QUARESIMALE (X)

QUARESIMALE (X)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMA
Nella Domenica seconda di Quaresima

Del Paradiso: Tutto si può, e si deve tollerare in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro.
Et transfiguratus est ante eos. S. Matt. cap. 17.

QUARESIMALE (X)

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Quaresima-Allegoria.jpg

QUARESIMALE (X)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMA
Nella Domenica seconda di Quaresima

Del Paradiso: Tutto si può, e si deve tollerare in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro.
Et transfiguratus est ante eos. S. Matt. cap. 17.

Non si può, no, grida l’Apostolo, giunto al terzo Cielo, avere vera notizia di ciò, che sia Paradiso, perché “Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, queæ Deus præparavit diligentibus se”. Ma non per questo voglio trascurare gli inviti di San Giovanni nell’Apocalisse, che con chiave d’oro c’apre il Paradiso: Ostendit nobis Sanctam Civitatem Jerusalem. Inoltriamoci dunque a rimirare questa Patria eterna de’ Beati, giacché a tanto ci consiglia San Girolamo, scrivendo ad Eustachio: Paradisum mente perambula, ch’è quanto dicesse scorri pure il Paradiso non con occhio corporeo, che tanto non vale, ma col lume della Fede. La fede dunque dia a noi questa mane e qualche notizia del Paradiso, e contentatevi, che io pratichi con voi, quel che fece colui, riferito da Jerocle Greco, il quale per far venire in cognizione di qual bellezza fosse il suo Palazzo, ne mostrò una sola pietra: Così io con il santo lume della Fede non più vi mostri che una pietra di Paradiso, che vale a dire un grado solo di Gloria, e questo v’assicuri, che supera quanto di bene possa immaginarsi, non che trovarsi in tutto l’Universo; dal che arguirete se sia bene tollerare ogni travaglio in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Ecco dunque, che ancor io vi porto in mostra una piccolissima pietra di quella celeste Gerusalemme, acciocché dalla di lei preziosità abbiate un sbozzo del Paradiso. L’Angelico San Tommaso me la pone in mano con assicurarci che un sol grado di Gloria, vale più che tutto il Creato e creabile: Bonum gratiæ etiam minima unius animæ particularis, majus est, quam omnia bona naturæ totius Úniversi. – Posta questa verità, figuratevi pure un gran signore che a niuno ceda nella sublimità de’ natali e tutti superi nelle aderenze d’illustri parentele. Dategli per abitazione nella città regina del mondo un palazzo sì sontuoso che superi di gran lunga quel regio de’ monarchi della Cina, ove, al riferire de’ storici, contavansi sessanta nove camere tutte alla stesa, una più bella dell’altra, e fra queste quattro, vedeansi tra le principali, essendo la prima coperta a lamine di rame artificiosamente storiato di finissimo argento, la seconda d’oro, la terza e la quarta ove il principe dimorava, rimiravasi tutta tempestata di perle e gemme preziose. Possieda questo signore per ornamento della sua reggia, mense intarsiate di diamanti, scrigni tempestati di rubini, ed abbia gioie in tal numero che possa, niente inferiore ad Ottone Augusto, dispensare a chi gl’aggrada un milione e due cento mila scudi, che egli donò alla capella di Giove Capitolino, e superiore al tanto rinomato Nipote di Lillio possa adornarsi con un milione e mezzo, che con tante appunto vi comparve in un ballo; abbia altresì per sua mera delizia entro il nobile suo giardino, quell’albero, che da Luitprando fu veduto, ed ammirato nel gran Salone di Costantinopoli: Era questo tutto di bronzo, e carico d’augelli d’oro, che dolcemente a forza d’arte cantavano; oppure quell’altro veduto con ammirazione da Marco Polo nella Reggia del Gran Khan, mercè che era d’oro massiccio, e gli pendevano per frutti, grosse perle: ne pare manchi ad un signore di tanta maestà il seguito di nobile e numerosa servitù; gli si concedano pure oltre al numero ben grande di cavalieri e principi che lo assistano nelle anticamere, quei seicento paggi, de’ quali Antioco si servì nel regio convito di Dafne. Erano questi tutti vestiti di broccato a gala, e tutti coronati di gemme e con gran vasi d’oro andavano per tutto spargendo preziosi unguenti. Or ditemi, uditori, il possesso di tanta ricchezza e di tesori sì immensi posseduti da un signore sì grande, possono forse paragonarsi ad un grado di Gloria, che si goda in Cielo? Appunto perché quante furono, sono, e saranno gioie, tesori nel mondo non bastano, sborsati a’ primi Medici delle Università più accreditati, per fare, che non vi travagli in vita un affanno di petto, un dolor di testa, un crucio di denti, dove che un sol grado di Gloria vi dà il possesso di tesori infinitamente maggiori, e di più, vi libera da quanti possano immaginarsi mali nel mondo. Padre! Deh sentite, che volete signora? O s’io potessi avere la minima parte di quelle gioie, mi parerebbe di godere non un grado di Gloria, ma un intero Paradiso; bene, io vi rispondo, e per questo, che ponete di qua il Paradiso negli ornamenti, nelle vanità, non l’avrete di là.
Passo avanti, e giacché il mondo come insaziabile non solo vuole le ricchezze, ma per essere ancor più beato, ama di dominare, voglio vedere se non potendosi un grado di Gloria eguagliare con tanti tesori, possa almeno paragonar con l’assoluto dominio di gran parte del mondo. Diasi adunque à questo signore non solo questa vostra Provincia ricca di terre sì illustri, e di città sì nobili, ma un regno, un impervio, anzi l’Europa tutta, che vale a dire: abbia il possesso di quanto con assoluto comando dominino un Pontefice Romano, due Imperatori, d’Occidente uno in Vienna di Germania, d’Oriente l’altro in Constantinopoli di Romania; di quanto possiedono sette regi, due granduchi, sei repubbliche, dodici Principi Ecclesiastici, e tanti duchi d’altezza, con i due serenissimi marchesi di Brandemburgo e Baden. Or bene, tutto questo gran Dominio può paragonarsi ad un grado di Gloria? Appunto, appunto, aggiungete pure ai Regni, e Imperi d’Europa, quanti ne vantano con l’Asia, l’Africa, e l’America, e poi afferite con tutta verità, che vale più un solo grado di Gloria, che non è tutto il possesso d’un mondo intero, perché un grado di Gloria vi dà infinitamente più, e vi costituisce monarchi di tal grandezza, che formando di tutte le umane grandezze una sola grandezza, è un nulla, a paragone di quella, in cui vi costituisce un grado di Gloria. O grado di Gloria, che gran bene porti a chi ti possiede e pure colui dentro di sé dice: potessi io avere non un mondo, ma un piccolo comando,
