MERCOLEDI’ DELLE CENERI (2021)

MERCOLEDÌ DELLE CENERI

p. Carlo m. Curci D. C. D. G.: LA NATURA E LA GRAZIA: Discorsi

Vol. I, Roma-TorinoP. Marietti ed. – 1865

IL PROBLEMA DELLA MORTE

Memento, homo, quia pulvis es, et in  pulverem reverteris.

S. Chiesa.

1. Se da quella polvere, nella quale oggi la Chiesa ci ricorda che tutti dovremo ritornare, levasse il capo uno dei nostri maggiori, che vi tornò non più che un dieci o dodici lustri addietro, io mi avviso, che ei non crederebbe ai suoi occhi dallo stupore, trovando il mondo tanto diverso da quello, che egli, dipartendosi dalla vita, lo avea lasciato. E quale delle cose pubbliche o delle private, in piccolo tempo, non si è cangiata da una Socieià, la quale, compresa dalla febbre dell’innovare, ha riputato meglio tutto ciò che fosse nuovo, e tanto se n’è levata in maggiore superbia, quanto ha potuto farlo con fretta più avventata? Che se quel redivivo, più che alle cose esteriori, potesse guardare nei pensieri della generazione vivente, ahimè! io credo, che in lui la meraviglia cederebbe il luogo alla compassione: tanta è l’alterazione delle idee, e la falsità dei giudizi, che da una scienza sciocca e dissoluta, o, peggio ancora, da non so che oracolo dì pubblica opinione fur messe in voga! Pure in tanta mutazione di cose, in tanto pervertimento d’idee ne è una, alla quale troppo rileverebbe al mondo recare almeno qualche temperamento, e la quale tuttavia, a dispetto di tutte le civiltà adulte e dei progressi umanitari, è restata ferma, invariata, immobile siccome il fato, e non mostra che, per volgere di secoli, possa mai cangiarsi. E questa, Signori miei, è la Morte. Tant’è! quanto a questa tremenda necessità della natura, tutto è rimasto nello stato pristino, primitivo, direi quasi arcaico: i medesimi prenunzi le vanno innanzi nella vecchiezza decrepita, nelle infermità fastidiose, nei subiti accidenti, che colpiscono spesso i più vigorosi e che meno se l’aspettano; le medesime strette angosciosissime dell’agonia l’accompagnano, e le viene appresso la medesima corruzione. Come morì Abele sul limitare del terrestre paradiso, così stanno, or che vi parlo, boccheggiando quelle, parecchie centinaia di uomini, pei quali questo giorno sarà l’estremo, e così morirà l’ultimo degli umani nell’ultimo dei giorni, che sarà rischiarato dal sole. Che se non si è per nulla cangiata la morte, neppure si è cangiato per nulla il terribile problema, che essa acchiude, e che anzi impone, a mal loro grado, ai meno riflessivi, ai più spensierati oggi, come fu nei tempi andati, come sarà nei futuri, la creatura ragionevole, non si potrà mai persuadere, che tutto per lei abbia a finire colla morte; ed una voce imperiosa, più forte di tutte le sofìstiche antiche e moderne, gli dice dentro, che ei non morrà tutto, che anzi colla parte migliore di sé, voglia o non voglia, dovrà essere superstite al sepolcro. Ma allora eccolo condotto, e dico ancora eccolo trascinato per forza a pensare, a riflettere ad un ordine ultramondiale di cose, nel quale, salvo il caso che sia uscito di sentimento, i suoi destini non gli possono essere indifferenti. Or, perciocché la vita presente, come nella futura ha il suo compimento, così da questa deve pigliare le sue norme ed il suo indirizzo; tanto è lungi, che i vivi debbano schivare il pensiero della morte, che per contrario il pensiero della morte è il migliore regolatore, che possano avere della vita. Di qui la santa Chiesa, senza guari curarsi dei nostri millantali progressi, come fece colle azioni semibarbare dei suoi primordi, e poscia coi popoli credenti dei tempi di mezzo, così fa coi superbi figli del secolo decimonono, i quali per avventura ne hanno tanto maggiore il bisogno, quanto più si credono sovrastare agli altri. Essa, spargendo cenere sopra tutti i capi, rammenta al popolo cristiano la sua mortalità; e con ciò, invitandolo a quei pensieri soprannaturali, che sono sì propri del sacro tempo della Quaresima, lo conduce o almeno lo invita e lo stimola a quella santità di vita, che come è la condizione necessaria della nostra salute, così è il fine immediato dei suoi austeri ammaestramenti, e dei santi suoi riti. – Dalla quale usanza, io non mi dipartirò questa mattina; soprattutto perché, pel servigio che intendo rendervi in questi discorsi quaresimali, di cui domani vi esporrò il soggetto, troppo ho uopo, che voi vi risolviate ad attendervi di proposito, piegando l’animo ai gravi e solenni pensieri della vita avvenire. Oh! sì! tregua un tratto, tregua al tumulto dei sensi, al tramestio del mondo ed all’agitarsi ed al battagliare delle passioni! apriamo il cuore alle soavi ispirazioni della grazia; e forse una non piccola vena ne schiuderò alla pietà vostra quest’oggi dimostrandovi, siccome solo il Cristiano può risolvere il gran problema della morte, pigliandone norma a regolare la vita. Che se la natura, condottici a quell’estremo passo, non sa dirci nulla di ciò che esso è, e di ciò, a cui schiude la via, male si arroga il diritto di governare essa sola la vita; e, ad ogni modo, a questo effetto sarà uopo ricorrere a quell’altro ordine d’idee e di cose, dal quale solo si può spiegare la morte. Così la grazia del Divino Spirito assista me in questa faticosa, ma pure a me carissima opera di amministrarvi la divina parola; assista voi, miei amatissimi, la cui pietà e gentilezza già per antica usanza mi è nota, a trarre frutto copioso di benedizione dell’amministrata parola!

2. Voi penserete, che il gran problema della morte riguardi unicamente ciò, che le viene appresso. Pure non è così. La morte rende problematiche le stesse condizioni della vita, e le getta in una incertezza, le colpisce di una inanità, sopra le quali l’intelletto non può quietare, se non ne abbia una spiegazione. Volete vederlo? toccarlo con mano? Venite qua! Eccoci accanto al letto di un moribondo; e perché l’ipotesi sia più calzante, supponiamo un uomo, che abbia consumata la vita ad ammassare ricchezze, giungendo a quella fortuna, da tanti invidiata, e da sì pochi raggiunta, di diventare, come dicono coll’acquolina in bocca i cupidi, milionario; supponiamo un ambizioso (e ce ne sono tanti a’ di nostri!), che per male arti sia salito a grande potenza, e ne sia tuttora investito; supponiamo una donna vana, che abbia abusato i doni di Dio, per dominare cuori non suoi: un più vano letterato o scienziato, che non abbia nella vita mirato ad altro scopo, che di fabbricarsi una grande rinomanza. I circostanti non si sanno schermire da un pensiero importuno; e, benché mondani anch’essi, talvolta lo dicono: «Ecco dunque dove è andata a finire tanta foga di vanità e tanta febbre di cupidigia! E per finire a questa maniera valea bene la spesa di sudare, di trafelare, di logorarsi il cervello e la vita, come questi ha fatto! » Ma, più che i circostanti, ne dev’essere preoccupato e trafitto il morente; e senza saperlo, se è conscio ancora di sé, starà ripetendo seco medesimo ciò, che le Scritture ed i Padri, con ben diverso intendimento, avevano detto: « La vita non fu dunque altro, che un correre alla morte! Tutti quei beni furono sogni di dormenti; e questo morire è uno svegliarmi, che me ne rivela, con subito e sterile riconoscimento, il nulla! Per questa creta passò uno spirito, che non vi resta; ed io mai più non tornerò a vedere i cari luoghi della mia adolescenza e della mia vecchiezza (Psal. CII, 14)! Se così dovea essere, meglio per me saria stato il non esser nato, o l’essere tramutato dalla culla al sepolcro: dormirei ora il mio ferreo sonno coi potenti e coi re della terra, men forse nominato, ma certo meno affaticato di loro! Quare non in vulva mortuus sum, egressus de utero non statim perii ?… Somno meo requiescerem cum regibus et consulibus terræ (Iob. III,11, 14.).» Soprattutto che dire di quel fiero ed amarissimodisinganno, pel disperato convincimento, che dunqueil sospiro naturale alla felicità fu una illusione, fuun ludibrio? A questa maniera una potenza invidiosae malefica ci avrebbe tratti del nulla, per pigliarsi giuocodei nostri dolori, ed alla quale noi non potremmo rendereche una maledizione impotente: che fu la perpetuae bestemmiatrice malinconia dello sventurato Recanatese.Lo so che, con ricorso degno dei ricorrenti,si ricorre alle bestie; ma queste non hanno coscienzadel loro stato; e l’avessero pure, si sentirebbero appagatedall’avere servito all’uomo, che finalmente èil solo loro fine: di che, alla loro maniera, si potrebberoriputare felici. Ma ciò dell’uomo stesso non puòsupporsi, il cui fine deve evidentemente essere qualchecosa migliore di lui; e nel mondo sensibile nulla è, chesia migliore di lui. E ciò è vero perfino dei più miseried abbietti di condizione, nei quali, trovandosi sempreun’anima ragionevole, è inconcepibile, che cosìeccelsa natura, assetata di felicità e di durata, nonabbia avuto altro scopo, che di purgar panni, esempligrazia, di rattoppare calzari, di spazzare camini odi girare ruote, come molto meglio avrebbe potuto farsida un giumento o dal vapore; sicché fatto questo, peralquanti anni, tutto per lei sia finito con questo. Chepensare poi di certe umane creature, che, monche odifettose, neppur questo possono fare, e si consumanotra dolori ignoti ed inesplorati, separate dal mondo, nella solitudine di qualche casolare, o nel fondo deglispedali? Saranno dunque queste state tratte dal nullaniente altro, che per patire? Così è! e fatevene ben persuasi: se non si ricorre alla natura invida e malefica, che ha fatto l’uomo per sbeffeggiarlo delle sue illusioni e dei suoi dolori, dovete concedere, che la morte, fin che si rimane tra i puri termini della natura, rende inesplicabile la stessa vita. E pure il problema è appena cominciato: il forte dimora al di là. Deh! chi può persuadersi, torno a dire, che per l’uomo tutto finisca coll’estremo fiato, strappatogli dal dissolvimento già cominciato del suo organismo? I sofisti medesimi, che lo dicono, non ci credono; ed un’anima immortale non si persuaderà in eterno, per lei non vi essere altro rifugio, che il nulla: la più tremenda catastrofe, che possa incogliere a qualsivoglia cosa che esiste! Sì! La credenza universale di tutti i popoli ed in tutti i tempi; il desiderio innato ed indomabile di una felicità, della quale è indubitato, che di qua non può aversi l’adempimento; il nobile sentimento della giustizia, che tutti vorremmo vedere compiuta, e la quale nel mondo appena è altro, che oppressione dei deboli e prepotenza dei forti ; la nostra intellezione che, remotissima da ogni materia, ci rivela un principio, come nell’operare, così nell’essere indipendente da quella, e quindi franca d’ogni possibile corrompimento; questi, Signori riveriti, sono tali saldissimi fondamenti per la natia immortalità dell’anima umana. che indarno vi diedero di cozzo i materialisti famosi di sessanta secoli; e pensate se vi abbiano a poter far buona prova quattro nebulosità teutoniche solea il gran Tutto panteistico, nel quale lo spirito umano dovrebbe andare a perdere come fumo in aria, o meglio come goccia in Oceano! Ma allora ecco giganteggiarci innanzi un’altra volta il formidabile problema: E come starà, in che attuerà là sua pura operosità intellettiva questo spirito, solitario e nudo nella immensità dello spazio? Potrà conversare coi suoi pari? e con chi e come dovremo pensare che conversi ? Sarà all’oscuro delle cose e delle persone che abbandonò, come queste sono di lui? Ma, più d’ogni altro, c’incalza quella domanda: sarà felice o misero questo spirito nel nuovo stato, e da chi ed a quai titoli gli sarà attribuita l’una o l’altra delle due così diverse condizioni? Io sfido qualunque uomo, che sia in senno, ad avere il coraggio di passare per sopra a questi problemi. Chi lo avesse darebbe manifesto indizio di non essere in senno, come non è la persona, che si professasse indifferente al suo bene ed al suo male. Quella è cosa di tanto momento, che a S. Agostino pareva rilevare ben poco di qual morte s’abbia a finire la vita; e rilevare supremamente di qual vita s’abbia a cominciare a vivere dopo la morte: Non multum curandum est eis, qui necessario morituri sunt, quid accidat, ut  moriantur; sed moriendo quo ire cogantur (De civ. Dei lib. 1, c. 2.). E, comelo stesso santo Dottore, parlando della madre dei settefratelli martiri, ebbe a dire: Non intuebatur quamvitamfinirent, sed quam inchoarent (Ser. 110. De Diversis).

3. E non vi sfugga, di grazia, quell’intuebatur, che importa un ragguardare fermo e sicuro, un intuire per intuito di fede quella vita appunto, che comincia dopo la morte. Perciocché veramente noi Cristiani di quel gran problema abbiamo in pugno sicurissima la soluzione; a tutte quelle domande abbiamo le risposte certe altrettanto che piene; e quasi mi venne detto, che delle cose del mondo di là sappiamo meglio, che quelle del mondo di qua; e certamente le sappiamo con maggiore certezza, e senza pericolo di errore: il che non avviene delle cognizioni forniteci dal senso, dalla ragione o dall’autorità umana. Anzi ciò che conosciamo della vita avvenire, ci vale un tesoro a governare il corso della presente, a vincerne le difficoltà e a districarne anche un poco i garbugli, i quali senza quella sarebbero affatto inestricabili. Per noi dunque (e parlo delle anime sinceramente cristiane), la morte è il sabato aspettatissimo del mercenario, che riceve la giusta retribuzione della settimana più o meno lunga del suo lavoro: Sicut mercenarii dies eius (Iob. XIV, 6); è il termine del faticoso pellegrinaggio e l’arrivo alla patria sospirata; è la corona, che il giusto giudice ci darà per le sostenute lotte terrene: Corona iustitiæ, quam reddet milii Bominus iustus index (II. Tim. IV, 8). E però S. Paolo, parlando in persona di tutti i giusti, diceva animosamente: « Se la casa terrena (vuol dire il corpo, e nel greco è σκήνη (= skene) che significa tenda, come di pellegrini) se la casa terrena di questa nostra abitazione si deve risolvere per morte, noi sappiamo esserci apparecchiato da Dio colassù nel cielo un edifizio, una casa cioè non fatta a mano ed eterna: Scimus quoniam si terrestris domus nostra huius habitationis dissolvatur, quod ædificationem ex Deo habemus, domimi non manufactam, æternam in cœlis (II. Cor. V, l). Vero è che, fitti in questo corpo, gemiamo per naturale ripugnanza  a dovercene separare: Qui sumus in hoc tabernaculo, ingemiscimus, e, piuttosto che spogliarcene, ci piacerebbe di essere conesso il corpo sopravvestiti della gloria: eo quod nolumus expoliari, sed supervestiri (II. Cor. V, 4).» Ma certi, siccome siamo, che lo stesso corpo ci verrà a raggiungere in quella verace patria, la morte, anche per tutto l’uomo, non è finalmente altro, che un sonno. Anzi, come notò il Crisostomo, tanto più leggera del sonno è la morte, quanto che nel sonno le migliori facoltà dell’anima sono impedite; laddove nella morte l’anima colla più nobile parte di sé rimane sciolta, attuosa e liberissima, e solo delle facoltà inferiori le viene temporaneamente impedito l’esercizio. Di qui quel tanto significativo e consolante linguaggio cristiano, secondo il quale la morte è dormizione, i trapassati sono dormienti, ed i sepolcri non sono, che cimiteri, val quanto dire, come suona quella greca voce, dormitori. E questo, che tanto vale ad attenuarci l’apprensione della nostra morte, chi non vede quanto deve eziandio contribuire a disacerbarci il dolore per la perdita dei nostri cari, o parenti od amici, ogni qual volta possiamo avere fiducia, che siano state raccolte le loro anime sotto le grandi ali del perdono di Dio? Certo l’addolorarvi in questi casi è affetto naturale e legittimissimo; e S. Paolo non vi ammonisce già a non contristarvene; ma severamente a non contristarvene, come quei disgraziati, ai quali è mutola ogni speranza, e per quali la tomba ai fiori ed alle lagrime, che vi si spargono, non ha altra risposta, che il dubbio straziante od il nulla: Ut non contristemini sicut et cæteri, qui spem non habent (I . Thessal. IV, 13). Per contrario quella speranza cristiana ardisco dire, che può, come notò S. Agostino, condire di gaudio quel dolore. Contristamur nos in nostrorum mortibus necessitate amittendi, sed cum spe recipiendi; inde contristamur, hinc consolamur; inde infirmitas affìcit, hinc fides refìcit: inde dolet humana conditio, hinc sanat divina promissio (Serm. 32. De, Verb. Ap.). Che se sia parola non dei giusti, ma di quei miseri, i quali dopo una vita empia ed iniqua, o nessuna o quasi nessuna speranza lasciarono di salute; non vi pare, che per questi la morte sia un degno saggio della divina giustizia, che di là gli attende, e di qua un ristoramento dovuto alla pubblica indignazione, ed al pubblico scandalo, quando colle loro malvagità ebbero meritata quella, e destato questo? Oh! Gl’insensati! pigmei ridicoli si credettero, come i giganti della favola, rompere guerra a Giove; ma il Dio dei Cristiani è qualche cosa di più, che il Giove favoloso dei poeti. Egli, per santificazione dei suoi eletti, lasciò loro, per breve ora, lunga sul collo la briglia; e quella, che essi credettero fortuna, fu tremendo loro castigo. Accecati dall’orgoglio, invescati dalla lascivia, trascinati da cupidità insaziate, e, per estremo lor danno, ubriachi del riuscimento, trafficarono sulla fame dei poveri, insidiarono alla innocenza di caste colombe, mentirono, spergiurarono, tradirono per arrampicarsi ad un seggio potente; chi sa? assassinarono popoli e dinastie, spogliarono la Chiesa, e congiurarono adversus Deum et sanctum puerum eius Iesum (Act. IV, 27). Ne esultarono procacemente i malvagi, che n’ebbero spalla e conforto a misfare; ne piansero, se ne angosciarono i buoni, ai quali tardava talora di vederne il fine. Ma aspettate! Dio è paziente, perché Dio è eterno. Compiuto quel novero di delitti, la cui permissione entrava nel disegno della sua Provvidenza, ecco che Egli ne coglie al varco, quando meno sel pensano, gli autori nefandi; ne interrompe coi giorni iniqui i più iniqui consigli, e ve li fiacca, ve li getta a terra, oggimai diventati massa inerte d’imputridite carogne. Allora gli ultimi dei mortali potranno intuonar loro la fiera canzone, che si legge in Isaia: « E tu dunque ancora fosti sfolgorato siccome saremo noi; ed in questo almeno non fosti dissomigliante da quegl’infimi, che conculcasti! Et tu vulneratus es sicut et nos, nostri similis effectus es. La pretesa tua gloria fu trascinata ad oscurarsi nei luoghi bui: Detracta est ad inferos gloria tua; e, caduto il sozzo tuo carcame nell’abbandono della tomba, avrà per letto la tignuola, e per coltrice sepolcrale i vermi: Concidit cadavcr tuum: sub te sternetur tinea, et operimentum tuum erunt vermes (Isa. XIV, 10, 11).»Sicché vedete, Signori miei, che per noi Cristiani,non che sciogliersi il problema della morte, essa neppureè problema. Anzi, se ho a dirvi tutto intero ilmio pensiero, aggiungerò che, sia per rispetto ai buoni,sia per rispetto ai tristi, la morte è quella, che solamenteacchiude la spiegazione della vita; e questa daquella acquista scopo, dignità, valore di cosa che s’infuturanella perpetuità dei suoi effetti, e riceve confortodi giustizia sperata. Che se, nell’ordine fisico, i naturalistentano a determinare, onde mai si derivi nell’uomol’indeclinabile necessità della morte, nel moraleessa medesima diviene una verissima necessità;tanto che, senza la morte, non si potrebbe più nullaintendere della vita. Di qui si fa manifesta quella bellaparola di S. Agostino là, dove disse, che i giusti fanno lorprò della morte che è un male, come i malvagi fannolor danno della legge che è un bene; essendo proprio deiprimi il far medicina del veleno, e dei secondi il volgerein veleno la medicina: Mali male lege utuntur, quamvis lex sit bonum; et boni bene moriuntur, quamvis mors sit malum (De Civ. Dei Ub. 13, cap. 5.).

4. Ma è oggimai tempo di esaminare quale soluzione si dia al problema, o piuttosto ai problemi, che si affollano intorno al cataletto, dagli scredenti, che si professano avversi o certo estranei a quelle idee cristiane, le quali io, sotto molta brevità, testé vi ho esposte. Ora che volete che io vi dica? per cercarne che io abbia fatto con diligenza nei moderni filosofi, non ho trovato nulla, affatto nulla, che valesse la pena di essere preso ad esame. Essi non toccano questo punto, lo schivano a vero studio; e, condottivi alcuna volta dalla necessità del discorso, o lo saltano a piè pari. o se ne sbrigano con qualche frase vaga e insignificante sopra i destini avvenire dell’umanità, ovveramente intorno all’immedesimarsi, che farà lo spirito nell’unica sustanza del gran Tutto. Ma deh! che fa egli cotesto, quanto a satisfare a quel fremito d’indignazione, che tutti sentiamo nel fondo della coscienza, al ripensare, che, parificata ogni cosa per una medesima morte, il più ed il meglio della virtù debba rimanere, non che irremunerato, ma sconosciuto: e debba restare impunito ed inulto il peggio che ebbe il vizio, quando o riuscì ad inorpellarsi per ipocrisia, o poté più procacemente imbaldanzire, perché fortunato? Che fanno quelle frasi vaghe, insignificanti a risolvere almeno quel dubbio: Come mai la natura ci avrebbe inserita nell’animo la brama focosa di una felicità, della quale la morte, in mal punto, ci rivelerebbe essere cosa affatto impossibile a conseguirsi? Come non sarebbe ciò un’illusione? un ludibrio? quasi mi venne detto un tradimento? Gli antichi si accostarono a queste gravi disquisizioni con più coraggio, che non fanno i moderni; e quantunque, nel leggere i Dialoghi di Platone, notantemente il Timeo, le Tuscolane, o i de Finibus di Tullio, non si raccolga gran cosa, e per certi capi le perplessità crescano e si rinserrino; nondimeno è sempre decoroso, per filosofi di professione, non lasciare inesplorato questo campo, che dovrebb’essere l’ultimo termine di ogni sana filosofia. Anche Porfirio, come ricorda S. Agostino, si pose in traccia di una via universale da salvare le anime cercando viam communem salvandarum animarum (De Civ. Dei lib. 10, cap. 32); quantunque 1′ odio, che quel sofista avea giurato al Cristianesmo. non gli consentendo di cercarla in questo, dovette confessare, che né presso gl’Indi, né presso gli Egiziani, né presso i Caldei, né in verun’altra filosofia ne avea trovato alcun seniore. Ma, come dissi, i filosofi moderni non ne trattano, non se ne brigano, pare che neppure conoscano la esistenza e la possibilità di quei problemi; tanto che si direbbe, che il rimorso di una colpevole apostasia gì’impedisca dal pur tentare una materia, dalla quale temono di vedere disfavillare ai loro occhi una luce, la quale essi detestano, e per giusta punizione, forse non vedranno giammai. – Lasciando dunque stare i filosofi, ci dovremmo rivolgere, per pigliar lingua, alla gente del mondo anche colta e saputa. Ma questa, per un altro motivo, né sa, né vuol sapere di siffatte malinconie; ne schiva il pensiero, ne rifugge l’aspetto e, vivendo alla carlona, affogata nelle cure e nelle agitazioni secolaresche, quando a passi di gigante viene loro addosso la morte, più per altrui, che per proprio consiglio, non si oppongono talora, che entri a loro un prete, ad amministrare le così dette consolazioni religiose più ad un mezzo cadavere, che a un moribondo. E tutto è detto, e tutto è finito! Sicché, miei cari, dal mondo e dai suoi seguaci non ci è da spillar qualche cosa che valga intorno a questo gran problema della morie, per contrapporlo a ciò, che ne pensiamo e ne diciamo noi Cristiani. Tuttavolta se nei libri vi è poco o nulla, e nei discorsi secolareschi vi è anche meno quanto ad un tale soggetto; pure nella consuetudine della vita occorrono delle circostanze, nelle quali filosofi e mondani sono quasi obbligati a significare ciò che pensino di quel medesimo soggetto, sopra qualunque altro rilevantissimo. Ed il primo caso è, quando, per affezioni di amicizia e di parentela, ovvero per ragioni di convenienza, si trovano a dovere confortare al duro passo qualcuno che sia presso a morire, od a consolare il dolore di alcun altro, a cui morte abbia di fresco rapito un qualche capo carissimo: supponete un padre, una madre, un figliuolo, un marito, una sposa. Se non fosse che il caso è cotanto mesto, ci sarebbe davvero a ridere nell’udire quella mezza dozzina di voci scucite e incoerenti, che sono tutto il capitale confortatorio, di cui il mondo può valersi messo in cotali strette! Ma se non si può ridere, deh! a cui non farebbe compassione quel sentire uomini, talora gravi ed istruiti, balbettare: falò, necessità della natura, caducità umana; e per somma grazia: costanza nella sventura, ed Ente supremo? Ciò poi è sì miserabile e sguaiato, che in questi casi anche i men Cristiani parlano, o certo vogliono sentir parlare cristianamente; ed è lepido vederli tutto in opera, affine di cacciare morti nel paradiso dei Cristiani certi cotali, che, vivendo, non si curarono neppure di sapere se ci fosse o no un paradiso. Meno goffamente sterili si mostrano gli scredenti, quando si tratta di ornare con pubbliche laudi la memoria di alcun loro trapassato; massime se uomo di qualche levatura. Ma anche qui se non ci dite che queste laudi possono in un qualsiasi modo essere sapute dai laudati e rallegrarneli; se ci dite anzi che di loro non resta nulla, non si vede per qual motivo essi abbiano dovuto tanto affaticarsi per un guiderdone, del quale, non che godimento, non possono avere neppure contezza. Lo so che questa della gloria superstite è forse la più splendida delle umane illusioni; e certo, quando la sia governata accortamente, è la più profittevole al mondo, siccome quella, dalla quale la fatuità dell’uomo mondano è lautamente alimentata è potentemente sostenuta ad imprese ardue, ed a quella segnatamente, che tra tutte è arditissima, di farsi uccidere senza spesso saperne neppure il perché. Ma, se uscite dal giro delle idee cristiane, le quali sole sanno il modo, onde possono pei suoi servi in seno a Dio rinverdire gli allori caduchi della terra, tutte le cicalate necrologiche, più che laude dei trapassati, sono mezzi a gonfiare, la vanità ed a rinfocolare le passioni dei presenti. Ai quali, a’ dì nostri, si sono aggiunti sproni ai fianchi, col potere aspirare, a furia di abbiette iniquità, ad uno di quei monumenti, onde si sta lordando questa povera Italia; il cui vitupero ai suoi rigeneratori non pare compiuto, se non lo tramandano ai posteri col linguaggio dell’arte, e colla saldezza dei bronzi e dei marmi: speriamo che i posteri, per nostro onore, si vorranno pigliare il fastidio di spazzamela. Ma checché sia di ciò, dalle cose discorse mi pare dimostrato ad evidenza, solo il Cristianesimo spiegare il problema della morte, e da questo anzi pigliare lume a rischiarare e governare la vita. Quanto alla incredulità, essa, sia che ne discorra nei libri, sia che ne parli in piana terra, o dall’alto, è stata convinta di non capirne un iota; e le tenebre, dalle quali per lei rimane avvolto tutto ciò che è al di là della tomba, debbono lasciare non meno intenebrato tutto ciò, che di qua si trova. Il perché chi per sua sventura da noi passasse a quella, farebbe il baratto del Cristianesimo, non con un sistema, ma col nulla. Ora, trattandosi dei nostri destini avvenire, dai quali solamente si può pigliare norma sicura a regolare il presente, il nulla è troppo poco; e noi, almeno fino a tanto che l’incredulità non abbia trovato il modo di non farci morire, seguiteremo a pensare cristianamente della morte; e con ciò solo ci troveremo molto acconciamente disposti a riordinare la vita.

5. Si dice nei Salmi, che Iddio si ricorda che noi siamo polvere: Recordatus est quoniam pulvissiimus (Psal. CII, 14), per farci intendere, che questa memoria lo fa inchinevole a commiserazione delle nostre debolezze. Ma indarno lo ricorderebbe Iddio, se lo dimenticassimo noi; stante che la divina pietà esige la nostra corrispondenza ai suoi inviti, e la nostra cooperazione alla sua grazia. E però la S. Chiesa ci ricorda appunto quella nostra indeclinabile caducità, col severo Memento homo quia pulvis es, et in pulverem reverteris, sicura, siccome è, che una siffatta rimembranza è pei Cristiani invito efficacissimo ai gravi pensieri della vita avvenire. Di qui voi vi conformerete alla intenzione dell’amorosa madre, se penserete alla morte, se ne penserete cristianamente: il che importa, come io vi diceva pocanzi, valersi di quel pensiero per rischiararne e regolarne la vita. Ora a ciò fare non vi ha tempo nell’anno più appropriato della santa già cominciata Quaresima. Il sacro digiuno; riverenza alla stess’ora e rammemorazione dei quaranta dì digiunati nel deserto dal Redentore; l’apparecchio alla nostra grande solennità della Pasqua, ed ai giorni mesti della Passione, che le vanno innanzi; il disporvi, che tutti dovete fare al santo precetto pasquale; la divina parola, che scenderà sopra di voi così copiosa, quasi rugiada celeste, a rinfrescare le vostre arsure e a confortare, a consolare le vostre coscienze; chi sa? a scuotere e spoltrire qualche cuore assonnato e anneghittito; la Chiesa medesima col silenzio dei suoi organi, colla grave mestizia dei suoi riti e colla tanto espressiva austerità dei suoi cantici; tutto c’invita e soavemente ci sforza ad entrare in questo sacro tempo-quaresimale con sincera compunzione di cuore, e con ferma risoluzione di ordinare a salute la nostra vita. Deh! miei amatissimi! il tempo è breve, la morte a ciascun di noi si avvicina a gran passi; e come a molti, che qui erano presenti la passata Quaresima, quella fu l’ultima, così sarà questa per molti che sono ora presenti. E potendo ciò avvenire per tutti, non vi pare, che la prudenza dovrebbe persuaderci a giovarcene per l’anima nostra, come se davvero questa dovesse essere l’ultima per ciascuno? Da un’altra parte l’avvenire è chiuso ai nostri occhi; ma non è tanto, che non si vegga torbida l’atmosfera e gravida di tempesta. Or quando pubbliche e private calamità vi dovessero incogliere, non sarebbe bene giovarsi di questo tempo accettevole, di questi giorni di salute, per rinsaldarsi in quella fede ed in quel santo divino timore, che chi sa come e quanto dovrà esservi insidiato! Ed il quale pure potrà essere balsamo alle vostre piaghe e conforto dolcissimo della vostra speranza? E perciocché parte l’indulgenza della Chiesa, parte le sanità debilitate, parte (e perché non dirlo?) la carità rattiepidita han fatto sì, che il digiuno quaresimale siasi ridotto a molto poca cosa, voi fate di supplire a quello, procurando alle anime vostre più largo e più assiduo il nutrimento della divina parola. S. Paolo, fino, dai suoi tempi, esortava a non deserere collectionem, cioè queste sacre riunioni, nelle quali lo Spirito Santo ci parla al cuore; e si lamentava della consuetudine prevaluta in alcuni di allontanarsene: Sicut consuetudinis est quibusdam (Hebr. X, 25). Oh! no! di voi nonsia così. Ponete anzi Ordine alle vostre faccende o domestiche,o esteriori di affari, pubblici e privati permodo, che vi resti il tempo di ascoltare la predica oqui o altrove, o a quest’ora o ad un’altra; ma nonfate mancare questo pascolo di salute alle anime vostre.Già vi dissi, che domani vi esporrò il modo, onde iointendo amministrando; ed ascoltando il soggetto, cheho divisato di trattarvi, vi accorgerete che questa mattinavi abbiamo posto un buon fondamento col solo èssercirinfrescato nella mente il concetto, che, secondola nostra fede, dobbiamo avere della morte. Ma comeio alla fatica di annunziarvi la divina parola aggiungeròle povere mie preghiere, perché essa vi torni fruttuosa;così voi pregate, che dall’alto mi venga quellastessa parola, per ischiudere le labbra con apostolicalibertà: ut detur mihi sermo in aperitione oris mei cum fiducia; sicché io vi possa far noto, il mistero dell’Evangelio, osando parlare come si addice al mio ministero, ed al vostra bisogno: Notum fàcere mysterium Evangelii … ita ut in ipso audeam prout oportet, me loqui (Ephes. VI, 19).

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (8)

I Quattro Angeli presso l’Eufrate. (Ap. IX, 13-16)

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (8)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770]

LIBRO TERZO

[4] E ho visto nella mano destra di colui che siede sul trono un libro scritto dentro e fuori, sigillato con sette sigilli. Il libro che qui si indica, scritto dentro e fuori, è ogni creatura del mondo, di cui Dio contempla l’interno e di cui conosce l’esterno; oppure supera il mondo esteriore, limitato per il potere della sua potenza, o lo scruta interiormente con la chiaroveggenza della sua Maestà. Si dice [questo libro] che sia sigillato con sette sigilli, per mostrare la composizione della settimana presente che è la lunghezza del mondo. O ancora che il libro scritto comprende i due Testamenti, il Vecchio ed il Nuovo. E ciò che dice dentro e fuori, vuol dire: fuori è ciò che si vede nella lettura, cioè la Legge prima della sua venuta; e dentro, tutto ciò che non è compreso, perché nella Legge è nascosto il Vangelo; come dice Ezechiele: « come se una ruota fosse in mezzo all’altra » (Ez. X, 10), cioè il Vangelo è rimasto dentro la Legge, ma occultato, come dice pure il salmista: « Davanti al suo fulgore si dissipavano le nubi con grandine e carboni ardenti. » (Psal. XVII, 12), perché il messaggio nei Profeti è oscuro. Ma con la voce di Salomone che lo testimonia, diciamo: « È gloria dei re nascondere una parola, è gloria di Dio scoprirne il significato » (Prov. XXV, 2). Infatti è un onore per tutti loro – cioè per i re – nascondere i loro segreti, ed è gloria di Dio annunciare e chiarire i misteri della sua parola. « Ciò che vi dico nel buio, ditelo nella luce (Mt. X, 27) », cioè rendete chiaro ciò che sentite nel buio delle allegorie. L’oscurità stessa del messaggio di Dio è di grande utilità, perché esercita l’intelligenza, in modo che si ampli per lo sforzo e, aguzzata che sia, capti ciò che l’ozioso non può captare. Ha anche un beneficio maggiore, in quanto l’intelligenza della Sacra Scrittura, che sarebbe degradata se fosse chiara a tutti, in alcuni oscuri passaggi alimenta lo spirito, così che ne trovi il significato con una dolcezza tanto maggiore quanto maggiore è la fatica dell’opera dello spirito che l’ha cercata. Guardate cosa dice ora la voce di Ezechiele: « Io guardavo quegli esseri ed ecco sul terreno una ruota al loro fianco » (Ez. I,15). Che cos’è la ruota se non il segno della Sacra Scrittura che da ogni punto si rivolge all’anima degli ascoltatori e non si discosta per nessun principio di errore dal percorso della sua predicazione? Essa si tiene dritta sotto tutti i punti di vista, perché cammina rettamente ed umilmente sia tra le cose avverse che tra le prospere. Il cerchio dei suoi precetti si trova sia al di sopra che al di sotto: infatti le cose che si dicono in senso spirituale per i più perfetti, i più deboli le comprendono in senso letterale, e i dotti attraverso l’intelligenza spirituale vanno nel più profondo. Chi infatti tra i piccoli, nei fatti di Esaù e Giacobbe, di cui l’uno è mandato a cacciare, mentre l’altro, con l’inganno della madre, è benedetto dal padre, non si pasce della storia del testo sacro? Infatti in questa storia, esaminata con sottigliezza, si vede che Giacobbe carpì la benedizione al primogenito, ma la ricevette come a sé dovuta, poiché ottenuta dal padre come mercede del suo ingegno. Ma se qualcuno, riflettendo più profondamente, vuole scoprire le azioni attraverso i segreti dell’allegoria, immediatamente dalla storia risale al mistero. Cosa significa che Isacco vuole mangiare la cacciagione del figlio maggiore, se non che Dio onnipotente volesse dal popolo giudeo una buona opera? Ma poiché esso indugiava, Rebecca mise al suo posto il più giovane: cioè mentre il popolo giudeo cercava le buone opere, la Madre della grazia introdusse al suo posto il popolo gentile, che ha presentato al Padre onnipotente il cibo delle buone opere ricevendone la benedizione in luogo del fratello maggiore. Egli presentò le prelibatezze proprie degli animali domestici, ed il popolo gentile che non cercava di compiacere Dio con sacrifici esteriori, come dice la voce del profeta: « su di me, o Dio, i voti che ti ho fatto: ti renderò azioni di grazie » (Psal. LV, 13). Che cosa significa che Giacobbe si coprì le mani, le braccia ed il collo con le pelli di un capretto, se non che aveva l’intenzione di offrire un capretto per il peccato, come il popolo dei Gentili che annichilò in sé i peccati della carne, non vergognandosi di confessare di essere stato coinvolto nei peccati della carne? Che cosa significa vestirsi con gli abiti del fratello maggiore, se non il rivestirsi della buona condotta del fratello maggiore con i comandi della Sacra Scrittura che erano stati dati al popolo maggiore; e che il più giovane utilizza in casa i precetti che il più grande, uscendo, lascia dietro di sé? Infatti il popolo dei Gentili possiede nell’anima quei precetti che il popolo giudeo non poté ritenere, poiché vi prestò attenzione solo in senso letterale. E cosa significa ancora che Isacco non riconosce l’identità del figlio a cui dà la sua benedizione, se non ciò che il Signore ha detto attraverso il salmista del popolo gentile: « il popolo che non conoscevo mi servì; son tutto orecchie, mi obbediscono »? (Psal. XVII, 45). Che cosa significa che Isacco non riconosce colui che gli sta davanti mentre prevede quel che accadrà in futuro, se non che Dio Onnipotente, attraverso i suoi Profeti annunciava alla gentilità la grazia che avrebbe concesso, e non riconosceva con la grazia – al presente – coloro che erano già nell’errore, e senza dubbio prevedeva di acquisire questa [la gentilità] con la grazia della benedizione? Perciò si dice nella benedizione a Giacobbe, che questi assume la figura del popolo gentile: « Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto » (Gen. XXVII, 27). Così dice anche la Verità nel Vangelo: « il campo è questo mondo » (Mt. XIII, 38). Ecco allora che il popolo gentile, condotto alla fede, diffonde le virtù in tutto il mondo attraverso i suoi eletti; il profumo del figlio è il profumo di un campo da loro ripieno. Infatti altro è l’odore  della vigna, e tanto grande è il potere e la conoscenza dei predicatori, da inebriare gli spiriti degli uditori. L’olivo profuma in un altro modo, perché soave è l’opera della misericordia, che come l’olio riscalda e dà luce; in altro modo profuma il fior della rosa, perché mirabile è la fragranza che si espande e profuma con l’aroma dei martiri. Altro ancora è il fiore del giglio, perché bianca è la carne della verginità incorrotta. Altro profumo è quello del fior della violetta, perché grande è la virtù degli umili, che occupano gli ultimi posti per loro volontà, ed anche se non si elevano in alto per la loro umiltà, conservano nell’anima la purezza della regione celeste. Altrimenti profuma la spiga, quando giunge la sua stagione, perché la perfezione delle buone opere si prepara a fare compagnia a chi ha fame di giustizia. Così dunque il popolo dei Gentili è nei suoi eletti, diffusi in tutto il mondo, ed è dalle loro virtù, che l’Onnipotente agisce con tutti coloro che ricevono il profumo della buona dottrina, per cui è detto a ragione: « Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto. »Ma poiché non c’è virtù per meriti propri, si aggiunge: … a colui al quale il Signore ha dato la sua benedizione. E poiché il popolo stesso degli eletti è elevato per mezzo di alcuni alla contemplazione, e per mezzo di altri è arricchito dalle opere della vita attiva, ancora si aggiunge a ragione: che Dio vi dia la vette del cielo ed il grasso della terra.  La rugiada cade dall’alto dolcemente, ed ogni volta che riceviamo la rugiada dal cielo, vediamo qualcosa di celeste nell’effusione della contemplazione intima: quando noi facciamo delle opere buone mediante il corpo, è allora che siamo arricchiti dal grasso della terra. Che cosa significa che Esaù sia poi tornato da suo padre, se non che il popolo giudeo tornerà a compiacere Dio? Per questo nella benedizione si dice anche: « … ma poi, quando ti riscuoterai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo », verrà cioè il momento in cui spezzerai il giogo del tuo collo (Gen. XXVII, 40), perché infatti alla fine il popolo giudeo sarà libero dalla schiavitù del diavolo e dal peccato. Come sta scritto: « … fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato » (Rm. XI, 25). – Qual figliolo non si nutre del medesimo racconto evangelico del miracolo compiuto quando il Signore ordinò che le giare vuote fossero riempite d’acqua e subito trasformò quest’acqua in vino? Ma se gli evangelizzatori più attenti lo ascoltano con acutezza e, credendo, venerano la storia sacra, esaminano ciò che esso indica interiormente. Colui che era in grado di cambiare l’acqua in vino, era anche in grado di riempire subito i vasi vuoti con il vino. Ma invece ordina di riempirli d’acqua, perché il nostro cuore doveva essere riempito dalla storia di questa sacra lezione; l’acqua si trasforma in vino dentro di noi quando la storia medesima, per il mistero dell’allegoria, si muta in noi in intelligenza spirituale. – La ruota nel mezzo aderisce alla terra perché si adatta al piccolo con il suo umile sermone; mentre, versando beni spirituali sui grandi, si eleva verso l’alto come in un cerchio che si rialza là dove poco prima sembrava toccar terra. E poiché serve da esempio ovunque, la ruota corre quasi come in cerchio; per questo è stato scritto nel libro della Legge: « Farai anche un candelabro d’oro puro. Il candelabro sarà lavorato a martello, il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici, i suoi bulbi e le sue corolle saranno tutti di un pezzo. » (Es. XXV, 31). Qual è il segno del candeliere se non Colui che è designato come Redentore del genere umano? Egli infonde la luce della divinità nella natura umana, per essere il candelabro del mondo, perché nella sua luce ogni peccatore possa vedere le tenebre in cui è immerso; e poiché ha assunto la nostra natura senza macchia, il candelabro del tabernacolo è fatto con l’oro più puro. Esso si rende duttile nei colpi, perché il nostro Redentore, che con il suo concepimento e la sua nascita è rimasto perfetto Dio ed Uomo, ha sofferto la passione ed il dolore, ed è così giunto alla gloria della risurrezione. Egli era un candeliere duttile d’oro purissimo, perché non aveva peccato, eppure avanzava verso l’immortalità attraverso le sofferenze della passione. Infatti mancava completamente delle virtù dell’anima, con cui avrebbe potuto avanzare giorno per giorno per mezzo della persecuzione; ma nelle sue membra, che siamo noi, avanza di giorno in giorno per mezzo della persecuzione, perché è quando siamo battuti che riusciamo a meritare di essere suoi membri, ed Egli stesso avanza; è stato scritto di questo corpo: « … dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio. » (Col. II, 19). Tutti noi siamo il suo Corpo: attraverso le articolazioni ed i legamenti il corpo è unito, perché quando il torace è unito alla testa, e le braccia al torace, e le mani alle braccia, e le dita alle mani, e le rimanenti membra sono coese con le altre membra, tutto il corpo è ben composto. Così i santi Apostoli, che sono rimasti vicini al nostro Redentore, sono come il torace che è stato unito al capo. I martiri al loro seguito, erano come le braccia unite al torace. E quando i pastori e i dottori si unirono a loro con le loro buone opere, furono come le mani unite alle braccia. Tutto il Corpo del nostro Redentore è giorno per giorno unito e nutrito in cielo per mezzo di articolazioni e legamenti: cosicché quando gli eletti vi vengono portati, unisce a sé i loro membri. Per questo si dice giustamente: riceve nutrimento e coesione per realizzare la sua crescita in Dio: infatti Dio onnipotente, il nostro Redentore, che in sé non ha nulla per cui crescere, attraverso le sue membra riceve ogni giorno un aumento. Così è scritto di nuovo: « finché tutti noi arriviamo a Lui, allo stato di uomo perfetto, alla maturità della pienezza di Cristo » (Ef. IV, 13). Il fusto di quel candelabro deve essere inteso come la Chiesa stessa, che è il suo corpo che rimane integro in mezzo a tante avversità. I bracci che escono dal fusto sono i predicatori, che hanno comunicato al mondo un dolce suono, cioè un cantico nuovo. I calici sono di solito fatti per il vino. Quale altra cosa sono le menti degli ascoltatori, se non i calici che attraverso la predicazione dei Santi vengono riempiti con il vino della saggezza? Cos’altro sono i globi se non la fluidità della predicazione, perché una sfera gira ovunque, e la predicazione che non può essere messa a tacere dalle avversità, né si vanta nella prosperità, è come una sfera: essa è forte nelle avversità, umile nella prosperità e non ha angolo di paura o di vanità. Nel suo corso non può essere arrestata, perché attraversa tutte le cose con fluidità. Continuiamo ancora con quello che abbiamo dato come esempio: sul candeliere sono descritti i gigli, dopo i bracci, i bicchieri e i globi: perché dopo quello che abbiamo chiamato la grazia e la fluidità della predicazione, segue quella fiorente patria che rinverdisce nelle anime sante, cioè con i fiori eterni. I globi si riferiscono al lavoro; i gigli, al premio. Come in Mosè, i globi sono intesi essere la dottrina della predicazione, in modo che attraverso la ruota si riscopra la stessa Sacra Scrittura. Quando il Profeta vide i santi animali, aggiunse: Ho guardato gli animali ed ho visto una ruota al suolo. In questo testo, dobbiamo chiederci, dato che le ruote sono descritte come interne: perché si dice che dapprima sia apparsa una ruota, se non perché al popolo antico è stato concesso solo l’Antico Testamento, tanto da istruire la loro mente col farla girare come una ruota? Si dice giustamente che la stessa ruota è apparsa sulla terra, perché all’uomo peccatore è stato detto: tu sei terra e ritornerai nella terra (Gen. III, 19). Così una ruota è apparsa sulla terra, perché Dio Onnipotente ha dato la legge sopra il cuore dei peccatori. Ma poiché questi animali con le ali, come dicevamo, designano i santi Evangelisti, com’è che appaiono prima come animali e poi come una ruota, se non perché fu dato per prima l’Antico Testamento e poi i santi Evangelisti lo seguirono? In questo possiamo capire che coloro che sono superiori per merito sono stati visti per primi dal Profeta: infatti il santo Vangelo è superiore all’Antico Testamento, in quanto anche i suoi predicatori devono averlo anteposto nella descrizione profetica. C’è però un’altra cosa da considerare in questa descrizione: che lo spirito di profezia riunisce in sé nello stesso tempo l’anteriore ed il posteriore, in modo tale che la lingua del Profeta non possa annunciare contemporaneamente queste cose, ma le cose complesse che vede le annuncia in discorsi separati: e annuncia o il secondo dopo il primo, o il primo dopo il secondo. Per questo anche il Profeta Ezechiele, sotto la figura della santa Chiesa universale, vede la gloria degli Evangelisti a somiglianza di animali, ed aggiunge improvvisamente ciò che è accaduto in tempi passati, per indicarci chiaramente che ha visto nello stesso tempo ciò che la lingua mortale non è in grado di dire nello stesso tempo. E siccome abbiamo già detto che i quattro animali sono figure di uomini perfetti, dobbiamo considerare anche che c’erano alcuni Santi già prima della Legge che vivevano rettamente secondo la legge naturale e si compiacevano del Signore Onnipotente. Dopo gli animali, si descrive la ruota, perché c’erano già molti eletti, perfetti per il Signore onnipotente, prima della Legge. Ma se dobbiamo considerare, come abbiamo detto, gli animali solo come gli Evangelisti, c’è un’altra cosa che dobbiamo prendere in considerazione. Il santo Profeta vide che proprio queste parole, da lui pronunciate nell’oscurità, sarebbero diventate chiare, non al popolo giudeo, ma ai Gentili. Parlandoci ha descritto prima gli animali e poi la ruota, perché quando siamo giunti alla fede, per grazia di Dio, non abbiamo conosciuto il Vangelo per mezzo della Legge, ma la Legge per mezzo del santo Vangelo. Aggiunge ancora dove e come appare la ruota quando dice: « presso gli animali c’erano quattro facce » (Ez. I, 15); e più avanti dice: « l’aspetto delle ruote e la disposizione, come una visione del mare; e avevano tutte e quattro la stessa forma, e il loro aspetto e la loro disposizione era come se una ruota fosse dentro l’altra. » Cosa significa il parlare di una ruota, aggiungendo poco dopo … come ruota dentro una ruota, se non che nell’Antico Testamento era nascosto il Nuovo Testamento per mezzo di un’allegoria? Per questo motivo la ruota che è apparsa con gli animali è descritta con quattro facce: perché la Sacra Scrittura, attraverso entrambi i Testamenti, è divisa in quattro parti: l’Antico Testamento, nella Legge e nei Profeti; e il Nuovo Testamento, nei Vangeli e negli Atti e scritti degli Apostoli. Si sa che là dove volgiamo la faccia, colà vediamo ciò che è necessario. La ruota ha quattro facce perché prima ha visto attraverso la Legge i mali che dovevano essere eliminati dal popolo, poi li ha visto attraverso i Profeti; in modo più fine poi attraverso il Vangelo, ed infine attraverso gli Atti e negli scritti degli Apostoli ha visto ciò che doveva essere eliminato dei peccati degli uomini. Si può anche capire che la ruota abbia quattro facce, perché la Sacra Scrittura, resa nota nelle quattro parti del mondo, si è manifestata attraverso la predicazione. Per questo motivo, viene anche giustamente descritta dapprima la ruota come una sola, apparsa al fianco degli animali; e poi, come se essa avesse quattro facce: infatti se la Legge non è in armonia con il Vangelo, non viene fatta conoscere alle quattro parti del mondo. – E continua: l’aspetto delle ruote e la loro disposizione, come una visione del mare. Dice giustamente che le Sacre Scritture sono simili alla visione del mare, perché in esse ci sono sentenze di gran volume ed una ricchezza di significato. E non è senza ragione che si dica che la Sacra Scrittura sia simile alla visione del mare, perché in essa le affermazioni della parola sono confermate dal Sacramento del Battesimo. Certamente consideriamo che navighiamo sul mare con le navi, quando andiamo nei paesi desiderati. E qual è il nostro desiderio se non di quella terra, della quale è scritto: « sei tu la mia sorte nella terra dei viventi. »? (Psal. CXLI, 6). Come detto, chi attraversa il mare è portato da un legno, e sappiamo che la Sacra Scrittura ci preannuncia nella Legge il legno della croce, quando dice: « Maledetto è chiunque pende dall’albero » (Dt. XXI, 23). Lo testimonia Paolo del nostro Redentore, quando dice: « … Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi » (Gal. III,13). L’albero è annunciato anche dal Profeta quando dice: « il Signore regnerà dall’albero » (Psal. XCV, 10). E in un’altra occasione: « Abbattiamo l’albero nel suo rigoglio » (Ger. XI, 19). Attraverso il Vangelo, ci viene mostrato chiaramente l’albero della croce, con cui dai Profeti viene annunciata la stessa passione del Signore. Questa stessa croce si manifesta nelle parole e nei fatti attraverso gli Apostoli, quando Paolo dice: « Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo. » (Gal. VI, 14). E di nuovo: « quanto a me, Dio non voglia che io mi glori, se non nella croce di nostro Signore Gesù Cristo. » Per noi, che camminiamo verso la nostra patria eterna, la Sacra Scrittura con  le quattro facce rappresenta il mare, che annuncia la croce che ci porta attraverso il legno [dell’albero] alla terra dei viventi. Se il Profeta non avesse visto la Sacra Scrittura come un mare, non avrebbe detto: « perché la saggezza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare » (Is. XI, 9). E continua: è la stessa forma e il loro aspetto, e la disposizione dei quattro, come se una ruota fosse dentro l’altra. La stessa loro forma è di quattro: ciò che predica la Legge, lo predicano anche i Profeti; ciò che i Profeti annunciano, il Vangelo lo rende chiaro; e ciò che il Vangelo manifesta, gli Apostoli lo predicarono al mondo. La forma dei quattro è la stessa, perché le parole divine, sebbene lontane nel tempo, sono tuttavia unite nel loro significato. « … e il loro aspetto e la loro disposizione, come una ruota dentro una ruota, » è il Nuovo Testamento, come detto, dentro l’Antico Testamento, perché ciò che l’Antico Testamento adombrava, il Nuovo Testamento lo rende chiaro. Per fare alcuni esempi tra i tanti: che cosa significa che Eva è stata creata da Adamo mentre dormiva, se non che la Chiesa ha la sua origine nella morte di Cristo? Che cosa significa che Isacco è condotto al sacrificio, raccoglie la legna, è posto sull’altare e vive, se non che il nostro Redentore, condotto alla sua passione, ha portato il legno della croce, ed è morto per noi nel sacrificio della sua umanità in modo tale da rimanere immortale per la sua divinità? – Che cosa significa che « Lì dovrà abitare fino alla morte del sommo sacerdote » (Num. XXXV, 25) ed è tornato nella sua città, se non che il genere umano, che ha peccato, è stato messo a morte? Dopo la morte del vero Sacerdote, cioè del nostro Redentore, si è liberato dalle catene dei suoi peccati ed è tornato in possesso del Paradiso? Che cosa significa quando si ordina che nel Tabernacolo si fa un Propiziatorio, sul quale si collocano due cherubini, l’uno ad un’estremità ed il secondo all’altra, d’oro puro, con le ali spiegate e che coprono il coperchio, uno volto verso l’altro con il volto rivolto verso il Propiziatorio (Es. XXV, 17-19), se non che entrambi i Testamenti concordano tra loro come un mediatore tra Dio e gli uomini? Cosa c’è indicato nel Propiziatorio se non il Redentore del genere umano stesso? Di Lui si dice attraverso Paolo: « … Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue » (Rm. III, 25). Cosa si intende per mezzo dei due Cherubini, che si chiamano la pienezza della scienza, se non i due Testamenti, di cui l’uno si trova ad un’estremità del Propiziatorio, ed il secondo all’altra estremità? Perché ciò che l’Antico Testamento, per mezzo delle profezie, cominciò a promettere circa l’Incarnazione del nostro Redentore, il Nuovo Testamento lo descrive perfettamente realizzato. I due cherubini erano d’oro puro, perché entrambi i Testamenti sono scritti con la semplice e pura verità. Essi spiegano le loro ali e coprono il coperchio, perché noi, che siamo l’oracolo di Dio Onnipotente, siamo coperti dalle colpe che ci minacciano con la protezione della Sacra Scrittura; e quando osserviamo attentamente i suoi insegnamenti, le sue ali ci proteggono dall’errore dell’ignoranza. I due Cherubini stanno in piedi uno di fronte all’altro con il volto rivolto verso il Propiziatorio, perché i due Testamenti non differiscono affatto l’uno dall’altro; e l’uno e l’altro sembrano guardarsi tra di loro, cosicché l’uno promette, l’altro mostra, e quando si vedono entrambi situati tra il Mediatore di Dio e l’uomo, i Cherubini voltando il volto l’uno dall’altro, cosa vuol dire se non che ciò che un Testamento promette, l’altro nega? Ma quando manifestano il loro accordo sul mediatore tra Dio e gli uomini, vengono posti sul Propiziatorio in modo tale che entrambi si guardino l’un l’altro. C’è una ruota dentro una ruota, perché dentro l’Antico Testamento c’è il Nuovo Testamento: e come abbiamo già detto molte volte, ciò che l’Antico Testamento prometteva, il Nuovo Testamento lo ha manifestato; e ciò che il primo annunciava in modo velato, il secondo lo ha proclamato chiaramente. L’Antico Testamento è la profezia del Nuovo Testamento, e il Nuovo Testamento è la spiegazione dell’Antico Testamento. – E continua: « Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltarsi nel muoversi. » (Ez. I, 17). Dove vanno le parole divine se non nel cuore degli uomini? Ma essi avanzano nelle quattro direzioni, perché la Sacra Scrittura si rivolge al cuore degli uomini attraverso la Legge, indicandone il mistero. Avanza attraverso i Profeti che annunciano il Signore in modo un po’ più chiaro. Procede attraverso il Vangelo, mostrando Colui che ha annunciato; continua attraverso gli Apostoli, che predicano Colui che il Padre ha mandato a nostra redenzione. Essi hanno, quindi, volto di ruote e strade, perché le parole divine danno notizia dei precetti con la manifestazione delle opere; ma avanzano nelle quattro direzioni, perché, come detto prima, parlano in tempi diversi: o perché certamente annunciano il Signore incarnato in tutte le regioni del mondo. E si aggiunge subito sulle ruote in modo chiaro: … e non hanno girato quando hanno camminato. Questo è stato detto prima degli animali; ma non si può capire come le ruote siano lo stesso che gli animali. Abbiamo detto che le ruote sono una figura del Testamento: e l’Antico Testamento andava avanti quando, predicandolo, arrivava alle anime degli uomini; ma andava indietro perché non riusciva a conservarsi fino alla fine secondo la lettera nei suoi precetti e nei suoi sacrifici. Infatti non è rimasto invariato perché ne mancava il senso spirituale. Così quando il nostro Redentore è venuto al mondo, ha fatto comprendere in modo spirituale ciò che ha trovato già affermato in modo carnale. Infatti, quando la sua lettera viene interpretata in senso spirituale, tutto quel rivestimento materiale prende vita in Lui. Il Nuovo Testamento, invece, anche nelle pagine dell’Antico Testamento, si chiama Testamento Eterno, perché il suo significato non muta mai. Per questo si dice giustamente che le ruote avanzano camminando, e non girano sul loro cammino: infatti quando il Nuovo Testamento non si annulla, e l’Antico Testamento è già compreso in senso spirituale, esse non girano sulle loro strade, che rimangono immutabili fino alla fine del mondo. Avanzano e non indietreggiano, perché raggiungono il nostro cuore spiritualmente in modo tale che i loro precetti o la loro conoscenza non cambiano più. – E continua: Avevano tutti stabilità nelle ruote, nell’altezza ed un aspetto orribile « La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt’e quattro erano pieni di occhi tutt’intorno. » (Ez. 1: 18). Che cosa significa quando si dice che le parole della Sacra Scrittura contengono questi tre elementi che essa menziona di avere: stabilità, altezza ed un aspetto orribile, cioè terribile? Dobbiamo chiederci con grande attenzione cosa si intenda per stabilità della Scrittura divina, e per altezza, e per aspetto terribile. Dobbiamo sapere che la stabilità corrisponde alla vita di chi opera bene. Perciò Paolo dice: « Chi sta in piedi si guardi bene dal cadere » (1 Cor. X, 12); e dice anche ai suoi discepoli: « rimanete saldi nel Signore, carissimi » (Fil. IV, 1). E il Profeta, che si vedeva con la sua vita e le sue vie davanti al Signore, dice: « Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto »  (3 Re XVII, 1). L’altezza è la promessa del regno eterno, verso il quale si avanza, quando tutta la corruzione della vita morta è già sottomessa. L’aspetto orribile è la paura dell’inferno che tiene nel timore senza fine i reprobi e li mantiene sempre nel terrore. La stabilità, quindi, consiste nella rettitudine nell’adempimento dei precetti; l’altezza, nell’elevazione verso l’eterna promessa; l’aspetto orribile, nelle minacce e nei terrori del successivo supplizio. La Sacra Scrittura ha, quindi, una stabilità perché dirige i costumi nel permanere in piedi, affinché le anime dei suoi uditori non si pieghino nella direzione della concupiscenza terrena; ha un’altezza perché promette le gioie della vita eterna nella patria celeste; ed ha anche un aspetto orribile perché minaccia tutti i reprobi con i supplizi dell’inferno. Essa mostra la sua stabilità nella costruzione della morale; mostra la sua altezza nella promessa delle ricompense; mostra il suo aspetto orribile nei terrori dei castighi. È dritta nei suoi precetti, elevata nelle sue promesse, orribile nelle sue minacce. Ha stabilità quando dice: desistete dal fare il male; « … imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova » (Is. I, 17). E in altra occasione: « … dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne » (Is. LVIII,7). È alta quando è detto dallo stesso Profeta: « Il sole non sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più il chiarore della luna. Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore. » (Is. LX, 19). Ha un aspetto orribile quando dice, descrivendo l’inferno: « Poiché è il giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per l’avversario di Sion. I torrenti di quel paese si cambieranno in pece, la sua polvere in zolfo, la sua terra diventerà pece ardente. Non si spegnerà né di giorno né di notte, » (Is. XXXIV, 8). Il beato Giobbe lo descrive anche dicendo: « … la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre. » (Giob. X, 21). Ha stabilità quando il Signore, attraverso di essa, si mostra benevolo, dicendo che « Sì, come i nuovi cieli e la nuova terra, che io farò, dureranno per sempre davanti a me – oracolo del Signore – così dureranno la vostra discendenza e il vostro nome. » (Is. LXVI, 22). Rimarranno veramente alla Sua presenza. coloro che non sprecano la vita nel male. Ha altezza quando aggiunge subito: « In ogni mese al novilunio, e al sabato di ogni settimana, verrà ognuno a prostrarsi davanti a me, dice il Signore – oracolo del Signore. » (Is. LXVI, 23). Cos’è un mese se non la perfezione dei giorni, e cos’è il Sabbath se non il riposo, dove non è permesso alcun lavoro servile? È di mese in mese, perché chi vive perfettamente quaggiù è portato alla perfezione della gloria. E da sabato a sabato, perché coloro che abbandonano la loro cattiva condotta qui, riposano nell’aldilà in una retribuzione celeste. Ha un aspetto orribile quando aggiunge continuando: « … e quando uscirò, vedrete i cadaveri di coloro che si sono ribellati contro di me; il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà. ».  Cosa si può dire o pensare di più orribile che ricevere la sentenza della condanna e non porre mai fine ai dolori dei castighi? A proposito di questo orribile aspetto delle ruote, è giustamente detto da Sofonia, quando fa notare che il giorno del giudizio sta arrivando per le anime indurite, che: « È vicino il gran giorno del Signore, è vicino e avanza a grandi passi. Una voce: Amaro è il giorno del Signore! anche un prode lo grida. Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e d’allarme sulle fortezze e sulle torri d’angolo. » (Sof. I, 14-16)– Una volta spiegato le caratteristiche della ruota esterna, rimane ora da esporre anche la stabilità, l’altezza e l’aspetto orribile della ruota interna. La ruota interna ha la sua stabilità quando, per mezzo del Santo Vangelo, ci proibisce l’inclinazione verso i desideri terreni, dicendo con le parole del nostro Redentore: « State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; » (Lc. XXI, 34). Ha la sua altezza quando si promette, secondo le parole dello stesso Salvatore che dice: « A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome »  (Gv. I, 12). Cosa si può dire che sia più alto di questo potere? Cosa c’è di più sublime di questa altezza, per cui un essere creato diventi figlio del Creatore? Assume un aspetto orribile quando, parlando del reprobo, dice: « … gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti … e se ne andranno al tormento eterno » (Mt. XXV, 25 e 46). Ha stabilità quando la Verità, dando consiglio ai discepoli, dice loro: « Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. » (Lc. XII, 33). Ha l’altezza della promessa quando dice: « Ora vi dico che molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli »; ha un aspetto orribile quando dice: « … mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti » (Mt. VIII, 12). A questi stessi la voce della verità dice ancora: « Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati » (Gv. VIII, 24). Ha stabilità quando, con le parole del primo Pastore, si dice: « Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità » (2 Pt. I, 5). È alto quando poco dopo dice: « Così infatti vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. » (v. 11). In un’altra occasione fa ancora una promessa ai buoni pastori dicendo: « E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce. » (1 Pt. V, 4). Ha un aspetto orribile quando dice: « Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta. » (2 Piet. III, 10). Essa ha stabilità per mezzo di Paolo, che ci solleva dai desideri terreni, dicendo: « Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria » (Col. III, 5). Ha altezza quando promette, dicendo: « la tua vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la tua vita, apparirà, allora anche tu apparirai nella gloria con Lui » (Col. II, 4). Ha un aspetto orribile quando minaccia dicendo: « … quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli Angeli della sua potenza in fuoco ardente, a far vendetta di quanti non conoscono Dio e non obbediscono al Vangelo del Signore nostro Gesù. Costoro saranno castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza » (2 Tess. I, 7-8). Ha stabilità quando ci mette in guardia, dicendo: « Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. » (1 Tess. V, 15). Ha altezza quando promette, dicendo: «  Se moriamo con Lui, vivremo anche con Lui; se con Lui perseveriamo, con Lui anche regneremo » (2 Tm. II, 1). E in altro luogo: « … le sofferenze di questo mondo non sono paragonabili alla gloria futura. »Sembra orribile quando minaccia col dire: « ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli. » (Eb. X, 27). Lo stesso poi dice: « è tremendo cadere nelle mani del Dio vivente! » Riassume tutto questo pure in una breve frase, dicendo: « … comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità » (Ef. III: 18).  La carità è certamente ampia, perché comprende l’amore dei propri nemici, e per la stessa carità con cui il Creatore ci ama ampiamente, ci sopporta anche con longanimità. Dobbiamo, quindi, manifestare al nostro prossimo ciò che vediamo si manifesta a noi indegni, del nostro Creatore. La larghezza e la lunghezza appartengono alla stabilità, che amplia le abitudini attraverso l’amore, in modo che la carità sostenga i mali del nostro prossimo con la longanimità. L’altezza è la ricompensa dei premi eterni. Della sua immensità si dice: « né l’occhio ha visto né l’orecchio ha udito, né ha raggiunto il cuore dell’uomo ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano » (1 Cor. II, 9). Ha, quindi, un’altezza sublime, perché nessun pensiero è ormai in grado di scrutare le gioie eterne dei Santi. L’inimmaginabile condanna dei supplizi è anche profonda, perché fa sprofondare chi la riceve negli abissi, per i quali la Sacra Scrittura ha un aspetto terribile, perché infonde negli ascoltatori un terrore senza fine, quando annuncia i supplizi dell’inferno. Si dice giustamente, quindi, che le ruote avevano stabilità, altezza, ed un aspetto orribile, perché la Sacra Scrittura in entrambi i Testamenti è retta nei suoi consigli, alta nella sua promessa, e terribile nelle sue minacce. Tutte le altre cose, sia interne che esterne, sono rimaste nascoste perché, occultate, si nascondevano l’un l’altra. Ed entrambe queste cose non avrebbero mai potuto essere conosciute dalla Legge se non fossero state rivelate da Cristo, come dice: sigillate con sette sigilli, cioè chiuse con tutta la pienezza dei misteri. – E vidi un Angelo potente che proclamava a voce alta:Chi è degno di aprire il libro e di scioglierne i sigilli?” (Ap. V, 2). Questo potente Angelo, che si dice proclamare chiedendo chi sia degno di aprire il libro o di scioglierne i sigilli, dobbiamo ritenere che siano tutte le Scritture in coro, o i Santi Padri che, mossi dallo stupore divino, contemplando con gli occhi della fede la disposizione dei tempi presenti, o l’ordine di tutte le cose – cose sigillate per ordine di Dio – comprendono e sostengono che il loro autore sia il Signore della Maestà, e così dicono: chi è degno di comprendere tutto questo e di aprire i segreti del Signore, segreti che Egli ha distribuito nei giorni della settimana di questo mondo con ammirevole fermezza, creati con un ordine, determinati nel suo piano e realizzati con la sua potenza? Tuttavia, Cristo ha aperto chiaramente questo libro, quando, essendosi disposto alla realizzazione del piano del Padre, è nato ed ha sofferto. Guarda … il libro è aperto! Egli apre poi le profezie di entrambi i libri in modo tale da compiere in sé tutto ciò che era stato predetto su di Lui dai Patriarchi e dai Profeti, e così ascende alla croce, realizzando le profezie fino alla fine. Poi continua e mostra gli stessi sette sigilli; cioè ciò che Cristo stesso ha fatto: Egli che ne è il capo, indica che ha dovuto formarne il corpo, che è la Chiesa. E i sette sigilli, che sono aperti da Cristo, cioè che sono stati annunciati in tutto il mondo, sono questi: il primo è la sua Incarnazione, il secondo la sua Nascita, il terzo la sua Passione, il quarto la sua Morte, il quinto la sua Risurrezione, il sesto la sua Gloria, il settimo il suo Regno. Questi sette sigilli la Chiesa li tiene aperti, e questi sigilli sono gli atti della Chiesa dalla sua passione alla venuta del Signore, come aveva promesso, dicendo: Venite, vi mostrerò ciò che deve essere fatto dopo questo (Ap. IV, 1). Ma nessuno è stato in grado di aprire il libro o di leggerlo, né in cielo, né in terra, né sotto terra (Ap. V, 3). Nessuna di tutte le creature del cielo, della terra e degli abissi, cioè né i giusti, né i vivi, né i sepolti, hanno potuto aprire il libro o vederlo, cioè contemplare lo splendore della grazia del Nuovo Testamento, che è il Vangelo, così come i figli di Israele non potevano contemplare il volto velato di Mosè, cioè della Legge dell’Antico Testamento, che contiene al suo interno il Nuovo Testamento. E Io – dice – ho pianto molto, perché nessuno era stato trovato degno di aprire il libro o di vederlo. Per la sua fragilità e la sua umanità il santo ha pianto qui, perché ha previsto che nella Chiesa nessuno fosse stato talmente degno da poter capire chiaramente tutte queste cose, né penetrarle con la riflessione. Ora, però, la Chiesa piange di dolore, e implora addolorata la sua redenzione. Ma uno degli anziani mi disse: “Non piangere, perché il leone della tribù di Davide ha trionfato; Egli aprirà il libro e i suoi sigilli”. In uno degli anziani viene rappresentato l’intero corpo dei Profeti. I Profeti hanno confortato la Chiesa annunciando, attraverso le Scritture, il Cristo della tribù di Giuda, il germoglio di Davide, che avrebbe fatto la volontà di Dio e riscattato la Chiesa. Non è di ostacolo che sia stato mostrato a Giovanni, che è figura di tutta la Chiesa, ciò che era accaduto prima della Passione, dopo la Passione di Cristo. Perché chiunque crede in Cristo vede giustamente il passato già compiuto, e le cose nuove che devono ancora succedere, e che davanti a Dio sono già avvenute; e così si conosceranno dalle Scritture le ultime cose che sono le prime, e le prime che sono le ultime. Tutte queste cose erano nascoste in Cristo, perché non si poteva ottenere la salvezza se non attraverso Cristo, come sta scritto: « … mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di Lui » (Rom. V, 8). – Continua a descrivere come e dove il Leone della tribù di Giuda abbia vinto o vinca: per questo si riferisce al passato quando promette il futuro, perché in modo sottile lo Spirito nasconde il genere nella specie, e mostra il futuro con gli eventi passati. Nello stesso modo in cui Giacobbe manifestò mediante la benedizione ai figli, con il presente ciò che sarebbe accaduto loro in futuro. Poi vidi in piedi in mezzo al trono e ai quattro  animali e agli anziani, un agnello come ucciso; questo aveva sette corna e sette occhi, che sono i sette Spiriti di Dio, inviati in tutta la terra. Qui si riferisce chiaramente ancora a nostro Signore Gesù Cristo, del quale si diceva che non fosse morto, ma quasi ucciso dalla passione e dalla morte che aveva sofferto. E dice di averlo visto in mezzo al trono, cioè nella potenza e nella grandezza della sua divinità … e dei quattro animali, il che si intende del quadruplice ordine dei Vangeli … e in mezzo agli anziani, cioè alla Legge, con cui designa il coro dei Profeti o degli Apostoli. Testimonia di aver visto l’Agnello là, non ucciso, ma come se fosse stato ucciso, cioè che aveva vinto la morte e subìto la passione. Ma come abbiamo detto altrove, la Chiesa è i Patriarchi, i Profeti e gli Apostoli, e la Chiesa è il corpo del Capo supremo: Cristo: a volte nelle Scritture tutti questi membri, insieme al Capo, sono chiamati l’Agnello; altre volte, in modo speciale, lo è solo Cristo; ed altre volte, in modo generale, lo è tutta la Chiesa. E ciò che il Capo ha sofferto in altro tempo, ora soffre nella Chiesa attraverso i suoi membri, perché si è rivestito della sua Chiesa, che in Lui è come uccisa fino alla morte. Ed ogni giorno la Chiesa è uccisa per Cristo, perché viva con Lui per sempre. Che nessuno pensi che solo gli Apostoli o i martiri siano morti per Cristo e che il martirio sia finito e che non ci siano persecutori nella Chiesa. Un tempo c’erano martiri e persecutori; ed oggi pure ci sono i martiri ed i persecutori. Ci sono due tipi di martiri: gli uni lo sono apertamente per mezzo della spada, gli altri in occulto con la penitenza. E questi sono i figli degli Apostoli, perché sono stati generati nello stesso spirito. I loro persecutori sono i figli di coloro che hanno ucciso gli Apostoli, perché sono stati generati nello stesso spirito, e uccidono Cristo nella sua famiglia, e anche l’Agnello che rimane in piedi in mezzo agli anziani, per mezzo del suo Capo, viene ucciso fino alla fine del mondo nei suoi membri. Di questi l’Apostolo dice che « … per loro conto crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio », crocifiggono cioè Cristo in modo spirituale (Eb. VI, 6). Che poi non fosse qualcosa di manifesto, lo chiarisce dicendo: « O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? » (Gal. III, 1). Per colpa di questi la Chiesa soffrirà fino alla fine ciò che ha sofferto fin dall’inizio. È necessario, infatti, che il Figlio dell’uomo debba « sempre salire a Gerusalemme eche il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai principi dei sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. » (Mc. VIII, 31). Quelli che Egli chiama principi sono i governanti di questo mondo o i sacerdoti che non vogliono vivere rettamente nella loro Chiesa. Su di loro è scritto: « un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo ». (Gen. XXV, 23), cioè l’ignorante servirà il prudente, perché quando il santo sopporta i torti del Principe, si dice che serva il minore. Attesta che questo Agnello viene sempre ucciso e che si manifesta per mezzo della sua passione. Ha – dice – sette corna e sette occhi. Nelle corna c’è la forza e la potenza di Cristo. Con il numero Sette si descrive la durata del mondo, che Egli governa con mano potente, e del quale è Signore Gesù Cristo. Come sta scritto: « Gesù pieno dello Spirito Santo » (Lc. IV, 1). Distribuisce alla sua Chiesa, per mezzo dei carismi e delle grazie i doni di questo Spirito, ed infatti non c’è su tutta la terra chi possa avere lo Spirito di Dio tranne la Chiesa. – Venne e prese il libro dalla mano destra di Colui che siede sul trono. Dobbiamo considerare con attenzione ed esporre chi sia Colui che si dice abbia preso il libro. È veramente l’Agnello, cioè l’Uomo assunto, che per la nostra salvezza si è degnato di consegnarsi volontariamente alla morte: questi è Colui che prende il libro, cioè la potenza delle opere di Dio, dalla destra di Colui che siede sul trono; Egli riceve tutte le cose da Dio Padre, come dice Egli stesso: « Tutto quello che il Padre possiede è mio » (Gv. XVI, 15). Ha preso questo libro quando, risuscitando dai morti, ha mostrato e fatto conoscere al mondo il mistero della Trinità, nascosto dall’eternità, e ha dato potere alla Chiesa, dicendo: « Come il Padre ha mandato me, così Io mando voi » (Gv. XX, 21). Ed Egli realizza in loro ciò che dona, dicendo: « Ecco, io sono con voi sempre, fino alla fine dei tempi » (Mt. XXVIII, 20). – E quando lo prese, i quattro animali e i ventiquattro vegliardi caddero davanti all’Agnello: cioè davanti a Gesù Cristo, che con lo stesso Agnello è seduto alla destra di Dio. Il trono e gli animali ed i vegliardi, tutti costoro sono l’Agnello. Si prostrano davanti all’Agnello, che è Cristo incarnato, morto e risorto. Seguendo le sue vestigia, si dice che si prostrino umiliati nella penitenza. Ognuno aveva un’arpa, cioè il cuore che canta le lodi …  e le coppe d’oro: queste coppe sono i vasi che si trovano in una casa lussuosa; le coppe sono le anime dei Santi … piene di profumi, che sono le preghiere dei santi; e cantavano un nuovo canto. La predicazione congiunta dell’Antico e del Nuovo Testamento ci fa conoscere il popolo cristiano che canta un canto nuovo, che proclama cioè pubblicamente la propria fede. La novità è che il Figlio di Dio si è fatto uomo. La novità è che è salito con il suo corpo in cielo. La novità è che concede a tutti il perdono dei peccati. La novità è che Egli conferma gli uomini con lo Spirito Santo. Nuovo è ricevere il sacerdozio del sacro culto ed attendere il Regno delle promesse infinite. L’arpa, una corda tesa su di un legno, è figura della carne di Cristo unita all’albero della passione, o anche il cuore dei santi fedeli che cantano le lodi. Le coppe d’oro sono figura della professione di fede e del lignaggio del nuovo sacerdozio. Con il canto di una moltitudine di Angeli si annuncia la salvezza per gli uomini, con la voce di una moltitudine di Angeli, o meglio di tutti, è l’acclamazione e la testimonianza di tutta la creazione che esprime gratitudine a nostro Signore per la liberazione degli uomini dalla condanna della morte. Queste coppe d’oro sono le stesse coppe di una casa lussuosa, che cantano un nuovo canto, dicendo: Tu sei degno, Signore, di aprire il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato ucciso e con il tuo sangue ci hai comprato per Dio: uomini di ogni tribù, popolo, lingua e nazione. E tu ci hai fatto un regno di sacerdoti per il nostro Dio, e noi regneremo sulla terra. Indica qui che gli animali ed i vegliardi sono la Chiesa con il dire … ci hai redenti con il tuo sangue; si indica in quale cielo siano questi animali e questi vegliardi, quando è detto … hai fatto di noi un regno di sacerdoti e che regneremo sulla terra; indica inoltre che la Chiesa prende il libro in Cristo quando i redenti di ogni popolo e tribù e razza e lingua non dicono … sei degno e ricevesti, ma che sei degno di ricevere: Perché quella [la Chiesa] che ha ricevuto da Cristo tutto il potere in cielo e in terra alla sua risurrezione lo conserva fino alla fine, risuscitando dai morti attraverso il Battesimo e rimanendo sempre unita a Cristo. E il Signore ha portato alla perfezione in essa ciò che aveva iniziato; ed è incoronato in essa che incorona. Nulla è infatti stato fatto o possiede, senza il suo Corpo. – E ho visto e sentito la voce di una moltitudine di Angeli intorno al trono, ed intorno ai quattro animali ed intorno ai vegliardi. Ci mostra che cosa sia il trono, gli animali e gli anziani in mezzo ai quali ha sentito una voce. Questi Angeli sono i Santi: se sono figli amati di Dio, perché non dovrebbero essere chiamati anch’essi Angeli? Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia. Miriadi in greco significa migliaia di migliaia, cioè innumerevoli, ed hanno detto a gran voce: Degno è l’agnello ucciso di ricevere potere, ricchezza, saggezza, forza, onore. gloria e lode: e ogni sorta di creatura in cielo, e in terra, e sotto terra, e nel mare, e tutto ciò che vi si trova. Dicevano a caso del Signore: l’Agnello ucciso è degno di ricevere ricchezza e sapienza, poiché è il tesoro di tutti e la sapienza di Dio? Piuttosto, Egli afferma questa potestà nel suo Corpo, nella Chiesa. Ma siccome la Chiesa è il suo corpo, Egli si riferisce ad essa così come alla testa, dicendo: … ed ogni creatura in cielo ed in terra. Anche se non è difficile per la Chiesa riceverla, essa l’ha ricevuta con Colui che è risorto dai morti. Se non è difficile avere nei membri ciò che ha una testa, non può essere considerato ingiusto ciò che dice la Chiesa, che è degna di ogni creatura: infatti, anche se ognuno dei membri con pia umiltà si considera indegno in questo mondo, pure diciamo che tutto il corpo è partecipe della sua testa, come è scritto: « Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con Lui? » (Rm. VIII, 32) Ed ecco – dice – che tutti rispondono: a Colui che siede sul trono, cioè al Padre e al Figlio e all’Agnello che è la Chiesa: lode, onore, gloria e sapienza nei secoli dei secoli. E i quattro animali dicevano: Amen. E gli anziani si prostravano ed adoravano. La Chiesa così dice Amen. Gli stessi animali sono gli anziani che, dopo aver dato la loro testimonianza dicendo Amen, adorano la Chiesa descritta, e proclamano la sua missione e le sue opere dall’inizio alla fine. L’apertura dei sigilli, come detto…

TERMINA IL LIBRO TERZO

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (9)

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (7)

Cavalli con la coda di leoni.

