D’altre ragioni che vi sono per consolarci e per conformarci alla volontà di Dio nelle aridità, tristezze e abbandonamenti nell’orazione.

Ancorché sia bene il pensare noi altri, che un tal travaglio ci viene per le nostre colpe, acciocché, così facendo, andiamo sempre più confondendoci e umiliandoci; nondimeno è ancor necessario, che sappiamo, che non tutte le volte è castigo delle nostre colpe, ma disposizione e provvidenza altissima del Signore, il quale distribuisce i suoi doni come gli piace, e non conviene, che tutto il corpo sia occhi, né piedi, né mani, né capo, ma che nella sua Chiesa vi siano membri differenti: e così non conviene che sia conceduta a tutti quell’orazione specialissima e sublime della quale dicemmo trattando dell’orazione (Sapra tract. 5, c, 4 et 5):  e questo non è sempre necessario che avvenga per cagione de’ nostri demeriti; perché  ancorché ci siano alcuni che meritino grazie e favori nell’orazione, ciò non ostante potranno presso Dio acquistare merito maggiore con qualche altra cosa; e così sarà maggior grazia di Dio il dar loro quella anzi che questa. Vi sono stati molti Santi grandi i quali non sappiamo che avessero questi segnalati favori di orazione; e se gli ebbero, dissero con S. Paolo, che non si pregiavano né si gloriavano di questo, ma del portar la croce di Cristo: Mihi autem absit gloriavi, nisi in cruce Domini nostri Jesu Christi (Ad Gal. VI, 14). – Il P. M. Avila dice intorno a questo una cosa di molta consolazione, ed è, che Dio lascia alcuni sconsolati per molti anni e alle volte per tutta la vita: e la parte e sorte di questi credo, dice egli, che sia la migliore, se essi hanno fede, per non prendere ciò in mala parte, e pazienza e fortezza per tollerare un sì grande desolamento (M. Avil. tom 2, ep. fol. 22; supra tract 5, c. 20). Se uno si persuadesse affatto, che questa sorte è la migliore per lui, facilmente si conformerebbe alla volontà di Dio. I Santi e maestri della vita spirituale adducono molte ragioni per dichiarare e provare, che per questi tali è migliore e più conveniente questa sorte: ma per ora ne diremo solamente una delle principali, che apportano S. Agostino, S. Girolamo, S. Gregorio, e comunemente tutti quei che trattano di questa materia (D. Aug. lib. de orando Deum, quæ est ep. 121 ; D. Hier. Supra illud Thrén. in: Sed et cum clamavero, et rogavero, exclusit orationem meam; D. Greg. lib. 20 mor. c. 21, 24): ed è che non ècosa da tutti il conservar l’umiltà fra l’altezza della contemplazione: perciocché appena abbiamo buttata una lagrimuccia, che ci pare d’esser già spirituali e uomini d’orazione, e ci vogliamo uguagliare, e forse anche preferire ad altri. Insino l’apostolo S. Paolo pare che avesse bisogno di qualche contrappeso, acciocché queste cose non lo facessero invanire: Et ne magnitudo revelationum exlollat, me; datus est mihi stimulus carnis mece, angelus satanæ, qui me colaphizet (II. ad Cor. XII, 7). Acciocché l’essere stato egli rapito sino al terzo cielo e le grandi rivelazioni che aveva avute non lo facessero insuperbire, permise Iddio, che gli venisse una tentazione la quale l’umiliasse e gli facesse conoscere la sua debolezza: or perciò, benché quella strada paia più alta, quest’altra è più sicura. E così il sapientissimo Dio, il quale ci guida tutti ad un medesimo fine, ch’è Egli stesso, conduce ciascuno per la strada che sa essergli più espediente. Forse che se tu avessi avuta grande introduzione nell’orazione, in cambio di riuscir umile e con gran profitto, saresti riuscito superbo e gonfio; e in quest’altro modo stai sempre umiliato e confuso, riputandoti inferiore a tutti: onde questa è migliore e più sicura strada per te, sebbene non la conosci: Nescitis quid petatis (Matto XX, 22): Non sapete quello che domandate, né quello che desiderate. – S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Si venerit ad me, non videbo eum; si abierit, non intelligam (Greg. lib. 9 Mor. c. 7 in Job ix, 11): Se il Signore verrà a trovarmi, non lo vedrò; e se andrà via e s’allontanerà da me, non l’intenderò, insegna