che volentieri rinuncerei a questo grado di Gloria, perché così potrei soddisfare alle mie vendette, e compiacere a’ miei sensi. Ah stolti, ah pazzi, che così sprezzate i gradi di Gloria? Se bene mi consolerei quando i peccatori per un piacere peccaminoso facessero gettito d’un bene che nulla più valesse di quel che valga questa terra; ah che maggiore è la perdita, mercè che un grado di Gloria non solo vale più di tutta la terra, ma di tutto il Cielo, di tutta la material città de’ Beati. Il Paradiso, come saprete, è quella Città posta in una bellissima pianura, la quale occupa dodici mila stadii, che vale a dire, mille e cinquecento miglia per lunghezza, ed altrettanto per larghezza. In questa Città solamente si ammira ogni bellezza, ogni preziosità, essa solamente può chiamarli Civitas perfecti decoris. L’oro, che tra noi fregia le stanze più nobili, ivi lastrica le strade più popolari; e le gemme che qua giù si portano sul capo, son colassù calpestate dal piede. Su avarizia portati con gl’occhi in Cielo, già che non puoi entrarvi con i piedi, sporgi il capo dentro ad uno di quei finestrini, per i quali Daniele di Babilonia vagheggiava un giorno Gerusalemme; mira un poco se le ricchezze che colassù si possiedono, sono da posporsi alla terra; pensa un po’ se meritano che tu le getti per quell’affetto disordinato che hai alla roba; per quell’interesse che ti stringe le mani, finché non soddisfi né mercedi, né pii legati. Uditori miei, tenete pur fissi gl’occhi nelle ricchezze celesti, e poi siate sicuri, che 7sprezzerete la terra. Accadrà per appunto à voi, come à colui che avendo prima studiata la Geografia, e formato sommo concetto della terra perché  l’aveva sentita dividere in tante provincie, regni, ed imperii, andato poi a prender lezione da un astrologo si sentì supporre la terra stessa per un punto che sta nel centro de’ Cieli; di che meravigliato, non si soddisfece, finché sentì per risposta l’uno, e l’altro non discostarsi dal vero poiché chi contempla la terra da se sola ha ragione di stimarla per grande, ma chi la paragona con i cieli, non può non disprezzarla per piccola, e pure e terra e cielo sono un nulla à paragone d’un grado di Gloria. O Dio e può trovarsi chi per un bene da nulla sprezzi quella Gloria che gli porta un sì gran bene? Passiamo avanti, e dopo aver consegnato a quel monarca e terra e cielo, tutto inferiore ad un grado di Gloria, giacché Nullius rei sine socio jucunda est possessio, gli si dia per compagno un esercito d’Angeli vestiti di luce, di vergini bianche come gigli di Martiri imporporati di palme, di confessori candidi al par delle nevi. Più gli sia dato, e finisca di coronare la sua gioconda conversazione la più bella, la più eccellente, la più santa di tutte le creature che siano mai uscite dalle mani di Dio, dico Maria, che sola sola potrebbe farvi gioire d’allegrezza, avendo Ella forza d’incatenare ogni cuore. Eppur, tutto ciò, chi’l crederebbe, è inferiore ad un grado di Gloria, giacché, come dice Agostino, un grado di Gloria: Est majus bonum quam Cælum, Terra et quidquid in illis includitur. Perché  tutte queste cose vi dà il grado di Gloria e di più vi concede eternamente goderle. Un grado di Gloria sì guadagnato con una limosina, con una corona, con un’opera pia fatta per Gesù, è un bene incomparabilmente maggiore, eppure si sprezzano questi beni di Paradiso, e vogliono i fuggitivi della terra, finché parmi sentire chi, bestemmiando, dica che Grazia di Gloria in Cielo? Il nostro Paradiso lo vogliamo in terra tra i comodi, tra le delizie, tra’ piaceri. Dio immortale! E  se è vero, come è verissimo, che il possesso de’ beni, il dominio del mondo, il godimento della Patria de’ Beati, con la conversazione de’ Santi e della Vergine stessa, tutto inferiore ad un grado di Gloria che si goda in Cielo, che farò io per darli paragone che vaglia? Orsù mi sia lecito di dire che per eguagliare, se non per superare questo grado di Gloria, cavi Iddio con la sua Onnipotenza dal nulla, e dia l’essere a nuovi mondi di gran lunga superiori. Voi ben sapete che Iddio scherzò allorché sbalzò dal nulla questa gran macchina del mondo, con porvi un globo di fuoco che con i suoi raggi di luce sgombrasse quelle tenebre, che erant fuper faciem terra; scherzò allorché diede commissione al sole di provvedere di luce; la luna, che con i suoi raggi d’argento scemasse qualche poco l’oscurità della notte; scherzò quando sparse per il cielo lucidissime stelle; furono scherzi la formazione d’una terra sì vasta, d’un mare si smisurato, perché allor si diportò come Ludens in Orbe terrarum. S’alleni, per così dire, l’Onnipotenza, e se allora adoperò un dito della sua destra, impieghi ora la mano ed il braccio, e faccia comparire non uno, ma mille mondi, faccia che in essi la terra non più produca né triboli di disgusti, né spine d’amarezze, ma solo germogli, rose di contentezze, faccia un mare, che sempre in calma, mai minacci tempeste, dal quale siano esiliati i naufragi e ad ogni scoglio possa dirsi: qui abbiamo il porto, stenda i cieli che con la loro serenità continua, mantengano il brio delle allegrezze, non si veda mai folgoreggiare per aria un lampo, niun tuono spaventi, niun fulmine precipiti, e quivi vi sia dato vivere sani e robusti per mille anni, al fine de quali, senza provare agitazione di morte, sia trasportato il vostro spirito con somma quiete sopra del cielo, e giunto ad una di quelle dodici porte di diamante, spalanchisi ad un tratto, e rimbombando sonore le trombe, giulivi vi escano incontro con angeliche squadre di Martiri, torme di sacri confessori, drappelli di caste vergini e vi ricevano, narrandovi con lingue di Paradiso le grandezze di quella abitazione veramente regia. Eppure, tutto ciò non può formare quella piccola pietra che v’ho portata qui in mostra d’un sol grado di Gloria. E come è possibile, sento chi mi dice che un grado di Gloria contenga in se un bene sì smisurato, che superi quanto finora s’è detto? Così è, eccovi la risposta: prendete un diamante e ponetelo a confronto con tutti i marmi più belli della terra, e voi vedrete in quel diamante una tale prerogativa che non troverete in tutti i marmi immaginabili, cioè a dire uno scintillar sì luminoso che vi sembrerà una piccola stella della terra, e questa luce sì nobile mai mai troverete in tutti i marmi del mondo. Or così va, miei uditori, chi godrà un grado di Gloria avrà, per mezzo di quello, o Dio, che non avrà? O grado di Gloria quanto sei stimabile! Eppure tanti ti sprezzano. O Pater Abram, Pater Abram; Ahimè, queste sono voci d’Inferno; E perché turbare i discorsi di Paradiso? Son voci d’Epulone, che pretendi da Abramo? Non altro che una stilla di Paradiso: Mitte Lazarum ut intingat extremum digiti in aquam, refrigeret linguam meam. Tu deliri, o Epulone, mentre per estinguere le ardenti fiamme, che ti abbruciano, nulla più domandi d’una stilla? Io so che il Mongibello quando con le ardenti sue fiamme entra nell’Onde, le divora, ed il Mar Tirreno agl’assalti del Vesuvio mette in fuga e tu sciocco, con una stilla d’acqua pretendi estinguere l’inferno? Taci, stolto che sei! Tacete voi, risponde a noi Sant’Agostino. Tacete, sì si, una sola goccia, un sol grado di quelle stillate dolcezze del Paradiso, delle quali parlò in spirito Gioele, allorché disse: In illa die stillabunt montes dulcedinem, una sola, dice, di quelle gocce, basta non solo a smorzare, ma a disfare tutto l’inferno, e mutarlo