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (7)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770]

LIBRO TERZO

COMINCIA IL LIBRO TERZO

Ricapitola dalla nascita di Cristo, dicendo in altro modo le stesse verità.

[1] Dopo aver concluso con le sette chiese, divise a somiglianza della settimana di questo mondo, e dando loro diversi nomi simbolici, fa nuovamente conoscere ciò che ha visto: allora ho avuto – dice – la seguente visione: una porta è stata aperta in cielo (cap. IV). Dopo tanta manifestazione di chiarezza, contemplata con mente fedele, gli si aprono i segreti del cielo e gli viene mostrato il mistero divino celato. Lo interiorizza così nel suo spirito e medita i segreti di Dio con la riflessione della fede. Intravede davanti a sé una porta aperta attraverso la quale arrivare con mente avida alla conoscenza di una così grande maestosità. Ricapitola tutto il tempo della Chiesa nelle varie figure, dicendo: Ho visto una porta aperta nel cielo. La porta aperta è riferita a Cristo, che è nato ed ha patito, e quindi è Egli la porta. Chiama la Chiesa il cielo, in cui vediamo noi stessi, come la Scrittura in precedenza ci ha anticipato. La Chiesa è giustamente chiamata cielo, perché è la dimora di Dio, è là dove si compiono i misteri celesti. Per questo chiediamo che la volontà di Dio sia fatta in cielo. A volte chiama la Chiesa cielo e terra, quando cioè la carne terrena aspira per mezzo della fede al cielo. A volte il cielo e la terra sono la Chiesa ed il popolo. Infatti la terra è sia il bene che il male. Secondo dice l’Apostolo, « … e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli. » (Col. I, 20). Nel cielo non c’erano scandali, però tra il cielo e la terra c’era discordia. In Giudea la Chiesa è sempre stata unita a Dio, ma in spirito, non in un corpo rinnovato. Tuttavia, sulla terra c’era discordia tra il popolo giudeo ed i gentili. Per questo lo stesso Apostolo dice che entrambi sono rinnovati e riconciliati con Dio. E mentre i gentili erano nel mondo senza Dio, ora essi sono con Cristo. « Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace … Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. » (Ef. II, 13-14 e 18). Come dice S. Luca, « gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà » (Lc. II, 14). « Convoca il cielo dall’alto e la terra al giudizio del suo popolo » (Psal. XLIX, 4). Alcuni confermano in vari modi, che omettiamo per brevità, che il cielo e la terra siano la Chiesa, perché si ritiene che il cielo sia l’anima dell’uomo e la terra la sua carne terrena: anima e carne unite, entrambe spiritualmente consenzienti. Per questo diciamo che il cielo è la Chiesa e la terra pure è la Chiesa.

TERMINA LA SPIEGAZIONE DELLA PORTA

COMINCIA LA SUA STORIA NEL LIBRO TERZO

(Ap. IV, 1-6)

Post hæc vidi: et ecce ostium apertum in cœlo, et vox prima, quam audivi tamquam tubæ loquentis mecum, dicens: Ascende huc, et ostendam tibi quae oportet fieri post hæc. Et statim fui in spiritu: et ecce sedes posita erat in caelo, et supra sedem sedens. Et qui sedebat similis erat aspectui lapidis jaspidis, et sardinis: et iris erat in circuitu sedis similis visioni smaragdinæ. Et in circuitu sedis sedilia viginti quatuor: et super thronos viginti quatuor seniores sedentes, circumamicti vestimentis albis, et in capitibus eorum coronae aureæ. Et de throno procedebant fulgura, et voces, et tonitrua: et septem lampades ardentes ante thronum, qui sunt septem spiritus Dei. Et in conspectu sedis tamquam mare vitreum simile crystallo.

(Dopo di ciò vidi, ed ecco una porta aperta nel cielo, e quella prima voce che udii come di tromba che parlava con me, dice: Sali qua, e ti farò vedere le cose che debbono accadere in appresso. E subito fui rapito in ispirito: ed ecco che un trono era alzato nel cielo, e sopra del trono uno stava a sedere. E colui che stava a sedere era nell’aspetto simile a una pietra di diaspro e di sardio e intorno al trono era un’iride, simile d’aspetto a uno smeraldo. E intorno al trono ventiquattro sedie: e sopra le sedie sedevano ventiquattro seniori, vestiti di bianche vesti, e sulle loro teste corone di oro: “e dal trono partivano folgori, e voci, e tuoni: e dinanzi al trono sette lampade ardenti, le quali sono i sette spiriti di Dio. E in faccia al trono come un mare di vetro somigliante al cristallo.).

[2] La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva. Si vuol dire che non sentiva distinta nessun altra cosa, se non quella voce che aveva già sentito con l’apertura della porta del cielo; e mentre il Signore, come ad un ignorante, si accingeva a rivelargli qualche suo segreto, spaventato dalla manifestazione della sua potenza, cadeva ai piedi della Maestà. Affinché non si intendesse che la voce sentita in precedenza fosse quella di una bocca carnale, la assimila ad una tromba, che emette il suono una volta che, raccolta l’aria, la si espelle producendo il suono all’esterno; così è per chi, ricevuta la Parola del Signore, percepisce con l’ispirazione del suo spirito senza suono, ciò che poi manifesta all’esterno. Ma si deve anche comprendere, attraverso quella porta aperta, che essa sia la rivelazione del Vangelo; la voce che dice di aver già sentito in precedenza, sono le parole della Legge e dei Profeti, che mettono in accordo ciò che è nuovo con il vecchio per produrre ciò che dice il salmista: « Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: il potere appartiene a Dio, tua, Signore, è la grazia; » (Psal. LXII, 12), vale a dire, si premurò che fossimo istruiti in ciò che manifestò ai nostri padri attraverso le Sacre Scritture. Questo può essere inteso in modo ancor più sottile, e cioè che il Padre abbia generato il suo Figlio unigenito, eguale a Se stesso. Infatti il parlare di Dio, significa aver generato il Verbo. Parlare una volta sola, è non avere altro Verbo oltre l’Unigenito. Dopo l’inspirazione delle anime, dopo la rivelazione del mistero, dice: venite quassù, vi mostrerò cosa succederà dopo. L’ascesa che indica qui è quella, una volta disprezzato il mondo, di venire alla Chiesa, come sta scritto: « Venite, andiamo a Sion il monte del Signore » (Is. II, 3). Questo è ciò che la Scrittura dice ai credenti: « Cresce lungo il cammino il suo vigore, finché compare davanti a Dio in Sion. » (Psal. LXXXIII, 8). Entrando nel “sancta sanctorum“, dove per primo è entrato nostro Signore Gesù Cristo, fatto Pontefice in eterno con il sangue della sua passione, il santo è qui invitato a meritare il godimento della presenza stessa del Signore, ed a conoscere non solo quel che sapeva della verità del passato, ma anche quello che accadrà in futuro. In quell’istante, dice, sono caduto in estasi. Chi non comprende che non parla di alcunché di carnale, colui che descrive il suo essere rapito nello spirito? San Giovanni, il più caro al suo Dio, non avvertì nulla di corporeo, nulla di terreno, ma cadde in estasi per contemplare il Dio nella maestosità, che vedeva in spirito e non contemplava nella carne. Poi dice: Ho visto che c’era un trono in cielo e uno stava seduto sul trono. Il trono che c’era è il regno sopra il regno, cioè il potere, la forza e la verità della Divinità che risiede nella Chiesa. E colui che stava a sedere – dice – era nell’aspetto simile ad una pietra di diaspro e di sardio ed intorno al trono era un’iride, simile d’aspetto a uno smeraldo. La pietra di diaspro irradia un bagliore verde molto intenso, affinché si possa capire che la carne dell’uomo assunta da Cristo e ricevuta senza macchia di peccato, risplenda con la forza della purezza eterna e per la presenza della potenza divina. Il Sardio pure, è una pietra rossastra, ma è poco appariscente per una sua certa opacità, cosicché si possa comprendere la purezza della carne immacolata, ricevuta dalla Vergine, vereconda ed umile; ed ancor perché si possa comprendere un altro significato di queste due pietre, ascoltate: il diaspro è il colore dell’acqua, e il sardio è quello del fuoco: questi due giudizi sono stati stabiliti fino alla consumazione del mondo sul tribunale di Dio. In esso si manifestano due tipi di giudizi: uno è già stato consumato nel diluvio per mezzo dell’acqua, l’altro sarà consumato per mezzo del fuoco. Queste comparazioni sono legate alla Chiesa della quale si è rivestito il Signore. L’iride circondava il trono. L’iride che circonda il trono ha gli stessi colori. L’iride è chiamato anche arcobaleno; di esso il Signore parlò a Noè ed ai suoi figli, perché non temessero Dio nei loro discendenti: ho messo il mio arco nelle nuvole (Gen. IX,13), perché non temereste più l’acqua, bensì il fuoco. Perché nell’arco appare contemporaneamente il colore dell’acqua e del fuoco, poiché in parte è verdastro ed in parte rossastro, a testimoniare entrambi i giudizi: di questi uno è da eseguirsi con il fuoco, l’altro è stato già eseguito con l’acqua. Anche in un altro modo l’arcobaleno, con il fuoco e l’acqua, è segno dello Spirito Santo e del Battesimo, perché dopo la venuta di Cristo sul genere umano ha brillato la forza dello Spirito Santo che ha lavato con l’acqua del Battesimo gli eletti di Dio, e li ha illuminati con il fuoco dell’amore divino. Secondo dice la Verità: « … chi non è rinato d’acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio » (Gv. III, 5). Questo arco poi è tra le nuvole nei giorni di pioggia, nuvole che sono la carne di Cristo, la cui pioggia sono le parole della predicazione. Infatti è nell’Incarnazione del Signore che si manifesta la rugiada della predicazione, perché attraverso il perdono del Signore i cuori dei credenti si volgano alla riconciliazione. Di questa nube è stato scritto: « … fai delle nubi il tuo carro », (Psal. CIII, 3). Il Signore fa della nube il suo veicolo ascensionale, perché Colui che come Divinità è in ogni luogo, è salito al cielo con la carne. Ezechiele un tempo lo ha visto « … come di elettro, con l’aspetto di fuoco, e con la forma dell’arco che si forma nelle nubi in un giorno di pioggia » (Ez. I, 27, 28). Nell’elettro, l’oro e l’argento si mescolano, in modo da far emergere un’unica realtà formata dai due metalli, nella quale la luminosità dell’oro viene attenuata per mezzo dell’argento, e l’aspetto dell’argento viene illuminato mediante la luminosità dell’oro. Nel nostro Redentore entrambe le nature, quella divina e quella umana, sono unite tra loro in modo indiviso ed inseparabile, cosicché attraverso la sua umanità sia temperata ai nostri occhi la radiosità della sua divinità, e per la sua divinità risplenda in Lui la natura umana. Possiamo anche chiamare « nuvole » i santi predicatori, perché fanno piovere con le loro parole, e brillano per i loro miracoli. Di quelli si dice … si muovano come le nuvole, perché, anche se vivono sulla terra, tutto ciò che hanno fatto è stato ultraterreno; infatti, camminando nella carne, hanno combattuto non con la carne, ma con lo spirito. Ho visto ventiquattro troni intorno al trono, e seduti sui troni, ventiquattro anziani in vesti bianche, con corone d’oro sulla testa. Ecco come abbia chiaramente manifestato il coro dei Patriarchi e degli Apostoli, seduti sulla Cattedra della santa dottrina. Li chiama anche anziani, cioè padri, e son rivestiti con abiti bianchi, cioè con la giustificazione della grazia e della purezza. Indossando poi corone d’oro sulla testa, sono stati proclamati vincitori tra i presenti. Trucidato che fu il diavolo, il nemico malvagio, ricevettero le corone del Signore. A proposito di queste corone, Paolo – il vaso d’elezione – ha commentato: « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione. » (2 Tm. IV, 7). Pertanto, anche la Chiesa, come le dodici tribù di Israele, è fondata sul numero dodici, che è un giorno. E come il giorno, racchiuso tra giorno e notte, ha ventiquattro ore e si chiama un giorno, così la Legge, prima della venuta del Signore, risplendeva solo nei Patriarchi e nei Profeti, mentre negli altri c’era notte. Ma nel Nuovo Testamento, che presenta Cristo nella carne, la sua manifestazione è chiamata luce e giorno. Il sole è Cristo secondo il profeta: « per voi che temete  il Signore, sorgerà il sole della giustizia » (Mal. IV, 2); e scelse i suoi Apostoli in numero di dodici, come le ore del giorno. Di loro disse: « voi siete la luce del mondo » (Mt.  V, 14). E a questi dodici Apostoli unì l’intero corpo episcopale. E a tutto il corpo episcopale aggiunse tutto il popolo cristiano, perché il sesto giorno Dio fece Adamo, e comandò che la donna gli fosse sottomessa come un aiuto. Questa donna era il simbolo di tutto il popolo cristiano, mentre Adamo prefigurava tutti i sacerdoti. Così, i Cristiani spirituali saranno sottomessi ai santi sacerdoti, come la moglie al marito. I sacerdoti devono adoperarsi nei confronti di coloro che sono meno perfetti, affinché, attraverso il latte della predicazione, e man mano fino al cibo solido, possano anch’essi conoscere il Padre ed il Figlio e lo Spirito Santo. Riguardo a ciò che abbiamo detto, l’Apostolo dice: la testa della donna è l’uomo. Il capo dell’uomo è Cristo, il capo di Cristo è Dio (1 Cor. XI, 3). Osservate come i membri non siano separati, ed infatti attraverso i sacerdoti tutta la Chiesa rimane unita a Cristo. In quei dodici si indicano gli Apostoli, e per essi, il corpo intero dei santi Vescovi. È questo quanto ritroviamo nella descrizione della città di Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio all’uomo Cristo, da Cristo agli Apostoli, dagli Apostoli ai Vescovi, dai Vescovi ai presbiteri, dai Vescovi e presbiteri al restante popolo. Attraverso questi gradi, la città di Gerusalemme scende sulla terra; e attraverso questi stessi, risale in cielo ogni giorno. Questi ventiquattro troni, che rappresentano la distinzione delle funzioni, sono dodici, perché anche i presbiteri provengono dalle dodici tribù di Israele. E i dodici troni, nell’accezione spirituale del numero, sono un unico trono, che è appunto la Chiesa. Su di esso siederà il Signore Gesù Cristo – Egli solo – per il giudizio. Siederà anche e giudicherà le dodici tribù di Israele, la Chiesa stabilita nel numero dodici, cioè in Cristo, con il Quale è tutt’uno: siederà e giudicherà tutti i membri, ma in uno e solo capo, cioè Cristo. Come possono infatti i Santi sedere in giudizio, in piedi alla destra del Giudice? – Dal trono procedono fulmini, grida e tuoni, e sette lampade di fuoco che bruciano, che sono i sette spiriti di Dio. Si voleva qui che si capisse che tutta la predicazione degli antichi Apostoli, ed anche la dottrina celeste e santa, procede dal giudizio di Dio e dall’ispirazione di Dio. Il fulmine sono le parole di tutti i Santi, ed ugualmente i tuoni si comprende siano le voci dei predicatori. Proclamiamo che tutto questo procede da un unico Autore, Dio. Di questi fulmini e turbini si dice: « Il fragore dei tuoi tuoni nel turbine » (Psal. LXXVI, 19). Il turbine è la Scrittura, poiché dice: « Le sue folgori rischiarano il mondo: vede e sussulta la terra. » (Psal. XCVI, 4). Tutto questo non ha un’origine propria, ma è dichiarato essere proveniente dal trono di Dio, che è la Chiesa; dalla Sua volontà, cioè dalla potenza del Creatore o dai Suoi ordini. Le sette fiaccole che bruciano davanti al trono sono i settiformi doni dello Spirito Santo, di cui abbiamo già parlato diffusamente in precedenza. Si indica che essi assistano al trono in quanto sono congiunti a Dio; e coloro ai quali questi doni sono dati per grazia, sono con Dio; come si dice altrove: « … essi, che si avvicinano ai suoi piedi, ricevono la sua dottrina. » (Dt. XXXIII, 3). Anche Ezechiele parlava apertamente di questo fuoco e di queste torce quando diceva: « Tra quegli esseri si vedevano come carboni ardenti simili a torce che si muovevano in mezzo a loro » (Ez. I, 13). Il suo aspetto è come i carboni accesi con il fuoco e le torce; chiunque tocca i carboni brucia: infatti chiunque aderisce ad un sant’uomo con la frequenza della sua visione e della sua parola, ne riceve l’esempio dalla sua condotta, cosicché si accenda nell’amore della verità, faccia fuggire le tenebre dei suoi peccati, brilli di desiderio della luce, e bruci con vero amore ciò che, morto e come freddo, giaceva in precedenza nell’iniquità. Le torce diffondono da lontano la loro luce e, trovandosi in un luogo, ne illuminano anche altri. – In colui che è animato dallo spirito di profezia, dalla parola della sua dottrina, dalla grazia dei miracoli, la propria opinione si irradia in lungo ed in largo, come la lampada. E coloro che ascoltano le sue buone disposizioni, per così dire, si elevano all’amore delle cose celesti e sprigionano luce come una torcia, perché si manifestino con le buone opere. È così che i Santi, per coloro che li avvicinano e li toccano, illuminandosi con l’amore della patria celeste, sono dei carboni ardenti; e sono pure torce perché danno luce a coloro che sono lontani, in modo che sulla loro strada non incorrano nelle tenebre del loro peccato. La differenza tra i carboni e le torce è che i carboni ardono, ma non dissipano l’oscurità oltre lo spazio in cui si trovano. Ma le torce, poiché brillano di una maggiore fiamma di luce, scacciano il buio che si diffonde intorno a loro. Da questo fatto si deve notare che ci sono molti Santi, semplici e nascosti, rinchiusi da un grande anonimato in luoghi angusti, tanto che gli altri possano a malapena conoscerne l’esistenza: cosa sono questi se non carboni ardenti? Infatti, pur possedendo il fuoco dello spirito per il loro fervore, non hanno la fiamma dell’esempio, né cacciano le tenebre del peccato dal cuore degli altri, perché impediscono totalmente che la loro vita sia conosciuta. Certo, possiedono il fuoco, ma non servono come modello di luce per gli altri. Invece, coloro che rendono evidenti gli esempi delle loro virtù e mostrano la luce della loro buona condotta ai viatori, con la loro vita e la parola sono chiamati giustamente torce: infatti scacciano le macchie del peccato e gli errori delle tenebre con il fuoco del desiderio e con la fiamma della parola. Colui che vive rettamente in solitudine, ma non reca beneficio in alcun modo ad un altro, è carbone. Ma colui che, con l’esempio di santità, si pone come luce di giustizia per molti, è torcia, poiché possiede il fuoco e dà luce agli altri. – Davanti al trono c’è come un mare di vetro, come un cristallo. Il mare vitreo, cioè trasparente, manifesta il dono del Battesimo. Esso dimostra come sia stata data un’acqua pulita e calma, non increspata dal vento, non torrenziale come lungo un pendio, ma immobile appunto come un dono di Dio. E quando dice che ci sono lampade intorno al trono, che sono gli spiriti ed un mare di vetro intorno al trono, mostra che lo spirito è nel luogo dove si trova la fonte del Battesimo. Perché il mare è acqua che non è dolce, ma amara. Cos’è questo mare se non il Battesimo e la penitenza? Egli dice: davanti al trono c’è un mare vitreo, come il cristallo. Il vetro si rompe facilmente; così anche il Battesimo in noi si infrange facilmente ed messo in pericolo. La vita di questo mondo è infatti scivolosa e soggetta ad una glaciale iniquità: quando viene sciolta dal calore di una lieve concupiscenza, ne è più facile la caduta e la rovina per i miseri. Geremia è sommerso nelle profondità di una cisterna, sotto il potere di un re iniquo; questo è la giustizia sommersa nel fango dei peccati quando viene sconfitta dal diavolo. Ma il fedele etiope, il peccatore convertito alla penitenza, lo fa uscire dal fango e lo riporta alla luce con trenta uomini – cioè o con l’aiuto della Santa Trinità, o con il lavoro dell’anima, dello spirito e del corpo – e lo estrae dalle profondità del pozzo (Ger. XXXVIII. 6) con il lanciargli strisce di stoffa, cioè riportando alla sua memoria le azioni degli antichi padri, che, caduti per il peccato, sono risaliti dalle profondità del male – con la penitenza – alle cose celesti … « antichi esempi nascosti »; e con le corde, cioè con le testimonianze delle Scritture. Si soddisfa così anche la Legge di Mosè: l’asino di tuo fratello è caduto sotto il peso – cioè la carne è stata sopraffatta dal peccato – inchinati, umiliati e alzati da terra (Dt. XXII, 4). Non vergognatevi di sottomettervi ad un uomo peccatore.

FINISCE LA SPIEGAZIONE

COMINCIA LA STORIA DEI QUATTRO ANIMALI

(Ap IV, 6-11; V, 1-14)

…. Et in medio sedis, et in circuitu sedis quatuor animalia plena oculis ante et retro. Et animal primum simile leoni, et secundum animal simile vitulo, et tertium animal habens faciem quasi hominis, et quartum animal simile aquilæ volanti. Et quatuor animalia, singula eorum habebant alas senas: et in circuitu, et intus plena sunt oculis: et requiem non habebant die ac nocte, dicentia: Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus omnipotens, qui erat, et qui est, et qui venturus est. Et cum darent illa animalia gloriam, et honorem, et benedictionem sedenti super thronum, viventi in sæcula sæculorum, procidebant viginti quatuor seniores ante sedentem in throno, et adorabant viventem in sæcula sæculorum, et mittebant coronas suas ante thronum, dicentes: Dignus es Domine Deus noster accipere gloriam, et honorem, et virtutem: quia tu creasti omnia, et propter voluntatem tuam erant, et creata sunt.

Cap. V.

Et vidi in dextera sedentis supra thronum, librum scriptum intus et foris, signatum sigillis septem. Et vidi angelum fortem, prædicantem voce magna: Quis est dignus aperire librum, et solvere signacula ejus? Et nemo poterat neque in cælo, neque in terra, neque subtus terram aperire librum, neque respicere illum. Et ego flebam multum, quoniam nemo dignus inventus est aperire librum, nec videre eum. Et unus de senioribus dixit mihi: Ne fleveris: ecce vicit leo de tribu Juda, radix David, aperire librum, et solvere septem signacula ejus. Et vidi: et ecce in medio throni et quatuor animalium, et in medio seniorum, Agnum stantem tamquam occisum, habentem cornua septem, et oculos septem: qui sunt septem spiritus Dei, missi in omnem terram. Et venit: et accepit de dextera sedentis in throno librum. Et cum aperuisset librum, quatuor animalia, et viginti quatuor seniores ceciderunt coram Agno, habentes singuli citharas, et phialas aureas plenas odoramentorum, quae sunt orationes sanctorum: et cantabant canticum novum, dicentes: Dignus es, Domine, accipere librum, et aperire signacula ejus: quoniam occisus es, et redemisti nos Deo in sanguine tuo ex omni tribu, et lingua, et populo, et natione: et fecisti nos Deo nostro regnum, et sacerdotes: et regnabimus super terram. Et vidi, et audivi vocem angelorum multorum in circuitu throni, et animalium, et seniorum : et erat numerus eorum millia millium, dicentium voce magna: Dignus est Agnus, qui occisus est, accipere virtutem, et divinitatem, et sapientiam, et fortitudinem, et honorem, et gloriam, et benedictionem. Et omnem creaturam, quae in caelo est, et super terram, et sub terra, et quæ sunt in mari, et quae in eo: omnes audivi dicentes: Sedenti in throno, et Agno, benedictio et honor, et gloria, et potestas in sæcula sæculorum. Et quatuor animalia dicebant: Amen. Et viginti quatuor seniores ceciderunt in facies suas: et adoraverunt viventem in sæcula sæculorum.

(E in faccia al trono come un mare di vetro somigliante al cristallo: e in mezzo al trono, e d’intorno al trono, quattro animali pieni di occhi davanti e di dietro. E il primo animale (era) simile a un leone, e il secondo animale simile a un vitello, e il terzo animale aveva la faccia come di uomo, ed il quarto animale simile a un’aquila volante. E i quattro animali avevano ciascuno sei ale: e all’intorno e di dentro sono pieni d’occhi: e giorno e notte senza posa, dicono: Santo, santo, santo il Signore Dio onnipotente, che era, che è, e che sta per venire. E mentre quegli animali rendevano gloria, e onore, e grazia a colui che sedeva sul trono, e che vive nei secoli dei secoli, i ventiquattro seniori si prostravano dinanzi a colui che sedeva sul trono, e adoravano colui, che vive nei secoli dei secoli, e gettavano le loro corone dinanzi al trono, dicendo: Degno sei, o Signore Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore, e la virtù: poiché tu creasti tutte le cose, e per tuo volere esse sussistono, e furono create.

(V, 1-14)

E vidi nella mano destra di colui, che sedeva sul trono, un libro scritto dentro e di fuori, sigillato con sette sigilli. E vidi un Angelo forte, che con gran voce gridava: Chi è degno di aprire il libro, e di sciogliere i suoi sigilli ? E nessuno né in cielo, né in terra né sotto terra, poteva aprire il libro, né guardarlo. E io piangeva molto, perché non si trovò chi fosse degno di aprire il libro, né di guardarlo. E uno dei seniori mi disse: Non piangere: ecco il leone della tribù di Giuda, la radice di David, ha vinto di aprire il libro, e sciogliere i suoi sette sigilli. E mirai: ed ecco in mezzo al trono, e ai quattro animali, e ai seniori, un Agnello sui suoi piedi, come scannato, che ha sette corna e sette occhi: che sono sette spiriti di Dio spediti per tutta la terra. ‘E venne: e ricevette il libro dalla mano destra di colui che sedeva sul trono. E aperto che ebbe il libro, i quattro animali, e i ventiquattro seniori si prostrarono dinanzi all’Agnello, avendo ciascuno cetre e coppe d’oro piene di profumi, che sono le orazioni dei santi: E cantavano un nuovo cantico, dicendo: Degno sei tu, o Signore, di ricevere il libro, e di aprire i suoi sigilli: dappoiché sei stato scannato, e ci hai ricomperati a Dio col sangue tuo di tutte le tribù, e linguaggi, e popoli, e nazioni: E ci hai fatti pel nostro Dio re e sacerdoti: e regneremo sopra la terra. E mirai, e udii la voce di molti Angeli intorno al trono, e agli animali, e ai seniori: ed era il numero di essi migliaia di migliaia, i quali ad alta voce dicevano: È degno l’Agnello, che è stato scannato, di ricevere la virtù, e la divinità, e la sapienza, e la fortezza, e l’onore, e la gloria, e la benedizione. E tutte le creature che sono nel cielo, e sulla terra, e sotto la terra, e nel mare, e quante in questi (luoghi) si trovano: tutte le udii che dicevano: A colui che siede sul trono e all’Agnello la benedizione, e l’onore, e la gloria, e la potestà pei secoli dei secoli. E i quattro animali dicevano: Amen. E i ventiquattro seniori si prostrarono bocconi, e adorarono colui, che vive pei secoli dei secoli.)

INIZIA LA SPIEGAZIONE DEI QUATTRO ANIMALI

[3] E vidi in mezzo al trono e intorno al trono quattro animali, pieni di occhi davanti e dietro. I quattro animali sono la figura dei quattro Evangelisti. Sono essi presentati pieni di occhi davanti e di dietro, il che indica o che contengono i misteri passati e futuri di Dio, o che manifestano i segreti di entrambe le Leggi. E con la contemplazione delle cose spirituali proclamano la fede completa della santa Divinità rendendo manifesto il mistero dei segreti celesti. Poi si descrive la forma di ciascuno: il primo è come un leone; il secondo, come un giovane toro; il terzo, come un uomo; il quarto, come un’aquila. Nel Vangelo troviamo nell’ordine dapprima Matteo, perché è stato il primo a scrivere; ma nel Ministero i nostri maggiorenti hanno messo Marco al primo posto, perché inizia con Giovanni, il precursore che prepara la via a Cristo. Questo Marco, pieno di Spirito Santo, ha scritto il Vangelo in Italia in lingua greca, come discepolo al seguito di S. Pietro. Egli inizia con spirito profetico, dicendo: « Voce di uno che grida nel deserto, preparate la via del Signore », per indicare che Cristo, dopo aver assunto la nostra carne, aveva predicato il Vangelo nel mondo. Infatti Cristo stesso è stato chiamato profeta, come sta scritto:« Io ti ho stabilito profeta delle nazioni » (Ger. I, 5). I nostri maggiorenti descrivono giustamente la figura del leone come rappresentante dell’Evangelista Marco. E questo in verità è spiegato chiaramente e giustamente, perché il suo libro inizia così: « Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio, secondo quanto è scritto nel profeta Isaia: Guardate, mando il mio angelo, che guarderà (o preparerà) la via davanti a voi. » Ma non sorprende che qui sia citato Isaia al posto di Malachia – perché questa testimonianza è chiaramente nota nel libro di Malachia – poiché Isaia significa “la salvezza di Dio“; Malachia, “il messaggero“; ecco come all’inizio del Vangelo ha voluto citare al posto del “messaggero”, cioè Malachia, la salvezza del Signore, che è Isaia: perché è la fede nel Vangelo che ci conduce nell’eternità perenne della vita presente e futura. Ha poi riassunto ciò che il messaggero, che è l’Angelo, dice con le parole di Isaia: « Preparate la via del Signore, raddrizzate i sentieri del nostro Dio » (Is. XL, 3), affinché, una volta offerta e promessa la salvezza, l’annuncio della verità sia reso manifesto ed il cuore degli uomini sia preparato a ricevere la grazia. Egli ha figura di un leone, perché presenta Giovanni che predica nel deserto, che ama il deserto, come dice: « Giovanni è apparso nel deserto battezzando e proclamando un battesimo di penitenza per il perdono dei peccati » (Mc. I, 4). – Il secondo animale, simile ad un vitello, si riferisce a Luca, che, tra tutti gli Evangelisti di lingua greca, era anche medico. Egli scrisse il Vangelo in Grecia, dedicandolo al Vescovo Teofilo, cominciando dallo spirito sacerdotale, col dire: Ai tempi di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote, Zaccaria, per indicare che Cristo, dopo la sua nascita nella carne e la predicazione del Vangelo, divenne vittima per la salvezza del mondo. Egli è il sacerdote di cui si diceva nei Salmi: « Tu sei sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedec » (Psal. CIX, 4). Quando venne Cristo, il sacerdozio dei Giudei si estinse: la Legge ed i Profeti cessarono. Giustamente si paragona Luca ad un toro: perché il toro rappresenta la persona dei sacerdoti, come si dice in Isaia: « Beati voi! Seminerete in riva a tutti i ruscelli e lascerete in libertà buoi e asini. » (Is. XXXII, 20): il seme è la parola, le acque sono il popolo, e tu … hai liberato il bue e l’asino, cioè il popolo giudeo ed il gentile. Al suo inizio mostra il sacerdozio di Zaccaria, per questo si dice: ai tempi del re Erode di Giudea c’era un sacerdote di nome Zaccaria. – Il terzo animale, che ha l’aspetto di un uomo, è riferito a Matteo, che fu il primo a scrivere il Vangelo in Giudea, in lingua e con espressioni ebraiche, iniziando il suo Vangelo dalla nascita umana di Cristo, col dire: « libro della genealogia di Gesù Cristo, Figlio di Davide, figlio di Abramo », cosa che indica che Cristo è disceso corporalmente dal lignaggio dei Patriarchi, come promesso dallo Spirito Santo nei Profeti: ecco perché Matteo ha voluto annunciare all’inizio del suo libro la genealogia del Signore secondo la carne. – E il quarto animale, somile ad un’aquila in volo, si riferisce a Giovanni, che ha scritto il Vangelo, l’ultimo, in Asia, partendo dal Verbo, per insegnarci che il Salvatore, che si è degnato di nascere e di soffrire per noi, è lo stesso Verbo di Dio di prima dei tempi, che è venuto dal cielo e che, dopo la sua morte, è tornato nuovamente in cielo. Questi sono i quattro Evangelisti, che lo Spirito Santo ha figurato in Ezechiele con i quattro animali. – Ecco perché la fede della Religione cristiana si è diffusa ai quattro angoli del mondo grazie alla loro predicazione. Essi sono chiamati animali perché il Vangelo di Cristo è predicato per la vita dell’uomo; erano pieni di occhi dentro e fuori, perché proclamano i Vangeli annunciati dai profeti e che Egli aveva promesso da tempo. I loro piedi erano dritti, perché non c’è nulla di malvagio nei Vangeli. E avevano sei ali che coprivano i loro piedi ed il loro volto: erano cioè velati, perché occultati fino alla venuta di Cristo. Vangelo è una parola greca, che in latino significa “buon annuncio“: perché in greco “eu” significa buono, e “àngel” significa notizia; ed anche Angelo significa messaggero. Giovanni è giustamente descritto come un’aquila in volo, perché non parla né dell’umanità del Signore, né del suo sacerdozio, né di Giovanni che predica nel deserto, ma, lasciando tutte le cose umili, si eleva fin alla stessa altezza del cielo; e alla maniera di un’aquila in volo parla propriamente di Dio stesso, dicendo: « In principio era il Verbo, e il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio. » Era in principio con Dio. – Ma sorge un problema: come si può dire che questi quattro animali siano in mezzo ed intorno al trono, pieni di occhi dentro e fuori, se non si comprende che la loro posizione non sia che nel modo spirituale? Infatti se si cercasse di capire la loro posizione in senso letterale, ciò sarebbe erroneo. Infatti è stato detto in precedenza che in mezzo al trono sedeva Cristo, ed intorno al trono c’erano gli anziani; e ora si dice che in mezzo al trono ci sono gli animali, ed intorno al trono ci sono gli stessi animali. Se però si usa l’orecchio del cuore, si comprenderà che tutte queste cose siano da intendere come spirituali, perché Egli parlava solo del Capo e dei membri. – Trono è una parola greca che in latino si interpreta come “sede”, e qui dove siede Cristo, una volta dice sede, altre volte trono. Questo trono è la Chiesa, sulla quale vien detto che siede Cristo. E questi animali, che si dice siano in mezzo ed intorno al trono, sono gli stessi animali, e questo indica che i Vangeli sono in mezzo alla Chiesa, mescolandosi in Essa e circondandola, e che tutto quindi non è che una cosa sola. Infatti non possono sussistere gli uni senza gli altri, i Vangeli senza gli animali, e gli animali senza i Vangeli. E come potevano stare gli animali, essendo stato già detto in precedenza che questo spazio era occupato dai ventiquattro seniori, se non per farvi capire che gli animali ed i seniori sono la stessa cosa? Quando dice “in mezzo al trono”, si intende la Chiesa unita al Corpo di Cristo, affinché si comprenda che il capo e le membra formano un solo uomo. Quando dice “pieni di occhi davanti e dietro”, si intende la Legge ed il Vangelo, oppure che lo Spirito Santo ispira i fedeli attraverso i comandamenti divini, e che vede tutto ciò che lo circonda davanti e dietro, vede cioè il passato ed il futuro. Il primo animale è simile a un leone. La forza della Chiesa si manifesta nel leone, così come dice: « ha vinto il leone della tribù di Giuda, » (Ap. V, 5).  Ma è nel secondo che si manifesta quanto sia forte la Chiesa: simile, dice, a un vitello, cioè ad una vittima: questa è la forza della Chiesa: essere immolata! Nel terzo ci insegna cosa siano il leone ed il bue: ha – dice – l’aspetto di un uomo. Si riferisce all’umiltà della Chiesa che, pur possedendo l’adozione a figlia di Dio, sembra un uomo che non possiede nulla al di fuori della sua umanità, proprio come si diceva del Signore: « … il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce » (Fil. II, 6-8). E conclude nel quarto animale quello che sono i tre esseri viventi, dicendo: come un’aquila in volo. Qui nell’aquila non ha nominato nulla di ciò che sia terreno, se non che sia stata forte nella passione, come nel leone; e colui che una volta si è offerto in sacrificio è rappresentato nel toro; colui che è stato razionale, cioè che ricorda il passato, ordina il presente, prevede il futuro, in modo da riconoscere quel Padre per mezzo del quale è stato creato, e che brilla per la sua condotta, è rappresentato nell’uomo; tutto questo non serve a nulla però se, come un’aquila, non si hanno sempre gli occhi fissi verso il cielo, nel volo della contemplazione. Questo è sempre stato fatto dalla Chiesa dei Patriarchi e dei Profeti prima dell’Incarnazione della divinità. Quando il Sole della giustizia non aveva ancora manifestamente brillato nel suo corpo finché non fosse arrivato il giorno, essi indubbiamente brillavano nella notte di questo mondo come stelle nel cielo, cioè nella Chiesa. Ma quando risplendette il sole della verità, Egli manifestò con l’Incarnazione la luce della sua divinità, ed essendo soggetto alla legge si mostrò come un servo; scelse dodici Apostoli, affinché il giorno risplendesse; ed in queste quattro animali congregò tutta la Chiesa. E quando qualcuno ha compiuto i tre animali, a modo d’aquila ne completa il quarto in cielo, là dove scorge andare il suo cadavere, fissando continuamente gli occhi della contemplazione libero dalla terra, appoggiandosi sempre sulla testimonianza dei due Testamenti. Questo viene fatto dai membri che desiderano rimanere uniti con il loro capo. – Di questi quattro animali, ognuno di essi aveva sei ali intorno a sé. E in questi quattro animali mostra i ventiquattro seniori: le sei ali dei quattro animali sommate tra loro sono ventiquattro ali. E intorno al trono ho visto gli animali, dove aveva detto aver visto i seniori. Ma come può un animale con sei ali essere come un’aquila, dal momento che l’aquila ne possiede due, o come si può dire che quei tre esseri viventi, il leone, il vitello e l’uomo, abbiano le ali, giacché vediamo che queste specie non ne hanno? Ciò non è da prendere alla lettera, ma per quanto si realizza nel mistero. Egli dice che hanno sei ali, perché nei sei giorni della settimana presente, che è la lunghezza del mondo, si diffondono le parole della loro profezia. Che i quattro si dice abbiano sei ali, e due volte dodici sommano ventiquattro, cioè due dozzine, ciò indica la santa dottrina dei Patriarchi e dei Profeti, che hanno insegnato al mondo con l’annuncio della loro profezia. In questa stessa dottrina si annuncia la lode alla Trinità e si proclama instancabilmente per tre volte il nome Sanctus. E questa lode, rivolta ad un solo Onnipotente, manifesta un Dio Trino dall’unica sostanza. La dottrina dei Profeti summenzionata aveva già insegnato che Essa esiste prima di tutte le età, e lo sarà per tutti i secoli ed anche dopo tutti i secoli, ed alla stessa, nel giudizio si uniranno le voci di tutti i perfetti. Siccome abbiamo detto che l’aquila è la Chiesa, è giusto che, interpretando le sue due ali, si dica che queste siano i due Testamenti, attraverso i quali si vede come la Chiesa si involi verso il cielo. Così, dunque in quest’aquila tutto si conclude, e dopo i tre animali, l’aquila ha posto per ultima. E poiché i primi tre non volano, ma solo si reggono in piedi, si riconosce chiaramente che le cose che si fissano nell’anima con la contemplazione si riferiscano alla stessa Chiesa. In Ezechiele, per mezzo dello Spirito Santo della profezia, questi animali pennuti sono descritti con grande sottigliezza, e sono figura della persona degli Evangelisti, di modo tale che la sottigliezza della descrizione ce li fa conoscere e non lascia dubbi sulla parola di Dio; infatti così sono descritti: « Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezza d’uomo; poi fattezza di leone a destra, fattezza di toro a sinistra e, sopra dei quattro, fattezza d’aquila » (Ez I: 10). Che queste quattro animali pennuti siano la figura dei quattro Evangelisti è attestato dall’inizio di ciascuno dei libri del Vangelo. Quegli infatti che inizia con la genealogia umana, Matteo, è giustamente rappresentato da un uomo. Quegli che inizia con colui che grida nel deserto, Marco, è giustamente rappresentato da un leone; Luca, che inizia con un sacrificio, è rettamente rappresentato da un vitello. E colui che inizia con la divinità del Verbo, Giovanni, è giustamente identificato nell’aquila, perché dice: « In principio era il Verbo, e il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio. » Quando confessò la sostanza stessa della divinità, fissò i suoi occhi sul cielo, alla maniera di un’aquila. Ma poiché tutti gli eletti sono membri del nostro Redentore, essendo il nostro stesso Redentore Capo di tutti gli eletti – che dunque sono membri di Lui in figura – nulla impedisce che sia rappresentato in questi nomi degli animali: l’unigenito Figlio di Dio si è fatto veramente uomo; nel sacrificio per la nostra redenzione si degnò di morire come un vitello; con la forza della sua Resurrezione, si rialzò come un leone. E si manifesta come il leone che dorme ad occhi aperti, perché nella sua morte, secondo la sua natura umanità, il nostro Redentore avrebbe dormito, ma nel contempo è rimasto vigile permanendo immortale per la sua divinità. Salendo verso il cielo dopo la sua resurrezione poi, si innalza come un’aquila. Egli è per noi, quindi, tutto questo allo stesso tempo: essendo nato è diventato un uomo, morendo un vitello, resuscitando un leone ed infine un’aquila che sale verso il cielo. E poiché abbiamo già detto prima che i quattro Evangelisti sono rappresentati da questi animali, e sotto la loro figura sono rappresentati nel contempo gli uomini perfetti, ci resta da spiegare come ognuno degli eletti sia rappresentato in queste visioni dagli animali. Ogni eletto, perfetto sulla via del Signore, è allo stesso tempo uomo, vitello, leone ed aquila. Infatti l’uomo è un essere razionale; il vitello viene solitamente immolato in un sacrificio; il leone è un animale forte, come è scritto: « … il leone, il più forte degli animali, che non indietreggia davanti a nessuno » (Prov. XXX: 30). L’aquila vola verso l’alto e si libra verso i raggi del sole senza che gli occhi siano abbagliati. Chiunque sia perfetto nella sua ragione, questi è un uomo. È pure un vitello, perché si sacrifica ai piaceri del mondo presente. È un leone, perché dalla sua volontaria mortificazione trae forza di sicurezza contro ogni male. Perciò è scritto: « … il giusto è sicuro come un giovane leone, ma il leone giusto è salvo e non si allontanerà da nulla »  (Prov. XXVIII, 1). Sicuramente questi è un leone! E dal momento che contempla acutamente ciò che è terreno e ciò che è celeste, è pure un’aquila. Ecco che, poiché ogni giusto è: – uomo per la sua ragione, – vitello per il sacrificio della sua mortificazione, – leone per la fermezza della sua sicurezza, e diventa aquila per la contemplazione, così ogni uomo perfetto può essere giustamente rappresentato da questi santi animali. Ma ci sorge una domanda sugli stessi Evangelisti e sui santi predicatori: perché i quattro animali sembrano avere a destra volto di un uomo e volto di leone? E non meno ammirevole è il motivo per cui si dice che due siano a destra (uomo e leone), ed uno a sinistra. E ancora una volta dobbiamo chiederci: perché l’aquila non è né a destra né a sinistra, ma è descritta come se fosse sopra gli stessi quattro? Così ci poniamo due domande che dovrebbero essere risolte alla luce del Signore. L’uomo e il leone sono rappresentati a destra, e il vitello a sinistra, perché a destra abbiamo la gioia ed a sinistra la tristezza. Per questo diciamo che per noi è sinistro ciò che giudichiamo essere contrario. E, come abbiamo detto, l’incarnazione è rappresentata dall’uomo, la passione dal vitello, e dal leone la resurrezione del nostro fondatore. Tutti gli eletti hanno gioito dell’incarnazione del Figlio unigenito, dal quale siamo stati redenti. I santi Apostoli, che furono i primi prescelti, furono rattristati dalla sua morte; gli stessi poi si rallegrarono nuovamente per la sua risurrezione. Perché la sua nascita e la sua resurrezione hanno portato gioia a coloro che erano rattristati dalla sua passione: si descrive essere a destra l’uomo ed il leone, e a sinistra il vitello, perché erano gli stessi santi Evangelisti, rallegrati della sua nascita e resi forti dalla sua resurrezione, che erano stati nella tristezza per la sua passione. L’uomo ed il leone sono dunque a destra, perché l’incarnazione del nostro Redentore ha dato loro vita, e la sua resurrezione li ha rafforzati. Ma il vitello è a sinistra, perché la sua morte li ha fatti sprofondare nello sconforto per un breve periodo di tempo. È giustamente poi rappresentata la situazione dell’aquila che non è di lato, ma al di sopra: infatti questo è segno della sua ascensione oppure perché si manifesta che il Verbo del Padre è Dio accanto a suo Padre; Giovanni ha superato nella sua potenza di contemplazione gli altri Evangelisti che come lui si occupano della sua divinità; tuttavia, egli la contempla in modo più sottile di tutti gli altri. Ma se si dice che l’aquila insieme agli altri tre animali è nominata tra i quattro animali, fa meraviglia come poi sia descritta esserne al di sopra. La spiegazione è che Giovanni, per il fatto di aver posto il Verbo all’inizio, è passato anche sopra se stesso. Infatti, se non fosse passato oltre, non avrebbe visto il Verbo fin dall’inizio. Chi passò dunque oltre se stesso, non passò solo sopra gli altri tre, ma aggiuntosi, pure sopra tutti e quattro.  – Continua: E le loro facce e le loro ali erano spiegate in alto (Ez. I,11). I loro volti e le loro ali sono descritti come levati in alto, perché ogni intenzione ed ogni contemplazione dei Santi è diretta sopra se stessi per realizzare ciò che si desidera delle cose celesti. Sia con un’opera buona che in una meditazione contemplativa, ciò che si fa è veramente buono, quando si vuole compiacere Colui al quale si appartiene. Perché chi sembra fare del bene, ma in questo non intende piacere a Dio bensì agli uomini, dirige il volto della sua intenzione all’indietro. E quando si studia nella parola divina ciò che appartiene alla divinità, in modo solo che con la sua comprensione possa soddisfare alle  domande, e se non si vuole essere sazio della dolcezza della santità ma apparire un uomo colto, certamente non si stendono le ali della propria intelligenza verso l’alto, ma, mirando con lo sforzo dell’intelligenza agli appetiti terreni, si battono le ali senza stenderle verso l’alto e senza riuscire a salire. In questo fatto dobbiamo considerare che tutto il bene che viene fatto deve sempre nascere con l’intenzione alle cose celesti. Chi desidera la gloria terrena nel bene che fa, dirige indietro le sue ali e guarda verso il basso. Per questo si dice di alcuni attraverso il profeta: « e foste una fossa profonda » (Osea V: 2). Che altro sono le lacrime della preghiera se non le offerte della nostra preghiera, così com’è scritto: « il sacrificio gradito a Dio è uno spirito contrito »? (Psal. L, 19). Alcuni nella preghiera si affliggono fino alle lacrime per ottenere beni materiali o per apparire Santi agli occhi degli uomini. Cosa fanno questi se non essere vittime nel profondo? Dirigono in giù il sacrificio della loro preghiera, e cercando cose materiali rimangono nell’amore terreno. Invece gli eletti, che cercano di compiacere Dio onnipotente con la loro buona condotta e desiderano già gustare l’eterna beatitudine mediante la grazia della contemplazione, protendono il volto e le ali verso l’alto. – Continua poi: Ognuno aveva due ali che si toccavano tra loro e altre due ali che coprivano il loro corpo. Aveva detto precedentemente: le loro facce e le loro ali erano dispiegate verso l’alto, e poi ha soggiunto ciò che abbiamo detto, … che ognuno aveva due ali che si toccavano; in questo si comprende chiaramente che le ali si erano levate in alto e si toccavano, mentre le altre due coprivano i loro corpi. Quali sono le penne dei vivi se non quelle che si chiamiamo ali? Qui dobbiamo chiederci con molta attenzione: quali siano le quattro ali dei Santi, due delle quali si distendono e si toccano, e le altre due coprono i loro corpi? Se guardiamo più da vicino, ci accorgiamo che quattro sono le virtù che sollevano con le ali l’uomo vivente dagli atti terreni fino alle cose future, cioè l’amore e la speranza, il timore e la penitenza per le cose del passato. Le due ali si spiegano verso l’alto unite l’una all’altra, perché l’amore e la speranza sollevano l’uomo – animale alato – verso le cose celesti. E si dice pure giustamente che siano unite, perché gli eletti amano indubbiamente le cose celesti che sperano, e sperano in quelle che amano. Altre due ali coprono i loro corpi, perché il timore e la penitenza nascondono agli occhi dell’onnipotente Dio le proprie malvagie azioni del passato. Le due ali, come già detto, sono unite in alto quando l’amore e la speranza negli eletti sollevano i loro cuori a volare verso i beni celesti; le altre due ali coprono invece i loro corpi quando il timore e la penitenza nascondono agli occhi del Giudice eterno le loro azioni malvagie passate. Poiché essi hanno riconosciuto di aver peccato, temono e piangono: cos’altro coprono se non il corpo, coloro che nascondono le loro opere carnali per mezzo di opere buone sovrapposte, mediante un esame diligente? Sta scritto: « Beati quelli i cui peccati sono perdonati e le cui iniquità sono nascoste » (Psal. XXXI, 1). Si coprono i peccati quando si sovrappongono le buone azioni alle cattive. Tutto ciò che si copre, infatti è posto sotto, e ciò con cui si copre, lo si mette al di sopra. Quando si discacciano i mali fatti e ci si propone di fare il bene, si mette come una specie di copertura su ciò di cui ci si vergogna. Per quanto grandi siano i Santi in questa vita, essi tuttavia hanno delle cose da nascondere agli occhi di Dio, perché è del tutto impossibile che non abbiano mancato mai neanche una volta in parole o in azioni. Per questo il beato Giobbe, che aveva parlato bene di tutti, quando udì la voce di Dio, rimproverandosi il suo eloquio imperfetto, diceva: « Mi coprirò la bocca con la mano » (Giob. XL, 4). Nella mano sono rappresentate le opere; nella bocca, le conversazioni. Coprire la bocca con la mano significa coprire i propri peccati in parole attraverso la virtù dell’opera buona. Mi piace – cari fratelli – citare s. Paolo, maestro dei gentili, a testimonianza di questo, come santo imitante quell’animale sul quale si basa la visione delle quattro ali, mediante due delle quali si vola verso l’alto, e mediante le altre due si copre il corpo nascondendo le opere compiute nel passato. Vediamo infatti quale grande amore abbia (s. Paolo) per le cose celesti, quando dice: « Cristo è la mia vita, e morire è il mio guadagno » (Fil. 1, 21). Conosciamo poi con quale speranza egli si elevi verso l’alto nel dire: « siamo cittadini del cielo, dal quale attendiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo » (Fil. III, 20). Vediamo pure come ancora tema, nonostante sia adorno di tante virtù: « … Io batto il mio corpo, dice, e lo schiavizzo, perché non accada che, predicando agli altri, io stesso non sia squalificato » (1 Cor. IX, 27). Vediamo come si penta di aver fatto il male: « … io sono l’ultimo degli Apostoli, indegno del nome di Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio » (1 Cor. XV, 9). E, cos’altro si denuncia in queste parole, se non la durezza della nostra mente? Ecco che egli si riferisce a ciò che aveva commesso prima del Battesimo; mentre noi che abbiamo commesso molti mali dopo il Battesimo, pure ci rifiutiamo di piangere. I Santi viventi usano quattro ali, perché con l’amore e la speranza si elevano alle cose celesti e piangono per i mali che hanno fatto con il timore e la penitenza. Ma poiché è detto che le due ali si toccano l’un l’altra, da questo si capisce, che non si uniscono le proprie ali se non quando volano, e che l’una delle ali sia unita all’altra, allorquando allungate si uniscono alternativamente tra loro. In questo ci si pone una domanda: se le due ali che si dispiegano verso l’alto designano l’amore e la speranza, e le altre due che coprono il corpo, il timore e la penitenza, perché si dice che le due che si alzano siano unite, e invece quelle che coprono il corpo non si dice essere unite? Eccone il motivo molto semplice, con l’aiuto di Dio: le ali dei Santi unite sono l’amore e la speranza; invece le due ali che coprono i corpi, non unite tra loro, sono il timore e la penitenza. Così Davide, a causa della colpa del suo crimine, fece penitenza con timore, con il sacrificio e con le lacrime; Pietro pianse amaramente per la sua perfida caduta; Paolo si rammaricò per la crudeltà delle sue passate persecuzioni. Tuttavia, tutti desiderano la medesima patria e sono pronti a raggiungere l’Autore unico di tutti. Due ali sono dunque unite l’una all’altra, mentre le altre due non lo sono: infatti ciò che l’amore e la speranza desiderano è la stessa cosa, mentre il timore e la penitenza son diversi per ciò che deplorano. – Continua: E ognuno di loro marciava alla sua presenza. Prima aveva detto: ognuno di loro ha marciato davanti a sé; ora, invece, dice: … marciava in sua presenza. Così sembra la stessa frase ripetuta. Ma poiché la preposizione latina coram significa “in presenza di”, possiamo discernere indagando più sottilmente la differenza tra marciare “in avanti” e marciare “in presenza di”. Marciare in avanti è cercare ciò che sta davanti (cioè il futuro); ma marciare “in presenza” è il non essere assente da se stesso. Ogni persona giusta che consideri premurosamente la propria vita e mediti diligentemente su quanto cresca ogni giorno in virtù o forse quanto in essa diminuisca: è questi che sta davanti a se stesso e cammina alla sua presenza, perché osserva attentamente di quanto si elevi o si abbassi. Ma chi trascuri la vigilanza sulla propria vita, e la disprezzi o non sappia riflettere sulle proprie opere, parole e pensieri, non cammina in sua presenza, perché nei suoi atti, attende ad altro. Così accade spesso che consideriamo i nostri peccati gravi come se fossero leggeri, perché per il nostro amor proprio, chiudendo i nostri occhi e blandendoli, ci inganniamo. Così pure giudichiamo esser lievi i nostri peccati gravi, ed i peccati leggeri dei nostri prossimi essere gravi. Sta così scritto: « ci saranno uomini che amano se stessi » (2 Tm. III, 2). E sappiamo con quale veemenza l’amor proprio chiude l’occhio del cuore. Per questo motivo noi non giudichiamo seriamente ciò che facciamo, e il più delle volte giudichiamo che ciò che fa il nostro prossimo sia molto detestabile. E come mai ciò che giudichiamo di lieve conto in noi, ci sembra grave nel nostro prossimo, e perché non ci vediamo come nostro prossimo, e il nostro prossimo come noi stessi? Se guardassimo a noi stessi come guardiamo il nostro prossimo, considereremmo con rigore i nostri difetti; ed anche, se guardassimo al nostro prossimo come a noi stessi, il suo comportamento ci sembrerebbe tollerabile, perché spesso forse ha compiuto la stessa azione con cui noi consideriamo non aver fatto nulla di intollerabile al nostro prossimo. Mosè si sforzò di correggere, per mezzo di un precetto della legge, questo giudizio erroneo della nostra mente, quando disse « Avrete bilance giuste, pesi giusti, efa giusto, hin giusto. » (Lv. XIX, 36). Così dice Salomone: « Doppio peso e doppia misura sono due cose in abominio al Signore » (Prov. XX, 10). Sappiamo che i mercanti hanno un doppio peso, uno maggiore e uno minore: hanno un peso per la merce che prendono, e un altro per quella che vendono al prossimo. Nel dare, i pesi sono più leggeri; nel ricevere, sono più pesanti. Pertanto, ogni uomo che giudica diversamente ciò che appartiene al suo prossimo e ciò che appartiene a sé, ha due pesi. Dio odia entrambe le cose. Perché se uno amasse il prossimo come se stesso, lo amerebbe nel bene come se stesso. E se vedesse se stesso come suo prossimo, si giudicherebbe negativamente come fa appunto con il suo prossimo. Dobbiamo, quindi, esaminarci attentamente e, come detto, porci davanti a noi stessi: in modo che, imitando ininterrottamente gli animali con le ali, possiamo comprendere cosa stiamo facendo e camminare di conseguenza sempre alla presenza di noi stessi. D’altra parte, i malvagi, come abbiamo già detto, non marciano in presenza di se stessi, perché non riflettono mai su ciò che fanno: essi camminano verso la morte, si gloriano di azioni malvagie come è scritto: « … godono nel fare il male, gioiscono dei loro propositi perversi » (Prov. II, 14). A volte il giusto che li osserva, se ne lamenta; ma questi freneticamente piangono e ridono. Alcuni danno gran parte dei loro beni ai bisognosi; ma quando se ne presenta l’occasione, li opprimono, e chi prima li ha aiutati, li deruba poi con rapina. Mettono davanti ai loro occhi il bene che fanno, e non mettono davanti ai loro occhi il male che operano. È chiaro che questi non marciano in presenza di se stessi: perché se fossero in presenza di se stessi, vedrebbero con diligenza tutto ciò che fanno, e saprebbero come le loro opere buone si perdano a causa delle azioni malvagie, come sta scritto: « … l’operaio ha avuto il salario, ma per metterlo in un sacchetto forato » (Agg. I: 6). Quello che esce da una borsa rotta vien disperso. Ed ecco che le menti sconsiderate non vedono come il premio che acquisiscono per le loro buone azioni si disperde a causa delle loro cattive azioni. Si osserva così la castità del corpo, e la si esamina diligentemente, per non accettare dall’esterno qualcosa di riprovevole: ci si accontenta del proprio, non si porta via ciò che appartiene agli altri; ma forse nel proprio cuore si conserva odio verso il prossimo, come sta scritto: « … Chiunque odia il proprio fratello è omicida » (1 Gv. III, 15); si pensa di essere limpidi nella propria condotta, e non si esamina quanta crudeltà ci sia nella mente. Che cos’è questo, se non l’essere saggio ai propri occhi, mentre si cammina nelle tenebre del cuore senza saperlo? Un altro non si appropria di ciò che è altrui, tiene il suo corpo lontano dalla impudicizia, ma non ama più il prossimo con la mente limpida; nelle sue preghiere si contrista con ardore, consapevole dei suoi mali passati, ma una volta finito di pregare, cerca quelle cose di cui gioire in questo mondo ed abbandona il suo spirito ai godimenti temporali e non cerca di impedire che le gioie smodate superino la misura delle sue lacrime: e accade che, ridendo troppo, perda poi il bene che ha conquistato piangendo. Non si cammina in presenza di se stesso, quando ci si rifiuti di osservare le cose cattive alle quali si acconsente. Sta scritto: « … Il cuore dei saggi è in una casa in lutto ed il cuore degli stolti in una casa in festa. » (Eccl. VII, 4). In tutto ciò che facciamo dobbiamo esaminare noi stessi con diligenza, dentro e fuori, affinché, imitando gli “animali alati”, possiamo essere presenti a noi stessi e camminare sempre davanti alla nostra faccia. – Qual è allora la voce di grande commozione che il profeta sente alle sue spalle, se non quella alla quale, conseguente alla parola della predicazione con la quale si riesce a scacciare il peccato dal cuore, seguono i lamenti dei penitenti? Invece i malvagi, quando fanno il male, non ascoltano i retti consigli dei giusti, non sapendo quanto siano gravi i loro peccati, e nella loro ignoranza si ritengono al sicuro nella loro ottusità e riposano stando comodamente sdraiati nella loro colpa. Si diceva di un popolo peccaminoso e fiducioso: « … riposa nei suoi escrementi » (Ger. XLVIII, 18), perché si sdraiava sicuro nei suoi peccati. Quando i malvagi cominciano a sentire la parola della predicazione, e a conoscere quali siano i tormenti eterni, quale sia il terrore del giudizio, e diligentemente esaminano ogni loro peccato, subito tremano, si riempiono di gemiti e, non trattenendosi, si affliggono con sospiri, e mossi da grande paura, erompono in lacrime e pianto. La voce di un grande tumulto segue il Profeta, perché dopo la parola della predicazione, si sentono lamenti dai convertiti e dai penitenti: chi prima giaceva tranquillo nella infermità, toccato come dalla mano di una medicina, torna con dolore alla salvezza. Un altro Profeta dice di questo tumulto dei penitenti: « … essi emetteranno sospiri e la terra si commuoverà » (Zac. XIV, 4). Infatti quando le vestigia della verità si imprimono nella mente di chi ascolta, la stessa mente turbata dalla riflessione su di sé, si commuove. Per questo il salmista dice, pregando a nome dei peccatori: «…  Il Signore regna, tremino i popoli; siede sui cherubini, si scuota la terra » (Psal. XCIX,1). Così pure, pregando per gli afflitti ed i penitenti, dice: « Hai scosso la terra, l’hai squarciata, risana le sue fratture, perché crolla » (Psal. LX, 4). La terra scossa e sbriciolata è il peccatore afflitto dal conoscimento della propria colpa e condotto alle espiazioni della penitenza. All’uomo peccaminoso è stato detto: « tu sei polvere ed in polvere ritornerai » (Gen. III,19). Pregate, dunque, affinché il dolore della terra, che si sta sbriciolando, sia guarito, affinché il peccatore che piange i suoi peccati sia confortato dalla gioia della misericordia celeste. Questa è infatti la voce della grande commozione, quando esaminando ognuno i propri atti ci si commuove nel pianto della penitenza. Ma sentiamo questa voce dire: « Benedetta sia la gloria del Signore nel luogo in cui si trova (Ez. III, 12). Le sedi dello spirito maligno erano i cuori dei penitenti; ma quando, contriti, ritornano alla vita attraverso la penitenza, diventano il luogo della gloria di Dio: ora dunque si ribellano contro se stessi, e accompagnano le lacrime della penitenza ai peccati commessi. Per questo si sente la benedizione di gloria e la lode di Dio, là dove prima si sentivano offese al Creatore per l’amore del mondo presente. Ed i cuori dei penitenti diventano per il Signore la sua dimora che in precedenza, abitata dai peccati, era stata dimora di altri. Tutti coloro che si convertono dai loro peccati al Signore, non solo cancellano con le loro lacrime i mali che hanno fatto, ma si elevano in alto con opere meravigliose e diventano i Santi viventi di Dio Onnipotente, che si esaltano con meravigliose virtù, lasciando completamente la terra e, ricevuta la grazia di Dio, si slanciano col desiderio verso i beni celesti. Di questi si aggiunge ancora: « Era il rumore delle ali degli animali che battevano l’una contro l’altra » (Ez. III, 13). – Il Profeta sente dietro di sé la voce di un grande tumulto, perché, come abbiamo detto, il grido dei penitenti segue alla parola della predicazione. Sente dietro di sé il suono delle ali degli animali, perché dallo stesso dolore dei penitenti scaturiscono le virtù dei Santi, tanto più avanzati nella santa preghiera quando più riconoscono di non aver lavorato in precedenza che in modo dissoluto con la loro vita depravata. Ma c’è un grande dubbio in queste parole, perché il Profeta non dice chiaramente se ogni animale batta le proprie ali tra di loro, o se questi stessi animali battano le proprie ali alternativamente, in modo che l’ala dell’uno tocchi l’altro, e viceversa. Ma poiché molte volte nella parola divina qualcosa viene esposto in modo confuso, e con l’aiuto di Dio, si intende invece in modo meraviglioso e molteplice, dobbiamo spiegare alla vostra carità entrambe le cose con la grazia di Dio. Abbiamo spesso detto che le ali degli animali sono le virtù dei Santi. Perché allora ogni animale batte le ali l’una contro l’altra, se non per farci capire chiaramente che, se diventiamo Santi viventi, la virtù eccita altra virtù, l’una cioè  spinge l’altra alla perfezione? Per esempio, quando si ha la scienza della parola di Dio, si impara per mezzo della stessa scienza a conseguire anche le viscere della misericordia. Attraverso la scienza si conosce la parola di Dio: « fate l’elemosina e tutto sarà puro per voi » (Lc. XI, 41). Quando si comincia ad essere misericordioso nell’elemosina, leggendo le parole della santa verità, ciò che in esse si dice sulla misericordia, lo si comprende in modo più fecondo attraverso l’esperienza. Là è scritto: « Padre io ero per i poveri ed esaminavo la causa dello sconosciuto; (Giob. XXIX, 16). Che cosa significa, dunque, che questi animali con le ali si colpiscano l’un l’altro, se non che tutti i Santi si eccitino l’un l’altro con le loro virtù, e si stimolino l’un l’altro ad avanzare considerando le virtù degli altri? Le virtù non sono concesse tutte ad uno solo, perché non si possa vantare e soccombere all’orgoglio. Ma ad uno viene dato ciò che non viene dato ad altri. E a voi è dato ciò che è negato ad un altro: cosicché nel considerare il bene che voi avete, e che altri non possiede, questi possa preferirvi nel suo pensiero a se stesso. E viceversa, nel vedere ciò che l’altro ha, e che voi non avete, vi portiate a lui nel vostro pensiero, secondo che sta scritto: « … ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso » (Fil. II, 3). Per dire qualcosa per quanto si può, ad esempio: a quest’uomo è concessa la virtù di un’ammirevole astinenza, eppure non possiede la parola della scienza. A questi viene data la parola della scienza, mentre cerca di imparare, senza riuscirci, la virtù dell’astinenza perfetta. A quest’altro è data la facilità nel suo eloquio, cosicché, usandone a favore di alcuni oppressi, parli liberamente in difesa della giustizia; e tuttavia, possedendo ancora molti beni in questo mondo, cerchi, senza riuscirvi, di abbandonare tutti i beni. A tal altro è già stato concesso di lasciare tutti i beni terreni, e di non voler possedere nulla in questo mondo; eppure non è in grado di esercitare l’autorità della sua voce contro coloro che peccano. E colui che meglio potrebbe parlare liberamente, perché non ha più nemmeno un posto dove sdraiarsi in questo mondo, si rifiuta di parlare liberamente contro gli altri, per non perdere la propria tranquillità. A questi ancora è stata concessa la virtù della profezia: egli vede in anticipo molte cose che stanno per accadere, e pur vivendo e compatendo l’infermità del suo prossimo che è presente, non è in grado di soccorrerlo. È stata data ad un altro la grazia delle guarigioni, e con le sue preghiere toglie dal corpo del prossimo i malanni che ha in quel momento; eppure non sa cosa gli accadrà un po’ più tardi. Dio onnipotente, con una disposizione ammirevole, distribuisce i suoi doni tra i suoi eletti, in modo tale da concedere all’uno ciò che nega all’altro e all’uno dare più o meno che ad un altro: affinché, quando questi ultimi vedono di avere o di non avere, o pensano che altri abbiano ricevuto di più o di meno di quanto pensino di possedere essi stessi, possano ammirare i doni di Dio l’uno nell’altro, vale a dire alternativamente e, come risultato di questa reciproca ammirazione, possano  umiliarsi l’uno rispetto all’altro, e pensino, nei confronti di coloro che vedono non avere ciò che essi possiedono, di essere stati preferiti a loro nel pensiero divino. Gli animali, quindi, battono alternativamente le ali quando le anime sante sono eccitate dalle virtù altrui, sono stimolate al loro contatto e desiderano essere stimolate ad avanzare. Si toccano con le ali, perché siano alternativamente stimolati a progredire là dove gli altri già volano. Dio onnipotente fa nel cuore degli uomini, ciò che fa pure nel cuore dei popoli della terra. Egli avrebbe potuto dare ad ogni regione tutti i frutti che le abbisognavano; ma se una regione non avesse bisogno dei frutti di un’altra regione, non avrebbe comunicazione con essa. Per questo Egli dà il vino a questa regione e l’olio in abbondanza ad un’altra; dà un gran numero di bestiame a questa regione, e a quest’altra una grande fecondità di frutti. Come sono le regioni della terra, così sono anche le anime dei Santi: che quando si toccano alternativamente, diventano come le regioni che distribuiscono ad altre regioni i loro frutti, affinché tutti siano uniti nella stessa carità. Ma in tutto questo bisogna sapere che gli eletti, che considerano sempre negli altri ciò che hanno ricevuto da Dio essere di maggior perfezione, e preferiscono gli altri nel loro pensiero a se stessi, si inchinano davanti a loro in umiltà; così anche l’anima del reprobo non considera mai ciò che l’altro possiede di meglio di se stesso; né pensa a quali beni spirituali abbia ricevuto e a ciò che gli manca, ma ritiene che tutte le cose buone siano in lui, mentre le cose cattive siano possedute dagli altri. E come Dio onnipotente distribuisce a ciascuno le virtù affinché si umili nel suo pensiero davanti ad un altro, i reprobi si esaltano per i beni che hanno ricevuto, cosicché si perdono nella vanità considerando sempre i beni che possiedono e gli altri no, e non si preoccupano mai di esaminare quanti beni abbiano gli altri che essi non hanno. Ciò che, quindi, la pietà divina dispone per il progresso nell’umiltà, le anime dei reprobi lo trasformano in un aumento della vanità. E per la diversità dei doni, si allontanano da tutto ciò per cui avrebbero dovuto crescere nella virtù dell’umiltà. Perciò, cari fratelli e sorelle, dovete sempre vedere in voi stessi ciò che avete di meno, e nei vostri vicini ciò che essi hanno ricevuto in misura maggiore di voi: affinché, quando li vedrete al di sopra di voi stessi per il bene che possiedono e che voi non avete, possiate crescere nell’umiltà per raggiungerlo anche voi. Se dunque voi considerate in loro le cose buone che hanno ricevuto, ed essi riconoscono in voi le cose buone che possedete, allora vi toccate alternativamente con le ali, così che, stimolati, voliate in alto sempre verso i beni celesti. – Pieni di occhi dal di dentro: ha detto … dal di dentro, perché la luce del Vangelo è nascosta ai malvagi, poiché solo i Santi vedono con gli occhi della fede, ed i Santi stessi, protetti dall’umiltà, si preservano per una futura chiarezza. Per questo motivo i corpi degli animali sono descritti come pieni di occhi, perché l’azione dei Santi è prudente in ogni situazione, vegliando anelanti sui loro beni, ed evitando accuratamente il male. E questo è ancora più difficile quando le anime dei Santi vigilano con ardore, affinché i loro occhi non si fissino, e nascondano il male sotto l’apparenza del bene. La vita dei Santi è quindi attenta a non essere così liberale da diventare superba; poiché la superbia è spesso celata nelle parole, e cerca di apparire come liberalità che dà integrità. E non sia [la vita] così umile da essere timorosa; perché talvolta la paura soffoca lo spirito, tanto che non osa dire ciò che sia giusto, ma con lo stesso timido pensiero dissimula umiltà. E che non sia sobria in modo da essere avara; perché il più delle volte l’avarizia desidera essere considerata come moderazione, in modo che appaia voler possedere ciò che sia giusto e necessario, mentre in realtà non si vuole condividere con il prossimo bisognoso. Né sia misericordiosa quando invece è dissipativa, affinché a volte lo spreco si possa giudicare misericordioso. Una cosa è dare ciò che sia necessario al prossimo per pietà; un’altra cosa è sperperare ciò che si possiede senza l’intenzione di guadagnare. Tutto ciò che facciamo deve essere considerato alla luce dell’intenzione alla quale si attribuisce il merito davanti al giudizio del Creatore. Come ci dice il Salvatore: « se il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà luminoso » (Mt. VI, 22). L’occhio indica l’intenzione ed il corpo l’azione. Se la nostra intenzione davanti a Dio è sana, a Suo giudizio la nostra azione non sarà tenebrosa. I corpi degli animali sono pieni di occhi quando esaminano attentamente in ogni direzione. Queste predicazioni, anche se sono quattro, in realtà ne sono davvero una sola, perché provengono da una sola bocca, come il fiume in Paradiso che, pur essendo uno, è diviso in quattro corsi. Gli animali hanno occhi dentro e fuori; cioè l’annuncio del Nuovo Testamento mostra una speciale provvidenza, che scruta il più segreto del cuore, vede ciò che sta per accadere, ciò che è dentro e ciò che è fuori. Le sei ali sono la testimonianza dei libri dell’Antico Testamento. Ecco perché i ventiquattro si sommano con figura identica a quella degli anziani seduti sui troni. Ma siccome gli animali non possono volare senza ali, così la predicazione del Nuovo Testamento non trova alcun credito se non possiede le predette testimonianze dell’Antico Testamento, con le quali si distacca dalla terra e vola in alto. Ogni qual volta che troviamo realizzato in seguito ciò che era stato già preannunciato in precedenza, si rende la fede indiscutibile. D’altra parte, se gli animali non sono adesi alle loro ali, non hanno da dove attingere la vita. Se ciò che i Profeti avevano predetto non si fosse realizzato in Cristo, la loro predicazione sarebbe stata vana. Questo è ciò che la Chiesa Cattolica sostiene: ciò che è stato dapprima annunciato dai Profeti, è ciò che si è poi realizzato in Cristo. L’animale vola e giustamente si stacca dalla terra. Gli eretici, invece, che non utilizzano la testimonianza profetica, hanno gli animali davanti a sé, ma non volano, perché sono della terra. I Giudei che non accettano la predicazione del Nuovo Testamento, hanno le ali, ma non sono viventi, cioè comunicano agli uomini una predicazione vuota, non conformando le loro azioni alle loro parole. Ci sono ventiquattro libri dell’Antico Testamento, che sono accettati: li si trovano anche nelle epitome di Teodoro; infatti ad entrambi compete, come detto – ai ventiquattro Padri e agli Apostoli – giudicare il loro popolo. Agli Apostoli, che chiedevano e dicevano: « Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa ne riceveremo in cambio? » (Mt. XIX, 27), il Signore rispose: « Quando il Figlio dell’uomo siederà sul suo trono nella gloria, anche voi siederete su dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele. » E ai Padri che giudicheranno, il patriarca Giacobbe dice: « Dan giudicherà il suo popolo tra i suoi fratelli, come qualsiasi tribù d’Israele » (Gen. XLIX, 16). – Dal trono escono lampi e voci e tuoni, e bruciano sette lampade di fuoco (Apoc. IV, 5). La predicazione, le promesse e le minacce di Dio: i ‘‘lampi’’, infatti, sono l’annunzio della venuta del Signore; le ‘‘voci’’ sono la predicazione del Nuovo Testamento. E il ‘‘tuono’’ è la tromba che indica come le parole dei predicatori siano celestiali. Le ‘‘fiaccole’’ di fuoco ardente sono il dono dello Spirito Santo, che ci è stato restituito con l’albero della Passione. E ogni volta che facevano questo: i ventiquattro anziani – dice – si prostravano e adoravano il Signore, con gli animali che davano gloria ed onore, e questa è l’azione evangelica del Signore, cioè la dottrina, il compiersi della parola da essi preannunciata. Con ragione e giustamente essi si rallegrano, sapendo di essere stati al servizio dei misteri e della parola di Dio. In conclusione, quindi, era venuto Colui che vince la morte e che solo è degno di ricevere la corona dell’immortalità. Tutti avevano a lor gloria le corone delle loro ottime opere, e gettarono le loro corone davanti al suo trono, cioè: davanti della splendida Vittoria di Cristo, tutte le loro vittorie furono gettate ai suoi piedi. Questo è accaduto già nel Vangelo – come insegna lo Spirito Santo – quando gli uscirono incontro, alcuni stendendo le loro vesti sul suo cammino, altri le palme e i rami d’albero. Ci hanno mostrato in tal modo i due popoli: l’uno dei Patriarchi e l’altro dei Profeti, dei grandi uomini, che hanno gettato tutte le palme delle loro vittorie sul peccato, ai piedi di Cristo conquistatore degli uomini. – La palma e la corona sono la stessa cosa, perché vengono date solo ad un vincitore. Allora quelli che gettavano le loro corone gridavano dicendo: Tu sei degno, Signore e nostro Dio, di ricevere gloria, onore e potere, perché hai creato l’universo, e per tua volontà è stato creato ciò che esisteva. Esisteva – dice – ed è stato creato. Esisteva secondo Dio, che possiede tutte le cose già prima che esse siano fatte, e furono create per essere viste da noi, come dice Mosè: « Non è lui il Padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito? » (Dt. XXXII, 6). Ti ha conosciuto nella preveggenza, ti ha fatto in Adamo e ti ha creato da Adamo.

