VIVA CRISTO RE (21)

CRISTO-RE (21)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XXVI

AVE, REX!

In quest’ultimo capitolo vorrei presentare l’immagine di “Cristo Re” come in un quadro generale. Vorrei dipingere l’immagine divina e offrirla come promemoria ai miei lettori, che potrebbero dover combattere dure battaglie nella loro vita. Perché noi Cristiani non possiamo essere deboli. Se gran parte della società dimentica completamente Cristo, dobbiamo rimanere fedeli, dobbiamo mantenere la parola data al nostro Re. Guardiamo a Lui, dunque, ancora una volta, perché da questo dipende la nostra vita. Signore, cosa pensavano di Te gli uomini durante la tua vita terrena? Signore, cosa hanno pensato di Te gli uomini durante i due millenni di storia cristiana? Signore, cosa penso io di Te? Queste sono le tre domande su cui dobbiamo meditare.

I

Se studiamo i Vangeli, vedremo, non senza stupore, che le opinioni degli uomini su Cristo erano già divise durante la vita mortale del Salvatore. Egli ha sempre avuto amici e nemici; molti ammiravano le sue parole e le sue azioni; alcuni lo seguivano con entusiasmo; altri si spingevano a dire che: Egli opera “agli ordini di satana”, che “seduce il popolo”. Quale può essere la causa di queste opinioni antagoniste? Nella persona di Gesù Cristo c’erano contrasti, in lui si univano tratti straordinari; forse per questo le opinioni sulla sua figura erano così diverse. Conosciamo già il segreto del mistero; sappiamo già che Gesù Cristo era Dio e anche uomo; lo confermano i contrasti altrimenti incomprensibili che si intrecciano nella sua vita. Ma i suoi contemporanei non lo sapevano come noi, anche se dovevano scoprirlo, perché non mancavano i mezzi per farlo. Vedevano ad ogni passo che la vita di Gesù Cristo era piena di contrasti ammirevoli. Ne citerò solo alcuni…. – Quando nasce, è così povero che nemmeno la mangiatoia in cui giace è sua. Ma, d’altra parte, una stella luminosa brilla sopra di Lui e porta i Magi ad adorarlo. È nascosto in una stalla, nessuno sa di Lui. D’altra parte, un coro di Angeli scende dal cielo e canta il Gloria al Bambino sconosciuto. Egli riesce a malapena a muovere le sue manine, tanto meno a fare del male con esse, eppure lo cercano per metterlo a morte. Ma gli Angeli lo proteggono nella sua fuga. Chi sarà mai questo Cristo, forse un semplice uomo? C’è di più: Non è andato a scuola, eppure a dodici anni insegna agli anziani del villaggio, che si stupiscono della sua saggezza. È sempre stato un figlio obbediente, eppure rimane nel tempio senza permesso; e quando i suoi genitori lo trovano, dice loro che doveva stare nella casa di suo Padre. Chi può capirlo, chi può essere questo bambino? Vive nascosto per trent’anni, pochi lo conoscono e quando inizia ad insegnare, gli bastano tre anni per provocare un tale movimento spirituale che né prima né dopo di Lui la storia ha registrato un altro simile. San Giovanni Battista predica il perdono e battezza nel deserto. Cristo va da lui e si fa battezzare, come gli altri peccatori. Ma nello stesso momento si aprono i cieli e si ode la parola del Padre celeste: “Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt III,17). Chi capisce queste cose? È povero, non ha nulla, non ha dove posare il capo. Eppure dice a ciascuno dei suoi apostoli: Lasciate tutto per me; abbandonate la vostra casa, vostro padre, i vostri fratelli, tutto ciò che possedete… per me. E gli uomini eseguono il suo comando senza esitare, solo per amore suo. I malati sono guariti quando sentono il tocco della Sua mano. La persona su cui posa il suo sguardo si riveste di luce. Comanda al mare agitato e questo, come un cane sottomesso, obbedisce immediatamente e si calma. Fa sentire la sua voce davanti a una tomba, e il sangue coagulato comincia a circolare e il cuore morto a battere. Trema sul Monte degli Ulivi, ma poi, con una sola parola, fa crollare a terra un intero gruppo di soldati. Muore abbandonato, deriso, e nello stesso momento il centurione pagano esclama: “Veramente questo era il Figlio di Dio” (Mt XXVII, 54). Lo mettono in un sepolcro, lo chiudono; ma il sepolcro non può contenerlo…. Lo riporta in vita. Avete mai visto un uomo simile? Ma ditemi: era una vita umana? No. Come il cielo si eleva al di sopra della terra, così la vita di Cristo supera i limiti di una semplice vita umana.

II

E se le opinioni degli uomini su Cristo erano già divergenti a quel tempo, lo stesso vale nel corso dei due millenni cristiani. Da quando la croce di Cristo è stata innalzata sulle cime del Golgota, essa si è posta come un gigantesco punto interrogativo davanti agli occhi degli uomini. Quel Cristo dalle mani trafitte ha scosso l’asse della terra dai suoi cardini, e da allora non c’è nome che risuoni nel mondo intero quanto il santo Nome di Gesù Cristo. Soffermiamoci su questo Nome mirabile: Gesù Cristo. Un Nome composto da due parole di una lingua che non si parla più. Eppure non c’è parola più conosciuta e più amata. Un fenomeno prodigioso: di Cristo non si può fare a meno; pro o contro di Lui, tutti gli uomini devono prendere posizione per Lui. Ha sempre avuto amici. Cristo è una calamita prodigiosa che attrae prodigiosamente. Egli è il centro della storia, tutto ruota intorno a Lui. I re egizi costruirono grandi piramidi I re egizi costruirono grandi piramidi; gli antichi monarchi eressero enormi edifici, e i loro nomi oggi sono solo ricordi, e le loro opere giacciono in rovina; ma Gesù Cristo rimane un segno di contraddizione. Quanti grandi uomini ci sono stati! Uomini potenti che hanno governato grandi imperi; e chi li ricorda? Quanti saggi ci sono stati! Ma poi ne sono venuti altri che li hanno superati. Di Lui solo, il Figlio dell’umile falegname, tutto il mondo parla ancora oggi, ed è l’unico che non è stato superato. – È il centro dell’universo. Non solo fa parte della storia, ma senza di Lui la storia stessa non ha senso. Con Lui gli anni cominciano ad essere contati, perché ha cambiato il mondo. Tutto passa, tutto finisce in delusioni, disillusioni, tutto invecchia…; ma la parola di Cristo non passa di moda, la figura di Cristo continua ad affascinare le anime. Nessuno odia un personaggio che non esiste più. Ma Cristo continua a suscitare nemici. Duemila anni dopo la sua morte è ancora presente; è ancora odiato e ancora amato. Non è solo uomo. Per quanto grande, buono, nobile o cattivo possa essere un uomo, poche settimane, mesi o anni dopo la sua morte, chi lo ama o lo odia ancora? Chi odia oggi l’imperatore Nerone, che ha fatto scorrere tanto sangue? Chi odia il Khan Batu, che ha invaso l’Ungheria e l’ha devastata? Chi odia ancora il sultano Solimano? Eppure sono tutti vissuti più tardi di Cristo. Non importa. Sono morti, e questa è la fine dell’odio. Oppure: chi ama ancora gli uomini più eccelsi? Aristotele, Platone, gli eroi nazionali: chi li ama ancora? Sono morti. Rendiamo omaggio alla loro memoria, ma li amiamo? Cristo è amato e odiato anche oggi. Non sentiamo forse bestemmie terribili contro Cristo? Non vediamo a volte gli occhi di un demonio riempirsi di sangue quando sente parlare di Cristo o del Cristianesimo? Non è evidente come la nostra Religione, la Religione di Cristo, sia perseguitata? Non è forse un odio satanico contro Cristo, un odio che si fa beffe della sua dottrina e vuole sterminare il suo amore nelle anime, che ribolle in migliaia e migliaia di libri, di conferenze, di giornali? Non è forse un odio contro Cristo la manifesta frivolezza moderna e pagana? Non conosciamo i misteri dell’odio che riempiono le logge massoniche? Colui che viene odiato con tale intensità anche dopo duemila anni, non è solo l’uomo. Quanti cosiddetti messia sono apparsi per cercare di allontanare Cristo dalle anime! Ma senza successo, non ci sono riusciti. Quante volte si è detto: il Cristianesimo ha cessato di esistere, la dottrina di Cristo non è più seguita… E in poco tempo la Chiesa si rinnova e torna a splendere con nuovi frutti. Cristo ha sempre avuto nemici… che non potevano prevalere contro di Lui. Cristo è sempre stato l’ideale adorabile degli uomini di ogni epoca. Grazie a Lui abbiamo conosciuto il valore di un’anima, perché ha dato se stesso per salvarla. Grazie a Cristo sappiamo di essere chiamati alla vita eterna. Se potessimo raggruppare nella nostra immaginazione tutti i discepoli di Cristo che sono esistiti in questi duemila anni di Cristianesimo e metterli in processione, che immensa processione formerebbero! Quanti bambini, giovani, fanciulle, santi, peccatori pentiti…! Gesù Cristo continua a sfidare le persone. Nessuno può rimanere indifferente a Lui. Da quando Nostro Signore Gesù Cristo è apparso sulla terra, l’umanità si è divisa in due campi. Ci sono uomini che, all’udire il Santo Nome di Gesù, chinano il capo e si inginocchiano; ci sono altri che lo rifiutano. Questo lo vedo facilmente. Ci sono uomini che, passando accanto a me, ministro di Cristo, mi salutano con rispetto: “Lode a Gesù Cristo”. Salutano me? No, non mi conoscono, salutano Cristo. E ci sono altri che, passando accanto a me, sputano con disgusto per terra. È me che odiano? No, nemmeno loro mi conoscono, odiano Cristo. Ci sono quelli che dicono che Cristo è il più grande ideale che si possa concepire; ci sono quelli che dicono: “Che me ne importa di questo Gesù, che cosa ho a che fare con Lui? Ci sono milioni di uomini che si preoccupano di Lui con un amore mai eguagliato; ci sono anche milioni di uomini che lo odiano. È un fatto strano e sorprendente, degno di essere meditato. – Anche Cristo è amato. Quanti sono coloro che ogni giorno gli dicono dal profondo del cuore: “Gesù mio, ti amo”. E quanti sono i giovani che danno la vita per Lui, lasciando tutto? Colui che, duemila anni dopo la sua morte, è ancora amato con tale fervore, non può essere solo un uomo.