in Paradiso; ecco le parole del Santo Dottore: Tota dulcescerer damnatorum amaritudo. – Cada una sola stilla di quei torrenti di Paradiso nell’inferno ed eccolo un Paradiso, non più abitato da’ demoni, ma dagl’Angeli; non più tenebre, ma luce; non più catene, ma libertà; non più dolori, non più spasimi, ma sanità perfetta, godimenti inenarrabili. Tota dulcesceret damnatorum amaritudo. O quam magna, esclami pure ogn’uno col Profeta, multitudo dulcedinis tuæ Domine! Ma sento chi mi dice: noi più di proposito brameremmo questo gran bene, se n’avessimo più distinta notizia, se sapessimo più distintamente ciò che sia questo grado di Gloria! Che sarà mai dunque questo grado di Gloria, mentre non porterà seco solo vedere le pompe trionfali di quelle Gerarchie Celesti che faranno corteggio al Re Sovrano, né pure rimirare i Santi vestiti di Corpo glorioso, sì penetrante che potrà passare per mezzo d’ogni monte, come ora il sole passa per un cristallo sì agile, che potrà in un subito calare dal Paradiso in terra, così impassibile, come impassibile è l’anima; così luminoso, che se un Beato mettesse fuori del Cielo una mano, basterebbe per illuminare tutto l’universo cento volte più che fa il sole: Fulgebunt justi sicut sol in Regno Patris eorum, mentre non sarà rimirare Maria sempre Vergine, il di cui sembiante ci terrà incatenati i cuori; Maria, Maria nostra Avvocata, nostra Signora, nostra Protettrice, le di cui bellezze sono il miracolo de’ miracoli, finché come scrive Sant’Ignazio Martire in una delle sue lettere, mentre Maria era ancora in terra, concorrevano a truppe i popoli per vederla. Che sarà dunque questo grado di gloria, che sarà? Sarà vedere un abisso di splendori in un teatro di maestà, in un centro di gloria Iddio, videbitis eum sicuti est. E che vuol dire, uditori miei, vedere Iddio? Chi mi avvalora il pensiero, chi mi purga la lingua, sicché io possa in parte spiegarvi quel che vedrete vedendo Dio? Vedrete quello che è la Beatitudine universale di tutte le creature; vedendo Lui non pensate già di vedere niuno di questi oggetti creati; Egli increato, questi materiali; Egli purissimo spirito, questi difettosi; Egli perfettissimo, e pure tutto ciò, che vedrete fuori di Lui, immaginatevi che voi tosto vedrete; vedendo Lui, vedrete Dio. Oh chi potesse ridire che sarà del vostro cuore a quel primo sguardo? Oh che deliqui d’amore voi sentirete! Che vampe di carità, che rapimenti, e che estasi! Che dolcezze! Allora sì, che adorerete tanta Maestà, e quasi reputandovi indegni di sì gran bene, vorrete sospirare, vorrete piangere per un certo solito sfogo di tenerezza, ma non vi farà permesso, no: Non audietur ultra vox fletus, et vox clamoris, crediatelo ad Isaia. Che direte allor, che vi vedrete Beati, che vale a dire al possesso di tutti i beni per goderli non solo perfettamente, ma eternamente? Allora tutta giubilo nel suo cuore, dirà quella verginella: beata quell’ora, beato quel punto in cui voltai le spalle a quell’amante, ricusai i suoi regali, ributtai le sue imbasciate; beata me, che ho conservato intatto il giglio della mia verginità. Allora, sopraffatta dal giubilo, esclamerà quella maritata: o quanto feci bene a sopportare le tirannie del mio consorte, mi strappazzò con parole, mi percosse più volte, non fui moglie, fui serva, fui schiava, ma la mia pazienza? Ecco dove m’ha portata: al possesso di tutti i beni per goderli perfettamente, eternamente. Son finite le grida, son finiti i dolori, ecco il giubilo, ecco il contento! Allora, pieni d’allegrezza esclameranno quegl’uomini, quelle donne: felici noi per quel punto in cui demmo la pace all’inimico; felici noi perché non imbrattammo le nostre mani con roba altrui; felici noi perché portammo rispetto alle Chiese; felice l’ora in cui abbandonai quel compagno sì dissoluto; felice quel punto in cui abbandonato il mondo, mi ritirai nel chiostro. Ah, che se per me venisse mai un’ora così beata, che mi vedessi ammesso nel possesso di tanta gloria, ancor io, in qual sentimenti, in quali atti, in quali parole proromperei? Se mi sarà permesso accostarmi a quel Soglio Divino: Et veniam ad Solium ejus. Io voglio dire al mio Dio; che vorrei dire, se sopraffatto dall’amore, mi converrebbe attonito tacere. Taccio, ma mentre io fò silenzio; tu peccatore, tu peccatrice alza gl’occhi, e poi dirottamente piangendo esclama con dolorosa voce: Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me! Son belli quei Palazzi alla Reale, ma non sono per me; li demeritai allor che profanai le mie sale con veglie e balli; le mie Stanze con giuochi; le mie camere più segrete con replicate disonestà. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me. Son belli quei diamanti, quelle perle, quelle gioie che t’adornano, ma non per me; le demeritai allor che feci gettito della più bella gioia che si prezzi in Cielo: la santa virginità; Paradiso sei bello, ma non sei per me. È nobile la conversazione di quei tanti Angeli, di quei tanti Cherubini, e quei tanti Serafini, che ardono di santo Amore verso del loro Iddio, ma non è per me, che sempre avvampai di amor profano in odio al mondo, in odio a Dio. Paradiso sei bello, ma non sei per me: Non è per me la compagnia di quei Santi confessori perché chiamato al par di loro alle solitudini del Chiostro, vi stetti con gl’affetti nel secolo, innalzato alla dignità di Sacerdote mi portai al Sacro Altare con rozza mente, con laido cuore, maneggiai Cristo al par del fango. Paradiso sei ben bello, ma non sei per me; non è per me la compagnia di quei Santi penitenti nel mondo, mentre io vi son vissuto tra crapule e lussi; non è per me poter fissare gl’occhi in quei drappelli di caste vergini, molto meno nell’amabile volto di Maria, mentre io con occhio anche sacrilego tramai insidie alla castità più custodita. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me perché, troppo interessato, non mi curai delle tue ricchezze per aver la roba altrui; non sei per me, perché troppo avido d’onori, ricusai le tue eterne dignità. Paradiso non sei per me, perché troppo vana stimai più la mia caduca bellezza che la tua; non sei per me: troppo fui irriverente nelle Chiese, troppo dedito alle vendette, troppo disubbidiente a’ miei maggiori, disprezzatore de’ Sacerdoti, e sempre diedi mal esempio alla mia famiglia; da me impararono i figli le bestemmie, le mormorazioni, le disonestà; da me impararono le figlie ad amoreggiare dalle finestre, nelle porte, per le strade; io li precedevo nella, io l’istigavo agl’ornamenti, io li posi sull’orlo de’ precipizi, io gli feci perdere con l’onore anche l’anima, e però Paradiso sei bello, ma non sei per me. Misero peccatore, misera peccatrice, e non ti crepa il cuore alla rimembranza di dover dire, se non muti vita … Paradiso sei bello, ma non sei per me: muta vita, lascia l’iniquità rinuncia al demonio, osserva i Comadamenti per poter alla tua morte proferire queste parole di giubilo Paradiso, Paradiso sei bello, e sei per me; sei bello, e sei per me.