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (8)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. CLEMENTE XIII – QUAM GRAVITER

Questa breve lettera enciclica è una protesta che il Sommo Pontefice Clemente XIII elevava nei confronti del Re definito Cristianissimo francese contro le leggi e le misure emesse contro i legittimi interessi della Chiesa in quel Paese. La Francia, prima figlia della Chiesa Cattolica, mostrava le prime crepe prodotte nella popolazione e nell’ordine statale dalle sette eretiche e dalle logge dei liberi muratori operanti con alacrità contro il nemico di sempre: la Chiesa Cattolica.  È un odio feroce che ha sempre spinto gli aderenti alla bestia satanica ad accanirsi contro il Corpo mistico di Cristo onde ferirlo, lacerarlo e – se possibile – distruggerlo. Questa lotta, iniziata all’indomani della Resurrezione e dell’Ascensione del divin Redentore, si concluderà alla fine dei tempi con il ritorno glorioso del Cristo, che annienterà i suoi nemici riducendoli a sgabello dei suoi piedi e sprofondandoli nello stagno di fuoco per l’eterna punizione. Ma il castigo, per i popoli si compie anche qua sulla terra, e la Francia ne è un lampante esempio con rivoluzione, guerre che hanno cancellato intere generazioni, destabilizzazione dell’ordine sociale, fino alla perdita attuale dell’identità culturale per cui l’islam ha soppiantato il Cristianesimo glorioso ed antico, ed una profondissima crisi economica sta già riducendo allo stremo una terra beneficata in ogni modo da Dio e dalla Mamma celeste. L’Apostasia poi dalla fede cattolica è evidente ed irreversibile per i costumi pagani ed epicurei inculcati in tutti gli strati sociali. Ma il conto sta già arrivando e sarà ancor più salato alla fine dei tempi, quando gran parte della popolazione, salvo un miracolo strepitoso dell’Altissimo, finirà con i suoi falsi profeti e le membra della “bestia” nello stagno di fuoco.

ENCICLICA
QUAM GRAVITER
DEL SOMMO PONTEFICE
CLEMENTE XIII

Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi riuniti a Parigi in Assemblea generale.

Il Papa Clemente XIII.
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

1. Quanto gravemente siamo stati colpiti, allorché abbiamo letto i tre Decreti (Arrêts, come li chiamano) dello scorso 24 maggio, pubblicati dal Regio Consiglio del Re Cristianissimo, vi sarà facile comprendere; come li ricevemmo, fummo al contempo colpiti e sconcertati. Infatti, che sarà in seguito del divino potere della Chiesa se, quando le occorrerà praticare e valersi del suo diritto, e vorrà richiamare i fedeli all’obbedienza, dovrà soggiacere totalmente al cenno della laica potestà e non potrà esigere dai fedeli obbedienza maggiore di quella che torna a vantaggio del potere secolare? Quale linea di demarcazione stabiliremo, al fine di riconoscere i limiti di entrambi i poteri, se è nelle mani e nell’arbitrio del potere laico la facoltà di annullare qualunque decreto della Chiesa circa la Fede o la disciplina o le norme di comportamento? Voi vedete, Venerabili Fratelli, quanto la Chiesa sia oppressa in questa sorta di servaggio, e da quale grave iattura finirà per essere funestata la vigna del Signore. Inoltre non sfuggirà alla vostra perspicacia quale flagello si debba paventare, posto che il potere secolare rivendica a sé il diritto di riesaminare le Costituzioni degli Ordini Regolari e di affrontarne la riforma, senza consultare questa Santa Sede del beato Pietro, alla quale nessuno nega che occorra rivolgersi, trattandosi di siffatte questioni, come testimoniano gli esempi, non così rari, in codesto Regno.

2. Peraltro siamo convintissimi che al Re Cristianissimo non è stato prospettato quanti gravi abusi possono aver origine da quegli editti contro la Chiesa; e non dubitiamo che la sua grande rettitudine e il suo singolare rispetto verso la Chiesa provano ripugnanza per tali abusi. Pertanto a voi compete il dovere di sottoporre alla vista di quella Maestà Regia la prova evidente di quegli abusi, descritta a vivaci colori, e voi dovete compiere tale atto con particolare sollecitudine in quanto lo stesso Re Cristianissimo ha espressamente dichiarato di voler porgere benevolo e indulgente ascolto alle vostre eventuali recriminazioni, se vorrete rivolgervi a lui. Affinché Voi possiate più agevolmente essere ammessi al suo cospetto, Venerabili Fratelli, Noi scriviamo a quella Maestà Reale rivelandogli il profondo dolore che Ci provenne da quegli editti e Lo richiamiamo al suo sentimento religioso perché Vi ascolti con animo sereno, quando solleciterete il suo reale soccorso in modo che si rivelino alla Chiesa la sua forza operante e il potere che egli ebbe da Cristo Signore. E a Voi, Venerabili Fratelli, di cui non loderemo mai abbastanza l’ardentissimo zelo e l’amore verso Dio e la Sposa di Gesù Cristo, impartiamo l’Apostolica Benedizione con tutto l’affetto del Nostro animo.

Dato a Roma, il 25 giugno 1766, ottavo anno nel Nostro Pontificato.

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2021)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione: a S. Pietro.

Semidoppio Dom. privil; di II cl. – Paramenti violacei.

Come le tre prime profezie del Sabato Santo con le loro preghiere sono consacrate ad Adamo, a Noè, ad Abramo, così il Breviario e il Messale, durante le tre settimane del Tempo della Settuagesima, trattano di questi Patriarchi che la Chiesa chiama rispettivamente il«padre del genere umano », il « padre della posterità » e il « padre dei credenti ». Adamo, Noè e Abramo sono le figure del Cristo nel mistero pasquale; lo abbiamo già dimostrato per i due primi, nelle due Domeniche della Settuagesima e della Sessagesima, ora lo mostreremo di Abramo. Nella liturgia ambrosiana la Domenica di Passione era chiamata « Domenica di Abramo » e si leggevano, nell’ufficiatura, i “responsori di Abramo”. Anche nella liturgia romana il Vangelo della Domenica di Passione è consacrato a questo Patriarca. «Abramo vostro Padre, – disse Gesù, – trasalì di gioia nel desiderio di vedere il mio giorno: Io vide e ne ha goduto. In verità, in verità vi dico io sono già prima che Abramo fosse ». – Dio aveva promesso ad Abramo che il Messia sarebbe nato da lui e questo Patriarca fu pervaso da una grande gioia, contemplando in anticipo, con la sua fede, l’avvento del Salvatore e allorché ne vide la realizzazione, contemplò con novella gioia l’avvenuto mistero dal limbo ove attendeva con i giusti dell’antico Testamento, che Gesù venisse a liberarli dopo la sua Passione. Quando al Tempo di Quaresima si aggiunsero le tre settimane del Tempo di Settuagesima, la Domenica consacrata ad Abramo divenne quella di Quinquagesima, infatti le lezioni e i responsori dell’Ufficio di questo giorno descrivono l’intera storia di questa Patriarca. Volendo formarsi un popolo suo, nel mezzo delle nazioni idolatre (Grad. e Tratto), Dio scelse Abramo come capo di questo popolo e lo chiamò Abramo, nome che significa padre di una moltitudine di nazioni. « E lo prese da Ur nella Caldea e lo protesse durante tutte le sue peregrinazioni » (Intr., Or.). « Per la fede, – dice S. Paolo – colui che è chiamato Abramo, ubbidì per andare al paese che doveva ricevere in retaggio e partì senza saper dove andasse. Egli con la fede conseguì la terra di Canaan nella quale visse più di 25 anni come straniero. È in virtù della sua fede che divenne, già vecchio, padre di Isacco e non esitò a sacrificarlo, in seguito ad ordine di Dio, sebbene fosse suo figlio unico, nel quale riponeva ogni speranza di vedere effettuate le promesse divine d’una posterità numerosa. (Agli Ebrei, XI. 8,17) – Isacco infatti rappresenta Cristo allorché fu scelto «per essere la gloriosa vittima del Padre » (VI Orazione del Sabato Santo.); allorché portò il fastello sul quale stava per essere immolato, come Gesù portò la Croce sulla quale meritò la gloria colla sua Passione; allorché fu rimpiazzato da un montone trattenuto per le corna dalle spine di un cespuglio, come Gesù, l’Agnello di Dio ebbe, dicono i Padri, la testa contornata dalle spine della sua corona; e specialmente allorché liberato miracolosamente dalla morte, fu reso alla vita per annunziare che Gesù dopo essere stato messo a morte, sarebbe risuscitato. Così con la sua fede, Abramo, che credeva senza esitare ciò che stava per avvenire, contemplò da lungi il trionfo di Gesù sulla Croce e ne gioì. Fu allora che Dio gli confermò le sue promesse: «Poiché tu non mi hai rifiutato il tuo unico figlio, io ti benedirò, ti darò una posterità numerosa come le stelle del cielo e l’arena del mare (VI orat. Del Sabato santo). Queste promesse Gesù le realizzò con la sua Passione. « Il Cristo, dice S. Paolo, ci ha redenti pendendo dalla croce perché la benedizione, data ad Abramo fosse comunicata ai Gentili dal Cristo, e così noi ricevessimo mediante la fede la promessa dello Spirito »,.cioè lo Spirito di adozione che ci era stato promesso. « Fa, o Dio, prega la Chiesa nel Sabato Santo, che tutti i popoli della terra divengano figli di Abramo, e, mediante l’adozione, moltiplica i figli della promessa» (3a settimana dopo l’Epifania, feria 2a – martedì) . Si comprende ora perché la Stazione oggi si fa a S. Pietro, essendo il Principe degli Apostoli che fu scelto da Gesù Cristo per essere il capo della sua Chiesa e, in una maniera assai più eccellente che Abramo stesso, « il padre di tutti i credenti ». – La fede in Gesù, morto e risuscitato, che meritò ad Abramo di essere il padre di tutte le nazioni e che permette a tutti noi di divenire suoi figli, è l’oggetto del Vangelo. Gesù Cristo vi annunzia la sua Passione ed il suo trionfo e rende la vista ad un cieco dicendogli: La tua fede ti ha salvato. Questo cieco, commenta S. Gregorio, recuperò la vista sotto gli occhi degli Apostoli, onde quelli che non potevano comprendere l’annunzio di un mistero celeste fossero confermati nella fede dai miracoli divini. Infatti bisognava che vedendolo di poi morire nel modo come lo aveva predetto, non dubitassero che doveva anche risuscitare ». (4° e 5° Orazione). L’Epistola, a sua volta mette in pieno valore la fede di Abramo e ci insegna come deve essere la nostra. « La fede senza le opere, scrive S. Giacomo, è morta. La fede si mostra con le opere. Vuoi sapere che la fede senza le opere è morta? Abramo, nostro padre, non fu giustificato dalle opere, quando offri il suo figlio Isacco su l’altare? Vedi come la fede cooperò alle sue opere e come per mezzo delle opere fu resa perfetta la fede. Così si compi la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Voi vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede solamente » (3° Notturno). L’uomo è salvato non per essere figlio di Abramo secondo la carne, ma per esserlo secondo una fede simile a quella di Abramo. « In Cristo Gesù, scrive S. Paolo, non ha valore l’essere circonciso (Giudei), o incirconciso (Gentili), ma vale la fede operante per mezzo dell’amore ». « Progredite nell’amore, dice ancora l’Apostolo, come Cristo ci ha amati e ha offerto se stesso per noi in oblazione a Dio e in ostia di odore soave » (Ad Gal. 5, 6). – In questa domenica e nei due giorni seguenti, ha luogo in moltissime chiese, una solenne adorazione del SS.mo Sacramento, in espiazione di tutte le colpe che si commettono in questi tre giorni. Questa preghiera di espiazione, conosciuta sotto il nome di « quarant’ore », fu istituita da S.Antonio Maria Zaccaria (5 luglio) nella Congregazione dei Barnabiti, e si generalizzò, venendo riferita particolarmente a questa circostanza, sotto il pontificato di Clemente XIII, il quale nel 1765, l’arricchì di numerose indulgenze.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. –

[In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus.

Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

[“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla mi  giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”..]

Omelia I

ECCELLENZA DELLA CARITÀ

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

I diversi doni spirituali, di cui erano stati abbondantemente arricchiti i fedeli di Corinto, dovevano essere tenuti tutti nel medesimo pregio. Se alcuni avevano doni più appariscenti degli altri, li avevano avuti da Dio, che distribuisce le grazie come a lui piace. Questi doni poi, come le membra di un sol corpo, dovevano concorrere a vicenda nel promuovere il bene comune, della Chiesa. Nessuno, dunque, deve invidiare i doni degli altri. Del resto c’è un bene molto più desiderabile di tutti questi doni: la carità. Di questa l’Apostolo dimostra l’eccellenza nell’epistola di quest’oggi. Essa, infatti.

1. È necessaria più di tutti i doni,

2. È l’anima di tutte le virtù,

3. Dura nella vita eterna.

1.

Se parlassi le lingue degli. uomini e degli Angeli e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante.

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grande importanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro; intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita per salvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Il possedere uno solo di questi doni, il compiere una sola di queste azioni, basterebbe a formare la grandezza di un uomo. S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che. son superati da un altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità, per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaro che uno distribuisce agli altri, non serbando nulla per sé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. Che giova a Balaam predire, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, la grandezza d’Israele, quando egli si fa ispiratore di prevaricazioni abominevoli, perché sopra Israele cadano i tremendi castighi di Dio? (Num. XXIV, 2 ss.) Che giova a Giuda aver avuto il mandato di predicare il regno di Dio e di risanare gli infermi? Anche coi doni più eccellenti, anche con le azioni più eroiche non cessiamo di essere iniqui agli occhi di Dio, se ci manca la carità. Gesù Cristo ci fa sapere che molti nel giorno del giudizio diranno: «Signore, non abbiamo noi profetato nel nome tuo, e non abbiamo nel tuo nome cacciato i demoni, e nel nome tuo non abbiam fatto molti prodigi?» Ma Gesù dirà loro: «Non v’ho mai conosciuti: ritiratevi da me, operatori d’iniquità» (Matt. VII, 22-23). Come possono essere operatori d’iniquità, coloro che compiono tali prodigi nel nome di Dio? Intanto uno è iniquo, in quanto non possiede la carità. «Chi non possiede la carità è senza Dio» (S. Pier Grisol. Serm. 53). E lontani da Dio non si può esser che suoi nemici, meritevoli della sua maledizione. Anche senza doni straordinari, anche senza l’opportunità di compiere atti eroici, a tutto basta, a tutto supplisce la carità. «Io credo — dice S. Agostino — che questa sia quella margherita preziosa, della quale sta scritto nel Santo Vangelo che, un mercante, trovatola dopo una lunga ricerca, vendette tutte le cose che aveva per poterla comperare. Questa preziosa margherita è la carità, senza la quale nulla ti giova di quanto possiedi: questa sola, se l’hai, ti può bastare. (In Ep. Ioa. Tract. 5, n. 7).

2.

 La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, ecc.  – L’Apostolo, dopo aver detto che la carità è più eccellente di qualsiasi dono, passa a mostrarne i caratteri. S. Gerolamo, riportata questa descrizione, conchiude : «La carità è la madre di tutte le virtù » (Ep. 82, 11 ad Theoph.). Per la carità noi amiamo Dio per se stesso e il prossimo per amor di Dio. Questo amore dev’essere necessariamente l’anima di tutte le nostre azioni, sia che riguardino Dio, sia che riguardino il prossimo. Così, la città spinse gli Apostoli alla conquista del mondo, e li rese forti e costanti a traverso tutte le difficoltà. La carità sostenne fino all’ultimo i martiri, rendendoli trionfatori dei più raffinati tormenti. La carità rese prudenti i confessori contro tutte le insidie, e li fece perseverare nella via retta dei comandamenti. La carità fa vivere sulla terra angeli in carne, e adorna questa misera valle di lagrime dei fiori d’ogni virtù. Essa stacca da questa terra il cuor dell’uomo e lo accende del desiderio di unirsi a Dio così da poter dire con l’Apostolo: «Bramo di sciogliermi dal corpo per essere con Cristo» (Filipp. 1, 23). Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. Ecco perché i Santi cercavano di progredire sempre più nella carità, anteponendola, nella stima, a tutte le grande azioni. Un giorno si vollero fare congratulazioni al Beato Bellarmino per tutto quello che aveva fatto in servizio della Chiesa. Ma il Beato respinge prontamente la lode con queste belle parole: «Una piccola dramma di carità val più di quanto io possa aver fatto» (Raitz. von Frentz. Der ehrw. Kardinal Rob. Bellarm. Freiburg, 1923, p. 141).

3.

L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita, L’Angelo sveglia S. Pietro nell’oscurità del carcere, lo guida a traverso le tenebre e le guardie, e scompare. L’Angelo Raffaele fa da guida a Tobia nel viaggio a Rages, lo libera nei pericoli, lo sostiene nella sua opera, ma un giorno dice: « Ora è tempo che io torni a Colui che mi ha mandato » (Tob. XII, 20). – La fede ci fa da guida in questa vita, mostrandoci la via che conduce al cielo. La speranza ci preserva dallo scoraggiamento, e, mostrandoci i beni della patria celeste, accende la nostra carità, la quale, a traverso a qualunque ostacolo, ci fa pervenire alla meta sperata. Qui, il compito della fede e della speranza è finito. Quando vediamo ciò che la fede insegna, essa cessa di sussistere: quando possediamo ciò che si sperava cessa la speranza. Solamente la carità non si ferma alla soglia della seconda vita. Essa vi entra con noi, ed entra nel regno suo proprio. Alla fede sottentrerà la visione di Dio; alla speranza sottentrerà la beatitudine: ma nulla sottentrerà alla carità, la quale, anzi, vi avvamperà maggiormente. Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

 Graduale:

Ps LXXVI: 15; LXXVI: 16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam.

[Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto:

Ps XCIX: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia, V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus. V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia. V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII: 31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

[In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.]

Omelia II.

[Discorsi di san G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars

Vol. I, Quarta Ed.; Torino – Roma, Marietti Edit. 1933 –

Nihil obstat Torino, 25 Nov. 1931 – Teol. Tommaso Castagno, Rev. Deleg.;

Imprimatur C. Franciscus Paleari, Prov. Gen.]

Sulla Penitenza

Pœnitemini igitur, et convertimini, ut deleantur peccata vestra.

(Pentitevi e convertitevi e saranno cancellati i vostri peccati)

(Act. III, 19).

Ecco, M. F.,  il solo spediente che S. Pietro annuncia ai Giudei colpevoli della morte di Gesù Cristo. Sì, loro dice questo grande Apostolo, il vostro delitto è orribile, perché avete rigettato la predicazione del Vangelo e gli esempi di Gesù Cristo, perché avete disprezzato i suoi benefizi e i suoi prodigi, e perché non contenti di tutto ciò, voi l’avete rinnegato e condannato alla morte più crudele e più infame. Dopo un tal delitto, quale spediente può restarvi, se non quello della conversione e della penitenza? A queste parole, tutti coloro che erano presenti ruppero in pianto ed esclamarono: « Ah! che faremo noi, grande Apostolo, per ottenere misericordia? » S. Pietro per consolarli disse loro: « Non gettatevi alla disperazione, il medesimo Gesù Cristo che voi avete crocifisso è risuscitato, e ciò che maggiormente importa è diventato il salvamento di tutti coloro che sperano in Lui; Egli è morto per la remissione di tutti i peccati del mondo. Fate penitenza e convertitevi, e i vostri peccati saranno cancellati. » Ecco lo stesso linguaggio che la Chiesa tiene a tutti i peccatori che sono commossi della gravezza dei loro peccati e che desiderano di ritornare sinceramente a Dio. Ah! M. F., quanti di noi sono assai più colpevoli dei Giudei, perché costoro hanno fatto morire Gesù Cristo per ignoranza! Quanti che hanno rinnegato e condannato Gesù Cristo alla morte col disprezzo della sua santa parola, con la profanazione che abbiamo fatto dei suoi misteri, con l’omissione dei nostri doveri, con l’abbandono dei Sacramenti e con una profonda dimenticanza di Dio e del salvamento della povera anima nostra! Ora, M. F., qual rimedio può restarci in questo abisso di corruzione e di peccato, in questo diluvio che contamina la terra e provoca la vendetta del cielo? Non altro che quello della penitenza e della conversione. Ditemi, non sono troppi gli anni passati nel peccato? Non basta l’essere vissuto per il mondo e per il demonio? Non è giunto il tempo per vivere per il buon Dio e per assicurarci una eternità felice? Che ciascuno di noi si rimetta la propria vita davanti agli occhi, e noi vedremo che tutti abbiamo bisogno di far penitenza. Ma per determinarvi a far ciò, io voglio dimostrarvi quanto le lagrime che noi spargiamo sopra i nostri peccati, il dolore che noi ne proviamo e le penitenze che ne facciamo, ci consolano e ci rassicurano all’ora della morte; in secondo luogo, noi vedremo che dopo di aver peccato, noi dobbiamo farne penitenza in questo mondo o nell’altro; in terzo luogo esamineremo in qual modo un Cristiano può mortificarsi per fare penitenza.

I . — Noi diciamo che nulla vi è che ci procuri consolazione in questa vita e ci rassicuri all’ora della morte quanto le lagrime che noi spargiamo sopra i nostri peccati, quanto il dolore che ne proviamo e la penitenza che ne facciamo; ciò che è facile da comprendere, perché è con ciò che noi abbiamo la sorte di espiare i nostri peccati, con altre parole, di soddisfare alla giustizia di Dio. Sì, M. F., è con ciò che noi meriteremo nuove grazie per avere la sorte di perseverare. S. Agostino scrive, che assolutamente è necessario che il peccato sia punito o da colui che lo ha commesso o da colui contro il quale è stato commesso. Se voi non volete che il buon Dio vi punisca, punitevi voi medesimi. Noi vediamo che Gesù Cristo medesimo, per dimostrarci quanto la penitenza ci è necessaria dopo il peccato, Egli medesimo si mette nel ceto dei peccatori (S. Marc. II, 16). Egli ci dice che, senza il Battesimo, nessuno entrerà nel regno dei cieli (S. Giov. III, 5); e, in altro luogo, che se non facciamo penitenza, noi tutti periremo (S. Luc. XIII, 3, 5). Ciò è facilissimo da comprendere. Dopo che l’uomo ha peccato, tutti i suoi sensi si sono ribellati contro la ragione; e quindi, se noi vogliamo che la carne sia sottomessa allo spirito ed alla ragione, è necessario mortificarla; se noi vogliamo che il nostro corpo non muova guerra all’anima nostra, è necessario mortificarlo con tutti i suoi sensi; se noi vogliamo andare a Dio, è necessario mortificare l’anima nostra con tutte le sue potenze. E se voi bramate di essere convinti della necessità della penitenza, non avete che da aprire la santa Scrittura, e voi vedrete che tutti coloro che hanno peccato ed hanno voluto ritornare al buon Dio, hanno versato lagrime, si sono pentiti dei loro peccati ed hanno fatto penitenza. – Vedete Adamo: dacché ebbe peccato egli si consacrò alla penitenza onde poter placare la giustizia di Dio. La sua penitenza durò più di novecento anni (Gen. III, 17; V, 5); ed una penitenza che fa fremere, tanto sembra superiore alle forze della natura. Vedete Davide dopo il suo peccato: egli faceva risuonare il suo palazzo delle sue grida e dei suoi singhiozzi; e spinse i suoi digiuni ad un tale eccesso, che i suoi piedi non potevano più sostenerlo (Genua mea infirmata sunt a jejunio. Ps. CXVIII, 24). Quando si voleva consolarlo dicendogli che, poiché il Signore l’aveva assicurato che il suo peccato gli era perdonato, egli doveva moderare il suo dolore, egli esclamava: Ah! infelice, che cosa ho fatto? Io ho perduto il mio Dio, ho venduto l’anima mia al demonio; ah! no, no, il mio dolore durerà quanto la mia vita, discenderà con me nella tomba. Le sue lagrime piovvero dagli occhi suoi in tanta copia che era temprato il suo pane e ne era bagnato il suo letto (Ps. CI, 10; VI, 7). – Perché sentiamo tanta ripugnanza per la penitenza, e che proviamo sì poco dolore dei nostri peccati? Ah! perché non conosciamo né gli oltraggi che il peccato reca a Gesù Cristo, né i mali che ci prepara per la eternità. Noi siamo appieno convinti che dopo il peccato è necessario fare penitenza. Ma ecco quello che facciamo: noi rimandiamo tutto ciò ad un tempo lontano, quasi noi fossimo padroni del tempo e delle grazie del buon Dio. Ah! M. F., chi di noi non tremerà, poiché non abbiamo un momento di sicuro? Ah! chi di noi non fremerà, pensando che vi ha una misura di grazie, oltre la quale il buon Dio altre non ne concede? Chi non fremerà pensando che vi ha una misura di misericordia dopo di che tutto è finito? Ah! chi di noi non fremerà, pensando che occorre un certo numero di peccati, dopo il quale il buon Dio abbandona il peccatore in balia di se medesimo? Ah! M. F., quando la misura è colma, è necessario che trabocchi. Sì, dopo che il peccatore ha ripiena la misura, è necessario che sia punito e che cada nell’inferno non ostante le sue lagrime e il suo dolore… Vi avvisate voi, che dopo di essere vissuti un numero d’anni nel peccato non ostante tutti i rimorsi che la vostra coscienza ha eccitati per muovervi a ritornare a Dio; avvisate voi, che dopo di essere vissuti da empi e da libertini, disprezzando tutto ciò che la Religione ha di più santo e di più sacro, vomitando contro di essa tutto ciò che la corruzione del vostro cuore ha potuto produrre; avvisate voi, che quando vorrete dire: Mio Dio, perdonatemi, voi avrete fatto ogni cosa, che voi non avrete più che da entrare in cielo? No, no, non siamo così temerari, né così ciechi per sperar ciò. Ah! M. F., è precisamente in questo momento che si compie questa terribile sentenza di Gesù Cristo il quale ci dice: « Voi mi avete disprezzato nel corso della vostra vita, voi vi siete riso delle mie leggi, ma ora che voi avete ricorso a me, che mi cercate, Io vi volgerò le spalle per non vedere le vostre sciagure (Ger. XVIII, 17); Io mi chiuderò le orecchie per non udire le vostre grida; io fuggirò lontano da voi per non lasciarmi commuovere dalle vostre lagrime. » Ah! per essere convinti di tutto ciò, non abbiamo che da aprire la santa Scrittura e la storia dove sono consegnatele azioni di questi famosi empi; noi vedremo che tutti questi castighi sono più terribili che non potete pensare. – Ascoltate l’empio Antioco tra gli altri famoso. Vedendosi colpito in modo visibile dalla mano dell’Onnipotente, si umilia, piange, dicendo: « È giusto, o Signore, che la creatura riconosca il suo Creatore » (II Macc. IX, 12)  Egli promette a Dio di far penitenza, di riparare tutti i mali che ha fatti nel corso della sua vita, tutti i mali che ha cagionati a Gerusalemme, e che elargirà dei grandi beni per conservare il culto del Signore, che si farà giudeo; finalmente che tutta la sua vita non sarà che una vita rispettosa della legge di Dio. Se voi l’aveste udito, voi avreste detto con gioia: Ecco un peccatore che è un santo penitente. Tuttavolta noi udiamo lo Spirito Santo dirci: « Questo empio domanda un perdono che non gli sarà concesso; egli piange, ma piangendo discende nell’inferno. » Ma perché essere più particolari per trovare degli esempi spaventevoli della giustizia di Dio verso il peccatore che ha disprezzato la grazia di Dio? Vedete lo spettacolo che ci hanno presentato gli empi, quegli increduli e quei libertini dell’ultimo secolo: vedete la loro vita empia, incredula e libertina. Non sono sempre vissuti da empi, con la speranza che il buon Dio loro perdonerebbe quando piacesse loro di domandar perdono? Vedete Voltaire. Tutte le volte che cadeva ammalato, non diceva: Misericordia? Non domandava perdono a quel medesimo Dio che insultava quando godeva buona salute, contro il quale non cessava di vomitare tutto ciò che la corruzione del suo cuore poteva produrre? D’Alembert, Diderot e Rousseau, come tutti i suoi compagni di libertinaggio, credevano che quando sarebbe di lor gusto domandare perdono a Dio, sarebbero perdonati; ma noi possiamo dir loro quello che lo Spirito Santo disse ad Antioco: « Questi empi domandano un perdono che non sarà loro concesso. » E perché questi empi non hanno ottenuto il perdono nonostante le loro lagrime? Perché il loro dolore proveniva non dal rammarico dei loro peccati, né dall’amore di Dio, ma solamente dal timore del castigo. Ah! per quanto terribili e spaventose siano queste minacce, esse non fanno aprire gli occhi a coloro che battono la stessa via. Ah! M. F., che colui che, essendo peccatore ed empio nutra la speranza che un giorno egli cesserà di esserlo, quanto è infelice e cieco! Ah! quanti il demonio ne conduce all’inferno in questo modo! la giustizia di Dio li colpisce nel momento che essi punto non vi pensano. Vedete Saulo, egli non sapeva che ridendosi degli ordini che gli dava il profeta, egli metteva il suggello alla sua riprovazione e ad essere abbandonato da Dio (I Reg. XV, 23). Vedete Amano, se egli pensava che preparando il patibolo a Mardocheo, egli medesimo vi sarebbe appeso per perdervi la vita (Esth.VII, 9). Vedete il re Baldassare, se egli pensava che il delitto che commetteva bevendo nei vasi sacri che il padre suo aveva involati a Gerusalemme, era l’ultimo delitto che Dio doveva lasciargli commettere (Dan. V, 23). Vedete ancora i due infami vecchiardi, se essi menomamente dubitavano che tentando la casta Susanna sarebbero lapidati e cadrebbero nell’inferno! (Dan. XIII, 61). No, certamente. Tuttavia questi empi e questi libertini benché nulla sappiano di tutto questo, essi non lasciano di arrivare al punto nel quale i loro delitti essendo giunti al colmo devono essere necessariamente puniti. Ora, che cosa pensate voi di tutto ciò, voi segnatamente che forse avete concepito il disegno spaventevole di rimanere nel peccato ancora alcuni anni, forse fino alla morte? Tuttavolta, sono questi esempi terribili che hanno mossi tanti peccatori ad abbandonare il peccato, per far penitenza, che hanno popolato i deserti di solitari, riempito i chiostri di santi religiosi e che hanno fatto salire tanti martiri sui patiboli, con gioia più grande che non i re sui loro troni, per il timore di provare gli stessi castighi. Se voi ne dubitate, ascoltatemi un istante, e se voi non siete indurati a questo punto nel quale il buon Dio abbandona il peccatore in balia di se stesso, voi sentirete i vostri rimorsi di coscienza risvegliarsi e straziarvi l’anima. S. Griov. Climaco ci racconta (La Scala Santa, quinto grado) che si recò un giorno in un monastero; i religiosi che lo abitavano avevano talmente la grandezza della giustizia divina impressa nel loro cuore, essi avevano un timore tale di essere arrivati a quello stato nel quale i nostri peccati hanno stancato la misericordia di Dio, che la loro vita sarebbe stata per voi uno spettacolo capace di farvi morire di spavento; essi conducevano una vita così umile, così mortificata e così crocifissa; essi sentivano talmente il peso delle loro colpe; le loro lagrime erano così copiose e le loro grida così strazianti, che quando si avesse avuto il cuore più duro delle pietre, non si sarebbe potuto trattenere di versar lagrime. Quando ebbi aperta la porta del monastero – così il medesimo Santo – io vidi delle azioni veramente eroiche; io udii delle grida capaci di fare violenza al cielo; vi erano dei penitenti che si condannavano di restare tutta la notte sulla punta dei loro piedi; e quando il loro povero corpo cadeva per debolezza, essi si rimproveravano la loro viltà: « Infelice, dicevano a se stessi, se hai così poco coraggio per soddisfare alla giustizia di Dio, in qual modo potrai soffrire le fiamme vendicatrici dell’altra vita? » Altri, avendo sempre gli occhi e le mani innalzate al cielo, mandavano grida capaci di farvi rompere in pianto, siffattamente erano penetrati della gravezza dei loro peccati; altri si facevano legare le mani al dorso come colpevoli; essi si consideravano come indegni di guardare il cielo e si gettavano col volto contro terra: « Ah! mio Dio, esclamavano, ricevete, se così a voi piace, le nostre lagrime, i dolori nostri. » Ve ne erano che erano siffattamente coperti di ulceri, il loro povero corpo era così consunto ed esalava un odore così ributtante che era impossibile rimanere vicino a loro senza morire. Ve ne erano che non bevevano dell’acqua che per non morire; essi avevano sempre l’immagine della morte davanti agli occhi, e si dicevano gli uni gli altri: « Ah! che cosa diventeremo noi? Credete voi che noi progrediamo qualche poco nella virtù? Corriamo, miei amici, nella via della penitenza, uccidiamo questi sciagurati corpi come essi hanno ucciso le nostre povere anime. » Ma quello che era più spaventoso, è, quando uno di essi era vicino ad uscire da questo mondo; tutti i religiosi erano vicini al morente con un volto abbattuto, cogli occhi bagnati di lagrime, si volgevano a lui, dicendogli: « Che pensate di voi stesso ora che siete sul punto di morire? Sperate, credete che le lagrime vostre, il dolor vostro e le vostre penitenze vi abbiano meritato il perdono? Non temete di udire queste terribili parole cadere dalla bocca di Gesù Cristo medesimo: « Ritiratevi da me, maledetto, andate al fuoco eterno? »Ah! rispondevano questi poveri morenti, chi sa se le nostre lagrime hanno placato la giusta collera di Dio? Chi sa se i nostri peccati sono scomparsi dagli occhi di Dio? Che possiamo fare? Abbandonarci alla giustizia di Dio. Essi pregavano il loro superiore di non dar loro sepoltura, ma di gettarli nel mondezzaio, per servire di cibo alle bestie selvagge. – S. Giov. Climaco ci dice che questo spettacolo lo aveva siffattamente spaventato che non poté restare che un mese nel monastero; egli non poteva più vivere. « Quando fui di ritorno – così egli – il mio superiore vide che io ero così cangiato che appena poteva riconoscermi. Or bene! mio fratello, voi avete veduto le fatiche ed i combattimenti dei nostri generosi soldati. Io non potei rispondergli che con le lagrime, tanto questo genere di vita mi aveva spaventato e aveva reso il mio corpo debole e macilento. » – Ora, M. F., ecco Cristiani come noi e meno peccatori di noi; ecco penitenti che non aspettavano che il medesimo cielo di noi, che non avevano che un’anima da salvare come noi. Perché dunque tante lagrime, tanti dolori e tante penitenze? Perché sentivano la gravezza del peso dei loro peccati, e come l’oltraggio che il peccato reca a Dio sia orribile; ecco quello che hanno fatto coloro che hanno compreso la grandezza della sventura di perdere il cielo. O mio Dio! essere insensibili a tante e tante sciagure, non è la più grande di tutte le disgrazie? O mio Dio! Cristiani che mi ascoltano e che hanno la coscienza carica di peccati e che non hanno altra sorte da aspettare che quella dei riprovati! Mio Dio! Possono essi vivere tranquilli? Ah! quanto è sventurato colui che ha smarrita la fede!

II. — Noi diciamo che necessariamente dopo il peccato bisogna far penitenza in questo mondo o nell’altro. Se la Chiesa ha stabilito i giorni di digiuno e di astinenza, è per richiamarci alla mente che essendo peccatori, noi dobbiamo fare penitenza, se vogliamo che il buon Dio ci perdoni; e molto più noi possiamo dire che il digiuno, la penitenza, hanno cominciato col mondo. Vedete Adamo; vediamo Mosè che digiunò quaranta giorni. Noi vediamo pure Gesù Cristo il quale era la stessa santità, restare quaranta giorni in un deserto senza bere né mangiare, per addimostrarci che la nostra vita deve essere una vita di lagrime, di penitenza e di mortificazione. Ah! M. F., dacché un Cristiano abbandona le lagrime, il dolore dei suoi peccati e la mortificazione, è cosa fatta per la religione. Sì, per conservare in noi la fede, è necessario che noi siamo sempre occupati a combattere le nostre tendenze ed a gemere sopra le nostre miserie. – Ecco un esempio che assoda come dobbiamo stare sull’avviso per non concedere alle nostre inclinazioni tutto quello che domandano. Noi leggiamo nella storia che eravi uno sposo unito in matrimonio con una moglie molto virtuosa ed un figlio che camminava sopra le sue tracce. Essi facevano consistere tutta la loro felicità nella preghiera e nella frequenza dei Sacramenti. I santi giorni di domenica, dopo gli uffici, non avevano altra occupazione ed altro piacere che di fare del bene; essi si recavano a visitare gli ammalati e fornivano loro tutti i soccorsi che era nel loro potere. Essendo in casa, passavano il loro tempo a fare delle letture di pietà capaci di animarli nel servizio di Dio. Essi in tal modo nutrivano la loro anima nella grazia di Dio, ciò che formava tutta la loro felicità. Ma come il padre era un empio e un libertino, non cessava di biasimarli e di ridersi di loro, dicendo che il loro genere di vita gli recava grande dispiacere e che un tal modo di vivere non poteva convenire che a persone ignoranti; egli procurava di mettere sotto i loro occhi i libri i più infami e meglio capaci di allontanarli dalla strada della virtù che essi battevano. La povera madre piangeva udendo questo linguaggio e il figlio dalla parte sua ne gemeva. Ma, a forza di vedersi perseguitati, trovando continuamente questi libri davanti a sé, sventuratamente, vollero vedere quello che contenevano; e, ah! senza avvedersene, presero gusto per queste letture che traboccavano di lordure contro la Religione e i buoni costumi. Ah! i loro poveri cuori, altra volta affezionati al buon Dio, si volsero ben presto al male; il loro modo di vivere cangiò interamente; cominciarono ad abbandonare tutte le loro pratiche; non fu più questione né di digiuno, né di penitenza, né di confessione, né di Comunione, di guisa che essi abbandonarono affatto i doveri di Cristiani. Il marito che si avvide, fu contento di vederli voltarsi da questa parte. Come la madre era ancora giovane, tutta la sua occupazione fu di adornarsi, di frequentare i balli e le commedie e prender parte ai piaceri che poteva trovare. Il figlio, dalla parte sua, seguiva le tracce della madre; diventò quindi un grande libertino che scandalizzò il paese che prima aveva edificato. Si abbandonò interamente ai piaceri ed allo stravizzo, di guisa che la madre e il figlio facevano spese enormi e le loro sostanze furono ben presto assottigliate. Il padre, vedendosi indebitato, volle sapere se i suoi beni potrebbero bastare a lasciar loro continuare questo genere di vita di cui egli medesimo era l’autore; ma fu ben sorpreso quando vide che i suoi beni non potevano nemmeno far fronte ai suoi debiti. Allora una specie di disperazione si impadronì di lui; un bel mattino si alza, a mente fredda, ed anzi con riflessione, carica tre pistole, entra nella camera della moglie, e le brucia le cervella; passa nella camera del figlio, gli scarica contro il secondo colpo, l’ultimo fu riserbato per sé. Ah! padre sventurato, avesti almeno lasciato questa povera moglie e questo povero figlio nella preghiera, nelle lagrime e nella penitenza, sarebbero esistiti per il cielo, mentre li hai gettati nell’inferno cadendovi tu stesso. Ora, M. F., quale fu la causa di questa grande sciagura, se non perché avevano cessato di praticare la nostra santa Religione? Ah! M. F., qual castigo può essere paragonato a quello di un’anima, alla quale il buon Dio toglie la fede in punizione dei suoi peccati? Sì, M. F., se noi vogliamo salvare le anime nostre, la penitenza ci è necessaria per perseverare nella grazia di Dio come il respiro per vivere, per conservare la vita del corpo. Sì, siamo ben persuasi che, se noi vogliamo che la nostra carne sia sottomessa al nostro spirito ed alla ragione, è necessario assolutamente mortificarla con tutti i suoi sensi: se noi vogliamo che l’anima nostra sia sottomessa a Dio, è necessario mortificarla con tutte le sue potenze. – Noi leggiamo nella S. Scrittura che quando il Signore comandò a Gedeone di combattere contro i Madianiti, gli ordinò di comandare a tutti i suoi soldati timidi e paurosi di ritirarsi. Parecchie migliaia si ritirarono. Ne rimanevano ancora dieci mila. Il Signore disse a Gedeone: « Tu hai ancora troppi soldati; fa una piccola rivista, ed osserva tutti coloro che bevono attingendo l’acqua nel cavo della mano, ma senza fermarsi; sono questi che tu condurrai al combattimento. » Di diecimila non ne rimasero che trecento (Giud. VII, 6). Lo Spirito Santo presenta questo esempio per farci vedere come esiguo è il numero delle persone che praticano la mortificazione e che saranno salve. E vero, M. F., che la mortificazione non consiste tutta nella privazione del bere e del mangiare, benché sia necessario di non conceder tutto ciò che il nostro corpo domanda, dicendoci S. Paolo: « Io tratto duramente il mio corpo per tema che dopo di aver predicato agli altri, io non sia riprovato. »  – Ma è parimente certo, che una persona che ama i suoi piaceri, che cerca i suoi comodi, che fugge l’occasione di patire, che si inquieta, che mormora e che s’impazienta per la menoma cosa che non riesce secondo i desideri suoi e la sua volontà, non ha che il nome di cristiana; essa non è atta che a disonorare la sua Religione, perché Gesù Cristo ci dice: « Che colui che vuol essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua; che rinunci a se stesso; che prenda la sua croce tutti i giorni della sua vita e mi segua. » (S. Luc. IX, 23). Non occorre dire, M. F., che una persona sensuale non avrà mai quelle virtù che ci rendono accettevoli a Dio e ci assicurano il cielo. Se noi vogliamo avere la più bella di tutte le virtù, che è la castità, sappiamo che è una rosa che non si coglie che fra le spine; e quindi che non si incontrerà, come tutte le altre virtù, che in una persona mortificata. Noi leggiamo nella santa Scrittura (Dan. IX, 3, 22) che l’Angelo Gabriele, essendo apparso al profeta Daniele, gli disse: « Il Signore ha ascoltata la tua preghiera, perché è stata fatta nel digiuno e nella cenere: »; la cenere indica l’umiltà. Noi leggiamo nella storia che due missionari gesuiti (Questi due missionari sono S. Francesco Borgia ed il Padre Bustamante.), essendo a dormire insieme, ve ne ebbe uno che, essendo colto da infreddatura, sputò tutta la notte sopra il suo compagno senza saperlo. Il mattino, vedendo l’altro che si lavava, ne fu sommamente addolorato, e gli domandò perdono. L’altro gli disse: « Mio amico, voi non potevate sputare in un luogo più vile che sputando sopra di me. » Ecco, M. F., un esempio che dimostra fino a qual grado questo buon Padre spingeva la mortificazione.

III. — Ma, mi direte voi, quante sorta di mortificazioni vi sono? — Ecco, ve ne sono due: l’una è interna, l’ultra è esterna, ma vanno sempre associate. Per la mortificazione esterna, essa consiste nel mortificare il nostro corpo in tutti i suoi sensi:

1° Noi dobbiamo mortificare i nostri occhi; non guardar nulla per curiosità, né diversi oggetti che potrebbero risvegliare in noi cattivi pensieri; né leggere libri che non siano capaci che farci praticare la virtù, e che all’opposto possano allontanarci ed estinguere il resto di fede che abbiamo.

2° Noi dobbiamo mortificare le nostre orecchie; non ascoltare con piacere tutte quelle canzoni, quei discorsi che possono adularci e che a nulla approdano: è sempre un tempo mal speso e rapito alle cure che dobbiamo consacrare alla nostra anima; mai prender piacere ad ascoltare le maldicenze e le calunnie. Sì, M. F., noi dobbiamo mortificarci in tutto questo e non essere nel numero di quelle persone curiose le quali vogliono saper tutto quello che si è detto, quello che si è fatto.

3° Noi diciamo che dobbiamo mortificarci nel nostro odorato: mai provar piacere nel sentire ciò che può soddisfare il nostro gusto. – Noi leggiamo nella vita di S. Francesco Borgia che egli non ha mai sentito i fiori, ma che all’opposto si metteva spesso in bocca delle pillole e le masticava (Catapotia dentibus eadem de caussa mandere solitus: « Egli aveva il costume di masticare delle pillole con i denti, per mortificarsi. » Vita di S. Franc. Borgia, cap. xv, Act. SS. t. V oct.., 286) onde punire se medesimo del piacere che poteva aver provato sentendo qualche buon odore o mangiando cibi delicati.

4° In quarto luogo, dico che noi dobbiamo mortificare la nostra bocca; non devesi mangiare per golosità, né più del necessario; non bisogna concedere al corpo nulla che possa eccitare le passioni, non mangiare fuori di pasto senza una necessità. Un buon Cristiano non prende mai il suo cibo senza mortificarsi in qualche cosa.

5° Un buon Cristiano deve mortificare la sua lingua non parlando che in quanto sia necessario per adempiere il proprio dovere e per la gloria di Dio e il bene del prossimo. Vedete Gesù Cristo: per dimostrarci quanto il silenzio sia una virtù che gli è aggradevole e per muoverci ad imitarlo, Egli ha conservato il silenzio per il volgere di trent’anni. Vedete la Ss. Vergine: il Vangelo ci fa vedere che non ha parlato che quattro volte solamente, quando la gloria di Dio e il salvamento del prossimo lo domandavano. Ella parlò quando l’Angelo le annunziò che sarebbe Madre di Dio (S. Luc. I, 34-38) parlò quando si recò a visitare la sua cugina Elisabetta, per metterla a parte della sua felicità (ibid.., 46); parlò al suo Figlio, quando lo ritrovò nel tempio (ibid. II, 48); parlò quando intervenne alle nozze di Cana, rappresentando al suoi Figlio il bisogno di quella gente (S. Giov. II, 3). Noi vediamo pure che, in tutte le comunità religiose, un gran punto delle loro regole è il silenzio; per la qual cosa S. Agostino scrive che colui che non pecca colla lingua è perfetto. (Questa parola è altresì dell’apostolo S. Giacomo: Si quis in verbo non offendit, hic perfectus est vir. S. Giac. III, 2). Noi dobbiamo segnatamente mortificare la nostra lingua quando il demonio ci inspira di dire cattive ragioni, di cantare cattive canzoni, di lasciarci cadere di bocca delle maldicenze e delle calunnie contro il prossimo, di non pronunciare giuramenti e parole triviali.

6° Io dico che dobbiamo mortificare il nostro corpo non concedendogli tutto il riposo che esige, è una virtù di tutti i santi.

Mortificazione interna. In secondo luogo, abbiamo detto che dobbiamo praticare la mortificazione interna. E dapprima, mortifichiamo la nostra immaginazione. Non bisogna lasciarla vagare qua e là, né lasciare che si riempia di cose inutili, segnatamente non lasciarla aggirarsi sopra cose che possano condurre al male, come pensare a certe persone che hanno commesso qualche turpe peccato contro la santa virtù della purità, come pure pensare ai giovani che si maritano; tutto ciò non è che un’insidia che il demonio ci tende per trascinarci al male. Quanti di questi pensieri si presentano è necessario discacciarli. Neppure bisogna lasciarci occupare l’immaginazione, che cosa diventerei, che cosa farei, se fossi… se avessi questo, se mi si concedesse quello, se potessi guadagnare quest’altro. Tutte queste cose a nulla giovano se non a farci gettare via un tempo nel quale potremmo pensare a Dio ed al salvamento dell’anima nostra. È necessario, all’opposto, occupare la nostra immaginazione nel pensare ai nostri peccati per gemerne e per correggerci; spesso pensare all’inferno, per studiare di evitarlo; spesso pensare al cielo, per vivere in modo da meritarlo; spesso pensare alla morte e alla passione di nostro Signore Gesù Cristo, per aiutarci a sopportare i mali della vita in ispirito di penitenza. – Noi dobbiamo di giunta mortificare il nostro spirito: mai voler esaminare se la nostra Religione non è buona, né voler cercare di comprendere i misteri, ma solamente ragionare nel modo più sicuro col quale condurci per piacere a Dio e salvare l’anima nostra. Poscia noi dobbiamo mortificare la nostra volontà, cedendo sempre alla volontà degli altri quando la nostra coscienza non corra pericolo. E farlo senza mostrare che ciò reca pena; all’opposto essere contenti di trovare un’occasione di mortificarci per potere espiare i peccati della nostra volontà. Eccole, M. F., in generale, le piccole mortificazioni che possiamo praticare ad ogni istante, come pure di sopportare i difetti e le sconvenienze di coloro coi quali viviamo. Egli è certo che le persone che non cercano che di accontentarsi nel bere e nel mangiare e nei piaceri che il loro corpo e il loro spirito possono desiderare non piaceranno a Dio, perché la nostra vita deve essere una imitazione di Gesù Cristo. Io vi domando quale rassomiglianza si potrà trovare tra la vita di un ubbriacone e quella di Gesù Cristo, il quale ha passato la sua vita nel digiuno e nelle lagrime; tra quella d’un impudico e la purità di Gesù Cristo; tra un vendicativo e la carità di Gesù Cristo e via dicendo. Ah! che sarà di noi quando Gesù Cristo confronterà la nostra vita con la sua? Facciamo almeno qualche cosa che possa essere capace di piacergli. Abbiamo detto, cominciando, che la penitenza, le lacrime ed il dolore de’ nostri peccati ci consolano grandemente al punto della morte, e di ciò non è a dubitare. Qual felicità per un Cristiano, in quell’estremo momento, in cui egli si esamina per bene  a coscienza, di ricordarsi d’aver non solo osservato i comandamenti di Dio e della Chiesa, ma d’aver trascorsa la sua vita nelle lacrime e nella penitenza, nel dolore de’ suoi peccati e in una continua mortificazione di tutto quanto poteva contentare i suoi gusti. Se noi abbiamo qualche timore, non potremmo dire, come S. Ilarione: « Di che temi, anima mia? sono molti anni che lavori a fare la volontà di Dio e non la tua! abbi fiducia, il Signore avrà pietà di te! » (Vita dei  Padri del deserto, t. V, pag. 208) Per meglio farvelo comprendere vi citerò un bell’esempio: Narra S. Giovanni Climaco (La scala santa), ch’eravi un giovane il quale aveva concepito un gran desiderio di passare la sua vita nella penitenza e di prepararsi in tal modo alla morte; egli non pose alcun limite alle sue penitenze. Allorché la morte giunse, fece chiamare il suo superiore, e gli disse: « Ah! padre mio, qual felicità per me! Oh! quanto sono lieto d’aver vissuto nelle lacrime, nel dolore dei miei peccati e nella penitenza! Il buon Dio, che è sì buono, mi ha promesso il cielo. Addio, padre, io vado a riunirmi al mio Dio del quale ho procurato d’imitare la vita per quanto mi fu possibile: addio, padre mio, io vi ringrazio d’avermi incoraggiato a camminare per questa fortunata strada. » Qual contento per noi, M. F., in quell’istante d’aver vissuto per il buon Dio; d’aver fuggito e temuto il peccato, di esserci privati non solo dei cattivi e vietati piaceri, ma altresì dei piaceri leciti ed innocenti; d’aver frequentato sovente e degnamente i Sacramenti dove abbiamo trovato tante grazie e virtù per combattere il demonio, il mondo e le nostre inclinazioni. Ma ditemi, M. F., che si può sperare in quello spaventoso momento in cui il peccatore vede davanti ai suoi occhi una vita che non fu che una sequela di delitti? Che si può sperare per un peccatore che ha vissuto come se non avesse avuto un’anima da salvare e che credeva che quando fosse morto tutto sarebbe finito; che non ha quasi mai frequentato i Sacramenti, e che, ogni volta che li ha frequentati, non ha fatto che profanarli con cattive disposizioni; un peccatore che, non contento di aver deriso e disprezzato la sua Religione e coloro che avevano il bene di praticarla, fece ogni sforzo per indurre gli altri a battere la sua via d’infamia e di libertinaggio? Ah! qual fremito di disperazione per questo povero disgraziato di riconoscere allora ch’egli non è vissuto che per far soffrire Gesù Cristo, perdere l’anima sua e piombare nell’inferno! Dio mio, quale sventura! tanto più che egli sapeva benissimo che poteva ottenere il perdono de’ propri peccati purché lo avesse voluto. Dio mio, che disperazione per tutta l’eternità! Ecco un ammirabile esempio che ci fa vedere che, se noi siamo dannati, si è perché non abbiamo voluto salvarci. Narrasi nella Storia  (Vita dei Padri, t. I , cap. xv, S. Pafnuzio.) che S. Taide era stata nella sua giovinezza una delle più famose cortigiane che avesse sopportato la terra: nullameno essa era cristiana. Sprofondossi in tutto ciò che il suo cuore, che altro non era che un braciere di fuoco impuro, potesse desiderare; profanò nella crapula tutto ciò che il cielo l’aveva favorita di spirito e di bellezza; la stessa sua madre fu lo strumento di cui l’inferno si servì per gettarla con spaventevole furore in ogni sorta di laidezze, di modo che la sua povera giovinezza trascorse nelle sregolatezze più infami e disonorevoli per una donna. Gli uni si rovinarono per farle dei regali, molti si pugnalarono per non averla potuto possedere. Insomma le sregolatezze di questa commediante formavano lo scandalo di tutta la provincia e motivo di lamento per tutti i buoni. Potete immaginarvi il male che essa faceva, le anime che perdeva, gli oltraggi che infliggeva a Gesù Cristo per le anime che induceva al peccato. Nella sua infanzia era stata bene istruita, ma i suoi disordini e la violenza delle sue passioni avevano estinto in essa tutte le verità della Religione. Nonostante ciò, il buon Dio volle manifestare la grandezza delle sue misericordie, ben sapendo che la sua conversione ne produrrebbe altre; e, gettando su di essa uno sguardo di compassione, andolla a cercare Lui stesso in mezzo alle lordure più infami. Per compiere questo gran miracolo della sua grazia si servì d’un santo solitario al quale fece conoscere questa famosa peccatrice con tutti i suoi disordini. Il Signore gli comandò di andare a trovare questa cortigiana. Questo solitario era S. Pafnuzio. Egli assunse l’abito di cavaliere, si fornì di denaro, e partì alla volta della città ove essa abitava. Siccome egli era guidato da Dio stesso, giunse direttamente ove ella stava, e chiese di parlarle. Taide che nulla sapeva di tutto ciò, lo condusse in una camera remota e magnificamente arredata. Allora il santo le domandò se essa non ne aveva altra più remota ove potesse sottrarsi agli occhi di Dio medesimo. « Eh! state sicuro, gli disse la cortigiana, che nessuno verrà: ma se voi temete la presenza di Dio, non è ch’Egli è da per tutto? »  Il santo fu grandemente meravigliato a sentirla parlare del buon Dio: « Come! le disse, conoscete voi il buon Dio? » — « Sì, rispose ella; ed oltre a ciò, io so che vi è un paradiso per coloro che lo servono fedelmente, ed un inferno per coloro che lo disprezzano. » — « Ma come va – soggiunse il santo – che con tutte queste conoscenze potete vivere nel modo che vivete, e da molti anni, preparandovi a voi stessa un inferno? » Queste sole parole del santo, avvalorate dalla grazia del buon Dio, furono come un colpo di fulmine che abbatterono la nostra cortigiana come S. Paolo sulla via di Damasco. Ella si gettò ai suoi piedi profondendosi in lacrime e pregandolo in grazia di aver pietà di lei, di impetrare misericordia per essa dal Signore. Si protestò pronta a compiere tutto quanto ordinasse, per provare se il buon Dio volesse ancora perdonarla. Non domandò che una dilazione di tre ore per metter ordine alle sue faccende: dopo si recherebbe nel luogo da lui assegnato per non pensare più ad altro che a piangere i propri peccati. Avendole il santo concesso tal dilazione, radunò ella quanti poté dei libertini che si erano profondati con essa nel peccato, li condusse sulla pubblica piazza, e là, in loro presenza, si spogliò di tutti i suoi vezzi: fece portare i mobili acquistati con l’oro delle sue infamie, ne fece una catasta e vi appiccò il fuoco, senza nulla dire perché così operasse. Dopo ciò lasciò la piazza per recarsi presso il santo che l’aspettava, il quale la condusse in un monastero di donzelle. Egli la chiuse in una cella di cui suggellò la porta, e pregò una religiosa di portarle qualche pezzo di pane e un po’ d’acqua. Taide domandò al santo qual preghiera dovesse fare nel suo ritiro per muovere il cuore di Dio. Il santo le rispose: « Tu non sei degna di pronunziare il nome di Dio, né di innalzare le tue mani impure al cielo. Ti basti di volgerti verso l’oriente e dire con tutto il dolore del tuo cuore e nell’amarezza dell’anima tua: « O voi che mi avete creata, abbiate pietà di me. » Ecco tutta la preghiera ch’ella fece pel corso di tre anni che rimase in quel bugigattolo, durante i quali non perdette mai di memoria i suoi peccati. Ella pianse sì tanto, maltrattò sì crudelmente il suo corpo, che quando S. Pafnuzio andò a consultare S. Antonio per sapere da lui se il buon Dio le avesse usato misericordia, S. Antonio, dopo aver passata la notte in orazione co’ suoi religiosi per tal fine, gli disse, che il buon Dio aveva rivelato a uno dei suoi religiosi, il quale era S. Paolo il Semplice, che uno splendido trono stava preparato in cielo per la penitente Taide. Allora il santo pien di gioia e d’ammirazione che in così poco tempo avesse ella soddisfatto alla giustizia di Dio, andolla a trovare per dirle che i suoi peccati le erano perdonati, e che doveva lasciare la sua cella. Il santo le domandò ciò ch’essa avesse fatto in questi tre anni. Ella rispose: « Padre mio, io misi i miei peccati al mio cospetto come un mucchio, e non ho cessato di piangerli e d’invocar misericordia. » — « Ed è appunto per questo – ripigliò S. Pafnuzio – che tu hai conquistato il cuore di Dio, e non per altre tue penitenze. » Avendo abbandonata la sua cella per recarsi in un monastero, ella non sopravvisse che quindici giorni, dopo i quali andò a cantare in cielo la grandezza della divina misericordia. – Da quest’esempio, M. F., noi vediamo quanto presto possiamo guadagnare il cuore di Dio, purché il vogliamo, senza ricorrere a grandi penitenze. Qual rimpianto pel volgere dell’eternità per non aver voluto farci alquanta violenza per abbandonar il peccato! Sì, M. F., noi lo vedremo un giorno che noi avremo potuto soddisfare alla giustizia di Dio con null’altro che con le piccole miserie della vita, che siamo costretti a sopportare nella condizione a cui il buon Dio ci ha posti, se noi vorremo nello stesso tempo aggiungere qualche lacrima ed un sincero dolore de’ nostri peccati. Qual rammarico d’esser vissuti e d’esser morti nel peccato, allorché vedremo che Gesù Cristo ha tanto patito per noi e che tanto desiderava di perdonarci, se gli avessimo domandato perdono! Dio mio, quanto è cieco e sventurato il peccatore! Noi abbiamo timore della penitenza. Ma osservate, M. F., come si comportavano coi peccatori ne’ primordi della Chiesa. Coloro che volevano riconciliarsi col buon Dio si recavano nel mercoledì delle Ceneri alla porta della chiesa cogli abiti sucidi e laceri. Entrati in chiesa si spargeva loro la testa di cenere, si dava loro un cilizio cui dovevano portare tutto il tempo della loro penitenza. Dopo ciò si imponeva loro di prostrarsi contro terra, mentre si cantavano i sette salmi penitenziali per implorare sur essi la misericordia di Dio; poscia si faceva loro un’esortazione per indurli a praticar la penitenza con tutto lo zelo possibile, sperando che forse il buon Dio si lascerebbe placare. Dopo tutto ciò erano avvisati che sarebbero scacciati dalla chiesa con ignominia, come Dio scacciò Adamo dal paradiso terrestre dopo il suo peccato. Non appena usciti si chiudeva sopra di loro la porta della chiesa. Ma se desiderate sapere in qual modo passavano questo tempo, quanto durava questa penitenza, eccolo: primieramente erano obbligati a vivere ritirati, oppure ad occuparsi in lavori penosi; avevano alcuni giorni nella settimana in cui dovevano digiunare a pane ed acqua, secondo la gravità de’ loro peccati; lunghe preghiere durante la notte prosternati con la faccia contro terra; si coricavano sopra tavole; si alzavano più volte la notte per piangere i loro peccati. Si facevano passare per vari gradi di penitenza; le domeniche comparivano alla porta della chiesa vestiti di cilicio, col capo cosparso di cenere, rimanendo fuori esposti all’intemperie; si prosternavano dinanzi ai fedeli che entravano in chiesa, scongiurandoli con le lacrime agli occhi di pregare per loro. A capo di un certo tempo, era loro concesso di ascoltare la parola di Dio, ma appena fatta l’istruzione erano cacciati di chiesa; molti non erano ammessi alla grazia dell’assoluzione se non in punto di morte; e ciò era ancora tenuto per un gran favore che faceva loro la Chiesa, dopo aver passati dieci o vent’anni o più ancora nelle lacrime e nella penitenza. Ecco, M. F., come la Chiesa si comportava altra volta verso i peccatori che volevano davvero convertirsi. Se ora desiderate sapere chi erano coloro che si sottomettevano a queste aspre penitenze, vi dirò che erano tutti, dal mandriano all’imperatore. Se ne volete un esempio, eccone uno che abbiamo nella persona dell’imperatore Teodosio. Costui avendo peccato più per sorpresa che per malizia, S. Ambrogio gli scrisse, dicendogli: « Questa notte ho avuto una visione in cui il buon Dio m’ha fatto conoscere che voi venivate alla chiesa, e mi comandò di non lasciarvi entrare. » Leggendo questa lettera, l’imperatore pianse amaramente; tuttavia egli andò a prostrarsi, come al solito, alla porta della chiesa con la speranza che le sue lacrime e il suo pentimento commuoverebbero il santo vescovo. Quando S. Ambrogio lo vide avanzarsi, gli disse: « Fermatevi, o imperatore, voi non siete degno di entrare nella casa del Signore. » L’imperatore a lui: « È vero, ma anche Davide peccò, ed il Signore lo ha perdonato. » — « Ebbene, replicò gli S. Ambrogio, poiché voi lo avete imitato nel peccato, seguitelo nella penitenza. » A tali parole l’imperatore si ritira, senza nulla dire, nel suo palazzo, si toglie le insegne imperiali, si prosterna con la faccia contro terra e si abbandona a tutto il dolore di cui era capace il suo cuore. Per ben sette mesi non mise più piede nella chiesa. Allorché vedeva andarvi i suoi famigliari, mentre a lui era proibito, lo si udiva gridare in modo tale da commuovere i cuori più induriti. Quando poi gli si permetteva di assistere alle pubbliche preghiere, egli stava, non come gli altri, in piedi o in ginocchio, ma col volto prosternato a terra, nella maniera la più commovente, battendosi il petto, strappandosi i capelli ed amaramente piangendo. Per tutta la vita non dimenticò il suo peccato; non poteva pensarvi senza spargere lacrime. E così, M. F., voi vedete ciò che fece un imperatore che non volle perdere l’anima sua. – Che dobbiamo conchiudere, M. F.? Ecco: Giacché è assolutamente necessario piangere i nostri peccati, farne penitenza o in questo mondo o nell’altro, scegliamo la meno rigorosa e la meno lunga. Qual rammarico, F. M., giungere al punto di morte senza nulla aver fatto per soddisfare alla giustizia di Dio! Quale sventura l’aver non curato tanti mezzi che abbiamo di patir qualche miseria, che se noi le avessimo sopportate in pace per amor del buon Dio, ci avrebbero meritato il perdono! Quale sventura l’aver vissuto nei peccato, sperando sempre che lo avremmo lasciato, e morire senza averlo fatto! Prendiamo, F. M., un’altra strada che vantaggiosamente ci consolerà in quel momento; lasciano il male, cominciamo dal piangere i nostri peccati e tolleriamo tutto ciò che il buon Dio a  lui piacerà d’inviarci. Che la nostra vita non sia che una vita di rimordimenti, di pentimento de’ nostri peccati e d’amor di Dio, finché noi abbiamo la felicità d’unirci a Lui per tutta l’eternità. È quanto vi auguro…

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui.

[Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo.

[Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem …

[Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (6)

I sette Angeli con le trombe (Ap. VIII, 1-5)

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (6)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770]

LIBRO SECONDO

COMINCIA LA STORIA DELLA CHIESA QUINTA

(Ap. III, 1-6)

Et angelo ecclesiæ Sardis scribe: Hæc dicit qui habet septem spiritus Dei, et septem stellas: Scio opera tua, quia nomen habes quod vivas, et mortuus es. Esto vigilans, et confirma cetera, quæ moritura erant. Non enim invenio opera tua plena coram Deo meo. In mente ergo habe qualiter acceperis, et audieris, et serva, et poenitentiam age. Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur et nescies qua hora veniam ad te. Sed habes pauca nomina in Sardis qui non inquinaverunt vestimenta sua: et ambulabunt mecum in albis, quia digni sunt. Qui vicerit, sic vestietur vestimentis albis, et non delebo nomen ejus de libro vitae, et confitebor nomen ejus coram Patre meo, et coram angelis ejus.  Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis.

[E all’Angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Queste cose dice colui che ha i sette Spiriti di Dio e le sette stelle: Mi sono note le tue opere, e come hai il nome di vivo, e sei morto. Sii vigilante, e rafferma il resto che sta per morire. Poiché non ho trovato le tue opere perfette dinanzi al mio Dio. Abbi adunque in memoria quel che ricevesti e udisti, e osservalo, e fa penitenza. Che se non veglierai verrò a te come un ladro, né saprai in qual ora verrò a te. Hai però in Sardi alcune poche persone, le quali non hanno macchiate le loro vesti: e cammineranno con me vestiti di bianco, perché ne sono degni. Chi sarà vincitore, sarà così rivestito di bianche vesti, né cancellerò il suo nome dal libro della vita, e confesserò il suo nome dinanzi al Padre mio e dinanzi ai suoi Angeli. – Chi ha orecchio, oda quello che dica lo Spirito alle Chiese.]