III

E così arriviamo alla terza domanda, la più decisiva, la più importante: che cos’è Cristo per me? Perché la cosa più importante per me non è sapere cosa gli altri uomini hanno pensato di Cristo, ma la risposta a questa domanda: cosa penso io di Cristo? Chi è Cristo per me? Rispondo con tre parole: 1° è il mio Signore; 2° è il mio Re; 3° è il mio Dio. – Il mio Signore! Dobbiamo acconsentire e cercare di lasciare che Cristo prenda possesso della nostra anima. Gesù cercò i suoi discepoli un giorno sul lago di Gennesaret, tra gli esattori delle tasse e sulle barche da pesca. Oggi li cerca in altri luoghi: nell’officina, nella scuola, nell’ufficio, nella fabbrica, nella cucina, nelle aule. Non c’è capanna, per quanto umile, non c’è palazzo in cui Gesù non cerchi discepoli, giovani e fanciulle, uomini e donne, vecchi e bambini. TUTTI SIAMO VOLUTI… per essere suoi discepoli. Quale dovrebbe essere la mia risposta? Mio Signore! Mio Maestro! Eccomi, sono tuo! Fai di me quello che vuoi. Quando sono appesantito dalla pesante croce della vita, so pronunciare con fervore queste parole: Dolce Gesù, è per il tuo amore! Quando la tentazione mi invita a peccare, so pronunciare con decisione incrollabile queste parole: “Mio Gesù, no, non voglio peccare; resisto per amor tuo! Quando faccio fatica a fare il mio dovere, sono in grado di dire: “Gesù mio, lo faccio per Te”? So come dirlo, lo dico? Allora Lui è il mio Signore. – Cristo è anche il mio Re. Egli ha già un regno quaggiù, il regno delle anime. Ovunque ci sia un uomo che aspiri alla santità, che lotta contro il peccato; ovunque ci sia un uomo che dimentica se stesso ed esercita la carità…, lì Cristo ha il suo regno, lì è il Re. – Cristo è anche il mio Dio. È il mio Dio, che adoro. Cerco di immaginare la sacratissima umanità di Cristo. Bacio con fervore le sue ferite, che sanguinano per me. Guardo con gratitudine la sua fronte cinta da una corona di spine… Voglio riparare in qualche modo a ciò che gli ho fatto. Questo deve essere Cristo per me. Il battito del mio cuore deve stare al passo con il suo; i suoi desideri devono essere i miei desideri; devo amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Arrendersi in modo assoluto. Adorazione. Egli è il mio Dio. Cristo è il mio Dio e il mio tutto, lo credo fermamente! Che Cristo non mi rimproveri per ciò che è scritto nella cattedrale di Lubecca:

“Voi mi chiamate Maestro – eppure non mi chiedete.

“Mi chiamate luce – eppure non mi vedete.

“Mi chiamate verità – e non mi credete.

“Mi chiamate via – e non andate per questa via.

“Mi chiamate vita e non mi desiderate.

“Dite che sono saggio e non mi seguite.

“Dite che sono bello e non mi amate.

“Dite che sono ricco – e non mi chiedete.

“Dite che sono eterno e non mi cercate.

“Dite che sono misericordioso – e non vi fidate di me.

“Dite che sono nobile – e non mi servite.

“Dite che sono onnipotente e non mi onorate.

“Dite che sono giusto – e non mi temete”.

Che cos’è dunque Cristo per me? Una persona viva; una vita che continua, in cui vivo, che è in me; una vita che mi accompagna; una vita da cui non posso liberarmi. Non posso, né voglio. Egli tende le sue braccia, è con me giorno e notte; quando lavoro, mi aiuta; quando piango, piange con me. Cristo, Tu sei il mio Signore, Cristo, Tu sei il mio Re, Cristo, Tu sei il mio Dio! – Tu, mio dolce Gesù, mi hai sostenuto nelle battaglie della mia giovinezza, hai perdonato i miei peccati, mi hai nutrito con il tuo sacrosanto Corpo? Grazie, mio Dio.

“Ave, Rex!” Ave, Re divino, Nostro Signore Gesù Cristo!

[Lettera Enciclica “Quas primas” di S. S. Pio XI]

Nella prima Enciclica che, asceso al Pontificato, dirigemmo a tutti i Vescovi dell’Orbe cattolico — mentre indagavamo le cause precipue di quelle calamità da cui vedevamo oppresso e angustiato il genere umano — ricordiamo d’aver chiaramente espresso non solo che tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società, ma altresì che mai poteva esservi speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni avessero negato e da loro rigettato l’impero di Cristo Salvatore. – Pertanto, come ammonimmo che era necessario ricercare la pace di Cristo nel Regno di Cristo, così annunziammo che avremmo fatto a questo fine quanto Ci era possibile; nel Regno di Cristo — diciamo — poiché Ci sembrava che non si possa più efficacemente tendere al ripristino e al rafforzamento della pace, che mediante la restaurazione del Regno di Nostro Signore. – Frattanto il sorgere e il pronto ravvivarsi di un benevolo movimento dei popoli verso Cristo e la sua Chiesa, che sola può recar salute, Ci forniva non dubbia speranza di tempi migliori; movimento tal quale s’intravedeva che molti i quali avevano disprezzato il Regno di Cristo e si erano quasi resi esuli dalla Casa del Padre, si preparavano e quasi s’affrettavano a riprendere le vie dell’obbedienza.

L’Anno Santo e il Regno di Cristo

E tutto quello che accadde e si fece, nel corso di questo Anno Santo, degno certo di perpetua memoria, forse non accrebbe l’onore e la gloria al divino Fondatore della Chiesa, nostro supremo Re e Signore? – Infatti, la Mostra Missionaria Vaticana quanto non colpì la mente e il cuore degli uomini, sia facendo conoscere il diuturno lavoro della Chiesa per la maggiore dilatazione del Regno del suo Sposo nei continenti e nelle più lontane isole dell’Oceano; sia il grande numero di regioni conquistate al cattolicesimo col sudore e col sangue dai fortissimi e invitti Missionari; sia infine col far conoscere quante vaste regioni vi siano ancora da sottomettere al soave e salutare impero del nostro Re. E quelle moltitudini che, durante questo Anno giubilare, vennero da ogni parte della terra nella città santa, sotto la guida dei loro Vescovi e sacerdoti, che altro avevano in cuore, purificate le loro anime, se non proclamarsi presso il sepolcro degli Apostoli, davanti a Noi, sudditi fedeli di Cristo per il presente e per il futuro? – E questo Regno di Cristo sembrò quasi pervaso di nuova luce allorquando Noi, provata l’eroica virtù di sei Confessori e Vergini, li elevammo agli onori degli altari. E qual gioia e qual conforto provammo nell’animo quando, nello splendore della Basilica Vaticana, promulgato il decreto solenne, una moltitudine sterminata di popolo, innalzando il cantico di ringraziamento esclamò: Tu Rex gloriæ, Christe!  – Poiché, mentre gli uomini e le Nazioni, lontani da Dio, per l’odio vicendevole e per le discordie intestine si avviano alla rovina ed alla morte, la Chiesa di Dio, continuando a porgere al genere umano il cibo della vita spirituale, crea e forma generazioni di santi e di sante a Gesù Cristo, il quale non cessa di chiamare alla beatitudine del Regno celeste coloro che ebbe sudditi fedeli e obbedienti nel regno terreno. – Inoltre, ricorrendo, durante l’Anno Giubilare, il sedicesimo secolo dalla celebrazione del Concilio di Nicea, volemmo che l’avvenimento centenario fosse commemorato, e Noi stessi lo commemorammo nella Basilica Vaticana tanto più volentieri in quanto quel Sacro Sinodo definì e propose come dogma la consustanzialità dell’Unigenito col Padre, e nello stesso tempo, inserendo nel simbolo la formula «il regno del quale non avrà mai fine», proclamò la dignità regale di Cristo. – Avendo, dunque, quest’Anno Santo concorso non in uno ma in più modi ad illustrare il Regno di Cristo, Ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro ufficio apostolico, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi sia individualmente, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. – Questa cosa Ci reca tanta gioia che Ci spinge, Venerabili Fratelli, a farvene parola; voi poi, procurerete di adattare ciò che Noi diremo intorno al culto di Gesù Cristo Re, all’intelligenza del popolo e di spiegarne il senso in modo che da questa annua solennità ne derivino sempre copiosi frutti.