LIMOSINA

Iddio per Isaia pone in vendita il Paradiso: Properate emite. Bisogna miei uditori, comprare il Cielo, non vi sgomenti la preziosità sua, poiché ciascuno di noi ha tanto di capitale che basta per una tal compra, non vi vuole più, dice San Pier Crisologo, che un pezzo di pane, un poco di limosina distribuita a’ poveri si può spender meno? Deus Regnum suum fragmento panis vendit et quis excusare poterit non ementem, quem tanta vilitas venditionis accusat? E pure si trova chi ne pure a prezzo sì vile vuole comprare il Paradiso. Ah Dio! Vende, Iddio a poco prezzo i piaceri del Cielo, non vi è chi li voglia; vende il demonio i piaceri del mondo a gran prezzo, ed ognuno compera, si spende ne’ giuochi, ne’ conviti, nelle feste, nelle pompe, nelle vanità, sarebbe poco, nelle vendette, nelle disonestà, e per il Paradiso non solo non vi è oro, né argento, ma neppur rame per sovvenir la povertà d’un mendico.

SECONDA PARTE.

Il Cielo, uditori, al dire dell’Evangelista, s’acquista per via di negozio, di traffico: Simile est Regnum Cælorum homini negotiatori: Se ciò è vero, come è verissimo, voi ben sapete, che è legge di buon negoziante trasportare in Paese straniero quelle merci, che colà non sono, e di là portare quelle che nel proprio o non nascono o non si lavorano. Bisogna dunque se vogliamo guadagnare il Cielo per via di traffico, come ci addita il Redentore, che noi colassù mandiamo quelle merci che v’hanno spaccio, e che ivi non si trovano. Desistete, o ricchi, d’accumular più quell’oro, che racchiudete in cassa, e sol lucrate in vani ornamenti, in superflue vanità. Avari, non occorre con nuove usure, con traffici illeciti accrescere le vostre ricchezze, non manca oro in Cielo, già v’ho detto, che tutte le Grade Piazze son fabbricate Ex auro purissimo. Donne, quelle pietre preziose, quei diamanti, quelle perle che con tanta vanità v’adornano, non vi comprano il Cielo, perché colassù fino le porte, le mura, le torri sono gemme: Porte nitent margaritis, omnes muri tui, et turres Jerusalem gemmis edificabuntur. Ambiziosi, non tramate più la rovina del prossimo per salire a quella dignità, a quel posto, non mancano titolati e grandi nel Cielo, mentre tutti i Beati sono un popolo di regi: Percipite Regnum vobis paratum a Patre meo. Uditori, ori, gemme, onori non hanno spaccio in Paradiso perché di queste merci il Paradiso n’abbonda. Dunque se volete guadagnarlo col traffico, portate colassù le merci che non vi sono: In Cielo non v’è pianto, non v’è dolore; in Cielo non v’è tempo, essendovi l’eternità … Non erit ibi luctus, neque dolor erit ultra: Dunque per ottenere il Cielo vi vogliono lacrime di cuor contrito, dolori di patimenti, di tribolazioni tollerate con pazienza. Queste sono le merci che hanno spaccio nel Cielo, e queste ci otterranno il Paradiso. Eccovi il modo d’ottenere il Cielo, guadagnarselo con portare di là la mercanzia che non v’è, che vale a dire patimenti; e se così farete, Isaia vi assicura, che qui vicerit possidebit hæc: tutto questo sì gran bene del Paradiso è per voi, di grazia non vi lasciate accecare da i diletti peccaminosi di qua, che presto v’invola la morte, ma solo attendete agl’eterni dell’altra vita. Volete, che io v’insegni un altro modo per guadagnare il Paradiso? Fissate spesso gl’occhi colassù, perché così vivrete bene, ed il Paradiso sarà vostro. Tito e Domiziano, ambedue figli del vecchio Imperatore Vespasiano, furono fra di loro sì differenti, e riuscirono di natura e di costumi sì varii, che Tito fratello maggiore al dir di Svetonio fu chiamato: Delitiæ Generis humani, e Domiziano: Flagitium Generis humani. Per rendersi buono e di costumi sì retti Tito, v’ebbe gran parte la prudenza del suo Aio, che per molto tempo gli assisté. Fattosi notte conduceva costui il giovinetto Tito in una loggia; indi dicevagli: Volgete gl’occhi alle stelle; vedete quella figura formata di vent’otto Stelle, si chiama Ercole , ed ha ottenuta quella stanza colassù in cielo, perché nel mondo atterrò molti mostri; ve l’otterrete ancor voi, se riporterete vittoria di quei vizi che infettano il mondo. Udite: quell’altra costellazione formata di ventisei sfavillanti lumiere, si chiama Perseo, e fu quel giovane sì generoso, che fece guerra alle Gorgoni, e con un colpo di lancia sviscerò l’Orca Marina, liberandone Andromeda, sicché non fosse divorata; or così appunto sfavillerete ancor voi se col braccio della vostra autorità difenderete l’onore delle matrone, e la pudicizia delle donzelle. Date ancora un’occhiata a quelle due figurine composte ambedue di nove stelle; sono Castore e Polluce, e voi ancora v’avrete questo splendore se qui nel mondo fomenterete la pace, e v’amerete con i sudditi: volete altro anche con volgere gl’occhi a queste menzogne; si rese Tito principe sì buono, vi delitiæ generis humani vocaretur. Deh date un’occhiata a quei Giusti del Paradiso, … Qui fulgent quasi stelle in perpetuas æternitates, e chi vi tiene, chi v’impedisce? Vedete colà quella matrona coronata di tanta gloria, ella è Francesca Romana. Chi v’impedisce o vedove un simil posto? Vedete colassù quella Cunegonda, chi v’impedisce o maritate un simil possesso? Chi o donzelle? mirate le Lucíe! Chi o contadini? mirate un’Isidoro! Suspice Cælum, dice Agostino, et accipies Cælum. – Mi giova credere, che alla mia predica siano molti e molte che abbiano da vedere fra poco la Gloria che io non ho saputo descrivere. S’io sapessi chi sono, oh con che ossequio li rimirerei; qual santa invidia m’occuperebbe il cuore, vorrei fino baciar la terra che calpestano. Ma ahi, che sento mutarmi l’allegrezza in pena; così non fosse: vi saranno anche molti e molte che non la vedranno mai … s’io sapessi quali sono! Vorrei scendere da questo pulpito e, afferratili per un braccio, dir loro: Ah infelice, vuoi dunque perdere il Paradiso, abitazione sì bella, la compagnia de’ Santi, di Maria, di Dio, per non lasciare quella maledetta amicizia, per non restituire quella roba, per non perdonare a quell’inimico? Leggo pure in Erodoto di quell’Egistrato Eleo che, tenuto legato da una catena ad un piede da’ demoni, per poter correre alla bramata libertà, recise quel piede che gliela impediva; e tu non avrai animo, non per una libertà, che finisce, ma per l’eternità, di troncare quei legami lascivi? non l’avrai? Andate dunque a casa, e questa sera sull’imbrunir di notte, dite, mirando il Cielo: Sei pur bello Paradiso, ma forse non sarai per me.

