VIVA CRISTO RE (16)

CRISTO-RE (16)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XX

CRISTO, RE DEI CONFESSORI

I Cattolici del Messico hanno dovuto sopportare terribili persecuzioni e hanno visto scorrere fiumi di sangue cristiano. Lì, nel 1927, era vietato confessare apertamente Nostro Signore Gesù Cristo. In Messico, Paese completamente cattolico, era vietato celebrare la Messa, confessarsi, dare la Comunione, portare una piccola croce al collo. Alcuni Vescovi furono imprigionati; molti Sacerdoti furono fucilati per ordine del governo; meritano di essere citati i padri Correa, Solá, Reyes e Pro. Per la millesima volta si sono realizzate le parole del Signore: “In verità, in verità vi dico: voi piangerete e farete cordoglio, mentre il mondo si rallegra” (Gv XVI, 20). È sempre stato così; i discepoli di Cristo combattevano, piangevano, soffrivano, e il mondo, il nemico della croce, gioiva, esultava, trionfava. Ma anche la seconda parte delle parole del Signore si è realizzata, come sempre: “Sarete afflitti, ma il vostro dolore si trasformerà in gioia” (Gv XVI, 20). – Cristo Re non ha mai abbandonato i fedeli sofferenti; dal sangue dei martiri sgorga lo slancio di una nuova vita cristiana, e coloro che per amore di Cristo hanno perso la loro vita terrena hanno ottenuto, in cambio, la vita eterna. Il tema di questo capitolo sarà: Cristo è il Re dei confessori. Le parole di Gesù Cristo si sono realizzate molto prima di quanto i primi Cristiani potessero aspettarsi. Il Salvatore aveva appena lasciato la terra e si era accomiatato dalla Chiesa nascente, quando si scatenò un uragano così violento che sembrava dovesse strappare le tenere piantine della Chiesa. Le persecuzioni dei Cristiani nei primi tre secoli sono note a tutti; tutti conosciamo quei trecento anni durante i quali gli imperatori romani hanno raccolto tutte le loro forze per affogare il Cristianesimo nel sangue, per cancellarlo, per sterminarlo dalla terra. – Tutte le torture, tutti gli orrori, tutti i supplizi che l’uomo è capace di immaginare furono messi in pratica contro i Cristiani. Tutto fu provato dai nemici della nostra fede; e tutto senza alcun risultato. Cristo vegliava sul suo gregge martoriato. – Entriamo per un momento nei magnifici giardini del primo persecutore, Nerone; in quei giardini dove la gente si accalcava notte dopo notte per vedere l’illuminazione, un’illuminazione raramente visibile su questa misera terra! Quando il sole tramontava dietro le colline romane e arrivava l’oscurità, nei giardini di Nerone venivano accesi enormi bastoni ricoperti di pesce; legato alla cima di ogni bastone, il corpo di un Cristiano bruciava e fiammeggiava…. Tra le grida della folla impazzita, il crepitio della legna che bruciava, i gemiti dei Cristiani morenti, sembrò levarsi la voce del Signore: “In verità, in verità vi dico che voi piangerete e farete cordoglio, e il mondo si rallegrerà…” E il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, e ogni giorno per diverse settimane, nuove illuminazioni, nuovi martiri cristiani! – Andiamo a vedere una rappresentazione nel Colosseo romano. Conosciamo i terribili tormenti subiti dai nostri grandi eroi, i martiri. Pensavo di aver capito tutto il sanguinoso orrore delle persecuzioni cristiane quando ho visto per la prima volta il Colosseo a Roma. Mura gigantesche, un piano sopra l’altro. Scatole stipate l’una sull’altra. Una parte dell’arena esiste ancora oggi; celle, gabbie, labirinti sotterranei che fanno venire i brividi…. e in una profondità di due piani! Vecchi con i capelli bianchi, ragazze, giovani in tutto il loro vigore: tutti Cristiani, Cristiani rinchiusi lì, che vivono l’ultima notte della loro esistenza; accanto a loro, nelle gabbie, ruggiscono le belve affamate… Guardiamo la scena. Una notte di martiri. Tutto l’oro e il marmo rubato ai Paesi conquistati, tutte le donne, tutti gli schiavi, le arti e le scienze che Roma ha raccolto in Europa, in Asia e in Africa…; tutto è ai piedi di quel popolo che ha in mano il dominio del mondo. E tutti vanno al circo: l’imperatore e il suo seguito, le vestali e i soldati, il popolo…, una folla immensa…. Improvvisamente il rumore cessa, le grida tacciono…: tutti gli occhi si rivolgono a una porta, dalla quale entra un piccolo gruppo che si dirige verso il centro dell’arena. Che scena commovente! Accanto agli uomini e ai giovani incalliti, ci sono vecchi, fanciulle e bambini! Quando sono al centro dell’anfiteatro, si apre una porta e saltano fuori le bestie selvatiche portate dall’Africa, che sono state private del cibo per diversi giorni. Il gruppo dei Cristiani, tutti in ginocchio! Ancora un attimo, l’ultima preghiera: “Kyrie, eleison“, “Christe, eleison“…, ancora il segno della croce, tracciato per l’ultima volta…, e le loro carni sono già lacerate dagli artigli dei leoni e i denti delle tigri penetrano fino alle ossa. Sangue, sangue dappertutto! Il sangue dei martiri scorre copioso nella sabbia! E quel torrente di sangue sembra proprio che, tra grida di gioia degli spettatori, tra ruggiti di leoni, strappi di muscoli, scricchiolii di ossa, scriva nell’arena le parole di Gesù Cristo: “In verità, in verità vi dico, voi piangerete e farete cordoglio, mentre il mondo si rallegrerà…”. E questo per tre secoli! Non c’è tormento, non c’è tortura a cui i Cristiani non siano stati sottoposti. Contiamo, non a migliaia, ma a centinaia di migliaia, la moltitudine dei nostri martiri, l’enorme numero di coloro che hanno dato per Cristo il più grande tesoro che possedevano su questa terra, la loro stessa vita, e che non avevano altro peccato in questo mondo se non quello di essere discepoli di Cristo e di non abbandonarlo mai. – A volte sembrava che le persecuzioni stessero per dichiarare la vittoria. Uno degli imperatori, Diocleziano, fece persino coniare una moneta con questa iscrizione: Nomine christianorum deleto: “In memoria della distruzione del nome cristiano”. Ma Cristo vegliava sul suo gregge inquieto: quando giustiziavano un martire, altri si alzavano dal mezzo della folla con questo grido: “Anch’io sono Cristiano!”. Il sangue dei martiri fu la pioggia d’aprile che portò la vita nel terreno fertilizzato della Chiesa. I Cristiani erano costanti e laboriosi, perché nelle loro orecchie risuonavano le parole di San Pietro: “Carissimi, quando Dio vi metterà alla prova con il fuoco delle tribolazioni, non mancate come se vi accadesse qualcosa di molto straordinario. Ma rallegratevi di essere partecipi della passione di Gesù Cristo, affinché quando si manifesterà la sua gloria possiate esultare con Lui con gioia” (1 Pietro IV,12,12).