Gesù Cristo è Re

Gesù Cristo Re delle menti, delle volontà e dei cuori

Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re per il sommo grado di eccellenza, che ha in modo sovreminente fra tutte le cose create. In tal modo, infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità; similmente nelle volontà degli uomini, sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perché con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana (Supereminentem scientiæ caritatem) e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità: nessuno infatti degli uomini fu mai tanto amato e mai lo sarà in avvenire quanto Gesù Cristo. Ma per entrare in argomento, tutti debbono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re; infatti soltanto in quanto è Uomo si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l’onore e il regno, perché come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero.

La Regalità di Cristo nei libri dell’Antico Testamento.

E non leggiamo infatti spesso nelle Sacre Scritture che Cristo è Re ? Egli invero è chiamato il Principe che deve sorgere da Giacobbe,, eche dal Padre è costituito Re sopra il Monte santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra. Il salmo nuziale, col quale sotto l’immagine di un re ricchissimo e potentissimo viene preconizzato il futuro Re d’Israele, ha queste parole: «II tuo trono, o Dio, sta per sempre, in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale». – E per tralasciare molte altre testimonianze consimili, in un altro luogo per lumeggiare più chiaramente i caratteri del Cristo, si preannunzia che il suo Regno sarà senza confini ed arricchito coi doni della giustizia e della pace: «Fiorirà ai suoi giorni la Giustizia e somma pace… Dominerà da un mare all’altro, e dal fiume fino alla estremità della terra». A questa testimonianza si aggiungono in modo più ampio gli oracoli dei Profeti e anzitutto quello notissimo di Isaia: «Ci è nato un bimbo, ci fu dato un figlio: e il principato è stato posto sulle sue spalle e sarà chiamato col nome di Ammirabile, Consigliere, Dio forte, Padre del secolo venturo, Principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine. Sederà sul trono di Davide e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora ed in perpetuo». E gli altri Profeti non discordano da Isaia: così Geremia, quando predice che nascerà dalla stirpe di Davide il “Rampollo giusto” che qual figlio di Davide «regnerà e sarà sapiente e farà valere il diritto e la giustizia sulla terra»; così Daniele che preannunzia la costituzione di un regno da parte del Re del cielo, regno che «non sarà mai in eterno distrutto… ed esso durerà in eterno» e continua: «Io stavo ancora assorto nella visione notturna, quand’ecco venire in mezzo alle nuvole del cielo uno con le sembianze del figlio dell’uomo che si avanzò fino al Vegliardo dai giorni antichi, e davanti a lui fu presentato. E questi gli conferì la potestà, l’onore e il regno; tutti i popoli, le tribù e le lingue serviranno a lui; la sua potestà sarà una potestà eterna che non gli sarà mai tolta, e il suo regno, un regno che non sarà mai distrutto». E gli scrittori dei santi Vangeli non accettano e riconoscono come avvenuto quanto è predetto da Zaccaria intorno al Re mansueto il quale «cavalcando sopra un’asina col suo piccolo asinello» era per entrare in Gerusalemme, qual giusto e salvatore fra le acclamazioni delle turbe?

Gesù Cristo si è proclamato Re

Del resto questa dottrina intorno a Cristo Re, che abbiamo sommariamente attinto dai libri del Vecchio Testamento, non solo non viene meno nelle pagine del Nuovo, ma anzi vi è confermata in modo splendido e magnifico. E qui, appena accennando all’annunzio dell’arcangelo da cui la Vergine viene avvisata che doveva partorire un figlio, al quale Iddio avrebbe dato la sede di David, suo padre, e che avrebbe regnato nella Casa di Giacobbe in eterno e che il suo Regno non avrebbe avuto fine  vediamo che Cristo stesso dà testimonianza del suo impero: infatti, sia nel suo ultimo discorso alle turbe, quando parla dei premi e delle pene, riservate in perpetuo ai giusti e ai dannati; sia quando risponde al Preside romano che pubblicamente gli chiedeva se fosse Re, sia quando risorto affida agli Apostoli l’ufficio di ammaestrare e battezzare tutte le genti, colta l’opportuna occasione, si attribuì il nome di Re, e pubblicamente confermò di essere Re  e annunziò solennemente a Lui era stato dato ogni potere in cielo e in terra. E con queste parole che altro si vuol significare se non la grandezza della potestà e l’estensione immensa del suo Regno? – Non può dunque sorprenderci se Colui che è detto da Giovanni «Principe dei Re della terra», porti, come apparve all’Apostolo nella visione apocalittica «scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti». Da quando l’eterno Padre costituì Cristo erede universale, è necessario che Egli regni finché riduca, alla fine dei secoli, ai piedi del trono di Dio tutti i suoi nemici. – Da questa dottrina dei sacri libri venne per conseguenza che la Chiesa, regno di Cristo sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte le nazioni, salutò e proclamò nel ciclo annuo della Liturgia il suo autore e fondatore quale Signore sovrano e Re dei re, moltiplicando le forme della sua affettuosa venerazione. Essa usa questi titoli di onore esprimenti nella bella varietà delle parole lo stesso concetto; come già li usò nell’antica salmodia e negli antichi Sacramentari, così oggi li usa nella pubblica ufficiatura e nell’immolazione dell’Ostia immacolata. In questa laude perenne a Cristo Re, facilmente si scorge la bella armonia fra il nostro e il rito orientale in guisa da render manifesto, anche in questo caso, che «le norme della preghiera fissano i principi della fede». Ben a proposito Cirillo Alessandrino, a mostrare il fondamento di questa dignità e di questo potere, avverte che «egli ottiene, per dirla brevemente, la potestà su tutte le creature, non carpita con la violenza né da altri ricevuta, ma la possiede per propria natura ed essenza»; cioè il principato di Cristo si fonda su quella unione mirabile che è chiamata unione ipostatica. Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature. – Eppure che cosa più soave e bella che il pensare che Cristo regna su di noi non solamente per diritto di natura, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione? Volesse Iddio che gli uomini immemori ricordassero quanto noi siamo costati al nostro Salvatore: «Non a prezzo di cose corruttibili, di oro o d’argento siete stati riscattati… ma dal Sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato». Non siamo dunque più nostri perché Cristo ci ha ricomprati col più alto prezzo: i nostri stessi corpi sono membra di Cristo.

Natura e valore del Regno di Cristo

Volendo ora esprimere la natura e il valore di questo principato, accenniamo brevemente che esso consta di una triplice potestà, la quale se venisse a mancare, non si avrebbe più il concetto d’un vero e proprio principato. – Le testimonianze attinte dalle Sacre Lettere circa l’impero universale del nostro Redentore, provano più che a sufficienza quanto abbiamo detto; ed è dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui debbono riporre la loro fiducia, ed allo stesso tempo come legislatore a cui debbono obbedire. – I santi Evangeli non soltanto narrano come Gesù abbia promulgato delle leggi, ma lo presentano altresì nell’atto stesso di legiferare; e il divino Maestro afferma, in circostanze e con diverse espressioni, che chiunque osserverà i suoi comandamenti darà prova di amarlo e rimarrà nella sua carità . Lo stesso Gesù davanti ai Giudei, che lo accusavano di aver violato il sabato con l’aver ridonato la sanità al paralitico, afferma che a Lui fu dal Padre attribuita la potestà giudiziaria: «Il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio». Nel che è compreso pure il diritto di premiare e punire gli uomini anche durante la loro vita, perché ciò non può disgiungersi da una propria forma di giudizio. Inoltre la potestà esecutiva si deve parimenti attribuire a Gesù Cristo, poiché è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno può sfuggire ad esso e alle sanzioni da lui stabilite.