QUARESIMALE (XI)



Visibilità

Pubblica

URLFormato articolo

10 revisioni

Cerca categorieCalendario liturgicoomelieApocalisseDevozioniDocumentaDottrinaEcco il nemico!GREGORIO XVIII Santiil MagisteroIPSA conteret …letteratura cattolicanonno Basiliononno BasilioPerle cattolichepreghiereSalmiSpirito SantoSTORIA della CHIESA

Scrivi un riassunto (facoltativo)

Per saperne di più sui riassunti manuali(si apre in una nuova scheda)

  • Articolo

Non si può, no, grida l’Apostolo, giunto al terzo Cielo, avere vera notizia di ciò, che sia Paradiso, perché “Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, queæ Deus præparavit diligentibus se”. Ma non per questo voglio trascurare gli inviti di San Giovanni nell’Apocalisse, che con chiave d’oro c’apre il Paradiso: Ostendit nobis Sanctam Civitatem Jerusalem. Inoltriamoci dunque a rimirare questa Patria eterna de’ Beati, giacché a tanto ci consiglia San Girolamo, scrivendo ad Eustachio: Paradisum mente perambula, ch’è quanto dicesse scorri pure il Paradiso non con occhio corporeo, che tanto non vale, ma col lume della Fede. La fede dunque dia a noi questa mane e qualche notizia del Paradiso, e contentatevi, che io pratichi con voi, quel che fece colui, riferito da Jerocle Greco, il quale per far venire in cognizione di qual bellezza fosse il suo Palazzo, ne mostrò una sola pietra: Così io con il santo lume della Fede non più vi mostri che una pietra di Paradiso, che vale a dire un grado solo di Gloria, e questo v’assicuri, che supera quanto di bene possa immaginarsi, non che trovarsi in tutto l’Universo; dal che arguirete se sia bene tollerare ogni travaglio in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Ecco dunque, che ancor io vi porto in mostra una piccolissima pietra di quella celeste Gerusalemme, acciocché dalla di lei preziosità abbiate un sbozzo del Paradiso. L’Angelico San Tommaso me la pone in mano con assicurarci che un sol grado di Gloria, vale più che tutto il Creato e creabile: Bonum gratiæ etiam minima unius animæ particularis, majus est, quam omnia bona naturæ totius Úniversi. – Posta questa verità, figuratevi pure un gran signore che a niuno ceda nella sublimità de’ natali e tutti superi nelle aderenze d’illustri parentele. Dategli per abitazione nella città regina del mondo un palazzo sì sontuoso che superi di gran lunga quel regio de’ monarchi della Cina, ove, al riferire de’ storici, contavansi sessanta nove camere tutte alla stesa, una più bella dell’altra, e fra queste quattro, vedeansi tra le principali, essendo la prima coperta a lamine di rame artificiosamente storiato di finissimo argento, la seconda d’oro, la terza e la quarta ove il principe dimorava, rimiravasi tutta tempestata di perle e gemme preziose. Possieda questo signore per ornamento della sua reggia, mense intarsiate di diamanti, scrigni tempestati di rubini, ed abbia gioie in tal numero che possa, niente inferiore ad Ottone Augusto, dispensare a chi gl’aggrada un milione e due cento mila scudi, che egli donò alla capella di Giove Capitolino, e superiore al tanto rinomato Nipote di Lillio possa adornarsi con un milione e mezzo, che con tante appunto vi comparve in un ballo; abbia altresì per sua mera delizia entro il nobile suo giardino, quell’albero, che da Luitprando fu veduto, ed ammirato nel gran Salone di Costantinopoli: Era questo tutto di bronzo, e carico d’augelli d’oro, che dolcemente a forza d’arte cantavano; oppure quell’altro veduto con ammirazione da Marco Polo nella Reggia del Gran Khan, mercè che era d’oro massiccio, e gli pendevano per frutti, grosse perle: ne pare manchi ad un signore di tanta maestà il seguito di nobile e numerosa servitù; gli si concedano pure oltre al numero ben grande di cavalieri e principi che lo assistano nelle anticamere, quei seicento paggi, de’ quali Antioco si servì nel regio convito di Dafne. Erano questi tutti vestiti di broccato a gala, e tutti coronati di gemme e con gran vasi d’oro andavano per tutto spargendo preziosi unguenti. Or ditemi, uditori, il possesso di tanta ricchezza e di tesori sì immensi posseduti da un signore sì grande, possono forse paragonarsi ad un grado di Gloria, che si goda in Cielo? Appunto perché quante furono, sono, e saranno gioie, tesori nel mondo non bastano, sborsati a’ primi Medici delle Università più accreditati, per fare, che non vi travagli in vita un affanno di petto, un dolor di testa, un crucio di denti, dove che un sol grado di Gloria vi dà il possesso di tesori infinitamente maggiori, e di più, vi libera da quanti possano immaginarsi mali nel mondo. Padre! Deh sentite, che volete signora? O s’io potessi avere la minima parte di quelle gioie, mi parerebbe di godere non un grado di Gloria, ma un intero Paradiso; bene, io vi rispondo, e per questo, che ponete di qua il Paradiso negli ornamenti, nelle vanità, non l’avrete di là.
Passo avanti, e giacché il mondo come insaziabile non solo vuole le ricchezze, ma per essere ancor più beato, ama di dominare, voglio vedere se non potendosi un grado di Gloria eguagliare con tanti tesori, possa almeno paragonar con l’assoluto dominio di gran parte del mondo. Diasi adunque à questo signore non solo questa vostra Provincia ricca di terre sì illustri, e di città sì nobili, ma un regno, un impervio, anzi l’Europa tutta, che vale a dire: abbia il possesso di quanto con assoluto comando dominino un Pontefice Romano, due Imperatori, d’Occidente uno in Vienna di Germania, d’Oriente l’altro in Constantinopoli di Romania; di quanto possiedono sette regi, due granduchi, sei repubbliche, dodici Principi Ecclesiastici, e tanti duchi d’altezza, con i due serenissimi marchesi di Brandemburgo e Baden. Or bene, tutto questo gran Dominio può paragonarsi ad un grado di Gloria? Appunto, appunto, aggiungete pure ai Regni, e Imperi d’Europa, quanti ne vantano con l’Asia, l’Africa, e l’America, e poi afferite con tutta verità, che vale più un solo grado di Gloria, che non è tutto il possesso d’un mondo intero, perché un grado di Gloria vi dà infinitamente più, e vi costituisce monarchi di tal grandezza, che formando di tutte le umane grandezze una sola grandezza, è un nulla, a paragone di quella, in cui vi costituisce un grado di Gloria. O grado di Gloria, che gran bene porti a chi ti possiede e pure colui dentro di sé dice: potessi io avere non un mondo, ma un piccolo comando,