[5] All’angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle: Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti. Si riprendono così i sacerdoti pigri – che abbiamo citato sopra – che non guardano né incoraggiano il popolo, non si fidano di Dio con tutta l’anima, né conservano la retta fede nella verità. Si chiamano Cristiani solo di nome, pensano di essere giunti alla vita cristiana, ma sono morti, e così sono rimproverati affinché vigilino e rivedano le varie cose in cui possono aver peccato; perciò avverte: ricordati di come hai ricevuto ed ascoltato la mia parola: conservala e pentiti. Vuole riportare alla memoria la dottrina apostolica, ed ordina di adempiere ciò che si era promesso nel battesimo della fede: di pentirsi dei mali del passato. Tu hai, – dice – un nome come di uno che vive, ma sei morto. Muore soltanto chi ha commesso un crimine mortale. Rianima ciò che sta per morire; questo lo dice solo a coloro che sono nel Sacerdozio, che sono costituiti nel ministero, e che peccano nell’adempiere al loro dovere, e per il peccato vanno alla morte (Rm. V, 12). Infatti chi ha perso il ministero della dottrina non può essere rianimato. Molti leggono, eppure sono digiuni della stessa dottrina.  Molti sentono la voce della predicazione, e dopo averla sentita si ritirano ancor più vuoti. Anche se il loro ventre mangia, la loro anima e le loro viscere non sono piene, perché anche se recepiscono con la loro mente la conoscenza della parola sacra, dimenticandola e non adempiendo ciò che hanno sentito, non trattengono queste cose nelle viscere del loro cuore. Perciò il Signore ne rimprovera alcuni attraverso il profeta, dicendo: « Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non tanto da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino ad inebriarvi » (Ag. I, 5). Semina molto nel cuore ma miete poco, chi conosce molti dei comandi divini perché li ha letti o ascoltati ma, lavorando con negligenza, miete poco. Mangia e non si sazia chi ascolta la parola divina, ma desidera i beni e la gloria del mondo. Si dice giustamente che chi mangia una cosa e ne desidera un’altra non è soddisfatto. Chi beve e non si disseta è colui che inclina l’orecchio alla parola della predicazione, ma non cambia la sua mente. Il senso dei bevitori che si ubriacano è spesso alterato. Chi è devoto nella conoscenza della parola di Dio, ma desidera raggiungere i beni di questo mondo, beve ma non si disseta; perché se si ubriacasse, certamente cambierebbe la sua mente. Ecco perché dice: non ho trovato le vostre opere perfette agli occhi del mio Dio. Perché se fossero perfette, essi cercherebbero le cose celesti e non desidererebbero le cose terrene. Non amerebbero più le vanità e le cose passeggere che amano. Il salmista dice degli eletti: « si saziano del grasso della tua casa » (Psal. XXXV, 9); infatti questi sono così pieni dell’amore di Dio onnipotente, che con il cambiamento della mente, sembrano alieni a se stessi, ed adempiono ciò che è scritto: chi vuole venire dietro di me rinneghi se stesso (Mt. XVI, 24). Si nega se stesso quando si cambia in meglio e si comincia ad essere ciò che non si era, cessando di essere ciò che si era. A volte vediamo alcuni che si commuovono dalla parola della predicazione come se si convertissero: costoro hanno cambiato i vestiti, non l’anima; assumono sì un abito religioso, ma non prima di essersi liberati dei vizi del passato; si agitano barbaramente per gli stimoli della rabbia; sono spinti alla sfida del loro prossimo da un sentimento di malvagità; sono orgogliosi per alcuni beni che mostrano agli occhi dell’uomo; cercano inutilmente i beni del mondo attuale e confidano solo nella santità del solo abito esterno che hanno assunto. Perciò, si dice giustamente: non ho trovato le vostre opere perfette agli occhi del mio Dio. Colui che è morto è già stato giudicato da Dio. Non solo non possiede opere perfette agli occhi del mio Dio, ma non ha assolutamente nulla. Certamente così è morto; perciò è chiaro che il cattivo Vescovo o Sacerdote è stato reindirizzato a compiere tutto il suo dovere, e gli è stato detto: resta sveglio e rianima ciò che ti è rimasto e che sta per morire. Perché non ho trovato le tue opere perfette agli occhi del mio Dio. Ricordati dunque di come hai ricevuto ed ascoltato la mia parola: conservala e pentiti. È questo ciò che dice a tutto il lignaggio della Chiesa, alla quale presiede, e alla quale come richiamo dichiara: perché se non state attenti, io verrò come un ladro e voi non saprete a che ora verrò sopra di voi. Si ritorna alla figura del servo malvagio « … se dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano » (Mt. XXIV, 48). Abbiamo già detto più volte che in questo unico servo è rappresentato il corpo di tutti i Vescovi. E con questi Vescovi, sono considerati un unico corpo tutti i membri della Chiesa, che sono i popoli, e la Chiesa è rappresentata – come detto – da un solo uomo, e l’occhio del suo capo è il Vescovo, la mano del suo corpo è il Presbitero, e il piede ne è il Diacono. E cosa fa quest’uomo se non ricondurre tutti i sensi nella sua testa, affinché veda con i suoi occhi, cioè ricordi il passato, ordini il presente e preveda sempre il futuro, indagando appassionatamente l’occulto dei Testamenti di Dio: la Legge ed il Vangelo; che ascolti con le orecchie, affinché ciò che ode, possa attuarlo con le mani; odori con il naso, affinché discerna ciò che di odoroso sia da ritenere, o ciò che per il fetore sia da scartate; dica con la bocca ciò che ha riconosciuto essere attraverso questi tre sensi in questi tre testimoni: credere con il cuore ciò di cui ha parlato, operare con le mani ciò che ha creduto, rincorrere con i piedi ciò che ha deciso di fare con le mani. E quando ha fatto questo, anche se tutto l’uomo sembra fatto di molte membra, la cosa essenziale è, tuttavia, che se tutte le membra hanno una testa sana, può fare quel che vuole; ed infatti, se la testa è malata, l’occhio senza pupilla, le orecchie senza udito, il naso senza olfatto, la lingua senza loquela, il cuore senza intendimento, le mani senza operazioni e i piedi senza cammino, cosa fa quest’uomo, se non è di alcuna utilità né per se stesso né per gli altri? Se c’è un Vescovo negligente, l’occhio di quella testa è senza pupilla. Se egli ha un clero pigro, cioè i ministri della sua diocesi, è un orecchio senza udito; se questi non correggono la negligenza delle persone loro affidate, è come un naso senza olfatto. Se non proclama la Legge ed il Vangelo, o non la fa proclamare, è una lingua muta. Se ciò che deve essere compreso nelle Scritture viene inteso in modo diverso da come è da intendere, è un cuore senza comprensione. Se ordina sacerdoti ignoranti, o male istruiti, o neofiti, è una mano senza opere. Se ordina dei diaconi pigri, è un piede che non cammina. Comprenda da questi membri citati cosa potrebbe essere utile per gli altri membri. E se per caso un Vescovo dicesse: sono un santo, sono religioso, non ho commesso alcun peccato mortale, penso di potermi salvare, e quindi cosa mi importa degli altri? … gli risponderei: « vuoi festeggiare con il Re? Sei stati invitato al pranzo di nozze dell’Agnello? Ma se hai le mani sporche, non puoi mangiare con il Re alla stessa tavola: vale a dire: se hai preti sudici, non puoi banchettare con il Re alla stessa festa ». Forse dirà ancora il Vescovo: io conduco una vita religiosa, e non spetta a me giudicare come sono i diaconi … Ma risponderei a questo: « siete stati – come detto – invitati alla cena? Ma non potete sdraiarvi con il Re sullo stesso letto se i vostri piedi sono sporchi, cioè se i diaconi della vostra diocesi, o i presbiteri, sono pigri e sudici, ed anche se sembrate santi nella vostra condotta, subirete un castigo, non solo per voi stessi, ma pure per il gregge che vi è stato affidato ». – Facciamo un altro esempio: cosa fa quest’uomo di cui parliamo, se in inverno nel suo cammino è oppresso dal freddo gelido e da una forte nevicata? L’arguzia del contadino utilizza di solito un martello, che la gente comune chiama “anello”; egli ha pure una pietra che colpisce con quello stesso ferro; ha un acciarino, con cui viene acceso il fuoco con le scintille che ne saltellano. Taglia poi la legna, ne fa un mucchio e gli dà fuoco dal di sotto, e quando comincia a bruciare, quelli che vogliono scaldarsi vengono a frotte da diverse parti, uno dopo l’altro. E tutti ricevono fuoco da quel medesimo fuoco, potendo così accendere un proprio fuoco, anche se il loro numero dovesse essere molto grande. E sopravvivono così pur nella neve, con il fuoco acceso, tutti quelli che senza fuoco potevano morire: questo simboleggia la Scrittura divina. Nella Legge si nasconde il fuoco dello Spirito Santo, come in una pietra di silice. E perché non dica forse qualche calunniatore: … come osi paragonare la pietra di silice alla Legge…, ascolta il Signore che rimprovera la Giudea attraverso il profeta Ezechiele: « figlio dell’uomo, ti mando ad un popolo che si è ribellato contro di me » (Ez. II,3), Come diamante, più dura della selce ho reso la tua fronte (Ez. III, 9). Cosa si intende per fronte se non la conoscenza? Che cos’è un volto duro se non la Legge, dove si nascondeva lo Spirito Santo, in cui potevano riconoscersi? Come possiamo interpretare il ferro del collegamento (l’“anello”) se non con il Vangelo? Il Signore dice del ferro a coloro che lo seguono ed ai vincitori, attraverso lo stesso Giovanni: a colui che custodisce le mie opere, fino alla fine; io gli darò potere sopra le nazioni: le governerà con uno scettro di ferro, come si frantumano i vasi di argilla come anch’io le ho ricevute dal Padre mio (Ap. II, 26-28). Cosa fa la pietra focaia senza l’anello di collegamento? Cosa fa la Legge senza il Vangelo? Non è essa fredda e glaciale? Il Signore dice di questo gelo: « … per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. » (Mt. XXIV, 12). L’esca, con cui è acceso lo stesso fuoco dello Spirito Santo in mezzo a questi due elementi, e che si diffonde da questa esca, è l’uomo che possiede il fuoco, che è lo Spirito Santo che, attraverso le mani della Chiesa, abbiamo già detto essere i Sacerdoti, i quali mediante la Legge ed il Vangelo fanno bruciare questo fuoco, di cui il Signore dice: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e vorrei che fosse acceso » (Lc. XII, 49). Vedete che il Signore vuole che esso bruci; ma l’occhio senza la pupilla non aiuterà, per mezzo della pietra della Legge, del ferro del Vangelo e dell’esca del corpo, a portarli all’unità; e la mano tumida non può agire su entrambi, né può con i suoi colpi liberare il fuoco latente nella lettera con le scintille della predicazione, né accendere il fuoco dello Spirito Santo, né con la falce della predicazione tagliare o bruciare i boschi o le spine dei peccati; e nell’inverno di questo mondo tutti coloro che avrebbero potuto vivere per sempre con questo fuoco, muoiono invece senza questo fuoco. Questo è l’uomo al quale questo libro parla, risponde, insegna e spinge al pentimento. Questo è il servo infedele che, conoscendo la volontà del suo Signore, non la compie. Questo è colui che nasconde il talento ricevuto – cioè la parola della predicazione – sotto terra, cioè nei beni terreni. Questo è il servo che dice nel suo cuore: il mio Signore tarda a venire (Mt. XXIV, 51); ma il Signore verrà inaspettatamente, in un momento inatteso. Poi lo separerà e lo metterà a parte tra gli ipocriti: non che lo divida in parti, ma lo distinguerà completamente dai Santi. Ascoltate e temete ciò che dice di nuovo di lui e temete ciò che dice ai servi. Dice infatti: legategli la mani e i piedi, cioè legatelo insieme ai suoi presbiteri e diaconi e con le persone che lo hanno imitato, e gettatelo nelle tenebre esteriori: e là sarà pianto e stridor di denti » (Mt. XXII, 13). Si dice di queste tenebre attraverso il santo Giobbe: « terra di miserie e di tenebre, dov’è ombra di morte e disordine » (Giob. X: 22). La miseria significa il dolore, e le tenebre la cecità. Ciò che li tiene lontani dallo sguardo del Giudice severo è definito come una terra di miseria e di tenebre, perché all’esterno il dolore affligge chi è lontano dalla vera luce, all’interno è oscurato con la cecità. La terra di miserie e di tenebre può essere intesa pure in modo diverso. Infatti questa terra, dove siamo nati, è certamente anche terra di miseria, ma non è terra di tenebre, perché subiamo qui molti mali a causa della nostra corruzione; però, senza dubbio torniamo alla luce con il desiderio della conversione, secondo quanto consiglia la “Verità” che dice: « … Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre » (Giov. XII, 35). Quella terra è nello stesso tempo di miseria e di tenebre perché chiunque si abbassi a tollerare i suoi mali, non torna nuovamente alla luce, e per la cui descrizione si aggiunge « terra di oscurità e di disordine » (Giob. X, 22). Come la morte esteriore separa il corpo dall’anima, così la morte interiore separa l’anima da Dio. L’ombra della morte è l’oscurità della separazione, perché il dannato, mentre viene bruciato dal fuoco eterno, è accecato dalla mancanza di luce interiore. La natura del fuoco è quella di mostrare che la luce ed il calore provengono da esso, mentre la fiamma vendicativa dei peccati commessi ha solo il fuoco, anche se non ha luce. Questo è ciò che la Verità dice al reprobo: « allontanati da me, maledetto, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli » (Mt. XXV, 41). E ancora ad uno solo, il che significa come in una sola persona si indichi il corpo di tutti, si dice: legatelo con i piedi e con le mani, e gettatelo nelle tenebre esteriori. Se il fuoco che brucia il reprobo avesse luce, non avrebbe detto a colui che viene riprovato che è stato mandato nelle tenebre, perché coloro che sono divorati dal fuoco della gehenna, sono accecati nella visione della vera luce, per cui così esternamente sono tormentati dal dolore del bruciore, mentre internamente li lacera il dolore della cecità. Coloro che hanno trasgredito al loro Creatore con il corpo ed il cuore, infatti, vengono puniti sia nel corpo che nel cuore, e subiscono il castigo in entrambi, poiché di essi – qui vivendo – hanno abusato per le loro malvagie passioni; perciò Paolo dice giustamente: « … non offrite le vostre membra come armi di iniquità al servizio del peccato » (Rm. VI, 13). Scendere all’inferno “con le armi” significa soffrire i tormenti del giudizio eterno nelle stesse membra con le quali è stato appagato il desiderio del piacere; così come il dolore consumerà in ogni parte coloro che, sottomessi ai loro piaceri, combattono ovunque la giustizia di Colui che giudica rettamente. – Si rivolge poi a colui che ora rimprovera ripetutamente e dice: Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te. – Il giudizio di Dio è improvviso e segreto, nessuno conosce l’ora del giudizio che verrà; ma la misericordia non punisce quei miserandi nella loro totalità, ma al contrario li consola dicendo: Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni. Così tutti coloro che non si sono macchiati col sudiciume del peccato, camminano con il Signore vestito di bianco, diventano degni di seguire le orme dell’Agnello, ed il loro nome non sarà cancellato dal libro della vita, dal momento che Egli li riconoscerà davanti al Padre suo che è nei cieli e davanti ai suoi Angeli. Grandi sono le lodi a favore di chi combatte, cioè i pochi tra tante persone sudicie. Perché non è molto lodevole l’essere buoni tra i buoni, ma lo è invece l’essere buoni stando tra i cattivi. Come infatti è maggior demerito l’essere cattivi tra i buoni, così è un grande merito essere buoni tra i cattivi. Per questo il Beato Giobbe ha detto: « Sono divenuto fratello dei draghi e compagno degli struzzi. » (Giob. XXX, 29). E ad Ezechiele è aggiunto: « Increduli e ribelli sono con te e ti troverai in mezzo agli scorpioni » (Ez. II, 6). Viene offerto qui un rimedio consolante a coloro che spesso trovano la vita tediosa perché non vogliono abitare con i malvagi. Ci chiediamo: perché, allora, non sono buoni tutti quelli che vivono con noi? Noi non vogliamo sopportare i mali degli altri e giudichiamo che dovremmo essere tutti santi ora, anche se non vogliamo essere pazienti nel sopportare il prossimo. Ma questo è più chiaro della luce: se non abbiamo ancora imparato a sopportare i cattivi, è perché noi stessi abbiamo ancora poca bontà. Nessuno è buono, finché non abbia imparato a sopportare i malvagi. Perché – come abbiamo detto sopra – diceva Giobbe, io ero il fratello di draghi e il compagno degli struzzi. Cosa si intende con il nome di draghi se non la vita degli uomini cattivi, di cui il profeta dice:  e aspirano l’aria come draghi » ? (Ger. XIV, 6). Poiché i malvagi, che respirano l’aria come draghi, si gonfiano di malefico orgoglio. Cosa suole intendersi poi con il nome di struzzi se non coloro che sono dei falsi? Infatti lo struzzo ha le ali, ma non vola. Così questi falsi hanno una sorta di santità, ma non hanno la virtù vera della santità; li decora l’apparenza del buon atto, ma le ali della virtù non li sollevano in alcun modo da terra. Per questo l’Apostolo Paolo dice ai suoi discepoli: « … immacolati in mezzo ad una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo » (Fil. II, 15). Perciò Pietro esalta il Beato Lot, dicendo: « … Liberò invece il giusto Lot, angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati » (2 Pt. II, 7). Egli era un giusto nell’aspetto e nell’udito, viveva tra coloro che ogni giorno tormentavano l’anima dei giusti con opere inique. Per questo l’Angelo della Chiesa di Pergamo viene avvisato, per mezzo di Giovanni col dire: « So dove vivete, dove si trova il trono di satana. Siete fedeli al mio nome e non avete rinnegato la mia fede. » Spesso, quando ci lamentiamo e siamo disgustati dalla vita dei nostri vicini, vogliamo cambiare luogo, e cerchiamo di ottenere una dimora più appartata, ignorando però che se ivi non c’è lo Spirito Santo, il luogo da sé non aiuta. Lo stesso Lot, di cui parliamo, è rimasto santo a Sodoma, ed ha peccato sulla montagna. Chi cerca luoghi nuovi, non curandosi della propria anima, finisce come lo stesso primo padre del genere umano e ha per testimone quello stesso che è caduto in Paradiso. Infatti. se il luogo avesse potuto salvare, satana non sarebbe caduto dall’alto del cielo. Perciò il Salmista, vedendo le tentazioni che sono ovunque in questo mondo, cercò un luogo dove fuggire, ma senza Dio non poté trovare un rifugio sicuro. Per questo chiedendo un posto per sé, cercandolo, diceva: « Sii per me la rupe che mi accoglie, la cinta di riparo che mi salva » (Sal. XXX, 3). Bisogna quindi saper sopportare il prossimo ovunque, perché non si può diventare Abele, senza che chi è tormentato dalla malizia di Caino non lo possa imitare un po’. C’è però un motivo per cui bisogna evitare la compagnia dei malvagi, se non si ha la forza di correggerli, in modo che non si venga attirati nella loro imitazione; infatti siccome non si convertono dalla loro malizia, pervertono coloro che vivono insieme ad essi. Per questo Paolo dice: « Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi » (1 Cor. XV, 33). E – come si dice attraverso Salomone – : « Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non imparare i suoi costumi e procurarti una trappola per la tua anima. » (Prov. XXII, 24). Allo stesso modo gli uomini perfetti non devono evitare i loro vicini malvagi, perché così spesso si trascinano i vicini sulla retta via, senza essere trascinati da essi sulla cattiva strada; i deboli invece devono abbandonare la compagnia dei malvagi, perché non si compiacciano nell’imitare i mali che spesso vedono senza poterli correggere. Infatti ascoltando ogni giorno le parole dei nostri prossimi, le accogliamo nella nostra mente, allo stesso modo in cui sospirando e respirando introduciamo aria nel corpo, cosicché l’aria nociva, ripetutamente introdotta col respiro, si diffonde nel corpo; anche le cattive conversazioni ascoltate frequentemente danneggiano le anime dei deboli, che così si perdono per amore delle cattive opere indotte dall’iniquità delle ripetute conversazioni. È necessario notare ciò che dice il Signore: « … molti sono i chiamati, ma pochi sono gli eletti » (Mt. XX, 16); e « piccolo è il gregge » (Lc. XII, 32), al quale Egli ha promesso di dare l’eredità. Per questo pure dice: Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni. Chiama così questi altri ad indossare i suoi abiti, dicendo: “… Il vincitore sarà vestito da bianche vesti“. Non riconoscono i pochi Santi che il vivere in mezzo ad una moltitudine di macchiati sia stato dato loro, perché fossero in grado di mantenersi incontaminati? Infatti non possono essere Santi se non coloro che gemono e piangono a causa delle iniquità che si compiono in mezzo a loro: per la nequizia degli spiriti dell’aria, quanto più grande è il male che vedono, tanto più grande è l’afflizione che ne traggono come penitenza; e quelli che non ce l’hanno, non sono Santi! – I cattivi fratelli possono anche non vedere i giusti sia a motivo della similitudine della professione che unanimemente svolgono, sia per le loro virtù simili, ma essi non traggono merito dall’afflizione della penitenza; e, vedendosi nello stesso tipo di religione, pensano di essere loro simili anche se non brillano di segni esteriori di vera santità e, senza testimonianza, pensano che nessuno sia giusto; ma da dove viene quello che essi stessi dicono: « … la loro stessa presenza ci è insopportabile » ? (Sap. II 15). – E non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi Angeli. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

TERMINA LA CHIESA QUINTA NEL LIBRO SECONDO

COMINCIA LA CHIESA SESTA NEL LIBRO SECONDO

(Ap. III, 7-13)

Et angelo Philadelphiæ ecclesiæ scribe: Hæc dicit Sanctus et Verus, qui habet clavem David: qui aperit, et nemo claudit: claudit, et nemo aperit: Scio opera tua. Ecce dedi coram te ostium apertum, quod nemo potest claudere: quia modicam habes virtutem, et servasti verbum meum, et non negasti nomen meum.  Ecce dabo de synagoga Satanæ, qui dicunt se Judæos esse, et non sunt, sed mentiuntur: ecce faciam illos ut veniant, et adorent ante pedes tuos: et scient quia ego dilexi te, quoniam servasti verbum patientiæ meæ, et ego servabo te ab hora tentationis, quae ventura est in orbem universum tentare habitantes in terra.  Ecce venio cito: tene quod habes, ut nemo accipiat coronam tuam. Qui vicerit, faciam illum columnam in templo Dei mei, et foras non egredietur amplius: et scribam super eum nomen Dei mei, et nomen civitatis Dei mei novae Jerusalem, quae descendit de cœlo a Deo meo, et nomen meum novum. Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis.

(E all’Angelo della Chiesa di Filadelfia scrivi: Così dice il Santo e il Verace, che ha la chiave di David: che apre, e nessuno chiude: che chiude, e nessuno apre: Mi sono note le tue opere. Ecco io ti ho messo davanti una porta aperta, che nessuno può chiudere: perché hai poco di forza, ed hai osservata la mia parola e non hai negato il mio nome. Ecco io (ti) darò di quelli della sinagoga di satana, che dicono d’essere Giudei, e non lo sono, ma dicono il falso: ecco io farò sì che vengano e s’incurvino dinanzi ai tuoi piedi: e sapranno che io ti ho amato. Poiché hai osservato la parola della mia pazienza, io ancora ti salverò dall’ora della tentazione, che sta per sopravvenire a tutto il mondo per provare gli abitatori della terra. Ecco che io vengo tosto: conserva quello che hai, affinché niuno prenda la tua corona. Chi sarà vincitore, lo farò una colonna nel tempio del mio Dio, e non ne uscirà più fuori: e scriverò sopra di lui il nome del mio Dio, e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme, la quale discende dal cielo dal mio Dio, e il mio nuovo nome. Chi ha orecchio, oda quel che lo Spirito dica alle Chiese.)

INIZIA LA SPIEGAZIONE DELLA CHIESA SOPRA DESCRITTA

[6] Scrivi all’angelo della chiesa di Filadelfia: Così dice il Santo, il Verace che ha la chiave di Davide: se apre, nessuno può chiudere; se chiude, nessuno può aprire. David in latino significa “fortes manu = forte di mano”. Perché era davvero forte in battaglia. Egli era il desiderato, nel loro lignaggio, dalla sua stirpe. Di lui il Profeta aveva annunciato: Verrà, l’atteso da tutti i popoli (Ag. II, 8), e cioè Gesù Cristo incarnato, che ha la chiave di Davide, e che ha aperto tutti i misteri della Legge e dei Profeti che erano stati sigillati e chiusi sotto la lettera che uccide, mentre li ha fatti conoscere alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito che dà la vita; infatti se Cristo non fosse venuto, non ci sarebbe stato nessuno ad aprire ciò che era chiuso. Egli ha la chiave di Davide, cioè il potere regale che possiede sulla sua Chiesa. È chiaro che ai suoi che bussano, Egli apre, mentre chiude la porta della vita agli ipocriti – cioè ai falsi – quando bussano dicendo: Signore, Signore, aprici …  (Lc. XIII, 25); a questi Egli dice: « Non vi conosco. Partitevi da me, voi operatori di iniquità. » Ma ai suoi Santi dice: « Chiedete e riceverete, cercate e troverete, bussate e la porta vi sarà aperta » (Mt. VII, 7). Che cosa è il “chiedere” se non amare Dio con mente vigile, con tutto il cuore, con tutta l’anima, e con tutte le forze, con diligente devozione e con ininterrotta preghiera? Questo è il chiedere a Dio! E che cosa è “cercare” se non il pensare in ogni momento al bene e sradicare dal proprio cuore ogni pensiero nocivo? Questo vuol dire il cercare Dio! E che cosa è “chiamare” se non operare sempre il bene con le proprie mani, amare il prossimo come se stesso, amare il proprio nemico per amore di Dio, e sopportare pazientemente tutte le ingiurie? E se qualcuno ti prende qualcosa per appropriarsene, oltre alla tunica che ti ha preso, non esitare a dargli anche il mantello. Per questo il Signore dice nel Vangelo: « Se ami chi ti ama, che ricompensa ne avrai? » (Mt. V, 46) Ma quando si ama chi ci odia, è allora che c’è la vera ricompensa davanti a Dio, come dice il Profeta: « con chi odia la pace, ero pacifico » (Psal. CXIX, 6): questo è dare la propria anima per il fratello. Per questo Salomone dice: « … L’amore è più forte della morte » (Cant. VIII, 9). E non solo amiamo, ma offriamo loro qualcosa del nostro profitto e dei nostri risparmi, in modo da poter dare loro una parola di esortazione per poterli congiungere in un’amichevole alleanza in qualità di membri del Signore, cioè nella Chiesa. Per questo Giacomo dice: « Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati. » (Gc. V, 19). Oltre a queste cose, secondo il costume apostolico, “bussare” è lavorare con le proprie mani e non essere di aggravio a nessuno, distribuire i propri beni ai bisognosi e non desiderare i beni altrui. Infatti, anche se distribuiamo tutti i nostri beni ai poveri, nulla sarà più prezioso per Dio, né più caro, che lavorare con le nostre mani; e quando avremo fatto questo, ci prepareremo e ci siederemo a mangiare, come dice l’Apostolo: « Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi » (2 Tess. III, 10). Questo è proprio del “bussare” al quale Dio promette di aprire. Perché a chi lavora, Dio promette il cibo che certamente darà non in questo secolo, bensì nel futuro. Egli dice: « Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed Io vi ristorerò » (Mt. XI, 28). Ma all’ozioso e al pigro dirà: « Hai già ricevuto la tua ricompensa » (Mt. VI, 5), « perché avevo fame e non mi avete dato da mangiare  » (Mt. XXIII, 35), e così via… « Allontanatevi dunque da me, voi operatori di iniquità », voi che lavorate per l’iniquità (Lc. XIII, 27). Ma ai suoi Santi dice: Ti ho aperto una porta. Ma prima dice: se apro, nessuno può chiudere; come a dire: la porta che io apro alla Chiesa, nessuno pensi che la chiuda ad uno qualsiasi o anche all’ultimo dei Santi di tutto il mondo o di qualsiasi parte di esso, o che la porta che ho aperto una volta, un eretico qualsiasi possa richiuderla. Ma se si chiede, si cerca e si bussa, farò così come ho promesso. E poiché senza Dio non possiamo esistere, né vivere, né lavorare, il Signore ordinò al servo lavoratore di tagliare le spine delle ricchezze, di sradicare i vizi, di spargere il letame dei peccati nel campo fuori casa, di seminare il seme del buon lavoro nel campo coltivato, e di chiudere la porta della fede. Una volta che il seminatore ha fatto questo, di solito dorme, e quel seme germoglia, e mette radici e foglie, e cresce giorno e notte con la pioggia ed il sole che non manca; anche vari semi di altre erbe tendono a crescere, cioè la zizzania, che l’uomo cattivo semina quando il seminatore dorme. Ma quando il seminatore ha detto: « alzati, Signore, perché dormi? » (Psal. XLIII, 24), entrando nel campo del corpo, raccoglie ciò che è grande, ma ciò che è insignificante non lo tocca, perché non lo considera un ostacolo alla raccolta. Questa è la Chiesa: lavora, e il Signore manda la pioggia dei suoi precetti, respinge le cavallette dei demoni e spaventa le malvagie potenze dell’aria, calma le tempeste degli uomini malefici e fa fuggire il “cinghiale” – che è il principe malvagio della terra -, protegge e difende ogni giorno il suo raccolto, il raccolto che dice di avere in comune con il contadino. È questa Chiesa che accoglie i contadini ed i Santi che sono gli umili nel mondo che, pur ignorando le Scritture, hanno una fede incrollabile, né terrorizzati si allontanano dalla fede per alcuna circostanza. Perciò si dice loro: ho aperto una porta davanti a voi, aggiungendo, perché, anche se di poca potenza, avete conservato il verbo della mia pazienza, e vi conserverò nell’ora della tentazione. Riconoscano in tal modo la loro gloria nella Chiesa. E poiché sono semplici ed umili, e non irritano nessuno tentandolo malignamente, il Signore non permette loro di essere tentati seppure in piccola misura. Questa è la Chiesa che sceglie per sé il Signore per la sua liberale compassione, senza l’aiuto di filosofia alcuna o di alcuna dottrina. E mentre Egli rimprovera ciascuna delle suddette chiese nei suoi sacerdoti, questa Chiesa è invece governata dallo stesso Pastore celeste. – I. Nella prima Chiesa di Efeso accusa i falsi apostoli e l’amore che hanno perduto. – II. Nell’angelo della Chiesa di Smirne, rimprovera i falsi fratelli, che dicono di essere religiosi e non lo sono, ma che si sono già fisicamente collocati tra i membri dell’Anticristo. – III. Nell’angelo della chiesa di Pergamo, rimprovera i falsi religiosi per aver mangiato carne sacrificata agli idoli e seguito la dottrina dei Nicolaiti. – IV. Ancora una volta, all’angelo di Tiatira viene rimproverato di tollerare Jezebel la profetessa, che è un simulacro, cioè un’apparenza di Chiesa. V. Nell’angelo della Chiesa di Sardi, denuncia i Vescovi, che ne hanno solo il nome, ma di fatto sono morti. Citandoli come un unico corpo, Egli dice: Ricordate come avete sentito e ricevuto la mia parola. – VI. Nell’angelo di Filadelfia, che in latino si traduce con “colei che salva”, è descritto colui che crede nel Signore, e che con rustica semplicità e retta fede si mantiene nell’inviolabile osservanza della devozione. E poiché senza Dio non possiamo sostenere le nostre forze, è Lui stesso che combatte e vince per noi. E anche se fa questo da sé, attribuisce comunque i successi alla sua Chiesa, e contemplandone la debolezza dice: so che, pur avendo poca di forza, hai mantenuto la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. Aveva detto prima: vi ho aperto una porta – e cioè la fede evangelica, la predicazione apostolica – che nessuno può chiudere. … Anche se hai poca di forza. Conoscendo la fragilità umana, il Signore compassionevole dice: Ho aperto per te la porta della sapienza ed i segreti della fede in modo tale che, a causa della tua esigua virilità, nessuno abbia il potere di chiudere le cose che ti sono state aperte. … Avete mantenuto la mia parola e non avete rinnegato il mio nome. E giacché aveva già affermato più sopra la potenza del suo dono, il Signore le attribuisce anche la grazia che ha concesso alla sua condotta; poiché con il dono che il Signore ha concesso, il servo ha conservato la fede e non ha rinnegato il suo Nome eterno. Gli dice: hai poco di forza. È la lode del Dio protettore, ed anche della devozione della Chiesa, che fa sì che Dio con un po’ di forza apra la porta al vincente, e con un po’ di forza irrobustisca la fede. Perché non è il potere che va cercato, ma la fede. Infatti una donna sola, Giuditta, non ha ucciso Oloferne con la sua forza, ma per la sua fede. Né si poteva credere che il sesso debole avesse potuto strappare via la spada con la mano, ucciso il persecutore della Chiesa, sottomesso i plotoni dei nemici: non era opera dell’audacia temeraria, ma della fiducia nella virile fermezza. Così pure i figli d’Israele, testimoni di tanti ammirevoli atti di potenza, perché dubitavano nella loro fede in Dio, patirono varie disgrazie, e perirono nel deserto. Pur mangiando la manna, furono uccisi dai serpenti, altri anche dal fuoco e dalla spada. Per il loro mormorio e la diffidenza, non solo non entrarono nella Terra Promessa, ma persero per sempre i regni celesti. Così molti, escono pure dall’Egitto di quest’epoca, entrano nello stretto sentiero del deserto e conoscono la manna della grazia celeste, cioè i segreti delle Scritture; ma non trovano la via della promessa celeste se non solo i semplici, gli ignoranti ed i puri di cuore. Anche se sono stati istruiti, non possono trovare la strada se non hanno imitato i rozzi Apostoli. Dio non ha chiamato all’apostolato prima i letterati, o i filosofi, o gli oratori, ma i semplici, i poveri ed i pescatori. Mai uno dei filosofi avrebbe potuto dire: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » (Mt. XVI, 16). Demostene, Cicerone o il filosofo Catone non avrebbero mai potuto dire: « In principio era il Verbo, il Verbo era con Dio »(Gv. I, 1). E sappiamo che gli Apostoli Pietro e Giovanni, non erano filosofi, ma ignoranti ed illetterati. Pietro, con la sua mano callosa, predicando semplicemente il Figlio di Dio, venne a Roma per annunciarlo allo stesso imperatore e padre del popolo romano, quale dato alla luce da una Vergine, non come Romolo, che fu allattato da una lupa. Si vede quindi che non è stata la parola del filosofo a riempire il mondo, ma quella dell’ignorante Pietro, che riconosce l’uomo-Figlio di Dio. Il suo corpo gloriosissimo riposa in una tomba nella città di Roma, ma la sua parola brilla in tutto il mondo. Anche se una tomba può custodire il suo corpo, eppure la sua benefica influenza è evidente ovunque. Con devozione l’imperatore viene a venerare la sua tomba, a baciare i piedi di quell’ignorante, e si toglie la corona dalla testa. Di chi è questo potere se non di colui che credeva con fede perfetta e predicava con dedizione totale? Vediamo chiaramente che « … Dio ha scelto i deboli del mondo per confondere i forti. E ha scelto la stoltezza del mondo per confondere i saggi del mondo » (1 Cor. 1, 27); ha scelto la povertà e la semplicità del mondo per confondere i ricchi orgogliosi. Il Signore infatti non rimprovera i saggi, né i forti, né i ricchi del mondo, perché Egli è il saggio, il forte ed il potente; ma solo rimprovera – come abbiamo detto – i superbi, coloro cioè che non conoscono Dio e ripongono la loro speranza nelle loro ricchezze. Ecco così che molti uomini giusti hanno compiaciuto Dio con le proprie ricchezze, Abramo lo testimonia dicendo: Parlerò al mio Signore, io che sono polvere e cenere? (Gen. XVIII: 27). La ricchezza non è un impedimento, né lo è la saggezza, là dove abbonda l’umiltà. Il giusto pecca in un modo, in altro invece il peccatore o il malvagio. In un modo cade il giusto, e in un altro il malvagio. Infatti è proprio vero che: … i giusti cadono sette volte, ma si rialzano (Prov. XXIV, 16); questi non commettono un peccato tale da non essere più rialzati, quando si ride di taluno, o si lancia una contumelia, o sovviene un indegno pensiero. Si dice che quest’uomo pecca, eppure lo si chiama a ragione “giusto”. Egli infatti non cade in modo tale da non essere più giusto, perché sta scritto: « Se cade, non rimane a terra, perché il Signore lo tiene per mano. » (Psal. XXXVI, 24). Così il Signore rimane anche quando il giusto cade, perché non pecca in modo tanto grave al punto che il Signore gli si allontani. Ha concupiscenza per la debolezza della carne, ma non acconsente al desiderio, fermato dalla virtù della grazia spirituale. La stessa concupiscenza è per la legge del peccato, stabilita anche nelle membra dei Santi. Eppure la Grazia di Dio libera i suoi giusti per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo. Per questo motivo « … Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; » (1 Pt. II, 24). Quando l’uomo giusto cade, contrae un debito. Ma i debiti dell’uomo giusto sono diversi, e ne chiede perdono quando, nel Padre Nostro, dice con verità: « Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. » Infatti i peccati dei Santi sono debiti dovuti alle necessità  dell’infermità. I peccati dei malvagi sono dovuti all’intenzione di una cattiva volontà. Nei primi si trova solo il principio del peccato, tale che non viene realizzato, perché il vizio, pur nascendo dalla debolezza, è vinto dalla grazia di Dio. Questi altri, però, privati dell’aiuto della grazia, sono rigettati dalla cattiva volontà alla li conduce il perverso desiderio. È per questo che i peccati dei Santi sono chiamati peccati, ma non crimini. È per questo che vengono corretti dal Padre, perché non siano puniti dal Giudice. Questa correzione, però, appartiene sì ad un giudizio, ma paterno, con il quale Dio punisce e flagella i suoi figli con misericordia, onde liberarli dal tormento della dannazione eterna. Per questo il beato Apostolo dice: « Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati, quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo » (1 Cor XI, 31-32). I peccati dei malvagi si compiono in tre modi: o mediante sacrilegio, o per incontinenza o mediante cattive opere. Una persona commette sacrilegio se non pensa rettamente di Dio, e per mera cecità, per perversità del suo cuore si separa dalla vera fede per paura di perdere i suoi beni temporali. Il peccato di incontinenza è commesso da chi vive senza freni e vergognosamente. Pecca con opere malvagie chi ferisce crudelmente un altro, o con danno, o con qualsiasi altro tipo di oppressione. Quando i Santi peccano, cadono in tanti peccati per debolezza umana, ma mai in maniera da rinnegare ostinatamente la vera fede, né da contaminarsi, né dal danneggiare il prossimo; essi seguono l’Apostolo, che dice di: « … vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo » (Tt. II, 12). E in un altro luogo dice: « non gustare più di quanto ti convenga gustare, ma assaggia con sobrietà » (Rm. XII, 3). Certo, secondo questa triplice divisione: viviamo rettamente, sobriamente e con pietà: vive sobriamente chi non segue i piaceri della lussuria; vive giustamente colui che non fa mai del male al prossimo, ma gli fa del bene nella misura delle sue possibilità; vive con pietà chi per nessun motivo si separa dall’assemblea dell’unità della Chiesa e, posto all’interno della Chiesa, osserva senza esitare ciò che chiaramente sa appartenere alla scienza della vera fede. E quelle cose che non sa o di cui dubita, o che non può capire dalle Scritture, le scopre meditando e leggendo con umiltà e pazienza, finché, anche se sa qualcosa con altri mezzi, lo sa perché è Dio che glielo rivela. La sobrietà, la giustizia e la pietà, che tutti i fedeli devono avere, sono legate tra loro in modo tale che, se manca una di esse, anche le altre che sembra avere, non gli sono di alcuna utilità. La sobrietà, con cui ognuno si astiene dai desideri, cioè dai peccati, non salva se non è accompagnata dalla giustizia e dalla pietà, cioè se non si creda rettamente in Dio, e se non si dia al prossimo con piacere ciò che la carità richiede. Né produce frutto la giustizia, per mezzo della quale ognuno dà al prossimo ciò che desidera sia dato o fatto a se stesso, se nello stesso tempo non è sobrio e pio. Ugualmente è morta la pietà, che rettamente crede in Dio e nell’unità della Chiesa, se la castità o l’amore per il prossimo non l’accompagnano. La vera salute dell’anima si acquista, quindi, se si osserva la pietà nella fede, la giustizia nell’amore, la sobrietà nella castità e nell’affabilità. E per insegnarvi brevemente ciò che accade all’interno della Chiesa, osservando quel che accade nella conduzione dei rapporti umani, dai quali possiamo più facilmente prendere esempio e capire chiaramente, consideriamo le anime di tutti i battezzati, come spose unite in matrimonio. Infatti l’Apostolo ha parlato del grande mistero del matrimonio stesso in Cristo e nella Chiesa (Eph V, 32). Così è per ogni anima fedelmente unita a Cristo come una sposa che vive fedelmente con il suo sposo, e che mantenendo la castità del matrimonio a volte rattrista l’anima del suo uomo, ma conserva la fedeltà del suo talamo con una castità limpida, e con prudenza e moderazione amministra i beni del marito; così se da un lato offende il marito, dall’altro vive castamente e fedelmente con lui. E quando la debolezza umana fa talvolta che ella manchi verso il marito, la castità coniugale la rende dolcemente unita ad esso. Ma quella donna che, dopo aver lasciato la casa del marito, o restando nella stessa casa del marito, venga coinvolta in un adulterio e sperperi i beni del marito, non è considerata degna di perdono, ed è ritenuta colpevole di delitto mortale. Tale è l’anima che, acconsentendo al diavolo, si abbandona all’infedeltà, non credendo rettamente in Dio, o è coinvolta in crimini secondo i piaceri della lussuria, o commette ingiustizie a danno del prossimo, oppure è avida e non fa del bene ai bisognosi, vive in  modo empio, si allontana dall’unità della Chiesa, o commette un atto di superbia contro qualcuno. Di tutti questi l’Apostolo dice: « Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. » (1 Cor. VI, 9). Tutte queste cose sono considerate crimini e peccati. Ma le colpe dei giusti sono considerate peccati, non crimini. Un peccato si commette quando diciamo o una leggera bugia, o una contumelia senza danneggiare, o nella disciplina della cura della famiglia, per cui l’uomo non riesce a vivere o stare senza peccato per un solo giorno, come dice l’Apostolo Giovanni: se diciamo “non abbiamo peccato”, inganniamo noi stessi (1 Gv. I, 8). La colpa è nel pensiero malvagio che non si realizza esteriormente, né con le parole, né con i fatti. Per questo l’Apostolo dice: « E se il giusto a stento si salverà, che ne sarà dell’empio e del peccatore? » (1 Pt. IV: 18). – Poi continua a parlare dei nemici della Chiesa che si sottometteranno, e dice: Vi consegnerò alcuni della sinagoga di Satana, quelli che si dichiarano Giudei ma non lo sono, e che in realtà mentono. Li farò venire e li farò inchinare davanti ai tuoi piedi, affinché sappiano che Io ti ho amato. Dice che tutti i nemici e gli avversari della Chiesa saranno giudicati dalla Chiesa Cattolica, così come già l’Apostolo: « quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele » (Mt. XIX, 28). Sicuramente allora verranno coloro che si considerano Giudei, cioè uomini religiosi, e non lo sono: e si inchineranno ai piedi della Chiesa, e sapranno che il Signore l’ha amata. Questo è promesso a tutta la Chiesa per il futuro quando Egli l’avrà raccolta da ogni nazione: perché non solo la Chiesa di Filadelfia ha creduto, ma anche le altre Chiese. Al secondo Angelo della Chiesa di Smirne dice: sarete calunniati da coloro che si definiscono Giudei ma non lo sono: ma non promette, però, che verranno e si inchineranno davanti ai piedi della Chiesa, cioè davanti ai piedi del Corpo di Cristo. Noi crediamo che questo si realizzerà in futuro, e anche se tutti in questo mondo venissero a supplicare la penitenza davanti ai piedi della Chiesa, tuttavia questo deve essere inteso che avverrà del mondo futuro. Perciò al sesto Angelo, che precede il settimo, promette ciò che ha concesso senza promessa agli altri Angeli di cui sopra, cioè alle Chiese: perché il Signore non si aspetta che solo una sola Chiesa faccia penitenza, ma tutte e sette, perché in tutto il mondo c’è una sola Chiesa. Se dovesse succedere qualcosa ad un membro, tutto il corpo ne risentirebbe. Ed aggiunge: Poiché avete tenuto fede alla mia raccomandazione di essere pazienti nella sofferenza, vi terrò anche fuori dall’ora di prova che verrà su tutto il mondo, per mettere alla prova gli abitanti della terra. Ecco, così ha rivelato molto chiaramente che si riferiva non solo al mondo presente, ma anche a quello futuro. Ed ha promesso di mantenere la promessa alla sua Chiesa negli ultimi giorni, quando l’Anticristo, il nemico del genere umano, verrà a mettere alla prova gli abitanti della terra: così che chi vivrà allora non sarà turbato nell’ora della prova. Come allora non era Filadelfia l’unica ad essere indicata, anche se questo era stata promesso solo a lei, così è pure ora. Infatti, se solo Filadelfia, o allora l’Africa, avesse ricevuto la raccomandazione di Dio di avere pazienza, perché avrebbe poi avvertito che in seguito le prove si abbatteranno sul mondo intero? Diciamo chiaramente che non c’è nessuno al mondo che sia tentato, se non la Chiesa. E quello che dice a Filadelfia, lo dice a tutta la Chiesa. E siccome è la sua Chiesa, Egli promette ogni giorno la tutela della protezione, dicendo: vi terrò lontani dall’ora della prova che sta arrivando su tutto il mondo. Come è accaduto in Africa, così è giusto che avvenga in tutto il mondo, che cioè l’Anticristo si manifesti, come si è manifestato anche a noi in parte; e che questo sia il genere dell’ultima persecuzione nel tempo in cui l’Anticristo verrà; e che non succeda se non un’afflizione come non c’è mai stata fin dall’inizio dell’umanità; e che la Chiesa debba superare l’Anticristo ovunque, come lo ha superato già in parte, serve a mostrarci come sarà l’ultima battaglia. Perché l’Anticristo è sempre sconfitto dalla Chiesa. Ma non avverrà, come alcuni pensano, che l’Anticristo perseguiterà la Chiesa in una sola regione, perché dice infatti che ci sono anticristi ovunque. L’Anticristo sarà l’ultimo re che regnerà su tutto il mondo e che si proclamerà egli stesso Dio, cioè il Cristo. Ma ora l’Anticristo è nascosto nella Chiesa, perché non gli è ancora stato apertamente concesso il potere. Ma quando arriverà, assoggetterà il mondo intero al suo potere. Come si dice di lui attraverso Giobbe: « … trae dietro di sé tutti gli uomini e innanzi a sé una folla senza numero. » (Giob. XXI, 33). Qui ci si riferisce a coloro che godono dei beni terreni. Ma poiché il mondo intero è più che “senza numero”, dobbiamo capire perché dice che davanti a sé c’è una folla innumerevole e dietro di lui tutti gli uomini. Questo se non perché l’antico nemico, padrone dell’uomo reprobo, e cioè dell’Anticristo, strapperà via tutti quelli che trova nella carne, e li assoggetterà sotto il giogo del suo potere: colui che ora, ancor prima di apparire, ne trascina via certamente di innumerevoli, ma indubbiamente non tutti i carnali. Infatti per la misericordia di Dio molti sono restituiti ogni giorno dall’opera carnale alla vita ed allo stato di giustizia: alcuni ritornano con una breve, altri con una lunga penitenza. E quindi non li trascina via tutti, ma innumerevoli, perché non mostra ancora tutti i segni mirabili dei miracoli della sua falsità. Ma quando a suo tempo, davanti agli occhi della carne, farà, come i maghi, segni ammirevoli ai suoi stessi occhi, allora ne trascinerà dietro di sé innumerevoli e tutti. Perché chi in questo mondo si delizia per le piacevoli ricchezze presenti, si sottomette al suo potere senza alcuna resistenza. Ma, come abbiamo detto prima, attrarre tutti gli uomini è più che attrarne innumerevoli, perché dice sopra che trascina tutti gli uomini e poi che ne attira innumerevoli? L’ordine era che egli dicesse prima ciò che è meno, cioè gli “innumerevoli”, e poi, in numero crescente, dicesse ciò che è di più, cioè “tutti”. Ma si deve capire che qui gli “innumerevoli” citati sono più che “tutti”; e che trascina ogni uomo dietro di lui, perché in tre anni e mezzo, “tutti” quelli che troverà impegnati nella vita carnale, saranno sottomessi al giogo del suo dominio. E ne trascina dietro innumerevoli, perché per cinquemila e più anni, anche se non ha potuto trascinare tutti i carnali, eppure sono stati molti di più, in così tanto tempo, di quelli che trova da trascinare poi alla fine. Si dice, allora, correttamente: dietro di lui trascina tutto il mondo e davanti a lui una folla innumerevole: perché allora trascina meno, quando finalmente trascina tutto, e ora ne trascina di più pur non invadendo il cuore di tutti, perché il vero Cristo non ha ancora lasciato il centro della Chiesa, ed infatti dice: Verrò presto, tenete stretto ciò che avete, perché nessuno vi porti via la corona. Predice la Sua imminente venuta, e che la distruzione di satana avverrà molto rapidamente. E come annuncia che non ci sarà un lunga prova, così avverte che il nemico non prenderà la sua corona. Come dice Salomone: « … per non mettere in balìa di altri il tuo vigore e i tuoi anni in balìa di un uomo crudele » (Prov. V: 9). Poiché ci è stata data grande fiducia nell’affermare la perseveranza della Chiesa dovunque nella prova, dobbiamo rispondere alle calunnie di quelli che dicono che la Chiesa sta diminuendo, e che sarà ridotta al numero della casa di Noè perdendo molte delle sue corone, in quanto il Signore ha detto: conservate con fermezza ciò che avete, perché nessuno vi tolga la vostra corona, non considerandone l’aumento o la crescita; infatti se la corona viene data ad un altro, non è perduta; il posto vacante è di chi ha perso ciò che aveva. Che cosa è ciò che dice: perché nessuno ti tolga la corona, se non che non si trattiene ciò che si ha, affinché non lo prenda un altro, e noi non lo perdiamo, se non perché Dio ha voluto mostrare che si dovesse mantenere la fermezza nelle sue promesse, senza lasciare spazio a vane speranze? Questo perché alcuno si vanti vanamente della promessa di Dio e rimanga pigro e tiepido; e, vivendo in qualsiasi modo sotto la Religione, si consideri figlio di Abramo, avendo Dio promesso ad Abramo con giuramento che nella sua discendenza avrebbe ereditato tutti i popoli (Gen. XVI, 3). Per questo Egli avverte di conservare con fermezza, e ordina di tener duro, affinché nessuno la porti via, dal momento che la corona può essere tolta a chi non persevera, e che solo chi è visto non cadere e perseverare fino alla fine, avrà per sempre la sua corona. Questa è la potenza, questa è la fermezza delle promesse di Dio, che, avendo ripudiato alcuni figli di Abramo, ne suscita ancor più numerosi dalle pietre (Mt. III, 9), affinché il malvagio non si glori di essere figlio di Abramo, né Abramo perderà i suoi figli essendogli Dio debitore [della promessa] e Colui che li nutre. Così è impossibile che il numero dei Santi sia ridotto dalla malizia delle zizzanie che crescono; è impossibile, come abbiamo detto, che il raccolto sia strappato da mezzo della zizzania. Se viene strappato, non è raccolto con la zizzania, perché Dio giudice ha permesso ad entrambi di crescere fino alla maturazione. A coloro che persevereranno dice: Farò del vincitore una colonna nel santuario del mio Dio e non ne uscirà più. Chiamò “colonna” il membro prezioso e utile a molti, che avrebbe unito al suo corpo, per servire di ornamento e forza, come dice l’Apostolo Paolo: « Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la loro destra in segno di comunione » (Gal. II, 9). Nel tempio del mio Dio, cioè nella moltitudine dei Santi. E non ne uscirà, disse, mai più. Cioè dalla compagnia dei Santi; certamente non lascerà mai il merito e la gloria degli eletti. I gentili erano venuti da Dio, come sta scritto in Davide: « Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli » (Psal. XXI, 28). Si riferisce a coloro che Egli annuncia venire dalla sinagoga di satana. Questi infatti erano usciti, con uno scisma, fuori dalla casa di Dio. E si riferisce in modo particolare a questi, quando dice che non usciranno più, manifestando ciò che avverrà nell’ultima lotta finale. Perché ci sarà, dopo l’unità, un’altra separazione nella lotta finale, dalla quale se qualcuno sarà coinvolto, non ne uscirà più. Per questo motivo, il Signore ha permesso ad alcuni di uscire perché dovessero essere liberati più tardi, in modo che avessero il tempo di tornare: a questi, negli ultimi giorni, non permetterà però più di uscire, perché chi poi esce, non avrà più il tempo di tornare. E scriverò su di lui il nome del mio Dio, e il nome della città nuova, Gerusalemme, che scende dal cielo inviata dal mio Dio: affinché sia suggellato con il nome divino, e sia adornato con la gloria dell’immortalità, e riceva il nome della città divina, la nuova Gerusalemme, che è “la visione di pace”, così da godere del riposo eterno e della tranquillità della sicurezza. Essa è la città che scende dal cielo inviata da Dio, perché i Santi vivano in essa e si riposino …  e il mio Nome nuovo. Nulla è antico in Dio, che non invecchi con l’età, ma il Nome di Dio è sempre nuovo, sempre retto. E coloro che sono segnati con questo nome e trasferiti nel regno eterno, ottengono la vita eterna. In questo mondo il nome della Chiesa discende ogni giorno dal cielo mandato da Dio, cioè sempre la Chiesa nasce dalla Chiesa per mezzo di Dio. La chiamò nuova per la novità del Figlio dell’uomo, Gesù Cristo, ed è la Gerusalemme, e il mio “nuovo Nome”, che è il nome dei Cristiani, come prima della sua venuta venivano chiamati cristi, sacerdoti e dei, i governanti dell’uomo; ma non era questo il loro un nome nuovo, perché ce n’erano molti e nessuno di essi poteva salvare il mondo, ma solo lo poteva il Signore Gesù Cristo, cioè il Re Salvatore. Solo questo Re è Salvatore: questo è il nuovo Nome che sta al di sopra di ogni altro nome (Fil. II,9). Questo è il Re dei re, che è al di sopra di tutti i re. E non perché questo sia nuovo per il Figlio di Dio, come se fosse iniziato allora; infatti, non essendo veramente così, diciamo nuovo – ma solo nella carne – Colui che fin dal principio, prima della creazione del mondo, ha la stessa gloria del Padre. Eppure questo è nuovo per il Figlio di Dio, che è morto volontariamente ed è risorto, perché ne aveva il potere, ed è seduto alla destra di Dio; è “Figlio dell’uomo” quel che dice essere il “mio Nome nuovo”. È Lui che, all’inizio di questo libro, abbiamo visto tra i sette candelabri d’oro. Questi è il Figlio dell’uomo, Gesù, nel cui nome ogni ginocchio si piega in cielo, in terra e nelle profondità (Fil. II,10). Chi ha orecchio, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. Ogni volta che lo Spirito dice cose che dovrebbero essere comprese in modo diverso da come risuonano all’orecchio, conclude dicendo questo: Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese.

TERMINA LA SPIEGAZIONE DELLA CHIESA SESTA

INIZIA LA CHIESA SETTIMA NEL SECONDO LIBRO

(Ap. III, 14-22)

Et angelo Laodiciaæ ecclesiæ scribe: Hæc dicit: Amen, testis fidelis et verus, qui est principium creaturæ Dei. Scio opera tua: quia neque frigidus es, neque calidus: utinam frigidus esses, aut calidus: sed quia tepidus es, et nec frigidus, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo: quia dicis: Quod dives sum, et locupletatus, et nullius egeo: et nescis quia tu es miser, et miserabilis, et pauper, et cæcus, et nudus.  Suadeo tibi emere a me aurum ignitum probatum, ut locuples fias, et vestimentis albis induaris, et non appareat confusio nuditatis tuae, et collyrio inunge oculos tuos ut videas. Ego quos amo, arguo, et castigo. Æmulare ergo, et poenitentiam age. Ecce sto ad ostium, et pulso: si quis audierit vocem meam, et aperuerit mihi januam, intrabo ad illum, et coenabo cum illo, et ipse mecum. Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in throno meo: sicut et ego vici, et sedi cum Patre meo in throno ejus. Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis.

[ “E all’Angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: Queste cose dice l’amen, il testimone fedele e verace, il principio delle cose create da Dio. Mi sono note le tue opere, come non sei né freddo, né caldo: oh fossi tu freddo, o caldo: ma perché sei tiepido, e né freddo, né caldo, comincerò a vomitarti dalla mia bocca. Perciocché vai dicendo: Sono ricco, e dovizioso, e non mi manca niente: e non sai che tu sei un meschino, e miserabile, e povero e cieco, e nudo. Ti consiglio a comperare da me dell’oro passato e provato nel fuoco, onde tu arricchisca, e sia vestito delle vesti bianche, affinché non comparisca la vergogna della tua nudità, e ungi con un collirio i tuoi occhi acciò tu vegga. Io, quelli che amo, li riprendo e li castigo. Abbi adunque zelo, e fa penitenza. Ecco che io sto alla porta, e picchio: se alcuno udirà la mia voce, e mi aprirà la porta, entrerò a lui, e cenerò con lui, ed egli con me. Chi sarà vincitore, gli darò di sedere con me sul mio trono: come io ancora fui vincitore, e sedei col Padre mio sul trono. Chi ha orecchio, oda quel che lo Spirito dica alle Chiese.”]

TERMINA LA STORIA DELLA SETTIMA CHIESA

INIZIA IL COMMENTO ALLA STORIA DELLA SETTIMA CHIESA PRECEDENTEMENTE DESCRITTA NEL SECONDO LIBRO

[7] Scrivi all’angelo della Chiesa di Laodicea: Così parla il fedele e vero testimone  del principio delle creature di Dio: Conosco la tua condotta: tu non sei né caldo né freddo. Magari tu fossi freddo o caldo; ma siccome sei tiepido, e non sei né caldo né freddo, ti sto per vomitare dalla mia bocca. Dice qui che parla alla Chiesa lo stesso “verace” e “fedele” Signore Gesù Cristo, che è il principio delle creature di Dio, non ché Egli abbia avuto un principio, ma che lo ha dato, e annuncia che riprende la pigrizia di alcuni rimproverandone la tiepidezza, con il dire: sto per vomitarti dalla mia bocca. Egli rimprovera coloro che si sono abbandonati ad alcune fatuità, perché non li trova né gravati dal grande gelo dell’iniquità, né sostenuti dalle opere buone, ma persistono tiepidi in entrambe; perciò non presentano il cibo delle opere buone a Cristo, che si sazia delle buone azioni, ma, persistendo nelle loro delizie, si considerano pur fedeli; eppure Egli minaccia di vomitarli dal suo cuore e di scacciarli quanto prima, dicendo: tu non sei né freddo né caldo; poiché sei tiepido, ti vomiterò fuori dalla mia bocca, cioè non sarai nelle mie viscere, perché sei tiepido. Egli chiama tiepidi gli uomini ricchi credenti, posti nell’alta dignità, che, essendo credenti e ricchi, trattano delle Scritture nelle loro case e si discute fuori se siano della Chiesa, e senza dubbio si considerano anime fedeli. Essi cioè si glorificano, e dicono di conoscere tutti gli insegnamenti delle Scritture e di credere in Dio. E si ritengono con certezza essere attivi nella Chiesa, pur mancando le loro opere. È per questo che si dice loro: non siete né freddi né ferventi, cioè non siete né pagani né fedeli. Ed aggiunge per questo: magari fossi caldo, cioè religioso, fedele e santo; o vorrei piuttosto che tu fossi freddo, cioè infedele, incredulo, e fuori della Chiesa; in qualunque modo tu fossi, o nel bene o nel male, saresti perfetto e chiaro. Ma poiché non sei né freddo né caldo, ma tiepido, non sarai mangiato come mio cibo, né unito alle mie viscere. E poiché questi non è né caldo né freddo, si fa tutto a tutti, si adatta ad entrambi, agli increduli ed ai fedeli. Ti vomito – dice – dalla bocca, perché mi dai nausea. Nessuno ignora quanto sia odiosa la nausea, così come lo saranno questi uomini vomitati da Cristo e dalla Chiesa, quando saranno scacciati nel giorno del giudizio: ed infatti sono ricchi e tiepidi, finanche avidi per cupidigia; eppure – come detto – si ritengono fedeli e Cristiani. Però non può essere povero chi possiede ricchezze, né è ricco chi non faccia uso delle ricchezze; e lo stesso ricco istruito e fedele, parlando dice: “Sono ricco, mi sono arricchito, nulla mi manca “. Ma lo Spirito dice: “Non ti rendi conto di essere un disgraziato, degno di compassione, povero, cieco e nudo“. Ti consiglio di comprare da me dell’oro purificato dal fuoco. Siano confusi coloro che si gloriano delle loro azioni ed esultano dei propri affari. Se per caso danno una moneta ad un povero o fanno del bene, si vantano della loro scienza o della fede tiepidamente professata e, proclamandola, affermano di non aver bisogno di nulla. Eppure, al contrario, sono rimproverati, perché non meritevoli di compassione, in quanto poveri e mendicanti e sprofondati nella povertà delle opere buone; non vedono la loro nudità, né pensano di essere nudi e mancanti di buone opere. Li inclina pertanto alla salvezza con la solita bontà:  ti consiglio di comprare da me l’oro che è stato purificato dal fuoco, cioè di prendere esempio dalla mia passione, di passare nella fornace della tribolazione, affinché appaia provato da tutto, come Io sono stato provato da voi, e di seguire me, che sono morto per te, onde versare il tuo sangue per me, come Io l’ho versato per te …. affinché tu diventi ricco e vestito di bianco per coprire e nascondere la vergognosa tua nudità: così con le elemosine e con le opere buone diventi tu stesso l’oro provato dal fuoco, l’oro bruciato dalle fiamme dell’afflizione, purgato dalle elemosine e dalle opere rette; questo vuol dire: che tu sia ricco in ciò che fai, e ti ricopra delle mie vesti bianche, cosicché non appaia la confusione della tua nudità. Pensava questi infatti di essere ricco, bianco nel suo abbigliamento, e che non apparisse turpitudine alcuna delle sue opere. Mettete collirio negli occhi, cosicché possiate vedere. Questo è l’oro che Egli promette alla Chiesa attraverso il Profeta: « Farò venire oro anziché bronzo, farò venire argento anziché ferro, bronzo anziché legno, ferro anziché pietre. » (Is. LX, 17). Annuncia in tal modo che oro è la parola del Signore, il Vangelo, la dottrina apostolica. Chiunque ne rimanga arricchito, meriterà certamente delle ricchezze spirituali e si adornerà con bianche vesti, cioè con la luminosità delle opere buone, affionché con le opere buone, non apparirà la sua vergognosa nudità. Il collirio con cui ordina poi di ungere gli occhi è la contrizione del cuore, le lacrime del penitente, il dolore che guarisce chi si converte; e non si manifesta nel parlare né con la rabbia né con l’odio, ma piuttosto con la proclamazione del suo amore, quando dice: ungete i vostri occhi con il collirio, affinché possiate vedere. È come se dicesse chiaramente: O uomo ricco, tu che leggi, intendi ciò che dico. E così se leggi e non intendi, ungiti gli occhi con il collirio. A volte, nella Sacra Scrittura, per “occhi” si intendono i due Testamenti, cioè la Legge ed il Vangelo, che infondono ai credenti la luce della verità, come sta scritto: « … i precetti del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi. » (Psal. XVIII, 9). E ancora: « Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. » (Psal. CXVIII, 105). Se gli occhi sono illuminati dalla parola del Signore, siano illuminati anche quelli del ricco cieco. Si sa che Cristo, nel dare la vista ad un cieco, ha versato saliva sulla terra, ne ha fatto un collirio con il dito e lo ha spalmato sugli occhi dell’uomo nato cieco, dicendogli: « Vai a lavarti nella piscina di Sìloe » (Gv. IX, 6). Prima che la saliva giungesse a terra, c’era già la terra, ma essa non dava luce al cieco. Egli versò la saliva sulla terra e la rimescolò con il dito, e così unse gli occhi dell’uomo cieco nato. Questi andò a lavarsi e recuperò la vista. La saliva è il Vangelo, la terra è la Legge. Ma cosa fa la Legge senza il Vangelo, la Legge che non dà luce al cieco, ma lo lascia fermo lungo il sentiero, non permettendogli appunto di camminare lungo di esso. Discenda dunque la saliva di Cristo in terra, si unisca alla terra e la si mescoli con il dito dello Spirito Santo, ed unga gli occhi del ricco cieco e si vada alla vasca di Siloè, che significa “Colui che è stato mandato”, cioè a Colui che ha detto: Sono stato mandato solo alle pecorelle smarrite della casa d’Israele (Mt. XV, 24). O uomo ricco, se leggi e credi che Gesù sia stato mandato per te, indaga sulla profezia perché è venuto proprio da te. Leggi il Vangelo e comprendi quanto ha sofferto per te. Ti ha comprato a caro prezzo, poiché ti ha riscattato con il caro prezzo del suo sangue. Cosa restituisci a Colui che ti ha reso figlio, da servo che eri? Ascolta ciò che ti chiede: oro purificato dal fuoco! Questo è il vero scambio, perché il sangue viene ripagato con il sangue. Con questo collirio per gli occhi, possa tu vedere, possa tu sforzarti di fare ciò che liberamente già conosci dalle Scritture. E siccome questi uomini che da un grande peccato, tornano ad una grande penitenza, non sono solo utili a se stessi, ma possono essere di aiuto a molti, promette loro non una piccola, ma una grande ricompensa: sedere sul trono del suo giudizio. – Coloro che amo, Io li rimprovero e li correggo: siate perciò zelanti e pentitevi. Chiama alla penitenza coloro che sono immersi nella gravissima opera del peccato, e li invita ad imitare i Santi: insegna che nella Chiesa c’è chi debba essere imitato e seguito; ed è come se dicesse chiaramente: imitate coloro che vedete essere tormentati per il mio Nome. Tutta la moltitudine dei ricchi è racchiusa in un solo uomo, così come tutto il corpo dei Vescovi lo è in un solo Angelo delle Chiese. « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, Io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me » Qua sta la nostra salvezza: il Signore Gesù Cristo, che bussa alla porta del nostro cuore! Colui che, pentendosi dei suoi peccati, getta via i fulmini della malizia e l’aridità del suo cuore, sicuramente entrerà e mangerà con Lui e assaggerà le delizie della giustizia; è come se Egli stesso dicesse  chiaramente: « chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e Io lo amerò e mi manifesterò a lui. Ed Io e il Padre mio verremo a lui e faremo la nostra dimora con lui » (Gv. XIV, 21). – Dopo questa correzione, dice ciò che promette alle buone azioni: Al vincitore gli concederò di sedere con me sul mio trono, come anch’Io siedo con il Padre mio sul suo trono. A chi dice che si siederà con Lui, promette di condividerne il potere. Però nel dire che siederà con lui sul trono del Padre, come siederà con il vincitore, dal momento che lo stesso Figlio unigenito siede con potenza sul trono del Padre, e come dice Egli stesso: « Non riempio io il cielo e la terra? » (Ger. XXIII: 24). Che cos’è dunque questo sedersi sul trono di Dio, se non riposare e gioire con Dio, stare davanti ai suoi tribunali beati e godere dell’infinita felicità della sua presenza? Chi ha orecchie, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese.

TERMINA LA STORIA DELLA CHIESA SETTIMA

COMINCIA L’ESPOSIZIONE DELLE SETTE CHIESE SPIEGANDO IN SENSO SPIRITUALE, CON L’ARCA DI NOÈ, PERCHÉ NE SIANO SETTE.

[8] Il Signore disse a Noè: « Ho deciso di distruggere tutta la carne, perché tutta la terra è piena di violenza a causa loro. Perciò, ecco, io li sterminerò dalla terra. Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori » (Gen. VI, 13).  Se vogliamo mirare diligentemente e con attenta osservazione alla fabbrica di quest’arca, attraverso la quale l’uomo giusto Noè meritava di essere salvato dal naufragio del mondo, troveremo senza dubbio che ci è stato offerto un grande mistero di grazia spirituale fin nelle sue stesse misure e nelle giunture. Infatti dice così: « Farai un’arca lunga trecento cubiti, larga cinquanta cubiti e alta trenta cubiti. E tu farai una copertura all’arca, e la finirai in cima per un cubito. Metterai la porta dell’arca nel suo fianco, e farai un primo piano, e un secondo piano, ed un terzo piano, e così via. » Questa fabbrica dell’arca indicherà chiaramente la figura della nostra Chiesa. Non c’è dubbio che Noè rappresentasse la figura di Cristo; Noè che, tradotto dall’ebraico in latino, significa “requies = riposo”, come il suo stesso padre Lamech profetizzò quando gli impose il nome: « Costui ci consolerà del nostro lavoro e della fatica delle nostre mani, a causa del suolo che il Signore ha maledetto » (Gen. V, 29). Come soltanto Noè fu trovato giusto su tutta la terra e solo fu salvato con quelli della sua casa fra tutti coloro che perirono nel diluvio dell’acqua, in quanto egli soltanto, vivendo rettamente, aveva compiaciuto Dio, irritato dal mondo per la sua condotta perversa, così anche quando il Signore verrà a giudicare il mondo tra le fiamme del fuoco, porrà fine a tutti i mali, agli angeli ribelli e a tutti i crimini del mondo; ma solo ai Santi concederà riposo nel regno del mondo a venire. Poiché quest’arca, che fu costruita con un legno incorruttibile, indicava, come detto, la fabbrica della venerabile Chiesa, che rimarrà sempre con Cristo. Le sette anime concesse al santo e giusto Noè, è riconosciuto che rappresentino la figura delle sette Chiese che saranno liberate da Cristo dal diluvio del fuoco del giudizio e che regneranno con Cristo nella nuova terra. Ma forse alcuni sono disturbati dal fatto che si parli di sette chiese, dal momento che la Chiesa è una sola, diffusa in tutto l’universo. Esse sono chiamate “sette chiese” al plurale, pur essendo una, per lo Spirito settiforme che le anima. Perché come il corpo è uno e le sue membra sono sette, o meglio, sette sono le funzioni delle membra, e cioè testa, mani, piedi, vista, udito, gusto e olfatto, così uno è il corpo della Chiesa, ma è settiforme per la grazia dei carismi. Sette sono gli occhi del Signore, sette sono le stelle della mano destra di colui che siede sul trono, sette sono i candelabri d’oro, sette sono le lampade del tabernacolo del Signore, sette sono gli Angeli, sette sono le trombe, sette sono le coppe d’oro, sette sono le donne che si impadroniscono di un solo uomo – cioè le virtù delle Chiese che possiedono Cristo – e sette sono le colonne della casa di Salomone, su cui sorge ed è costruito l’edificio della Chiesa; ma anche il beato Giovanni Apostolo scrisse alle sette chiese, e anche Paolo, il venerabile Apostolo, scrisse lettere a sette chiese, mentre ne scrisse le restanti ad uomini, in modo da non superare il numero di sette; così anche sette sono i pani del Vangelo; e le ceste ripiene dei pezzi avanzati indicavano la figura della Chiesa settiforme. Per questo la Scrittura divina dice: « Noè è entrato nell’arca e sette anime con lui. » Queste sette anime indicavano le sette chiese, come detto; in ognuna di esse dimostrerò brevemente come siano incluse le sette chiese. Sette sono i doni dei carismi, come il Signore si è degnato di manifestare per mezzo di Isaia, vate inclito: « Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. » (Is. XI, 2). Non tutti possiamo possedere totalmente questi doni, ma ognuno di noi ne possiede uno. Solo Cristo Signore li possiede tutti, Lui che è tutto il corpo. In noi, che siamo annoverati tra le sue membra, ce n’è uno soltanto. Tutti coloro del numero dei fratelli che rimangono nell’unica e medesima Chiesa, che possiedono lo Spirito di Sapienza, tutti quelli che possiedono il primo carisma, formano la prima Chiesa. Infatti Chiesa significa congregazione dei Santi. Allora il beato Apostolo Paolo, scrivendo alla Chiesa, specificò ciò che fosse la Chiesa, dicendo: ai santi e ai fedeli (Ef. I,1); e così tutti i Santi ed i fedeli fratelli che possiedono lo Spirito di Intelletto formano la seconda Chiesa, come un secondo gruppo. Per la stessa ragione, tutti coloro che possiedono lo Spirito di Consiglio formano il terzo gruppo, e quindi la terza Chiesa. E quelli che Egli ha riempito con lo Spirito di Fortezza sono elencati nella quarta Chiesa. Allo stesso modo, coloro che Egli ha riempito con lo Spirito di Scienza sono considerati nella quinta Chiesa. A coloro che erano pieni dello Spirito di Pietà viene indicato il numero della sesta Chiesa. E coloro che Egli ha raccolto nello Spirito del Timore di Dio sono contati nella settima Chiesa. Chiunque di noi sia separato, possiede solo uno dei carismi, ma quando siamo riuniti insieme, formiamo un’unica integra e perfetta Chiesa settiforme, vale a dire: il Corpo di Cristo. Queste sono le sette anime che a Noè, rappresentante dell’immagine di Cristo, sono state affidate nel diluvio delle acque. Con l’acqua, quindi, i giusti sono salvati mentre i peccatori e gli empi sono puniti. Ugualmente queste sette chiese, alla fine del mondo, mentre tutte le nazioni staranno per morire, saranno liberate da Cristo dalla catastrofe del fuoco e riceveranno la gloria del regno dei cieli. Infatti come nessun uomo riuscì a sfuggire al diluvio delle acque, se non colui che si fosse rifugiato nell’arca, così anche nel giorno del giudizio di Dio nessun uomo potrà sfuggire, se non colui che è custodito nell’arca della Chiesa Cattolica. E quando si dice che l’arca possedesse un secondo ed un terzo piano, si dimostrano chiaramente le dimore e le qualità delle abitazioni preparate per i Santi nel regno di Dio. Il primo piano è figura del Paradiso; il secondo è figura della Terra nuova, dove scenderà la Gerusalemme celeste, affinché in essa, come sentito, si realizzi la dimora di Dio con gli uomini. Il beato Giovanni dice: Ho visto un nuovo cielo e una nuova terra, la città celeste di Gerusalemme, scendere dal cielo verso una nuova terra (Ap. XXI, 1); e Isaia: « Sì, come i nuovi cieli e la nuova terra, che io farò, dureranno per sempre davanti a me – oracolo del Signore – » (Is. LXVI, 22). Al terzo piano, ecco il Regno dei cieli. Per questo il nostro Salvatore e Signore ha detto nel Vangelo: « Nella casa del Padre mio che è nei cieli ci sono molte dimore » (Gv. XIV, 2). Per questo è stato scritto anche del regno dei cieli: « Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli » (Mt. V, 10). A proposito dell’abitazione del Paradiso, il Signore stesso ne dimostra l’esistenza, quando afferma: Al vincitore – dice – darò da mangiare dell’albero della vita, che è nel Paradiso del mio Dio (Ap. II, 7). Allo stesso modo Egli annuncia la dimora della Terra nuova quando dice: « Beati i miti, perché essi possederanno la terra » (Mt. V, 4). E lo stesso Salomone dice: « perché gli uomini retti abiteranno nel paese e gli integri vi resteranno, ma i malvagi saranno sterminati dalla terra, gli infedeli ne saranno strappati » (Prov. II, 21). Ugualmente il beato Isaia menziona questi tre livelli quando dice: « ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza avere fame. » (Is. XL, 31). Voleranno in cielo come aquile che volano con le ali; correranno in Paradiso e non si stancheranno; cammineranno nella terra nuova e non avranno fame, perché lì riceveranno una pietanza preparata da Dio. È questa triplice classe delle dimore dei santi che il Signore si degnò anche di manifestare ai suoi Apostoli nel Vangelo per mezzo di una parabola, dicendo: « Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. » (Mt XIII, 8). Il frutto di cento per uno, sarà prodotto da coloro che riceveranno una casa in cielo, quelli che produrranno il sessanta per uno, meriteranno una casa in Paradiso, e quelli del trenta per uno, vivranno sulla Terra nuova. Pertanto, dovrebbe già esserci chiaro che quest’arca a tre piani, come detto più volte, indica chiaramente la figura della Chiesa Cattolica. Le sue abitazioni a tre piani, cioè il Cielo, il Paradiso e la Terra nuova, sono state rese note dal Signore nei tempi passati. Per quanto riguarda quel che concerne la costruzione dell’arca, dice come la stessa sia stata concepita in modo da essere più ampia nel primo piano, dove si è iniziata, nel mezzo più stretta, e nel terzo coperto ai quattro angoli, fin dove non fosse stato sopraelevato, per la breve misura di un cubito, avendo una finestra nel lato: questo significava che nella prima parte della costruzione, cioè al primo piano, fosse stata concessa maggiore libertà di azione ai Santi, una disciplina più permissiva per tutti i Padri ed i Patriarchi a causa della necessità di generare la discendenza dei figli, e per questo doveva essere loro permesso di realizzare molte più cose lecitamente e fare più liberamente ciò che volevano. Per questo motivo al primo piano dell’Arca viene assegnato uno spazio maggiore e più ampio. Il piano intermedio è ridotto ad una misura più stretta, perché nel mezzo dei tempi, il popolo doveva essere costretto dalla Legge di Mosè e dei Profeti in uno spazio sempre più stretto ed angusto dai precetti che lo vincolavano. Che il terzo piano fosse coperto negli angoli e finito all’altezza di un cubito, significava che i quattro angoli, cioè i quattro Vangeli, dovevano delimitare l’intero edificio della Chiesa. Perché stretta e angusta  è –  dice – la via che conduce alla vita (Mt. VII, 14). E all’altezza di un cubito, cioè la misura dell’uomo in piedi, umanità di cui il Signore si è rivestito, dovevano essere finiti tutti i lavori della Chiesa. Insomma, nessuno può raggiungere il culmine della virtù e della gloria perfetta se non attraverso l’angoscia delle tribolazioni e l’afflizione delle persecuzioni che il Signore ha sopportato nella sua passione, come sta scritto: « … bisogna attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio » (Act. XIV, 22). E un cubito più sopra la terminerai (Gen. VI, 16); questo cubito è figura, come detto, del Corpo di Cristo; e questo cubito sembra riguardare piuttosto l’unità dell’uomo perfetto di cui siamo membri, che non la misura della statura dell’uomo. Infatti essendo tutti uno in Cristo Gesù, la costruzione dell’arca si finisce in un solo cubito, poiché nel solo Corpo di Cristo e nella grazia delle sue sofferenze doveva essere riunita tutta la pienezza della Chiesa. – E il corvo che si dice essere stato mandato dall’arca e non è tornato, ha dimostrato questo: che i desideri impuri degli uomini devono essere cacciati via dalla Chiesa, e non devono più tornarvi. – Il corvo significa, quindi, i piaceri dell’anima ingannevole ed impura, e la cattiva fama del colore nero rappresentava i vizi iniqui dei peccatori. – La colomba che fu mandata poi, non trovando alcun posto dove posarsi nel mondo, ritornò all’arca. Era essa figura dello Spirito Santo che, diffuso in tutto il mondo, non riusciva a trovare riposo negli uomini tutti, a causa dell’iniquità del mondo, e così è tornata all’arca della Chiesa, come lo stesso Signore – istruendo i suoi Apostoli nel Vangelo – dice: « In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi » (Mt. X, 11). Per questo, lo Spirito Santo, non avendo trovato accoglienza tra i popoli che non avevano ancora creduto in Cristo, ritornò all’arca della Chiesa degli Apostoli fino a quando, eliminate le iniquità del peccato, la dottrina della fede non fosse stata creduta in tutte le Nazioni, così da meritare di ricevere lo Spirito Santo. Aggiunge quindi la Scrittura: « … Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo » (Gen. VIII, 10). Il ramo d’ulivo portato da questa colomba indicava chiaramente una testimonianza di pace e di resurrezione, e che, annunciando e portando nel suo becco il legno della passione, doveva fornire la pura grazia del carisma. E venne di sera, perché doveva arrivare alla fine del mondo. La misura dell’arca, lunga trecento cubiti, indica evidentemente la figura della croce del Signore, perché i greci designano il numero trecento con la lettera “tau“; questa lettera forma come il tratto di un ramo d’albero piantato, mentre un altro si presenta come una traversa allungata in cima, così da indicare certamente la forma della croce, dal cui mistero ai credenti viene data la lunghezza della vita, fornita la larghezza della terra nuova e la si prepara per l’altezza del regno dei cieli. Cinquanta cubiti era la larghezza dell’arca: questo significava che a Pentecoste, cioè cinquanta giorni dopo la passione della croce del Signore, sarebbe sceso lo Spirito Santo, attraverso il Quale si può ottenere la speranza della salvezza e la gloria del regno dei cieli. I trenta cubiti dell’altezza dell’arca indicano i trent’anni di età del Signore, età in cui, per il ministero di Giovanni, fu battezzato nel Giordano l’Uomo di cui si era rivestito; aveva infatti trent’anni, secondo il Vangelo, quando con l’acqua del Battesimo illustrò coi doni celesti l’uomo – come detto – presunto, di cui si rivestì. È dunque l’altezza la misura dell’età del corpo di Cristo, secondo quanto afferma l’Apostolo Paolo: « … finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo » (Ef. IV, 13). La lunghezza è nella passione della croce del Signore, con la quale i credenti sono suggellati nella fede. La larghezza è nel giorno di Pentecoste, in cui lo Spirito Santo scende sui credenti. Vedete, dunque, cari fratelli, che tutto l’edificio di quest’arca doveva essere premessa del mistero della venerabile Chiesa e che gli uomini non potevano essere salvati dalla rovina del mondo intero se non nella Chiesa, così come non si salvarono dal diluvio del mondo se non coloro che erano ospitati nell’arca. E così dobbiamo sforzarci di chiedere a Dio nostro Signore con tutto il cuore di meritare di rimanere, nella Chiesa Cattolica di Dio, fedeli al Signore. Seguiranno allora i premi se con i legami di pace e di concordia avremo conservato le norme dell’istituzione evangelica, in modo da poter essere felici al cospetto di Dio Padre Onnipotente.

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (7)

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (5)

I quattro cavalli e i quattro cavalieri (Apoc. VI, 1-8)

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (5)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770]

LIBRO SECONDO

INIZIA LA SECONDA CHIESA

(Ap. II, 8-11)

Et angelo Smyrnæ ecclesiæ scribe: Hæc dicit primus, et novissimus, qui fuit mortuus, et vivit: Scio tribulationem tuam, et paupertatem tuam, sed dives es : et blasphemaris ab his, qui se dicunt Judaeos esse, et non sunt, sed sunt synagoga Satanæ. Nihil horum timeas quae passurus es. Ecce missurus est diabolus aliquos ex vobis in carcerem ut tentemini : et habebitis tribulationem diebus decem. Esto fidelis usque ad mortem, et dabo tibi coronam vitæ. Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis: Qui vicerit, non laedetur a morte secunda.

[E all’Angelo della Chiesa di Smirne scrivi: Queste cose dice il primo e l’ultimo, il quale fu morto, e vive: So la tua tribolazione e la tua povertà, ma sei ricco: e sei bestemmiato da quelli che si dicono Giudei, e non lo sono, ma sono una sinagoga dì satana. Non temere nulla di ciò che sei per patire. Ecco che il diavolo caccerà in prigione alcuni di voi, perché siate provati: e sarete tribolati per dieci giorni. Sii fedele sino alla morte, e ti darò la corona della vita. Chi ha orecchio, ascolti quel che lo Spirito dica alle Chiese: Chi sarà vincitore, non sarà offeso dalla seconda morte.]