Regno principalmente spirituale

Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire. – In varie occasioni, infatti, quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, egli cercò di togliere e abbattere questa vana attesa e speranza; e così pure quando stava per essere proclamato Re dalla moltitudine che, presa di ammirazione, lo attorniava, Egli rifiutò questo titolo e questo onore, ritirandosi e nascondendosi nella solitudine; finalmente davanti al Preside romano annunciò che il suo Regno “non è di questo mondo”. – Questo Regno nei Vangeli viene presentato in tal modo che gli uomini debbano prepararsi ad entrarvi per mezzo della penitenza, e non possano entrarvi se non per la fede e per il Battesimo, il quale benché sia un rito esterno, significa però e produce la rigenerazione interiore. Questo Regno è opposto unicamente al regno di Satana e alla “potestà delle tenebre”, e richiede dai suoi sudditi non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce. Avendo Cristo come Redentore costituita con il suo sangue la Chiesa, e come Sacerdote offrendo se stesso in perpetuo quale ostia di propiziazione per i peccati degli uomini, chi non vede che la regale dignità di Lui riveste il carattere spirituale dell’uno e dell’altro ufficio?

Regno universale e sociale

D’altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. A questo proposito ben si adattano queste parole: «Non toglie il trono terreno Colui che dona il regno eterno dei cieli». Pertanto il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, come affermano queste parole del Nostro Predecessore di immortale memoria  Leone XIII, che Noi qui facciamo Nostre: «L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni Ce li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo». – Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica: «Né in alcun altro è salute, né sotto il cielo altro nome è stato dato agli uomini, mediante il quale abbiamo da essere salvati», è lui solo l’autore della prosperità e della vera felicità sia per i singoli sia per gli Stati: «poiché il benessere della società non ha origine diversa da quello dell’uomo, la società non essendo altro che una concorde moltitudine di uomini». – Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria. Difatti sono quanto mai adatte e opportune al momento attuale quelle parole che all’inizio del Nostro pontificato Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: «Allontanato, infatti — così lamentavamo — Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali».

Regno benefico

Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza. – In questo senso l’Apostolo Paolo, inculcando alle spose e ai servi di rispettare Gesù Cristo nel loro rispettivo marito e padrone, ammoniva chiaramente che non dovessero obbedire ad essi come ad uomini ma in quanto tenevano le veci di Cristo, poiché sarebbe stato sconveniente che gli uomini, redenti da Cristo, servissero ad altri uomini: «Siete stati comperati a prezzo; non diventate servi degli uomini». Che se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino, si comprende facilmente che uso santo e sapiente essi faranno della loro autorità, e quale interesse del bene comune e della dignità dei sudditi prenderanno nel fare le leggi e nell’esigerne l’esecuzione. – In tal modo, tolta ogni causa di sedizione, fiorirà e si consoliderà l’ordine e la tranquillità: ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l’immagine e l’autorità di Cristo Dio e Uomo. – Per quello poi che si riferisce alla concordia e alla pace, è manifesto che quanto più vasto è il regno e più largamente abbraccia il genere umano, tanto più gli uomini diventano consapevoli di quel vincolo di fratellanza che li unisce. E questa consapevolezza come allontana e dissipa i frequenti conflitti, così ne addolcisce e ne diminuisce le amarezze. E se il regno di Cristo, come di diritto abbraccia tutti gli uomini, cosi di fatto veramente li abbracciasse, perché dovremmo disperare di quella pace che il Re pacifico portò in terra, quel Re diciamo che venne «per riconciliare tutte le cose, che non venne per farsi servire, ma per servire gli altri”» e che, pur essendo il Signore di tutti, si fece esempio di umiltà, e questa virtù principalmente inculcò insieme con la carità e disse inoltre: «II mio giogo è soave e il mio peso leggero?». – Oh, di quale felicità potremmo godere se gli individui, le famiglie e la società si lasciassero governare da Cristo! «Allora veramente, per usare le parole che il Nostro Predecessore Leone XIII venticinque anni fa rivolgeva a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico, si potrebbero risanare tante ferite, allora ogni diritto riacquisterebbe l’antica forza, tornerebbero i beni della pace, cadrebbero dalle mani le spade, quando tutti volentieri accettassero l’impero di Cristo, gli obbedissero, ed ogni lingua proclamasse che nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre».

La Festa di Cristo Re

Scopo della festa di Cristo Re

E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. – Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale. – D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace. – E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori. – In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. – Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza. – Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

Il “laicismo”

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso. – I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica Ubi arcano Dei e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina. – Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità. – Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.

La preparazione storica della festa di Cristo Re

E chi non vede che fino dagli ultimi anni dello scorso secolo si preparava meravigliosamente la via alla desiderata istituzione di questo giorno festivo? Nessuno infatti ignora come, con libri divulgati nelle varie lingue di tutto il mondo, questo culto fu sostenuto e sapientemente difeso; come pure il principato e il regno di Cristo fu ben riconosciuto colla pia pratica di dedicare e consacrare tutte le famiglie al Sacratissimo Cuore di Gesù. E non soltanto famiglie furono consacrate, ma altresì nazioni e regni; anzi, per volere di Leone XIII, tutto il genere umano, durante l’Anno Santo 1900, fu felicemente consacrato al Divin Cuore. – Né si deve passar sotto silenzio che a confermare questa regale potestà di Cristo sul consorzio umano meravigliosamente giovarono i numerosissimi Congressi eucaristici, che si sogliono celebrare ai nostri tempi; essi, col convocare i fedeli delle singole diocesi, delle regioni, delle nazioni e anche tutto l’orbe cattolico, a venerare e adorare Gesù Cristo Re nascosto sotto i veli eucaristici, tendono, mediante discorsi nelle assemblee e nelle chiese, mediante le pubbliche esposizioni del Santissimo Sacramento, mediante le meravigliose processioni ad acclamare Cristo quale Re dato dal cielo. – A buon diritto si direbbe che il popolo cristiano, mosso da ispirazione divina, tratto dal silenzio e dal nascondimento dei sacri templi, e portato per le pubbliche vie a guisa di trionfatore quel medesimo Gesù che, venuto nel mondo, gli empi non vollero riconoscere, voglia ristabilirlo nei suoi diritti regali. – E per vero ad attuare il Nostro divisamento sopra accennato, l’Anno Santo che volge alla fine Ci porge la più propizia occasione, poiché Dio benedetto, avendo sollevato la mente e il cuore dei fedeli alla considerazione dei beni celesti che superano ogni gaudio, o li ristabilì in grazia e li confermò nella retta via e li avviò con nuovi incitamenti al conseguimento della perfezione. – Perciò, sia che consideriamo le numerose suppliche a Noi rivolte, sia che consideriamo gli avvenimento di questo Anno Santo, troviamo argomento a pensare che finalmente è spuntato il giorno desiderato da tutti, nel quale possiamo annunziare che si deve onorare con una festa speciale Cristo quale Re di tutto il genere umano. – In quest’anno infatti, come dicemmo sin da principio, quel Re divino veramente ammirabile nei suoi Santi, è stato magnificato in modo glorioso con la glorificazione di una nuova schiera di suoi fedeli elevati agli onori celesti; parimenti in questo anno per mezzo dell’Esposizione Missionaria tutti ammirarono i trionfi procurati a Cristo per lo zelo degli operai evangelici nell’estendere il suo Regno; finalmente in questo medesimo anno con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli.

L’istituzione della festa di Cristo Re

Pertanto, con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l’ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente. – In quest’anno però, vogliamo che sia rinnovata il giorno trentuno di questo mese, nel quale Noi stessi terremo solenne pontificale in onore di Cristo Re e ordineremo che la detta consacrazione si faccia alla Nostra presenza. Ci sembra che non possiamo meglio e più opportunamente chiudere e coronare 1’Anno Santo, né rendere più ampia testimonianza della Nostra gratitudine a Cristo, Re immortale dei secoli, e di quella di tutti i cattolici per i beneficî fatti a Noi, alla Chiesa e a tutto l’Orbe cattolico durante quest’Anno Santo. – E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale. – Basta infatti avvertire che mentre l’oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. La ragione, poi, per cui volemmo stabilire questa festa in giorno di domenica, è perché non solo il Clero con la celebrazione della Messa e la recita del divino Officio, ma anche il popolo, libero dalle consuete occupazioni, rendesse a Cristo esimia testimonianza della sua obbedienza e della sua devozione. – Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino.