una dottrina molto buona a questo proposito. Restò l’uomo, dic’egli, tanto cieco per lo peccato, che non conosce quando si vada avvicinando a Dio, né quando si vada allontanando da Lui: anzi molte volte quel ch’egli si pensa che sia grazia di Dio e che per quel mezzo si vada avvicinando più a lui, se gli converte in castigo e gli è occasione di più allontanarsene: e molte volte quello che egli si pensa che sia castigo e che Dio si vada allontanando e dimenticandosi di lui, è grazia e motivo, perché non se ne scosti. Perciocché chi sarà quegli che veggendosi in un’orazione e contemplazione molto alta e molto accarezzato e favorito da Dio, non si dia a credere di andarsi avvicinando e accostando più al medesimo Dio? e pur molte volte con questi favori viene uno ad insuperbirsi ed assicurarsi e fidarsi di se stesso’, e il demonio lo fa cadere per quell’istessa via per la quale egli pensava di salire e di avvicinarsi più a Dio. Per lo contrario molte volte vedendosi uno sconsolato, afflitto, e con gravi tentazioni, e molto combattuto da pensieri disonesti, e di bestemmie, e contra la fede, si pensa, che Dio stia adirato seco, e che lo vada abbandonando e ritirandosi da lui, e allora gli è più vicino: perché con questo si umilia più, conosce la debolezza e fragilità sua, sconfida di sé, ricorre a Dio con maggior calore e fortezza, mette in esso ogni sua fiducia, e procura di non separarsi mai da Lui. Di maniera che il meglio non è quello che tu pensi; ma il meglio è la strada per la quale il Signore ti vuol condurre; questa t’hai da persuadere che sia la migliore e quella che a te più conviene. Di più cotesta medesima afflizione e fastidio e dolore che tu senti per parerti che non fai l’orazione così bene come dovresti, può esser un altro motivo di consolazione; perché tutto questo è una particolar grazia e favore del Signore, ed è segno che l’ami: poiché non vi è dolore senza qualche amore: nè può essere in me dispiacere di non servir bene, senza proponimento e volontà di servir bene: e così cotesto dispiacere e dolore nasce da amor di Dio, e da desiderio di servirlo meglio. Se non ti curassi niente di servirlo male, né di far male l’orazione, né di far altre cose mal fatte, sarebbe cattivo segno: ma il sentir dispiacere e dolore del parerti di far questa cosa male, è buon segno. Perciò acquieta il tuo dispiacere e dolore col ben intendere, che in quanto l’aridità precisamente è pena, è anche volontà positiva di Dio; e quindi conformati ad essa con rendergli grazie, che ti lasci concepire questo buon desiderio di dargli maggior gusto nelle tue operazioni, ancorché ti paia, che queste siano molto deboli ed imperfette. Di più quantunque nell’orazione tu non faccia altro che assistere e star ivi presente ai piedi di quella reale e Divina Maestà, servi in ciò assai Dio. Come veggiamo di qua nel secolo, che è maestà grande dei Re e Principi della terra che i Grandi della lor Corte vadano ogni giorno a palazzo, e ivi assistano e colla loro presenza formino ad essi corteggio; Beatus homo, qui audit me, et vigilat ad fores meas quotidie, et observut ad postes ostii mei (Prov. VIII, 34). Alla gloria della maestà di Dio, alla bassezza della nostra condizione, e alla grandezza del negozio che trattiamo, appartiene lo star noi molte volte aspettando e come facendo ala alle porte del suo palazzo celeste: e quando Egli te le aprirà, rendigliene grazie; quando no, umiliati, conoscendo, che non lo meriti: e in questa maniera sempre sarà molto buona e molto utile la tua orazione. Di tutte queste cose e d’altre simili ci dobbiamo valere per conformarci alla volontà di Dio in questa amarezza e in questo abbandonamento spirituale, accettando il tutto con rendimento di grazie, è dicendo: Salve, amaritudo amatissima, omnis gratiæ piena: Io ti saluto, o amarezza amara e amarissima, ma piena di grazie e di beni (Barth, de Mart. Archiep. Brachar. in suo compendio c. 26).

CAPO XXVIII.

Che è grande inganno e grane tentazione il lasciar l’orazione per ritrovarsi l’uomo in essa nel modo che s’è detto.