INIZIO DELLA SPIEGAZIONE DELLA CHIESA INNANZI DESCRITTA NEL LIBRO SECONDO

[2] Scrivi all’Angelo della chiesa di Smirne. Smirne, è « il canto di quelli che hanno proclamato la verità cattolica; » a questi lo Spirito Santo parla dicendo: Questo dice il primo e l’ultimo, che era morto e che è tornato in vita. Conosco la tua tribolazione e la tua povertà, anche se sei ricco. Egli loda le opere della sua Chiesa, perché sta andando nel regno attraverso molte tribolazioni. Preferisce la condizione della povertà, perché rigetta energicamente i beni presenti per meritare quelli futuri … Anche se sei ricco. Essa è ricca nella fede e nell’abbondanza totale della grazia, cioè nell’umiltà, compiendo la parola divina che dice: « beati i poveri in spirito » (Matt. V, 1). Chi è povero di spirito è ricco dello Spirito di Dio. Colui che è ricco di spirito, si gonfia con arie di grandezza, è come un otre. Si deve sapere, quindi, che le colpe più gravi sono quelle di specie poco indicate, che sembrano addirittura essere virtù, perché le colpe chiaramente note prostrano lo spirito con la tristezza e lo trascinano alla penitenza. Queste invece, non solo non umiliano lo spirito portandolo alla penitenza, ma elevano la mente di chi opera, essendo ritenute come delle virtù. Dice di questi di tal parte della Chiesa: e sei bestemmiato da parte di coloro che si definiscono Giudei ma non lo sono, e sono in realtà una sinagoga di satana. La Chiesa sopporta spesso numerose contumelie da parte di chi confessa di conoscere Dio ma non lo riconosce affatto, e la cui assemblea è congregata al loro padre, il diavolo. Anche qui si dimostra come non si parli solo ad una Chiesa particolare, perché non solo quelli di Smirne erano o sono Giudei bestemmiatori. Si mostra anche che questi Giudei siano all’esterno, che siano cioè dei cattivi Cristiani, così come ha detto sopra a proposito dei falsi apostoli. Avrebbe anche potuto chiamare i Cristiani Giudei, perché “giudeo” è una parola religiosa. In ebraico, Giuda si intende “confessio” in latino. Quelli che si definiscono Giudei, cioè “i confessori”. Perché se non li chiamasse Giudei, non direbbe che si chiamano così e non lo sono. « Siamo noi i circoncisi » (Fil. III,3); siamo noi i Giudei, che hanno Cristo, il Leone della tribù di Giuda. « Infatti, Giudeo non è chi appare tale all’esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio. » (Rm. II, 28), è cioè colui che piace solo a Cristo e non agli uomini, come sta scritto: « Tutta splendida è la figlia del re, “ab intus”: in dentro » (Psal XLIV, 14). Se avesse detto solo che si definiscono Giudei, e non avesse aggiunto la sinagoga di satana, non avremmo potuto dire che fossero fuori, anche se avesse detto che stavano bestemmiando. Con ciò dimostra anche che questi Giudei sono fuori, perché non dice che … avete messo alla prova coloro che si definiscono Giudei; così come sopra ha detto degli apostoli che dicono di essere apostoli senza esserlo, così anche qui avrebbe potuto chiamare Giudei i Cristiani che sono della sinagoga di satana. Se volete sapere cos’è questa sinagoga e cos’è la Chiesa, lo saprete chiaramente nel prologo delle sette chiese. Non ho tempo di occuparmene ora, perché non accada che mentre replichiamo cose già discusse, ci attardiamo per le cose non ancora trattate. Infatti, nostro Signore, dando come esempio il suo corpo, in mezzo alla sinagoga del santo Israele, in mezzo quindi a Gerusalemme, proclamava che Gerusalemme uccideva i profeti. La si chiamava anche la sinagoga di satana, che è Sodoma e l’Egitto; che è una congregazione ed una sinagoga; e noi costituiamo insieme un’unica assemblea, poiché la sinagoga è di molti, ma la Chiesa è di pochi. Ma se è così, perché lottiamo tra di noi? Perché ci chiamiamo l’un l’altro anticristi? Proprio per questo Giovanni ha chiarito nella sua lettera, chi sono quelli che si debbano considerare come anticristi quando dice: chi nega che Gesù è Cristo, questi è l’Anticristo » (1 Gv. II, 22). Chiediamoci allora chi è che lo neghi; e non guardiamo alle parole, ma ai fatti. Perché se si chiede a questi, tutti confessano con la bocca che Gesù è il Cristo. Ma riposi un po’ la lingua ed interroghiamoci se veramente ciò verifichiamo. Se la stessa Scrittura ci ha detto che la negazione non si fa solo con la lingua, ma con le opere, troviamo certamente molti Cristiani che sono “anticristi”, che lo confessano cioè solo con la bocca, mentre che le loro abitudini non sono in sintonia con Cristo. Dove lo troviamo nella Scrittura? Ascoltiamo Paolo. Egli dice, parlando di costoro: « … Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti, (Tt. I, 16). Abbiamo trovato allora questi anticristi. Chiunque rinneghi Cristo con la sua condotta è l’Anticristo. Non si ascolti ciò che si proclama, ma ciò che si vive. Parlano le opere e noi cerchiamo ancor le parole? Chi è malvagio dirà forse cose buone? Ecco cosa dice il Signore di costoro: « … come potete dire cose buone, voi che siete cattivi?» (Mt. XII, 34). Voi portate le vostre voci alle mie orecchie, io esamino i vostri pensieri e vedo che c’è una volontà malvagia e che voi date cattivi frutti. So cosa raccogliere da lì: … non si raccolgono fichi dai rovi, non si raccoglie uva dalle spine. Ogni albero è conosciuto per i suoi frutti. L’anticristo è più che altro un bugiardo, che confessa con la sua bocca che Gesù è il Cristo e lo nega con la sua condotta. Per questo è bugiardo, perché dice una cosa e ne fa un’altra. Infatti il Signore disse al suo corpo, cioè alla Chiesa, dandone un esempio in mezzo alla sinagoga del santo Israele, cioè di colui che vede Dio, in mezzo alla santa Gerusalemme: « Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati » (Matt. XXIII, 37). Dovete capire che questo lo ha detto della sinagoga di satana, che è Sodoma e l’Egitto, dove i suoi testimoni, cioè coloro che servono Dio, vengono crocifissi ogni giorno. Sodoma, dopo i suoi eccessi, diventa cenere, una volta liberato Lot con le sue figlie. Ma cosa significa che se il Signore avesse trovato cinquanta o anche fino a dieci persone giuste, avrebbe salvato la città? (Gen. XVIII: 26). Mise il numero cinquanta come segno di penitenza, nel caso in cui si fossero convertiti e quindi salvati. Il numero cinquanta si riferisce sempre alla penitenza. Ecco perché Davide ha composto il Salmo della Penitenza con quel numero. Ecco perché quando Dio vede la vita dei peccatori che non vogliono pentirsi, il che si indica col numero cinquanta, trattiene all’istante l’ardore della sfrenata lussuria con il fuoco della geenna. Ha detto poi che Sodoma non perirebbe se vi si trovassero anche solo dieci giusti, perché se il nome di Cristo si trova in un uomo per l’osservanza dei Dieci Comandamenti, questi non perirà. La cifra del numero dieci è un numero perfetto e rappresenta la croce di Cristo. Ma cosa sono le cinque città che sono state consumate dalla pioggia di fuoco, se non tutti coloro che hanno usato in modo lascivo i cinque sensi del loro corpo, e che sono consumati da quel fuoco divino? Lot stesso, parente di Abramo, uomo giusto ed abitante di Sodoma, che meritava di uscire indenne da quel fuoco – similitudine del giudizio divino – era figura del corpo di Cristo che, come tutti i Santi, geme ora tra gli iniqui e gli empi, di cui non approva le azioni, e dalla cui compagnia sarà liberato alla fine del mondo, quando essi saranno condannati con il fuoco al tormento eterno. La moglie di Lot era figura di quei religiosi che, chiamati dalla grazia di Dio, guardano indietro e desiderano tornare a quelle cose che avevano abbandonato. Di questi il Signore dice: « nessuno che mette la mano all’aratro e guarda indietro è adatto al regno dei cieli » (Lc. IX, 62). Per questo a quella donna è proibito guardarsi indietro, per insegnarci che non dobbiamo tornare alla vita precedente, noi che, rigenerati dalla grazia, desideriamo sfuggire alla eterna dannazione. E il fatto che sia rimasta girata a guardare indietro e sia diventata una statua di sale, serve da esempio alla condotta dei fedeli, affinché altri possano essere salvati. Infatti neanche lo stesso Cristo tacque, dicendo: « … ricordatevi della moglie di Lot » (Lc. XVII: 32), cioè possiamo condirci col sale per non dimenticare il fatto, ed essere saggiamente prudenti. Ammonì così quella quando fu trasformata in una statua di sale. – Commentiamo ora ciò che riguarda lo stesso Lot, che, fuggito da Sodoma in fiamme, giunse a Segor ma senza scalare la montagna. Fuggire da Sodoma in fiamme è non accettare i fuochi illeciti della carne o i desideri del mondo; l’altezza delle montagne è la contemplazione del perfetto; e seppur molti giusti fuggono dalle lusinghe del mondo, eppure, dediti essi all’azione, non possono raggiungere la vetta della contemplazione. Per questo Lot è uscito da Sodoma, ma non ha raggiunto la montagna; la vita riprovevole è stata sì abbandonata, ma non è stata ancora raggiunta la grandezza della sublime contemplazione. Per questo Lot stesso dice all’Angelo: « È qui vicino quella città, nella quale posso fuggire, ella è piccola, ed ivi troverò salute, non è ella piccolina, e ivi non sarà sicura la ma vita? ». (Gen. XIX: 20). Si dice che cerca questa che senza dubbio si mostra sicura per la salvezza, perché la vita attuale non è né totalmente distaccata dalla cura del mondo, né estranea alle gioie della salvezza. E Lot stesso, quando le sue figlie gli si unirono, sembrava rappresentare il ruolo della futura Legge. Infatti taluni che sono stati generati da quella Legge e che quindi sono soggetti alla Legge, non comprendendola bene, in un certo senso ne sono come ubriacati, non osservandola che legalmente, e facendo così opere di infelicità. Infatti « così la legge è santa, e santo e giusto e buono è il comandamento. » (Rm. VII, 12) – come dice l’Apostolo – se qualcuno la osserva legalmente. – L’Egitto è flagellato da dieci piaghe e non viene corretto. Queste piaghe avvenute in Egitto in modo materiale, ora si verificano in modo spirituale nella Chiesa. Infatti l’Egitto è figura del mondo, come Sodoma, la quale è stata consumata dal fuoco, ed è stata abbandonata. Da Sodoma solo in tre sono stati liberati dal fuoco; dall’Egitto solo in due sono entrati nella terra promessa (Num. XIV, 30). Anche se molti sono usciti, si dice che solo due vi siano entrati. E questo è ciò che la Verità manifesta nel Vangelo: « … molti sono chiamati, ma pochi sono gli eletti » (Mt. XX, 16). Due sono entrati nella terra della promessa, e solo in due riceveranno i regni celesti della promessa, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Tre sono stati liberati dal fuoco a Sodoma, e in tre saranno liberati quando Cristo verrà nella sua gloria per giudicare la terra, cioè la fede, la speranza e la carità. In Egitto, innanzitutto, le acque diventarono sangue. Le acque dell’Egitto sono state trasformate in sangue, cioè le dottrine erronee e fallaci dei filosofi, che giustamente diventano sangue, poiché circa le cose sentono in modo carnale. Ma quando la croce di Cristo insegna la luce della verità a questo mondo, lo rimprovera con punizioni simili, così che per la qualità delle piaghe, la Chiesa possa conoscere, per mezzo di esse, i propri errori. Nella seconda piaga c’è l’invasione delle rane, che crediamo essere i versi dei poeti che, con modulazione vuota e tronfia, com’è il gracchiare delle rane, hanno introdotto in questo mondo favole ingannatrici. Per mezzo della rana si indica la vanità del chiacchierio. Questo animale non serve a nient’altro se non ad emettere un suono goffo ed inopportuno. Dopo le rane arrivano le zanzare. Questo animale che vola con le sue ali scivola nell’aria, ma è così sottile e minuscolo, che si nasconde all’occhio, a meno che non si abbia una vista molto acuta. Ma quando plana sul corpo, punge con il suo pungiglione acuminato, così che, quando ci chiediamo chi volasse, si comprende subito chi era. Questo tipo di animale è paragonato alla sottigliezza eretica, che trafigge sottilmente le anime con il pungiglione della verbosità, e ci circuisce con un’astuzia tale che la persona ingannata non vede né comprende come ed in cosa sia stata ingannata. I maghi che si arresero al terzo segno, dicendo: questo è il dito di Dio (Es. VIII,15), rappresentavano l’audacia e la caparbietà degli eretici. L’Apostolo lo manifesta dicendo: « … Sull’esempio di Iannes e di Iambres che si opposero a Mosè, anche costoro si oppongono alla verità: uomini dalla mente corrotta e riprovati in materia di fede. Costoro però non progrediranno oltre, perché la loro stoltezza sarà manifestata a tutti, come avvenne per quelli. » (2 Tm. III, 8). Infatti anche costoro, che erano molto inquieti per la stessa corruzione delle loro menti, fallirono nella terza piaga, confessando che il loro avversario fosse lo Spirito Santo, che era in Mosè, perché al terzo luogo infatti si pone lo Spirito Santo, che è il dito di Dio. Ecco perché chi ha fallito nella terza piaga ha detto: ecco il dito di Dio. Così, riconciliato e placato, lo Spirito Santo dà riposo ai miti ed agli umili di cuore, ed invece contrariati e disistimati, agita con l’inquietudine i non mansueti ed i superbi. Quei piccoli insetti hanno generato questa loro inquietudine col dire: ecco il dito di Dio. In un quarto momento, l’Egitto fu afflitto dalle mosche. La mosca è un animale molto inopportuno ed inquieto. In essa, cos’altro si intende se non il desiderio della carne? L’Egitto è turbato così dalle mosche, come lo sono i cuori di coloro che amano questo mondo e sono feriti dall’inquietudine dei loro desideri. Per di più, i “settanta interpreti” hanno usato il termine di “cinomia“, che sono le mosche canine, con le quali si indicano appunto modi canini, vale a dire la verbosità della mente, i desideri pressanti e la libido della carne. Questo termine può certamente significare anche, con la mosca canina, l’eloquenza forense degli uomini, con cui i cani si feriscono l’un l’altro. In quinto luogo, l’Egitto è flagellato dalla morte degli animali e del bestiame. In questa piaga si rimprovera l’ignoranza e la stupidità dei mortali, che come animali irrazionali hanno istituito un culto e dato il nome di “dei” a figure scolpite e ad animali irrazionali, non solo nelle immagini raffiguranti uomini ed animali, ma pure nelle sculture scolpite nel legno e nella pietra. Amon e Giove sono venerati in un ariete; Anubi, in un cane; Apis è venerata in un toro. In queste ed in altre cose, in cui l’Egitto ammirava le meraviglie degli dei, ed in cui credeva consistesse il culto divino, essi hanno subito torture degne del loro peccato. Dopo questo, come sesta piaga, ci sono le ulcere, le eruzioni cutanee con febbre. Nelle ulcere, si condanna la malizia dolosa e corrotta di questo mondo; nelle eruzioni tumescenti, l’orgoglio che gonfia; nelle febbri, l’ira e la malvagità del furore. Finora queste piaghe, figura dei relativi errori, provengono dal mondo. Da questo momento in avanti, giungono segni dall’alto, vale a dire: tuoni, grandine e fuoco che si diffonde. Nel tuono si fanno sentire i rimproveri e le correzioni divine; infatti Egli non punisce in silenzio, ma dà voce e manda dal cielo la dottrina, con la quale il mondo, nella sua punizione, può riconoscere il suo peccato. Egli manda la grandine per distruggere la mollezza dei vizi appena nati; manda il fuoco, perché sa che ci sono spine e cardi che quel fuoco deve bruciare. Di esso il Signore dice: « … Sono venuto a portare il fuoco sulla terra » (Lc. XII, 49). Attraverso di esso, quindi, si accendono gli stimoli del piacere e della libido. Quando si racconta, nell’ottava piaga, delle cavallette, alcuni pensano che con questo tipo di piaga sia punita l’incostanza del genere umano in dissidio. Ma le cavallette devono essere comprese anche in un altro senso, per la leggerezza della loro mobilità, similmente a quelle anime che si spostano da un luogo all’altro e saltano tra i piaceri del mondo. Alla nona piaga giunsero le tenebre, per rimproverare la cecità della loro mente, o per far loro capire che le ragioni della ricompensa divina e della provvidenza sono molto oscurate: « Si avvolgeva di tenebre come di velo, acque oscure e dense nubi lo coprivano » (Psal. XVII, 12); Dio infatti, quando lo si volle scrutare con audacia e temerità, sostenendo con diverse ragioni cose eterodosse, li gettò nelle tenebre più grossolane e spesse dell’ignoranza. Infine vennero eliminati i primogeniti degli Egiziani: questi sono da intendere essere i principi, i potenti ed i governanti del mondo delle tenebre, o anche gli autori ed inventori delle false religioni di questo mondo, inventori che la verità di Cristo ha distrutto ed estinto: « … così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. » (Es. XII: 12). – Gli Ebrei credono che questo si riferisca alla distruzione di tutti i templi dell’Egitto nella notte in cui il popolo uscì dal suo territorio. Noi lo intendiamo nel modo spirituale: quando siamo usciti dall’Egitto di questo mondo, gli idoli dell’errore saranno caduti, e tutto l’insegnamento di dottrine perverse sarà crollato. Questi sono in realtà Sodoma e l’Egitto, che ora stanno combattendo la Chiesa. La prima viene bruciata perché non vi si sono trovati nemmeno dieci uomini giusti; il secondo è flagellato dalle dieci piaghe, senza che faccia ammenda. Quando si trova Sodoma e l’Egitto in questo libro, si consideri questa interpretazione; e quando si nomina la “sinagoga”, si sappia che essa è proprio Sodoma e l’Egitto. Infatti della sua bocca e del suo corpo, ne parlava il Signore attraverso il Profeta: « … innumerevoli cani mi circondano; una sinagoga dei malvagi viene su di me » (Psal. XXI, 17). E ancora: « … Allora si aprì la terra e inghiottì Datan, e seppellì la sinagoga di Abiron. » (Psal CV, 17), perché hanno irritato Mosè ed Aronne, il santo Sacerdote del Signore, e hanno pagato il fio per aver osato sacrificare secondo le loro voglie. Questo rappresentano anche coloro che ora cercano di creare eresie e scismi nella Chiesa, ed ingannano molti attirandoli così, disprezzando i “veri” Sacerdoti di Cristo e separandosi dal clero e dalla società dei molti. Essi osano fondare chiese e costruire un altro altare ed un’altra preghiera con parole illecite, profanando la verità del Sacrificio del Signore con sacrileghi sacrifici. Coloro che si ostinano contro il comando del Signore, con temeraria audacia, infrante le compagini della terra, si immergono, viventi, in un profondo abisso. E non solo coloro che ne sono la guida, ma anche coloro che, dando il loro consenso, ne sono diventati complici e, pronti per la vendetta, periscono nel fuoco dell’eterno tormento. Questa stessa sinagoga che si era opposta a Mosè, è ora avversa alla Chiesa. Prima di manifestarsi, essa si trovava da lato, e veniva chiamata con il nome di un’unica sinagoga. Geremia ci ricorda che questa sinagoga è dentro la Chiesa quando dice: « O Signore onnipotente, non mi sono seduto nelle brigate di buontemponi, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario …. » (Ger. XV, 17) … certamente con lo spirito, perché mai mi sono allontanato da loro.  Non c’è nessun’altro tempio in cui sedersi solitario, né un altro popolo da cui restare separato. Anche Nicodemo era estraneo al gruppo dei malvagi nell’interpretazione della Legge. Questa è la sinagoga nella Chiesa, alla quale il Figlio di Dio dice: « … voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro » (Gv. VIII, 44). C’è la via stretta e la via larga; quella è la destra e l’altra la sinistra. Ma le due vie si uniscono nella via del Signore o si mescolano tra loro? È scritto in Osea: « poiché rette sono le vie del Signore, i giusti camminano in esse, mentre i malvagi v’inciampano. » (Osea XIV: 10). – Per questo si esorta la sua Chiesa a non temere chi uccide il corpo e poi non può fare null’altro, dicendo: … non temete ciò che soffrirete. Egli indica così le tribolazioni ed i mali futuri inflitti dai malvagi e conforta i suoi fedeli perché non abbiano paura delle molestie nelle persecuzioni; ma lo racconta come ad uno solo, perché i Santi, pur vivendo tutti in questo mondo, sono “uno” formando un’unica anima ed un unico cuore nell’amore di Cristo, e la Chiesa è una sola. Perché così come sono Cristo e la Chiesa, cioè il Capo con le membra, che sono una cosa sola, così lo sono pure i malvagi con il diavolo, loro capo, formando: “un solo corpo”. E nel dire “non temete per ciò che soffrirete”, indica certamente anche ciò che si soffrirà da tutto il corpo del diavolo che, in tutto il mondo, dall’interno e dall’esterno, assedia la Chiesa, o ciò che il nemico potrà causare. Il diavolo sta per mettere alcuni di voi in prigione, per cui sarete tentati e soffrirete una tribolazione di dieci giorni. Non credo che si debba dire o credere incautamente ciò che alcuni hanno detto o pensato, e cioè che la Chiesa non subirà persecuzioni fino al tempo dell’Anticristo; infatti la Chiesa ha già subito dieci persecuzioni, e l’undicesima ed ultima sarà sotto l’Anticristo. Si computa così essere la prima quella realizzata da Nerone. La seconda, quella da Domiziano. La terza è quella di Traiano. La quarta, quella di Antonino. La quinta, di Severo. La sesta, quella di Massimino. La Settima, di Decio. L’Ottava, di Aureliano. La Nona, di Valeriano. La decima, di Diocleziano e Massimiano. A causa di questi dieci re, la Chiesa ha sofferto dall’Ascensione di Cristo fino al Concilio di Nicea, per duecento cinquant’anni. Essi hanno realizzato una strage di martiri, come dice il Signore in questa Apocalisse di San Giovanni: soffrirete una tribolazione di dieci giorni, per mano di dieci re. Il diavolo che si era trasformato in una figura umana, diceva contro i Cristiani: perché venerate Gesù crocifisso, un uomo giudeo, un uomo senza importanza? Incitava i principi del mondo a mettere a morte coloro che avevano creduto in Cristo. Dopo che il Vangelo fu predicato in tutto il mondo, gli stessi re, le cui leggi avevano devastato la Chiesa, si sottomisero in modo salutevole a tutti martiri, e dopo essere stati così solleciti nell’eliminarli crudelmente dalla terra, cominciarono a perseguitare i falsi dei, a distruggerne i templi, e a costruire basiliche dedicate ai martiri; ciò vedendo, il diavolo si è adornato con l’abito della religione, assumendo il nome di Cristianesimo, ed ha combattuto “da cristo” contro Cristo; egli ha infiltrato gli eretici nella Chiesa; ed ora muove l’undicesima persecuzione, quella dell’Anticristo. Fin da quando il Vangelo di Cristo è stato diffuso in tutto il mondo, nella Chiesa c’è la persecuzione di una spiritualità falsa e ingannevole, che è nota ai dotti, ma non è conosciuta da tutti gli empi; infatti con tale sottigliezza il diavolo ha mutato il culto della Religione, e, per ingannare più facilmente, sotto il nome di “Cristianesimo”, mescola il vero con il falso, in modo da suscitare i suoi predicatori a diffondere delle opinioni, piuttosto che delle credenze. E così, fin dai primordi della Chiesa Cattolica, e quasi poco dopo l’ascesa al cielo di Cristo, la subirono gli Apostoli ai quali furono annunciate queste cose mentre erano con Lui prima che ascendesse: la Chiesa ne iniziò a soffrire, e dopo la sua scomparsa crebbe ancor più la passione e molte tribolazioni furono causate, al punto che essi versarono pubblicamente il proprio sangue per il nome di Cristo, che i Giudei vietavano loro finanche di nominare: così sappiamo che avverrà pure alla venuta dell’Anticristo, anche se pure oggi si soffre molto in vari luoghi e regioni, da parte degli eretici e dai gentili. – Egli ha detto: soffrirete una tribolazione di dieci giorni. In questi dieci giorni citati, si indica tutto il tempo di questo mondo, perché si dice dieci per così dire, come lo stesso è di cento o mille, cioè il numero perfetto completo di questo mondo; è come se dicesse: soffrirete una tribolazione, ma solo di dieci giorni, perché avranno fine. Se si considerano infatti i mali presenti a cui si è sottoposti, confrontati all’eternità della futura beatitudine, certamente appaiono brevi, come passati di fretta, tali come se si trattasse di dieci giorni. Per questo l’Apostolo dice: « Ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano degne di essere paragonate alla gloria che si manifesterà in noi » (Rm. VIII, 18). Egli poi incoraggia i suoi e dice loro: Siate fedeli fino alla morte e vi darò la corona della vita. E nel Vangelo il Signore dice: « Chi persiste fino alla fine sarà salvato » (Mt. XXIV, 13). Può accadere così che chi abbia vissuto male, ma alla fine della sua vita sia tornato alla vera penitenza ed abbia creduto rettamente in Dio ed incontri la madre Chiesa, anche se solo nel momento in cui sta per morire, sia sciolto dal peccato. Può anche accadere che chi abbia vissuto rettamente, e alla fine della sua vita si sia allontanato dalla giustizia, non si salverà se muore in tale stato, non avendo perseverato fino alla fine. Alla fine ognuno sarà salvato o condannato: il Signore giudica ognuno alla fine, condanna o incorona! Secondo quanto è scritto: « … giudicherà il mondo fino all’estremità della terra » (Psal. IX, 9). E: « … Chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna » (Gv. XII, 25) e fino alla morte, o riceve la morte a causa della fede, o persevera fino alla morte nella fede di Cristo: questi sarà salvato, e riceverà senza dubbio la corona della vita. E ripetutamente avverte che chi ascolta fedelmente l’uomo interiore dovrebbe aprire le orecchie per ascoltarne i richiami, per comprendere ciò che lo Spirito annunzia alle Chiese, col dire: il vincitore non soffrirà la seconda morte. Chi ha sopportato pazientemente la sofferenza, o ha mantenuto una fede incrollabile fino alla fine, sarà liberato dalla rovina della seconda morte. Dopo di ciò parla e indica lo stesso Signore che afferma che dalla sua bocca è uscita una spada affilata a doppio taglio, che si insegna essere la parola di Dio; e annuncia che la Chiesa vive in questo mondo là dove si trova la sede di satana.

COMINCIA LA TERZA CHIESA NEL LIBRO SECONDO

(Ap. II, 12-17)

Et angelo Pergami ecclesiæ scribe: Hæc dicit qui habet rhomphæam utraque parte acutam: Scio ubi habitas, ubi sedes est Satanæ: et tenes nomen meum, et non negasti fidem meam. Et in diebus illis Antipas testis meus fidelis, qui occisus est apud vos ubi Satanas habitat. Sed habeo aversus te pauca: quia habes illic tenentes doctrinam Balaam, qui docebat Balac mittere scandalum coram filiis Israel, edere, et fornicari: ita habes et tu tenentes doctrinam Nicolaitarum. Similiter poenitentiam age: si quominus veniam tibi cito, et pugnabo cum illis in gladio oris mei. Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis: Vincenti dabo manna absconditum, et dabo illi calculum candidum: et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo scit, nisi qui accipit.

[“E all’Angelo della Chiesa di Pergamo scrivi: Queste cose dice colui che tiene la spada a due tagli: “So in qual luogo tu abiti, dove satana ha .il trono: e ritieni il mio nome, e non hai negata la mia fede anche in quei giorni, quando Antipa, martire mio fedele, fu ucciso presso di voi, dove abita satana. “Ma ho contro di te alcune poche cose: attesoché hai costì di quelli che tengono la dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balac a mettere scandalo davanti ai figliuoli d’Israele, perché mangiassero e fornicassero: “Così anche tu hai di quelli che tengono la dottrina dei Nicolaiti. Fa parimenti penitenza: altrimenti verrò tosto a te, e combatterò con essi colla spada della mia bocca. “Chi ha orecchio, oda quel che dica lo Spirito alle Chiese: A chi sarà vincitore, darò la manna nascosta, e gli darò una pietra bianca: e sulla pietra scritto un nome nuovo non saputo da nessuno, fuorché da chi lo riceve”.]

TERMINA LA STORIA DELLA TERZA CHIESA NEL LIBRO SECONDO

INIZIA LA SPIEGAZIONE DELLA CHIESA SUDDETTA

[3] Scrivi all’Angelo della Chiesa di Pergamo: questo dice colui che tiene la spada aguzza a due tagli. So che abiti dove satana ha il suo trono; questo lo dice a tutta la Chiesa, perché satana abita ovunque. Il trono di satana sono gli uomini malvagi. Ma qui si rivolge ad una Chiesa sola in particolare, ed anche se è una sola dice: dove è il trono di satana; eppure in essa vi sono rappresentate tutte e sette [le chiese], cioè la condotta di tutta la Chiesa settiforme, che rimprovera o loda in particolare, dicendo: tuttavia tieni saldo il mio nome e non hai rinnegato la mia fede, nemmeno ai tempi di Antipa, mio fedele testimone, che è stato ucciso tra di voi, dove è il trono di satana. Però ho da rimproverati alcune cose: certamente questo è detto nei confronti di altri membri, non a coloro ai quali dice: Non avete rinnegato la mia fede; … ma a quei membri che ha detto essere il trono di satana, a quelli che professano la dottrina di Balaam, che ammonisce dicendo: tu conservi lì alcuni che sostengono la dottrina di Balaam, che ha insegnato a Balaq a gettare una pietra d’inciampo davanti ai figli d’Israele, a mangiare carne sacrificata agli idoli, ed a commettere fornicazione. Dopo aver detto: … vivi, dove c’è il trono di satana – cioè dove non manca la tentazione, dove la perdizione fa sua molte vittime colpevoli – loda la Chiesa perché mantiene la fede nel Nome di Cristo e non la rinnega, è onorata dalla fede dei martiri, e soffre questo dagli stessi dai quali Cristo ha patito; uno di questi martiri si chiama Antipa, un testimone fedele, che è stato ucciso in questo mondo, là dove si dice che dimori satana, che in latino si chiama “Adversarius” [=avversario]. Tuttavia, il Signore ha qualcosa contro questa Chiesa: che alcuni cioè difendono la dottrina di Balaam. Balaam in latino significa « popolo vano », o senza popolo, perché essendo vano, ha generato un popolo vano o senza sostanza. Balaam è il tipo dell’avversario che non ha radunato il popolo a sua salvezza, né si rallegra della moltitudine del popolo da salvare, ma esulta quando la perde tutta e la lascia “senza popolo” e senza sostanza. È lui che ha insegnato a Balaq a mettere una pietra d’inciampo ai figli di Israele. Balaq in latino significa “colui che incita” o che divora. Esso incitò Israele (Num. XXV, 18) a consacrarsi all’idolo Phogor e lo divorò con i morsi del piacere e della lussuria. A sua similitudine Egli dice che la Chiesa include coloro che professano la dottrina di Balaam: questi sono gli ipocriti nella Chiesa, ed hanno come scopo principale: mangiare e fornicare, cioè divorare le Scritture e fornicare spiritualmente, onde apparire esteriormente giusti mentre si è interiormente malvagi … come dice il Signore: « Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, … pieni di rapina e d’intemperanza » (Mt. XXIII, 25), e compiono ogni opera malvagia. L’idolatria è la fornicazione spirituale. Coloro che pensano di vivere rettamente, ma seguendo l’esempio degli ipocriti, non si congregano nella Chiesa, ma fornicano con le opere della Sinagoga. Anche Balaam era stato elevato, infatti, allo spirito di profezia ma non vi era assurto, perché egli poteva davvero scrutare il futuro, ma non volle staccare la sua anima dai desideri terreni. Però in questa materia è necessario che – con un esame attento – l’anima investighi su se stessa, onde evitare di ottenere la gloria della lode, presumendo in sé di cercare il bene delle anime. Spesso l’anima si nutre delle lodi della sua fama, e si compiace come se avesse ottenuto dei beni spirituali, quando vede che si dicono cose buone su di lui. Spesso è preso da ira nel difendere la sua gloria contro i detrattori, e si illude che ciò lo faccia per zelo verso coloro il cui cuore svia dal buon cammino il discorso del detrattore. I Santi, invece, raramente parlano delle proprie virtù, e solo perché con il loro esempio possano trascinare altri alla vita; così Paolo, che tanto ha sofferto per la verità, dice ai Corinzi che è stato ripetutamente lapidato, che ha subito il naufragio, che è stato condotto in Paradiso (2 Cor. XI, 25), per distogliere la loro attenzione dai falsi predicatori. Infatti i perfetti, quando parlano delle proprie virtù, sono anche in questo senso imitatori di Dio onnipotente, che parla delle sue virtù agli uomini, perché gli uomini lo conoscano; però comanda con la sua Scrittura « Ti lodi un altro e non la tua bocca, un estraneo e non le tue labbra » (Prov. XXVII, 2). E come mai allora fa ciò che proibisce? Perché se Dio Onnipotente nascondesse le sue virtù, in modo che nessuno possa conoscerlo, nessuno lo amerebbe. E se nessuno lo ama, nessuno può venire alla vita. Per questo è detto dal Salmista: « … mostrò al suo popolo la potenza delle sue opere » (Psal. CX, 6). I giusti ed i perfetti non sono da rimproverare per le parole con cui recriminano quando trascinano altri alla vita con il loro esempio, e neanche sono degni di rimprovero quando manifestano ai deboli le virtù che possiedono, perché, narrando la loro vita, intendono far rivivere le loro anime, e non manifestano mai le loro buone opere se non quando costretti – come detto – e senza profitto per il prossimo, e comunque mai quando non ce ne sia bisogno. Ecco perché ad Ezechiele viene detto: « … perché increduli e sovvertitori sono con te ed abiterai con gli scorpioni » (Ez. II, 6), … increduli nei confronti di Dio, sovvertitori del prossimo che è debole: scorpioni nei confronti anche dei forti e dei robusti, di quelli cioè che non possono contraddire apertamente; tuttavia, infliggono la ferita della condanna. Perché a volte uno parla col rigonfiarsi d’orgoglio e pensa di parlare con l’autorità della libertà; a volte un altro parla con una paura folle e pensa di parlare con umiltà. Il primo, considerando l’altezza della sua posizione, non si accorge del suo sentimento di orgoglio; il secondo, considerando la posizione di subordinazione, ha paura di dire le cose buone che pensa, e tacendo ignora quanto sia colpevole nella carità. Pertanto, sotto l’autorità, si nasconde l’orgoglio e sotto l’umiltà il rispetto umano, così che spesso né il primo considera ciò che deve a Dio, né il secondo ciò che deve al prossimo e guardando a coloro che gli sono soggetti, non presta attenzione a Colui al quale tutti sono soggetti. Si eleva con orgoglio e glorifica il suo orgoglio, considerandolo un’autorità. A volte teme di perdere il favore del suo superiore, e così sopporta anche un danno temporale, occulta le cose rette che conosce, e considera in silenzio dentro di sé come fosse umiltà il timore che lo opprime, ma in silenzio giudica nei suoi pensieri colui al quale non vuole dire nulla. E succede che laddove si giudica umile, è lì che invece è più gravemente superbo. È sempre necessario discernere la liberalità dall’orgoglio, l’umiltà dal timore. Ezechiele, allora, che è stato mandato a parlare non solo al popolo, ma anche agli anziani, è avvertito di non avere paura, quando gli viene detto: non aver paura di loro, e affinché non tema le loro parole come detrattorie, aggiunge: non temere i loro discorsi. Ed aggiunge anche il motivo per cui non debba temere le lingue dei suoi detrattori, quando poi sottolinea: « perché sono con te, miscredenti e distruttori, e tu abiti con gli scorpioni ». Coloro che sono stati mandati a parlare dovrebbero essere temuti, se fossero graditi a Dio Onnipotente nella fede e nelle opere. Non si deve temere invece chi è miscredente e sovversivo, chi con le sue parole rende nulla la legge. Perché è una grande follia cercare di compiacere coloro che sappiamo non piacciono a Dio. Si devono quindi considerare con riverenza i giudizi dei giusti, perché questi sono i membri di Dio Onnipotente, e rimproverano in terra ciò che il Signore rimprovera in cielo. Ed infatti la condanna della nostra vita da parte dei malvagi è una prova a nostro favore; perché è già dimostrato che abbiamo un certo merito davanti a Dio se cominciamo a dispiacere a chi non piace a Dio. Infatti nessuno può, in qualunque cosa, compiacere Dio Onnipotente ed i suoi nemici, in quanto nega di essere un amico di Dio chi si rende gradito al suo nemico. E si opporrà ai nemici della verità chi sottomette le sua anima alla verità. Ecco perché gli uomini santi, infiammati dalla riprovazione della parola libera, non temono di suscitare l’odio in coloro che sanno non amare Dio. Il Profeta lo afferma con ardore, presentandolo al Creatore di tutti come un dono, dicendo: Non odio, o Dio, coloro che ti odiano? Non mi disgustano quelli che si ribellano contro di te? Con odio li odio, sono per me dei nemici » (Psal. CXXXVIII, 21). È come se dicessi chiaramente: giudica quanto ti amo dal modo in cui non temo di sollevare contro di me le ire dei nemici. Così ancora una volta dice: « mi pagano il bene col male, mi accusano perché cerco il bene. » (Psal. XXXVII, 21). Il bene è soprattutto ciò che l’uomo giusto pratica quando contraddice con parola franca coloro che fanno il male. I malvagi invece restituiscono il male per il bene quando insultano i giusti perché si ergono contro di essi a difesa della giustizia. Infatti i giusti non guardano ai giudizi umani, ma all’esame del giudizio eterno. E quindi disprezzano le parole dei loro detrattori. E di questi si aggiunge ancora: « ascolta ciò che ti dico e non mi esasperare, come mi esaspera la casa d’Israele.» (Ez. II, 8); qui è come se dicesse, non fare il male che vedi essere fatto, né fare ciò che affermi essere proibito. Infatti ogni predicatore deve sempre meditare attentamente, affinché chi è stato mandato a risuscitare i caduti non cada egli stesso con i peccatori nella malvagità della sua condotta, e non lo colpisca la sentenza dell’Apostolo Paolo, quando dice: « perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose » (Rm. II, 1). Perciò Balaam, pieno dello Spirito di Dio nel parlare, ma che tuttavia conserva il proprio spirito della vita carnale, parla da sé, quando dice: « oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo, di chi vede la visione dell’Onnipotente, e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi. » (Num. XXIV, 16). I suoi occhi erano aperti quando è caduto, perché vedeva ciò che doveva dire e che era giusto, ma disprezzava il vivere in modo retto. Egli cadrà nell’opera malvagia mentre i suoi occhi sono aperti nella sacra predicazione. Tuttavia, c’è un’altra ragione che deve essere compresa, perché al Beato Ezechiele, che è inviato a predicare, è vietato essere esasperante. Se, quando fu mandato a predicare la parola, non obbediva, il profeta esasperava Dio onnipotente con il suo silenzio, tanto quanto il popolo con il suo cattivo comportamento. Come i cattivi esasperano Dio parlando e compiendo cattive azioni, così a volte i buoni dispiacciono a Dio restando in silenzio. Per quelli fare il male è un peccato, per questi è un peccato tacere ciò che è giusto. In questo, poi, esasperano Dio anche nei confronti dei cattivi, perché, non denunciando la perversione, permettono con il loro silenzio che vadano oltre. Nella Chiesa c’è l’idolatria e la fornicazione spirituale, che ha avuto origine dalla dottrina di Balaam. … così hai anche alcuni che sostengono la dottrina dei Nicolaiti: cioè che seguono l’opinione degli eretici. Consiglia loro di convertirsi al Signore e di fare penitenza, affinché non cominci a combattere contro di loro con la spada della sua bocca quando, nell’ora giudizio, chiederà a ciascuno conto delle loro opere e, ammonendo ripetutamente, dice: fate penitenza; e se non la farete, verrò presto da voi e combatterò contro questi con la spada della mia bocca. Dice che combatterà contro  quella stessa parte che è sempre nei suoi rimproveri: chi ha orecchie, senta quello che lo Spirito dice alle Chiese: al vincitore darò la manna nascosta: cioè il pane che scende dal cielo. Di questo pane diciamo nella nostra preghiera quotidiana: dacci oggi il pane nostro quotidiano (Lc. XI, 3). Noi diciamo “nostro”, ma stando con Lui, e se non glielo chiediamo, non lo riceviamo. La figura di questo pane era la manna del deserto, ma non è riconosciuto da tutti. Infatti molti che mangiarono morirono, secondo quanto dice il Signore: mangiarono la manna nel deserto e morirono (Gv. VI, 49). Altri hanno mangiato la medesima manna e non sono morti, come Mosè ed altri. Non disapprovò Egli quel pane, ma non mostrò quello nascosto. Infatti lo stesso pane era quello che ora c’è nella Chiesa, come sta scritto: mangiavano lo stesso alimento spirituale (1 Cor. X, 3), e anche ora mangiano un pane spirituale; ma non è per tutti il pane di vita perché: … chi lo mangia indegnamente, mangia il proprio castigo (1 Cor. XI, 29), come pure chi legge le Scritture, mangia il pane; ma se ciò che legge non lo mette in pratica, mangia la propria condanna. Per questo appunto leggiamo le Scritture, per conoscere Cristo e, attraverso Cristo, credere rettamente nella Trinità, che è un unico Dio. Questo è il cibo solido, questa è la manna nascosta, come sta scritto: « Io vi ho dato il pane del cielo, l’uomo ha mangiato il pane degli Angeli » (Psal. LXXVII, 24). Poiché Colui che abbiamo fin dal principio creduto identico al Padre e allo Spirito Santo, e di cui gli Angeli godono la visione della Sua divinità, … ora il Verbo si è fatto carne ed ha abitato in mezzo a noi. « Questo è il pane che è sceso dal cielo, perché chi ne mangia non muoia, ma abbia la vita eterna » (Gv. I, 14; VI, 40). Questo è il pane nascosto, che viene dato solo a coloro che combattono fedelmente e perseverano nell’amore di Dio e del prossimo. Questa è la manna che riceve se non chi la chiede. Nessuno la chiede, se non colui che Dio ha illuminato con la sua libera misericordia ed attirato alla penitenza. Secondo l’Apostolo, « Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole » (Rm. IX, 18). Egli usa la misericordia con grande bontà ed indurisce senza alcun male, perché in Dio non c’è iniquità. Ma ognuno si lega con i lacci dei suoi peccati. Così come esempio, succede per il fango e la cera: il fango si indurisce e la cera si liquefa quando esposti ad una stessa fonte di calore o allo stesso calore del sole. A cosa va attribuito questo? Al sole o al fango? Certamente non al sole, che non ha mutato il suo solito splendore. Quindi, nemmeno questo si può imputare a Dio. Il sole rimane nel suo fulgore, e la condotta di ciascuno nei propri atti, come sta scritto: « Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli. » (Mt. V, 16). Non c’è bisogno di esaminare la figura della cera la cui natura, come sapete, deriva dalla verginità. Ma la melma è il peccato, come è scritto: « Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel brago» (2. Pt. II, 22). Maiali sono coloro che non credono ancora nel Vangelo e si trovano nel fango e nei vizi dell’incredulità. Questo non può essere imputato a Dio, che vuole … « che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità » (1 Tim. II, 4). La manna è stata data a coloro che credono nel Vangelo e praticano con animo diligente ciò che in esso è contenuto. Tutti quelli che sono usciti dall’Egitto hanno mangiato questo pane, ma non tutti sono entrati nella terra Promessa. Tutti coloro che ora escono dall’Egitto del mondo, che in latino significa “tribolazione“, mangiano di questo pane, ma non tutti entrano in Paradiso. Infatti quelli che ignorano la via nel deserto di questo mondo, muoiono ogni giorno di fame spirituale. Ma qualora entrassero nella via, cioè in Cristo che dice: Io sono la via  (Gv. XIV, 6), e mangiassero di questo pane, non morirebbero nel deserto, cioè nell’ignoranza delle Scritture; ma con un facile transito, avendo Gesù come guida, entrerebbero in trionfo nella terra del Paradiso promesso; infatti, come dice l’Apostolo,  « Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità. » (Gal. V, 6). Perché non è di grande merito il fare qualcosa all’esterno del nostro corpo, bensì il vegliare su ciò che venga fatto all’interno della nostra anima. Così, disprezzare il mondo presente, non amare le cose transitorie, umiliare interiormente l’anima davanti a Dio e al prossimo, soffrire con pazienza i mali subiti e – praticando la pazienza – scacciare dal cuore il dolore della malizia, distribuire i beni ai bisognosi, non desiderare i beni altrui, amare l’amico in Dio, e per Dio amare i nemici, piangere per i dolori del prossimo, senza gioire della morte di un nemico: questo significa essere nuova creatura, e che lo stesso maestro dei gentili esige dagli altri, benché discepoli, con occhio vigilante, quando dice: « Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. » (2 Cor. V, 17). A questi viene data la manna nascosta; a questi viene anche dato il comando di tendere la mano verso l’albero della vita che è nel Paradiso di Dio, cioè la croce di Cristo nella Chiesa. A questi è detto: « … chi crede in me, come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno. »(Gv. VII, 38). Tali sono le membra degli Apostoli che, con Cristo a Capo, cioè sotto la guida di Gesù, entrano nel regno celeste della Promessa. L’uomo vecchio era solito cercare il mondo presente, amare le cose transitorie mossi dalla concupiscenza, ergere la mente all’orgoglio, essere impazienti, augurare il male agli altri con malizia, non dare i propri beni ai poveri, desiderare le cose degli altri per aumentare i propri beni, non amare con purezza alcuno per Dio, rendere inimicizia ai nemici, gioire della sofferenza degli altri: tutte queste cose sono le vecchie cose dell’uomo, che provengono dalla radice della corruzione; a questi non viene data la manna nascosta, perché non ha trovato la via: il Cristo. Ma alla sua Chiesa dice: « … chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui. » (Gv. XIV, 21). – Gli darò anche una piccola pietra bianca, cioè il corpo reso bianco dal Battesimo. La « pietruzza » è una pietra bianca, di cui l’Apostolo dice: « voi, come pietre vive, costruite il tempio di Dio » (1 Pt. II, 5). Le pietre preziose rappresentano i confessori, gli Apostoli, i Sacerdoti e tutti i giusti. Mosè ha ordinato che queste pietre fossero offerte per il tempio di Dio, affinché nessuno si disperasse per la sua salvezza; alcuni offrivano l’oro: il cui senso spirituale nella Chiesa, è la conoscenza mistica; altri l’argento: che è l’eloquenza, cioè la conoscenza tropologica o morale; altri la voce bronzea: cioè la conoscenza storica. Questo perché la Sacra Scrittura deve essere interpretata in tre sensi: il primo da intendere storicamente; il secondo, figurativamente, ed il terzo, misticamente. Storicamente è secondo la lettera, tropologicamente secondo la conoscenza morale, misticamente secondo l’intelligenza spirituale. È quindi conveniente per la Chiesa Cattolica comprendere la fede in modo tale che dobbiamo leggere le Scritture storicamente, interpretarle moralmente e comprenderle spiritualmente. Pertanto si dice con giustezza: gli darò una piccola pietra bianca, cioè gli concederò di sedere con i potenti del mio popolo, che sono gli Apostoli, e lo farò erede del trono della gloria. E sulla pietruzza è inciso il mio nome, cioè il mistero del Figlio dell’uomo, come per dire: mi manifesterò a lui. … Che nessuno conosce, tranne chi lo riceve. Agli ipocriti, benché sembrano possederla, non ne è stata concessa la conoscenza, come è scritto: « a voi è stato dato di conoscere i misteri del Regno di Dio » (Mt. XIII, 11) né conoscere i miei segreti, a voi che vedo stentare nel mio amore. Il Profeta si è riferito a questi segreti quando ha detto: in segreto mi insegnate la saggezza (Psal. L, 8). Ma questo non è concesso a coloro che predicano le loro parole, non le mie, e che mi perseguitano quando vi disprezzano. Per questo dice ad Ezechiele: « figlio dell’uomo, vai alla casa d’Israele e comunica loro le mie parole » (Ez. II,7). E nel dire il Signore: comunicate loro le mie parole, cos’altro Egli impone se non un freno moderante alla bocca, per non presumere di dire all’esterno ciò che non si è sentito prima dentro di sé? Infatti i falsi profeti, che sono gli ipocriti, e gli eretici, dicono parole proprie e non quelle del Signore, e così in quell’epoca annunciavano parole proprie e non quelle del Signore, quelle di cui era scritto: « … Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano a voi » (Ger. XXIII, 16) e vi ingannano, vi raccontano le loro fantasie, non cose che vengono dalla bocca del Signore. E ancora: Non ho parlato loro ed essi hanno profetizzato. Da ciò si deve anche concludere che quando un predicatore, nel commentare un testo divino, magari per piacere agli ascoltatori, corregge qualcosa, dice le sue parole e non quelle del Signore, occulta la verità per desiderio di compiacere o di sedurre. Ma se, indagando la virtù nelle parole del Signore, egli le intendesse in modo diverso da come sono state pronunciate, col proposito però di costruire nella carità, ugualmente – anche se con un significato diverso – sono le parole del Signore ad essere raccontate;  infatti è scritto: « la scienza gonfia, l’amore edifica » (1 Cor. VIII: 1). Per questo Giovanni scrive pure: « … chi dice: lo conosco, e non osserva i suoi comandamenti, è un bugiardo e la verità non è in lui » (1 Gv. II, 4). E ancora: « … chi dice di essere nella luce e odia il fratello è ancora nelle tenebre  » (1Gv. II, 9). Se gli ipocriti avessero conosciuto il mistero di Dio, « non avrebbero crocifisso il Signore della gloria » (1 Cor. II,  8).

TERMINA LA CHIESA TERZA

COMINCIA LA CHIESA QUARTA NEL LIBRO SECONDO

(Ap. II, 18-29)

Et angelo Thyatiræ ecclesiæ scribe: Hæc dicit Filius Dei, qui habet oculos tamquam flammam ignis, et pedes ejus similes auricalco: Novi opera tua, et fidem, et caritatem tuam, et ministerium, et patientiam tuam, et opera tua novissima plura prioribus.  Sed habeo adversus te pauca: quia permittis mulierem Jezabel, quae se dicit propheten, docere, et seducere servos meos, fornicari, et manducare de idolothytis.  Et dedi illi tempus ut pœnitentiam ageret: et non vult pœnitere a fornicatione sua. Ecce mittam eam in lectum: et qui mœchantur cum ea, in tribulatione maxima erunt, nisi poenitentiam ab operibus suis egerint. Et filios ejus interficiam in morte, et scient omnes ecclesiæ, quia ego sum scrutans renes, et corda: et dabo unicuique vestrum secundum opera sua. Vobis autem dico, et ceteris qui Thyatiræ estis: quicumque non habent doctrinam hanc, et qui non cognoverunt altitudines satanæ, quemadmodum dicunt, non mittam super vos aliud pondus: tamen id quod habetis, tenete donec veniam.  Et qui vicerit, et custodierit usque in finem opera mea, dabo illi potestatem super gentes, et reget eas in virga ferrea, et tamquam vas figuli confringentur, sicut et ego accepi a Patre meo: et dabo illi stellam matutinam. Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis.

[E all’Angelo della Chiesa di Tiatira scrivi: Queste cose dice il Figliuolo di Dio, che ha gli occhi come fiamma di fuoco ed i piedi del quale sono simili all’oricalco: So le tue opere, e la fede, e la tua carità, e il ministero, e la pazienza, e le tue ultime opere più numerose che le prime. Ma ho contro di te poche cose, poiché permetti alla donna Jezabele, che si dice profetessa, di insegnare e sedurre i miei servi, perché cadano in fornicazione, e mangino carni immolate agli idoli. E le ho dato tempo di far penitenza: e non vuol pentirsi della sua fornicazione. Ecco che io la stenderò in un letto: e quelli che fanno con essa adulterio, saranno in grandissima tribolazione, se non faranno penitenza delle opere loro: e colpirò di morte i suoi figliuoli e tutte le Chiese sapranno che io sono lo scrutatore delle reni e dei cuori: e darò a ciascuno di voi secondo le sue azioni. Ma a voi, io dico, e a tutti gli altri di Tiatira, che non hanno questa dottrina, e non hanno conosciuto le profondità, come le chiamano, di satana, non porrò sopra dì voi altro peso: Ritenete però quello che avete, sino a tanto che io venga. E chi sarà vincitore, e praticherà sino alla fine le mie opere, gli darò potestà sopra le nazioni, e le reggerà con verga di ferro, e saranno stritolate come vasi dì terra, come anch’io ottenni dal Padre mio: e gli darò la stella del mattino. Chi ha orecchio, oda quello che lo Spirito dice alle Chiese.]

TERMINA LA STORIA

INIZIA LA SPIEGAZIONE DELLA CHIESA PRECEDENTEMENTE DESCRITTA NEL SECONDO LIBRO

[4] All’angelo della Chiesa di Tiàtira scrivi: Così parla il Figlio di Dio, Colui che ha gli occhi fiammeggianti come fuoco e i piedi simili all’oricalco. Conosco la vostra condotta: la vostra carità, la vostra fede, il vostro spirito di servizio, la vostra pazienza nella sofferenza; le vostre ultime opere superano le prime. Gli occhi come una fiamma di fuoco, e i piedi come simili all’oricalco, sono i suoi occhi che giudicano tutte le cose, e la cui carne immacolata, che luccica come metallo prezioso, brillerà con la chiarezza del fuoco. Dice alla sua Chiesa della quale conosce la condotta: la carità, la fede, lo spirito di servizio, la pazienza, e che le tue ultime opere superano le prime: questo significa che ci sarà un numero maggiore di Santi alla fine dei tempi, quando arriverà l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, ed innumerevoli migliaia di Santi saranno sacrificati nel loro stesso sangue. Ma ora Egli le si rivolta contro, dicendo: « Essa tollera Jezabel, quella donna che viene chiamata profetessa, e che insegna e va angariando i miei servi perché si diano alla fornicazione e mangino carne sacrificata agli idoli. » A cosa si riferisce la figura di quella fornicatrice Jezabel se non ad una certa dottrina, che insegnava a mangiare la carne sacrificata agli idoli, che ricevettero un tempo di penitenza, lo disprezzarono e non vollero pentirsi? Ma questa dottrina degli idoli ed il letto del dolore, cioè il piacere di questo mondo, si rivela  infermità e debolezza. E a coloro che commettono adulterio a causa della sua dottrina, promette che su di loro si abbatterà la più grande tribolazione nel giorno del giudizio. Infatti Jezabel significa “sterquilinium = letamaio“, o flusso di sangue. Cosa c’è nel letamaio se non sporcizia? Cosa si intende per sangue se non il crimine ed il peccato per cui si commette il crimine? Non c’è da stupirsi quindi se venga loro promessa la dannazione futura se non fanno penitenza in riparazione delle loro azioni. Il testo, poi, designa in un unico soggetto la Chiesa; e nel dire: so che le tue opere superano le prime, è indicata in generale la persona di tutti i Santi. Quando dice: tolleri Jezabel, quella donna …, si riferisce ai prepositi, cioè ai Vescovi, che hanno il potere di permettere o proibire. Come in questa Chiesa particolare, gli uffici e le qualità si distinguono solo dalla logica del discorso, così è per il passaggio da una Chiesa particolare a tutta la Chiesa: si dichiara colpevole il Vescovo perché – permettendole – si rende partecipe delle opere che si compiono. E gli ho dato il tempo di pentirsi, ma lui non vuole pentirsi della sua fornicazione. Perché non dice “a voi” ho dato il tempo di pentirvi, invece che “gli”? Perché la Chiesa ha, come abbiamo detto, due parti in un solo uomo, parlando della Chiesa in figura di uomo. Una parte è quella che fa penitenza, e l’altra è quella mondana, che, con sotto il nome di Cristianesimo, fa tutto quel che è male. E ci sono, da entrambe le parti, predicatori mendaci che, sotto il nome di Religione, annunciano loro una grande pace, promettendo loro sicurezza, ed insegnando che debbano essere ascoltate nuove profezie. Essa ha in questa stessa parte alla quale ci riferiamo, sacerdoti e leviti dediti ai crimini e alla lussuria. E quelli che abbiamo detto mostrare una falsa pace: sono coloro che, sembrando religiosi, vogliono barcamenarsi tra le due parti. Questa è Jezabel, che seduce gli uomini semplici affinché non facciano penitenza. « O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo » (1 Cor. VI, 16)… e questa fornicazione spirituale avviene all’interno della Chiesa. L’Apostolo ha detto di questa fornicazione che è:  « … fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è servitù degli idoli, » (Col. III, 5). L’idolatria è, in effetti, l’adorazione degli idoli: “Latria” in greco, in latino si intende “adorazione”. Perciò il Signore ammonisce la Chiesa che vive rettamente, e dice di avere molte cose contro di essa, a causa di questa donna, Jezabel, che seduce i servi di Dio, e si considera una profetessa, per giunta cristiana, giacché sotto il nome di “cristianità” fa molte cose illecite ed è in contrasto con la verità. Ed è per questo che il Signore dice di essere contro di essa, richiamando la totalità in un solo Angelo, come abbiamo detto, con il cui nome è indicata una sola Chiesa. Ma coloro che, pur essendo santi sacerdoti, non rimproverano la parte malefica perché si corregga dai suoi mali, diventano partecipi delle loro opere. Di questi dice attraverso il Profeta: « Se vedi un ladro, corri con lui; e degli adùlteri ti fai compagno… Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre. » (Psal XLIX, 18-20). Questo fratello è Colui che ha detto: « va’ e dici ai miei fratelli » (Mt. XVIII, 10), cioè Cristo, che, assumendo la carne della Chiesa, ha voluto essere chiamato fratello. La madre è la Chiesa; il figlio della madre è un qualsiasi Cristiano. Il sacerdote disonora il figlio della madre quando, con il suo silenzio, dà loro il permesso di peccare. Oppure, se li avverte, non lo fa con la carità e l’umiltà necessaria; oppure esaspera coloro che peccano gravemente, senza dar consigli onde riconquistarli, ma rimproverandoli con orgoglio, portandoli alla disperazione, e provocando così grande scandalo al figlio della madre. Perciò gli si dice: ho molto contro di te, perché tu tolleri Jezabel, quella donna. Osservate che nelle chiese precedenti dice di avere poche cose; qui invece dice di avere « molte cose » contro di essa, perché si rende complice con il suo consenso; giacché se non fosse complice con il suo consenso, li avrebbe come nemici. E fa di tutti loro una sola Chiesa. Voleva mostrare la Chiesa rappresentanza dei Santi, cioè dei predicatori, che è la parte del Signore; invece, il fornicatore non è sua parte, ma è parte aliena. Queste due parti sono rappresentate nei predicatoti da un solo uomo, perché anche in un solo uomo abbiamo due lati, il destro ed il sinistro. Ed in esso ci sono molte membra, ma unico è il corpo. Esso ha membra sane e membra malate. Le membra sane sono i Santi, le malate sono i peccatori. La sua mano destra sono i Santi, la sinistra sono i peccatori. E come nell’uomo ci sono membra malate, così che le sane ne risentano dolore, l’uomo è liberato dal suo malessere quando si apre la ferita drenandola all’esterno, cosicché vengano cacciati gli uomini malvagi – che formano il lato sinistro – dalle membra sane della Chiesa, che sono il lato destro, come avviene per gli umori del male. Come intendiamo quest’uomo in particolare, così si deve capire – in generale – che egli rappresenta una sola Chiesa, di cui dice: scrivete all’Angelo della Chiesa di Tiatira; e che gli Angeli sono così ripartiti in modo tale che si possano riconoscere solo dalla logica del discorso, e quello che dice con la sua saggezza, con la sua pazienza, con la sua umiltà e carità, lo dice ad ognuno. Devesi quindi considerare ciò che dice, a chi lo dice, come lo dice, e quando convenga dirlo. Così parla il Signore nel Vangelo: « Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo ed osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. » (Mt. XXIII, 2). Si nasconde il genere nella specie. Perché allora erano i suoi discepoli coloro ai quali diceva queste cose, e ora sono i discepoli coloro che dicono queste cose. Allora c’erano i farisei, cioè i separati, che predicavano diligentemente la Legge ma non conoscevano Cristo; e pure qui ci sono i farisei, cioè i sacerdoti separati, che predicano Cristo ma senza conoscerlo. Quelli erano coloro che non credettero in Lui, non Lo riconobbero, ma Lo crocifissero; perché se Lo avessero conosciuto, non Lo avrebbero crocifisso (1 Cor. II, 8); ora nella Chiesa ci sono quelli che ogni giorno crocifiggono Cristo, e sono cioè i suoi membri. Così nella specie è nascosto il genere. Se questo fosse qualcosa di particolare, e non indicasse cosa accadrà nella Chiesa, il Signore avrebbe ordinato ai Suoi servi di viverne fuori, Egli che aveva comandato di compiere le opere che dicevano gli scribi ed i farisei, ma di non fare le opere che essi realizzavano. O ha dato forse i suoi comandamenti solo per due giorni, dato che non è sopravvissuto di più? … come Egli stesso ha detto: « So che tra due giorni sarà la Pasqua, e il Figlio dell’uomo sarà tradito » (Mt. XXVI, 2). E secondo Giovanni, sei giorni prima della sua passione, quando entrò a Gerusalemme, cavalcò su un puledro. E dopo questo ingresso avrebbe ritirato questi comandamenti, come abbiamo visto in Matteo? Se avesse lasciato questi comandamenti solo per l’inizio della sua predicazione, questa sarebbe durata un anno. E perché avrebbe avuto bisogno di insegnarli in quell’anno solo, se servivano solo alla passione? Ma – come detto – ciò che insegnava, lo insegnava come similitudine; cioè ad immagine di ciò che sarebbe successo a noi oggi nella Chiesa, e da lì sarebbe servito come esempio ed autorità nel futuro per i malvagi, cioè per coloro che siedono sulla cattedra di Mosè, cioè per i Sacerdoti che cercano i primi posti ed i primi seggi nella Chiesa, affinché facciamo e adempiamo ciò che essi dicono, non comportandoci però come essi fanno. Chi insegna su questa cattedra di solito vive accanto a chi dice e a chi fa. Ecco perché dice: ho molte cose contro di te: che tu tolleri Jezabel, quella donna. Questi, sotto il nome di Cristianesimo, insegnano la fornicazione e l’idolatria spirituale, mentre a noi sembra che servano solo l’altare: questo avviene nella simulazione della fede, e non per la difesa della Religione. Sono essi simili ai Farisei, che pagavano « … la decima della menta, dell’anèto e del cumìno » (Mt. XXIII, 23) e dimenticavano la giustizia di Dio. Questi hanno una rassomiglianza, cioè una simulazione di santità, perché servono il diavolo e distribuiscano al popolo i sacramenti: cioè il Battesimo, la Comunione, la benedizione del popolo, l’annuncio del Salterio e del Vangelo. Questa è la dottrina della Cattedra di Mosè. Questi sono i loro proseliti, i figli della condanna, peggiori di loro. Sono chiamati proseliti, come i pellegrini che venivano da terra straniera e si mescolavano col popolo giudeo nella fede e nella circoncisione. I sacerdoti li consideravano dei farisei, e così li circoncidevano, perché fossero santi; e facevano la stessa cosa dei farisei stessi che li istruivano; ed erano, gli uni e gli altri, figli della condanna. Allo stesso modo, questi cattivi sacerdoti si considerano all’interno della Chiesa, ed è per questo che proclamano il Vangelo e battezzano, e pensano di avere la vita eterna. E siccome essi stessi sono malvagi, così anche essi generano figli malvagi con il loro esempio; e sono questi figli della dannazione, perché imitano nella loro condotta coloro che li hanno resi Cristiani. Per questo dice: “Insegna e inganna i miei servi nel commettere fornicazione e a mangiare carne sacrificata agli idoli“. Perché, come abbiamo detto, sotto il nome di Cristo ha insegnato la fornicazione e l’idolatria spirituale. Ma come ha fatto chi si considerava un profeta nella Chiesa ad insegnare apertamente il culto degli idoli? Non diciamo che egli adorasse gli idoli, o credesse e predicasse un altro Dio, diverso dal Padre e dal Figlio e dallo Spirito Santo: un solo Dio; ma che, apparendo nelle sembianze materiali del Cristianesimo, commettesse adulterio spirituale. E l’adulterio spirituale è appunto l’idolatria. Quando qualcuno fa qualcosa che non sia conforme alla Sacra Scrittura, non solo nelle cose più importanti, ma anche nelle cose minime, considerate di nessun valore, è questo che si chiama idolatria; così infatti lo definì lo Spirito attraverso l’Apostolo, che, quando contestava i falsi fratelli, concludeva dicendo: « Perciò, o miei cari, fuggite l’idolatria. » (1 Cor. X, 14); e ancora: « Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli? » (2 Cor. VI: 16). Perché non tutti i sacerdoti sono sacerdoti; non tutti i diaconi sono diaconi. Guardate Pietro, ma non dimenticate Giuda! Vedete Stefano, ma non dimenticate Nicolas! Queste cose c’erano forse solo agli inizi della Chiesa? Ci sono ancor oggi. Quindi nella specie si mostra il genere. E il genere si riferisce alla specie. Pietro ha dei discepoli imitatori? Li ha anche Giuda! Stefano ha avuto diaconi imitatori? Si, ma anche Nicolas! Pietro predica il Vangelo di Cristo, così come Giuda. Pietro battezza nel nome della Trinità, anche Giuda battezza. Pietro ha il potere nella Chiesa di legare e sciogliere i peccati, così come Giuda, ingannando i servi di Dio nel fornicare e nel mangiare la carne sacrificata agli idoli. Ecco qui, in una stessa casa ci sono due altari. Ecco un letto comune, e Cristo diviso. Così testimonia la verità nel Vangelo, dicendo: « Voi siete il sale della terra; ma se il sale diventa insipido, non serve a nulla se non ad essere gettato nel letamaio » (Mt V, 13). E così Jezabel nel suo nome fa riferimento al letamaio (4 Re IX: 30), perché fu gettata oltre il muro fuori dalla città e cadde in un letamaio per essere mangiata dai cani. Ciò è detto in modo che chiunque non creda che questo accadrà, possa leggere la storia di Jezebel, e ciò che è accaduto al suo corpo, per suo vantaggio, lo possa prevedere nella Chiesa. Infatti se le sue opere non fossero state fatte nuovamente, la Chiesa di Tiatira non sarebbe stata avvertita dallo Spirito; né era necessario che la si ricordasse, poiché era morta già da tanto tempo, da tanti anni. Ma Egli dice: sta insegnando e ingannando i miei servi a fornicare e a mangiare carne sacrificata agli idoli; io gli ho dato il tempo di ravvedersi, ma lui non vuole pentirsi della sua fornicazione. Vedete, essa sarà gettata nel letto della sofferenza, e coloro che commettono adulterio con lei, se non si pentono delle loro azioni, finiranno in una grande tribolazione. Colpirò a morte i suoi figli: cioè i discepoli che ha generato con la sua dottrina. Ricorda loro che saranno condannati alla seconda morte. Infatti, come i santi Apostoli sono chiamati figli di Dio, e i dottori sono chiamati figli degli Apostoli, e i rimanenti Santi figli dei dottori, così tutti nella Chiesa sono considerati figli dei Sacerdoti buoni o cattivi. E tutti quelli che sono imitati nella Chiesa, si dice che siano suoi figli. Questo è ciò che dice il Signore nel Vangelo: « avete il diavolo per padre e volete adempiere alla volontà di vostro padre » (Gv. VIII, 44). Il diavolo ha avuto forse figli carnali? In un altro luogo si dice: figli della Gehenna (Mt. XXIII, 15). La Gehenna genera figli? No, ma si dice che le opere del diavolo siano preparate per il fuoco della Gehenna. Quindi anche questi si chiamano i figli di quella donna. E cosa dice loro? Ferirò i suoi figli a morte, cioè con la morte spirituale. Perché è attraverso il peccato che la morte è entrata nel mondo (Rm. V, 12), perché quando uno pecca, anche se sembra vivere nel suo corpo, nella sua anima è invece morto; questo proclama col dire che lo … vuol colpire a morte, non con una morte visibile, o manifesta come avviene per la carne, ma con la morte spirituale. E come pure la vendetta si manifesta in forma particolare nella madre, cioè in quei sacerdoti che si dicono all’interno della Chiesa, è chiaro che la stessa vendetta si propagherà nei loro figli e nei figli di quella donna, figli che si trovano in seno a tutte le Chiese, e quindi in coloro che, generati dallo stesso spirito, sono condannati con la morte spirituale; e se questo non si manifesta in questo secolo, pure sono già condannati per sempre. – E così, dice, tutte le chiese sapranno che sono io a scrutare i cuori e i reni, quando tornerò a ricompensare ciascuno secondo le sue opere, e a rivelare i segreti di ciascuno davanti ai suoi occhi. Ma al resto delle chiese, che non seguono questa dottrina malvagia, e non hanno conosciuto la profonda malizia di satana, dice: Non vi impongo altro peso, come se dicesse: non giudico due volte la stessa cosa: colui che si giudica da solo, non viene giudicato da un altro. Chiunque in questo mondo soffre tribolazioni a causa mia, è necessario che io lo incoroni nel mondo avvenire. Poiché non soffra in questo mondo in modo tale che Io gli imponga un altro peso: è certo che nel mondo futuro non subirà tribolazioni. A voi altri di Tiatira dico. Quando dice: Io dico a voi altri: insegna cosa sia l’Angelo, cioè la parte della Chiesa, come abbiamo detto sopra, alla quale dice: coloro che non avete sostenuto questa dottrina e non avete conosciuto le profondità di satana (Ap. II, 24), cioè non avete acconsentito loro, come dice il Signore parlando agli operatori malvagi: « … Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me » (Mt. VII, 23). Come i malfattori non conoscono Dio, anche se lo annunciano, così Dio, anche se conosce tutti, non conosce i malfattori. Allo stesso modo i giusti non conoscono la dottrina di satana, anche se ne odono e ne avvertono l’impostura. Così i giusti possono riuscire a non sentire le cose malvagie che si devono evitare e a non imitarne la condotta; ma è giusto che si trovino nella Chiesa insieme ad essi e che da essi siano molestati, in modo da essere messi continuamente alla prova, come l’oro è messo nel crogiuolo, ove viene bruciato con i carboni ardenti. Il carbone si consuma da se stesso, ma l’oro si purifica. Quindi è giusto che all’interno della Chiesa ci siano gli eretici, gli ipocriti e gli scismatici: essi bruciano, ma purificano la Chiesa come l’oro. Così sta scritto: « È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. » (1 Cor. XI,19). E ancora: « Ecco, è nel deserto, non ci andate; o: È in casa, non ci credete » (Mt. XXIV, 26), cioè la dottrina degli eretici, che si dice essere dentro le case, perché insegnano la dottrina delle Scritture nelle abitazioni; o se vi dicono: guardate, Cristo è nel deserto, cioè tra i pagani – perché il deserto significa i pagani – perché lì non si insegna la retta predicazione delle Scritture. Così è nella Chiesa, in tutto il mondo, quando i futuri fedeli saranno da loro messi alla prova per la vita beata, nell’umiltà e nella pazienza. E agli uomini malvagi il Signore annuncia tanti mali futuri, mali che gli stessi eretici predicano essere in questo mondo il dolore della Gehenna. E perciò i giusti sono più degni di lode, sopportando e perseverando nella carità fino alla fine della loro vita,  e soffrendo con pazienza, finché i malvagi si infiammino nella persecuzione, diventino laidi per la loro ostinazione, e perdurino nell’uccidere crudelmente fino al termine della loro vita, cosicché sappiano chiaramente perché saranno condannati all’inferno. D’altra parte, ai giusti già messi alla prova, si dice: non vi impongo un nuovo peso, cioè più di quanto possiate sopportare. Cioè, non c’è altra dottrina se non quella che avete ricevuto, ed in proporzione alla forza che vi ho dato, per essere forti; in quella proporzione vi impongo in questo mondo il peso della tribolazione e dell’angoscia che potete sopportare. Resisti fermamente finché non ti restituisco quello che hai. Al vincitore, a colui che sostiene le mie opere fino alla fine, io darò il potere sulle nazioni; le pascolerà con bastone di ferro e le frantumerà come vasi di terracotta, con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio. Ha detto prima: non vi impongo un nuovo carico; qui dice: finché non tornerò, conservate quello che avete, e se persevererete nelle mie opere fino alla fine, non ci sarà per voi una tribolazione più grande di quella che sopportate presentemente nel mondo; non vi aggiungerò cioè una tribolazione futura. Ed esorta piuttosto a conservare ciò che ha, cioè la dottrina apostolica, e a conservarla sempre, fino alla venuta del Signore. A chi è adempiente, sarà dato potere sulle nazioni, e gli sono promessi regni, affinché le governi con uno scettro di ferro e le frantumi come vasi di argilla. Si riferisce qui agli angeli apostati che abbandonarono il loro principato, e saranno condannati dai Santi nel giorno della sentenza di condanna, quando saranno gettati alla morte eterna, come dice l’Apostolo: Non sapete che giudicheremo gli angeli? (1 Cor. VI: 3). E poi dice: gli darò il potere, come l’ho ricevuto anch’Io dal Padre mio. Credo sia per questo che Giovanni avesse detto nella sua lettera: « quando apparirà saremo come lui » (1 Gv III, 2). E gli darò anche la luce del mattino, che è il Signore Gesù Cristo che non conosce vespro, ma è luce sempiterna, è sempre nella luce; e dice tuttavia alle Chiese: colui che ha i sette spiriti di Dio, cioè il Signore Gesù Cristo, nel quale riposa lo Spirito Santo, che è di una sola e medesima natura, e nella cui mano ci sono le sette stelle, di cui abbiamo parlato sopra. E rimproverando la negligenza di molti nella congregazione della Chiesa, dice che in questa Chiesa c’è Jezabel, “quella donna”: la chiama “donna” perché ha visto una condotta effemminata e rammollita; ed infatti chiunque viva mollemente e si prenda cura del proprio corpo è chiamato nelle Sacre Scritture non uomo, bensì “donna”.