I vantaggi della festa di Cristo Re

Giunti al termine di questa Nostra lettera Ci piace, o Venerabili Fratelli, spiegare brevemente quali vantaggi in bene sia della Chiesa e della società civile, sia dei singoli fedeli, Ci ripromettiamo da questo pubblico culto verso Cristo Re. – Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio. – Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo, sia perché con la professione dei tre voti combattono la triplice concupiscenza del mondo, sia perché con la pratica di una vita di maggior perfezione, fanno sì che quella santità, che il divino Fondatore volle fosse una delle note della vera Chiesa, risplenda di giorno in giorno vieppiù innanzi agli occhi di tutti. – La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi. – Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di codeste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana. – Poiché se a Cristo Signore è stata data ogni potestà in cielo e in terra; se tutti gli uomini redenti con il Sangue suo prezioso sono soggetti per un nuovo titolo alla sua autorità; se, infine, questa potestà abbraccia tutta l’umana natura, chiaramente si comprende, che nessuna delle nostre facoltà si sottrae a tanto impero.

Conclusione

Cristo regni!

È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come “armi di giustizia”  offerte a Dio devono servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione. – Faccia il Signore, Venerabili Fratelli, che quanti sono fuori del suo regno, bramino ed accolgano il soave giogo di Cristo, e tutti, quanti siamo, per sua misericordia, suoi sudditi e figli, lo portiamo non a malincuore ma con piacere, ma con amore, ma santamente, e che dalla nostra vita conformata alle leggi del Regno divino raccogliamo lieti ed abbondanti frutti, e ritenuti da Cristo quali servi buoni e fedeli diveniamo con Lui partecipi nel Regno celeste della sua eterna felicità e gloria. – Questo nostro augurio nella ricorrenza del Natale di nostro Signore Gesù Cristo sia per voi, o Venerabili Fratelli, un attestato del Nostro affetto paterno; e ricevete l’Apostolica Benedizione, che in auspicio dei divini favori impartiamo ben di cuore a voi, o Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo vostro.

[Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 11 Dicembre dell’Anno Santo 1925, quarto del Nostro Pontificato.]

QUARESIMALE (XIV)

QUARESIMALE (XIV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAQUARTA

Nella Feria quinta della Domenica seconda.

Si procura d’esporre agli occhi del peccatore, un’ombra dell’apparato funesto de’ tormenti infernali e si detesta la pazzia di chi pecca, quantunque creda inferno e lo creda eterno.

Mortuus est dives, et sepultus est in inferno. San Luca al cap. 16.