II

Ma quando pensiamo alla sorte dei primi martiri del Cristianesimo, sorge spontanea la domanda: lo spirito dei primi martiri, quell’eroico spirito di sacrificio, vive ancora nei loro discendenti, nei Cristiani di oggi, in noi? Conserviamo anche solo il tizzone di quell’amore di Cristo che ha confortato tutti quei lontani martiri anche nella morte, anche sul patibolo? Perché, dobbiamo saperlo: la persecuzione della dottrina di Cristo non è cessata dai primi secoli cristiani, ed è ancora all’opera nel mondo. – È vero che ai nostri giorni i Cristiani non sono perseguitati da leoni e tigri, non sono gettati in pasto alle bestie selvatiche; i martiri di oggi non sono imbrattati di pesce, non sono inchiodati a bastoni roventi, non sono gettati in acqua, non sono fissati su coltri di supplizio; gli orrori del Messico sono ancora eccezioni nel mondo civile moderno.  Ma anche se le persecuzioni non sono fatte con leoni e tigri, sono fatte con qualcosa che forse è peggiore del dente della tigre e dell’artiglio del leone…; sono le armi dello scherno, del disprezzo, del riso, del silenzio e dell’emarginazione. Sì, chi, in mezzo alla gentilità moderna, vuole rimanere fedele al Vangelo e alla Chiesa, può contare sull’eroismo degli antichi martiri. Il suo corpo non sarà dilaniato da leoni e tigri, ma sarà deriso, gli sarà puntato il dito contro e sarà chiamato antiquato, troglodita, fanatico, che non sa godersi la vita. [Abbiamo vissuto la tragedia spagnola causata dal marxismo internazionale: chi non si commuove di fronte al numero e alla qualità delle vittime immolate dalla furia rossa? Dodici Vescovi, un amministratore apostolico, quattromilaquattro Sacerdoti secolari, duemilaquattrocentosessantasei religiosi, una moltitudine di suore, centinaia di migliaia di laici sono stati vilmente assassinati nella zona rossa. Il loro crimine? Essere cattolici e spagnoli. Leggiamo le seguenti parole, scritte da Papa Pio XI nella sua Enciclica Divini Redemptoris del 19 marzo 1937: “Anche dove, come nella nostra amata Spagna, il flagello comunista non ha ancora avuto il tempo di far sentire tutti gli effetti delle sue teorie, si è preso la sua rivincita, scatenandosi con più furiosa violenza. Non si è accontentato di demolire una chiesa o un convento o un altro, ma, quando è stato possibile, ha distrutto ogni chiesa, ogni convento e persino ogni traccia della Religione cristiana, per quanto strettamente legata ai più illustri monumenti dell’arte e della scienza. – La furia comunista non si è limitata a uccidere Vescovi e migliaia di Sacerdoti, religiosi e religiose, soprattutto quelli che lavoravano con maggiore zelo con i poveri e gli operai, ma ha fatto un numero molto maggiore di vittime tra i laici di ogni classe e condizione, che vengono quotidianamente, si può dire, assassinati in massa per il solo fatto di essere buoni Cristiani o semplici oppositori dell’ateismo comunista. E questa terribile distruzione è portata avanti con un odio, una barbarie e una ferocia che non sarebbero stati ritenuti possibili nel nostro secolo. Nessun privato di buon senso, nessun uomo di Stato consapevole della propria responsabilità, non può che tremare di orrore al pensiero che ciò che sta accadendo oggi in Spagna possa ripetersi domani in altre nazioni civilizzate. Che il Signore conceda che tanto sangue versato possa essere il seme fecondo delle nuove generazioni. Che siano attente a non distogliere lo sguardo da Dio o dalla loro patria, affinché si realizzino gli ideali di grandezza a cui la nuova Spagna è chiamata. La persecuzione non è cessata nell’Unione Sovietica.]. E che queste armi siano più pericolose degli artigli dei leoni è chiaramente dimostrato dal fatto che sono state realizzate più apostasie con esse che con le bestie selvatiche. Le persecuzioni non sono cessate ai nostri giorni. Ma dov’è ora il coraggio dei primi martiri? Hanno dato la vita per Cristo, e noi arrossiamo a inginocchiarci in chiesa, a farci il segno della croce quando passiamo davanti ad una chiesa; qualcosa ci spinge a farlo, ma… cosa diranno gli altri? ma cosa diranno gli altri? I martiri hanno dato la vita per Cristo, e io vorrei confessarmi e fare la Comunione più spesso, perché sento che ne ho bisogno, sento che la mia anima ne ha bisogno; vorrei, ma… non oso; cosa diranno quelli che mi vedono? Riconosco che questa conversazione che deride la morale, che questo e quel film, questo e quel libro, queste e quelle immagini, macchiano il candore della mia anima; so che sto commettendo un peccato se non lo evito, se vado a vederlo, se lo leggo; vorrei allontanarmi da ogni pericolo; ma… Ma cosa diranno gli altri, che sono un fanatico religioso all’antica? E partecipo alla conversazione, leggo il libro e vado a vedere il film, e subisco le prese in giro della Chiesa, purché non ridano di me. Purché non ridano di me! …. Per un sorriso, per uno sguardo ironico, per un’amicizia fraintesa, tradisco la mia anima, tradisco Cristo, Colui che i primi Cristiani non hanno voluto abbandonare nemmeno in mezzo ad atroci torture. E non furono solo gli uomini vigorosi, nel fiore degli anni, a rifiutarsi di abbandonarlo, ma anche gli anziani, i bambini, le donne; quella materna Felicita, quell’ottantaseienne Policarpo, quella tredicenne Agnese! In mezzo alle torture più crudeli, Sant’Agnese continuava a ripetere: “Signore, conservo la mia fede per Te; Signore, mi consacro a Te. Tu, Onnipotente, Tu, degno di essere adorato, Tu, degno di ogni rispetto, io benedirò in eterno il Tuo santo nome”. – E quanto facilmente avrebbero potuto essere consegnati! Una sola parola era sufficiente. Bastava che dicessero: “Non conosco Cristo, non adoro Cristo”, e allora sarebbero stati liberati dalle bestie selvatiche, avrebbero spento il rogo, o sarebbero stati tirati fuori dall’acqua gelida in cui erano stati gettati, legati mani e piedi. Ma non pronunciarono quella parola, ma nel rogo ardente e davanti alla spada, nell’olio bollente e nel piombo fuso, tra le punture di punte incandescenti, tra terribili tormenti…. sono rimasti fedeli a Cristo! – Chiediamo a Cristo, il Re dei confessori, che, anche se siamo assaliti da mille tentazioni, susciti in noi lo spirito di sacrificio dei primi Cristiani, il loro coraggio di sfidare la morte, l’amore che ardeva nei loro cuori per dare la vita per Lui! Sì: l’amore ardente per Nostro Signore, perché da questo dipende tutto. Cos’è che ha dato perseveranza, coraggio ai primi Cristiani? Il santo amore che ardeva nei loro cuori. Tu, Santa Caterina, cos’è che ti ha dato la forza, quando eri sulla ruota della tortura, di chinare la testa sotto la lama del boia? Era l’amore di Cristo. E tu, Santa Cecilia, quando volevano asfissiarti con il vapore caldo, e quando la scure del boia ti colpì il collo, dovendo soffrire alcuni giorni con quella ferita mortale, cosa ti diede forza? E tu, Santa Lucia, che sei stata tradita dal tuo sposo e poi trafitta da una spada? E tu, San Pancrazio, perché non hai voluto sacrificare agli dei pagani? Cosa ti ha dato la forza di essere fedele a Cristo, quando sapevi che la tua vita, la tua giovane vita, ti sarebbe stata tolta, perché non avevi più di quattordici anni? E tu, San Simeone, che all’età di centoventi anni, dopo una tortura di diversi giorni, hai trionfato nella crocifissione stessa con forza d’animo? E tu, Sant’Agnese, discendente di una famiglia nobile e potente, una bella ragazza di tredici anni! Perché hai detto al tuo spasimante, il figlio del governatore della città: “Il mio Signore Gesù Cristo mi ha promessa in sposa con il suo anello”, quando sapevi che per questa frase avrebbero acceso un falò sotto i tuoi piedi? Perché hai detto: “Sono la sposa di Colui che gli Angeli servono”? Da dove hai attinto la tua energia quando in mezzo alle fiamme continuavi a ripetere: “Ecco, vengo a Te, che amo, che cerco con tutta l’anima, che ho sempre desiderato”? Cos’è che dava loro forza? L’amore ardente di Nostro Signore Gesù Cristo. – Ah, se l’amore eroico dei martiri, di cui abbiamo tanto bisogno per testimoniare Cristo, fosse contagioso! Quando e dove ne abbiamo bisogno? Quando la Religione è ridicolizzata e derisa e io voglio rimanere fedele a Gesù Cristo. Quando voglio preservare la purezza della mia anima in mezzo a tanto marciume, a tanta sessolatria. –  GRACE MINFORD, una giovane americana che si convertì dal protestantesimo al Cattolicesimo e poi entrò in convento, ebbe questo eroismo da martire. Poco tempo dopo il padre morì, lasciandole una fortuna di dodici milioni e mezzo di dollari – una somma favolosa – a condizione che lasciasse il convento. Cosa rispose la giovane donna? “Il mio Padre celeste è più ricco del mio padre terreno e mi darà un’eredità molto più grande”, e perseverò nel convento, perdendo i soldi dell’eredità. Eroismo da martire! Eroismo deve avere l’impiegato che coraggiosamente non nasconde agli altri la sua fede cattolica, sapendo che oggi non è la migliore lettera di raccomandazione per farsi strada, per ottenere vantaggi materiali. Eroismo perché le preoccupazioni materiali della vita quotidiana – lavoro, studio, occupazioni – non soffochino la vita spirituale. – Le parole del Signore: “Voi piangerete e vi rallegrerete mentre il mondo si rallegra”, hanno il loro compimento, non solo nel passato, ma anche oggi. I discepoli di Cristo devono spesso soffrire quando i figli del mondo, cioè i malvagi, si divertono. L’unica cosa che è cambiata è il modo. In passato, i Cristiani soffrivano gli artigli dei leoni; oggi, soffrono i dardi dell’ironia e della calunnia. Un tempo si doveva morire per Cristo; oggi, forse, il sacrificio consiste nel rimanere fedeli a Cristo nella vita quotidiana.