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (6)

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (4)

La palma, simbolo della vita del giusto

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (4)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770]

LIBRO SECONDO

COME CONVIVONO LA CHIESA E LA SINAGOGA

[9] Chiesa e Sinagoga sono lo stesso nome, perché ciò che noi chiamiamo Chiesa, i Giudei chiamano Sinagoga. Tuttavia, questi nomi hanno la loro origine negli Apostoli, che chiamarono la Sinagoga « congregazione » e diedero alla Chiesa il nome di « assemblea ». Perché mentre l’una si riunisce, l’altra convoca, dal momento che la Chiesa invita tutti, buoni e cattivi, a farne parte. Ecco perché nelle Sacre Scritture essa è designata con molti nomi. A volte viene chiamata fornicatrice e meretrice, a volte vergine, a volte sorella, a volte sposa; a volte moglie, a volte madre, a volte figlia; a volte regina, a volte concubina, a volte fanciulla, vicina, amica … Cosa significa meretrice, se non che è alla portata di tutti? A tutti quelli che vengono da essa, la Chiesa non nega la fede, ma si prostra a tutti quelli che vengono. Ecco perché Rajab, la prostituta, era figura della Chiesa. Ella legò un cordone scarlatto alla finestra, di modo che quando di nascosto arrivò Giosuè, figlio di Nave, vedendo il segnale scarlatto, si potessero salvare sia la stessa Rajab che tutti quelli della sua casa. Così Gesù Cristo, Figlio di Dio, quando verrà a bruciare questo mondo con il fuoco, mediante il segnale scarlatto, salverà la Chiesa e coloro che Egli riterrà essere rimasti in essa, cioè i martiri ed i penitenti. – Essa è vergine, perché annovera le vergini del corpo e dello spirito, come sta scritto: « … le vergini saranno portate al re » (Psal. XLIV, 15). È una sorella, come si legge nel Cantico dei Cantici sulla Chiesa che doveva essere costituita tra i popoli, allorquando non avevano ancora un Testamento: « Abbiamo – dice  una sorella più piccola, ed ella non ha ancora seni (Cant. VIII, 8). È chiamata fidanzata, perché Cristo le si è legato con l’anello della fede, secondo dice Egli stesso nel Vangelo: « Tutte quelle vergini si sono alzate, hanno acceso le loro lampade e sono uscite per incontrare lo sposo e la sposa » (Mt. XXV, 1). È chiamata sposa, perché attraverso i figli che predicano, Cristo genera da Essa, come sta scritto: « … tua moglie sarà come una vite feconda in mezzo alla tua casa, ed i tuoi figli come virgulti d’olivo intorno alla tua tavola » (Psal. CXXVIII: 3). Si chiama madre, perché è perfetta, come sta scritto: “Lei sola è la mia perfetta“. Lei è l’unica di sua madre (Cant. VI: 9), e ogni giorno allatta i suoi figli con i due seni del Testamento, come si dice: « i vostri due seni, come due gemelle gazzelle che pascolano tra i gigli » (Cant. VII: 3). Allatta queste due giovani gazzelle, cioè i due popoli, che vengono dalla circoncisione e dalla incircocisione. Si chiama figlia, perché riconosce un padre proprio, secondo sta scritto: « ascolta, figlia, e vedi; inclina l’orecchio e dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre – cioè il diavolo – e il re amerà la tua bellezza, perché egli stesso è il Signore tuo Dio e lo adoreranno » (Psal. XLIV, 11). – Fino a questo punto lo Spirito Santo ha parlato al Re stesso attraverso la  bocca del profeta, che paragona ad un calamo che scrive velocemente, chiamandolo guerriero, Dio e sposo. Da qui ci viene presentata la Persona del Padre che parla alla Sposa di suo Figlio e la esorta, disprezzando l’antico errore del gentilesimo e dell’idolatria, per cui è chiamata figlia e non estranea; ascolta prima di tutto ciò che le viene detto; poi contempla o ciò che le viene detto o l’intero creato; e comprendendo l’invisibile per mezzo delle cose visibili e per mezzo delle creature che conoscono il Creatore, inclina l’orecchio diligentemente a conservare nella memoria tutto ciò che viene detto. E quando avrai udito, visto e inclinato l’orecchio, e ti sarai data completamente alla dottrina ed alla comprensione di tutto ciò che ti viene detto, dimentica il tuo primo padre e, come Abramo che lasciò la Caldea, lascia la terra della tua nascita e dei tuoi simili. Nessuno può dubitare che nostro padre, prima di essere adottati da Dio, fosse il diavolo, di cui il Salvatore dice: voi siete figli del diavolo (Gv. VIII, 44). Quando, dunque, avrai dimenticato il tuo antico padre, e ti mostrerai in modo tale che, eliminate le immondizie, sarai vestito di bianco e cavalcherai tuo fratello Cristo, e il Figlio mio potrà amarti, allora il Re amerà la tua bellezza. Ciò che è nella figura della sposa alla quale abbiamo paragonato la Chiesa, congragata tra i popoli, ognuno può riferirlo a se stesso: cioè l’anima che crede rettamente, che si allontana dai vizi di un tempo, è subito adottata da Dio come figlia. E se, come figlia, è adottata, deve inclinare l’orecchio, dimenticare la vecchia dimora e, come un apostolo, abbandonare il padre morto e rendersi degna di essere amata dal Re. Questi è pure il suo Signore, davanti al quale deve inginocchiarsi e, deposto l’orgoglio, deve prendere il giogo dell’umiltà. È una regina, perché ha uno sposo Re, come è scritto: « alla tua destra una Regina, con un indumento dorato, vestita con colori variopinti » (Psal. XLIV: 10). E quali sono le figlie di re tra le tue preferite? Figlie di re sono coloro che si preparano all’abbraccio dello sposo, il cui trono rimane per sempre. Questi sono quelli le cui « vesti son tutte mirra, aloè e cassia, dai palazzi d’avorio ti allietano le cetre, figlie di re stanno tra le tue predilette » (Psal. XLIV, 9-10). Per mirra si intendono tutti coloro che mortificano i loro corpi, perché i corpi dei morti vengono imbalsamati con la mirra. Per la cassia, noi siamo il buon odore di Cristo. E lo sposo Cristo parla alla Chiesa sua Sposa: mirra e aloe con tutti i migliori unguenti (Cant. IV,14), e lei risponde: « le mie mani hanno distillato la mirra, una goccia delle mie dita » (Cant. V, 5). La mirra è lo stesso che la goccia. Perché il gambo è il fiore della mirra, e il gambo è chiamato la goccia, o ciò che è distillato. Quello che segue, la cassia, è lo stesso che altri chiamano fistula [La canafistula è un albero ed anche il nome di una specie di flauto]; è la lode sonora di Dio, che brucia con il suo calore tutti gli umori, i dolori dei piaceri. La Chiesa Cattolica è fondata sulla pietra di Cristo ed ha radici stabili: è una sola, la colomba perfetta, e vicina; … e sta sulla destra e non c’è nulla di sinistro in essa; è ornata d’oro, vestita di vari colori. È quindi Regina, e regna con il Re, le cui figlie possiamo considerare in generale le anime dei credenti ed in particolare, i cori delle vergini che adorano lo sposo. Le figlie di Tiro con i doni (Psal. XLIV, 13), cioè le figlie del più forte, o Essa la più forte, perché ha imitato il più forte, il cui volto, con vari regali, sarà sollecitato dai ricchi del popolo. Li chiama ricchi, o di questo mondo, o di coloro che conoscono le Scritture. – Comprendiamo anche come [possa essere dichiarata] donna e concubina, dal Cantico di Salomone, come una che non possa stare senza sposo o marito. È chiamata anche vicina e amica, perché sempre per un patto di amicizia, cioè per la fede e le opere, e nella torre di contemplazione, quanto più desidera, tanto più è vicina. Questo è quanto chiamiamo con molti vocaboli, ma non dubitiamo che sia una sola. Sicuramente si dice poi che le vergini la seguiranno, saranno condotte alla gioia e nell’esaltazione, entreranno nel palazzo del Re. Il Cantico dei Cantici mostra che ci sia molta diversità nelle anime che credono in Cristo; è scritto infatti: sessanta sono regine, ottanta sono concubine e innumerevoli sono fanciulle. L’unica è la mia colomba, l’unica mitica, di cui si dice: le fanciulle che la vedono sono felici, le regine e le concubine la lodano (Cantico dei Cantici VI, 7). Colei che è perfetta e santa nel corpo e nello spirito merita di essere chiamata colomba e vicina. Questa è la figlia di cui si è detto sopra: alla tua destra una Regina in veste dorata. Quelli che disprezzavano i sei giorni del mondo e desideravano i regni futuri, sono chiamati Regine. Quelli che hanno la circoncisione dell’ottavo giorno, ma non sono ancora arrivati al matrimonio, si dicono concubine. Le diverse moltitudini di credenti che non possono ancora essere circondati dall’abbraccio dello sposo e non possono ancora generare figli per Dio, sono chiamati fanciulle. Penso a queste vergini che seguono la Chiesa, e che sono citate nel primo punto, che sono tutti coloro che perseverano nella verginità del corpo e dell’anima. Le vedove e i continenti coniugati sono i vicini e gli amici: tutti con gioia e letizia sono portati al tempio e al talamo del Re (Psal. XLIV, 16). Al tempio, come sacerdoti di Dio; al talamo, come mogli del Re e dello sposo. Spiegheremo meglio che cosa sia questo tempio alla fine di questo libro, se il Signore ce lo permette. – Spieghiamo ora ciò che abbiamo iniziato. Quelli che prima abbiamo chiamato essere molti membri, ma un solo corpo, sono l’unica vita di tutti i Santi; ma, secondo i loro sforzi, i meriti delle ricompense sono diversi. O Chiesa, i tuoi figli, che a te hai generato, diventeranno i tuoi padri, facendo sì che diventino da discepoli, maestri, e saranno messi nell’ordine sacerdotale a testimonianza di tutti. Voi li genererete come figli: li renderete principi su tutta la terra: cioè sacerdoti santi in tutto il mondo. « A te son nati figli, li costituirai principi su tutta la terra ». Questi sono i santi sacerdoti in tutto il mondo, « memori saranno del tuo nome in ogni progenie e generazione », e questa è tutta la Cristianità, che rimane nella Chiesa, per cui confesseranno e loderanno il Signore per sempre ed in eterno e nei secoli dei secoli, e affinché, una volta iniziate le ostilità, Egli non li abbandoni e, camminando vittorioso sulle devastazioni dei nemici, preparerà per sé un regno in coloro che, salvandosi dal potere del diavolo, si sono uniti al suo comando dicendo: « Sono stato fatto re da Lui sul suo santo monte di Sion » (Psal. II, 6). Nessuno esita a chiamare Cristo verità, umiltà e giustizia, perché dice: Io sono la via, la verità e la vita (Gv. XIV, 6), e imparate da me, perché sono mite e umile di cuore (Mt XI, 29), e Colui che Dio ha reso per noi giustizia, redenzione e santificazione (1 Cor. I, 30). Tutte queste cose si riferiscono al corpo per esigerlo dai suoi membri. La Vittoria del Signore è il trionfo dei suoi servi. La saggezza del Maestro, è il progresso dei discepoli. Ma si chiede: come è il più bello di tutti i figli degli uomini, colui di cui leggiamo in Isaia: « non lo vedevamo in apparenza, né in bellezza, ma in apparenza era spregevole, e come un rifiuto degli uomini: l’uomo dei dolori, e conoscitore del dolore, davanti al quale si nasconde il suo volto? » (Is. LIII: 2). E non crediate avventatamente che la Scrittura sia in contraddizione: perché lì si ricorda la bruttezza del corpo, a causa dei flagelli e degli sputi, degli schiaffi e dei chiodi, degli insulti del patibolo; e qui invece è la bellezza delle virtù, nel Corpo sacro e degno di venerazione. Non che la divinità di Cristo, comparata agli uomini, sia di maggiore bellezza, – perché non c’è paragone -, ma, senza tutte le sofferenze della croce, è la più bella in assoluto: è Vergine da una Vergine, poiché non è nato per volontà della carne, ma è nato da Dio (Gv. I, 13). Se non avesse avuto qualcosa di celeste nel volto e negli occhi, gli Apostoli non l’avrebbero seguito subito; né sarebbero stramazzati a terra coloro che erano venuti a catturarlo. Infine, per la citata testimonianza in cui si dice: l’uomo del dolore e conoscitore del dolore, diede il motivo per cui ha patito queste cose: … perché ha nascosto il suo volto, cioè ha nascosto e coperto un po’ la sua divinità, lasciando il corpo all’ingiurie. Alcuni hanno unito questo versetto ai precedenti, in modo che il più bello dei figli degli uomini non si riferisca a Cristo, ma al calamo: è stato versata la grazia sulle tue labbra. Possiamo capire in che senso sia stato detto che la grazia è stata versata sulle tue labbra: cioè tutta la moltitudine della Grazia è stata versata sulle labbra del Salvatore, che in breve tempo ne ha riempito il mondo intero. « Là pose una tenda per il sole che esce come sposo dalla stanza nuziale, esulta come prode che percorre la via. Egli sorge da un estremo del cielo e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore. » (Psal. XVIII, 6). Infatti anche Maria, che ha concepito Colui in cui abita tutta la pienezza della divinità (Col 2, 9), è salutata  come “la piena di grazia” (Lc. I, 28). E avverte che tutto ciò che viene detto debba essere riferito con intelligenza alla Persona di Colui che è stato assunto dalla Vergine, perché si dice che per la grazia delle sue labbra è benedetto per sempre. Di lui è stato detto dal Profeta: “La tua sede è Dio nei secoli dei secoli; la verga della giustizia è la verga del tuo regno“. Tu amavi la giustizia e odiavi l’iniquità; perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto con l’olio della letizia più di tutti i tuoi compagni. Quello che noi chiamiamo un seggio, i Giudei lo chiamano un trono. Quello che dice qui: Dio, il tuo Dio, ti ha unto, si comprende che si riferisce a due persone, questi che è unto come Dio e Colui che lo ha unto. Certo, l’Angelo l’ha annunciato anche a Maria: « il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre ed Egli regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine » (Lc. I, 32). E non pensiamo che questo sia contrario a quanto l’Apostolo dice per iscritto ai Corinzi: « E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti. » (1 Cor. XV, 24). Perché non ha detto di sottomettersi al Padre, come se il Figlio sia separato, ma di sottomettersi a Dio, cioè a quel Dio che abita nel corpo assunto, per essere tutto in tutti. E Cristo, che prima era nei singoli per poche virtù, dimora così in tutti con tutte le virtù. La verga della giustizia, è la verga del tuo regno. La verga e lo scettro sono i simboli di colui che regna, come dice il Profeta: « una verga uscirà dal ceppo di Iesse, e un virgulto uscirà dalle sue radici » (Is. XI, 1). Si intende che si tratti dell’uomo che è stato assunto, al quale viene offerto il comando e che si dice che regni, perché amava la giustizia e perché odiava l’iniquità; che è stato unto con l’olio della gioia più di tutti i suoi compagni; che lo riceverà nell’unzione come ricompensa dell’amore e dell’odio. Ci viene insegnato che in noi sono i semi di entrambe le realtà, dell’amore e dell’odio: perché Colui medesimo che ha innalzato al cielo le primizie del fango del nostro corpo, ha amato la giustizia ed ha odiato l’iniquità. Per questo David dice: « Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano e non detesto i tuoi nemici? Li detesto con odio implacabile come se fossero miei nemici. » (Sal CXXXVIII, 21). I compagni sono gli Apostoli e i credenti, che Egli ha designato con la parola dell’unzione, perché dall’unto viene l’unto, cioè il Cristiano. Ecco il Capo unito ai membri: esso sono Cristo e la Chiesa Apostolica in cui crediamo, e che proclamiamo sempre con una sola voce con tutti i Cristiani in comune, dicendo:

IL SIMBOLO

[10] Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, e in Gesù Cristo, suo Figlio, che per la nostra salvezza si è incarnato nel seno della Vergine Maria, ha patito, è morto ed è risorto il terzo giorno dai morti. È salito al cielo, siede alla destra del Padre e il suo regno non avrà fine. Egli verrà a giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio; nella Santa Chiesa Cattolica ed Apostolica, e speriamo di ottenere per suo mezzo il perdono dei peccati, mediante l’unico battesimo della Trinità. Crediamo che, con questa carne risorgeremo nel giorno del giudizio, quando Cristo verrà a giudicare i vivi ed i morti, e a dare ai giusti la ricompensa ed ai malvagi i tormenti della punizione eterna. Questa è la fede apostolica che la Chiesa professa in tutto il mondo, illuminata dal sole, da Cristo e, lungo la durata delle dodici ore del giorno, dagli Apostoli. Infatti la Chiesa, per la purezza della sua fede, si chiama luce e giorno, come dice il Salmista: « Questo è il giorno fatto dal Signore, esultiamo e gioiamo in esso » (Psal. CXVII, 24). – La Sinagoga, invece, per l’ignoranza del suo errore, si chiama notte e tenebre, come è scritto: « il giorno al giorno comunica il Verbo, e la notte alla notte ne trasmette la scienza » (Psal. XVIII, 3). Giorno dopo giorno, cioè, gli Apostoli predicano il Salvatore ai credenti. La notte invece trasmette la scienza alla notte, cioè Giuda, colui che ha tradito Cristo, ai Giudei. Ecco cosa è in una medesima congregazione il giorno e la notte, e ciò che è stato fatto crediamo sia stato fatto non senza ragione. Infatti, tutto ciò che è scritto nel Vangelo, dice l’Evangelista, è stato fatto dal Signore in un anno. E se questo fosse avvenuto solo perché Cristo soffrisse e gli altri lo abbandonassero, a cosa servirebbe l’essere scritto nel Vangelo e letto nella Chiesa, se non fosse figura del futuro, e quindi diventasse un modello ed un’autorità per il futuro? Solo allora c’erano i Farisei, di cui Egli diceva ai discepoli: « fate quello che essi dicono, ma non fate quello che fanno » ? (Mt. XXIII, 3). Solo allora c’era forse la Sinagoga della quale si era detto, attraverso il Profeta, quel che era stato fatto per mezzo degli Apostoli, col dire: « Signore: che libello di ripudio è quello con cui ho ripudiato la vostra madre? … Ecco, che voi per le vostre scelleraggini siete stati venduti, e per le vostre scelleraggini ho io ripudiato la vostra madre. » (Is.  L, 1). Se dobbiamo credere che ciò sia accaduto solo in quel tempo e non adesso, perché si legge nella Chiesa la profezia, o l’Apostolo o il Vangelo? E se si debba solo leggere e non fare, perché allora il Signore ha detto nel Vangelo: « In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un apex dalla legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. »? (Matth. V, 18-20). E come aveva detto in precedenza: « … non sono venuto ad abolire la legge, ma a compierla »: vedasi che quello che insegnava, lo faceva, e lo insegnava non solo con le parole, ma altresì con gli esempi, come quando ha lavato i piedi dei discepoli ed altro ancora. E se non l’ha abolita e non ha ordinato ai discepoli di abolirla, è perché i Farisei hanno fatto delle opere giuste, anche se non con lo spirito, ma solo con il corpo, dicendo: « se la vostra giustizia non è più grande di quella degli scribi e dei farisei… ». E  penso che le loro opere venissero dalla sapienza degli scritti; tuttavia, la santità che manifestavano al mondo esterno serviva loro solo per essere ammirati dagli uomini, dei quali prendevano le decime, secondo quanto dice il Signore: « sfigurano il loro volto con il digiuno, perché gli uomini se ne accorgano »  (Mt. VI, 16). “Farisei” è una parola che significa separati, perché erano in contrasto con i Sadducei: essi sono gli scribi. I farisei sono chiamati “separati” perché preferiscono la giustizia delle tradizioni e delle osservanze, quella che chiamavano “deuterosi”, e per questo erano per la gente “separati”, come per giustizia. Sadducei significa giusti: essi rivendicavano per se stessi ciò che non erano. Ecco come tuttora anche nella Chiesa possiamo verificare, conformemente a questo Vangelo ricevuto da Cristo, come questi Farisei esistano ancora nella Chiesa. Sono i sacerdoti che cercano le prime cattedre, affinché gli uomini li chiamino maestri; che lavorano se non per essere onorati dagli uomini. E ricercano lucro nel mondo, non per conquistare le anime, ma per soddisfare la loro avidità. C’è anche la Sinagoga nella Chiesa: perché se non ci fosse stata, il Salvatore non ci avrebbe avvertiti, dicendo: « vi consegneranno ai tribunali e vi frusteranno nelle loro sinagoghe » (Mt. X, 17). Vi è nello stesso luogo la Sinagoga e la Chiesa, separate nell’essere e nell’operare. E come chiamiamo la Chiesa “giorno” con la sua fede e con la sua condotta, così chiamiamo la sinagoga “notte” per l’ignoranza del suo errore; il sole splende di giorno e nella manifestazione delle opere buone, come sta scritto: « Lascia che la tua luce risplenda davanti agli uomini, perché vedano le tue opere buone e rendano gloria al Padre tuo che è nei cieli » (Mt. V, 16). E poiché l’ignoranza è tenebra, all’inizio della creazione si diceva: « … le tenebre coprivano la faccia dell’abisso » (Gen. I, 2). Abbiamo già dimostrato che l’abisso è un pozzo oscuro, cioè sono gli uomini ignoranti. Sulla superficie infatti dell’abisso vi erano le tenebre, cioè la cecità del peccato ed il buio dell’ignoranza: … e la sera ed il mattino erano il primo giorno. Si vede la sera e il giorno uniti, ma l’uno dà la luce e l’altra le tenebre. Uno prepara il cammino, l’altra la quiete, o, se si è in viaggio, non offre luce agli occhi. E cos’è la notte se non l’assenza del sole, e cos’è il giorno se non la presenza del sole? In questo giorno e questa notte si dice che si compiono ventiquattro ore, fino a quando il giorno e la notte concludano nella diversità del cielo gli spazi del loro corso da alba ad alba. In modo riduttivo, quindi, il giorno è lo spazio dall’alba al tramonto. Si dice che vi sia un giorno, ma esso passa attraverso la luce e le tenebre. La Chiesa e la Sinagoga sembrano giustamente lavorare nello stesso luogo, e si dice che abbiano la stessa fede; ma si manifestano diversamente nelle loro opere. Perché come la presenza del sole è il giorno, e l’assenza del sole è tenebra, così Cristo è luce per i suoi, e il demonio, che è l’autore della morte, è tenebra per i suoi. Pertanto, la Scrittura chiama giustamente gli uomini santi “giorni” ed i peccatori “tenebre”. E non parliamo solo di peccati quando parliamo di tenebre, perché ci sono tenebre anche in coloro che non comprendono le Sacre Scritture ed insegnano tutt’altro, come sta scritto: « Si avvolgeva di tenebre come di velo, acque oscure e dense nubi lo coprivano » (Psal. XVII, 12), ed infatti è oscura la scienza dei profeti. Questo giorno e questa notte sono considerati come un unico giorno, dall’alba del sole all’alba successiva, perché sono racchiusi nello spazio di ventiquattro ore; ma chi non ha la luce, sia di giorno che di notte, non vede nulla. Così la Chiesa e la Sinagoga sembrano lavorare in comune, e gli ignoranti non riescono a vedere quale sia la luce della Chiesa; e sia i sacerdoti che il popolo che li segue, sembrano avere una dottrina comune. L’unica Chiesa li tollera entrambi, perché con la sua benevola pietà ne attende pazientemente il pentimento, e attraverso di essa ed in essa concede gratuitamente il perdono dei peccati. Solo Egli conosce chi stia in piedi e chi sia caduto. Solo Lui sa perché o per quale scopo siano stati scelti per il popolo sacerdoti nefandi. E benché la Chiesa abbia zelo, la malizia è sempre superiore. Ma ciò che essa non si spinge a condannare, lo riserva al giudizio divino, e tremando, nel dubitare, esclama con l’Apostolo: « O abisso della ricchezza, sapienza e conoscenza di Dio, quanto sono insondabili i suoi disegni e le sue vie! » (Rm. XI, 33).  Quindi, ascoltate attentamente il motivo per cui si parla di una sola Chiesa e cosa ci sia da sapere su di essa, perché questo scrupolo rode molti. E per ritenere qualcosa dalle Sacre Scritture, venite con piacere e preparatevi con tutto il vostro essere ad ascoltare, e comportatevi non con arroganza, ma con umiltà. – L’arca di Noè era modello della Chiesa, come dice l’apostolo Pietro: « nell’arca di Noè, alcune, cioè otto anime, sono state salvate dall’acqua; figura questa del Battesimo che oggi vi fa salvi » (1 Pt. III, 20). Come colà c’erano animali di tutti i tipi, così in questa Chiesa ci sono uomini di tutte le nazioni e di tutti i costumi; come là c’erano leopardi, capre, leoni, lupi e agnelli, così ci sono qui giusti e peccatori, cioè vi dimorano vasi pregiati d’oro ed argento, insieme a vasi di legno e di coccio. E come l’arca aveva i suoi nidi, anche la Chiesa ha molte abitazioni. Otto anime di uomini sono state salvate nell’arca: e l’Ecclesiaste ci comanda: « … occupatevi di sette e anche di otto » (Ecclesiaste XI, 2), cioè credete ad entrambi i Testamenti. Ecco perché alcuni salmi sono scritti “pro octava” ed ogni strofa è di otto versi. Il salmo centodiciotto, considerato perfetto, è alfabetico, perché ogni ottava comincia con una lettera (dell’alfabeto). Così anche le beatitudini che Gesù ha annunciato ai suoi discepoli sulla montagna e che ha proclamato attraverso la Chiesa, sono otto. Ed Ezechiele nell’edificio del tempio si basa sul numero otto. E troverete molte altre cose, simboleggiate in questo modo dalla Scrittura. Un corvo viene mandato dall’arca e non ritorna; e poi la colomba annuncia la pace sulla terra. Attraverso il Battesimo della Chiesa, infatti, il terribile uccello, cioè il diavolo, viene espulso, e la colomba dello Spirito Santo annuncia la pace alla nostra terra. L’arca è costruita partendo da trenta cubiti di altezza e diminuisce progressivamente fino a raggiungere un cubito. Allo stesso modo, la Chiesa, che contiene molte categorie, ha il suo vertice nei diaconi, nei presbiteri e nei Vescovi. L’arca è in pericolo nel diluvio; la Chiesa è in pericolo nel mondo. Noè è uscito, ha piantato un vigneto, ne ha bevuto e si è inebriato. Nato anche nella carne, Cristo ha piantato la Chiesa ed ha sofferto. Il figlio maggiore rideva del padre nudo mentre il figlio minore lo copriva. I Giudei ridevano anch’essi di Dio crocifisso, mentre i gentili lo onoravano. Mi manca il tempo di spiegare e confrontare tutti i simbolismi dell’arca con la Chiesa. Vi spiego brevemente, perché appartiene alla presente trattazione, chi sono le aquile, le colombe, i leoni, i cervi, i vermi, i serpenti tra noi. Nella Chiesa non vivono solo le pecore, ed in essa non volano solo gli uccelli puri, così come avviene per il grano seminato nei campi tra le cui verdi piantine ci sono erbacce e cardi e l’avena sterile. Cosa farà il contadino? Userà la falce, ma in tal modo tutto il raccolto sarà distrutto. Ogni giorno il contadino si ingegna a spaventare gli uccelli rumoreggiando o con gli spaventapasseri; cosicché da un lato fa rumore con la frusta, dall’altro li spaventa con la vista. Tuttavia nel suo campo entrano capre veloci ed onagri lussuriosi, i topi asportano il grano nei depositi sotterranei, mentre le formiche numerose devastano con intenso lavorio il raccolto. Ed invero nessuno possiede un proprio campo sicuro. Mentre il padre di famiglia dormiva, l’uomo nemico seminava la zizzania (Mt. XIII, 28). Quando i discepoli proposero di sradicare tutto, nostro Signore lo proibì, riservando a se stesso la separazione del grano dalla zizzania. Sono questi i vasi d’ira e di misericordia che l’Apostolo predice essere nella casa del Signore. Verrà il giorno in cui, dopo aver aperto il tesoro della Chiesa, il Signore mostrerà i vasi della sua ira (Rm. IX, 22). I Santi diranno di quelli che saranno cacciati fuori: « … sono usciti di tra noi, ma non erano dei nostri. Se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi » (1 Gv. II, 19). Nessuno può attribuire a se stesso la vittoria di Cristo. Nessuno prima del giorno del giudizio giudichi gli uomini. Se la Chiesa fosse già mondata, cosa sarebbe riservato al Signore? « C’è una via che sembra diritta a qualcuno, ma sbocca in sentieri di morte. » (Prov. XIV, 12). In questo errore di giudizio, quale sentenza potrebbe essere certa?

L’ANTICRISTO.

IN QUAL MODO ELIMINERÀ L’IMPERATORE ROMANO PER ASSUMERE L’IMPERO EGLI STESSO

[11] Il beato Agostino, nel suo libro “La Città di Dio”, commenta la frase dell’Apostolo Paolo, quando corregge i Tessalonicesi, in quanto essi pensavano, al tempo dell’Apostolo Paolo, che fosse giunto il giorno del giudizio; egli scriveva loro nella prima lettera, parlando della venuta del Signore: « … noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, ad un ordine, alla voce dell’Arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo: prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria… » (1 Tess. IV, 15 e 17). Per questo scrive loro una seconda lettera, commentando la quale, il beato Agostino dice quanto segue: « Vedo che devo trascurare le molte affermazioni evangeliche ed apostoliche su questo ultimo giudizio divino, per non rendere troppo voluminoso questo libro; ma in nessun modo l’apostolo Paolo deve essere trascurato, quando scrive ai Tessalonicesi e dice loro: « Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità. »  (2 Tess. II, 1-12). Nessuno dubita che queste cose le abbia dette dell’Anticristo, e che abbia così anticipato che il giorno del giudizio (che egli chiama il “giorno del Signore”) non sarebbe arrivato prima che colui che chiama “l’empio”, abbia preceduto il Signore Dio. Se questo si può dire di tutti i malvagi, quanto ancora più di costui; ma in quale tempio di Dio egli si siederà? … non sappiamo se siano le rovine del tempio costruito da re Salomone oppure della Chiesa. L’Apostolo, infatti, non chiamerebbe  il tempio di alcun idolo o demone: santuario di Dio. Ecco perché alcuni vogliono intendere che qui l’Anticristo non sia il principe in sé, ma in un certo senso tutto il suo corpo, cioè la moltitudine di tutti coloro che gli appartengono, insieme allo stesso loro principe. Essi credono anche più precisamente che, sia in latino che in greco, si dice che “egli siederà nel tempio di Dio”, proprio come se fosse tempio di Dio la Chiesa, e così come noi diciamo: si siede da amico, o come un amico, o un qualcosa di simile impiegato solitamente in questo genere di espressioni. Ed ancora dice: sapete cosa lo trattiene ora, cioè sapete perché ritarda, qual sia la causa del ritardo, per manifestarsi a tempo debito? E quello a cui si riferiva, essi già lo sapevano chiaramente, per cui non credette oppotuno ridirlo. E così noi, che non sappiamo quello che essi sapevano, cerchiamo di arrivare con fatica a ciò che l’Apostolo pensa, ma non possiamo. Soprattutto, ciò che ha aggiunto rende questo senso più oscuro: perché cos’è? Confesso che sono completamente all’oscuro di ciò che ha detto. Pertanto riporterò le interpretazioni umane che ho sentito o letto. Alcuni pensano che questo sia stato detto dell’Impero Romano, ed è per questo che l’Apostolo Paolo non ha voluto scriverlo chiaramente, per non incorrere nella calunnia, dando una cattiva opinione dell’Impero Romano considerato eterno. Altri dicono che: perché il mistero dell’iniquità è già in opera, ci si riferisca a Nerone, le cui gesta erano già note come quelle dell’Anticristo. Ecco perché alcuni pensano che sarà lui a risorgere come futuro Anticristo. Altri pensano che non sia stato eliminato, ma piuttosto rimosso, in modo che sembri che sia stato ucciso; e che sia nascosto vivo nel vigore della sua stessa epoca, in cui si crede che sia stato ucciso, finché non si manifesti, a suo tempo, e sia posto nel suo regno. Ma trovo questa interpretazione dei commentatori molto improbabile. Tuttavia, ciò che dice l’Apostolo: … solo quando viene allontanato colui che ora lo trattiene, si crede, non senza ragione, che questo sia fino a quando non verrà tolto da mezzo, cioè rimosso dal suo posto. E allora l’iniquo si manifesterà, il che si riferisce senza dubbio all’Anticristo”.

                                                        (Sant’Agostino, La città di Dio, lib.20, cap.19).

[Questo capitolo dell’Anticristo è qui nei Codici dell’edizione riveduta del 786 e ripetuto nel libro VI, 7, pp. 500-501; nel libro VI, 7, nell’edizione del 786, è omesso nelle edizioni del 776 e 784].

COMINCIA IL LIBRO SECONDO:

LE SETTE CHIESE

QUESTO LIBRO CONTIENE I QUATTRO VIVENTI, I QUATTRO CAVALLI, LE ANIME DEGLI UCCISI, I QUATTRO VENTI E I DODICIMILA.

(Ap. II, 1-7)

Angelo Ephesi ecclesiæ scribe: Hæc dicit, qui tenet septem stellas in dextera sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum: Scio opera tua, et laborem, et patientiam tuam, et quia non potes sustinere malos: et tentasti eos, qui se dicunt apostolos esse, et non sunt: et invenisti eos mendaces: et patientiam habes, et sustinuisti propter nomen meum, et non defecisti. Sed habeo adversum te, quod caritatem tuam primam reliquisti. Memor esto itaque unde excideris : et age pœnitentiam, et prima opera fac: sin autem, venio tibi, et movebo candelabrum tuum de loco suo, nisi pœnitentiam egeris. Sed hoc habes, quia odisti facta Nicolaitarum, quæ et ego odi. Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis: Vincenti dabo edere de ligno vitæ, quod est in paradiso Dei mei.

[“All’Angelo della Chiesa d’Efeso scrivi: Queste cose dice colui che tiene nella sua destra le sette stelle, e cammina in mezzo ai sette candelieri d’oro: “So le tue opere, e le tue fatiche, e la tua pazienza, e come non puoi sopportare i cattivi: e hai messo alla prova coloro che dicono di essere Apostoli, e non lo sono: e li hai trovati bugiardi: e sei paziente, e hai patito per il mio nome, e non ti sei stancato. Ma ho contro di te, che hai abbandonata la tua primiera carità. Ricordati pertanto donde tu sei caduto: e fa penitenza, e opera come prima: altrimenti vengo a te, e torrò dal suo posto il tuo candeliere, se non farai penitenza. “Haì però questo, che odi le azioni dei Nicolaiti, le quali io pure ho in odio. Chi ha orecchio, oda quel che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincente darò a mangiare dell’albero della vita, che è in mezzo al Paradiso del mio Dio.”]

TERMINA LA STORIA

INIZIA LA SPIEGAZIONE DELLA STORIA DELLA CHIESA PRECEDENTEMENTE DESCRITTA NEL SECONDO LIBRO

[1] Scrivi all’Angelo della Chiesa di Efeso. Sotto il nome di un solo Angelo, si designa il numero di tutti i santi. Efeso, che significa: “mia volontà” o “mio consiglio“, indica, come abbiamo già detto sopra, la Chiesa Cattolica, alla quale si dice: « Questo dice colui che tiene le sette stelle nella mano destra, che cammina tra i sette candelabri d’oro. » Questi è Colui che tiene in mano le anime dei santi, e cammina in mezzo alle sue chiese con i miracoli, si muove con le sue virtù  meravigliose, e vive nella grandezza della sua potenza. Alla stessa chiesa dice: Conosco la tua condotta, le tue fatiche e la tua pazienza. Afferma cioè di conoscere l’effetto delle sue buone opere e la cura nel lavoro e nello studio spirituale, e la pazienza nel sopportare la tentazione e superarla. Egli loda anche la purezza della sua Chiesa in relazione ai dettami della verità, Chiesa di cui parla anche Isaia: « Grida di gioia, sterile che non partorisci, ed irrompa in grida di gioia e di letizia colei che non ha mai avuto i dolori: perché sono più i figli degli abbandonati che quelli della donna sposata » (Is. LIV, 1). Del lavorio di questa Chiesa si dice: « beati quelli che piangono, perché saranno consolati » (Mt. V, 5). Anche qui nel presente testo, il Signore dice alla Chiesa: « … che non puoi sopportare i malvagi e che hai messo alla prova coloro che sono chiamati apostoli senza esserlo e hai scoperto il loro inganno; hai pazienza nella sofferenza: hai sofferto per il mio Nome senza stancarti. » Noi interpretiamo che questo sia stato detto senza dubbio degli eretici, ché si credono maestri della verità e sono invece autori della menzogna. Essi dicono di essere buoni ma si comprova che siano invece peggiori dei demoni. Però le loro menzogne e le loro perversioni le scopre la fede Cattolica, e … con tolleranza hai sopportato gli innumerevoli mali che ti hanno inflitto. Hai sopportato tutto per il mio Nome e non venisti meno. A questa stessa Chiesa il Profeta parla degli eretici: « Nessun vaso formatosi contro di te prospererà; e tu rimprovererai ogni lingua che si leverà contro di te » (Is. LIV, 17). Li avete messi alla prova, dice: non sono messi alla prova se non quelli che sono all’interno. Quelli che sono all’esterno, sono chiaramente fuori senza necessità di alcuna prova. Pertanto non è necessario metterli alla prova se non sono dentro la Chiesa: è qui li si riconosce dai loro frutti, non dal posto che occupano. Di questi il Signore dice: « Li riconoscerete dai loro frutti, perché l’albero malvagio non può dare frutti buoni » (Mt. VII, 16). Il frutto si riferisce al comportamento e le foglie alle parole. Qualora vengano scoperti nell’operare in tal fatta, appaiono chiaramente malvagi. Infatti sono questi coloro di cui si dice che si considerano apostoli senza esserlo, poiché si dimostrano apostoli che sembrano servire il Signore; mentre nella loro condotta servono se stessi e non il Signore. Dobbiamo chiederci allora con intelletto: chi sono coloro che servono il Signore? Ebbene, non tutti quelli che leggono, non tutti quelli che predicano, non tutti quelli che distribuiscono i loro beni, non tutti quelli che puniscono il loro corpo con la penitenza della carne, servono il Signore. Coloro che leggendo e predicando cercano la propria gloria, coloro che nelle loro elemosine e nelle punizioni del corpo fatte per penitenza, cercano le lodi degli uomini, questi servono se stessi e non il Signore. Contro questi il Signore dice con il Salmista: « chi cammina sulla via senza macchia sarà mio servo » (Psal. CI, 6). Ha macchie nella sua via, chi nell’opera buona che compie intende ricevere la ricompensa della gloria terrena; chi cerca di ricevere la ricompensa in questo mondo, macchia agli occhi di Dio la sua opera buona a causa dell’intenzione malvagia. Adunque, chi è diligente nello studio della dottrina distrugge i peccati dei peccatori; ma chi è portato a fare queste cose non dall’amore di Dio Onnipotente, ma dall’amor proprio, questi serve se stesso e non il Signore. Un altro, per non essere ritenuto aspro, tollera facilmente molte cose che di contro causano un aggravio. Infatti, chi non vuole essere considerato tiepido dal Signore, con lo zelo della propria tiepidezza serve se stesso e non il Signore. È necessario, quindi che, sia che lavoriamo al servizio della parola, sia che distribuiamo i nostri beni ai poveri, sia che dominiamo la nostra carne con la penitenza, o che ci lasciamo trascinare dallo zelo, sia che con pazienza sopportiamo i nostri mali delicatamente, con grande diligenza cerchiamo di scoprire la nostra intenzione in tutto ciò che facciamo, di modo che non accada che nelle nostre azioni serviamo noi stessi più che il Signore. Infatti non serviranno il Signore, ma se stessi, quelli di cui S. Paolo ha detto: « Tutti cercano i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo » (Fil. II, 21). Paolo stesso con i suoi fratelli eletti corse a servire non se stesso ma il Signore nella vita e nella morte, appunto dicendo: « Nessuno di noi vive per se stesso, nessuno muore per se stesso. Sì, viviamo per il Signore, e se moriamo, moriamo per il Signore. Quindi, sia che viviamo o che moriamo, siamo del Signore  » (Rm. XIV, 7). I Santi non vivono né muoiono per se stessi, perché in tutte le loro azioni cercano il bene spirituale, e con la preghiera, la predicazione e la perseveranza nelle opere sante, desiderano moltiplicare i cittadini della patria celeste. Infatti agli occhi degli uomini, essi glorificano con la loro morte Dio, al quale tendono morendo. Pensiamo, allora – alla morte dei Santi – a quanti insulti essi abbiano subito dagli infedeli, ma pure a quante lodi abbiano elevato a Dio dai cuori dei fedeli. Se avessero cercato la loro gloria, avrebbero certamente temuto di subire tanti insulti nella loro morte; ma nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, dal momento che non cerca la propria gloria, né in vita né in morte. Non è certo una testimonianza di lode quella di Colui che dice: So che non puoi sopportare i malvagi, bensì una testimonianza di debolezza. C’è invece una lode quando ha detto: non puoi, … e hai sopportato per amore del mio Nome; ha lodato la debolezza umana nel tollerare i falsi fratelli e nel mantenere con l’umiltà della carità la virtù della pazienza che proviene dal timore di Dio, affinché, secondo il comando del Signore, sapesse a chi attendere. E dice che ha avuto pazienza nel sopportare, nel pianto e nella tristezza, tutti quelli che operano “secondo la cattedra di Mosè”, vale a dire i preti falsi e mondani, che siedono sulla cattedra di Mosè non per amore di Dio, ma solo per l’onore del mondo, e desiderano occupare i primi posti e le prime cattedre della Chiesa. La Verità nel Vangelo di solito li chiama “farisei”, e ordina di ascoltare e di fare ciò che essi dicono, ma di astenersi dai loro frutti. Così pure l’Apostolo comanda di mettere alla prova i malvagi, e di astenersi dalle loro opere, quando dice: « Esaminate ciò che è gradito al Signore e non prendete parte alle opere infruttuose delle tenebre, ma denunciatele, cioè non tacete; poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare » (Ef. V, 10). Questo è ciò che l’Apostolo comanda nei confronti dei falsi apostoli. Per altro verso, l’Angelo dice ancora: Ma io ho contro di te, che hai perso il tuo amore di un tempo. Ha così rappresentato tutti i peccatori che, posti nella Chiesa Cattolica, sono legati a vari errori. E insegna che da questo origina il fatto che, dimentichi dell’amore primitivo della fede, si vedono avvolti in numerosi lacci viziosi. In nessun modo, però, è possibile che Egli dica: “Ho contro di te …” , a colui che loda, dicendo: “Tu hai pazienza, e hai sofferto per il mio nome, e non sei venuto meno“. Infatti è certo e conveniente che chi ha pazienza e non si perde d’animo non può dimenticare l’amore, perché è Dio l’amore. È chiaro, quindi, che si insegni qui che ci sono due parti nello stesso corpo, una che persevera, l’altra che trasgredisce, e a questa dice: renditi conto di dove sei caduto, pentiti, e torna alla tua condotta precedente. Allo stesso modo il Signore dice – attraverso il Profeta – : « fammi ricordare, discutiamo insieme; parla tu per giustificarti. » (Is. XLIII, 26). Volendo che ricordiamo, ci mette in guardia dalle occasioni nelle quali siamo già caduti, per non cadere di nuovo. E per purgare i vizi in cui si incorre, Egli indica la via da seguire, dicendo: fate penitenza, cioè purificate i vostri peccati con le lacrime. Allo stesso modo quella peccatrice, figura della Chiesa, bagnò i piedi di Cristo con le sue lacrime e li asciugò con i suoi capelli. E fatta penitenza, li persuade e consiglia loro cosa fare: … tornare alla condotta primitiva: cioè o alla bontà precedente, o a quelle cose che nell’ardore della prima conversione avevano mostrato, per non fare che si dica: se cadesti in qualcosa, renditi conto da dove sei caduto; come se con questo fosse detto chiaramente: Guarda da dove sei caduto, o quale peccato hai commesso oggi, se per la tua condotta, se per i tuoi discorsi, se per il tuo ventre, se hai avuto voracità di gola, se sei stato incitato alla fornicazione dal desiderio della carne, se dall’avidità, se sei stato infatuato dall’ardore dell’avidità, se hai messo nel segreto della tua coscienza un simulacro, cioè un idolo; se, portato dalla rabbia e dal furore contro tuo fratello, le tenebre ti sono rimaste nel cuore; se hai levato la mente alla vanagloria, se hai contratto il cancro della superbia. Se riconosci di essere caduto in qualcosa di quanto detto, e che ti si rimprovera e si ripete sempre, allora … renditi conto da dove sei caduto. Chi cade, cade dall’alto, ecco perché dice “da dove”. Non c’è rovina più grande di quella di chi si separa dalla carità; perché come l’orgoglio è il principio di tutti i mali, così la carità ha il primato in tutto il bene. Chi non ha la carità, anche se sembra fare del bene, non ha nulla di buono in sé. Per questo ha detto: da dove sei caduto. Perché sempre, fino alla morte, si devono fare opere di carità: questo è il comandamento principale, senza il quale nessun Cattolico vedrà mai Dio. Se le desiderate, o siete fortemente attratti da alcune di queste cose dette sopra, tutto si vede abbassato e la carità viene sminuita: « perché l’amore copre una moltitudine di peccati » (1 Pt. IV, 8). E a cosa serve fare penitenza, praticare la misericordia, ringraziare sempre Dio, ricorrere spesso alla preghiera? Non serve a niente, se osservate una cosa e su di un un’altra chiudete gli occhi. E a cosa serve che tutta la città sia con cautela presidiata contro gli attacchi dei nemici, se viene lasciata aperta anche una sola breccia dalla quale entra il nemico? A cosa serve la vigilanza che viene posta all’intorno, se tutta la città viene lasciata aperta ai nemici, avendo trascurato anche una singola postazione? Dite dunque a voi stessi: ricordate da dove siete caduto. Perché nella Chiesa tutta la legge è riassunta in un unico insegnamento che ha un duplice contenuto, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Chi dunque è assillato da pensieri malvagi, si dice che si sia allontanato dall’amore di Dio; e chi fa qualcosa di male al fratello, si dice che si è allontanato dall’amore del prossimo; e in entrambi i casi si dice che sia caduto dall’alto. Ed ancora: … donde sei caduto, fa penitenza e torna alla tua primitiva condotta, come se si dicesse chiaramente: ogni giorno cominciate sempre da capo a fare penitenza, in modo che si dica che cominciate allorché abbiate finito. … Altrimenti, se non vi pentirete, verrò da voi a spostare il vostro candeliere. Cosa vuol dire rimuovere, spostare il candeliere, se non nascondere il suo volto e toglier loro la protezione? Perché senza lo sguardo dell’Altissimo, senza la protezione di Dio, la nostra fede non può rimanere stabile. Per questo il Profeta dice: « Hai spianato la via ai miei passi, i miei piedi non hanno vacillato. » (Psal. XVII, 37). E poco prima ancora: « ha addestrato le mie mani alla battaglia, le mie braccia a tender l’arco di bronzo. Tu mi hai dato il tuo scudo di salvezza, » (Sal. XVII, 35-36). Ed ancora: « Se il Signore non fosse il mio aiuto, in breve io abiterei nel regno del silenzio.» (Psal. XCIII, 17). Si cambia dunque di posto il candeliere della nostra lode e si spegne la lampada della nostra lode, quando Egli allontana da noi il suo volto. E quando dice: … se non ti penti, quale penitenza farà volentieri l’uomo se non riceve aiuto dal Creatore? Chi può fare sgorgare dall’aridità della carne l’umido delle lacrime, se, per la misericordia di Dio, la venuta dello Spirito Santo non irrora il cuore contrito? Certamente Colui che dice di rimuovere il candeliere è Colui che comanda la penitenza. Abbiamo già detto nel primo libro che l’Angelo e il candeliere sono la medesima cosa. Non dice qui che gli toglierà la sua parte, ma che ne cambia posto, e cioè che una parte perderà tutto quel che ha, così che a colui che ha sarà dato ancor più; mentre a chi non ha, ed anche a colui che sembra avere, gli sarà tolto quel che ha, ed il servo inutile sarà mandato nelle tenebre esteriori (Mt. XXV, 29). Con questo “servo inutile” ci si riferisce a tutto il corpo dei prepositi, cioè dei Vescovi malvagi, dalla cui vigilanza dipendono tutti i membri della sua chiesa; come si dice anche in altro luogo dello stesso servo, « … che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l’incarico di dar loro il cibo al tempo dovuto, beato – dice – quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così … gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni » (Mt. XXIV, 45-47). Riconosce, quindi, ancor sempre in questo monito, che ci siano due parti nella Chiesa: una parte che, pur essendo dentro di essa fin quando non se ne separi, ha tuttavia perso la propria salvezza e tutta la luce del candelabro; e, se pure onorata con i carismi della grazia, è morta in se stessa e ciò che vive in essa le è alieno. Questa parte è quella che viene rimproverata ogni volta. L’altra parte, invece, è quella lodata: è la Chiesa che abbiamo già detto fondata sulla pietra, alla quale si dice: tu hai invece a tuo favore che detesti i misfatti dei Nicolaiti, che anch’io detesto. Nicolaita significa “effusio”, o la stoltezza della Chiesa che languisce, di cui è detto, non senza motivo, degli eretici, che, tracimati [effusi] dal vaso della verità, sono caduti nella melma della menzogna. È scritto nella Legge di questa dispersione: « Effuso e come acqua, tu non avrai preminenza, » (Gen. XLIX, 4). È questa chiaramente anche la stoltezza della Chiesa che langue nel dogma perverso degli eretici, perché questi non si prendono cura della salute del popolo, ma si infiltrano in esso con i peggiori malanni, dicendo stoltezze di Dio, e preoccupandosi di questioni sciocche, come è scritto: « Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: “Pace, pace!” ma pace non v’è, » (Ger. VI, 14). Poiché, come può, colui che ha abbandonato l’amore, cioè Dio stesso, odiare la condotta dei Nicolaiti? Le gesta dei Nicolaiti sono idolatria e fornicazione: infatti Nicolas fu nominato diacono, con Stefano e gli altri, dagli Apostoli, e lasciò la moglie a causa della sua bellezza, per lasciarla prendere a chi volesse; e mutando questa consuetudine in stupro, gli sposi si scambiavano l’un l’altro. Egli inventò e predicò cose così vergognose e nefande che da quella radice nacque poi l’eresia dei “neofiti”, cioè dei sacerdoti e dei leviti non istruiti; l’Apostolo li rimprovera e ammonisce il suo discepolo a non lasciarli accedere al sacerdozio, dicendo: « Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui » (1 Tm. V, 22). E cosa significa l’affrettarsi nell’imporre le proprie mani, se non il concedere l’onore sacerdotale a chi non sia prima maturato, attraverso un tempo di prova, con il merito del proprio lavoro, onde sperimentarne la disciplina? E che cosa anche vuol dire diventare partecipe dei peccati altrui, se non un Vescovo che ordini una persona tanto ignorante, come è colui che non merita di essere ordinato? Perché così come si compara al frutto di una buona opera, il giusto giudizio nella elezione del sacerdote, così si produce un grave danno quando si costituiscono sacerdoti che non siano meritevoli. Pertanto dice con ragione: … che hai detestato il peccato dei Nicolaiti, che anch’io detesto. Qui apertamente si disconosce come amico di Dio, chiunque si compiaccia del suo nemico. Infine, per indicare che ha narrato questo mistero in segreto, dice: chi ha orecchie, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Il Signore dice infatti nel Vangelo: le parole che vi ho detto sono spirito e vita (Gv. VI, 63). Ecco, quindi, che chi ha l’orecchio della fede aperto, chi con buona fede usa l’orecchio finissimo dell’uomo interiore, potrà ascoltare le parole del messaggio divino che lo Spirito Santo comunica. Al vincitore darò da gustare dell’albero della vita, che è nel Paradiso del mio Dio.  – Avendo pronunciato la sofferenza della Chiesa, descritta la perversità degli eretici, esortato i peccatori alla penitenza, dopo la lotta, promette la ricompensa ai vincitori; coloro che entrano nel Paradiso, ricevono, per mangiarne in totale libertà, l’albero della vita, cosa per la quale Adamo fu espulso dal Paradiso, non potendone mangiare affatto. Dice così: chi è nel Paradiso del mio Dio, dove le brezze infondono la vita, dove i misteri infondono la virtù, dove il pomo dell’albero della vita fornisce l’eternità incorruttibile. Ecco perché così opportunamente dice: Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che è nel Paradiso del mio Dio. Il Paradiso è la Chiesa in cui nessuno entra se non colui che con anima candida ha conosciuto Cristo e ne imita le orme dei passi con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutte le forze, ed ama il prossimo come se stesso. Il Paradiso è, quindi, figura della Chiesa. E il primo uomo, Adamo, è l’ombra del futuro. E il secondo Adamo, Cristo, è il sole della giustizia, che illumina l’ombra della nostra cecità. E come il primo Adamo – dice l’Apostolo – è terreno perché viene dalla terra, così il secondo Adamo è celeste perché viene dal cielo (1 Cor. XV, 47).  Pertanto, nella Chiesa ci sono due “Adamo”: il terrestre ed il celeste; « Qual è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. » (1 Cor. XV, 48). Per questo Adamo è duplice: c’è il vecchio ed il nuovo. Il vecchio è quello a cui non era permesso raggiungere l’albero della vita, perché non voleva spogliarsi dell’uomo vecchio, cioè dell’uomo carnale. Il nuovo Adamo è colui che è unito a Cristo vincente e che ha la potenza dell’albero della vita, che Egli ha sempre avuta, e se non è ancora unito a Cristo nel suo corpo, è tuttavia unito a Lui nello spirito. Infatti, se ai vincitori è promesso l’albero della vita, molti hanno già vinto in Cristo; non tutti infatti sono morti, « … se non coloro che hanno peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo  » (Rm. V, 12); dei rimanenti, o di quelli che sono rimasti essere ad immagine e somiglianza di Dio, si dice che vivono. Essi vivono, perché « Egli non è un Dio dei morti, ma dei vivi » (Mt. XXII, 32). Due parti, dunque, sono prefigurate in Adamo come monito per il futuro: l’una che ha confessato il peccato e vive; un’altra che non sfugge al laccio del diavolo (2 Tm. II, 26) che l’ha sottomessa, e per la quale la via dell’albero della vita è preclusa. Dal momento stesso in cui Adamo cominciò a generare entrambe le parti, vediamo che entrambe offrono sacrifici a Dio; ma l’una offre sacrifici graditi, non graditi sono quelli dell’altra. L’una, prostrata e semplice che offre il sacrificio con umiltà, muore per mano del fratello; l’altra, ottusa, cioè insensata, offerente con invidia, e che dopo l’omicidio del fratello è rimasta ostinata. La prole e la progenie di entrambe le parti appaiono nella Scrittura manifestate in Caino e Abele. Infatti così dice il Signore: « Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. » (Gen. IV, 11). Egli chiama “terra” l’uomo che, come Caino, accetta di eseguire e compiere ancora parricidi ed odia il fratello. Si riconoscono in Caino ed Abele entrambi i popoli che costituiscono la Chiesa: l’uno buono, l’altro cattivo; l’uno che ingiuria, l’altro che subisce le ingiurie. Questa è la città che ha fondato con il nome di suo figlio? Cosa significa che Caino abbia costruito una città con il nome di suo figlio, se non che gli empi che ha prefigurato si siano radicati in questa vita? Essi hanno un inizio ed una fine terrena, dove non ci si aspetta nulla se non ciò che si vede. I Santi, però, sono ospiti e pellegrini sulla terra. Ecco perché Abele, come pellegrino sulla terra, cioè come popolo santo, non costruisce una città: superiore è la loro città, anche se qui appaiono cittadini di quelle città nelle quali son pellegrini fino all’avvento del loro regno. Ma si dice alla progenie di Abele: « Dio mi ha dato un altro discendente al posto di Abele, perché Caino lo ha ucciso » (Gen. IV, 25). Questo discendente si riferisce alla Chiesa. Egli vede, quindi, che Dio non ha proibito ad ogni “Adamo” di mangiare dall’albero della vita, ma solo ad una parte. Poiché Adamo vive per sempre: cosa che non poteva essere senza aver egli assaggiato di quell’albero. Ne gustò, infatti, confessando il suo errore, ed infatti se fosse stato solo l’uomo Adamo e non una figura del futuro, perché il Signore, dopo la sua sentenza di morte, lo privò dell’albero della vita, affinché vivesse per sempre senza gustarne? Perché il Signore non temé che – contro la sua sentenza – potesse vivere, anche mangiando tutto l’albero della vita; se non perché questo si realizzasse in figura, e si manifestasse a noi la verità nella Chiesa? Infatti il corpo ed il sangue del Signore è la vita, come Egli stesso dice: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna » (Gv. VI, 5). Tutti coloro che ricevono la Comunione hanno la vita eterna? No, perché è scritto: « chi mangia e beve indegnamente il corpo ed il sangue del Signore, mangia e beve la propria condanna » (1 Cor. XI, 29). Il numero di coloro che si esaminano e che sanno in qual modo mangiare, questo solo mangia dall’albero della vita. Il numero di coloro che sono accecati, e non si avvicinano a Cristo – luce della vita – anche se mangia di questo pane, si tiene indubbiamente separato dall’albero della vita. Così infatti Dio dice a Giobbe: « Non hai sottratto ai malvagi la luce? » (Giob. XXXVIII: 15). A questi, quindi, che inseguono i beni terreni, o che certamente conducono una vita tiepida, Dio nasconde l’albero della vita, cioè la vera croce, perché, come è scritto, « … non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da esser guarito ». (Is. VI, 10). Contro costoro il Paradiso di Dio è chiuso da un muro di fuoco, come dice la Chiesa in Zaccaria: « Io sarò per lei – dice il Signore – … muro di fuoco all’intorno e sarò una gloria in mezzo ad essa. » (Zac. II, 5). L’albero della vita che si trova nella Chiesa è chiaramente indicato in questo libro, nella descrizione della Chiesa. E che il Paradiso e la Chiesa e l’albero della vita, sono una degna penitenza, cioè sono la croce di Cristo, che molti sembrano portare, ma senza che seguano il Signore. « Sulle due sponde del fiume, dice, l’albero della vita porta frutti dodici volte all’anno, per ognuno dei mesi » (Ap. XXII); il Signore darà questo Paradiso e il suo albero ai vincitori. Il paradiso è la Chiesa. L’albero della vita è Cristo crocifisso. Con le due sponde del fiume, si intendono: o i due Testamenti, quello della Legge e quello del Vangelo; o l’acqua del Battesimo. I dodici mesi sono i dodici Apostoli. Egli dà queste cose ai vincitori; ma ai nemici della sua croce, « il cui dio è il loro ventre » (Fil. III,19), e che adorano nei loro nascondigli un altro Cristo  – e non so chi sia, perché non è il nostro crocifisso – ma adorano nella bestia, quello che ha la sua testa come uccisa, cioè quasi come fosse Cristo crocifisso, il cui nome hanno in comune con noi, mentre lo « rinnegano con le loro azioni » (Tt. I, 16); a loro questo albero della vita è completamente nascosto.

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (5)

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (3)

Il Signore e i ventiquattro seniori – Apoc. IV, 4

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (3)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770]

LIBRO SECONDO

INIZIA IL PROLOGO SULLA CHIESA E LA SINAGOGA,

IN MODO CHE VOI,  O LETTORI, NE POSSIATE CONOSCERE NEL MODO PIÙ COMPLETO POSSIBILE LE  CARATTERISTICHE, E CHI NE FACCIA PARTE.

[1] Chiesa è una parola greca, che in latino si traduce « convocatio = assemblea », perché chiama tutti gli uomini a farne parte. Cattolico significa universale, dal greco “kata” e “olos“, cioè secondo totalità. Infatti essa non si limita come, le conventicole degli eretici, alle zone di alcune regioni, ma è diffusa in tutto il mondo. È quanto l’Apostolo afferma nella sua lettera ai Romani, dicendo: « Ringrazio Dio per tutti voi, perché la vostra fede è lodata in tutto il mondo » (Rm. I, 8). Per questo è anche chiamata universale, che viene da “uno”, in quanto raccolta nell’unità. Perciò il Signore dice nel Vangelo: « … chi non raccoglie con me, disperde » (Mt. XII, 30). Ed allora perché, se la Chiesa è una sola, Giovanni scrive alle sette Chiese, se non per dare l’idea che l’unica Chiesa Cattolica sia piena dello Spirito “Settiforme”? È così infine che Salomone ha detto del Signore: « la Sapienza ha costruito una casa, ne ha scolpito le sette colonne » (Prov. IX, 1). Queste colonne ne costituiscono indubbiamente una sola, secondo l’Apostolo che dice: « la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità » (1 Tim. III, 15). La Chiesa ebbe inizio nel luogo dove lo Spirito Santo discese dal cielo e riempì coloro che erano colà riuniti. Nella sua peregrinazione terrena la Chiesa è detta “Sion”, perché, posta a distanza nel suo pellegrinaggio, guarda verso l’alto alla promessa dei beni celesti: pertanto porta il nome di Sion, che significa “guardare fuori dalla torre di guardia”. Ma in relazione alla pace della patria futura, il suo nome si interpreta: “Gerusalemme” che infatti significa “visione di pace”. Lì assurta, cioè liberata da tutte le avversità, possederà la visione della presenza della pace, che è Cristo. La Chiesa è composta da: Cristo, gli Angeli, i Patriarchi, i Profeti, gli Apostoli, i Martiri, il Clero, i monaci, i fedeli ed i religiosi. Questa Chiesa è anche chiamata “cielo”, nel quale il sole, la luna e le stelle, di cui abbiamo parlato prima, risplendono con le luci delle loro virtù. Cristo è chiamato così da “chrismate”, cioè l’unto. Ai Giudei fu ordinato di fare un unguento sacro, con il quale potevano essere unti coloro che venivano chiamati al sacerdozio o alla dignità regale. Ed infatti, come ora un manto di porpora è simbolo della dignità regale, così allora ad essi l’unzione sacra conferiva il nome ed il potere regale. Quindi Cristo viene da Chrismate, che significa unzione, poiché la parola greca “chrisma”, in latino è tradotta unzione. Così, nel senso spirituale, essa è stata accomodata come nome al Signore, in quanto unto da Dio Padre mediante lo Spirito Santo, come vien detto negli Atti degli Apostoli: « in questa città si sono alleati contro il vostro santo servo Gesù, che Voi avete unto » (Act. IV.,27), non con l’olio visibile, ma con il dono di grazia, che corrisponde all’unguento visibile. Ed infatti “Cristo” non è il nome proprio del Salvatore, ma una comune denominazione di potere. Quando si dice Cristo, si indica un nome comune di dignità. Gesù Cristo, è il nome del Salvatore. Il nome di Cristo non esisteva in nessuna nazione, né in nessun altro popolo, ma solo in quella regione dove Cristo era stato preannunciato dai Profeti e dove Egli doveva venire. Infatti il Figlio unigenito di Dio Padre, che è uguale al Padre, per nostra salvezza ha preso forma di un servo, per aprire agli uomini la via della salvezza che è nei cieli. Egli è Dio ed uomo, perché è Verbo e carne; perciò si dice che sia doppiamente generato, perché il Padre lo ha generato senza madre nell’eternità, e la Madre lo ha generato senza padre nel tempo. Egli è chiamato l’Unigenito perché – per dignità divina – non ha fratelli; è il Primogenito invece – secondo la sua condizione umana – perché con l’adozione per grazia, si è degnato di avere fratelli, di cui Egli è il primogenito. In ebraico si chiama Messia, in greco Cristo, in latino “Salvatore” perché rende salvo il suo popolo, Sotero in greco, che si interpreta Salvatore in latino, perché salverà il suo popolo. Così come Cristo significa Re, così Gesù significa Salvatore. Quindi non siamo salvati da un re qualsiasi, ma dal nostro Re Salvatore. – “Angeli” è una parola greca, che in ebraico si interpreta “Malaoth”, e in latino “nuntii” (=messaggeri), perché annunciano la volontà del Signore al popolo. La parola “Angeli” si riferisce alla loro funzione, non alla natura, dal momento che essi sono sempre degli spiriti; ma quando vengono inviati, è allora che vengono chiamati Angeli, e l’audacia dei pittori li rappresenta con le ali, onde mostrare la loro velocità di movimento in ogni luogo. I poeti dicono anche “vento che ha le ali”, a causa della loro velocità. Per questo la Sacra Scrittura dice: « che cammina sulle ali del vento » (Sal. CIII, 3). Sono nove le categorie degli Angeli menzionate nella Sacra Scrittura: Angeli, Arcangeli, Troni, Dominazioni, Virtù, Principati, Potenze, Cherubini e Serafini. Nello spiegare le loro funzioni, spiegheremo anche il motivo dei loro nomi. – Sono chiamati Angeli gli inviati dal cielo per dare un messaggio agli uomini. Angelo, nel greco traduce “nuntius” in latino. Arcangeli in greco significa: i principali messaggeri. Coloro che annunciano le notizie piccole o minime sono Angeli; quelli che annunciano le notizie principali, più grandi, sono gli Arcangeli. Questi sono noti come Arcangeli, anche perché hanno un primato tra gli Angeli. “Archos” in greco, in latino significa “Principe”. Sono essi infatti duci e principi, che con i loro ordini affidano le missioni a ciascun Angelo. Come sulla terra ci sono i duci ed i principi, i tribuni ed i centurioni, che hanno autorità sugli uomini, così gli Arcangeli presiedono agli Angeli. Il profeta Zaccaria lo testimonia dicendo: « … quand’ecco uscì fuori l’Angelo che parlava in me, e l’altro Angelo andò incontro a lui. E gli disse: corri, va’ a parlare a quel giovane e digli: Gerusalemme sarà priva di mura, per la moltitudine di uomini e di animali che dovrà accogliere » (Zac. II, 3, 4). Se, poi, nelle funzioni proprie degli Angeli, i superiori non comandassero gli inferiori, non avremmo potuto sapere attraverso un Angelo quello che l’altro Angelo voleva si dicesse all’uomo. Alcuni degli Arcangeli hanno un nome proprio, in modo che lo stesso nome designi il compito loro affidato. “Gabriele, in ebraico, è tradotto nella nostra lingua come “la forza di Dio”: laddove si deve manifestare la potenza e la forza divina, è lì che viene mandato Gabriele. Ecco perché nel tempo in cui il Signore doveva nascere e trionfare sul mondo, Gabriele è venuto da Maria, per annunciare che Colui che è venuto per sconfiggere le potenze dell’aria si sia degnato di venire nell’umiltà. “Michele significa: “chi è come Dio?”. Quando nel mondo si realizza qualcosa di mirabile, viene inviato questo Arcangelo. Dalla sua missione deriva il suo nome, perché nessuno può realizzare ciò che può Dio. Raffaele significa “salute o medicina di Dio”: laddove c’è bisogno di guarire e di curare, Dio manda questo Arcangelo che pertanto si chiama “medicina di Dio”. Questo Arcangelo infatti fu inviato a Tobia, al quale applicò il suo rimedio agli occhi ed – eliminata la cecità – gli restituì la vista: così il significato del nome designa la missione dell’Arcangelo. Uriel significa fuoco di Dio, come abbiamo letto là dove il fuoco è apparso nel roveto. Abbiamo anche letto che il fuoco è stato inviato dall’alto e che ha compiuto ciò che gli era stato comandato. I Troni, le Dominazioni, i Principati, le Potestà e le Virtù, i nomi con cui l’Apostolo abbraccia l’intera comunità celeste, designano ordini e dignità angeliche. Per questa distribuzione delle funzioni, alcuni sono chiamati Troni, altri Dominazioni, altri Principati, altri Potestà, in virtù di certe dignità con cui si distinguono gli uni dagli altri. Le Virtù esercitano certi ministeri angelici, con i quali si compiono segni e miracoli nel mondo; per questo sono chiamate virtù. Le Potestà sono quegli Angeli a cui sono sottoposte le potenze nemiche. Sono chiamati Potestà perché gli spiriti maligni si sottomettono al loro potere, in modo che non creino al mondo tutti i danni che vorrebbero causare. I Principati sono quegli Angeli che comandano alle milizie angeliche, e sono così chiamati perché hanno gli Angeli subordinati onde compiere il ministero divino. Infatti ce ne sono di quelli che servono, altri assistono … come si dice in Daniele, « mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano » (Dn. VII, 10). Le Dominazioni hanno una dignità ancora superiore alle Virtù ed ai Principati. Si chiamano così perché sono al comando degli eserciti angelici. I Troni sono gruppi di Angeli designati in latino con la parola Sedes. E sono chiamati Troni perché sono presieduti dal Creatore che attraverso di loro trasmette i Suoi ordini. I Cherubini sono quelli che esercitano i poteri celestiali ed i ministeri angelici più sublimi; il loro nome in ebraico si traduce nella nostra lingua: “grandezza di scienza”. Essi costituiscono il più sublime esercito di Angeli, perché, essendo i più vicini alla Sapienza divina, ne sono di molto più pieni che gli altri. Sono essi quei due viventi sul propiziatorio dell’arca, fatti di metallo, e che dovrebbero significare la presenza degli Angeli in mezzo ai quali Dio si manifesta. I Serafini, similmente, sono quella moltitudine di Angeli che dall’ebraico si traduce in latino come “ardenti” o “infiammati”; sono chiamati così perché tra Dio e loro non c’è altro gruppo di Angeli. Ed infatti, più si avvicinano a Dio, tanto più si infiammano dal chiarore della luce divina. Sono essi che nascondono il volto ed i piedi di Colui che siede sul trono di Dio. Ed è per questo che i restanti gruppi di Angeli non possono vedere l’essenza di Dio in ogni pienezza, perché coperti dai Serafini. – Questi nomi delle milizie angeliche sono nomi speciali di ogni categoria di Angeli, ma sono, comunque, in parte comuni a tutti. Infatti, sebbene i Troni siano chiamati in modo speciale “sede di Dio” nella loro categoria di Angeli, è detto dal Salmista: “Voi che sedete sui cherubini” (Psal. LXXIX, 2). Ma queste categorie di Angeli sono designate con nomi particolari, perché nella loro categoria propria hanno ricevuto in modo speciale quella funzione peculiare. E sebbene siano comuni a tutte le categorie angeliche, queste funzioni sono comunque assegnate in modo appropriato ad ognuna di esse. Come è già stato detto, a ciascuno vengono assegnate le funzioni proprie che – si dice – hanno meritato all’inizio del mondo. Che gli Angeli presiedano ai territori ed agli uomini, un Angelo lo afferma per mezzo del profeta dicendo: « … però Michele, uno dei primi prìncipi, mi è venuto in aiuto e io l’ho lasciato là presso il principe del re di Persia » (Dan. X, 13). È quindi chiaro che non ci sia luogo che gli Angeli non presiedano. Presiedono finanche gli auspici delle opere degli uomini. Questa è la gerarchia e la distinzione degli Angeli che, dopo la caduta degli angeli malvagi, rimasero nella fermezza dell’eterna beatitudine. Ecco perché si ripete, dopo la creazione del cielo in principio: « si faccia un firmamento, e Dio chiamò il firmamento cielo » (Gen I, 8). Nessuno di essi infatti fu coinvolto nella caduta, e non cedendo alla superbia, restarono fermamente nell’amore e nella contemplazione di Dio, non avendo nient’altro di più soave di Colui dal quale erano stati creati. I due Serafini di cui si legge nel libro di Isaia, rappresentano in figura l’Antico ed il Nuovo Testamento. Il fatto che essi … coprano il volto e i piedi di Dio, significa che non è dato a noi sapere cosa sia accaduto prima della creazione del mondo, né cosa accadrà dopo il mondo, ma solo vedere cosa c’è nel mezzo, grazie alla loro testimonianza. Ognuno di essi ha sei ali, perché nel presente secolo conosciamo solo il lavoro della creazione del mondo fatta in sei giorni. Essi gridano tre volte: “Sanctus”, per far conoscere il mistero della Trinità in una unica divinità.

[2]. Cerchiamo di conoscere ora cosa significhino i nomi dei “Patriarchi”, secondo la loro etimologia. La maggior parte di essi ha ricevuto questi nomi per cause proprie. “Patriarchi” si interpreta: Principi dei Padri, dai quali Cristo è nato secondo la carne. Abram fu chiamato per primo Padre del popolo giudaico, poiché questo significa Israele; poi fu chiamato Abramo, aggiungendovi una lettera, per cui si traduce, “Padre dei molti popoli”, che dovevano succedersi per la fede in futuro. I “popoli molti” non sono inclusi nell’etimologia della parola, ma si comprende dalla scrittura: « Il tuo nome sarà Abramo, perché ti ho fatto padre di molti popoli » (Genesi XVII, 5). Isacco prese il suo nome da “sorriso”; suo padre – nel trasporto della sua gioia – aveva infatti sorriso quando gli era stato promesso. Ed anche sua madre rise, quando dubitando nel gaudio, le fu promesso dai tre Uomini. Ecco perché ha ricevuto quel nome. Pertanto, Abramo era figura di Dio Padre, che è l’Autore e l’origine degli uomini. Isacco era figura di Cristo, che ci ha dato la gioia celeste. Giacobbe si interpreta “soppiantatore”, o perché ha afferrato alla nascita il tallone del fratello già nato o perché, nato dopo il fratello, gli passò poi avanti. Egli, dal quale sono nati i dodici Patriarchi, era figura della Chiesa, che è costituita nel numero dodici: per questo sono chiamate anche le dodici tribù di Israele. – Israele è “l’uomo che vede Dio”. Giacobbe ricevette il nome Israele quando, dopo aver combattuto tutta la notte, sconfisse l’Angelo nella lotta e fu benedetto alla luce dell’alba. A causa di questa visione di Dio, è stato chiamato Israele, come egli stesso dice: « Ho visto Dio faccia a faccia e la mia vita è salva » (Gen. XXXII, 31). Ruben significa “figlio della visione”. Simeone, “colui che ascolta”. Giuda significa “confessione”, perché quando Lia lo partorì, lodò il Signore dicendo: « adesso io darò lode al Signore » (Gen. XXIX, 35), e per questo fu chiamato Giuda: da “confessione” ha ricevuto il suo nome, che vale “azione di grazie”. Questa è la stirpe regale, la prosapia ammirevole, a cui viene affidata la direzione delle guerre e del regno d’Israele, colui che ha dato il suo nome ai popoli: forte come un leone nella forza del suo regno e distinto per la sua potenza nello splendore del regno. La progenie del suo regno non fu interrotta finché Cristo, simile ad un cucciolo di leone, non germogliò dal suo seme (Gen. XLIX, 9) e nascendo da un grembo regale, brillò come speranza dei popoli. Per questo motivo è stato detto: Vicit Leo de tribu Juda (ha vinto il leone della tribù di Giuda – Ap. V, 5), dal quale i Giudei hanno ricevuto il loro nome, perché Giuda significa “confessione”, ed è anche per questo che abbiamo il nome di “confessori”. Così come è stato detto agli ipocriti: « si dicono Giudei, ma non lo sono » (Ap. II, 9). Issachar significa “ricompensa”, perché con le mandragore del figlio Ruben, Lia comprò per sé il diritto, che era di Rachele, di giacere con il marito: rinunciando alle mandragore fu concepito Issachar. Così quando nacque, Lia esclamò: Dio mi ha dato la mia ricompensa (Gen. XXX, 18). Da questa tribù nacque Giuda Iscariota che vendette il Signore e con quella somma, ricavato della sua iniquità, fu acquistato un campo. Zebulon significa “stanza”; e Neftali “cambiamento”. Dan significa “giudizio”, perché quando Balha lo aveva partorito, Rachele, la sua padrona, disse: « Dio mi ha reso giustizia, perché ha ascoltato la mia voce: mi ha dato un figlio » (Gen. XXX, 6), e così ha espresso l’origine del nome: poiché il Signore le aveva reso giustizia, impose al figlio della schiava, il nome di “giudizio”. Da questa tribù nascerà l’Anticristo, da una concubina, perché ci sono già molti anticristi nella Chiesa che lo prefigurano. E nascono da una concubina, cioè dalla Sinagoga, che è la notte dell’ignoranza, ed essi sono servi del peccato. Levi, padre della casta sacerdotale, unito alla tribù di Giuda dalla mescolanza di stirpe ma, diviso da tutto Israele, mancando del diritto al sorteggio dei beni, abitava in tutti i regni dei fratelli. Da lui provengono i sacerdoti, ai quali non è lecito possedere la terra in eredità, e quindi gioiscono della povertà degli Apostoli. Giuda e Levi rappresentano Cristo Re e Sacerdote, che ci fa regno e sacerdoti per il suo Dio e Padre (Ap. I, 6). Gath era così chiamato perché “in procinto”, o “a disposizione”. Asher significa “beato”; Giuseppe, “Salvatore del mondo”, perché ha liberato tutta la terra dallo sterminio della fame imminente. Benjamin significa il “figlio della destra”, cioè del potere. Manasseh significa “dimenticato”. Efraim significa “aumento”. Questi sono i nostri Padri, di cui il Signore disse ad Abramo: « Per mezzo di Isacco avrai la discendenza del tuo nome » (Gen. XXI, 12), non per mezzo di Ismaele, che è nato dalla schiava, che è la Sinagoga. – I Profeti sono così chiamati perché prevedono il futuro. Per questo i gentili li chiamano “vates”. Da noi son chiamati Profeti, vaticinatori, perché preannunciano, cioè parlano e predicano la verità di ciò che sta per accadere. Quelli che chiamiamo Profeti sono chiamati “veggenti” nell’Antico Testamento, perché hanno visto ciò che gli altri non vedevano, quello che era nascosto nel mistero. Ci sono stati molti Profeti; tuttavia, solo dodici sono  inclusi nei libri; quattro hanno composto i libri più voluminosi: Isaia significa “Salvatore del Signore” e giustamente, perché più degli altri ha annunciato il Salvatore di tutti i popoli e i suoi misteri. Geremia,  è “l’eccelso del Signore”, perché gli è stato detto: « Io ti do autorità sulle nazioni e sui regni » (Ger I, 10). Ezechiele, « la forza di Dio ». Daniele, « il giudizio di Dio », perché giudicava tra gli anziani. Osea, « Salvatore », o « colui che salva ». Joel, « Signore Dio », o « colui che comincia per Dio ». Amos, « un popolo avulso da Dio », perché il popolo di Israele si era allontanato dal Signore. Naum, « il germe » o « il consolatore ». Habacuc, « colui che abbraccia », perché era amabile a Dio. Nessuno dei profeti con parole così audaci, aveva mai osato provocare Dio nel dibattito sulla giustizia, sul perché cioè si trovi tanta iniquità nelle cose umane e del mondo. Michea significa “perché questo?” o “che cos’è questo”? Sofonia, « lo specchio » o « l’arcano di Dio ». Abdia, « il servo di Dio », perché come Mosè, servo di Dio, e l’Apostolo, servo di Cristo, così anche questo messaggero venne inviato ai pagani; egli fu amministratore del re Akab. Giona significa “colomba”, o “il dolente”: colomba per il suo gemito, “dolente” per il ricino che si era seccato (Gion. IV: 7). È questi il figlio della vedova di Zarepta, come dicono pure i Giudei, che Elia aveva resuscitato dai morti. E così fu chiamato “Amittay”, parola ebraica che in latino significa “verità”, e da qui figlio della verità. Zaccaria, “memoria del Signore”, perché egli con la sua predicazione esortava il Signore affinché facesse tornare il suo popolo a Gerusalemme. Aggeo, in latino “festoso e gioioso”. Malachia significa “angelo del Signore”. Questi sono i dodici Profeti stabiliti nel numero duodecimo della Chiesa. Essi profetizzarono su Cristo, come Gesù disse poi agli Apostoli:  « … altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro », e ancora: « molti re e profeti desideravano vedere ciò che voi vedete e non lo hanno visto »: cioè Cristo, che voi vedete nella carne, essi non lo hanno visto. I quattro Profeti, tra i dodici, ebbero lo stesso ruolo dei quattro evangelisti tra gli Apostoli.