che volentieri rinuncerei a questo grado di Gloria, perché così potrei soddisfare alle mie vendette, e compiacere a’ miei sensi. Ah stolti, ah pazzi, che così sprezzate i gradi di Gloria? Se bene mi consolerei quando i peccatori per un piacere peccaminoso facessero gettito d’un bene che nulla più valesse di quel che valga questa terra; ah che maggiore è la perdita, mercè che un grado di Gloria non solo vale più di tutta la terra, ma di tutto il Cielo, di tutta la material città de’ Beati. Il Paradiso, come saprete, è quella Città posta in una bellissima pianura, la quale occupa dodici mila stadii, che vale a dire, mille e cinquecento miglia per lunghezza, ed altrettanto per larghezza. In questa Città solamente si ammira ogni bellezza, ogni preziosità, essa solamente può chiamarli Civitas perfecti decoris. L’oro, che tra noi fregia le stanze più nobili, ivi lastrica le strade più popolari; e le gemme che qua giù si portano sul capo, son colassù calpestate dal piede. Su avarizia portati con gl’occhi in Cielo, già che non puoi entrarvi con i piedi, sporgi il capo dentro ad uno di quei finestrini, per i quali Daniele di Babilonia vagheggiava un giorno Gerusalemme; mira un poco se le ricchezze che colassù si possiedono, sono da posporsi alla terra; pensa un po’ se meritano che tu le getti per quell’affetto disordinato che hai alla roba; per quell’interesse che ti stringe le mani, finché non soddisfi né mercedi, né pii legati. Uditori miei, tenete pur fissi gl’occhi nelle ricchezze celesti, e poi siate sicuri, che sprezzerete la terra. Accadrà per appunto à voi, come à colui che avendo prima studiata la Geografia, e formato sommo concetto della terra perché  l’aveva sentita dividere in tante provincie, regni, ed imperii, andato poi a prender lezione da un astrologo si sentì supporre la terra stessa per un punto che sta nel centro de’ Cieli; di che meravigliato, non si soddisfece, finché sentì per risposta l’uno, e l’altro non discostarsi dal vero poiché chi contempla la terra da se sola ha ragione di stimarla per grande, ma chi la paragona con i cieli, non può non disprezzarla per piccola, e pure e terra e cielo sono un nulla à paragone d’un grado di Gloria. O Dio e può trovarsi chi per un bene da nulla sprezzi quella Gloria che gli porta un sì gran bene? Passiamo avanti, e dopo aver consegnato a quel monarca e terra e cielo, tutto inferiore ad un grado di Gloria, giacché Nullius rei sine socio jucunda est possessio, gli si dia per compagno un esercito d’Angeli vestiti di luce, di vergini bianche come gigli di Martiri imporporati di palme, di confessori candidi al par delle nevi. Più gli sia dato, e finisca di coronare la sua gioconda conversazione la più bella, la più eccellente, la più santa di tutte le creature che siano mai uscite dalle mani di Dio, dico Maria, che sola sola potrebbe farvi gioire d’allegrezza, avendo Ella forza d’incatenare ogni cuore. Eppur, tutto ciò, chi’l crederebbe, è inferiore ad un grado di Gloria, giacché, come dice Agostino, un grado di Gloria: Est majus bonum quam Cælum, Terra et quidquid in illis includitur. Perché  tutte queste cose vi dà il grado di Gloria e di più vi concede eternamente goderle. Un grado di Gloria sì guadagnato con una limosina, con una corona, con un’opera pia fatta per Gesù, è un bene incomparabilmente maggiore, eppure si sprezzano questi beni di Paradiso, e vogliono i fuggitivi della terra, finché parmi sentire chi, bestemmiando, dica che Grazia di Gloria in Cielo? Il nostro Paradiso lo vogliamo in terra tra i comodi, tra le delizie, tra’ piaceri. Dio immortale! E  se è vero, come è verissimo, che il possesso de’ beni, il dominio del mondo, il godimento della Patria de’ Beati, con la conversazione de’ Santi e della Vergine stessa, tutto inferiore ad un grado di Gloria che si goda in Cielo, che farò io per darli paragone che vaglia? Orsù mi sia lecito di dire che per eguagliare, se non per superare questo grado di Gloria, cavi Iddio con la sua Onnipotenza dal nulla, e dia l’essere a nuovi mondi di gran lunga superiori. Voi ben sapete che Iddio scherzò allorché sbalzò dal nulla questa gran macchina del mondo, con porvi un globo di fuoco che con i suoi raggi di luce sgombrasse quelle tenebre, che erant fuper faciem terra; scherzò allorché diede commissione al sole di provvedere di luce; la luna, che con i suoi raggi d’argento scemasse qualche poco l’oscurità della notte; scherzò quando sparse per il cielo lucidissime stelle; furono scherzi la formazione d’una terra sì vasta, d’un mare si smisurato, perché allor si diportò come Ludens in Orbe terrarum. S’alleni, per così dire, l’Onnipotenza, e se allora adoperò un dito della sua destra, impieghi ora la mano ed il braccio, e faccia comparire non uno, ma mille mondi, faccia che in essi la terra non più produca né triboli di disgusti, né spine d’amarezze, ma solo germogli, rose di contentezze, faccia un mare, che sempre in calma, mai minacci tempeste, dal quale siano esiliati i naufragi e ad ogni scoglio possa dirsi: qui abbiamo il porto, stenda i cieli che con la loro serenità continua, mantengano il brio delle allegrezze, non si veda mai folgoreggiare per aria un lampo, niun tuono spaventi, niun fulmine precipiti, e quivi vi sia dato vivere sani e robusti per mille anni, al fine de quali, senza provare agitazione di morte, sia trasportato il vostro spirito con somma quiete sopra del cielo, e giunto ad una di quelle dodici porte di diamante, spalanchisi ad un tratto, e rimbombando sonore le trombe, giulivi vi escano incontro con angeliche squadre di Martiri, torme di sacri confessori, drappelli di caste vergini e vi ricevano, narrandovi con lingue di Paradiso le grandezze di quella abitazione veramente regia. Eppure, tutto ciò non può formare quella piccola pietra che v’ho portata qui in mostra d’un sol grado di Gloria. E come è possibile, sento chi mi dice che un grado di Gloria contenga in se un bene sì smisurato, che superi quanto finora s’è detto? Così è, eccovi la risposta: prendete un diamante e ponetelo a confronto con tutti i marmi più belli della terra, e voi vedrete in quel diamante una tale prerogativa che non troverete in tutti i marmi immaginabili, cioè a dire uno scintillar sì luminoso che vi sembrerà una piccola stella della terra, e questa luce sì nobile mai mai troverete in tutti i marmi del mondo. Or così va, miei uditori, chi godrà un grado di Gloria avrà, per mezzo di quello, o Dio, che non avrà? O grado di Gloria quanto sei stimabile! Eppure tanti ti sprezzano. O Pater Abram, Pater Abram; Ahimè, queste sono voci d’Inferno; E perché turbare i discorsi di Paradiso? Son voci d’Epulone, che pretendi da Abramo? Non altro che una stilla di Paradiso: Mitte Lazarum ut intingat extremum digiti in aquam, refrigeret linguam meam. Tu deliri, o Epulone, mentre per estinguere le ardenti fiamme, che ti abbruciano, nulla più domandi d’una stilla? Io so che il Mongibello quando con le ardenti sue fiamme entra nell’Onde, le divora, ed il Mar Tirreno agl’assalti del Vesuvio mette in fuga e tu sciocco, con una stilla d’acqua pretendi estinguere l’inferno? Taci, stolto che sei! Tacete voi, risponde a noi Sant’Agostino. Tacete, sì si, una sola goccia, un sol grado di quelle stillate dolcezze del Paradiso, delle quali parlò in spirito Gioele, allorché disse: In illa die stillabunt montes dulcedinem, una sola, dice, di quelle gocce, basta non solo a smorzare, ma a disfare tutto l’inferno, e mutarlo in Paradiso; ecco le parole del Santo Dottore: Tota dulcescerer