III

Ma, grazie a Dio, la profezia del Salvatore non finisce qui. Ha una seconda parte, molto consolante. “Sarete addolorati, ma il vostro dolore si trasformerà in gioia”, in una gioia che non passerà mai. – E se vediamo che la prima parte della profezia si è realizzata nel corso della storia, dobbiamo constatare che anche la seconda parte si è realizzata. Gesù Cristo aveva predetto che la sua Chiesa sarebbe stata perseguitata, che coloro che lo avrebbero seguito avrebbero dovuto portare la loro croce sulle spalle. Ma ha anche detto che “il suo giogo è facile e il suo fardello leggero” e che le porte dell’inferno non prevarranno contro la sua Chiesa. La storia della Chiesa, che ha due volte mille anni, testimonia in modo luminoso le parole di Cristo. Quante persecuzioni ha dovuto subire la Chiesa, eppure è costantemente ringiovanita. Dei trentadue primi Papi, trenta morirono martiri. L’imperatore Adriano fece porre sul Calvario la statua di una dea pagana, Venere, e sulla tomba del Redentore la statua di Giove ….. E chi parla oggi di Venere e chi venera Giove? D’altra parte, un quinto dell’umanità, senza contare i protestanti e gli scismatici, adora Gesù Cristo, morto sul Calvario e risorto il terzo giorno. – Nel furioso tumulto della Rivoluzione francese, fu messa ai voti questa domanda: “Esiste un Dio?” E, tra gli sguardi assassini, ci fu solo una povera vecchia signora che osò alzare la mano tremante nell’interesse di Dio: “Per amor di Dio, per amor di Dio!” E ancora gli uomini adorano Dio. – Ci lamentiamo continuamente di quanto sia brutto il mondo di oggi, dell’aridità spirituale in cui è immersa gran parte dell’umanità moderna. Chi può negare che intorno a noi ci siano molte anime che hanno perso la fede e si sono allontanate da Dio? Purtroppo, questo è un lato della medaglia. Ma dall’altra parte c’è un quadro molto più edificante e consolante: quanti Cristiani perseverano nella fede e vivono una vita coerente con essa. Vediamo che si realizzano le parole del profeta: “Ci sono settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio a Baal” (3 Re XIX, 18).

* * *

La Chiesa, nostra Madre, è sempre stata perseguitata, è sempre stata condannata a morte, eppure continua a vivere e a diffondersi. Illustri dinastie sono sorte e tramontate, vari imperi sono sorti e tramontati nel corso dei secoli; ma la Chiesa cattolica, così spesso attaccata e perseguitata, continua a sfidare con fermezza la tempesta dei tempi; ed è degno di nota il fatto che non possa contare su una forza armata, non ha cannoni, non ha un esercito, manca di fortuna e di altre risorse umane; ma possiede… una parola, la grande promessa del suo Fondatore: “Le porte degli inferi non prevarranno contro di lei” (Mt XVI, 18). – E nei corridoi sotterranei delle catacombe, dove il Cristianesimo perseguitato ha trascorso trecento anni, risuonano ancora oggi vibranti preghiere piene di gratitudine, cantate da migliaia di pellegrini. Sul luogo del palazzo dove l’imperatore Massimiliano preparò una delle più sanguinose persecuzioni contro i Cristiani, oggi sorge un magnifico tempio, la Basilica di San Giovanni in Laterano. Innumerevoli templi, dipinti, statue, feste… proclamano il culto delle migliaia e migliaia di martiri. E dove c’era la tomba di Nerone, oggi sorge un tempio in onore della beata, della misericordiosa, della dolcissima Vergine Maria, Santa Maria del Popolo. E sulla tomba di quel modesto pescatore, che il mondo secoli fa inchiodò a una croce con la testa all’ingiù, per aver predicato la dottrina di Cristo, oggi risplende il tempio più prezioso del mondo, la Basilica di San Pietro; e la luce delle lampade che arde sulla tomba del principe degli Apostoli sembra scrivere sulle pareti di marmo la seconda parte della profezia di Cristo: “Sarete addolorati, ma il vostro dolore si trasformerà in gioia”. – Eppure tutto questo splendore esteriore non è che il premio terreno dei confessori cristiani. Non sappiamo, possiamo al massimo indovinare, quale sarà la loro ricompensa in cielo, la ricompensa che avrà dato loro Cristo, che una volta disse: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’Io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”. – Ma c’è una cosa che sappiamo con certezza. So che i due campi, quello dei discepoli di Cristo e quello del peccato, anche oggi sono opposti. So che camminare sulle orme di Cristo oggi significa anche abnegazione, sacrificio, mentre la vita frivola del mondo è facile. So che i fedeli imitatori di Cristo devono spesso soffrire, mentre i figli dell’iniquità gioiscono. E so anche che è meglio soffrire in questo mondo con Cristo che gioire con i peccatori. Ti faccio una domanda, amico lettore: da che parte vuoi stare? Vuoi arruolarti nel campo di Cristo o in quello del peccato?

VIVA CRISTO RE (17)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (11)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (11)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

III.

GRANDI ITALIANI NEMICI DELLA GRAN BESTIA.