[3] La parola greca “Apostoli” significa in latino “missi – inviati”. Perché come Angeli in greco significa “messaggeri” in latino, così anche Apostoli in greco, significa “inviati” in latino. Cristo li ha mandati a predicare il Vangelo in tutto il mondo. Così che alcuni penetrarono fino in Persia ed in India, insegnando e compiendo grandi e potenti miracoli nel nome di Cristo, affinché, con la attestazione di segni e prodigi, coloro ai quali predicavano potessero credere. La maggior parte dei loro nomi hanno la loro spiegazione in sé. Pietro prese il nome dalla pietra, cioè Cristo, su cui si fonda la Chiesa. Infatti non la pietra porta il nome di Pietro, ma Pietro quello della pietra; così come Cristo non riceve il suo nome dai Cristiani, ma i Cristiani sono chiamati così da Cristo. Per questo il Signore dice: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Infatti Pietro aveva detto: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt. XVI, 16). Il Signore rispose: « Tu sei Pietro e su questa roccia edificherò la mia Chiesa. » Infatti la pietra era Cristo (1 Cor. X, 4), sulle cui fondamenta è stato costruito Pietro stesso. Egli si chiamava pure Cefa, perché era stato costituito capo degli Apostoli. La parola greca “Cephas” significa “caput – capo” in latino. Simon Bar-Jonas, cioè figlio della colomba; poiché “Bar” in siriaco significa figlio, e “Giona” in ebraico significa colomba, e Pietro ha questo nome allo stesso tempo siriaco ed ebraico: Bar-Jonas. Alcuni lo spiegano semplicemente dicendo che Simon Pietro è il figlio di Giovanni, secondo questa domanda del Signore: « Simone di Giovanni, mi ami? » (Gv. XXI, 15). Ebbene, Giovanni significa “grazia del Signore”, e in luogo di Giona si dice Giovanni. E così Pietro ebbe tre nomi: Pietro, Cephas e Simone Bar-Jonas. Simone, parola ebraica, significa in latino « colui che ascolta ». Saulo in ebraico significa « tentazione », perché è stato il primo a tentare la Chiesa; ed infatti è chiamato Saulo perché perseguitava i Cristiani. Più tardi, quando cambiò nome, da Saulo divenne Paolo, che significa “mirabile” o “scelto”. In latino Paolo si intende “piccolo”, e per questo egli stesso dice: « Io, che sono l’ultimo degli Apostoli » (1 Cor. XV, 9). Quanto Saulo era orgoglioso e presuntuoso, tanto Paolo, era umile e semplice. Cefa e Saulo furono chiamati con i loro nomi cambiati, in modo che fossero nuovi anche nel nome, come Abramo e Sara. Andrea, fratello germano di Pietro e co-erede della grazia, che in latino significa “decorus” o “rispondente”, in greco significa “uomo vigoroso“. Giovanni ha conservato giustamente il suo nome che significa “colui nel quale risiede la grazia”, o “grazia del Signore”: ed infatti Gesù lo amava più degli altri Apostoli. Giacomo, chiamato Zebedeo dal nome del padre da lui abbandonato per seguire – con Giovanni – il Cristo, che è il vero Padre. Essi sono i Figli del Tuono, chiamati anche “Boanerge”, per la fermezza e la grandezza della loro fede. Questo Giacomo, fratello di Giovanni, fu ucciso da Erode, dopo l’ascensione del Signore. Giacomo di Alfeo, così chiamato per distinguerlo dall’altro Giacomo, era figlio di Alfeo, come l’altro figlio di Zebedeo, entrambi chiamati come il loro padre. Questo è Giacomo il Minore, che il Vangelo chiama fratello del Signore, perché Maria, la moglie di Alfeo, era la sorella della Madre del Signore; Giovanni la chiama nel suo Vangelo Maria di Cleofa. Alfeo è una parola ebraica, che in latino significa “millesimus” o “dotto”. Filippo, “lampadum” o “bocca delle mani”. Tommaso, “abissus” o “gemello”: ecco perché dal greco viene chiamato “didimo”. Bartolomeo, vuol dire in siriaco, « figlio di colui che sostiene le acque », o « figlio di colui che mi sostiene ». Matteo in ebraico significa “donatus“. Si chiama anche Levi, come la tribù a cui apparteneva. In latino fu chiamato pubblicano, per la carica che ricopriva, perché era stato scelto tra i pubblicani e portato all’apostolato. Simone Cananeo, per distinguerlo da Simon Pietro, prende questo soprannome da un villaggio della Galilea chiamato Cana, dove il Signore aveva trasformato l’acqua in vino. È lo stesso che un altro evangelista, chiama Zelota. Cana si interpreta “zelo”. Giuda di Giacomo, che altrove si chiama “Labbæus”, ha un nome simbolico che deriva da “cuore”, che possiamo considerare, con un diminutivo, « cuoricino ». Un altro evangelista lo chiama Taddeo, e secondo la tradizione della Chiesa egli fu inviato nella città di Edissa, presso il re Abagaro. Giuda, chiamato Iscariota dal villaggio in cui era nato o perché, proveniente dalla tribù di Issachar, ne prese il suo nome come presagio della sua futura condanna. Issachar significa “merces=mercanzia”, per indicare il prezzo del tradimento con cui egli vendette il Signore. Mattia è L’unico tra gli Apostoli che non abbia un soprannome; significa “donatus“, per farci capire che fu posto in luogo di Giuda. Fu scelto al suo posto dagli Apostoli, che tirarono a sorte tra due. Marco, si interpreta “eccelso per il suo incarico”, certamente per il Vangelo dell’Altissimo che predicava. Luca, « colui che si alza » o « colui che si eleva », Barnaba, “figlio di un profeta” o “figlio della consolazione”. Questi sono i dodici discepoli di Cristo, i predicatori della fede ed i maestri del popolo. Gli Apostoli, pur essendo tutti una cosa sola, avevano tuttavia ricevuto ognuno come propria sorte di predicare nel mondo:

Pietro a Roma.

Andrea in Acaia.

Tommaso in India.

Giacomo in Spagna.

Giovanni in Asia.

Matteo in Macedonia.

Filippo in Gallia.

Bartolomeo in Licaonia.

Simone Zelota in Egitto.

Mattia in Giudea.

Giacomo, fratello del Signore, a Gerusalemme.

[In questo elenco sono stati indicati il nome ed il destino di Giuda Taddeo. Prima si era detto che fosse stato mandato a Edissa, dal re Abagaro. Qui troviamo anche la prima testimonianza ispanica, secondo la nostra opinione, della presenza e della predicazione di San Giacomo nella Spagna.].

A Paolo non viene assegnata una zona propria, come per gli altri Apostoli, perché viene scelto come maestro e predicatore di tutti i popoli gentili. Come a Pietro ed agli altri Apostoli venne conferito l’apostolato presso i circoncisi, così a Paolo venne assegnato quello tra i gentili. Egli pertanto evangelizzò le sette chiese con i tre suoi discepoli (destinatari delle sue lettere). Essi costituiscono le dodici ore del giorno illuminate dal sole, che è Cristo. Queste sono pure le dodici porte della Gerusalemme celeste, attraverso le quali entriamo nella vita di beatitudine. Questa è la prima Chiesa apostolica, che crediamo fermamente essere fondata sulla pietra che è Cristo. Questi sono i dodici troni che giudicano le dodici tribù di Israele. Questa è la Chiesa diffusa in tutto l’universo. Tale è il lignaggio sacro e scelto, il sacerdozio regale, disseminato in tutto il mondo. Questi erano pochi, ma scelti. E da questi piccoli chicchi è venuto un grande raccolto. Noi crediamo e apparteniamo a questa Chiesa, e chi predicherà qualcosa di diverso da costoro non sarà un Cristiano, ma sarà per sempre anatema fino alla venuta del Signore, e dunque già condannato alla venuta del Signore. È per rendere meglio visibili questi chicchi seminati nel campo del mondo, che i profeti hanno lavorato e questi raccolto, si mostra il disegno che qui sotto lo mostra. (Segue la Mappa del mondo).

[4] Martiri, parola greca, in latino significa “testes – testimoni”: per questo le testimonianze in greco sono chiamate “martìri”. Sono chiamati testimoni perché hanno sofferto per aver reso testimonianza a Cristo ed hanno lottato fino alla morte per la verità. Il primo martire del Nuovo Testamento fu Stefano, che nella lingua ebraica significa “norma“, perché fu il primo martire ed esempio per i fedeli. Dal greco è anche tradotto in latino con il significato di “coronatus“. E questo è profetico, poiché, secondo la profezia, qualcosa del futuro risuoni già prima nel nome: infatti il martire ha sofferto ed ha ricevuto ciò che il suo nome indicava: cioè  la corona; umilmente lapidato ed in modo sublime coronato. – Ci sono due tipi di martirio: l’uno è il tormento pubblico, l’altro è quello della virtù occulta dell’anima. Molti, resistendo alle insidie del nemico, cioè del diavolo, e rinunciando a tutti i desideri carnali, sono diventati martiri onde essersi immolati a Dio Onnipotente nel loro cuore, anche in tempi di pace: in tempi di persecuzione avrebbero potuto essere martiri [manifesti]. Chiamiamo così il clero e gli ecclesiastici perché Mattia venne scelto a sorte come Apostolo e fu il primo ad essere ordinato dagli Apostoli. “Cleros”, parola greca, significa in latino “fortuna” o “eredità”. Per questo sono chiamati chierici, perché sono eredità del Signore, o perché Dio è la parte della loro eredità. In genere, tutti coloro che servono la Chiesa si chiamano chierici. I loro gradi ed i nomi sono i seguenti: ostiario, lettore, salmista, esorcista, accolito, suddiacono, diacono, presbitero e vescovo. L’ordine dei Vescovi è composto da quattro gruppi: i Patriarchi, gli Arcivescovi, i Metropoliti ed i Vescovi. Patriarca in greco significa “il primo dei Padri”, perché occupa il primo posto, cioè quello apostolico, ed è chiamato con questo nome, proprio perché ha un onore così grande. In tutto il mondo ci sono tre sedi di patriarchi: Roma, Antiochia ed Alessandria. Questi sono chiamati anche Papi [Le frasi dedicate all’etimologia dei Patriarchi appartengono a Sant’Isidoro, tranne l’ultima frase in cui egli definisce i capi delle sedi di Roma, Antiochia e Alessandria: Papi. È possibile che sia un originale di Beato]. – Arcivescovo è una parola greca che significa: il più importante dei Vescovi: questi fa le veci degli Apostoli, e presiede tanto ai metropoliti che agli altri Vescovi. Presiede a ciascuna delle province; presiede e sottomette alla sua autorità e dottrina gli altri sacerdoti. Senza di loro, agli altri Vescovi non è permesso fare nulla, perché a loro solo è affidata la cura di tutta la provincia. Tutti gli ordini di cui sopra hanno uno stesso ed unico nome: Vescovi. Ma hanno un nome particolare per la distinzione dei poteri che ciascuno di loro ha ricevuto. Patriarca: “Padre dei principi”, perché “Archon” significa Principe. Arcivescovo è chiamato il metropolita dei Vescovi. Vescovo è una parola che dice qualcosa di colui che è posto al di sopra degli altri, « colui che veglia », cioè colui che si prende cura dei suoi sudditi. “Scopein” è una parola greca che in latino significa “guardare” o “osservare”. Infatti il Preposto nella Chiesa è un osservatore attento, perché veglia sui costumi e sulla vita dei popoli affidati alle sue cure. Il Pontefice è il Principe dei sacerdoti, una sorta di via per chi lo segue; si chiama Sommo Sacerdote e Pontefice Massimo. Egli consacra i Sacerdoti ed i leviti. Organizza tutti gli Ordini ecclesiastici, insegna ciò che ognuno debba fare. Prima della venuta del Signore, i re erano anche pontefici. Infatti era usanza degli antichi che il re fosse anche sacerdote o pontefice; per questo gli imperatori romani erano chiamati pontefici: Vates, così chiamato per la forza della sua mente [vi mentis]. Il loro significato è molteplice, perché esso designa un sacerdote, o un profeta, o un poeta. Sacerdote “Antistes“, così chiamato perché presiede l’altare. È il primo nell’ordine della Chiesa e non ha nessuno al di sopra di sé. Il Sacerdote ha un nome composto dal latino e dal greco: colui che dà il sacro. Come “re” viene da governare, così il nome di sacerdote viene da “sacrificio”. Egli consacra e sacrifica. Presbitero in greco, si interpreta “senior – anziano” in latino; non per mostrarne l’età o per definirne la senilità avanzata, ma per indicarne l’onore e la dignità ricevuti, e per questo sono chiamati presbiteri. I presbiteri sono chiamati anche Sacerdoti, perché, come i Vescovi, “danno il sacro”. Pur essendo Sacerdoti, non hanno però la pienezza del pontificato, perché non sigillano la fronte con il crisma e non conferiscono lo Spirito Santo, funzione che – come dimostra la lettura degli Atti degli Apostoli – appartiene solo ai Vescovi. E tra gli antichi, i Vescovi erano gli stessi presbiteri, perché il primo è un nome di dignità, e il secondo di anzianità. I leviti sono chiamati con il nome della loro origine. I leviti provenivano dalla tribù dei Levi, e si occupavano di eseguire nel tempio di Dio i ministeri mistici del sacramento. Sono chiamati in greco diaconi ed in latino “ministri”. Infatti, come il Sacerdote fa la consacrazione, così il diacono fa l’amministrazione del ministero. I suddiaconi (Hypodiacono in greco) si chiamano così perché sono soggetti ai comandi e agli uffici dei leviti. Essi ricevono le offerte dei fedeli nel tempio di Dio e le donano ai leviti perché le mettano sull’altare. Questi sono chiamati tra i Giudei: Nathanæi. Il nome di “Lettori” viene dalla loro missione di lettura mentre “Salmista” viene dal canto dei salmi. Gli uni insegnano al popolo la via da seguire; gli altri cantano per eccitare le anime degli ascoltatori al pentimento. Anche se ci sono alcuni lettori che si esprimono in modo così lamentevole da indurre alcuni al pianto ed al lamento, sono anche degli araldi, perché fanno sentire la loro voce in lontananza; la loro voce deve essere così forte e chiara da giungere alle orecchie di chi è lontano. Il  “cantore” è così chiamato perché modula la sua voce nel canto. Ci sono due tipi di cantanti nell’arte della musica, cosicché gli uomini colti hanno deciso di chiamarli in latino: il “precentor”, cioè colui che inizia la melodia nel canto; e il “succentor”, cioè colui che risponde seguendo il canto. Chi canta con gli altri con il giusto tono si chiama “concertor” Colui che non è intonato, né canta, non sarà né “succentor ” né “concertor”. Accolito è una parola greca, che in latino si traduce come ceroferari, perché portano le candele quando si legge il Vangelo o si offre il Sacrificio. Poi accendono le candele e le portano, non per dissipare le tenebre, come nel tempo in cui il sole splende, ma per far comprendere che sono motivo di gioia, e che la luce materiale raffigura quella luce di cui si dice nel Vangelo: « Era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo » (Gv I,18). Esorcisti in greco, significa in latino « coloro che evocano o lanciano imprecazioni ». Essi invocano sui catecumeni, o su coloro che sono posseduti dallo spirito maligno, il Nome del Signore Gesù, scongiurandolo così nel suo Nome di uscire da loro. Ostiari e portatori, erano coloro che nell’Antico Testamento venivano scelti per la custodia del tempio, in modo che gli impuri non ne oltrepassassero la soglia per alcun motivo. Sono chiamati “ostiari” perché si occupano delle porte del tempio. Essi, che ne hanno la chiave, custodiscono tutto ciò che ne sia dentro e fuori; e giudicando tra buoni e cattivi, accolgono i fedeli rimandando via gli infedeli. Monachus, è chiamato in greco ciò che è singolare. “Monas” in greco indica la singolarità. Pertanto, se monaco, tradotto dal greco: “solitario”, cosa sta a fare tra la gente colui che deve essere solo? Ci sono molti tipi di monaci. Cenobiti, si chiamiamo coloro che vivono in comune. Cenobio si riferisce a molti. Gli Anacoreti sono coloro che dopo la vita cenobitica vanno nel deserto e vivono da soli nella natura selvaggia. E dacché si sono allontanati dagli uomini, sono conosciuti con quel nome. Gli anacoreti imitano Elia e Giovanni, i cenobiti, gli Apostoli. Eremita è lo stesso che anacoreti, perché anacoreta è la parola greca che viene tradotta in latino: “eremita”; lontani dallo sguardo degli uomini, preferiscono la solitudine ed il deserto. Infatti “eremo” dice lo stesso che remoto. Abate è una parola siriaca, che significa in latino “padre”. Così spiega s. Paolo quando scrive ai Romani dicendo loro: « Che noi chiamiamo “Abba, Padre” » (Rm. VIII, 15), affermandolo in siriano ed in latino.

I RESTANTI FEDELI

[5]Cristiano”, secondo l’etimologia, deriva da “unzione”, dal nome del fondatore e Creatore. Infatti è da Cristo che i Cristiani ricevono il loro nome, così come i Giudei lo ricevono da Giuda. Dal nome del Maestro, ne è stato dato il soprannome ai suoi seguaci. I Giudei, per qualche tempo, chiamarono i Cristiani « Nazareni », perché nostro Signore e Salvatore era conosciuto come Nazareno, essendo di quella piccola città della Galilea. Tuttavia, non si glori di essere Cristiano chi ne ha solo il nome, ma non la condotta; sarà certamente un Cristiano colui che sarà stato fedele a questo nome e se ne farà partecipe con le sue opere. È veramente un Cristiano chi con la fede e le azioni si manifesta tale, agendo come ha agito Colui dal quale riceve il nome. Cattolico significa universale, generale, in quanto i greci chiamano cattolico ciò che è universale. Un ortodosso è uno che crede rettamente e vive ciò in cui crede. “Ortos” in greco, significa in latino “rettamente”, e “doxa” significa gloria; pertanto è un uomo di retta gloria. Non può essere designato con questo nome chi vive in modo diverso dalla sua fede. « Neofita » in greco, può essere tradotto in latino con “novizio”, e fedele iniziato, o anche come neonato. È chiamato Catecumeno perché, pur professando la dottrina della fede, non ha ricevuto ancora il Battesimo. La parola greca “catecumeno” significa infatti in latino “ascoltatore”. Egli è anche chiamato “competens”, perché con l’istruzione nella fede chiede la grazia di Cristo. Ed infatti “competente” deriva da chiedere, dal chiedere. Quando qualcuno da pagano viene alla fede, nel corso dell’istruzione alla fede, viene chiamato catecumeno; quando ha creduto rettamente e chiede di essere battezzato, allora viene chiamato competente; quando poi è bagnato nell’acqua del Battesimo, viene chiamato fedele; quando è unto con il crisma, cioè con l’unzione, viene chiamato Cristiano. E infatti è dopo il Battesimo, che lo Spirito Santo viene conferito dai Vescovi mediante l’imposizione delle mani; ricordiamo che questo è stato fatto dagli Apostoli negli Atti degli Apostoli, … avvenne così: « Quando gli Apostoli, che erano a Gerusalemme, udirono che Samaria aveva accettato la parola di Dio, mandarono loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro, affinché ricevessero lo Spirito Santo, poiché non era ancora sceso su nessuno di loro; essi erano stati battezzati solo nel Nome del Signore Gesù. Poi hanno imposto le mani su di loro che hanno ricevuto lo Spirito Santo » (Act. VIII: 14). Così noi possiamo ricevere lo Spirito Santo, ma non possiamo darlo ma, affinché sia dato, invochiamo il Signore. Ascoltate chi solamente è capace di farlo, secondo il santo Papa Innocenzo della Sede Romana, che ha scritto per tutte le chiese; ascoltate quello che dice: « Non per mezzo di altri, se non mediante un Vescovo è lecito conferire lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani. Anche i presbiteri, pur essendo Sacerdoti, non possiedono il grado più alto del Pontificato; spetta solo ai Pontefici infondere lo Spirito Santo segnando la fronte, come dimostra non solo l’usanza della Chiesa, ma anche il già citato passo degli Atti degli Apostoli, che afferma come Pietro e Giovanni fossero stati scelti ed inviati per conferire lo Spirito Santo a coloro che erano già stati battezzati. Ai presbiteri, sia che il Vescovo sia assente, o che sia presente, nel battezzare è lecito ungere i battezzati con il crisma, ma con il crisma consacrato dal Vescovo; non è lecito però che essi segnino la fronte con il medesimo olio, cosa che appartiene solo alla missione dei Vescovi quando conferiscono lo Spirito Santo.

LA RELIGIONE E LA FEDE

I filosofi hanno così chiamato il dogma, da “putando” (= credere), cioè quel che si reputa sia buono, e vero. La religione è così chiamata perché attraverso di essa colleghiamo le nostre anime ad un solo Signore, per servire, con tal legame, il culto divino; questa parola deriva da “religendo”, vale a dire “eligendo – scelta”; pertanto in latino la parola religendo equivale ad eligendo, che quindi è lo stesso che “scelta”. Tre cose sono richieste agli uomini nel culto della religione per adorare Dio: la fede, la speranza e la carità. Nella fede, si contiene ciò che si debba credere; nella speranza, ciò che si debba sperare; e nella carità, quel che si debba amare. La fede è quella virtù per cui si crede vero ciò che non possiamo vedere. Infatti non possiamo credere a ciò che già vediamo. Propriamente, si dà anche il nome di fede, quando si compie totalmente quel che è stato detto o promesso. Ed è per questo appunto che si chiama fede, perché essa compie ciò che è stato concordato tra due, cioè tra Dio e l’uomo. Ed anche si chiama patto. La speranza si chiama così poiché è un piede che deve procedere lungo il sentiero, dunque un piede in cammino. Si chiama così come il contrario si dice anche disperazione (dal latino deest pes), perché dove è messo il piede in fallo, non c’è alcuna possibilità di camminare; infatti quando uno ama il peccato, non si aspetta la gloria futura. La carità, parola greca, è tradotta in latino con “dilectio” poiché unisce due persone. La carità infatti trae origine tra due soggetti, che costituiscono l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. L’Apostolo dice: « La pienezza della legge è l’amore » (Rm. XIII, 10). Nella Chiesa questo amore è la più importante tra tutte le virtù; infatti colui che ama, crede e spera anche. Ma chi non ama, pur facendo molte opere buone, lavora invano. Un amore tutto carnale non si chiama carità, anche se si impiega spesso la parola amore. Il nome « carità » è usato solo nelle cose migliori, e questo suole accadere tra gli uomini santi e religiosi. Questa è la dottrina della Chiesa; questa è la fede che deve essere professata all’interno della Chiesa.

FINISCE IL PROLOGO SULLA CHIESA

INIZIA IL PROLOGO DELLA SINAGOGA

[6] Sinagoga, è una parola greca, che in latino significa “congregazione”, così come Chiesa significa “assemblea”, perché chiama tutti a farne parte. Ma si chiamava Sinagoga una congregazione, perché in essa si radunava una parte numerosa del popolo. Il popolo giudeo ha mantenuto questo nome come proprio. Ed in riferimento ad esso, di solito parliamo di “sinagoga”, e sebbene sia anche chiamata Chiesa, tra i Cristiani, riceve il nome di Sinagoga. Gli Apostoli non hanno mai chiamato la nostra assemblea sinagoga, ma sempre Chiesa, o per differenziarsene, o perché tra noi formiamo una congregazione. Per questo motivo, sia nella sua accezione di Sinagoga che in quella di assemblea, essa [la nostra assemblea] – prende il nome solamente di Chiesa. C’è però una certa differenza tra l’assemblea e la congregazione: infatti chiamare significa invitare; ma riunire è un obbligare, come infatti le greggi di solito si riuniscono, e del gregge diciamo correttamente che si congrega. C’è tra la Sinagoga e la Chiesa, la stessa distanza esistente tra le greggi e l’uomo. Nella Chiesa infatti sono chiamati gli uomini, nella Sinagoga gli animali. Gli uomini sono razionali, ricordano il passato, organizzano il presente e prevedono il futuro, meditando incessantemente su ciò che fanno giorno per giorno, per non cadere mai in cose abiette nelle opere e nei pensieri. Essi non danno sonno agli occhi, ma giorno e notte meditano sulla legge del Signore. Questi è il figlio maschio che si dice partorito dalla « donna ». Questi, imitando non un qualsiasi uomo santo, ma intuendo con la contemplazione la verità, opera la giustizia affinché comprenda e segua la stessa Verità, ad immagine della quale è stato creato. Per questo ricevette anche potere sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sulle fiere e sui rettili; poiché essendo spirituale è reso simile a Dio e, secondo l’Apostolo, « … giudica tutte le cose e non è giudicato da nessuno » (1 Cor II: 15); infatti crede di non essere erede in questo mondo, bensì in quello futuro. La sinagoga, invece, ha tutte le sue speranze in questo mondo: è sollecitata dalle cose del corpo, ma non da quelle dell’anima. – Essa è costituita da questi elementi: il diavolo, l’Anticristo, l’eretico, l’ipocrita, lo scismatico, la superstizione, la bestia, il dragone, i pozzi, le locuste, i cavalli e la donna seduta sulla bestia. – Si chiama diavolo in ebraico, ma in latino significa “colui che si precipita giù“: perché disprezzò di restare beato nel più alto del cielo, ed a causa del peso dell’orgoglio precipitò giù. In greco diavolo significa “accusatore”, o perché denuncia davanti a Dio quei crimini che egli stesso eccita negli uomini a commettere, o perché accusa gli eletti innocenti di falsi crimini; infatti in questo libro si dice per bocca dell’Angelo: « l’accusatore dei nostri fratelli è stato gettato a terra, colui che li ha accusati giorno e notte davanti al nostro Dio » (Ap. XII, 10). Egli è chiamato in greco satana, che in latino significa “avversario” e trasgressore. È « avversario » perché è il nemico della verità, ed è sempre pronto ad andare contro la giustizia dei Santi. Egli è « trasgressore », perché, essendosi resosi prevaricatore, non è rimasto nella verità (Gv. VIII, 44) nella quale era stato creato. È il tentatore, perché è sempre pronto a tentare l’innocenza del giusto, come è scritto nel libro di Giobbe. – L’Anticristo è così chiamato perché deve venire contro Cristo. Non è come pensano alcuni ingenui, che cioè sia chiamato Anticristo perché verrà prima di Cristo, dato che è Cristo a venire dopo di lui. Ed infatti « Anticristo » dal greco si interpreta in latino come colui che è “contrario a Cristo“. “Anti” in greco, in latino significa “contra“. Quando verrà, egli fingerà di essere Cristo, e combatterà contro di Lui, si opporrà ai Sacramenti di Cristo, per distruggere il Vangelo della verità e per imporre la sola legge mosaica e sottoporre il popolo alla circoncisione. Egli cercherà infatti di riparare il tempio di Gerusalemme e di ripristinare tutte le cerimonie della vecchia legge. Ma è anche “anticristo” chi dice che Cristo non è Dio: costui è un avversario di Cristo. È un anticristo chiunque creda che Cristo sia Dio, però lo neghi con le sue opere: questi crede in Cristo per la fede, ma lo rinnega con il suo comportamento. Infatti, come abbiamo detto che si nega Dio in due modi, così in due modi gli uomini possono essere apostati. Come chi neghi la fede è un apostata, ugualmente è apostata chi neghi Dio onnipotente con la sua condotta, anche se nella Chiesa sembra praticare la retta fede. Tutti coloro che lasciano la Chiesa e si separano dall’unità della fede e delle opere sono certamente da considerarsi “anticristi”.

LE ERESIE DEI CRISTIANI

[7] Molte ed innumerevoli sono le eresie dei Cristiani. Per il fatto che la Chiesa è settiforme e diffusa in tutto il mondo, crediamo che essa sia una sola; di contro, i dogmi degli eretici sono particolarmente limitati ad alcune aree regionali. Alcuni eretici che si sono allontanati dalla Chiesa, prendono il nome dagli autori che le hanno inventate [… le eresie]. Altri invece dalle stesse cause che li hanno motivati, scegliendole a loro discrezione. Infatti “eretico” è una parola greca che in latino significa “electio” (= scelta): e questo perché ognuno sceglie per sé ciò che ritiene sia meglio. E queste si ritrovano non solo tra gli zotici o gli ignoranti, ma anche tra i sapienti ed i dotti che escogitano a proprio arbitrio dottrine perverse, e fanno ciò che vogliono; pertanto, chiunque si separi deliberatamente dall’unità della Chiesa per istituire o accettare qualsiasi interpretazione a proprio arbitrio, è un eretico. E non solo ci riferiamo alle questioni di fede, ma si chiamano eresie anche credenze diverse ed ingannevoli, che sono da stimare come un nulla; tutte queste cose saranno esaminate dai santi Sacerdoti nel giorno del giudizio. Non è lecito per noi introdurre nulla ad arbitrio proprio, né accettare ciò che chicchessia abbia introdotto di propria iniziativa. Abbiamo gli Apostoli di Dio come nostri padri, gli stessi che non hanno osato introdurre nulla a proprio arbitrio, ma che ci hanno trasmesso fedelmente la dottrina ricevuta da Cristo. Quindi, « … anche se un Angelo del cielo ci predicasse qualcos’altro » (Gal I, 8), sarà considerato anatema. Tali sono le eresie contro la fede cattolica e condannate dagli Apostoli, dai Santi Padri e dai Concili. E queste, dal momento che sono in opposizione e dissentono l’una dall’altra per molteplici errori, con intento comune cospirano contro la Chiesa di Dio. Ed anche a colui che interpreta la Sacra Scrittura in un senso diverso dal sentimento con cui lo Spirito Santo che l’ha scritta suggerisce, non è lecito separarsi dalla Chiesa, potendosi così senza dubbio definire eretico.

LA SETTA

La parola setta deriva da “seguire” e “tenere“. Chiamiamo infatti setta la disposizione d’animo e lo stabilirsi di una dottrina, o il proposito perseguito nel sostenerla, di coloro che pensano nel culto della religione cose molto diverse dagli altri.

LO SCISMA

Si chiama scisma ciò che deriva della “scissione delle anime“. Si crede nello stesso culto e nello stesso rito che gli altri religiosi. [Gli scismatici] si differenziano solo per la divisione nella comunità, in modo da non condividere il concilio comune agli altri. Si verifica uno scisma anche quando gli uomini dicono: noi siamo i giusti; santifichiamo gli immondi, e molte cose del genere.

LA SUPERSTIZIONE

La Superstizione, è così chiamata perché è il credere a cose superflue o non comandate dalla Religione.

L’IPOCRITA

Hypocrita” è una parola greca che in latino significa “colui che finge“. Questi [gli ipocriti] sono possessori della conoscenza della sacra legge, predicano le parole della dottrina: tutto ciò che dicono lo dimostrano con testimonianze; eppure attraverso tutto questo, non cercano la vita dei loro ascoltatori, ma la lode di se stessi. Poiché non conoscono altre cose nel predicare se non quelle che inducono i cuori dei loro ascoltatori alla lode, essi non li fanno commuovere, perché le loro anime, occupate dai desideri esteriori, non sono riscaldate dal fuoco dell’amore divino e quindi non possono infiammare i loro ascoltatori con desideri celesti mediante parole che sono pronunciate invero da un cuore gelido; ed infatti una cosa che non è infiammata di per sé, non ne può infiammarne un’altra. Ed è così che la maggior parte delle volte le parole degli ipocriti non sono di insegnamento ai loro ascoltatori, e coloro che si mostrano vanitosi nel ricercare lodi, sono da queste peggiorati, come dice l’Apostolo: « la conoscenza gonfia, la carità edifica » (1 Cor VIII, 1). Spesso gli ipocriti si affliggono con grandi astinenze, indeboliscono ogni forza del loro corpo e vivendo nella carne eliminano come alla radice la vita della carne, e così con l’astinenza si appropriano della morte e vivono quotidianamente come se stessero morendo; infatti il loro volto impallidisce, il loro corpo si indebolisce e si agita, e il loro senso è oppresso da sospiri ininterrotti. Ma in tutte queste cose si cerca la parola dell’ammirazione dalla bocca dei propri prossimi, perché chi macera il suo corpo ma brama l’onore, crocifigge la sua carne, però vive per il mondo con la concupiscenza. Infatti, spesso, sotto l’apparenza della santità, una persona indegna ottiene una posizione di comando, e se non mostrasse una qualche virtù nella sua condotta, non meriterebbe di ottenere alcun onore. Ma ciò che si ottiene con diletto passa, e ciò che si ottiene con la fatica rimane. Ora la fiducia nella santità è posta nella bocca degli uomini, ma quando il Giudice interiore esamina i recessi più intimi del cuore, non cerca una testimonianza esterna di vita.

L’ARROGANTE

Si chiama arrogante, cioè audace ed orgoglioso, colui che pretende molto ed è sprezzante.

IL PRESUNTUOSO

Si dice presuntuoso colui che si eleva al di sopra della sua misura, considerandosi grande per le cose che compie.

IL DISPERATO

Volgarmente si chiama disperato un malvagio, perduto, che non ha alcuna residua  speranza. È così chiamato per la sua somiglianza con i malati, che, esausti e senza speranza, vengono deposti. Era abitudine degli antichi mettere i malati senza speranza davanti alle porte delle loro case, sia per rendere alla terra il loro ultimo respiro, sia perché potessero eventualmente ricevere la guarigione dai passanti che avevano sofferto già un tempo della stessa malattia.

IL NEMICO

Il nemico è il non amico: l’amico è chiamato custode dell’anima, ma il nemico ne è l’avversario. Due sono le cose che producono nemici: la frode e la paura. Ed infatti essi temono le frodi dai mali che hanno subito.

IL SUPERBO

Si chiama superbo chi vuol essere considerato più di ciò che è. Chi vuole andare oltre ciò che è, è un orgoglioso.

IL PUBBLICANO

Pubblicano è colui che esige le tasse pubbliche; è pure colui che, col pretesto del bene degli affari pubblici, persegue il lucro del mondo.

IL PECCATORE

Peccatore viene da “pellex“, cioè meretrice, come un dissoluto (pellicator). Questo nome tra gli antichi si applicava solo al vizioso; in seguito, questa parola passò a designare qualsiasi uomo iniquo.

LA PROSTITUTA

La fornicatrice (o prostituta) è colei il cui corpo è pubblico ed appartiene a tutti; essa si prostituiva sotto l’arco delle mura, che si chiamava “loca fornices”; da questo si chiamavano fornicatrici.

IL PREVARICATORE

Prevaricatore è un avvocato di mala fede che, quando parla per accusare o difendere, dimentica consapevolmente ciò che possa sfavorirlo, dichiara non richiesto ciò che è inutile e dubbio, e testimonia ciò che è falso per lucro.

LO STOLTO

Stolto è il fatuo, che a causa dello stupore non si muove. Quando è offeso, sopporta la sevizia per malizia, e non è né vendicativo, né si commuove davanti ad alcun dolore.

IL DRAGONE

Il dragone è il serpente, cioè il diavolo; ma prende il suo nome, che significa serpeggiare, dall’autore del suo nome. È anche il Leviatano, cioè il serpente marino, perché nel mare di questo secolo si muove rapidamente con astuzia. Leviatano significa “colui che si aggiunge a loro“. ,,, e a chi se non agli uomini? A coloro che per la prima volta in paradiso ha indotto al peccato della trasgressione, e con la sua persuasione lo ingigantisce di giorno in giorno fino alla morte eterna. Al serpente fu detto: « Maledetto sei tu tra tutte le bestie; sul tuo petto e sul tuo ventre camminerai » (Gen. III, 18). Qui in figura si vuole indicare il pensiero e l’orgoglio dell’anima. Per ventre si intende la lussuria della carne. Il diavolo, cioè il serpente, cammina sul petto e sul ventre, perché è su questi due parti che striscia colui che cerca di ingannarci, o con il pensiero superbo, o con la lussuria, che è con l’ingordigia del ventre. « … e mangerai la polvere », cioè ti apparterranno coloro che tu hai ingannato con l’avidità terrena. Quando fu detto al diavolo: mangerai la polvere, fu detto poi all’uomo peccatore: « … tu sei polvere e tornerai ad essere polvere », e l’uomo peccatore fu dato al diavolo come cibo. « Metterò inimicizia tra te e la Donna, tra il suo ed il tuo seme ». Il seme del diavolo è un cattivo consiglio o un pensiero peccaminoso. Quando uno ha un pensiero malvagio, allora il diavolo semina nel suo cuore. Il seme della Donna è il frutto di una buona opera. Quando uno pensa a ciò che è buono, allora semina il buon seme; e se ciò che ha pensato lo compie con le sue azioni, allora resiste ai consigli malvagi. La donna, cioè la carne, schiaccerà la testa del serpente se l’anima lo respinge nel momento stesso in cui si presenta la brutale tentazione. Esso ne insidia il calcagno, perché cerca fino alla fine di raggiungere l’anima che non ha potuto ingannare con la prima suggestione. Così, quando vide Cristo “uomo”, cercò di ingannarlo senza riuscirci. Ma Egli gli ha schiacciato la testa, non per il suo potere, perché era Dio, ma l’ha calpestata nell’umiltà della sua umanità, il che equivale alla morte. Come disse anche Davide per bocca del Padre riguardo al Figlio: « … calpesterai l’aspide ed il basilisco, calpesterai il leone e il drago » (Sal XC, 13). Ha chiamato l’aspide:  morte, e il basilisco: peccato; il drago che si annida nell’oscurità: il diavolo; ed il leone: Anticristo. Ora i servi di Dio, i seguaci di Cristo, li calpestano con i piedi mediante la loro fede e le loro opere, come dice la Verità nel Vangelo: « Io vi ho dato il potere di calpestare i serpenti e gli scorpioni e di calpestare ogni avversario, e nulla vi farà del male in alcun modo » (Lc. X, 19).

I CAVALLI

I cavalli del Signore sono quelli che Zaccaria vide mandati nel mare, cioè a predicare nel mondo. Questi cavalli sono tre: quello bianco, che rappresenta il candore del Battesimo; quello nero, che è il lutto della penitenza; il terzo è rosso, perché è la passione del martirio. Questi tre sono uno solo ed il loro cavaliere è Cristo.

I CAVALLI MALVAGI

Anche di tali cavalli ce ne sono tre: il primo è rosso, cioè sanguinario e omicida. Il rosso di cui abbiamo parlato in precedenza, è rosso ugualmente ma per il suo stesso sangue; questo invece è rosso per il sangue di altri. Il secondo cavallo è anche nero, come quello di cui abbiamo parlato prima, ma il primo era nero per la penitenza, mentre il secondo è nero per le sue opere, e questa è la fame spirituale nella Chiesa, cioè la predicazione evangelica che non è da nessuno più proclamata. Il terzo cavallo è pallido e l’inferno lo segue (Ap. VI, 8). Questa è la morte spirituale nella Chiesa. Perché attraverso il peccato viene la morte. Questi tre cavalli sono uno solo, e il loro cavaliere è il diavolo.

LA BESTIA

[8] La bestia prende il nome da “devastare”, cioè divorare. Daniele vide quattro bestie nella sua visione. « … La prima era come una leonessa e aveva le ali d’aquila. La seconda bestia era come un orso. La terza bestia era come un leopardo. La quarta bestia, spaventosa e terribile, e forte in modo straordinario; aveva denti di ferro: divorava e faceva a pezzi, e ne calpestava il residuo con i piedi. Era diversa dalle altre bestie e aveva sette teste e dodici corna » (Dan. VII, 3-7). Queste quattro bestie sono questo mondo che si divide in quattro parti: Oriente, Occidente, Settentrione e Meridione; si possono pure intendere come quattro regni e cioè: nella leonessa, il regno di Babilonia. Nell’orso, il regno dei Medi e dei Persiani. Nel leopardo, il regno di Macedonia e, nell’orribile e forte, il regno di Roma, che ha grandi denti di ferro e divora e calpesta, perché nel suo regno sono stati compiuti tutti i martirii. Eppure questi quattro sono un unico mondo. Così pure Nabucodonosor vedeva nella statua della sua visione … (Dan. II, 31) come uno in figura d’uomo; ma vedeva in quattro parti le sue membra di colori diversi: cioè la testa d’oro, che è la prima parte del mondo; il petto e le braccia d’argento, che è la seconda; la terza di bronzo, che è la terza parte, cioè il ventre e i lombi; la quarta parte, con i piedi in parte di ferro ed in parte di argilla. In questi piedi bisogna capire chiaramente che è rappresentata la fine di questo mondo, perché i piedi sono la parte estrema del corpo. La pietra che cade dal monte è il Figlio di Dio, nato dalla Vergine, che colpisce la statua ai piedi, cioè che viene alla fine del mondo e porta, con gli Angeli, la pace del mondo, ed è Lui stesso il Re della sua Chiesa per il mondo intero, cioè Egli riempie il mondo con la pietra (Dan. II, 36). Queste quattro bestie, quindi, sono un’unica bestia, che sappiamo essere descritta in questo libro con sette teste e dieci corna. Le sette teste e le dieci corna sono una cosa sola. Le teste si riferiscono a tutti i re; le corna sono tutti i regni, e tra le dieci corna si dice che c’era un piccolo corno. Diciamo, allora, quello che hanno scritto tutti gli scrittori della Chiesa: alla fine del mondo, quando il regno dei Romani sarà distrutto, ci saranno dieci re che divideranno il regno di Roma. E l’undicesimo che sorgerà sarà un piccolo re che sconfiggerà tre re tra i dieci re: cioè il re dell’Egitto, dell’Africa e dell’Etiopia, come diremo più chiaramente in seguito. Quando questi tre saranno uccisi, anche gli altri sette re sottometteranno il loro collo allo stesso undicesimo re, che è il piccolo corno. Questi è l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’Anticristo, perché si siederà nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio. Questi non viene ancora sotto le specie del suo corpo, ma ha il suo regno in questa bestia e nei quattro cavalli malvagi menzionati, di cui si dice dal Profeta: « Stendi le tenebre e viene la notte e vagano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i leoncelli in cerca di preda e chiedono a Dio il loro cibo. » (Psal. CIII, 20). Ecco perché Giobbe dice: « Le fiere si ritirano nei loro ripari e nelle loro tane si accovacciano. » (Giobbe XXXVII: 8). A cos’altro si riferisce con il nome di bestia se non all’antico nemico che, con crudeltà, riuscì ad ingannare il primo uomo con la violenza e, consigliandolo male, distrusse l’integrità della sua vita? Contro di essa per voce del Profeta che parla della santa Chiesa degli eletti, che deve essere restaurata nell’antica situazione persa nel paradiso, si promette « che … nessuna bestia feroce la percorrerà » (Is. XXXV, 9). Ma questa bestia, dopo la venuta del Redentore, dopo le voci dei predicatori, come dopo il tuono delle nuvole, quando alla fine del mondo si impossesserà di quell’uomo condannato che si chiama Anticristo, dove andrà se non nella sua tana, per abitare nella sua stessa tana? Quel vaso è l’antro del diavolo, il covo della bestia, affinché, ingannando gli uomini che camminano sulla via di questa vita, egli possa nascondersi in essa con segni, ed uccidere con malizia. Egli possiede i cuori di tutti i reprobi attuali, già prima ancora di apparire manifesto; li possiede con la sua occulta malizia, come la sua stessa tana. E desidera tutto ciò che può nuocere al bene, e si nasconde nelle loro anime oscure. Non erano forse posseduti da questa bestia i cuori dei Giudei persecutori, nel cui cuore si nascondeva con numerosi consigli, e che improvvisamente irrompeva dalle voci di coloro che dicevano: « crocifiggilo, crocifiggilo? » (Lc. XXIII: 21). E non riuscendo a danneggiare lo spirito del nostro Redentore, anelava alla morte della sua carne. Certamente questa bestia possedeva il cuore di molti degli eletti; ma l’Agnello, mentre essa si nutriva di loro, la costringeva a lasciare andare la preda. Per questo il Vangelo dice: « Ora il sovrano di questo mondo sarà scacciato » (Gv. XII, 31). Perché con ammirevole e giusto giudizio, quando il Signore, illuminandoli, ricevette la confessione degli umili, chiuse, abbandonandoli, gli occhi dei superbi. Come è detto: « hai mandato le tenebre e la notte è calata ». Il Signore manda le tenebre quando ritira la luce dalla sua intelligenza, quando rende giustizia per i peccati. E scende la notte, perché lo spirito dei malvagi è accecato dagli errori della loro ignoranza. In essa camminano tutte le bestie della foresta, quando gli spiriti maligni – sotto l’ombra dell’inganno – percorrono i cuori dei reprobi riempiendoli con la loro malvagità. Anche qui i leoncini ruggiranno, perché gli spiriti, servi dei poteri infami ma possenti, sorgeranno con inopportune tentazioni. Eppure aspettano il loro cibo da Dio, perché non possono certo catturare le loro anime, se non per volontà di Dio, e sulle quali, per una giusta decisione, non è loro permesso trionfare. Perciò, a ragione aggiunge: « … il sole è sorto ed essi si sono riuniti e sono tornati alle loro tane » (Psal. CIII, 22). Infatti, quando la luce della verità apparve nella carne, essi furono scacciati dalle anime dei fedeli e ritornarono come alle loro tane, per abitare solo nel cuore degli infedeli. Quella che lì è stata chiamata la tana dei leoni, è qui chiamato “antro”, la tana della bestia. Penso che dovremmo notare che questa bestia non solo entri nella sua tana, ma – si dice – che in essa dimori. A volte essa entra persino nello spirito dei buoni: suggerisce ciò che è illecito, si adopera con le sue tentazioni, cerca di piegare la rettitudine dello spirito al piacere carnale, si sforza anche di raggiungere il consenso nel piacere; però, resistendo con l’aiuto divino, gli viene impedito di trionfare. Egli può dunque entrare nelle anime dei buoni, ma non può dimorare in esse, perché il cuore del giusto non è l’antro di questa bestia. Di coloro che essa possiede come sua tana, ha certamente le anime come sua dimora; poiché li induce prima nei loro pensieri a desideri iniqui e poi con i loro desideri iniqui, ad azioni malvagie. Ed infatti i reprobi non si sforzano di rifiutare i suoi malvagi consigli con retto giudizio, perché vogliono porsi al servizio delle sue voluttà con una dilezione sottomessa. E quando qualcosa di depravato nasce nei loro cuori, è immediatamente assecondato il desiderio del piacere. Non essendo opposta la minima resistenza, esso diventa subito forte con il consenso, ed immediatamente è portato all’azione, azione poi ripetuta d’abitudine. Non c’è da stupirsi che questa bestia abiti nella sua tana, perché possiede per tanto tempo i pensieri dei reprobi, fino a trafiggerne pure la vita con il pungiglione delle opere pravi.

IL POZZO

Il pozzo è la profondità della terra, dove il sole non giunge mai con i suoi raggi, in quanto proprio a causa della sua profondità, non può ricevere la luce del giorno. Il pozzo, la tana, la grotta, la caverna della terra, sono tutti la medesima cosa, perché qui gli uomini che camminano nelle tenebre di questo mondo, sono privi del sole della giustizia: Cristo, non vi diffonde la sua luce. Poiché essi sono nel profondo, cioè perseguono le ricchezze terrene, la luce della giustizia è loro nascosta. Lo stesso si dice per il pozzo quel che abbiamo detto della tana. In questo pozzo si nasconde il diavolo; da questo pozzo sono uscite le cavallette, cioè i demoni; e questo pozzo e le cavallette sono una cosa sola. Perché gli uomini malvagi hanno come condottiero il diavolo. Come dice il Profeta: « … ciò che il bruco ha lasciato, lo ha divorato la locusta; ciò che la locusta ha lasciato, lo ha divorato l’afide; ciò che l’afide ha lasciato, lo ha divorato il grillo » (Gioele I: 4). Qual è il significato del bruco, che trascina tutto il corpo strisciando a terra, se non la lussuria, che macchia così tanto il cuore, che non può più assurgere all’amore di una superiore limpidezza? Qual è il significato della locusta, che salta, se non la vanagloria, che si esalta con le sue vane presunzioni? Qual è il significato dell’afide, il cui corpo è praticamente ridotto solo all’addome, se non la golosità nel mangiare? Cosa si intende per grillo, che dà fuoco a tutto ciò che tocca, se non l’ira?

LA DONNA SEDUTA SULLA BESTIA

« La donna sulla bestia » è il vizio, le opere del male, i piaceri, la fornicazione, l’impurità, l’avidità, la gelosia, il furto, l’invidia, la vanità, l’orgoglio, l’ingordigia. Chi gioisce dei beni del mondo, chi non ha carità, chi non fa il bene ai poveri, chi affligge i servi di Dio con ingiurie ed oltraggi, chi non si separa dal suo, ma si impossessa dell’altrui, chi non va in Chiesa, chi testimonia il falso, chi rende il male per il male, chi augura la morte al nemico, chi pratica oroscopi ed incantesimi e porta amuleti, come quelli che gli ignoranti chiamano il segno di Salomone, o altri simboli simili che di solito si scrivono e si appendono al collo, e raccolgono erbe recitando il Credo, il Padre Nostro, o con incantesimo, e le donnine che guardano la tela di ragno o le impronte, e gli uomini che guardano la luna e il giorno per seminare, o per addomesticare gli animali, o per istruire i bambini, o per piantare alberi, o per eseguire un gioco, o per uccidere animali, o per spostarsi da un luogo all’altro, o per fare un viaggio, o sono attenti a non far nulla di lunedì; a non portare via qualcosa dalla casa. … niente fuoco, niente boccone. Tutte queste e altre cose simili sono invenzioni del diavolo, e stabilite dalla pratica di uomini pagani. Chi osserva ciò che abbiamo appena detto non è un figlio degli Apostoli, ma dei demoni, di cui imita le opere. Questa è la donna viziosa, che siede sulla bestia e che abbiamo precedentemente nominato. Questa è la donna che siede sulle acque, cioè sui popoli, come sta scritto: « la donna – dice – che avete visto, che siede sulle grandi acque, sono i popoli e le nazioni » (Ap. XVII, 15). Questa dottrina è sopravvissuta dalla riprovevole scuola dei pagani. Questo non è accettato dal dogma dei Padri e dalla Santa Madre Chiesa. Anche alcuni religiosi, con il pretesto della santità, spesso consultano libri e investigano su formule per sapere di cosa si tratti: li chiamano sortilegi dei santi. Queste ed altre cose come queste, sono state inventate da eretici e da pagani: ciò che non è basato sull’insieme dei libri, cioè del Nuovo e dell’Antico Testamento, è stato precedentemente condannato dalla santa dottrina e rifiutato dalla Santa Madre Chiesa. E a chi poco, a chi molto, essa dà da bere di questa coppa di idolatria. È d’oro il calice, perché [tali idolatri] si definiscono Cristiani, ma con queste opere che abbiamo visto riassunte nella Sinagoga, si separano da Cristo e dalla Chiesa; infatti come la Chiesa ha Cristo come Capo, questi hanno come capo il diavolo. E come la Chiesa forma un solo corpo con Cristo, così questi con il diavolo formano un unico corpo strutturato, e con la Chiesa Cattolica sembrano adorare un solo Signore Cristo, avere una sola fede ed un solo battesimo. La Madre Chiesa non li respingerà in questo mondo fino al giorno del giudizio, quando i campi saranno trebbiati e il grano sarà separato dalla pula, in modo che il grano sia conservato nel granaio e la pula bruciata nel fuoco inestinguibile.

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (4)

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (2)

(Voce che grida nel deserto Matth III, 3)

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (2)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770]

LIBRO PRIMO

[1] INIZIA IL TRATTATO DELL’APOCALISSE DI GIOVANNI con la spiegazione interpretata da molti dottori e da uomini illustri probatissimi, dei quali diverso è lo stile, ma unica la fede: dove saprete pienamente (ciò che si dice) di Cristo e della Chiesa; dell’Anticristo e dei suoi segni.

PROLOGO

[1]. Dovendo interpretare la duplice storia della legge divina, con il doppio segreto del mistero, la fragilità della nostra umanità non potrebbe narrare in altro modo se non mutuando dall’Autore stesso della sua legge – il Signore Gesù Cristo – il suo modo di parlare e le parole del suo linguaggio. Perciò, dovendo commentare l’Apocalisse di San Giovanni, invoco lo Spirito Santo che in essa dimora, affinché Colui che ha rivelato a Giovanni gli arcani dei suoi segreti, ci apra la porta della comprensione interiore, in modo da poter spiegare senza colpa e manifestare con verità – Dio docente – le quante cose ivi siano state scritte. Pertanto, l’inizio del libro di cui trattiamo, si descrive come segue: (*)

(*) Testo latino della Volgata e versione italiana di Mons. ANTONIO MARTINI RIVEDUTA E CORRETTA DAL P. MARCO M. SALES O. P. Professore all’Università di Friburgo (Svizzera)

(Apoc. I, 1-6)

Apocalypsis Jesu Christi, quam dedit illi Deus palam facere servis suis, quae oportet fieri cito: et significavit, mittens per angelum suum servo suo Joanni, qui testimonium perhibuit verbo Dei, et testimonium Jesu Christi, quæcumque vidit. Beatus qui legit, et audit verba prophetiæ hujus, et servat ea, quæ in ea scripta sunt : tempus enim prope est. Joannes septem ecclesiis, quae sunt in Asia. Gratia vobis, et pax ab eo, qui est, et qui erat, et qui venturus est: et a septem spiritibus qui in conspectu throni ejus sunt:  et a Jesu Christo, qui est testis fidelis, primogenitus mortuorum, et princeps regum terræ, qui dilexit nos, et lavit nos a peccatis nostris in sanguine suo, et fecit nos regnum, et sacerdotes Deo et Patri suo: ipsi gloria et imperium in sæcula sæculorum. Amen.

[Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli ha data per far conoscere ai suoi servi le cose che debbono tosto accadere: ed egli mandò a significarla per mezzo del suo Angelo al suo servo Giovanni, il quale rendette testimonianza alla parola di Dio, e alla testimonianza di Gesù Cristo in tutto quello che vide. Beato chi legge, e chi ascolta le parole di questa profezia: e serba le cose che in essa sono scritte: poiché il tempo è vicino. – Giovanni alle sette Chiese che sono nell’Asia. Grazia a voi, e pace da colui, che è, e che era, e che è per venire: e dai sette spiriti, che sono dinanzi al trono di lui: e da Gesù Cristo, che è il testimone fedele, il primogenito di tra i morti, e il principe dei re della terra, il quale ci ha amati, e ci ha lavati dai nostri peccati col proprio sangue, “e ci ha fatti regno, e sacerdoti a Dio suo Padre: a lui gloria, e impero pei secoli dei secoli: così sia].

SPIEGAZIONE DELLA STORIA SOPRA DESCRITTA

[2] Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli ha data per far conoscere ai suoi servi le cose che debbono tosto accadere: Già dal fatto che si chiami Apocalisse, cioè rivelazione, si comprende come essa manifesti il senso recondito di cose segrete. Per questo non è possibile comprenderle, a meno che non ci sia qualcuno che ne riveli il senso. L’Apocalisse di Gesù Cristo che Dio ha concesso a lui, cioè al beato Apostolo Giovanni, per manifestarla ai suoi servi, affinché si intenda ciò che dice e si manifesti ciò che egli ha conosciuto. “… le cose che devono presto accadere”, indicando che esse debbano realizzarsi molto rapidamente, nel corso del tempo, nel suo senso e nel suo significato. “E mandò il suo Angelo per farlo conoscere al suo servo Giovanni”, cioè tutto questo non è stato concepito dal pensiero, né scritto come un poema immaginario, bensì comunicato da un Angelo, messaggero di verità, al suo servo Giovanni, il più santo fra tutti gli Apostoli: colui che ha testimoniato il Verbo di Dio, che ha annunciato il Figlio di Dio, che ha affermato la sua divinità ed ha reso testimonianza a Nostro Signore Gesù Cristo, a tutto ciò che ha visto in Lui e sentito da Lui. Così infatti scriveva nella sua Epistola: « Noi vi dichiariamo ciò che abbiamo visto e sentito e toccato con le nostre mani riguardo al Verbo di vita, e la vita si è manifestata … » (1 Gv. I,1). Benedetto colui che legge e coloro che ascoltano le parole di questa profezia e conservano ciò che vi è scritto. Desidera che si comprenda che la lettura non implichi l’osservanza dei Comandamenti, né che l’ascolto presupponga la perfezione dell’opera da compiersi, ma che alla perfezione si giunga quando ci si sforzi di mettere in pratica ciò che si è letto ed ascoltato. Perché il tempo è vicino. Non annuncia lontano il momento della remunerazione per chi vi si conformi, ma al contrario dice che il dono della ricompensa divina è vicino. Poi inizia le sue comunicazioni e dice: Giovanni alle sette Chiese dell’Asia. Come mai si è chiamato un tal grande uomo a manifestare il mistero della rivelazione divina ad una sola provincia e non a tutti i popoli, destinando i suoi scritti ad un numero così esiguo di Chiese di un’unica provincia? Ed infatti: … dal sorgere del sole al tramonto, il nome del Signore sia lodato ed in ogni luogo sia fatta una oblazione pura al Suo nome (Mal. I, 11). Si può allora mai credere che la rivelazione apostolica sia stata meritata da un solo popolo asiatico? Ed ecco che c’è mistero nel numero, ed un sacramento nel nome della provincia. Dobbiamo allora innanzitutto considerare il significato di questo numero, poiché i numeri sei e sette, che appaiono costantemente nella Legge, sono riportati per conferirvi un significato mistico. In sei giorni Dio fece il cielo e la terra e nel settimo giorno si riposò dalle sue opere (Es. XX, 11); ed in questo, di nuovo dice, entreranno nel mio riposo. Questa settimana, quindi, significa la situazione del secolo presente, per cui non sembra che l’Apostolo si sia rivolto a sette Chiese o a chiunque vivesse nel mondo in quel momento, ma che abbia avuto l’intenzione di destinare i suoi scritti a tutti gli uomini futuri fino alla consumazione dei tempi; pertanto ha citato un numero dal valore sacro e ha nominato l’Asia, che in latino significa “elevata”, o “che va verso l’alto”. Si si riferisce, quindi, alla patria celeste, a quella che noi chiamiamo Chiesa Cattolica, innalzata dal Signore e sempre in cammino verso l’alto, e che, progredendo nell’impegno spirituale, desidera incessantemente le cose del cielo. Sia a voi pace da Dio, che è, che era e che deve venire… – Come la Scrittura ha dichiarato il suo nome nel titolo, col dire: Giovanni alle sette chiese dell’Asia, così si conferma a Giovanni, con la similitudine delle parole, il proprio Essere, dicendo: Colui che è, Colui che era, e Colui che verrà. Perché è proprio di Dio l’esistere sempre: per questo Egli dice a Mosè: « Io sono Colui che sono » (Es. III, 14). E lo stesso Apostolo dice nel Vangelo: In principio era il Verbo, e il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio con Dio (Gv. I, 1). Questo implica che il Verbo sia antecedente ad ogni inizio, perché esisteva già nel principio; e che non ha avuto un inizio, perché era con Dio; né ha una fine, perché … il Verbo era Dio; e rimane sempre, perché era nel principio con Dio; e dice che Egli stesso deve ritornare qui, da dove non è mai partito. Infatti è Lui che dice: « Io riempio il cielo e la terra » (Ger. XXIII, 24; Eccl. XXIV, 6). Per questo il Saggio dice: « Io solo ho traversato la volta del cielo » (Sap. 1, 7). Per lo stesso motivo è pure scritto sul suo Spirito: « Lo Spirito del Signore ha riempito la terra » (Is. LVI, 1). Ed ancora dice il Signore: « Il cielo è il mio trono e la terra è il mio sgabello » (Is. LXVI, 1). E di Lui è anche scritto: « Egli misura il cielo con la mano e afferra la terra con il pollice » (Is. XL,12). Certo, la sede di chi presiede è nel profondo ed in un luogo elevato. Misurando il cielo con il palmo della mano e afferrando la terra con il pollice (c’è un riferimento implicito alle misure di larghezza, il palmo ed il pollice), Egli mostra di essere fuori e attorno a tutte le cose che ha creato, poiché ciò che è chiuso dentro dipende da chi lo chiude dall’esterno. Perciò, dalla sede da cui presiede, Egli è dentro e sopra; con il pollice che afferra, è fuori e sotto; infatti Egli stesso rimane dentro a tutte le cose e fuori da tutte le cose, sopra tutte le cose, sotto tutte le cose: è sopra con il suo potere, è sotto col sostenerle. È fuori per la sua grandezza, e dentro per la sua sottigliezza. Sopra governando, sotto sostenendo, fuori circondando e dentro penetrando. E non è superiore da una parte, inferiore da un’altra, fuori da una e dentro in un’altra, ma è tutto in uno, Egli sostiene ogni parte presiedendo, sostenendo; penetra roteando, circonda penetrando. Così, chi presiede dall’alto, dal basso sostiene; chi è intorno da fuori, da dentro tutto riempie; imperturbabile governa dall’alto, dal basso sostiene senza sforzo; penetra di dentro senza consumare, circonda dall’esterno senza premere. E così, senza occupare un posto, è sia inferiore che superiore; senza avere un’estensione, è immenso; senza raggiungere l’annientamento, è sottile. Perché si dice che viene Colui che, pur non essendo mai presente con una massa corporea, a causa della sua illimitata sostanza, non è mai assente? Ma la sua venuta è giunta in quanto ha assunto una forma e si è annientato da se stesso. Il suo annientamento, venendo dall’invisibilità della sua divinità, è stato il mostrarsi visibile. Perciò dice bene: Colui che è, che era e che deve venire, perché rimane ed era, quando ha fatto tutte le cose con il Padre, e non ha avuto la sua origine dalla Vergine, ma certamente verrà a giudicare. … e dai sette Spiriti che sono davanti al suo trono. Ed ecco quel sacramento settenario che viene annunciato ovunque. Qui si presentano i sette spiriti, che sono sempre un uno ed un medesimo Spirito, cioè lo Spirito Santo: è uno nel Nome e septiforme per i suoi doni. Invisibile ed incorruttibile, impossibile da scoprire, ed il cui numero di “sette doni” Isaia manifesta splendidamente, dicendo: Spirito di sapienza e di intelletto,  (Is XI, 2), per insegnare con sapienza ed intelletto che Egli è il Creatore di tutte le cose. Lo Spirito di consiglio e di fortezza, con cui è progettato e realizzato. Lo spirito di scienza e di pietà, perché per mezzo della sua scienza governa con pietà le cose create e le dirige sempre con misericordia. Lo Spirito di timore del Signore, è il dono che mette a disposizione delle creature razionali il timore del Signore. Questa da venerare è dello Spirito la stessa santa proprietà, che, più che indicarne l’aspetto naturale, ne implica l’ineffabile lode. – … e da Gesù Cristo, il Testimone fedele, il Primogenito dai morti, il Principe dei re della terra. Avendo in precedenza menzionato il Verbo che, prima di assumere la carne, era nella gloria con il Padre, ne annette ora necessariamente l’aspetto umano nella carne assunta, dicendo: E di Gesù Cristo, il Testimone fedele, confessando così il suo Essere divino con l’assunta umanità, nonché il suo intervento – mediante la sua Passione ed il suo Sangue – a riscatto dei nostri peccati e per la purificazione da ogni iniquità. Così Egli offre una testimonianza fedele della nostra fragilità ed infermità a Dio Padre, nel quale « … non c’è variazione né ombra di cambiamento » (Gc. I,17). Il primogenito dai morti: infatti, primogenito dei morti, è risorto dai morti, non potendo la morte trattenerlo. Per questo l’Apostolo dice: « … Cristo come primizia, poi quelli che sono di Cristo alla sua venuta » (1 Cor. XV, 23), cioè noi dopo che siamo stati chiamati Cristiani per il Battesimo, risuscitando nella sua seconda venuta, risorgiamo dai morti. E quindi è chiamato il primogenito e la primizia dai morti, perché è stato il primo che vincendo l’inferno è tornato in Paradiso. Questo è il Principe dei re della terra, perché è il Re dei re ed il Signore dei signori. Egli è Colui che ci ha amati: perché non abbiamo noi ricambiato l’amore amando Dio, ma è Egli che ci ha amati per primo, diventando uomo in soccorso della nostra bassezza e prendendo la forma di servo, non essendoci nessuno come Lui sulla terra, poiché ogni uomo è solo un uomo, ma solo Lui è Dio ed uomo. Nessun uomo è infatti come Lui, perché anche se un “figlio adottivo” diviene partecipe della divinità, in nessun modo può iniziare ad essere divinizzato già nel corso della sua vita naturale. È stato poi giustamente chiamato servo, non avendo disdegnato di assumere la condizione di servo. E nell’assumere l’umiltà della carne, non arrecò ingiuria alla sua Maestà, perché l’ebbe ricevuta per associarla (ipostaticamente) e non per cambiare il suo stato; e non ha sminuito la sua divinità a causa dell’umanità, né ha distrutto l’umanità mediante la divinità.  – S. Paolo, infatti, vi fa riferimento quando dice: « … il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio » (Fil. II, 6). Egli non l’ha derubata, perché già la possedeva. E spogliatosi della grandezza della sua invisibilità, apparve come un uomo visibile, per rivestirsi della condizione di servo mentre per l’innanzi penetrava tutte le cose in modo incircoscritto a causa della sua divinità. … ed ha lavato con il suo sangue i nostri peccati. Mostra qui l’affetto del suo amore e della sua carità. Perché Egli, al quale non sarebbe toccata la morte, né per natura né per condizione mortale, ha voluto morire per noi e così,ha lavato con il suo sangue i nostri peccati.Ed ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre. Infatti avendo sofferto per noi e risorto dai morti, Egli stesso ha costruito il nostro regno affinché meritassimo di essere sacerdoti di Dio Padre. Ha fatto di noi un regno quando ha sofferto ed è risorto dai morti. A Lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. A Dio, Creatore di tutte le cose, sia lode eterna e gloria in sempiterno.

TERMINA LA S PIEGAZIONE

COMINCIA LA STORIA

(Apoc. I, 7-11)

Ecce venit cum nubibus, et videbit eum omnis oculus, et qui eum pupugerunt. Et plangent se super eum omnes tribus terræ. Etiam: amen. Ego sum alpha et omega, principium et finis, dicit Dominus Deus: qui est, et qui erat, et qui venturus est, omnipotens. Ego Joannes frater vester, et particeps in tribulatione, et regno, et patientia in Christo Jesu: fui in insula, quæ appellatur Patmos, propter verbum Dei, et testimonium Jesu: fui in spiritu in dominica die, et audivi post me vocem magnam tamquam tubæ, dicentis: Quod vides, scribe in libro: et mitte septem ecclesiis, quæ sunt in Asia, Epheso, et Smyrnæ, et Pergamo, et Thyatiræ, et Sardis, et Philadelphiæ, et Laodiciæ.

[Ecco che egli viene colle nubi, e ogni occhio lo vedrà, anche coloro che lo trafìssero. E si batteranno il petto a causa di lui tutte le tribù della terra: così è: Amen. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e il fine, dice il Signore Iddio, che è, e che era, e che è per venire, l’onnipotente. Io Giovanni vostro fratello, e compagno nella tribolazione, e nel regno, e nella pazienza in Gesù Cristo, mi trovai nell’isola che si chiama Patmos, a causa della parola di Dio, e della testimonianza di Gesù. Fui in ispirito in giorno, di domenica, e udii dietro a me una grande voce come di tromba, che diceva: Scrivi ciò, che vedi, in un libro: e mandalo alle sette Chiese che sono nell’Asia, a Efeso, e a Smirne, e a Pergamo, e a Tiatira, e a Sardi, e a Filadelfia, e a Laodicea.]

INIZIA LA STORIA

[3] Ecco, Egli viene tra le nuvole; ogni occhio lo vedrà, e anche quelli che lo trafissero. –  Colui che dapprima si è nascosto nel presunto uomo, si manifesterà poi con maestà e nella gloria per giudicare. Predice la sua morte e, come conseguenza della morte, la purificazione dai peccati, la sua risurrezione e la riparazione ventura di tutto quanto avvenuto per mezzo di Lui, il ritorno nella gloria e, proclamando la lode a Dio Padre Onnipotente, annuncia la sua seconda venuta: Egli tornerà nella stessa figura, con lo stesso corpo con cui ha patito, con cui è morto ed è risorto, stavolta nella sua Sovranità divina, non come un tempo nella umana umiltà, assunta a testimonianza dell’uomo vero, e che mostrerà agli occhi dei suoi persecutori. Come dice Zaccaria: « Essi guarderanno a colui che hanno trafitto e piangeranno per lui come per un figlio unico » (Zac. XII, 10), così anche qui si dice che tutte le razze della terra piangeranno per Lui. Sì. Amen. In altre parole, Egli manifesta fedelmente e con certezza che si tratta di una sola Persona: Dio e l’uomo assunto; e avendo reso manifesta la natura della sua umanità, proclama la gloria della natura divina, e lo dice con le parole stesse del Signore: Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e il fine, dice il Signore Dio, che è, che era, che deve venire, l’Onnipotente. Anche se i nostri antenati hanno trattato la questione con cura ed utilità, dobbiamo esporre ciò che si intende per  “peristera”, cioè la colomba, sotto la cui figura leggiamo che è apparso lo Spirito Santo quando il Signore è stato battezzato da S. Giovanni nel Giordano; questa “peristera” (περιστερα), nella numerazione greca, dà ottocento, che equivale all’ω, ritornando alla lettera alfa, che significa uno. Si dimostra così la divinità dello Spirito Santo nell’unità della Trinità. Che lo Spirito Santo stesso ci conceda i suoi favori affinché ci possa meritare di aggiungere qualcosa ai nostri maggiorenti. Prudentemente dobbiamo notare cosa significhino questi elementi dell’alfabeto, cioè la A e l’ω, che la “Verità” stessa cita. La figura stessa della lettera A, sia in caratteri greci che latini, è costituita da tre tratti che occupano le stesse dimensioni, cosicché, non a caso, i nostri antichi dicevano che rappresentasse l’unità della divinità. L’ω è scritta in greco con tre trattini uguali uniti e che in parte dipendono l’uno dall’altro. In latino, invece, la “O” è chiusa come la rotondità di un cerchio. Anche in questa chiusura la divinità si manifesta circondando e contenendo tutto. Inoltre, per quanto riguarda il soggetto degli elementi e delle lettere, questi elementi sono l’origine della scienza, ed una certa arte di condurre l’ignorante alla saggezza. Quindi l’alfa, è l’inizio della sapienza, e la stessa Sapienza manifesta Cristo, il Figlio di Dio, che è la Sapienza stessa; l’omega, che è la fine (in greco A ed ω) e presso di noi la “O”, che occupa una posizione intermedia. Ciò significa che l’inizio della Sapienza, la fine e la medianità, indicano lo stesso Signore Gesù Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini. Con quel che ha detto: “il principio e la fine”, non si riferisce solo ai principali elementi delle lettere, cioè alla A e all’ω, ma ci mostra la potenza della sua grandezza, perché Egli è l’inizio di tutte le cose ed in Lui si ricapitola il destino di tutti. Si crede infatti che attraverso di Lui saranno ripristinate quelle cose che devono essere concluse come quelle già conchiuse, così che, come Egli ha dato origine al principio, così darà fine alla nostra consumazione, tanto che il fine stesso avrà una fine e la consumazione stessa la sua consumazione, di modo che sarà sempre ciò che è, come dice la Scrittura presente, nel dire: Il Signore Dio, che è, che era e che deve venire, l’Onnipotente: Questo è scritto da San Giovanni all’inizio della sua rivelazione. – Ora procede con altro inizio cercando di accedere all’ordine stesso della rivelazione, raccontando la ragione, il come, il dove, ed in qual giorno, tutto ciò che ha detto dopo che il Signore gli ha mostrato quel che gli ha rivelato e quel che il Signore ha contemplato. Afferma tutto questo in senso multiplo, anche se con brevi parole. Scrive così l’inizio della sua santa rivelazione, rivolgendosi a coloro a cui parla, dicendo: Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella pazienza di Gesù, sono stato sull’isola chiamata Patmos, a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù Cristo. Come insegnavano gli storici della Chiesa, ai tempi di Claudio Cesare, nel tempo in cui scoppiò la carestia annunciata dal profeta Agabo negli Atti degli Apostoli (At. XI, 28) e durata dieci anni, Cesare stesso, in mezzo a quella tempesta, spinto dalla sua ordinaria vanità, decretò la persecuzione delle Chiese. In questo tempo ordina che pure lo stesso Giovanni, Apostolo di Nostro Signore Gesù Cristo, sia confinato in esilio; questa punizione sull’isola di Patmos è provata anche dalla presente Scrittura. – Infatti, per prepararsi alla sofferenza di quei tempi, ricorda che anch’egli partecipa alla sofferenza, e indica come ricompensa della tribolazione il regno e, per ricevere il regno, aggiunge di aver sopportato con la pazienza avuta per amore di Gesù. Poi racconta del luogo dove era stato trasferito, dicendo: ero sull’isola chiamata Patmos. Per spiegare il perché fosse stato condannato a tale pena, aggiunge: Per la parola di Dio e la testimonianza di Gesù, facendo intendere che egli a causa della predicazione del Vangelo e della testimonianza fedele che predicava al popolo sulla divinità di nostro Signore, fu punito con l’esilio e grandi tribolazioni”. E vivendo su quell’isola, dice, sono stato catturato dallo Spirito di domenica. Dice di essere stato assunto in spirito, cioè innalzato ai segreti di Dio, per contemplare ciò che dovrà dire; non dice di essere entrato corporalmente nel più alto dei cieli, ma di esservi stato introdotto in spirito, ricordando quella frase: « Nessuno sale in cielo se non colui che scende dal cielo, il Figlio dell’uomo, che è nei cieli » (Ef. IV, 9). Anche l’Apostolo Paolo dice di essere stato rapito. Ma come? Così si esprime: Non so se nel corpo o fuori dal corpo; Dio lo sa » (2 Cor. XII, 2), dicendoci che è stato rapito dallo Spirito durante un’estasi. Qui, dicendo di essere stato assunto in spirito di domenica, ricorda di essere stato liberato dalle occupazioni del lavoro comune; infatti la domenica l’Apostolo non poteva che dedicarsi a cose e ad uffici sacri, sapendo che quel giorno è giorno della risurrezione del Signore, considerato pure il primo giorno della prima Creazione del mondo. – Anche in quello stesso giorno, a porte chiuse, Gesù si presentò ai suoi discepoli, ed essi pensarono di vedere uno spirito, udendo dal Signore: Toccate e vedete: lo spirito non ha carne né ossa, che aggiunse poi: Ricevete lo Spirito Santo. In quel giorno i santi Apostoli ricevettero lo Spirito con il quale i peccati sarebbero stati rimessi, per cui sarebbero diventati figli di Dio e sarebbe stato concesso ai credenti lo Spirito di adozione. Cinquanta giorni dopo, pure di domenica, questo (stesso Spirito) fu dato loro con maggiore pienezza onde battezzare nello Spirito Santo e fortificarsi per predicare il Vangelo di Cristo a tutti i popoli. Il beneficio era di natura apostolica, perché coloro che prima avevano ricevuto la grazia di perdonare i peccati, avrebbero ricevuta in seguito anche quella di operare i miracoli e, quella ancor più necessaria, della diversità delle lingue di tutti i popoli, in modo che nell’annunciare Cristo non avrebbero avuto bisogno di alcun interprete. – Lo proclamo io con audacia e in tutta libertà: dal momento in cui gli Apostoli hanno creduto nel Signore, hanno sempre avuto lo Spirito Santo. Ed infatti non potevano fare miracoli senza la grazia dello Spirito Santo. Ma poiché lo Spirito era tutto nel Signore, non risiedeva ancora pienamente negli Apostoli. Tuttavia, dopo che la grazia dello Spirito Santo venne infusa in loro, essi non hanno avuto paura dei tribunali, dei giudici o della porpora dei re, parlando in seguito liberamente ai governanti dei Giudei: « … Dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At. V, 29); hanno resuscitato i morti, erano lieti in mezzo ai flagelli, hanno versato il loro sangue e ricevute le corone del martirio. Il giorno di Pentecoste ha avuto il suo prologo quando la voce di Dio si è fatta udire sul Monte Sinai, tuonando dall’alto. Nel Nuovo Testamento la Pentecoste è iniziata quando è stato dato lo Spirito Santo agli Apostoli. Lo stesso giorno la Legge fu data a Mosè. In quel giorno venne donata nel deserto la manna dal cielo, … per questo si chiama il “giorno del Signore”: in esso, astenendosi dalle opere servili e dalle lusinghe del mondo, è dunque opportuno dedicarsi soltanto ai culti divini, cioè santificando questo giorno nella speranza della nostra risurrezione, che abbiamo nella sua. Poiché, come nostro Signore Gesù Cristo è risorto il terzo giorno dai morti, così noi speriamo di risorgere nell’ultimo secolo in questo giorno del Signore (la domenica). E così in questo giorno si prega anche in piedi, segno della futura risurrezione. Questo fa tutta la Chiesa, che nel pellegrinaggio mortale di questo secolo si trova in attesa della fine del mondo, che si è manifestata in anticipo nel corpo del Signore Nostro Gesù Cristo, primogenito dei morti. – D’altra parte, in precedenza, prima di quel tempo, al popolo era stato imposto il sabato, per celebrarlo corporalmente, affinché servisse come figura; e viene interpretato come il riposo, perché prima della venuta di Cristo nostro Redentore, esso era il riposo dei morti e non c’era risurrezione per nessuno; e giustamente, come per il Signore esso fu il giorno in cui si era riposato dal compimento delle sue opere, in quello stesso giorno avrebbe anche riposato nella tomba. Tuttavia, la domenica è stata istituita non per i Giudei, ma per i Cristiani, a causa della Risurrezione del Signore. È questo un giorno di festa; è pure il primo giorno che, dopo il settimo, diventa l’ottavo giorno. In un tale giorno appunto, l’Apostolo entrò in cielo, nel giorno in cui sapeva che il Signore aveva compiuto tante cose. – In quello stesso giorno in cui resuscitò, diede la Legge per mezzo di Mosè. Mosè visse centoventi anni; per questo stesso motivo lo Spirito Santo discese su centoventi anime a Pentecoste (riunite per l’elezione di Mattia). Questa festa del Vangelo coincide con la festa della Legge. A questo scopo, il legislatore Mosè, poiché era conveniente che fosse suggellato e celato fino all’arrivo della sua passione, si coprì il volto con un velo e così parlò al popolo, volendo dimostrare che anche le parole della predicazione di Nostro Signore Gesù Cristo sarebbero state velate. Giovanni, però, celebrando la domenica, viene portato in spirito alla sede del Giudizio, affinché ciò che era stato suggellato dalla lettera della Legge, fosse reso manifesto dallo Stesso che l’aveva suggellato, da Colui che viene chiamato l’Agnello perché come ucciso. – E le cose che aveva velato attraverso Mosè, le ha rivelate attraverso Cristo, e mostrate in quelle cose rivelate a Giovanni. Per questo motivo, quella si chiama velazione e questa rivelazione. Ecco perché, ora che il volto di Mosè è scoperto e si manifesta, l’Apocalisse è detta rivelazione. Sono gli scrittori dei libri sacri che parlano per ispirazione divina e che sono i dispensatori dei precetti celesti a nostra istruzione. Si ritiene infatti che l’Autore di queste Scritture sia lo Spirito Santo. Infatti lo scrisse Egli stesso, dettando ciò che doveva essere scritto, attraverso i suoi Profeti.