damnatorum amaritudo. – Cada una sola stilla di quei torrenti di Paradiso nell’inferno ed eccolo un Paradiso, non più abitato da’ demoni, ma dagl’Angeli; non più tenebre, ma luce; non più catene, ma libertà; non più dolori, non più spasimi, ma sanità perfetta, godimenti inenarrabili. Tota dulcesceret damnatorum amaritudo. O quam magna, esclami pure ogn’uno col Profeta, multitudo dulcedinis tuæ Domine! Ma sento chi mi dice: noi più di proposito brameremmo questo gran bene, se n’avessimo più distinta notizia, se sapessimo più distintamente ciò che sia questo grado di Gloria! Che sarà mai dunque questo grado di Gloria, mentre non porterà seco solo vedere le pompe trionfali di quelle Gerarchie Celesti che faranno corteggio al Re Sovrano, né pure rimirare i Santi vestiti di Corpo glorioso, sì penetrante che potrà passare per mezzo d’ogni monte, come ora il sole passa per un cristallo sì agile, che potrà in un subito calare dal Paradiso in Terra, così impassibile, come impassibile è l’anima; così luminoso, che se un Beato mettesse fuori del Cielo una mano, basterebbe per illuminare tutto l’universo cento volte più che fa il sole: Fulgebunt justi sicut sol in Regno Patris eorum, mentre non sarà rimirare Maria sempre Vergine, il di cui sembiante ci terrà incatenati i cuori; Maria, Maria nostra Avvocata, nostra Signora, nostra Protettrice, le di cui bellezze sono il miracolo de’ miracoli, finché come scrive Sant’Ignazio Martire in una delle sue lettere, mentre Maria era ancora in terra, concorrevano a truppe i popoli per vederla. Che sarà dunque questo grado di gloria, che sarà? Sarà vedere un abisso di splendori in un teatro di maestà, in un centro di gloria Iddio, videbitis eum sicuti est. E che vuol dire, uditori miei, vedere Iddio? Chi mi avvalora il pensiero, chi mi purga la lingua, sicché io possa in parte spiegarvi quel che vedrete vedendo Dio? Vedrete quello che è la Beatitudine universale di tutte le creature; vedendo Lui non pensate già di vedere niuno di questi oggetti creati; Egli increato, questi materiali; Egli purissimo spirito, questi difettosi; Egli perfettissimo, e pure tutto ciò, che vedrete fuori di Lui, immaginatevi che voi tosto vedrete; vedendo Lui, vedrete Dio. Oh chi potesse ridire che sarà del vostro cuore a quel primo sguardo? Oh che deliqui d’amore voi sentirete! Che vampe di carità, che rapimenti, e che estasi! Che dolcezze! Allora sì, che adorerete tanta Maestà, e quasi reputandovi indegni di sì gran bene, vorrete sospirare, vorrete piangere per un certo solito sfogo di tenerezza, ma non vi farà permesso, no: Non audietur ultra vox fletus, et vox clamoris, crediatelo ad Isaia. Che direte allor, che vi vedrete Beati, che vale a dire al possesso di tutti i beni per goderli non solo perfettamente, ma eternamente? Allora tutta giubilo nel suo cuore, dirà quella verginella: beata quell’ora, beato quel punto in cui voltai le spalle a quell’amante, ricusai i suoi regali, ributtai le sue imbasciate; beata me, che ho conservato intatto il giglio della mia verginità. Allora, sopraffatta dal giubilo, esclamerà quella maritata: o quanto feci bene a sopportare le tirannie del mio consorte, mi strappazzò con parole, mi percosse più volte, non fui moglie, fui serva, fui schiava, ma la mia pazienza? Ecco dove m’ha portata: al possesso di tutti i beni per goderli perfettamente, eternamente. Son finite le grida, son finiti i dolori, ecco il giubilo, ecco il contento! Allora, pieni d’allegrezza esclameranno quegl’uomini, quelle donne: felici noi per quel punto in cui demmo la pace all’inimico; felici noi perché non imbrattammo le nostre mani con roba altrui; felici noi perché portammo rispetto alle Chiese; felice l’ora in cui abbandonai quel compagno sì dissoluto; felice quel punto in cui abbandonato il mondo, mi ritirai nel chiostro. Ah, che se per me venisse mai un’ora così beata, che mi vedessi ammesso nel possesso di tanta gloria, ancor io, in qual sentimenti, in quali atti, in quali parole proromperei? Se mi sarà permesso accostarmi a quel Soglio Divino: Et veniam ad Solium ejus. Io voglio dire al mio Dio; che vorrei dire, se sopraffatto dall’amore, mi converrebbe attonito tacere. Taccio, ma mentre io fò silenzio; tu peccatore, tu peccatrice alza gl’occhi, e poi dirottamente piangendo esclama con dolorosa voce: Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me! Son belli quei Palazzi alla Reale, ma non sono per me; li demeritai allor che profanai le mie sale con veglie e balli; le mie Stanze con giuochi; le mie camere più segrete con replicate disonestà. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me. Son belli quei diamanti, quelle perle, quelle gioie che t’adornano, ma non per me; le demeritai allor che feci gettito della più bella gioia che si prezzi in Cielo: la santa virginità; Paradiso sei bello, ma non sei per me. È nobile la conversazione di quei tanti Angeli, di quei tanti Cherubini, e quei tanti Serafini, che ardono di santo Amore verso del loro Iddio, ma non è per me, che sempre avvampai di amor profano in odio al mondo, in odio a Dio. Paradiso sei bello, ma non sei per me: Non è per me lacompagnia di quei Santi confessori perché chiamato al par di loro alle solitudini del Chiostro, vi stetti con gl’affetti nel secolo, innalzato alla dignità di Sacerdote mi portai al Sacro Altare con rozza mente, con laido cuore, maneggiai Cristo al par del fango. Paradiso sei ben bello, ma non sei per me; non è per me la compagnia di quei Santi penitenti nel mondo, mentre io vi son vissuto tra crapule e lussi; non è per me poter fissare gl’occhi in quei drappelli di caste vergini, molto meno nell’amabile volto di Maria, mentre io con occhio anche sacrilego tramai insidie alla castità più custodita. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me perché, troppo interessato, non mi curai delle tue ricchezze per aver la roba altrui; non sei per me, perché troppo avido d’onori, ricusai le tue eterne dignità. Paradiso non sei per me, perché troppo vana stimai più la mia caduca bellezza che la tua; non sei per me: troppo fui irriverente nelle Chiese, troppo dedito alle vendette, troppo disubbidiente a’ miei maggiori, disprezzatore de’ Sacerdoti, e sempre diedi mal esempio alla mia famiglia; da me impararono i figli le bestemmie, le mormorazioni, le disonestà; da me impararono le figlie ad amoreggiare dalle finestre, nelle porte, per le strade; io li precedevo nella, io l’istigavo agl’ornamenti, io li posi sull’orlo de’ precipizi, io gli feci perdere con l’onore anche l’anima, e però Paradiso sei bello, ma non sei per me. Misero peccatore, misera peccatrice, e non ti crepa il cuore alla rimembranza di dover dire, se non muti vita … Paradiso sei bello, ma non sei per me: muta vita, lascia l’iniquità rinuncia al demonio, osserva i Comadamenti per poter alla tua morte proferire queste parole di giubilo Paradiso, Paradiso sei bello, e sei per me; sei bello, e sei per me.