Speranza, ho detto, non certezza, perché, perché…. ecco un altro avviso, a mio credere rilevantissimo, ed è questo. Nonostante tutte le vostre risoluzioni e la buo a volontà di mandarle ad effetto, non ostante tutto l’orrore da voi concepito per la GRAN Besta e fin per la sua coda, e lo sdegno generoso per quei miserabili che a lei si votano devotissimi schiavi; si danno certe circostanze nella vita, e certe sorprese, che talvolta anche un animo risoluto vacilla e cade. Sentite questa che è accaduta a me. Avrò avuto un dodici anni, quando una sera in sul pormi a cena con tutta la famiglia, venuto a mancare certo bocconcino in dispensa, grazie alla fama che meritamente godevo, di ghiottoncello, tutti gli occhi mi furono addosso. Ma quella volta davvero, io non avea tocco di niente; di che al babbo, che più volte ebbe ad interrogarmi, risposi fermo più volte del no. Fui tenuto bugiardo, e vista la mia ostinazione, cacciato dalla mensa comune in un cantuccio del mio stanziolino a piagnucolare ed a rodermi, pensando: — Sono innocente, non ho detto che la santa verità, e mi tocca star senza cena!… Oh vedete, giovani miei! non aver tanto giudizio da pensare: — Valga per quelle volte che l’ho fatta franca. Ma già certe buone ragioni non sovvengono che quando si è grandi. Breve; mi toccò andare a letto incenato, e checché dica il proverbio: Chi va a letto senza cena Tutta notte si dimena, a me pare che dormissi saporitamente sino al mattino: quando all’improvviso, mentre sognavo appunto di trionfarmi un bel piatto di maccheroni, mi sento afferrar per un braccio e darmi una grande strappata, che mi rizzò ginocchione sul letto. Apro appena gli occhi e travedo il babbo con una verga in una mano, che scuotendomi pel braccio coll’altra m’intimava, minacciando, ritrattassi la bugia detta la sera innanzi, e confessassi la mia colpa. A quell’intimazione, a quelle minacce, specie poi a quella verga che vedevo agitarsi nell’aria; e già me la sentivo nelle carni…. Dite, giovanotti: che avreste fatto voi?… Io commisi una viltà; confessai la colpa che non avevo commessa, e cessai così la paura di peggio. Che se alcuno di Voi, cari giovani, pensa che avrebbe fatto altrettanto, dica: non è vero, che si dan certe sorprese nella vita, a cui non s’è mai abbastanza preparati? Or bene, e se qualche volta, come feci io, doveste darvi del naso, ecco l’avviso: non avvilitevi, cari giovani, non fatevi perduti; ma caduti una volta, prontamente risorgete. Fate come ha fatto quel diritto, quel degno, quell’onestissimo uomo che fu (cavatevi il cappello) Cesare Balbo. Che ve ne conti?… Sentite. Giovine ancora di primo pelo in que’ burrascosi tempi delle prepotenze napoleoniche, gli toccava, come segretario della consulta di Roma, firmare un proclama, che dichiarava scaduto il Pontefice, e Roma dipartimento francese. A tal atto la sua coscienza ripugnava; pure costretto, sopraffatto firmò. Or bene, di quest’atto di debolezza provò tale un sentimento di sdegno e di rimorso; che. se ne volle dare la penitenza più dura, più difficile all’amor proprio; pubblicarlo, detestarlo per le stampe. Sentite come ne parla nella sua autobiografia. « Ricevetti un dispaccio e l’apersi; era la mia nomina a segretario della Consulta di Roma…. Fui quasi colpito da un fulmine, destandosi ad un tratto in me la coscienza di quella brutta usurpazione alla quale  servivo…. Qui lo spogliato era il Papa capo di mia Religione, a cui venerare ed amare ero stato allevato… Ne fui atterrato, addolorato oltre ogni dire, disperato; e pur non seppi resistere… Partii con Janet e in poche ore fummo a Roma. Pio VII v’era ancora; anzi non era spogliato tuttavia. Il proclama della Consulta fu quello che consumò la spogliazione. Epperciò io voleva pur salvarmi dal firmarlo, ed allegai che il segretario non c’entrava. Ma uno della Consulta osservò imperiosamente che la firma mia era pur necessaria: ed io, scusandomi meco, che questa non aggiungeva forza all’atto, ma solamente attestava l’altre firme, la diedi. Debolezza….. che mi fece comprendere nella scomunica, la quale apparve subito affissa sulle porte delle chiese maggiori a dispetto e quasi a sfida della forza aperta e della polizia segreta degli spogliatori…. » Udiste, giovani miei? Anche lui, Cesare Balbo, si lasciò un tratto azzannare dalla mala Bestia. Ma fu la sola colpa (nota egli stesso) la sola colpa di che abbia a dolermi nella mia vita pubblica; fui debole una volta (notate, giovani miei, una volta) a diciannove anni, rimpetto a Napoleone. » E difatti appena provò il dente della BESTIA, se ne risentì cosiffattamente, che non tardò un istante a vendicarsene rompendole le corna e troncandole di netto la coda. Attendete: seguiterò, quanto posso, a narrare colle sue stesse parole. – Detto della cattura di Pio VII operata poche settimane appresso dal generale Miollis. coll’aiuto del capo della gendarmeria francese Radet, seguita così: « Il Radet, appena tornato dalla triste accompagnatura, scese quasi a casa mia e m’entrò in camera tra ridente e serio, dicendo che ne avea sapute delle belle di me; che io andava a messa ogni domenica, e via via. Io gli risposi (attenti giovinotti, come piglia bene la rivincita!) gli risposi che vi andavo per lo più ai Santi Apostoli in faccia al suo alloggio; ma che d’ora innanzi vi andrei sempre, affinché ei mi potesse sorvegliare più facilmente. » Che ne dite, giovani miei? È egli stato franco questa volta il nostro giovane di diciannove anni? E pensare ch’ei parlava così a un capo di polizia francese, che poteva ficcarlo in gattabuia in quattro e quattr’otto! E giacché sono arrivato fin qui, permettetemi d’accennarvi, sempre colle sue parole, da che esempi il nostro Balbo attingesse un sì meraviglioso coraggio. « Io mi vergognavo più che mai (continua) allo spettacolo rimproveratore della fortezza di que’ preti. Incominciai a sospettare che questi così disprezzati, fossero pure i più forti, o i soli forti uomini d’Italia. Forse se avessi avuto prima il grande e salutare esempio, l’avrei saputo imitare. » E dice vero: tutta Italia, che dico tutta Italia? anzi tutta Europa, inginocchiata al fortunato tiranno, gli bruciava incensi: i preti soli, dritti in piedi, gl’intimavano il non Licet. E questa è storia. – Ma andiamo innanzi. ancora un poco e vediamo quella prima vittoria del giovine Balbo, come fosse feconda! Tre anni dopo, trovandosi a Parigi, membro del Consiglio di Stato, in una radunanza della sezione di finanze, fu invitato a riferire intorno alla liquidazione di Roma. Si pretendeva che in un giorno, o poco più, facesse l’estratto d’un monte di carte alto mezzo metro e più; ed egli rispose chiaro che non si sentiva. Gli si rise in faccia; ma tenne fermo e non ne fu nulla. – Sentite quest’altra. Quando già Napoleone disponevasi alla sciagurata campagna di Russia, il ministro Savary volle fargli accettare un impiego, cui la sua coscienza ripugnava; e Balbo a rispondergli in faccia lo sdegnoso suo no. Savary s’inquieta, comanda, minaccia; e Balbo duro. Cionondimeno il ministro, non ancora disperato di vincerlo, gli manda il biglietto di nomina a casa. E Balbo a rimandarlo con una fede del medico che attestava (ed era vero) della sua debole sanità. Savary, che volea vincerla ad ogni patto, lascia correr pochi giorni in capo ai quali gli manda ordine di presentarsi a dar giuramento: « Ed io (scrive Balbo) non ci andai. M’aspettava i gendarmi a ogni tratto; non ne fu altro. Il coraggio (conchiude) è sovente più facile che non si crede. » – E in sì bei sentimenti perseverò tutta quanta la vita. Vecchio di sessant’anni, al Parlamento Piemontese (seduta 28 febbraio 1849) ove incominciavano a manifestarsi i primi umori contro il Papa e il suo temporale dominio, ei ricordava la giovenile sua colpa con queste parole: — « Quaranta anni sono, nel 1809, io ebbi la sventura e la colpa di partecipare all’abbattimento della potenza temporale di un altro gran Papa, Pio VII. » E sconsigliava si rinnovasse lo scandalo.  Or che ne dite, giovani miei? L’aveva imparata per bene la lezione dei preti di Roma?… E così, francatosi fin dai primi suoi anni da ogni soggezione alla GRAN BESTIA e troncatale per tempo la Coda, operando e scrivendo, immacolata trasse la vita intera; e lasciò dietro sé bella fama di buon Cattolico, di valente scrittore e di sincero italiano. – Non posso finir questo capo, senza darvi un cenno d’altri grandi italiani, che in circostanze simili a quelle del Balbo, ci diedero esempio d’eguale franchezza. – Del famoso abate Parini, di cui spero avrete letto e gustato il bellissimo poemetto il Giorno, si conta, che nominato membro della municipalità di Milano al tempo della Repubblica francese, e accortosi al primo entrare, che dalla sala comunale era levato via il crocifisso, si die’ a soffiare e brontolare di mala grazia. Cittadino Parini (allora si chiamavano tutti cittadini alla rinfusa, sguatteri e principi, dottori e citrulli; tanto fa!) cittadino Parini, che avete? gli domandarono. Che cittadino, che cittadino? (rispose pieno di nobile dispetto l’uomo venerando) sapete che ho a dirvi? dove non può stare il cittadino Cristo, e nemmeno il cittadino Parini ci può stare. Disse, tolse il cappello, e via. – Alcun che di simile fece a Roma l’immortale scultore Canova; che nella prima adunanza dell’Istituto delle scienze tenuta sotto gli auspici francesi nelle sale Vaticane, sentita a proporsi una formola di giuramento che incominciava: giuro odio ai Sovrani, egli, beneficato tutta la vita dai Papi, si levò tutto sconcertato dal suo scanno, e pronunciando nel suo patrio dialetto: mi non odio nissun, mi non odio nissun, se la svignò. Saputo poi che i liberalastri infranciosati d’allora (adesso s’usano i liberali tedescanti), gliene volean dare un solenne carpiccio, montò sulle poste, se la filò a Possagno, sua patria, e buona sera a loro signori! –  E del nostro grand’astronomo Oriani è fieramente bella la lettera al capo del Direttorio della Repubblica Cisalpina, che pretendeva da lui, come  impiegato, un simile giuramento. Leggete: ei vi parla di sé in terza persona.  Barnaba Oriani stima e rispetta tutti i governi bene ordinati, né sa comprendere come per osserva le stelle sia necessario giurare odio eterno a questo o quel governo. Egli è stato in età di ventitré anni impiegato alla specola di Brera da un governo monarchico, e si acquistò qualche nome coi mezzi che gli vennero dal medesimo governo somministrati. Sarebbe dunque il più ingrato degli uomini, se ora giurasse odio a chi non gli ha fatto che del bene. Pertanto, ei dichiara che, non potendo giurar odio al governo dei re, chi non gli ha fatto che del bene, si sottomette alla legge che lo priva del suo impiego, e malgrado questo castigo, non cesserà mai di fare i più fervidi voti per la prosperità della sua patria. » – Fate tesoro di sì belli esempi, o cari giovani, che anche a’ dì nostri i tempi corron torbidi e grossi. E se, come al Balbo, vi accada la disgrazia d’una prima giovenile caduta, rilevatevi tosto, col fermo proposito di rendervi degni di quei grandi e generosi italiani. –