Termina la spiegazione

(Apoc. I, 10-20)

Et audivi post me vocem magnam tamquam tubæ, dicentis: Quæ vides, scribe in libro: et mitte septem ecclesiis, quae sunt in Asia, Epheso, et Smyrnæ, et Pergamo, et Thyatiræ, et Sardis, et Philadelphiæ, et Laodiciæ. Et conversus sum ut viderem vocem, quae loquebatur mecum: et conversus vidi septem candelabra aurea: et in medio septem candelabrorum aureorum, similem Filio hominis vestitum podere, et præcinctum ad mamillas zona aurea: caput autem ejus, et capilli erant candidi tamquam lana alba, et tamquam nix, et oculi ejus tamquam flamma ignis: et pedes ejus similes auricalco, sicut in camino ardenti, et vox illius tamquam vox aquarum multarum: et habebat in dextera sua stellas septem: et de ore ejus gladius utraque parte acutus exibat: et facies ejus sicut sol lucet in virtute sua. Et cum vidissem eum, cecidi ad pedes ejus tamquam mortuus. Et posuit dexteram suam super me, dicens: Noli timere: ego sum primus, et novissimus, et vivus, et fui mortuus, et ecce sum vivens in sæcula sæculorum: et habeo claves mortis, et inferni. Scribe ergo quae vidisti, et quæ sunt, et quae oportet fieri post hæc. Sacramentum septem stellarum, quas vidisti in dextera mea, et septem candelabra aurea: septem stellæ, angeli sunt septem ecclesiarum: et candelabra septem, septem ecclesiæ sunt.

[ …udii dietro a me una grande voce come di tromba, che diceva: Scrivi ciò che vedi, in un libro: e mandalo alle sette Chiese che sono nell’Asia, a Efeso, e a Smirne, e a Pergamo, e a Tiatira, e a Sardi, e a Filadelfia, e a Laodicea. E mi rivolsi per vedere la voce che parlava con me: e rivoltomi vidi sette candelieri d’oro: e in mezzo ai sette candelieri d’oro uno simile al Figliuolo dell’uomo, vestito di abito talare, e cinto il petto con fascia d’oro: e il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca, e come neve, e i suoi occhi come una fiamma di fuoco, e i suoi piedi simili all’oricalco, qual è in un’ardente fornace, e la sua voce come la voce di molte acque: e aveva nella sua destra sette stelle: e dalla sua bocca usciva una spada a due tagli: e la sua faccia come il solfo (quando) risplende nello sua forza. E veduto che io l’ebbi, caddi ai suoi piedi come morto. Ed egli pose la sua destra sopra di me, dicendo: Non temere: io sono il primo e l’ultimo, e il vivente, e fui morto, ed ecco che sono vivente pei secoli dei secoli, ed ho le chiavi della morte e dell’inferno. Scrivi adunque le cose che hai vedute, e quelle che sono, e quelle che debbono accadere dopo di queste: il mistero delle sette stelle, che hai vedute nella mia destra, e i sette candelieri d’oro: le sette stelle sono gli Angeli delle sette Chiese: e i sette candelieri sono le sette Chiese.]

TERMINA LA STORIA

INIZIA LA SUA SPIEGAZIONE

E ho sentito dietro di me una grande voce, come di tromba, che diceva: Scrivi in un libro quello che vedi. Dei predicatori del Vangelo è stato scritto: « clama, ne cesses, quasi tuba exalta vocem magnam tamquam tubæ » [gridate ad alta voce, non abbiate paura, alzate la voce come tromba] (Is. LVIII,1); e di ciò che è detto dietro di me, il profeta dice: « sentiranno da loro la parola di Colui che li istruisce » (Is. XXX, 21). Tutta l’umanità, anche se innalzata all’altezza della santità dai decreti divini, equiparati alla voce divina, non è in grado di sopportare nello stesso tempo la presenza e la contemplazione del volto; ma, umiliata dalla fragilità della natura, ascolta le parole di Dio come se le provenissero dal di dietro. Pertanto, con il dire alle mie spalle, indica l’umiltà della umanità; una voce forte come una tromba, insegna come le parole divine godano di un maggiore timbro di saggezza, di una maggiore santità e di un suono più ampio che i sensi. Scrivi in un libro ciò che vedi; e si intende, perché quando si ascolta la parola divina, quando si ha la comprensione di ciò che è inaccessibile, non solo si aprono gli occhi, ma anche le orecchie, sì da vedere ciò che è nascosto, ed apprendere ciò che si intende; cosicché si ordina di scrivere nei libri ciò che si è visto. Di questo libro il Signore parla attraverso il profeta dicendo: « Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato ». (Ger. XXXI, 33). Questo è il libro in cui all’Apostolo si avverte di scrivere ciò che ha visto, si insegna ad instillarlo nel cuore degli ascoltatori ed a conservarlo nella memoria. Di questo libro dice il santissimo maestro dei gentili: « Voi siete la nostra carta, nascosta nei vostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini » (2 Cor. III, 2). E di quello che Giovanni scrive, gli vien detto pure a chi debba indirizzarlo: invialo – dice – alle sette chiese. Avendo già detto che la Chiesa è solo una nello svolgersi del mondo, cioè nel tempo fino alla fine del mondo, vediamo ora cosa indichino i nomi di quelle chiese, e quali insegnamenti contengano. Efeso – dice – Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Queste città hanno forse esse sole raggiunto la perfezione nella religione cristiana, oppure la loro voce si è diffusa su tutta la terra, e le loro parole fino ai confini della terra? C’è, tuttavia, in quei nomi un mistero che, per quanto Dio ci concederà, esamineremo con diligenza. Efeso significa la mia volontà o mio consiglio. Con questo si vuol rendere noto che l’intero sviluppo della nostra fede e la dignità della Chiesa Cattolica non sia da attribuire ad un merito umano, ma alla volontà ed ai disegni della grazia divina. Smyrne, poi, significa loro canto; e qual altro è il canto dei perfetti se non la dottrina celeste, la predicazione del Vangelo, e il progresso della Religione cristiana, ed una sonante confessione della Chiesa Cattolica? “Pergamo” significa colui che divide le sue corna; questo ci insegna che la comunità della Chiesa separa ed allontana l’insolenza delle potenze dell’aria, il cancro degli eretici e l’orgoglio dei potenti. Infatti il  “corno” è il potere o il cancro (= tumor). Tiatira, che è l’illuminata, significa che la santa Chiesa, dopo aver cacciato gli eretici, dopo i tumori dei potenti, dopo le potenze dell’aria, dopo aver resistito alle tentazioni, ha meritato la luce della giustizia. Sardi è il principio di bellezza, cioè la Chiesa che, avendo ricevuto il sole della giustizia, illuminata dalla luce della verità, possiede il principio della bellezza, vale a dire: il Signore Gesù Cristo, il cui germoglio brillerà sempre nella luce eterna. – Filadelfia, cioè colei che conserva aderendo al Signore, dopo aver ricevuto il Sole di giustizia, dopo la santa illuminazione, dopo lo splendore della santa bellezza, aderendo la Chiesa al Signore come premio, si conserva nella devozione inviolabile e nel culto divino. Laodicea, l’amata tribù di Dio o, come alcuni vogliono, colei che spera nella nascita. Ma entrambi significano che colei che per la bellezza della sua fede ha meritato il Sole di giustizia ed ha saputo aderire al Signore per la fede, è la tribù di Dio, amata, difesa, diretta dal Signore, e attende la sua nascita o la rigenerazione del Battesimo, o attende con umiltà e pazienza la gloria della Risurrezione. – Di tali gradazioni della Chiesa, questi sono i nomi distinti. E non senza motivo sono stati scritti i nomi delle suddette Chiese. Infatti, perché a colui che parla al mondo intero, gli si dice di scrivere solo a sette chiese? Questo è il mistero che il Signore ha voluto che colui con cui parlava capisse nel sacramento celeste: e che cioè in questi sette nomi designati, è contenuta la Chiesa di tutto il mondo, indicata sia dal numero mistico, sia dalla dignità di tutta la Chiesa. Ho visto ancora una volta quale voce mi parlava. La fragilità umana, corroborata dagli insegnamenti divini, volge il suo volto: e non dice di contemplare colui che ha parlato con sé, se non di vederne la voce, cioè di conoscerne il mistero della voce. Si contemplano quindi gli arcani misteri, ma non se ne vede il volto. E quando mi sono girato, ho visto sette candelabri d’oro. E quando ho conosciuto il mistero della voce, dopo la prima visione della voce, ho visto sette candelabri d’oro. Il candelabro che poggia su tre braccia (piedi) mantiene la totalità del corpo in posizione verticale, e questo corpo sovrapposto regge la lucerna luminosa. « E nessun altro fondamento può essere posto – dice l’Apostolo – se non quello già posto, che è Gesù Cristo » (1 Corinzi III:  11). « Da lui tutto il corpo è unito e tenuto insieme da ogni tipo di articolazione, nutrito dall’attività di ciascuno dei suoi membri, in modo che il corpo cresca e si costruisca nell’amore » (Ef. IV, 16). Questa è la verga di cui si detto: « dalla radice di Iesse scaturirà una verga » (Is. XI, 1). Su questa asta è posta la lucerna, cioè la luce della Chiesa Cattolica, affinché, ricevuta la verità di quella luce, essa produca la luce eterna e, con la professione unanime di un’unica fede, sia illuminata dalla luce della Maestà divina. Ed egli dice che sono sette [i candelabri]: riassume così la grazia septiforme dello Spirito Santo, che perdura lungo questa settimana del mondo. E che egli dica che siano d’oro, significa o che la forza della fede è irrorata dal sangue di Gesù Cristo, o la fede dei martiri nella Chiesa, che sono stati bagnati nel suo sangue rosso. E in mezzo ai sette candelabri d’oro, c’era uno come un figlio di un uomo, vestito con una tunica talare. Dice lo stesso, dopo aver vinto la morte, quando è salito al cielo, e questo corpo è stato unito allo spirito della sua gloria, quando ha ricevuto il potere dal Padre. Come un Figlio d’uomo che camminava in mezzo ai candelabri d’oro, come dice Salomone: « Camminerò in mezzo ai sentieri dei giusti » (Prov. VIII, 20). La sua vetustà è l’immortalità, origine della maestà. I sette candelabri d’oro sono le sette chiese che, quando sono unite come delle membra, formano un corpo unico. E l’abito del Figlio dell’uomo, cioè l’abito talare di cui ha parlato, descrive la Chiesa dalla quale era rivestito. Poiché il Figlio dell’uomo, e i sette candelabri d’oro, e le sette stelle, sono tutti un’unica Chiesa, e con sette membra formano un unico corpo: così come sappiamo che un uomo ha sette funzioni per mezzo delle membra, e cioè gli occhi, le orecchie, il naso, il gusto, il tatto, le mani ed i piedi, così si è parlato di sette funzioni delle membra che formano però un unico corpo. Ma nell’usare le allegorie, egli le divide in specie: così che in alcune specie manifesta chiaramente anche il genere, mentre in altre, a causa dell’eccessiva sottigliezza e dell’eccelso messaggio divino, non se ne può esprimere chiaramente il genere, che può essere più facilmente intravisto che espresso in parole. Divide infatti il genere in parti in tal modo: come l’arca di Noè, così è la Chiesa. L’arca nelle parti inferiori era larga, mentre nelle parti superiori era più stretta. Così chi segue la via ampia e spaziosa all’interno della Chiesa, non è considerato un uomo, bensì una bestia, ed infatti si dice che qui ci siano anche animali impuri accoppiati a due a due. Invece, gli uomini e gli uccelli abitano ai piani superiori. Egli chiama uomini gli esseri razionali; mentre per uccelli si intendono coloro che rimangono nella contemplazione della fede. Come noi crediamo che le otto anime, gli animali e gli uccelli dentro l’arca siano salvati, così nella Chiesa crediamo all’annuncio profetico: « E tu, o uomo di Giuda, e abitanti di Gerusalemme, vieni a giudicare tra me e la mia vigna » (Is. V, 3), e come Gerusalemme, l’uomo e la vigna sono una cosa sola: vale a dire la Chiesa: il vino del Signore Sabaoth è la casa d’Israele: e nella grande casa che è la Chiesa; infatti conclude dicendo: la vigna del Signore Sabaoth è la casa di Israele, e nella casa grande che è la Chiesa, ci sono vasi d’oro e di argento (2Tim. II, 20), ed i vasi stessi sono la casa di Dio. Ed ancora: « sono uscite da lei i portatori dei vasi del Signore » (Is. LII,11), cosicché i portatori stessi sono i vasi. Il re di Babilonia un tempo aveva portato via da Gerusalemme i vasi del Signore, destinati ai sacrifici ed ai sacri misteri, ma in seguito li riportò indietro insieme ai prigionieri e li ripristinò al loro uso; e per la misericordia di Dio, quando la prigionia fu finita, quegli stessi vasi asportati, e non rovinati, furono nuovamente impiegati nell’adorazione dei sacri misteri; il re di Babilonia è il diavolo, che ha portato in cattività l’infelice popolo giudaico di Gerusalemme – cioè la Chiesa – a Babilonia, che è la confusione della pravità eretica. Ma questa è anche la sorte dei vasi, cioè dei Sacramenti, che sono gli stessi Sacramenti che si amministrano nella Chiesa. Questi vasi furono trasferiti dal re di Babilonia insieme ai prigionieri. Così anche oggi nella Chiesa i sacerdoti eretici portano i nostri vasi a Babilonia, cioè nella confusione. Innanzitutto, il nome proprio di Cristo, per mezzo del quale si può dire di essere veri Cristiani: si trasmette la Legge, il Vangelo, l’Epistola, il Salterio, il Battesimo, l’Amen e l’Alleluia, il Credo e il Padre Nostro. Quando poi, abbandonata la confusione dell’ignoranza per il rispetto del Signore, il popolo si affretta a tornare sotto il giogo del Signore a Gerusalemme,  “visione della pace”, che è la Chiesa del Dio vivente, riporta con sé questi vasi, cioè i Sacramenti, non li cambia, ma li restituisce integri, e non li spezza per perfezionarli, ma li riporta al tempio e li usa per i servizi divini, in modo tale che il popolo si riempia di gioia per il ritorno di quei vasi che non solo non sono andati perduti, quando erano con loro, ma sono stati conservati integri, e quasi rinnovati in meglio, stando in mezzo agli empi. E non aboliamo il Vangelo, né distruggiamo l’Apostolo. Né tanto meno cambiamo l’Amen o l’Alleluia. Non ripetiamo il Battesimo. E, come abbiamo detto sopra, in alcune specie il genere è chiaro, mentre in altre è occulto, come dice Davide: « Signore, chi abiterà nella tua tenda? – E lo Spirito risponde – … chi ha mani innocenti e cuore puro » (Psal. XIV, 1). E come non c’è altra dimora per Dio sulla terra se non quella di “chi ha mani innocenti e cuore puro”, così ora nei sette candelabri si descrive la Chiesa del Figlio dell’uomo. Vestito, dice, con una veste talare, cioè con l’abito sacerdotale. Perché la veste talare è la veste sacerdotale, cioè la carne di Cristo, che non è stata distrutta dalla morte, ma che con la Passione ha indicato chiaramente il sacerdozio. Egli infatti è, come dice l’Apostolo: il principe dei pastori (1 Pt. V, 4). Di lui il maestro dei Gentili dice: « Tale è il Sommo Sacerdote che è adatto a noi: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori, esaltato sopra i cieli » (Eb. VII, 26). Ed ancora dice Zaccaria: « Gesù sommo sacerdote, figlio di Josedech, vestito con abiti sordidi » (Zac. III,1). Di questo Gesù, sommo sacerdote, fu figlio Sirac e nipote Gesù, del quale si parla in Salomone (Eccl. L, 27). Infatti, come detto, nel Sacerdozio c’è tutta la Chiesa, perché non esiste sulla terra una sola realtà umana la cui natura non sia stata assunta da Cristo. E aveva cinto il petto con fascia d’oro. I due seni del Signore sono i precetti della Legge e la santa dottrina del Vangelo, come si legge nel Cantico sulla Chiesa la quale doveva venire da gente futura che non possedeva ancora Testamenti: « Abbiamo una sorella minore, e non ha ancora il seno. » (Cant. VIII: 8) Invece, alla madre delle Chiese viene detto questo: « I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano fra i gigli. (Cant. IV, 5). Le due gazzelle gemelle sono il popolo giudaico e quello dei gentili. I due seni, sono la Legge ed il Vangelo: quel che nella Legge fu annunziato, nel Vangelo venne realizzato. Parimenti è per le benedizioni dei seni di Maria, che sono stati veramente benedetti, poiché la Santa Vergine ha dato al Signore il nutrimento del latte: per questo una donna dice nel Vangelo: « Benedetto il grembo che ti ha partorito e i seni che ti hanno allattato » (Lc. XI, 27). E come si dice in Genesi: « con la benedizione dei seni e del grembo materno » (Gen. XLIX, 25). Anche qui è benedetto il grembo di quella vergine Madre che ha partorito Cristo Signore: di Lei si dice per mezzo di Geremia: « Prima di formarti e di conoscerti nel grembo di tua madre, e prima che tu nascessi ti ho consacrato » (Ger. I, 5); … e per mezzo di Salomone: « i tuoi seni, come grappoli » (Cant. VII,7). Perché, come abbiamo detto sopra, i due seni sono i due Testamenti, e le due gazzelle i due popoli che sono la Chiesa. In questa specie, quindi, si può vedere anche il genere, e nei Testamenti si può riconoscere la Chiesa, nella quale i Testamenti, da ciò che realizzano, formano la somiglianza: infatti i Testamenti non la pascono ma è la Chiesa che si nutre dei Testamenti; non sono i Testamenti a versare il sangue, ma i popoli che lo versano come l’uva pigiata. Ed ecco come frequentemente nelle Scritture si incontrano diverse classi di questo inciso, per cui chi compie un’azione riceve il nome di quel che realizza. Come anche, al contrario, il diavolo ed i suoi ministri sono chiamati morte ed inferno, perché sono per molti causa di morte e condanna all’inferno, come sta scritto: Dov’è il tuo pungiglione, o morte? (I Cor. XV, 55) Come anche il diavolo, che si chiama morte, possiede la morte ed il lago di fuoco, che è la seconda morte (Ap. XX, 14). Pure in questo libro leggiamo: il Vangelo eterno (Ap. XIV, 6): perché coloro che vivono secondo il Vangelo sono eterni; ed infatti eterno è il frutto degli insegnamenti, non gli insegnamenti stessi. Infatti l’insegnamento del Vangelo non sarà eterno: e se uno ti costringe a percorrere un miglio, fanne con lui due (Mt. V, 41), e cioè chi si affaticherà, sarà eterno. Così pure la carne ed il sangue non possono possedere il Regno di Dio. È per le opere, che noi crediamo che la carne regni, non perché si viva carnalmente. Così si dice anche del calice che lo contiene, ciò che contiene, « … quanto è bella il tuo calice che inebria, » (Psal. XXIII, 5). Ma il calice di per sé, non inebria nessuno, mentre questo fa il contenuto nel calice. « E il mondo vi odia » (Gv., XV, 19), e questo a causa di coloro che sono nel mondo. « E i giorni sono malvagi »: i giorni non possono essere malvagi, ma sono malvagi gli uomini che vivono nei giorni. Quindi, nei seni riconosciamo i due Testamenti, cioè la Chiesa che vive secondo i Testamenti. Ugualmente, nel Vangelo, il Signore parla del seme, o degli insegnamenti, o degli uomini: il nemico – dice – è venuto, (Mt. XIII, 19), e ha portato via ciò che era stato seminato nel cuore, cioè le parole degli insegnamenti. Nella similitudine seguente, invece, il Signore dice che « … il seme buono, questi sono i figli del regno » (Mt. XIII, 38). Qui dunque, non è in causa la parola dell’insegnamento, ma gli uomini stessi che si convertono con il seme dell’insegnamento. E quando dice: cinto il petto, questo cingersi è il segnale della passione, come quando ugualmente dice: quando sarai vecchio, un altro ti cingerà e ti porterà dove non vuoi andare (Gv. XXI, 18). La fascia d’oro rappresenta quindi la sua eterna potenza, poiché è il sangue versato nella passione del Signore. La colorazione di questa cintura, la diversità dei poteri ed i numerosi prodigi, rappresentano un unico e medesimo potere. La cintura d’oro è il coro dei Santi, provato come l’oro dal fuoco. La cintura, con cui si dice si cinga il petto, è la coscienza purificata ed il puro senso spirituale dato alle Chiese; cintura quindi nell’unità della Legge e del Vangelo, per il popolo giudeo ed il gentile. La sua testa e i suoi capelli erano bianchi, come la lana bianca o la neve. Nel capo si manifesta il candore. Infatti la testa di Cristo è Dio. Egli è il candore, per la bellezza della purezza che gli è connaturale, per la luce pura dell’Unigenito, per il puro splendore dello Spirito Santo e la bellezza immacolata della santità. Il capo della Chiesa è Cristo. Con i capelli bianchi ci si riferisce alla moltitudine degli albeggianti [i battezzati]. Sono essi paragonati alla lana, indicando le pecore; e alla neve, per l’innumerevole turba di candidati che si darà al cielo. E non senza ragione si chiama candore, che è simile alla lana bianca e alla neve, a motivo del perdono che si concede continuamente ai peccatori. Come sta scritto: « Anche se i tuoi peccati fossero scarlatti, biancheggeranno come la neve, e se rossi come il carminio, diventeranno come la lana bianca » (Is. I, 18). Questi sono pure la Gerusalemme che ogni giorno discende dal cielo: vale a dire che dal popolo santo nascono i Santi, e questo quando imitano i Santi; così come la bestia che sale dall’abisso, che è il popolo malvagio, si genera a sua volta dal popolo malvagio. E i loro occhi sono come una fiamma di fuoco. Si riferisce qui agli occhi del Signore che giudica per l’ineffabile prescienza. Con la inevitabile luce degli occhi, non senza ragione è designata una fiamma di fuoco: perché è scritto che « il nostro Dio è un fuoco divoratore » (Eb. XII, 29), che giudica cioè con giustizia e scruta i cuori; altrove gli occhi della Chiesa sono gli insegnamenti delle Scritture di Dio, ed altre volte lo Spirito Santo. Con gli occhi comprendiamo l’insegnamento del Signore, che è luce per gli ignoranti, come è scritto: « la tua parola è una fiaccola per i miei piedi » (Psal. CXVIII, 105). « Chiaro è il comandamento del Signore, illumina gli occhi (Psal. XVIII, 9). Ed i suoi precetti sono come il fuoco, come si dice di Giuseppe, che prefigurava il corpo del Signore, per bocca del profeta: « la parola del Signore lo aveva messo nel fuoco » (Psal. CIV, 19). E quel che dice essere come una fiamma di fuoco, è per gli increduli, per i quali nel giorno del Giudizio, gli insegnamenti del Signore saranno come il fuoco. Con ragione, quindi, gli insegnamenti di Dio sono occhi come fiamme di fuoco, che danno luce ai credenti e preparano il fuoco agli  increduli. Chiamiamo gli occhi lo Spirito Santo perché è attraverso di Esso che interpretiamo la Legge ed il Vangelo, così come è scritto: « le sue palpebre vagliano il giusto e il malvagio » (Psal. X, 4). Quando incontriamo qualcosa di oscuro nelle Scritture, apriamo le palpebre come nell’oscurità. E quando non comprendiamo, abbiamo le palpebre del Signore chiuse come nelle tenebre. E se lo Spirito Santo non è dentro di noi ad insegnarci, la lingua dei dotti lavora invano. « E lo stesso Spirito Santo intercede per noi con gemiti inesprimibili » (Rm. VIII, 26), come dice l’Apostolo, ed infatti ci fa gemere, affinché possiamo sempre pregare. E i suoi piedi sembravano come auricalco proveniente dal Libano, versato nella fornace. Chiamiamo i piedi del Signore: la natura umana, che Egli ha assunto a nostra salvezza: per questo lo chiamiamo misericordioso e compassionevole. L’auricalco prezioso che brilla nella fornace non è impregnato da impurità o da scorie, così come la carne purissima e perfetta dell’Umanità assunta, ricevuta dalla divinità e rimasta nella divinità, persiste senza i peccati della natura umana, lungi dalla colpa dei nostri ancestri. Questi piedi annunciano la pace e predicano la salvezza: la pace per gli Angeli e per gli uomini: la pace del popolo giudeo e gentile. « Egli è colui che ha fatto di entrambi i popoli uno solo » (Ef. II, 14), per essere tutto in tutti, salvezza del mondo e Re di ogni creatura. I piedi infuocati della Chiesa, li chiama infiammati a causa dell’afflizione subita degli ultimi tempi. Infatti i piedi sono la parte estrema del corpo, come la pietra staccata dalla montagna colpisce ai piedi il corpo dei regni del mondo (Dan. II: 34). Lo ha paragonato all’auricalco non senza ragione. Esso con un fuoco abbondante ed una ramatura, diventa di colore aureo. Ed il confrontarlo con il metallo prezioso del Libano non è cosa immotivata. Infatti il Libano è una montagna della Giudea. Per Libano si intende il candore del Battesimo. Giudea significa confessione: Cristiani e confessori si considerano essere la Chiesa. Per questo si insegna che in Giudea, cioè tra i fratelli, l’ultimo corpo di Cristo, quello cioè della fine del mondo, è sottoposto al fuoco soprattutto nei piedi: che questa fornace è proprio nella casa di Dio, ed i fedeli sono messi alla prova, lì dove anche il Signore è stato crocifisso e messo alla prova per noi. In Zaccaria il Signore stesso parla chiaramente, ed esige dal suo popolo sofferenze simili alle sue, quando ricevette la sua parte in sicli d’argento, cioè il prezzo della sua morte; e nella fornace – cioè nella sua casa, tra la sua gente, tra il suo popolo – ed ordina che siano gettati nel fuoco, per verificare se siano veraci. Come si legge: « Poi dissi loro: “Se vi pare giusto, datemi la mia paga; se no, lasciate stare”. Essi allora pesarono trenta sicli d’argento come mia paga. Ma il Signore mi disse: “Getta nel tesoro questa bella somma, con cui sono stato da loro valutato!”. Io presi i trenta sicli d’argento e li gettai nel forno della casa del Signore. » (Zac. XI, 12-13). Ed ancora: « Perciò così dice il Signore: Poiché vi siete tutti cambiati in scoria, io vi radunerò dentro Gerusalemme. Come si mette insieme argento, rame, ferro, piombo, stagno dentro un crogiuolo e si soffia nel fuoco per fonderli, così io, con ira e con sdegno, vi metterò tutti insieme e vi farò fondere; vi radunerò, contro di voi soffierò nel fuoco del mio sdegno e vi fonderò in mezzo alla città. Come si fonde l’argento nel crogiuolo, così sarete fusi in mezzo ad essa ». (Ez. XXII, 19-22). In questo libro non troverete altro che, all’interno della Chiesa, guerre, incendi, grandi tribolazioni e afflizioni che Dio si è degnato di rivelare alla sua Chiesa attraverso il suo Cristo, affinché possa evitare e fuggire dal mistero dell’iniquità, cioè dalle « spirituali nequizie nelle regioni celesti » (Ef. VI, 12), cioè all’interno della Chiesa: Soprattutto, affinché, con l’imminente separazione della tribolazione, il popolo di Dio sappia che dovrà sopportare per molti anni tali e tante disgrazie, tanto più perché non lo comprenderà, ma, sotto la guida dello Spirito di Dio, eviterà il male ogni giorno e con equanimità e pazienza sopporterà le afflizioni come l’oro provato nella fornace. La sua voce è come il suono delle grandi acque. Nella voce è rappresentata la Chiesa. Le acque in questo luogo, possono intendersi in due modi: i popoli e la dottrina celeste; i popoli, come si legge in questo libro, sono: le acquedice – che avete visto, dove siede la prostituta, con cui fornicano i re della terra, che sono i popoli e le nazioni (Ap XVII, 15). Ma qui le acque sono considerate la voce del Signore, e sono intese come i Santi del Signore. I predicatori della fede ed i maestri delle genti, per la grandezza della dottrina di Cristo e l’eleganza della loro voce, nonché per la santa dolcezza degli insegnamenti delle Scritture, sono comparati ad una moltitudine di acque che risuonano. Di queste acque è scritto: le nuvole tuonavano con un grande suono d’acqua (Psal. LXXVII, 18). Pertanto, possiamo considerare quest’acqua come i santi Dottori ed i Sacerdoti della Chiesa, le istruzioni divine e la sacra promulgazione della Legge e del Vangelo. Sono le nuvole che riversano questa dottrina celeste sulla terra assetata, cioè sul popolo ignorante: di queste il saggio disse: « Se le nuvole sono piene, versano pioggia sulla terra » (Eccl. XI, 3); cioè, se i Dottori hanno ricevuto le divine parole, certamente le comunicano al popolo. E teneva nella sua mano destra sette stelle: noi definiamo il Figlio la mano destra di Dio; ma in altro senso la sua mano destra è la moltitudine dei Santi; di cui è scritto: « le anime dei giusti sono nella mano di Dio » (Sap. III, 1). Le sette stelle che nomina, significano indubbiamente il tempo trascorso dall’inizio del mondo, e che durante questa settimana di sette giorni, attraverso la quale passa questo mondo, i Santi che sono esistiti dal primo inizio del mondo fino alla consumazione della morte, che esistono e crediamo che esisteranno, rimangono nella destra del nostro Dio e Signore. Questa è la Chiesa spirituale, che è a destra, alla quale Egli dice: « Venite, voi, benedetti del Padre mio, ricevete il Regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo » (Mt. XXV, 34). Le sette stelle, quindi, le consideriamo i Santi nella loro globalità. – Queste sono le sette Chiese, che, riunite nella grazia settiforme dello Spirito Santo, costituiscono l’unica Chiesa. E dalla sua bocca uscì una spada a due tagli. Se questa spada esce dunque dalla testa, così certamente anche dal corpo. Con la spada a doppio taglio uscita dalla bocca, si insegna che Colui che ora manifesta al mondo intero i beni del Vangelo, è lo stesso che un tempo, attraverso Mosè, ha dato la conoscenza della Legge. L’Apostolo dice di questa spada: « la spada dello spirito che è la parola di Dio » (Ef. VI, 17). E in altro luogo: « … Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. » (Ebr. IV, 12). Noi crediamo che la spada di Dio sia la parola della Sua Legge, dei Suoi Comandamenti e della Sua dottrina divina. E poiché Egli giudicherà tutta l’umanità con la stessa parola, sia del Nuovo che dell’Antico Testamento, si dice che sia a doppio taglio e affilata da ogni lato, che serva così da arma per i fedeli e che uccida gli infedeli. Infatti la spada è l’arma del soldato: la spada uccide il nemico; la spada punisce il disertore; e per insegnare agli Apostoli, quando annuncia il giudizio, dice: « Non sono venuto a portare la pace, ma una spada » (Mt. X, 34). E dopo aver concluso le parabole, dice loro: « Avete capito tutto questo? » (Mt. X, 34). Gli risposero: ““. Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche ». (Matt. XIII, 51). Il nuovo: la parola evangelica; il vecchio: la Legge ed i Profeti. E questo è ciò che è pure uscito dalla sua bocca quando dice a Pietro: «  … va’ al mare, getta l’amo e il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca e vi troverai una statera, cioè due monete. Prendile e consegnale loro una per me ed una per te » (Mt. XVII, 26). Allo stesso modo, Davide dice per mezzo dello Spirito: « Una parola ha detto Dio, due ne ho udite; » (Psal. LXII, 12), perché Dio ha decretato una volta, all’inizio, ciò che deve accadere fino alla fine. Infine, essendo Egli il Giudice nominato dal Padre, volendo insegnare che tutto sarà giudicato dalla parola della predicazione, dice: « Pensate che io vi giudicherò? La parola che io ho pronunciato sarà il vostro giudice » (Gv. XII, 47). La spada della sua bocca è il seme della parola, come ci dice attraverso Giobbe: « … io semini e un altro ne mangi il frutto e siano sradicati i miei germogli. » (Giob. XXXI: 8). Seminare a somiglianza della parola divina, diciamo che è predicare le parole di vita. E il profeta dice: « Beati voi, che seminate sopra tutte le acque. » (Is. XXXII, 20). Vide certamente che i Santi predicatori seminavano adattandosi a tutte le acque, che davano a tutti i popoli di tutto il mondo le parole di vita che sono come grano di pane celeste. Mangiare è essere soddisfatti delle buone opere, come dice il Signore: « il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato » (Gv. IV, 34). Ma se tralascia di fare ciò che ha annunciato, dice: « lasciate che qualcun altro mangi ciò che semino », come se dicesse chiaramente: ciò che la mia bocca dice, lasciate che lo realizzi qualcun altro e non io. In verità, il predicatore, le cui azioni contraddicono le sue parole, non gusta ciò che altri mangia, perché non si nutre della sua semina quando per cattiva condotta le sue parole difettino della rettitudine della sua vita. E tante volte i discepoli ascoltano inutilmente le cose buone, quando a causa della vita del maestro, esse vengono distrutte dagli esempi della loro condotta, e giustamente si aggiunge: i miei virgulti saranno strappati. Poiché la parola del dottore viene sradicata quando i nati dalla parola vengono uccisi dall’esempio, e coloro che sono generati da una lingua vigilante, vengono uccisi da una vita negligente. Non lasciate dunque che accada a noi – perché le nostre anime sono addormentate – ciò che è accaduto a quella donna al tempo di Salomone (1 Re III: 19) che uccise suo figlio mentre dormiva, mentre di solito lo allattava al seno quando era sveglia. Perché sicuramente i maestri che sono vigili nella dottrina, ma sonnolenti nella loro vita, uccidono i loro ascoltatori con il loro portamento sonnacchioso, che si nutrono delle veglie della predicazione e poi  dimenticano di fare ciò che dicono. Perciò, spesso, quando vivono in modo riprovevole e non possono avere discepoli con una vita degna di lode, cercano di appropriarsi degli altri, e volendo dimostrare di avere dei buoni seguaci, scusano la loro cattiva condotta al cospetto dell’opinione degli uomini e, a causa della vita dei loro subordinati, nascondono la loro negligenza letale: ecco perché la donna che ha soffocato il proprio figlio ha cercato poi quello di un’altra. Eppure la spada di Salomone ha trovato la vera madre. Perché sicuramente nell’ultimo giudizio l’ira del Giudice severo, deciderà di chi il frutto è vivo e di chi il frutto è morto. In questa vita si permette di dividere in due la vita del discepolo, quando a volte si permette ad uno di ottenere il merito davanti a Dio e all’altro di ottenere la lode davanti agli uomini. La falsa madre non aveva paura di uccidere colui che non aveva generato: i maestri arroganti, non conoscendo la carità, se non possono ottenere dai discepoli degli altri la più completa lode alla loro fama, proseguono crudelmente la loro vita. Infatti, soffocati dall’ardore dell’invidia, non vogliono che vivano coloro che vedono di non poter possedere. Ecco perché nella storia, la donna perversa esclama: non sia né per te né per me. Infatti, come abbiamo detto, coloro che vedono di non essere ossequiati per la loro gloria temporale, sono invidiosi che quelle stesse persone vivano per altri mediante la verità. Invece la vera madre esclama: lasciate che alfine sia figlio di lei e viva con la straniera; infatti i veri maestri permettono ai loro discepoli di dar lodi ad un altro maestro, purché non perdano l’integrità della loro vita. Ed è da questo eccesso di pietà che si riconosce la vera madre, poiché ogni magistero viene approvato con l’esame della carità. E solo ella ha meritato di ricevere colui che aveva lasciato nella sua interezza: e così i prelati fedeli, che non sono invidiosi che i loro discepoli lodino gli altri, ma lavorano a loro beneficio e profitto, riceveranno anche essi figli integri e vivi quando nell’ultimo giudizio otterranno le gioie del premio per la loro vita santa. – Abbiamo detto queste poche cose a mo’ di divagazione, per mostrare in che modo si estingue l’uditorio degli ascoltatori per la negligenza dei maestri. Ed infatti, tutti coloro che non vivono conformemente alle proprie parole con la propria condotta, sradicano coloro che hanno generato con la parola di giustizia. Ma come è stato riconosciuto vero questo figlio dalla spada di Salomone, che taglia in due, mediante il grido della vera madre, così anche per lo spirito di Gesù Cristo che ci istruisce, coloro che sono stati strappati alla madre ed affascinati dall’errore degli eretici, molte volte possono riconoscere la Chiesa madre che piange per loro. Quindi, è sufficientemente ed opportunamente dimostrato che quella rea donna sia stata una figura degli eretici o della Sinagoga, che uccidono i propri figli nutrendoli empiamente ed attirandoli con lusinghe, e persuadono gli altri fino a perderli. – E il suo viso, era come il sole quando splende in tutta la sua forza. Ordine ammirevole delle membra: dopo i piedi viene descritto il volto. Qui il suo volto è paragonato al sole. Ma è indegno e troppo basso, pensare che Cristo si possa descrivere con membri di vari colori o che il suo splendore sia paragonato al sole. Infatti, se si dice dei giusti che risplenderanno come il sole (Mt. XIII, 43), quanto è pericoloso dire che i giusti risplendano con il Signore per uno splendore simile, allorquando è Egli la loro chiarezza, e secondo i meriti delle loro opere, ognuno splende più dell’altro, come è scritto: una lampada si differenzia dall’altra per la sua luminosità (1 Cor. XV, 41). – Per quanto ne sappiamo, il Signore ha detto della sua luminosità: « Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. » (Mt. XXIV, 27). Senza dubbio, Colui di cui è detto: « il suo volto è come il sole » fece la sua apparizione, mentre parlava agli uomini faccia a faccia. Ma la gloria del sole non può essere paragonata alla gloria del Signore. Ed è a causa del sorgere del sole, del suo tramonto e del suo risorgere, proprio perché Egli è sorto, ha patito ed è risorto, che la Scrittura ha paragonato il suo volto allo splendore del sole. Dopo aver parlato dei suoi piedi infiammati, dice che il suo viso brillava come il sole. In altre parole, dopo le fiamme dell’ultima battaglia, nel giorno del giudizio si manifesta la gloria della Chiesa e, come dice il Signore, una volta che i covoni delle zizzanie dei peccatori saranno strappati dal suo regno per essere bruciati, allora « … i giusti brilleranno come il sole nel regno del Padre suo » (Mt. XIII, 43). Infatti, come la luminosità del sole, che non splende da sola, ma rimane luminosa per ordine di Dio, e diffonde all’intorno il bagliore della sua luce, così il volto del Signore, che riceve la sua luminosità non da altri, bensì dalla forza della propria potenza, non ha nulla di occulto, nulla di oscuro.

[5] Quando l’ho visto, sono caduto ai suoi piedi come un uomo morto. In precedenza ha detto che non si è girato nel vedere il suo volto, ma solo al sentire la sua voce. Qui, avendo osservato tutta la potenza della divinità e portato ad un certo volo dell’anima … « sono caduto – dice – ai suoi piedi come morto. » Spaventato dal timore della sua fragilità e della sua umiltà e sottomissione, è caduto, non rivolgendosi ad alcuna parte, ma arrendendosi con umiltà e fedeltà al Signore. Giovanni, che vedeva queste cose, rappresentava la figura di tutta la Chiesa … non solo Giovanni, ma anche i Profeti e gli Apostoli e tutti i Santi, che sono considerati la Chiesa, si umiliano come morti davanti a nostro Signore Gesù Cristo. Si dice che ci siano due modi per cadere: con la faccia a terra o all’indietro. Chiunque veda Dio cade faccia a terra, e quando cade, vede. Ma chi cade all’indietro, senza alcun dubbio, quando cade non vede. Si dice che Giovanni, che rappresentava la figura della Chiesa, sia caduto a faccia in giù; e dell’Anticristo – che rappresenta le membra di tutti i malvagi – si è detto che il suo cavaliere cada all’indietro. Per questo pure il patriarca Giacobbe, benedicendo i suoi figli, diceva: « Sia Dan un serpente sulla strada, una vipera cornuta sul sentiero, che morde i garretti del cavallo ed il cavaliere cade all’indietro. » (Gen. XLIX, 17). Si dice, con queste parole di Giacobbe che mediante lo Spirito prevedeva il futuro, che l’Anticristo dovesse venire dalla tribù di Dan. Altri sostengono che questo sia stato scritto di Giuda, dal quale Cristo è stato tradito; e vogliono designare nel cavallo e nel cavaliere il Signore che, avendo assunto la sua carne, cade all’indietro per tornare alla terra da cui era stato assunto … e come Egli resuscitò il terzo giorno, Davide dice: « Non abbandonerai la mia anima all’inferno » (Psal. XV, 10). Ecco come vengono spiegati alcuni di questi testi. Altri, invece, si riferiscono a questa profezia dell’Anticristo e affermano che l’Anticristo proviene dalla tribù di Dan, proprio perché in questo testo si dice di Dan che è un serpente ed una vipera che morde. Per questo motivo, e non senza ragione, quando il popolo d’Israele si stabilì nei vari territori, il territorio di Dan venne situato principalmente verso l’Aquilone (cioè a nord): questo significa in verità ciò che aveva detto nel suo cuore: « dimorerò sul monte del Testamento, nelle parti più remote del settentrione, mi farò simile all’Altissimo » (Is. XIV, 13-14). Di questi dice anche il profeta: « … da Dan si sente lo sbuffare dei suoi cavalli; al rumore dei nitriti dei suoi destrieri trema tutta la terra. » (Ger. VIII, 16). Infatti, quando il diavolo possiede il cuore dei dottori più illustri, presiede la montagna del Testamento. Siede anche sulle pendici dell’Aquilone, perché possiede le frigide menti degli uomini. Egli non è chiamato solo serpente (coluber), ma anche “cerastes”. In greco corno, si dice « kerata », la vipera detta cornuta. Essa rappresenta giustamente la venuta dell’Anticristo perché, attentando alla vita dei fedeli con il morso velenoso della sua predicazione pestifera, si procura anche le corna del potere. Chi non sa che il sentiero è più stretto della strada? Si paragona perciò questo ad un serpente sulla strada, perché incita a percorrere in larghezza la vita presente, blandisce come se perdonasse. Ma lungo la via poi morde, poiché quelli ai quali offre la libertà, distrugge con il veleno del suo errore. Si fa pure “vipera nei sentieri”, per quei fedeli servi di Dio che incontra nella via stretta ed angusta che vede sospirare l’insegnamento celeste, e che camminano nei sentieri stretti, e non solo li incita con il male della sottile persuasione, ma li opprime con il terrore del suo potere, e dopo i simulati benefici della dolcezza, usa le corna del suo potere con la tristezza della persecuzione. Qui, in questo testo, il cavallo simboleggia questo mondo che, con il suo orgoglio, schiuma nella sua corsa del tempo finale. E mentre l’Anticristo pretende di dominare negli ultimi tempi del mondo, questa vipera si mostra mordendo gli zoccoli. Mordere gli zoccoli del cavallo significa raggiungerlo, ferendone la parte posteriore, in modo che il suo cavaliere cada all’indietro. Il cavaliere del cavallo è tutto quello che è vanagloria della dignità del mondo. Si dice che cada all’indietro e non con la faccia a terra, come si ricorda essere caduti Mosè, Daniele, Paolo e questo stesso Giovanni di cui parliamo. Cadere sul proprio volto significa riconoscere i propri peccati in questa vita e piangerli attraverso la penitenza. Cadere all’indietro, per quanto si può vedere, è lasciare improvvisamente questa vita a causa di una morte istantanea senza penitenza e senza temere i supplizi o le punizioni a cui si va incontro. E poiché i Giudei, imprigionati nei vincoli del loro errore, invece di Cristo, attendono l’Anticristo, Giacobbe giustamente nello stesso luogo si trasforma improvvisamente nella voce degli eletti dicendo: « Io spero nella tua salvezza, Signore! » (Gen. XLIX, 18). In altre parole, non come gli infedeli (che credono) nell’Anticristo, io credo fedelmente nel vero Cristo, quello che verrà per la nostra redenzione. Perciò gli uomini santi si esaminano con grande e diligente cura, e per non cadere mai nella corruzione del pensiero o delle opere, meditano incessantemente su quanto progrediscono ogni giorno. Così, come  Giovanni, che prefigurava la Chiesa, si è affidato al Signore con umiltà, anche il Signore è soddisfatto di questa adorazione fatta con pietà: … ponendodicela sua mano destra su di me, affermando: non temere! Non può dire questo a nessun altro, ma solo a colui che si mortifica ogni giorno nella penitenza e che, seguendo le orme del Signore, ne porta la croce. In tal modo premia la fede ed il fedele. Dà forza a chi è convinto non di incredulità, ma di ammirazione. Proibendo così di temere, a colui che tanto aveva amato, perché  volgeva lo sguardo alla contemplazione della sua potenza e applicava l’intuito della sua fede alla morte di Cristo, consola l’umile e gli dice: Io sono il primo e l’ultimo, il vivente; ero morto, ma ora sono vivo per i secoli dei secoli. Se avete ricevuto il fuoco del mia carità … la carità non viene mai meno (1 Cor. XIII, 8); ora che la paura è stata fugata, alzati in piedi e conosci quel che hai venerato. Io sono il primo afferma, cioè Io sono prima di ogni inizio, prima di ogni creatura. Prima che la terra si formasse, Io esistevo, Io sono l’inizio e la fine, e in me consiste il fine di tutte le cose, perché attraverso di me tutte le cose saranno finalmente restaurate. E vivo; Io che ero morto, ma ora ecco sono vivo, cioè perduro senza venir meno, Io che ho assunto la morte per la vostra salvezza: Ecco che Io sono vivo nei secoli dei secoli, vedete che ora vivo nell’eternità divina. Ed Io ho le chiavi della morte e dell’inferno. Vale a dire, voi avete in me le chiavi della morte, voi che siete morti, perché unica è la chiave della vita e della morte, per quelli che, vivendo male, sono rinchiusi nell’inferno, e per quelli che vivendo rettamente attraverso la penitenza, sono introdotti in paradiso. E Colui che dice: Non temere, ha potere certamente sulla vita e sulla morte. Il morto: infatti la Chiesa battezza i morti, a causa del peccato, con l’acqua e la penitenza, come dice l’Apostolo: « … che cosa fanno quelli che vengono battezzati come morti? se non resuscitare con Cristo? » (1 Cor. XV, 29). E ancora: « Se siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù » (Col. III, 1). A questi, quindi, che sono stati risuscitati con Cristo mediante la penitenza, Egli ha dato le chiavi del regno dei cieli, come dice: « A coloro ai quali perdonerete i peccati, saranno perdonati; quelli a cui riterrete i peccati, saranno ritenuti » (Gv. XX, 23). Quella che è la chiave dell’inferno, è pure la chiave del regno dei cieli: perché Colui che, quando i peccati sono perdonati, ha il potere di trarre dall’inferno, e di condurre al regno dei cieli, getta all’inferno coloro che ha cacciato dai cieli, essendo ritenuti i loro peccati. E così accade che unica e medesima è la chiave della vita e della morte. E colui che ha detto, ma ora Io vivo, dice anche: ho la chiave della morte e dell’inferno, per chiudere e per riaprire quando vuole: e ciò che è stato chiuso dalla morte, trasformato dalla resurrezione, è portato alla luce aperta. Il profeta Isaia ci istruisce circa queste chiavi, dicendo: « Gli porrò nelle sue mani le chiavi della casa di Davide; se Egli apre, nessuno chiuderà; se Egli chiude, nessuno potrà aprire. » (Is. XXII, 22). Perché la chiave è il Signore Gesù Cristo stesso, che ha aperto la porta della vita ed ha infranto l’ingresso della morte. Scrivi dunque quello che hai visto: che cosa c’è e che cosa verrà dopo. E così ha  manifestato non solo di parlare delle cose presenti, ma di ricordare anche le cose passate. Ed avverte di parlare a coloro che esistono, e di scrivere allo stesso tempo per coloro che nasceranno alla fine dei tempi. – Poi spiega anche la visione che sta narrando: il mistero delle sette stelle che vedesti nella mia mano destra, e dei sette candelabri d’oro, è questo: le sette stelle sono i sette Angeli delle sette chiese. Questo è quanto già abbiamo detto sopra: le stelle poste nella mano destra di Dio sono le anime dei Santi, o ugualmente l’intera congregazione degli stessi beati che sono esistiti e che esisteranno fino alla consumazione del mondo. Allo stesso modo, i sette candelabri sono l’unica e sola vera Chiesa, istituita nella settimana di questo mondo, che abbiamo detto essere fortificata dalla fede nella Trinità e confermata nel Sacramento del mistero celeste. Si pone un problema sugli Angeli, se non viene perfettamente spiegato. Si è detto che le stelle erano gli Angeli delle Chiese, e i candelabri sono le Chiese, che come è ben risaputo anche dagli uomini di Chiesa, non sono sette, ma questo indica la Chiesa settiforme, cioè perfetta, come sta scritto: « Una è la mia colomba, una è la mia perfetta » (Cant. VI, 8). Ma se essa è una, allora gli Angeli non dovrebbero essere sette. E se ce ne sono sette, forse solo queste chiese menzionate per nome hanno degli Angeli, mentre le altre chiese non ne hanno? Inoltre, dobbiamo chiederci cosa significhino questi Angeli, poiché ognuno di noi ha un Angelo incaricato di servirci, come dice il Vangelo: « I loro Angeli infatti vedono continuamente il volto del Padre mio che è nei cieli » (Mt. XVIII, 10).  – Si può lodare in modo più sublime i minori, come in altro luogo si è lodato col dire: « quello che avete fatto ad uno più piccolo di questi miei fratelli, lo avete fatto a me »? (Matt. XXV, 40). Se questi Angeli sono stati concessi e sono uniti a noi per custodirci e liberarci da ogni attacco, perché il proprio Angelo non poteva liberare l’Apostolo Pietro e gli è stato inviato un altro Angelo a liberarlo? Infatti dice: « Ora so che il Signore ha mandato il suo Angelo e mi ha strappato dalle mani di Erode » (Act. XII, 11). E non solo l’Angelo gli fu mandato, ma pure uscì, come è scritto: « … e tutti e due attraversarono una strada, e l’Angelo lo lasciò. » Ma qualcuno dice: gli è stato inviato l’Angelo designato per ciascuno di noi a liberarlo. Si può dire allora che se fossero stati in prigione tutti gli Apostoli, sarebbero stati inviati dodici Angeli? E non sarebbe stato un altro Angelo a liberarli, ma il loro. Ed allora come fa un Angelo solo del Signore a distruggere l’accampamento degli Assiri e a liberare così tutta Gerusalemme? O Giobbe che fu affidato ad un santo Angelo, e non al diavolo in persona, affinché non infliggesse sofferenza più di quanto gli era stato comandato? E se gli Angeli non ci sono stati dati per custodirci e liberarci, ma per insegnarci ed istruirci, quale funzione svolgerebbe lo Spirito Santo, di cui il Signore dice che, « quando verrà, ci insegnerà tutte le cose »? (Gv. XIV, 26). Cosa diremo anche qui per il fatto che il Signore abbia lodato gli Angeli custodi dei piccoli, come se i bambini avessero degli Angeli piccoli? E per quali meriti ha detto che gli Angeli vedono Dio? Degli Angeli stessi, o per quelli degli uomini ai quali si dice siano stati concessi per essere custoditi? Perché se è per loro merito che gli Angeli vedono il Signore, non è questo ciò che il Signore ha detto a lode dei piccoli. E se è per merito nostro che gli Angeli vedono Dio: prima di unirsi agli uomini essi dunque non lo vedevano? O i meriti degli uomini permettono di ricevere tali Angeli, che continuamente vedono e vengono da Dio? Non dico che questi siano di impari merito: si può dire, non certo senza tema di essere smentiti, che ognuno riceva l’Angelo nella misura della propria fede e della propria devozione. E più questa è grande, più degno e superiore sarà il suo Angelo nella contemplazione di Dio. E quanto uno più è da meno nella devozione, come ricompensa per la sua minor devozione, merita un Angelo minore nella contemplazione di Dio. Cosa avviene se la santità o la fede cresce e il demerito dei giusti diminuisce? Essi rimangono, o subiscono un aumento o un danno secondo la fede degli uomini? Ma se gli Angeli non subiscono alterazioni, l’uomo che cresce nella santità e giunge fino a portare frutto al trenta per cento o al cento per cento, porta con sé il suo Angelo, o lo lascia al primo passo? E se parlare di questo è infantile e volgare, e non si trova nelle Scritture divine, e non è lecito per noi pensarlo, dobbiamo chiederci con che tipo di lode siano stati lodati i piccoli, dicendo: « badate di non disprezzare uno di questi piccoli, perché i loro Angeli vedono continuamente il volto del Padre mio che è nei cieli » (Mt. XVIII,10). Ha potuto lodare i piccoli in modo più sublime, come li ha elogiati in un altro luogo, dicendo: « qualsiasi cosa abbiate fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me »(Mt. XXV: 40). Non è forse meglio, o più sublime, o più degno di maggiore lode per l’uomo avere Cristo come fratello così che gli sia sempre custode ed anche co-erede, che Cristo si è degnato di avere come fratello, piuttosto che avere un Angelo custode che vede continuamente Dio? In questo modo, ognuno ha un Angelo. Sentite la voce del vostro Angelo, o l’Angelo vostro custode, al quale siete stati affidati, che ha una voce, così che sentiate la voce di Pietro che dice: non è Pietro, ma il suo Angelo? Non può essere che una tale congettura ci dia l’occasione di provocare un errore? Ma sembra a me che l’Angelo dell’uomo sia la sua anima, cioè l’uomo interiore, che con cuore puro contempla continuamente Dio attraverso la fede. Come dice il Signore: Non basta dire: « Benedetto colui che viene nel nome del Signore » (Lc. XIII, 35): se non crederai e non porterai la mia croce e mi seguirai.  E a Filippo dice: « Chi vede me, vede il Padre mio » (Gv. XIV, 9). Perciò quando parla dell’Angelo dell’uomo, intende l’uomo stesso. Quindi dovete capire che le Chiese ed i loro Angeli sono la medesima cosa. Questo non è solo proprio del mistero, ma è anche una consuetudine il dividere una cosa fra tante cause; per esempio, diciamo: gli uomini di Chiesa, mentre gli uomini stessi sono la Chiesa. Lo stesso è per gli Angeli, lo stesso sono le stelle, lo stesso sono i candelabri. Tutto questo rappresenta una sola Chiesa; ma per il Sacramento dei misteri sono divise in parti. Per questo il Signore dice: « La mia anima è triste fino alla morte » (Mt. XXVI, 38). Sembra, quindi, che uno sia colui che parla e altri l’anima di colui di cui si parla, come quando l’anima stessa dice: la mia anima è triste, e non dice: io sono triste. Se è così, allora, è questo il modo di parlare, cioè il dividere ciò che è uno in molti di più, nel mistero del Sacramento e di oscurare la grazia della cosa, in modo che ciò che si dice per mezzo di un mistero, e perciò occulto, lo si comprenda allegoricamente. L’allegoria è il significato di un qualche cosa che suoni in un certo modo nelle parole, mentre si debba intendere come un mistero, cioè come cosa occulta e spirituale. Così come si dice in Isaia:  « Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, dragoni e struzzi, sirene e piccoli dei passeri,  perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. » (Is. XLIII,19). Ma cos’è il deserto, dove Dio si fa strada, o qual è questo luogo arido, dove ha promesso di creare fiumi, se non i popoli in cui Cristo ha aperto una via di vita, ed ha fornito loro abbondantemente acqua di salvezza? E quali sono pure le bestie che glorificano Dio? Cosa sono le sirene e i piccoli dei passeri? A quale gruppo di eletti si darà da bere, se non ad uno solo, a quello di cui abbiamo parlato sopra, a quelli cioè che seguono Cristo con fede retta ed opere di giustizia? Affinché possiate interpretarlo attraverso il mistero, e capire che è uno solo, si può comprendere che l’Angelo e la Chiesa siano una cosa sola. In questo senso non c’è nessun problema tra i greci; ma tra noi vi è dubbio se l’Angelo della Chiesa sia in genitivo o dativo. Infatti, è chiaro loro che egli non ha detto “all’angelo di quella Chiesa”, ma “all’angelo (dativo) Chiesa”, cioè al Vescovo della città, così che sarebbe ovvio che egli non stesse parlando (separatamente) all’Angelo ed alla Chiesa, volendo esporre chi fosse l’angelo, dicendo: τω Αγγελω τη εκκλησια εν εφεσω γραψον (to agghelo te ecclesia en efeso grapson) in greco. In latino, tradotto: scrivi all’Angelo, cioè alla Chiesa, che è in Efeso (Epheso scribe). Questo può essere tradotto anche al plurale, come, ad esempio: scrivi agli Angeli, alle Chiese che sono in Asia (Angelis Ecclesiis, quæ sunt in Asiis, scribe). Allo stesso modo, il Salmo dice al plurale, riferendosi solo ad uno: « In sole posuit tabernaculum suum in eis (= Nel sole pose in essi una tenda » – Psal. XVIII, 6). Ha espresso quel che c’è nel sole dicendo “in loro”, anche se il sole e la tenda in loro è una cosa sola. Ma abbiamo anche un problema per il fatto che all’inizio del libro non ci si rivolge ai sette Angeli, ma alle sette chiese. Così dice: « Giovanni alle sette chiese che sono in Asia » (Apocalisse I: 4); e il Signore gli disse: « Scrivi in un libro le cose che hai visto e mandale alle sette chiese » (Apocalisse I: 11). Ma poi ordinò di scrivere agli Angeli, per insegnare che gli Angeli e le Chiese sono la stessa cosa. Infatti “àngel” in latino significa « messaggero », e la Chiesa « convocazione », perché convoca tutti ad essa per la penitenza. Davvero comanda agli Angeli di fare penitenza? No, bensì alle Chiese. E i sette candelabri sono un candelabro unico settiforme, a sette braccia. Per questo il Signore dice nel Vangelo: « Non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma su un piedistallo, e così darà luce a tutti quelli che sono in casa » (Mt. V, 15). Con “moggio” ci si riferisce ai beni temporali; con “lampada” si indica la luce della predicazione. Il “candelabro” rappresentava gli uomini. Mettere la lampada sotto il moggio, vuol dire nascondere la grazia della predicazione per un guadagno temporale, cosa che certamente nessun servo di Dio fa; perché, come abbiamo detto, il candelabro è ogni uomo: si pone una lampada sopra in alto quando questi si dedica al servizio della predicazione. – Questo è l’Angelo ed i candelabri, cioè l’annuncio della predicazione, e l’uomo a cui è annunciato. In un altro luogo leggiamo che unico è il tronco da cui sono usciti sette, così come il Signore ha ordinato a Mosè di fare, e riporlo nel tabernacolo, affinché bruciasse continuamente (Es. XXVII, 20). Il candelabro a sette bracci rappresentava la figura dello Spirito Santo che, con la sua grazia settiforme, illumina tutta la Chiesa che si mantiene ferma nell’unità della fede. Oppure in questo candelabro riconosciamo Cristo, che sostiene le sette Chiese, in cui brilla lo splendore settiforme dello Spirito Santo. A questo candelabro sono fatti gli smoccolatoi (Es. XXV: 38), che in Isaia (Is. VI: 6) sono chiamati “molle” (forcipes). Questi sono i due Testamenti, mediante i quali vengono purificati i peccati. Del candelabro che è fuori dal velo della Testimonianza che si dispiega, è comandato di bruciare, mentre ora, senza il velo dell’Antico Testamento, la verità dello Spirito Santo risplende. E l’olio che il Signore ha ordinato di trarre dagli ulivi, significa la grazia stessa dello Spirito Santo. Essi possiedono in sé la pace e la misericordia per la venuta del Salvatore, che così si accende nei nostri cuori. Certo, in ognuna di queste chiese Egli si riferisce a tutte, perché non ha detto: « ciò che lo Spirito Santo dice alla Chiesa, ma alle Chiese » (Ap. II, 7). Perché la Chiesa degli Efesini non era l’unica il cui candelabro dovesse essere spostato dal suo posto se non si fosse pentita; né si prometteva solo alla Chiesa di Smirne: « non temete ciò che soffrirete »; né che solo Pergamo sia il trono di satana, o che solo in essa e non dappertutto sia il trono di satana, cosicché se non vi pentirete, Egli vi purificherà con la spada della sua bocca; né si limita a minacciare gli adulteri solo di Tiatira, esortandoli a conservare ciò che hanno fino al suo ritorno; né si limita a dire solo a quelli di Sardi: se tu non stai attento, io verrò come un ladro, e non saprai da dove verrò; né ha aperto una porta solo per Filadelfia, né ad essa sola promette protezione nella prova che verrà a vagliare tutti gli abitanti della terra; né minaccia di vomitare dalla bocca solo il tiepido di Laodicea: in verità, la Chiesa di Cristo non era allora solo in questi luoghi, ma nel numero sette c’è tutta la sua pienezza. E come è di consueto nel mistero divino, il genere è incluso nella specie, e questo per similitudine comprende ogni cosa. E così anche l’Apostolo Paolo scriveva a sette chiese, che non erano le stesse a cui scriveva Giovanni. Egli chiama la Chiesa “Angelo”: e si insegna che in essa ci sono due parti, quando se ne loda una, e se ne rimprovera l’altra. In quello che dice, è chiaro che, all’interno delle stesse chiese, la parte che viene rimproverata non è la stessa che viene lodata. Così pure il Signore nel Vangelo ha chiamato tutto il corpo dei prepositi, un solo corpo. In latino, i pre-posti sono chiamati vigilantes; in greco, sono chiamati “Vescovi”. Infatti la parola “vescovo” ha qui la sua origine, perché chi è posto in cima guarda dall’alto, prendendosi cura, ponendo attenzione nei confronti dei sudditi. Il termine “scopein” in greco, corrisponde al latino “guardare”: questo è il guardare dalla torre di guardia, osservare, sapere cosa sia successo nel passato, cosa accadrà nel futuro e cosa dovrebbe essere ordinato nel presente. Questo guardiano è chiamato nella Chiesa “preposto” perché discerne e veglia sulla vita e sui costumi di ciascuno dei popoli posti sotto la sua autorità. Il Signore avverte questo servo nel Vangelo quando dice: « Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora che non sa, lo dividerà, e porrà la sua parte tra gli ipocriti » (Matth. XXIV, 48 segg.). Non dice che lo elimina, ma che lo separa, cioè lo segrega dai Santi. Perciò ha chiamato tutta la Chiesa un corpo unico. E Cristo è il capo della Chiesa, e i membri sono tutto il popolo, e l’occhio della Chiesa è il Vescovo. Per questo lo si chiama il “guardiano”. La mano della Chiesa è il Presbitero, cioè il più anziano, e anch’egli, unito quasi in dignità con il Vescovo, è partecipe dei misteri del corpo e del sangue di Cristo. Lo si chiamano “mano”, perché attraverso di lui, i Vescovi svolgono il compito di santità per tutte le chiese, che cioè è tutto il popolo. Il “piede” della Chiesa è il diacono; si chiama piede, perché è certamente attraverso di lui che i Sacerdoti svolgono il servizio di santità. Si ordina di tagliare questi membri se scandalizzano la Chiesa, come la Verità manifesta nel Vangelo: « se l’occhio, la mano o il piede vi scandalizza, toglietelo, tagliatelo e gettatelo via » (Mt V, 29). Quando il Signore arriverà, Egli stesso lo separerà e metterà, non tutto il servo, ma parte di esso, con gli ipocriti. Ha detto la “sua parte”, perché questi erano battezzati, e sembrano persino fare ciò che sia giusto all’interno della Chiesa. A partire, poi, dall’inizio del libro, fino alla fine, egli espone chiaramente le future guerre intestine, cioè la lotta all’interno della Chiesa, ed i membri della settiforme Chiesa nel momento attuale – nei comportamenti opposti – e in ciò che conviene succeda dopo, dimostrare il futuro; non dice: scrivi ciò che sta accadendo, o ciò che è già accaduto, ma ciò che conviene fare. Egli indica che il raccolto maturo cresce insieme alla zizzania, e comanda ai lavoranti di spaventare le bestie e gli uccelli. Quindi, in tutte queste sette Chiese, che è una sola Chiesa, possono accadere le cose che abbiamo detto. Ma se ne scrive a sette, è per la qualità della loro fede e della loro carità. – I: Ha scritto a coloro che lavorano nel mondo e agiscono nella fragilità dei loro sforzi, e che sono pazienti. E vedendo questi uomini, come abbiamo detto, alcuni dei quali sono generosi e ben disposti verso la Chiesa, pur tuttavia pestiferi, affinché non siano disperati, e sopportino nella misura delle loro forze, li ammonisce, nella prima Chiesa di Efeso, circa la carità e l’amore, cosicché chi è più paziente corregga chi manca di fede, amando e castigando, perché si faccia penitenza. – II: Attraverso la Chiesa di Smirne invece, consiglia a coloro che vivono in luoghi impervi, tra persecutori ed uomini malvagi, di sopportare e perseverare nella loro fedeltà. Egli dice loro: non temete per quello che soffrirete. – III: A coloro che, con il pretesto della compassione, commettono peccati illeciti nella Chiesa, e li ostentano agli altri dice, attraverso la Chiesa di Pergamo: tu sei il trono di satana. – IV: A coloro che sono deboli all’interno della Chiesa, dice alla Chiesa di Tiatira: « Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione » – V: A coloro che invece sono negligenti nella Chiesa e non vegliano sulla salvezza delle loro anime, che sono tiepidi e pigri e Cristiani solo di nome; dice, per mezzo della Chiesa di Sardi: « … se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora verrò da te » – VI: Od a coloro che sono poco istruiti, cioè ignoranti delle Scritture, non ne intendono nulla, ma sono umili e tengono stretta la loro fede: il Signore promette attraverso la Chiesa di Filadelfia, la tutela nella tentazione ventura. – VII: Infine a coloro che sono versati nelle Scritture e si sforzano di conoscerne l’arcano, cioè il senso occulto, ma non vogliono compiere l’opera di Dio, cioè la misericordia e l’amore, a tutti questi consiglia la penitenza, e a tutti loro annuncia il giudizio futuro. – E nella prima lettera dice: Conosco la vostra fatica, le vostre opere e la vostra pazienza, cioè so che lavori ed operi: vedo la tua pazienza; e non posso stare lontano da te; … e che non puoi sopportare i malvagi e che hai scoperto l’inganno di coloro che si chiamano Apostoli, senza esserlo, ed hai pazienza per amore del mio nome. Tutto questo non è un elogio da poco. Ma tali soggetti, tale classe, tali uomini di elezione, è bene che siano consigliati, per non essere privati dei beni che sono stati loro conferiti. Ha detto di avere qualcosa contro di loro. Ho poco,  dice – contro di te, ma hai perso – continua – il tuo amore di un tempo: renditi conto da dove sei caduto. Chi cade, cade dall’alto; per questo ha detto, da dove, perché fino alla fine dobbiamo compiere opere di carità, ciò che è il comandamento principale. Infine, se gli atti non sono fatti con amore, si minaccia di togliere il candelabro dal suo posto, cioè di disperdere il popolo. Così anche voi odiate coloro che detengono la dottrina dei Nicolaiti. Infatti dice che detestano la condotta dei Nicolaiti, che anche Egli detesta. Questo appartiene alla sua lode. I Nicolaiti dell’epoca erano uomini falsi e malvagi che traevano il loro nome dal diacono Nicolas. Avevano inventato un’eresia con l’esorcizzare ciò che veniva offerto in libagione, cioè ciò che era immolato in sacrificio, per poterlo mangiare. E ritenevano che tutti coloro che fornicavano ricevessero il perdono dopo otto giorni. Per questo loda coloro ai quali scrive, e a questi uomini di tali qualità e così eccellenti, promette di dar da mangiare dall’albero che è nel paradiso del loro Dio. Questa è la Chiesa di Efeso. La seguente lettera è stata inviata al gruppo successivo, con ordine e procedura diversi. Dice: Conosco la tua tribolazione e la tua povertà, tuttavia sei ricco. Il Signore conosce infatti le ricchezze che sono nascoste e la calunnia dei Giudei, che dice non essere tali, bensì confessori della sinagoga di satana, perché sono uniti all’Anticristo e costituiscono la congregazione del diavolo; a questi dice: « Siate fedeli fino alla morte, e il vincitore non soffrirà la seconda morte, cioè non sarà punito nell’inferno ». Questa è la Chiesa di Smirne. Alla terza classe di Santi dice che essi sono uomini coraggiosi nella fede e che non temono le persecuzioni. Ma siccome c’è chi è incline alle illecite unioni, dice: li combatterò con la spada della mia bocca. Infatti Io dirò ciò che ho comandato e vi accuserò di ciò che operate. È noto infatti che la dottrina di Balaam, che insegnava a Balak a dare scandalo ai figli di Israele, un tempo era quella di mangiare carne sacrificata agli idoli e di commettere fornicazione. Questo è il consiglio che ha dato al re dei Moabiti, che scandalizzavano il popolo. Così anche voi, dice, avete tale dottrina e, con il pretesto della misericordia, inducete al vizio gli altri. Al vincitore – dice – darò la manna nascosta e la pietruzza bianca. La manna nascosta è l’immortalità. La pietruzza bianca è l’adozione a figli di Dio. Il nuovo nome scritto sulla pietra è Cristiano. Questa è la Chiesa di Pergamo. Il quarto gruppo sottolinea la nobiltà dei fedeli, che lavorano e compiono ogni giorno opere grandi. Ma Egli insegna e rimprovera che lì ci sono anche uomini propensi ad offrire una pace illecita e a dar retta a nuove profezie; mette in guardia anche gli altri, ai quali questo non aggrada, affinché riconoscano la malvagità del nemico, che pretende di introdurre i pericoli del male e del dolore nella mente dei fedeli, e loro dice: Non vi ho dato nessun altro peso, cioè non vi ho dato prescrizioni o fardelli, né profezie nuove ed illecite, che non convengono alla Chiesa, e che sarebbero un altro carico; cosicché possiate conservare ciò che avete, cioè affinché ciò che è scritto ed è giusto lo possiate compiere fino al mio ritorno, e dice: Darò al vincitore il potere sulle nazioni, cioè lo farò giudice tra gli altri Santi; e gli darò la stella del mattino, cioè la prima risurrezione, vale a dire la promessa, e mentre sarà presente nel mondo, nella penitenza, gli toglierò l’ignoranza della notte. La stella del mattino è Cristo. Gli darò – dice – la luce del mattino che fuga la notte ed annuncia la luce, cioè l’inizio dell’eterno giorno. Il quinto gruppo è il gruppo o la comunità di Santi. Si riferisce ad uomini che sono negligenti e che nel mondo portano avanti un comportamento diverso da quello che è conveniente, essendo Cristiani solo di nome. E così li esorta in modo tale che, pentendosi della loro negligenza, possano raggiungere la salvezza. Sii vigilante – dice – e ravviva ciò che ti è rimasto e che sta sul punto di morire; perché non ho trovato le tue opere perfette agli occhi del Signore. Perché non basta che l’albero viva se non porta frutti. Né basta chiamarsi Cristiano, confessare Cristo, e non avere Cristo nelle opere, cioè non eseguire i suoi comandi. Il sesto gruppo è la comunità di coloro che hanno scelto il meglio, il modo di procedere nella santità. Indica uomini che, umili nel mondo e ignoranti delle Scritture, si tengono però saldamente aderenti alla fede, e in nessuna circostanza, pericolo, o per vanità, si allontanano dalla fede. Perciò dice loro: Ho aperto una porta davanti a te; e aggiunge: poiché hai conservato la parola della mia pazienza con così poca forza, ti terrò anche lontano dalla prova; affinché sappiano in questo modo, a loro lode, che il Signore non permette nemmeno che essi siano messi alla prova. Del vincitore – dice – farò una colonna nel tempio del mio Dio. Il pilastro è l’ornamento dell’edificio, questi è allora colui che persevera, conseguendo così una grande nobiltà nella Chiesa. – VII: Questo gruppo fa conoscere alle sette chiese gli uomini credenti, ricchi, elevati alle posizioni di dignità. Ma come ricchi credenti, certamente nelle loro dimore parlano volentieri delle Scritture. Ma quando sono fuori, ed anche se sono della Chiesa credendosi fedeli nell’anima – cioè si vantano e dicono di conoscere tutti i segreti delle Scritture credendo quindi di essere fedeli nelle loro predizioni – eppure sono vuoti di opere; così dice loro: che non sono né freddi né caldi, cioè né increduli né fedeli, perché si accomunano sia con i fedeli che con gli infedeli; essi infatti sono tutto per tutti. E poiché coloro che non sono né caldi né freddi, ma tiepidi, gli provocano la nausea, dice loro: Ti vomito dalla mia bocca. Non è ignoto a nessuno quanto sia odiosa la nausea; così sono anche tali uomini che saranno cacciati di tra i Santi nel giorno del giudizio. Ma siccome c’è in questo mondo il tempo della penitenza, dice loro: Vi consiglio di comprare da me oro purificato nel fuoco, vale a dire, il potere in qualche modo soffrire tribolazioni e sofferenze per il Nome del Signore; … e collirio per la salvezza degli occhi, – dice – affinché ungiate gli occhi, cioè conosciate con piacere la Scrittura e, così arricchiti, cerchiate di fare opere simili. E siccome gli uomini che passano da un grande peccato ad una grande penitenza, non solo sono utili a se stessi, ma possono arrecare beneficio a molti, promette loro una ricompensa non dappoco, ovvero: sedere sul trono del suo giudizio.

Termina il libro primo sul Figlio dell’uomo e sulle Chiese nel Commentario dell’Apocalisse dell’Apostolo Giovanni.

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (3)