Da quel che si è detto ne viene in conseguenza che è grand’inganno e grave tentazione quando uno per vedersi in questo stato si risolve di lasciar l’orazione, o non persevera tanto in essa, parendogli di non farci niente, anzi di perderci più tosto il  tempo. Questa è una tentazione colla quale il demonio ha fatto lasciar l’esercizio dell’orazione non solamente a molti secolari, ma ancora a molti Religiosi, e quando non può toglier loro affatto l’orazione, fa che non si diano tanto ad essa, nè vi spendano tanto tempo quanto potrebbero. Cominciano molti a darsi all’orazione, e fin tanto che vi è bonaccia e devozione, la proseguiscono e continuano molto bene; ma giunto il tempo dell’aridità e della distrazione, par loro che quella non sia orazione, ma più tosto nuova colpa; poiché stanno ivi dinanzi a Dio con tanta distrazione e con sì poca riverenza: e così vanno a poco a poco lasciando l’orazione, per parer loro, che faranno maggior servizio a Dio con attendere ad altri esercizi e occupazioni, che collo star ivi in quella maniera. E come il demonio ben s’avvede di questa loro fragilità, così si vale dell’occasione e si sollecita tanto a molestarli con vari pensieri e tentazioni nell’orazione; acciocché tengano per male speso quel tempo; e quindi pian piano fa, che lascino totalmente l’orazione e con essa la virtù, e che anche alle volte passino più oltre a qualche altra cosa di peggio: e così sappiamo, che di qui ha avuto principio la rovina di molti. Est amicus socius mensa?, et non permanebit in die necessitatis, dice il Savio (Eccli. VI, 10). Ilgoder Dio è cosa che non v’è chi non lavoglia; ma il travagliare, l’affaticarsi e ilpatir per Lui, quest’è il segno del vero amore. Quando nell’orazione v’è consolazione e devozione, non è gran cosa che tu perseveri e ti trattenga in essa molte ore; perché può essere, che tu lo faccia per tuo gusto: ed è segno, che lo fai per questo, quando mancandoti la consolazione e la devozione, non perseveri più. Quando Dio manda inquietudini, tristezze, aridità e distrazioni, allora si provano i veri amici e si conoscono i servi fedeli che non cercano l’interesse loro, ma puramente la volontà e il gusto di Dio: e così allora abbiamo da perseverare con umiltà e pazienza, stando ivi tutto il tempo assegnato, ed anche un poco di più, siccome ce lo consiglia il nostro S. Padre (D. Ign. lib. Exerc. spir. annot. 13), per vincer con questo la tentazione, e mostrarci forti e gagliardi contro il demonio. Narra Palladio (2•8) Pallad, in Hist. Lausiac.,), che esercitandosi egli nella considerazione delle cose divine, rinchiuso in una cella, aveva gran tentazione d’aridità e gran molestia di vari pensieri che gli andavano suggerendo, che lasciasse quell’esercizio, perchè gli era inutile. Andò egli a trovare il santissimo Macario Alessandrino, e gli raccontò questa tentazione, dimandandogli consiglio e rimedio. E il Santo gli rispose: Quando cotesti pensieri ti diranno, che te ne vada via, e che non fai niente: Dic ipsis cogitationibus tuis: Propter Christum parietes cellæ istius custodio: Di’ a’ tuoi pensieri, voglio star qui a custodire per amore di Cristo le mura di questa cella: che fu quanto dirgli, che perseverasse nell’orazione, contentandosi di far quella santa azione per amor di Cristo, ancorché non ne cavasse altro frutto che questo. Questa è molto buona risposta, per quando ci venga questa tentazione: perché il fine principale che abbiamo da avere in questo santo esercizio, e l’intenzione colla quale dobbiamo andarvi e occuparci in esso, non ha da essere il nostro gusto, ma il far un’azione buona e santa colla quale piacciamo a Dio, e diamo gusto a Lui, e soddisfacciamo e paghiamo qualche particella del molto di cui gli siamo debitori, per essere quegli ch’Egli è, per gl’innumerabili beneficii che dalle sue mani abbiamo ricevuti; e poiché Egli vuole e si compiace, ch’io stia adesso qui, con tutto che mi paia di non far cosa alcuna, mi contento di questo. – Si narra di S. Caterina da Siena, che per molti giorni fu priva delle consolazioni spirituali, e che non sentiva il solito fervore di divozione, e che di più era molto molestata da pensieri cattivi, brutti e disonesti, i quali non poteva scacciar da sè; ma che non lasciava per questo la sua orazione; anzi al meglio che poteva perseverava in essa con gran diligenza, e parlava seco stessa in questa maniera: Tu vilissima peccatrice non meriti consolazione alcuna. Come? Non ti contenteresti tu, per non essere condannata in eterno, di avere per tutta la tua vita a patire queste tenebre e tormenti? È cosa certa, che tu non ti eleggesti di servir Dio per ricever da Lui consolazioni in questa vita, ma per goderlo in cielo per tutta l’eternità. Alzati dunque su, e proseguisi i tuoi esercizi, perseverando nell’esser fedele al tuo Signore (Blos. c. 4, mon. spir.). Imitiamo dunque questi esempi e restiamocene colle parole di quel Santo: Questa sia, o Signore, la tua consolazione, il voler di buon grado rimaner privo d’ogni umana consolazione; e se mi mancherà la tua consolazione, servami di somma consolazione e conforto la tua volontà, e quella prova che ben giustamente vuoi Tu fare di me (Thom a Kempis lib. 3, c. 16, n.  2). Se arriveremo a questo, che la volontà e il gusto di Dio sia ogni nostro gusto, di tal maniera che l’istessa privazione d’ogni nostra consolazione sia gusto nostro, per essere volontà e gusto di Dio; allora sarà vero il nostro gusto, e tale, che nessuna cosa ce lo potrà torre.