IV

ANCHE UN BELL’ESEMPIO DI FRANCIA E LO DÀ UN GRAN VESCOVO.

Avete mai osservate le madri quando addestrano lor bimbi a camminare da sé? Un poco li guidano a mano, poi li lasciano, e correndo alcuni passi innanzi, li chiamano, allargando loro le braccia. Oh quante volte l’avrà fatto con noi la nostra buona mamma! Ma chi se ne ricorda? E così, come queste affettuose lezioni, abbiam messo probabilmente nel dimenticatoio anche la pena che talvolta ci saranno costate: ché sovente il bambino, mentre, malfermo ancora sulle gambucce, s’affretta per gittarsi tra le braccia della mamma, gli smuccia un piede e…. tàffete, per terra! Allora sapete che fa? Se è un’indole fiacca, e melensa (quali li fanno a volte le mamme a furia di moine) s’avvilisce, dà in una sonora ragliata, e dibattendosi a terra, aspetta la mamma che lo levi di peso, gli forbisca occhi, naso e bocca, lo raccheti colle chicche o colle ciambelle. Ma se il bambino è d’indole fiera e animosa, non s’avvilisce, no, non piange; tutt’al più qualche singhiozzo forzato ch’ei reprime perché ne ha vergogna; e intanto, aiutandosi di mani e di piedi, s’affretta a levarsi da sé. Or bene, s’io avessi a dire quale di questi due bambini sarà più animoso da grande a combatter la BESTIA dell’umano rispetto, direi il secondo, non il primo. Qualcheduno di voi riderà; eppure, credete a me, nel fanciullo ci è l’uomo. Checché pensiate del resto di questo pronostico, non mi potrete certo negare, o cari giovani, che quel non avvilirsi dopo una prima caduta, ma volersene tosto rilevare, fa segno di forza e nobiltà d’animo ben fatto. L’avete veduto poc’anzi in un grande italiano; vo’ farvelo ora vedere in un grande Francese, non foss’altro, a farvi intendere che la virtù non è soltanto frutto de’ nostri orti, ma là sempre attecchisce dove trova anime ben disposte. – Avrete sentito a parlare, m’immagino, di quel dottissimo ed eloquentissimo uomo che fu il Vescovo di Cambrai, Fénélon, uomo, dico, di petto veramente apostolico, che mettendo la verità innanzi a tutto, persino ai re sapeva dire di quelle parole, che dan la scossa e fanno impallidire. Togliete ad esempio ciò che osava scrivere al re più potente e più adulato d’Europa, cristianissimo di nome, pagano di fatti, che fu Luigi XIV. Citerò pochi tratti della lunga sua lettera, che gli costò vessazioni e dispiaceri non pochi. Leggete. — « Voi siete nato, o Sire, con un cuor buono, ma i vostri educatori ve l’hanno guasto, inspirandovi la diffidenza, la gelosia, l’orgoglio, l’amor di voi stesso… Avete immiserita la Francia per introdurre un lusso mostruoso nella. Vostra corte… I vostri ministri vi hanno avvezzo a tali adulazioni, che sanno d’idolatria, e che voi dovevate rigettare con disdegno… Il vostro nome è divenuto odioso ai francesi, insopportabile ai vicini… Quanto alle vostre conquiste, avete bel dirle necessarie. Ciò che è d’altri non ci è necessario mai, o Sire; sola veramente necessaria é la giustizia.. » E tira giù, tira giù un bel tratto, per conchiudere intimando al gran re: — « Dovete preferire il bene de’ vostri popoli a una falsa ombra di gloria, riparare i mali che avete fatti alla Chiesa, e pensar. seriamente a’ rendervi vero Cristiano prima che morte vi sorprenda. » — Che ne dite? Questo è un uomo, eh? Anzi un eroe, un apostolo, un Vescovo, un prete simile a quelli dai quali il Balbo confessa d’aver tanto imparato. – Or bene, questo grand’uomo ebbe una grande disgrazia. Stomacato della morale rilassata che prevaleva a’ suoi tempi, massime a cagione degli scandali della corte, scrisse con quella penna d’oro, onde va superba la Francia, un libro, intitolato delle Massime dei Santi, nel quale dal fervor del suo zelo lasciossi trarre qua e là a proposizioni d’eccessivo rigore. Di che, denunziato a Roma quello scritto, venne da Roma imparziale condannato. Fu un fulmine pel dottissimo e piissimo prelato!… Pure udite coraggio e virtù con che seppe vincere ad un tempo e l’amor proprio e l’umano rispetto. – Salito una domenica sul pulpito della sua Cattedrale accalcata di popolo, con ferma voce e tono pacato e tranquillo annunziò a’ suoi fedeli, che Roma aveva condannato il suo libro delle Massime dei Santi; gli esortò, si guardassero dal procacciarlo o dal leggerlo, o se già il possedessero, darlo incontanente alle fiamme: tal essere il loro stretto dovere. — Quanto a me (conchiuse) mi stimerei indegno della dignità, che porto, di vostro Pastore, se alla voce del sommo Pontefice non mi piegassi docile come l’ultima delle mie pecorelle. — E non basta: di questa sua generosa sottomissione volle lasciare alla sua chiesa un monumento duraturo, regalandola d’un ostensorio, il cui raggio veniva sostenuto da una figura della Fede in atto di calcar co’ piedi il libro, che Roma, maestra della fede, aveva condannato! — O viva il Vescovo Fénélon! Come onora il grande uomo questa franca e leale condotta!… E dico onora, perché il disdire un errore, il rilevarsi d’una caduta è sempre azione da uomo e da uomo onorato. Eppure, guardate pregiudizi! V’ha non pochi al mondo, che dicono precisamente il contrario. Avete errato? Guardatevi dal farvene accorgere, dal ritrattarvi, dal correggervi; n’andrebbe del vostro onore. — Che è quanto dire, che se uno per disgrazia è caduto nel fango, il suo onore porta che tutta la vita, se fa mestieri, se ne stia a brancolare nel fango; e se vi si è malamente inzaccherate e mani e faccia e vesti, si guardi bene dal pulirsi, se vuol farci la bella figura. — Che ve ne pare, giovinetti? È ragionare cotesto? Oh! quanto meglio l’han pensata i Balbo, i Fénélon… E qui mi sovviene un altro grande, ma antico, vo’ dire quel potentissimo ingegno di s. Agostino, il quale, non contento d’avere nel suo libro delle Confessioni condannati i traviamenti di sua gioventù, volle in fin di vita, ai tanti libri dottissimi che scrisse in difesa della religione, aggiungerne uno di Ritrattazioni, nel quale spiega, rettifica, e parte ritratta ciò che, esaminando accuratamente tanti scritti suoi, gli parve men consentaneo alla verità. — Or che ve ne pare, giovani miei? in ciò fare, fu vile e disonorato s. Agostino? Furon vili e disonorati con lui un Balbo e un Fénélon?.. Ebbene, con costoro, se occorra, saremo vili e disonorati anche noi.