L’Organa, pittor bravissimo si mostrò lo Zeusi de’ suoi tempi, con dipingere, non il volto d’un’Elena ricavato da tutte le bellezze della Grecia, il ceffo di Medusa copiato al vivo dalle bruttezze d’ogni più mostruoso animale. De’ più deformi e de’ più spaventosi ne adunò in gran numero, e di ciascuno ne fece anatomia con l’occhio, distinguendo parte a parte ogni più sconcia mostruosità, poscia con la mano trasportò su la tela quei vivi terrori, acciocché da tante sparse bruttezze, raccolte in uno, una ne riuscisse fior di bruttezza la faccia di Medusa. Che l’opera felicemente riuscisse, testimoni ne furono gli occhi degli amici, poiché al rimuoversi improvvisamente il velo, quasi che si scoprisse, non la dipinta nel quadro, ma la vera Medusa nel celebre Scudo, presi da un freddo orrore, rimasero come di pietra. Piacesse al Cielo, che a me fosse concessa una simile arte con cui potessi mettervi in vista al vivo l’orribil volto dell’inferno! Spererei, con l’aiuto divino, strane sì, ma sante mutazioni. M’ingegnerò dunque quanto più posso d’esporvi un’ombra dell’apparato funesto de’ tormenti infernali, provati ora da chiunque in compagnia dell’odierno Epulone, sepultus est in inferno. La terribilità dell’argomento non tollera superfluità d’esordio, ma richiede straordinaria attenzione; datemela a pro delle anime vostre, e do principio. Passeggiando un dì quel gran padre de’ Monaci San Macario per le vaste solitudini d’Egitto, piantò inavvedutamente il suo bastone sopra d’un teschio di morto, da cui sentendone uscire voci di lamento, si fermò interrogando s’era anima salva, o pur dannata. Son di un’anima dannata, rispose il teschio. Se così è, soggiunse il Santo, dammi qualche notizia del tuo inferno. Non altra ti posso dare, replicò il teschio che questa: l’anima sopporta l’inferno, ma non sa comprendere cosa sia inferno. Che farò dunque R. A. se dovendo parlare d’inferno, non può questo comprendersi! – Grande Iddio, che avete in vostra mano quella chiave che apre e serra la porta eternale, concedetemela, vi supplico, voglio spalancare quell’orrenda prigione di dannati: né vi crediate che io pretenda di restituire ad alcuno di loro la libertà, né recare acqua al loro fuoco, balsamo alle loro piaghe; o questo no, stiano pure ivi i miseri a pagar giustamente gli oltraggi a voi fatti: non son degni, né di soccorso, né di pietà! S’arrabbino pure, si disperino … loro danno. Quel che io pretendo altro non è se non questo far vedere a’ miei UU. quell’orribile luogo, acciocché niuno di loro a me sì cari cada colaggiù à popolarlo. Ecco, ecco, è già calata la gran chiave, o che strepito di catene! o che, strascinamento di catenacci! Già stride la gran porta si apre o che fumo, o che caligini, o che puzza, o che strilla, o che confusione! convien stare alla larga; e se nostro pensiero fu di vedere, contentarci d’udire. O là ascoltatemi voi, anime tormentate, e datemi qualche certezza del vostro inferno. Ditemi, vi contentereste voi, che il vostro inferno fosse quel toro di Bronzo, dove Falar Tiranno d’Agrigento racchiuso il paziente col fuoco acceso sotto il ventre del toro, godeva sentirlo muggire, mentre il misero nell’interno della bestia infocata si abbruciava? Vi contentereste della fierezza de’ Sciti? Questi spaccando per mezzo cavalli, seppellivano nelle loro viscere uomini vivi, sostentandoli con cibo, acciocché quivi da’ vermi che nascevano dalle carni putrefatte del cavallo morto, a poco a poco fossero vivi mangiati? Vi contentereste della bestialità del tiranno Mezenzio, che congiunti a’ corpi vivi corpi morti, così li lasciava, affinché dal fetore del cadavere ne venisse ucciso il vivo? Che rispondete? Vi contentereste di queste atrocità de’ carnefici tiranni più crudeli? Taci, sento che mi dice il Crisostomo; taci, perché questi son tormenti da burla, rispetto a quelli dell’inferno. Dunque rispetto all’inferno sarà una burla quella crudele invenzione praticata nell’Inghilterra, ove s’applica sul nudo ventre del misero condannato un esercito di rospi, vipere ed altri simili animali, sopra i quali, coperti con una gran conca di rame, si accende fuoco sì cocente, che quelle bestie inferocite tracciano il corpo del reo per fuggire dal fuoco; e tutto questo sarà una burla, se si paragoni con l’inferno? hæc ludrica sunt, et risus ad illa supplicia. Sarà una burla quel supplizio dato in Francia all’uccisore d’Enrico quarto, supplizio tanto inaudito; poiché il reo fu posto sopra d’un palco nella gran piazza, ed ivi lentamente con forbici roventi attanagliato nelle gambe, cosce, braccia e petto: indi nelle piaghe fatte dalle tenaglie si fuse olio, piombo, e zolfo bollentissimo; la mano poi infame, tenendo il coltello proditorio sopra un fuoco sulfureo, fu fatta lambiccare fino a rimanerne le ossa sole ignude; il corpo poi da quattro cavalli squarciato fu consumato nelle fiamme: e questo pure sarà una burla o Crisostomo? Si una burla se con l’inferno si paragoni: hæc ludrica sunt, risus ad illa supplicia. Burla dunque altresì sarà quel macello che nell’Olanda fu fatto di chi ferì con archibugiata Guglielmo Principe d’Oranges? Vedeasi sospeso il reo da’ nodi de’ pollici delle mani con cento libre di piombo appese a’ pollici de’ piedi, e con orrore rimiravasi da’ manigoldi spietatamente flagellato piover sangue. Indi deposto dal doloso eculeo, sottentrò ad esser martirizzato con acute cannette sotto le unghie; legato poi ad un palo dié la mano tra due lamine di ferro infocate ad arrostire con le ossa medesime, sicché il fetore ammorbava tutta la piazza, e per ultimo squarciatasi a pezzetti la carne con tenaglie acute, apertogli con un coltello il petto, cavate col cuore le viscere, fu quell’avanzo di cadavere in quattro parti spaccato. Burla sì, mi risponde il Boccadoro, se si ponga a confronto con i tormenti d’inferno: hæc ludrica sunt, risus ad illa supplicia. Ma che devo io aggiungere per fare un vero ritratto delle pene infernali? Forse gli strazi più stravaganti de’ Santi Martiri? tutto quello che vuoi, replica il Santo, perché tutto non è neppure un’ombra d’inferno: pone ferrum, ignem, et bestias, et si quid his difficilius, attamen nec umbra quidem sunt ad illa tormenta. Poi insomma, quanto vide Roma ed il mondo tutto di barbaro, sotto i Neroni, Diocleziani, e Valeriani, da’ quali la barbarie stessa fu superata; e se ti fai sognare altre più orrende invenzioni di Martiri tormentati, e sappi che neppur sarai un’ombra de’ tormenti d’inferno. E la ragione è manifesta; perché, se Iddio in questa vita ha permesso tormenti sì fieri, di Martirii spietati a gente santa e degna di premio, certo che non devono trattarli del pari nelle pene i cattivi ed i buoni; e perciò avrà nell’inferno apparecchiati assai più atroci tormenti per la canaglia degli schiavi suoi ribelli, e degni d’ogni più estremo castigo. O inferno, inferno, quanto mai sei terribile! Deh tu, o buon soldato Drittelmo, che, secondo la narrazione di Beda, avesti fortuna di dare un’occhiata all’inferno, allorché in Inghilterra, essendo tu morto, dopo un giorno risuscitasti, ed a guisa di sbalordito ti rintanasti per sempre in un romitaggio a scarnificarti con orrende penitenze; rispondendo a chi si stupiva di sì aspro trattamento: acerbiora vidi: ho veduto, ed ho sfuggito tormenti molto maggiori. Spiegaci di grazia ciò che volevi esprimere con quel continuo replicare, acerbiora vidi. Dimmi, volevi tu significare che tra quelle tenebre d’abisso, nelle quali dimorano acciecati da perpetue notti i dannati, altro non ne ritraggono che fumo, che orrore; che colaggiù si vedono i diavoli in forma sì spaventosa, che Caterina da Siena, avendone veduto un solo, e sol di passaggio; asserì che più tosto di vederlo un’altra volta si sarebbe eletta di camminare a piedi nudi sopra le braci ardenti fino al dì del Giudizio. Dimmi dunque, o Drittelmo, volevi tu significare questa pena, quando dicesti, acerbiora vidi? Sì, ma non basta: ho veduto di peggio. Vedesti forse quei miseri dannati, che colaggiù se ne stanno l’uno sull’altro ammassati, e l’uno l’altro premendo, come uve nel torchio. Sicché con la bocca applicata al cadavere marcio, che avranno sotto, saran costretti a sorbire quello stomacoso umore: essendo ben dovere che si faccia di feccia, chi beve, come acqua l’iniquità. Miei UU. gran pene sono queste, vedute da Drittelmo. Se vi basta l’animo tollerarle, quasi dissi, peccate; ma se no, desistete dalle offese di Dio, e date mente ad Agostino: vel mortem time, sinon times peccatum. Non times peccatum? time quo perducit peccatum. Acerbiora vidi; Drittelmo non si quieta; e dice aver veduto di peggio. Ma che vedeste mai di peggio? Forse quei storcimenti de’ dannati per le puzze intollerabili, o de’ corpi fetentissima scaturigine de’ vermi, o della carcere. Cloaca delle più stomacose sporcizie; pena sì grande, che San Martino all’intollerabile puzza lasciata nella sua camera da un demonio comparsogli, poco meno che tramortito, disse: o inferno, che fetore sarà il tuo con tanti e tanti milioni di dannati e di demoni; se un diavolo solo col fuo fetore ha cangiata la mia camera in un inferno? Dimmi, o Drittelmo, è questo quel supplizio più duro che vedesti nell’inferno? Sì, questo ancora io vidi; ma non basta: ho veduto di peggio. Ben t’intendo; hai veduto che i miseri dannati sono di continuo maltrattati, lacerati e sbranati da quei demoni, nei quali non è punto di compassione. Acerbiora vidi; ma se vedesti ancor di peggio, tu non vuoi intendere d’altro, che del fuoco chiamato da Curzio l’ultimo de’ supplizi, ignis suppliciorum ultimus est; e vuoi dire che hai veduti i dannati avviluppati tra fiamme sì furiose che questo fuoco nostrale al parere di Sant’Anselmo è come fuoco dipinto: sic istum naturalem ignem vincit, ut iste pictum ignem; non lo credete? Ditemi. Ricordano le Storie, che Giorgio Castriotta avendo mandato a Maometto Secondo, signore de’ Turchi, quella celebre spada, con cui tagliava di netto il collo ad un bue, all’udir poi, che niuno di quanti si erano a ciò provati avevano mai potuto conseguire gloria sì bella, saviamente rispose: punto non meravigliarsi di ciò avendo egli mandata la spada, ma non il braccio. Tanto io pure dirò a voi: se mai per forte vi paresse incredibile la forza del fuoco infernale, misurandolo alla vista del nostro. Il fuoco in mano della natura è come una spada in mano d’una donna, ma il fuoco dell’inferno è come una spada in mano di Dio: e perciò non è meraviglia, se maneggiata colaggiù dalla Onnipotenza, faccia prove tanto eccedenti il nostro intendere. Per questo Iddio non fu contento di dire, si acuero ut fulgur gladium meum, ma v’aggiunse, et arripuerit Judicium manus mea, perché si sappia che questa spada di fuoco non tanto opera per la propria virtù, quanto perché è guidata dalla mano divina. – Si trovano oggi de’ fuochi artificiali, i quali arrivano ad ardere fino nelle acque; ed i Chimici fanno accendere nell’Antimonio un fuoco sì poderoso, si penetrante, che in paragone d’esso le fiamme delle fucine più ardenti paion fiamme di paglia. Quanto farà dunque furioso il fuoco infernale, fuoco artificiato bensì, ma dalla mano Divina? E per farvi intendere, esser questo fuoco d’inferno tanto spietato, riflettete, che il nostro fuoco fu creato da Dio per beneficio nostro; per scaldarci, per ricrearci; ma il fuoco infernale è creato, non per servo, ma per carnefice; è acceso in uno zolfo formato a posta per tormentare i peccatori e però se tanto tormenta i rei quella