LIMOSINA

Iddio per Isaia pone in vendita il Paradiso: Properate emite. Bisogna miei uditori, comprare il Cielo, non vi sgomenti la preziosità sua, poiché ciascuno di noi ha tanto di capitale che basta per una tal compra, non vi vuole più, dice San Pier Crisologo, che un pezzo di pane, un poco di limosina distribuita a’ poveri si può spender meno? Deus Regnum suum fragmento panis vendit et quis excusare poterit non ementem, quem tanta vilitas venditionis accusat? E pure si trova chi ne pure a prezzo sì vile vuole comprare il Paradiso. Ah Dio! Vende, Iddio a poco prezzo i piaceri del Cielo, non vi è chi li voglia; vende il demonio i piaceri del mondo a gran prezzo, ed ognuno compera, si spende ne’ giuochi, ne’ conviti, nelle feste, nelle pompe, nelle vanità, sarebbe poco, nelle vendette, nelle disonestà, e per il Paradiso non solo non vi è oro, né argento, ma neppur rame per sovvenir la povertà d’un mendico.

SECONDA PARTE.

Il Cielo, uditori, al dire dell’Evangelista, s’acquista per via di negozio, di traffico: Simile est Regnum Cælorum homini negotiatori: Se ciò è vero, come è verissimo, voi ben sapete, che è legge di buon negoziante trasportare in Paese straniero quelle merci, che colà non sono, e di là portare quelle che nel proprio o non nascono o non si lavorano. Bisogna dunque se vogliamo guadagnare il Cielo per via di traffico, come ci addita il Redentore, che noi colassù mandiamo quelle merci che v’hanno spaccio, e che ivi non si trovano. Desistete, o ricchi, d’accumular più quell’oro, che racchiudete in cassa, e sol lucrate in vani ornamenti, in superflue vanità. Avari, non occorre con nuove usure, con traffici illeciti accrescere le vostre ricchezze, non manca oro in Cielo, già v’ho detto, che tutte le Grade Piazze son fabbricate Ex auro purissimo. Donne, quelle pietre preziose, quei diamanti, quelle perle che con tanta vanità v’adornano, non vi comprano il Cielo, perché colassù fino le porte, le mura, le torri sono gemme: Porte nitent margaritis, omnes muri tui, et turres Jerusalem gemmis edificabuntur. Ambiziosi, non tramate più la rovina del prossimo per salire a quella dignità, a quel posto, non mancano titolati e grandi nel Cielo, mentre tutti i Beati sono un popolo di regi: Percipite Regnum vobis paratum a Patre meo. Uditori, ori, gemme, onori non hanno spaccio in Paradiso perché di queste merci il Paradiso n’abbonda. Dunque se volete guadagnarlo col traffico, portate colassù le merci che non vi sono: In Cielo non v’è pianto, non v’è dolore; in Cielo non v’è tempo, essendovi l’eternità … Non erit ibi luctus, neque dolor erit ultra: Dunque per ottenere il Cielo vi vogliono lacrime di cuor contrito, dolori di patimenti, di tribolazioni tollerate con pazienza. Queste sono le merci che hanno spaccio nel Cielo, e queste ci otterranno il Paradiso. Eccovi il modo d’ottenere il Cielo, guadagnarselo con portare di là la mercanzia che non v’è, che vale a dire patimenti; e se così farete, Isaia vi assicura, che qui vicerit possidebit hæc: tutto questo sì gran bene del Paradiso è per voi, di grazia non vi lasciate accecare da i diletti peccaminosi di qua, che presto v’invola la morte, ma solo attendete agl’eterni dell’altra vita. Volete, che io v’insegni un altro modo per guadagnare il Paradiso? Fissate spesso gl’occhi colassù, perché così vivrete bene, ed il Paradiso sarà vostro. Tito e Domiziano, ambedue figli del vecchio Imperatore Vespasiano, furono fra di loro sì differenti, e riuscirono di natura e di costumi sì varii, che Tito fratello maggiore al dir di Svetonio fu chiamato: Delitiæ Generis humani, e Domiziano: Flagitium Generis humani. Per rendersi buono e di costumi sì retti Tito, v’ebbe gran parte la prudenza del suo Aio, che per molto tempo gli assisté. Fattosi notte conduceva costui il giovinetto Tito in una loggia; indi dicevagli: Volgete gl’occhi alle stelle; vedete quella figura formata di vent’otto Stelle, si chiama Ercole , ed ha ottenuta quella stanza colassù in cielo, perché nel mondo atterrò molti mostri; ve l’otterrete ancor voi, se riporterete vittoria di quei vizi che infettano il mondo. Udite: quell’altra costellazione formata di ventisei sfavillanti lumiere, si chiama Perseo, e fu quel giovane sì generoso, che fece guerra alle Gorgoni, e con un colpo di lancia sviscerò l’Orca Marina, liberandone Andromeda, sicché non fosse divorata; or così appunto sfavillerete ancor voi se col braccio della vostra autorità difenderete l’onore delle matrone, e la pudicizia delle donzelle. Date ancora un’occhiata a quelle due figurine composte ambedue di nove stelle; sono Castore e Polluce, e voi ancora v’avrete questo splendore se qui nel mondo fomenterete la pace, e v’amerete con i sudditi: volete altro anche con volgere gl’occhi a queste menzogne; si rese Tito principe sì buono, vi delitiæ generis humani vocaretur. Deh date un’occhiata a quei Giusti del Paradiso, … Qui fulgent quasi stelle in perpetuas æternitates, e chi vi tiene, chi v’impedisce? Vedete colà quella matrona coronata di tanta gloria, ella è Francesca Romana. Chi v’impedisce o vedove un simil posto? Vedete colassù quella Cunegonda, chi v’impedisce o maritate un simil possesso? Chi o donzelle? mirate le Lucíe! Chi o contadini? mirate un’Isidoro! Suspice Cælum, dice Agostino, et accipies Cælum. – Mi giova credere, che alla mia predica siano molti e molte che abbiano da vedere fra poco la Gloria che io non ho saputo descrivere. S’io sapessi chi sono, oh con che ossequio li rimirerei; qual santa invidia m’occuperebbe il cuore, vorrei fino baciar la terra che calpestano. Ma ahi, che sento mutarmi l’allegrezza in pena; così non fosse: vi saranno anche molti e molte che non la vedranno mai … s’io sapessi quali sono! Vorrei scendere da questo pulpito e, afferratili per un braccio, dir loro: Ah infelice, vuoi dunque perdere il Paradiso, abitazione sì bella, la compagnia de’ Santi, di Maria, di Dio, per non lasciare quella maledetta amicizia, per non restituire quella roba, per non perdonare a quell’inimico? Leggo pure in Erodoto di quell’Egistrato Eleo che, tenuto legato da una catena ad un piede da’ demoni, per poter correre alla bramata libertà, recise quel piede che gliela impediva; e tu non avrai animo, non per una libertà, che finisce, ma per l’eternità, di troncare quei legami lascivi? non l’avrai? Andate dunque a casa, e questa sera sull’imbrunir di notte, dite, mirando il Cielo: Sei pur bello Paradiso, ma forse non sarai per me.

QUARESIMALE (XI)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.