VIVA CRISTO RE (15)

CRISTO-RE (15)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XVIII

CRISTO, RE DEGLI AFFLITTI (I)

La sera della prima domenica di Pasqua, quando la tristezza e la paura invadevano gli animi degli Apostoli riuniti nel Cenacolo, Gesù Cristo risorto apparve all’improvviso e disse loro: “La pace sia con voi” (Gv XX,19). E subito la pace inondò le loro anime. Questa è la scena che mi sembra più appropriata per presentare Gesù Cristo come Re che dispensa la sua consolazione agli afflitti, e per parlare di uno dei più grandi problemi dell’umanità: la sofferenza. È vero che il tema della sofferenza è sempre stato attuale, ma non lo è mai stato come oggi. “Vivere è soffrire”. Per sfuggire alla sofferenza, l’uomo ha provato di tutto, ma invano. Ha provato tutte le forme di governo, ha cambiato le diverse organizzazioni sociali, ha cercato di soffocare la sofferenza attraverso l’ubriachezza, la dimenticanza…. Invano; l’uomo non può dimenticare il versamento di lacrime e, purtroppo, possiamo affermare che non ne sarà mai libero. La sofferenza e la vita umana vanno di pari passo. Se non possiamo liberarci dalla sofferenza, proviamo almeno a chiederci: a cosa serve la sofferenza e come dobbiamo affrontarla nella nostra vita cristiana; nel prossimo capitolo mi chiederò: quale aiuto ci dà Cristo, Re dei tribolati, nella sofferenza?

I

La prima domanda che attende la mia risposta, e che racchiude le lamentele e le angosce di tanti fratelli sofferenti, è la seguente: perché Dio ci manda tante disgrazie, tanti mali, tante prove in questa vita terrena? E perché Egli colpisce giustamente me, io che ho sempre voluto servirlo lealmente, io che ho rispettato i suoi Comandamenti in ogni modo? Come può essere così “duro”, così “severo”, così “crudele” con noi? Sentiamo continuamente lamentele di questo tipo. Gli uomini che lottano con le difficoltà economiche, quelli che sono delusi, quelli che portano la croce di un matrimonio infelice, quelli che sono spezzati dalla sventura, mormorano: Quanto è severo Dio, che ci visita con tanta sofferenza! Perché Dio è così “severo”, perché è così “duro”? Ma non sapete che non è Dio a mandarci la maggior parte delle sofferenze, cioè che non vuole che l’uomo soffra così tanto? – Come lo capisci? Vi spiego. Il mondo attuale non è come Dio l’ha voluto nel suo primo progetto, non è come Dio l’ha creato, ma l’uomo ha sconvolto il suo sublime piano, e per questo tutto il mondo ora geme sotto le conseguenze del peccato originale: la natura inanimata, così come gli esseri viventi. Anche se la Chiesa non insegnasse nulla sulla caduta dell’uomo e sulle sue conseguenze, cioè sul peccato originale, sentiremmo, a causa delle innumerevoli contraddizioni e delle terribili ingiustizie della vita, che qualcosa è all’opera, che qualcosa non è in ordine, che la vita umana non può uscire dalle mani del Creatore in questo modo, che deve esserci stato qualche errore già all’inizio della nostra storia. Dobbiamo affermare con decisione e apertamente che ci sono state e ci sono sulla terra innumerevoli sofferenze che Dio non ha voluto e non vuole, e la cui unica causa è l’uomo, l’uomo peccatore, l’avidità umana, l’egoismo, l’orgoglio. Devo fare qualche esempio? Solo uno o due, presi a caso. – Ho visto a Roma l’immenso Colosseo, il Circo, orrendo anche nelle sue rovine. Ci fu un tempo in cui il popolo, ubriaco di sangue, e l’imperatore stesso, udirono la sera il tragico saluto dei gladiatori che combattevano fino alla vita e alla morte: Ave Caesar, morituri te salutant! “Ave Caesar, i moribondi ti salutano! Allora i gladiatori si attaccarono l’un l’altro; combatterono… gli uomini… per uccidersi l’un l’altro; e gli altri, anch’essi uomini, si rallegrarono di tale spettacolo. In verità, Dio non voleva questo! Il vecchio mercato degli schiavi è visibile ancora oggi a Tunisi, e i bastoni e gli anelli di ferro a cui erano legate le catene di quegli uomini infelici – uomini come noi, con anime immortali! -E Catone, il saggio Catone, scrive: “Bisogna saper vendere a tempo debito le bestie e gli schiavi anziani!” Orrore, prima le bestie, poi gli schiavi! Non è certo questo l’intento di Dio! Che questi esempi sono antichi, che oggi non ci sono né gladiatori né schiavi? Bene, allora. Ecco alcuni esempi moderni. – Una vedova che soffre disperatamente ha un figlio che fa sempre baldoria, che le chiede sempre più soldi, eppure non ha una sola parola di affetto per la madre…. Come può Dio volere questo? Un padre ha sei figli, sei figli che non hanno nulla da mangiare. Accetta qualsiasi lavoro, qualsiasi cosa gli capitai a tiro. Ma non lo vogliono da nessuna parte. E i bambini, affamati, piangono a casa…. Come può Dio volere questo? Dio è “troppo duro” per mandare tante sofferenze all’uomo? È Lui che le manda? No, e mille volte no! La causa di questi innumerevoli dolori, sofferenze e dispiaceri è l’uomo, la sua natura umana decaduta e degradata. Sì, nella maggior parte dei casi è l’uomo il responsabile dell’amarezza di questa vita terrena. So benissimo che mi verranno mosse delle obiezioni: anche se Dio non vuole la maggior parte delle sofferenze, tuttavia le permette, le tollera, acconsente che l’uomo debba soffrire così tanto. Perché acconsente? Questo è un altro discorso. In realtà, Dio potrebbe sospendere l’ordine e le leggi della natura: perché non lo fa? – È la domenica di Pasqua del 1927. Una delle chiese di Lisbona è affollata di gente. All’improvviso… la cupola crolla… e l’urlo di quattrocento feriti riecheggia nell’aria. La chiesa è crollata! Dio non avrebbe potuto sostenere il muro che si stava rompendo? Così facendo, non ha salvato quattrocento uomini! Avrebbe potuto salvare quattrocento uomini! Sì, avrebbe potuto! E non l’ha fatto. Non ci libera da tutti i mali. Ci permette di soffrire.  Dobbiamo forse dire che Dio non ci ama? No. Diciamo piuttosto: se permette che le sue creature predilette versino tante lacrime amare, se Dio permette che la vita umana trabocchi di sofferenza, allora ha ragioni potenti per non farlo, uno scopo elevato che non conosciamo. – Vediamo: qual è la caratteristica più bella dell’anima cristiana? Non soffrire? Che sarà mai! Anch’essa soffre e… piange. Ma non si lamenta, non si ribella, non si dispera; bensì cerca di scoprire cosa Dio vuole da lei, permettendo che le capiti questa o quella disgrazia. Dio è il mio Padre benevolo, e se le permette di soffrire così tanto, deve avere le sue ragioni.