vampa, ch’è un dono della Divina beneficenza e liberalità; quanto più dovrà tormentare quello che è uno sfogo della Divina Giustizia? Io mi do a credere che se in questo fuoco vi cadesse una montagna di macigni e marmi durissimi, vi si disfarebbe tutta come cera, a facie tua registrò Isaia, montes defluerent. Certo è che un fuoco tanto minore, quanto è quello del Vesuvio e Mongibello liquefà i sassi, e riduce in cenere i macigni più duri spargendoli su’ Campi a guisa di nembi; acciocché gli uomini abbiano avanti gli occhi on leggiero abbozzo di quel fuoco molto maggiore che la fede ci addita a distruggimento degli scellerati. Son sì terribili quelle fiamme, R. A. che solo un infelice scolaro dall’Inferno comparso al suo maestro vivente, giusta la promessa gli stilò una goccia di sudore di quel gran fuoco sopra la mano ed in un istante da parte a parte lo traforò con spasimo da morirne. Or se il sudore cagionato da quelle fiamme che bruciano i dannati è più cocente ed ha forza tanto maggiore del nostro fuoco, chi negherà che il nostro fuoco non debba chiamarsi dipinto a paragone di quello dell’inferno? Avari, per voi sono preparate quelle fornaci, per voi ardono quelle fiamme, o irriverenti alle Chiese; per voi, o mormoratori; per voi bestemmiatori, per voi, o donne se foste vane con detrimento della vostra e dell’altrui onestà, per voi o padri, se male educaste i figli, se non soddisfaceste a’ legati pii, se non pagaste le mercedi, se v’ingrassaste con la roba altrui. Per voi o peccatori è preparato quest’inferno sì tormentoso di fuoco sì terribile. E pure ecco là colui, ecco là colei che, come se non gli bastasse per portarsi all’inferno quella sfrenata lascivia in cui vivono, hanno preso per cavalli di rilasso a covare in cuore un odio diabolico ed una cieca avarizia. – Il leone (Dio immortale) atterrito dalla vista del fuoco; ferma la zampa ed abbassa l’orgoglio, e tu peccatore e tu peccatrice alla vista dell’inferno non saprai fermare il passo al corso delle tue tante scelleraggini? Segui pure ed aspettati di peggio; poiché Drittelmo continua ad esclamare: acerbiora vidi. Dunque v’è nell’inferno tormento più fiero del fuoco? Sì! Pensieri miei disperati, e che cosa posso immaginarmi di più crudele? Finiscila una volta, Drittelmo, e palesa espressamente ciò che vedeste di più spietato. Non lo posso dire, pare risponda con Geremia, perché anche esso avendo veduto in spirito l’infernal macello esclamò secretum meum mihi; cioè, come spiega San Girolamo, non possum narrare. Non è possibile l’accennare, non che esprimere ciò che attonito vidi di terribile nell’inferno. E pure io vorrei fare apprendere qualche poco l’atrocità delle infernali pene, a chi mi ascolta. Ecco, che fò tutto lo sforzo per abbozzarvele UU. prendendo le parole di Dio nel Deuteronomio al ventesimoterzo. Udite: è Dio che parla, Congregabo super eos mala, rovescerò, dice Egli, sopra de’ dannati nell’inferno quanti castighi saprò mai inventare; non voglio che manchi loro neppure un tormento. Li voglio afflitti, flagellati, scarnificati, come appunto afferma l’Angelico: Nihil erit in damnatis, quod non fit eis materia, causa tristitiæ. Non consentono i medici che il corpo umano possa in un tempo stesso venire afflitto da tutti i mali di cui per altro è capace, perché essendo molti di questi l’uno all’altro contrari di qualità, non sono compatibili ad un tempo stesso in uno stesso soggetto; ma tale opinione, dice Drittelmo non corre colaggiù, nell’inferno, dove le pene, benché diverse, non saranno tra sé contrarie, ma si daranno la mano e due veleni non comporranno un antidoto, ma un tossico più mortale. In somma si verificheranno le parole divine: congregabo super eos mala. Tutti, ma tutti i mali piomberanno ad un tempo sopra de’ dannati. Or sì, che penso e Drittelmo d’aver trovato l’ultimo de’ supplizi, mentre di tutti i supplizi ne ho composto un supplicio solo: congregabo super eos mala: appunto quasi sdegnato mi risponde soggiungendo acerbiora vidit. Si si, taci, t’intendo. Ascoltatemi, o peccatori; e, se questo ultimo tormento de’ dannati non vi mette in capo l’orrore all’iniquità, sicché lasciate gli odi, abbandoniate le amicizie indegne, restituiate l’altrui, io per me, quasi dissi, dispero della vostra salute. Drittelmo si fa intendere, e dice che l’ultimo de’ supplizi tra’ dannati, è che colaggiù in quell’abisso sempre si morirà senza mai morire; sarà la morte immortale, e non avrà il bene del fine di tutti i mali: et dixi pertit finis meus. O eternità, eternità! voi miseri dannati, cercherete la morte per ristoro a’ vostri mali e mai la troverete: quærent mortem, et non invenient. Lo scorpione cinto d’ogni intorno da carboni accesi, disperato, si morde al fine tanto da sé medesimo e si uccide; ma quei meschini, non solo circondati, ma penetrati interiormente dal fuoco, non avranno tanta forza da terminare in simile modo i loro guai; bisognerà che sempre vivano in un continuo e disperato morire; domanderanno, come quel miserabile chiedeva a Tiberio imperatore la morte, a fine di terminare le molestie della prigione; e ne avranno per rispota quella che diede a questo infelice il monarca: nondum mecum in gratiam rediisit. La morte sarebbe un sogno d’essere ritornati in grazia, perché li leverebbe da quel continuo ed acerbissimo morire. – Santo Profeta Reale, che parlavi dell’eternità de’ dannati allorché dicesti: erit tempus eorum in sæcula, che volevi mai esprimere con quella parola in sæcula? Volevi forse dire, che quei miseri peneranno fino a tanto, che un piccolo cardellino tornato a bere una sola goccia per Anno, potesse giungere a seccar tutti i mari? Più … in sæcula. Volevi forse dire, che peneranno fino a tanto che un minuto vermetto tornato a dare un sol morso per anno, potesse giungere a divorar tutti i boschi? Più … , in sæcula. Volete dire, che peneranno fino a tanto che una leggera formica tornata a muovere un sol passo per anno, potesse giungere a girar tutta la terra? più … in sæcula. Velete voi dire, che se tutto il Mondo fosse pieno di minutissima arena, ed ogni secolo ne fosse tolto un sol grano, allora lasceranno i dannati di penare, quando tutto l’universo sarà vuotato? Più … in sæcula. Ma che volete voi dire? Forse volete dire che se questo mondo fosse tutto fatto di bronzo, e ad ogni secolo gli fosse dato un colpo allor lasceranno di penare quei miseri, quando l’universo sia tutto infranto? Più, più, in sæcula. Ma, Dio immortale! Io non intendo; facciamo dunque così per capire in qualche modo questa eternità. Fingiamo che un dannato, dopo ogni milione di secoli sparga due lacrime sole. Or ditemi Santo David, resterà egli di penare, quando abbia pianto tanto che le sue lacrime fossero bastanti a formare un Diluvio maggior di quello nel quale naufragò un mondo intero? Appunto, appunto, risponde il santo Profeta: tacete, che queste son similitudini da fanciullo: in sæcula, in sæcula, che è quanto dire secoli senza numero, senza termine, senza tassa. O eternità! O eternità! Rupi, grotte, spelonche, ove siete, perché venga attonito a rintanarmi dentro di voi, finché io giunga a capire… inferno, ed inferno eterno! – Ben capì questa verità la famosa peccatrice, quantunque idolatra, Eudocia colà nella città di Eliopoli in Fenicia. Era Eudocia dotata d’una bellezza sì rara, e d’una grazia sì manierosa, che non aveva pari. Nel più bel fiore della sua età si arrende ad un impudico amante; e perché nel convito de’ piaceri un sol cibo non sazia ma stuzzica l’appetito d’un altro, passò tant’oltre, che vende’ il suo corpo a chiunque lo voleva pagar ben caro. Onde non solo persone private, ma eziandio principi, rapiti dalla di lei beltà, andavano a trovarla, sicché in breve tempo ammassò un tesoro di ricchezze, ed una suppellettile da regina; albergava in un gran palazzo vicino alla porta della città, forse per esser più pronta a ricevere i forestieri che anche di lontano venivano attratti da lei calamita d’inferno. Iddio però, che la voleva à sé, usò un tratto della sua Providenza per guadagnarla. Dispose pertanto, che Germano santissimo monaco, ritornando dal pellegrinaggio di Palestina, passasse per Eliopoli, e da un buon Cristiano fosse alloggiato in una casa vicino al palazzo della rea femmina. Dopo una breve refezione fu condotto Germano in una camera a riposare contiguo al gabinetto ove stava l’infame letto d’Eudocia. Il monaco, secondo il suo costume, sulla mezza notte cominciò con alta voce a cantare i Salmi: indi preso in mano un sacro libro, che sempre portava seco, si diede a leggere con voce parimente sonora, quello, che lo Spirito Santo gli presentò innanzi ed era appunto delle pene eterne de’ peccatori nell’inferno. Or la divina Provvidenza, che voleva la conversione d’Eudocia, dispose ch’ella non solo fosse sola in quella notte, ma tutto udisse e tutta commossa si sentisse agitare da pensieri spaventosi; per tanto giunto il giorno chiama a sé un paggio, l’invia a ricercare di chi quella notte vicino a lei avesse salmeggiato, e lo pregasse portarsi da lei. Venne subito Germano, così inspirato da Dio, e sentendosi interrogare chi fosse, e d’onde venisse, a tutto rispose: e con tale occasione si mise a darle contezza delle verità evangeliche e particolarmente de’ castighi preparati per i lascivi, superbi ed avari. Adunque per me, replicò ella, che sono un’impudica, vana e superba, sono preparate pene sì grandi? Certo che sì, replicò il monaco, ma non vi sarebbe rimedio per liberarmene? Sì, soggiunse Germano, perché rinunciati i piaceri del senso, distribuiate le ricchezze mal acquistate a’ poveri e riceviate il santo Battesimo. Accettò la contrita donna il consiglio e, risoluta di prepararsi con penitenza al Sacramento, chiamata a sé la cameriera, ordinolle, che non introducesse a sé persona alcuna, e che a tutti dicesse, esser la signora fuori di casa. Se ne stava dunque ritirata la penitente Eudocia, quando apparitole un Angelo dal Cielo, le mostrò le pene dell’inferno alle quali era destinata se non si ravvedeva, e l’animò alla penitenza. Allora Eudocia vestita di ruvida tonaca si portò da Teodoro, Vescovo di Eliopoli ed a lui consegnò le ampie sue ricchezze che servirono per sostentamento de’ poveri, e per fondar monasteri. Indi ritiratasi in un claustro di sacre donne, cominciò vita santa e con tal lustro che di lì a poco fu fatta superiora di quella religiosa adunanza. Il diavolo che non poteva sopportar tanta perdita, sollecitò un certo Filostrato, che era uno de’ più cari amanti d’Eudocia, il quale adoprata ogn’arte per giungere a parlare ad Eudocia per distoglierla, giunse a fingersi monaco. Gli riuscì, ed a solo a solo in parlatorio così le disse: Eudocia, io vi vedo pallida e macilenta e con intorno una ruvida tunica, perché quel velo di canape in capo? Perché quella corda attorno al collo? Povera Eudocia quanto siete cambiata da quella che eravate! I vostri amanti v’aspettano; se temete l’inferno, vi sarà tempo da far penitenza. Su, risolvete, tornate, lasciate, Eudocia, allorché più voleva dire, con gli occhi bassi e voce adirata chiamò Dio che lo punisse; fu castigato, perché cadde mezzo morto, fu ravvivato per le preghiere di Eudocia, e per le medesime si convertì. Or io dico: mirate quanto poté in una idolatra il pensiero dell’inferno; la mutò del tutto, né solo questo pensiero convertì lei, ma la fece convertitrice degli altri. E voi Cristiani al pensiero di quelle pene non risorgerete da’ vizi? Su, su, dite ancor voi: inferno o penitenza!