II

Studiamo ora quali sono i piani che Dio può avere con le nostre sofferenze. Anche alla luce naturale della ragione, posso già scoprire alcuni motivi. Perché Dio ci permette di soffrire così tanto? Perché attraverso la sofferenza spesso difende la nostra vita corporea e la nostra salute. Perché un dente malato fa male? Perché se non facesse male, nessuno si preoccuperebbe se i denti si rovinano o meno. Perché una scottatura fa male? In modo da essere prudenti e non bruciarci. Faccio un passo avanti e chiedo: perché c’è la morte, la più grande di tutte le sofferenze terrene? Affinché possiamo avere una maggiore stima della vita che passa. Se la morte non fosse così terribile, quanti si suiciderebbero! Questa è la risposta della semplice ragione. – Ah, ma questa è una piccola risposta, non è vero? La fede cristiana mette a fuoco il problema in modo più profondo. Vediamo la sua soluzione: che cos’è la sofferenza, la disgrazia, nel piano di Dio? Forse è l’ultima risorsa per salvare la mia anima. Ho appena toccato una piaga viva di molti uomini moderni. Ci sono persone che si perdono perché stanno troppo bene su questa terra. Uomini che arrivano a sedersi nella loro regalità in questa vita, e solo in vista di un benessere effimero; uomini che non vogliono credere che su questa terra tutto sia un continuo inizio, una prova imperfetta, un’opera incompiuta. Sono sordi e ciechi a tutto ciò che non sia denaro, fortuna o piacere, a tutto ciò che ci parla di Dio, dell’anima, della Religione, della vita eterna. Non conosciamo tutti una persona così, che sta troppo bene e che si preoccupa di tutto – delle sue scarpe, del suo cagnolino, del suo cappotto, della sua auto, del suo ombrello, di tutto… – tranne che della sua povera, unica, anima immortale? – Quando Augusto venne a conoscenza dell’atrocità di Erode, che fece uccidere il proprio figlio per paura che gli sottraesse il trono, esclamò: “Preferirei essere un maiale che un figlio di Erode! 1 MACROBIO (Satis., II. 41) è il primo a riferire nell’anno 410 questa testimonianza, peraltro sospetta; infatti tutti i figli di Erode erano già maggiorenni e alcuni di loro avevano figli. (N. dell’E.) Se avesse conosciuto l’uomo moderno, avrebbe detto: preferisco essere un cagnolino che l’anima dell’uomo moderno, perché l’uomo moderno si preoccupa più del cane che dell’anima. Ebbene, se Dio vuole portare questi uomini alla conversione, cosa può fare? Egli può servirsi delle prove e delle sofferenze. – Una signora distinta andò un giorno a lamentarsi con un direttore spirituale anziano e molto esperto: Padre, questo mondo mi assorbe quasi completamente e, qualunque cosa faccia, non riesco a liberarmi dalle mie vecchie e grandi colpe. Ho provato di tutto: esercizi spirituali, confessione… Tutto inutile. C’è ancora salvezza per me? Cos’è che può ancora salvarmi? Cosa può salvarvi? Solo una grande disgrazia, rispose il vecchio sacerdote. La signora non capì la risposta. Ma non le ci volle molto per capire. Perse la maggior parte delle sue ricchezze, molti dei suoi uomini morirono e, alla luce di tante disgrazie, quell’anima fuorviata trovò Dio. – Così, la sofferenza può essere nelle mani di Dio un aratro che apre solchi profondi, che rimuove e allenta il terreno che il benessere ha indurito. Ci sono moltissime persone che, dopo essersi allontanate per lunghi anni da Dio, sono state riportate a Lui dalla sofferenza. Molti potrebbero dire con CHATEAUBRIAND: “Ho creduto perché ho sofferto”. Molti uomini si comportano nei confronti di Dio come si comportano nei confronti della cucina: durante l’inverno sono vicini ad essa, durante l’estate la dimenticano completamente. Le stelle sono sempre nel cielo, ma le vediamo solo di notte; allo stesso modo, molte persone pensano alla vita eterna solo quando la sofferenza irrompe nella loro vita. Ma io non sono un miscredente”, mi direte; “non penso che Dio si serva della sofferenza per farmi camminare sulla retta via. Che cosa vuole Dio da me quando sono colpito da una disgrazia?”. Potrebbe avere altri scopi. Potrebbe voler plasmare, abbellire, lucidare la vostra anima con la sofferenza. La sofferenza purifica, abbellisce l’anima e la rende profonda quando viene sopportata e offerta per amore di Dio e dei peccatori. Il continuo benessere rende l’uomo volgare, orgoglioso, sfrenato, ambizioso; la sofferenza, invece, lo rende compassionevole e umile…, lo rende più simile a Cristo! Sì: la sofferenza può essere l’opera dell’artista che Dio fa sul marmo della mia anima. Anche il marmo vorrebbe piangere quando si frantuma sotto i colpi del martello dello scultore. Ma se l’artista “trattasse bene il blocco di marmo”, sarebbe in grado di ricavarne un capolavoro? – La sofferenza può essere il lavoro del minatore con cui Dio scava nella mia anima. Dio cerca l’oro in noi; e l’oro di solito non si trova in superficie, ma deve essere scavato dalle profondità, a costo di un duro lavoro. Ma la sofferenza può anche essere una punizione per mano di Dio. La giustizia esige che colui che ha peccato debba soffrire. È un fatto che non ammette repliche: da qualche parte deve essere punito, in questa vita o nell’altra. “Come oso dire che non ho peccato? Ho espiato i miei peccati? Lo dico a tutti i fratelli: voi che soffrite, non dimenticate mai che è meglio espiare il peccato quaggiù. È meglio dire con sant’Agostino: “Qui, qui, punisci, brucia, visitami, Signore, purché tu mi usi misericordia nell’eternità!”. – FRANÇOIS COPPÉE è stato uno scrittore francese di fama mondiale. Per molto tempo ha vissuto da non credente, poi si è convertito. Soffrì atrocemente sul letto di morte, e pregò forse di porre fine ai suoi dolori? Al contrario. Ha detto: “Je veux une longue agonie…”. “Signore, concedimi una lunga agonia” e, dopo un attimo di silenzio, aggiunse: “… car je crois en Dieu et á l’iminzortalité de l’áme”. “… perché credo in Dio e nell’immortalità dell’anima”. – “Che la sofferenza sia anche una punizione per mano di Dio?” Beh, lo capisco. Ma non capisco come spesso siano i buoni a soffrire di più, quelli che non hanno peccato; e, d’altra parte, i criminali più famosi, che sembrano aver fatto una sola buona azione nella loro vita, si danno la vita migliore che si possa pensare. Come si spiega questo? Dov’è la giustizia? È vero, chi riflette in questo modo ha ragione…, se con questa vita è tutto finito. In questo caso, non c’è soluzione al problema; se così fosse, non c’è davvero giustizia. Ma se credo che la vita continui dopo la morte, allora non sarà difficile trovare la risposta. “Gli uomini giusti soffrono molto in questa vita”, perché non devono soffrire nella vita eterna, e qualsiasi peccato abbiano commesso – nessuno può affermare di essere completamente esente dal peccato – è già stato espiato in questa vita. “I malvagi hanno prosperità in questa vita”, perché nell’altra vita dovranno soffrire, mentre la ricompensa per quel poco di bene che possono aver fatto – possono aver fatto qualcosa, anche se si tratta di un’inezia – la ricevono già in questa vita. – Il problema, allora, è questo: come conciliare la marea di mali che ci inonda con la bontà del Padre celeste, che veglia sull’universo? E la risposta è questa: Dio non trova piacere nella sofferenza degli uomini, così come i genitori non trovano piacere nel dover negare qualcosa ai loro figli o nel doverli punire. Se devono farlo, è perché hanno tutte le ragioni per educare, emendare o rimproverare la loro cattiva condotta, evitando così che i loro figli peggiorino. Questo getta già un po’ di luce sul problema del dolore. Solo un po’ di luce? Sì, una certa luce. Infatti, anche dopo tutte le riflessioni e le spiegazioni, dobbiamo confessare che non abbiamo raggiunto una chiarezza assoluta e che qui c’è un mistero, un segreto, che l’uomo non può penetrare. Spesso siamo costretti a dire: non capisco, non capisco. Perché non siamo noi i creatori dell’universo. Quello che ho fatto io stesso lo capisco; quello che hanno fatto gli altri è più difficile per me. Trovo più difficile capire quello che hanno fatto gli altri, e ci sono molte cose al mondo che io non ho fatto. Solo il Creatore può comprendere appieno gli eventi del mondo. Già Sant’Agostino esprimeva questo pensiero quando paragonava la vita dell’uomo a un arazzo di ricchi colori, di cui vediamo solo il rovescio. Guardate un bellissimo arazzo persiano: fiori, figure, colori, si fondono in un’armonia artistica. Sì, ma se vediamo solo il rovescio della medaglia, ci sembra un’orditura senza ragione od ordine. Lo stesso vale per la vita. Noi vediamo il rovescio; il dritto, cioè il grande pensiero unificatore che riunisce tutti i fili e i dettagli secondo un piano prestabilito, lo vede solo Dio. Accanto al telaio della vita umana c’è il Dio eterno, di cui non conosciamo i disegni, i cui pensieri non sono i nostri pensieri e le cui vie non sono le nostre vie. Ma se siamo nelle mani di Dio, se un uccello non cade dal tetto senza che Dio lo sappia, se non cade un capello dal nostro capo senza il piacere dell’Altissimo, nessuna disgrazia, nessuna sofferenza o dolore potrà strapparmi a Dio… è una verità indiscutibile che voglio sempre professare.