LIMOSINA

S. Giovanni Crisostomo dice, che quello infelice ricco, non è sepolto nell’inferno perché fosse ricco, ma perché non fece elemosina a Lazaro mendico … non enim quoniam dives erat puniebatur, sed quia misericordiam non exibuit. Le ricchezze non mandano a casa del diavolo, ma bensì la crudeltà verso de’ poveri. E Sant’Agostino dice che ante fores gehennæ stat misericordia, avanti le porte dell’inferno vi sta la misericordia divina, ma voi piuttosto direte che vi sta la giustizia, perché nell’inferno, dove nulla est redemptio, non vi ha da fare la misericordia. V’ingannate, replica Sant’Agostino; v’ha da fare assai ed eccone la ragione, ante fores gehennæ stat misericordia, ut nullum misericordem in illum mitti carcerem permittat … la misericordia sta sulla porta dell’inferno, per non lasciare che laggiù v’entri alcuna persona misericordiosa; siate dunque liberali verso de’ poveri.

SECONDA PARTE.

Passeggiando un dì per una Galleria, Margherita d’Austria moglie di Filippo Terzo, teneva fisso lo sguardo in certa parte, e sospirando piangeva. Interrogata da una dama della cagione del suo pianto, additolle una pittura in cui vedevasi un capo di due strade, una delle quali conduceva ad un monte rappresentante il Paradiso; l’altra ad una caverna simbolo dell’inferno, e ponendo il dito sul principio del bivio, disse in hoc bivio adhuc sum, et non vis, ut plorem? Ah, che per verità chi ha un poco di stima dell’anima e senno in capo, dovrebbe disfarsi in lacrime per il solo pericolo di potersi dannare. Se fu Spirito di Dio quello che mosse la lingua del Crisostomo allorché predicando agli Antiocheni, disse: Quot esse putatis in hac Civitate, qui salus fiant e soggiunse: non possunt in tot millibus inveniri centum, qui salventur; quin et de illis dubito; e pure Antiochia era città grandissima, dove fioriva la fede, e trionfava la pietà. Se il Santo lo disse mosso da Spirito Divino: Città mia cara, a rivederci. Se di soli cento si prometteva, anzi neppur di tanti si assicurava della salute il Boccadoro, in una Antiochia; quanti dunque de’ tuoi cittadini, anche di questi che ora mi odono, ne andranno all’inferno? Che Iddio non lo voglia: neppur d’uno! Ditemi, UU. Questa sola paura non vi fa battere il cuore? Ma che orrore sarebbe il vostro, se sapeste di certo che alcuni di questi qui presenti si dovessero dannare? Ahime! Con che compassione li mirereste! E pare, se ora, prima d’uscir di Chiesa non vi risolvete a mutar vita, io quasi dissi, dispero della vostra salute. – Porilio Ambasciatore Romano disegnò, come sapete, un cerchio attorno ad Antioco, e gli predisse il tempo della ritirata dicendogli: hic stans delibera: non uscir di qui prima d’aver deliberato ciò che vuoi fare. Altrettanto io voglio praticar con voi. Fratelli miei, peccatori: io disegno intorno a voi la voragine d’inferno col circolo dell’eternità, e vi dico hic stans delibera, quì non vi è strada di mezzo: o inferno o lasciare la mala pratica: o inferno o restituire e la fama e la roba; o inferno o pacificarsi col prossimo: o inferno, o mutazione di costumi, peccatori miei cari. Risolvete una volta da vero di abbandonare il peccato e di non ingannar più, tradire voi stessi, perché i piaceri sono brevi, il penare è eterno. Lutero, quell’iniquo, quell’indegno che con lacrime di sangue fa tuttavia piangere alla Chiesa la perdita del settentrione, scordato della coscienza, della legge di Dio, pur qualche volta andava seco stesso dicendo: Luter nunc bene quid autem postea? Lutero, le cose ora vanno bene, spassi non mancano, crapule abbondano; piaceri di senso quanti ne vuoi, nunc bene, quid autem postea?… ma morto, che sarà di te, che sarà? Così vorrei io, che alcuni seguaci di Lutero, in quanto al vizio di senso, e crapula a se stesso dicessero, nunc bene, quid autem postea? Ah, che, se io vivo così licenziosamente: se non so staccarmi da quella pratica, se seguiterò a vivere in questi vizi: le cose andranno bene finché si vive: ma dopo all’inferno, alle pene  a’ tormenti, all’eternità de mali … – Dio immortale! io esco fuori di me, mentre rifletto che quantunque si sappiano queste verità, ad ogni modo si elegge di compiacere a’ sensi in vita; né si cura l’inferno. Così in fatti non mostrò curarsene quell’infelice cavaliere, di cui per degni rispetti taccio e nome e patria. Gran caso: uditemi. Aveva questi amicizia da lungo tempo con una dama quanto nobile per il sangue, altrettanto indegna per la professione. Accortisi i parenti della vergognosa tresca, risolsero toglier la macchia al parentado col sangue dell’adultero. Fingesi pertanto, che la Signora mandi a chiamare secondo il solito in ora stabilita l’amante, egli si allestisce all’andare; e già s’incammina, quando un buono amico accostatoglisi all’orecchio gli dice: avvertite, non andate … e perché? Rispose il cavaliere. Perché, replicò l’altro, son preparate insidie alla vostra vita; e invece di diletti incontrerete la morte; appunto ripigliò il cavaliere innamorato, chi mi chiama macchinerebbe la morte a chi m’insidiasse alla vita. No, so di certo, soggiunse l’amico esservi gente che sta per farvela: e se morirete andrete all’inferno. Dio eterno inorridite AA. a ciò, che segue. Nell’udir che fece il cavaliere: morirete ed andrete all’inferno, rispose con bocca esecranda, accecato dal disordinato affetto: per donna Maria si può andare all’inferno! Così disse e così seguì. Andò al posto, e restò sul tiro. Anima miserabile, anima dannata, vien qua, e dimmi ora, se tu sia del medesimo parere; già che ora provi ciò, che sia inferno, adesso che tu peni, cruci ed ardi nell’eternità delle pene, che dici? Si può andare per donna Maria all’inferno? – Ahime! Eccolo, eccolo; oh come brutto, come fetente, come va buttando fiamme dagli occhi, dalla bocca, dalle narici, ed orecchie! oh come è d’ogn’intorno circondato, anzi imbevuto tutto di fuoco, più che il ferro nella fornace! Piange, si contorce, smania, si dispera … Su o disgraziato: ebbene per una dama tale si può andare all’Inferno? Ti trovi contento dell’elezione? Ah me sfortunato, ah bestiale che to fui! Maledetta quella femmina scellerata, e quel pazzo mio capriccio. No, no, che non si può per una carogna in breve tempo goduta, venire in questi tormenti per tutta una eternità. O se potessi tornar fuori dell’inferno! Ma che faresti? vivrei, risponde, da buon Cristiano, e farei acerbissima penitenza de’ peccati commessi. Taci, taci, non vi è più tempo: conveniva pensarvi prima. Voi sì, cari UU. siete a tempo. Che risolvete pertanto? O inferno, o penitenza, o penitenza, o inferno eterno. Intendetela, e considerate, che è pazzia da chi non crede né Paradiso, né Dio, voler per breve piacere perdere il Cielo, ed acquistare l’inferno.

QUARESIMALE (XV)