* * *

Una volta ho incontrato un conoscente, un giudice, che non vedevo da diversi mesi. Il suo unico figlio, studente universitario, era un mio discepolo, per giunta eminente. Tutta la famiglia ha trascorso l’estate in una località balneare. I genitori si stavano riposando in riva al lago; il bambino stava nuotando. All’improvviso…, senza una parola, senza un solo lamento, si tuffò… lì, in piena vista dei suoi genitori…. Fu trovato il giorno dopo in acqua…; era morto…. Il loro unico figlio, robusto, di diciannove primavere! …. Era la prima volta che incontravo il padre dopo il disastroso evento. In queste occasioni, abbiamo istintivamente cercato qualche parola di consolazione…. Ma non ce n’era bisogno. Con voce affannosa, con un non so che di ammirevole, con la voce tremante di un uomo che lotta contro il dolore, mi disse: “Padre, in mezzo a questa terribile disgrazia, ringrazio Dio per essere stato così misericordioso con il nostro Giovanni…”. La mattina stessa si era confessato e aveva ricevuto la Comunione…. Da allora, io e sua madre andiamo a confessarci e a fare la Comunione ogni mese nello stesso giorno…. Ci conoscono già e ci guardano tutti con sorpresa; non capiscono come possiamo sopportare una tale disgrazia…”. Avrei voluto gridare a tutti: “Uomini, fratelli che soffrono, che sono oppressi, tutti voi, venite a imparare da questo padre tormentato! Fratello, la vita è difficile per te e sei nel mezzo di una notte che sembra non avere fine? Fratello, sei stanco di versare lacrime? Poi guardate: inginocchiatevi davanti a Dio, chinate il viso e appoggiatelo sulle sue mani, sulle mani del vostro Padre celeste, e cercate di pronunciare lentamente, rendendovi conto di ciò che state dicendo, le seguenti parole: “Sia fatta la tua volontà, Signore, ovunque io sia. Sia fatta la tua volontà, Signore, anche se non la capisco. Sia fatta la tua volontà, Signore, per quanto io possa essere turbato”. Signore, sia fatta la tua volontà in ogni cosa; Signore, ti sarò sempre fedele. “Chi può separarci dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angoscia, la fame, la persecuzione, la spada…? Sono certo che né la morte, né la vita, né gli Angeli, né i Principati, né le Virtù, né le cose presenti, né quelle a venire, né la potenza, né alcunché di più alto, né alcunché di più profondo, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è fondato su Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm VIII,35.38-39).

CAPITOLO XIX

CRISTO, RE DEGLI AFFLITTI (II)

Nel capitolo precedente ho proposto un tema molto difficile: il problema della sofferenza umana. Forse non c’è altro argomento che interessi di più gli uomini, dal momento che tutti, o quasi, avranno sentito nel loro cuore lo sguardo terribile della sventura e del dolore. La sofferenza è la compagna inseparabile dell’uomo che vaga in questa “valle di lacrime”; un mistero tremendo per la mente pensante e una pietra di paragone per l’anima religiosa. Non si può scherzare con la sofferenza. È una cosa dura, grave, amara; ed è spesso una prova, apparentemente senza scopo, insopportabile; tuttavia, come abbiamo visto nel capitolo precedente, la Sacra Scrittura dice con la sua mirabile saggezza: “Chi non è stato tentato, che cosa può sapere?” In altre parole, la tribolazione è un prerequisito per l’equilibrio della vita giusta. – Chi non ha sofferto non capisce come il nostro “io” migliore, la nostra anima, il nostro Dio, che dimentichiamo quando il benessere ci sorride, si possa trovare sul sentiero roccioso della sofferenza. Chi non ha sofferto non sa come si possano comprendere i mali degli altri guardandoli attraverso la propria miseria; come si possano tagliare con le forbici del dolore acuto tutti i nodi che legano la rete dell’egoismo, della piccolezza d’animo; come ci si possa trasformare in anime morbide, comprensive, piene di perdono. Chi non ha sofferto non sa come la sofferenza possa purificarci dal peccato, espiare la colpa, recuperare il tempo perduto. Certo, la sofferenza sopportata con forza ci rende più coraggiosi, l’impotenza ci rende più malleabili, l’umiliazione ci innalza; in una parola, la sofferenza sopportata in unione con Dio ci rende più profondi, più spirituali. La sofferenza sopportata in unione con Dio! La sofferenza santifica, purché sia vissuta nello spirito di Cristo. Allora l’anima diventa più delicata e profonda, più comprensiva e più forte.Ci sono infatti coloro che si confondono e si disperano nella sofferenza, perché non soffrono nello spirito di Cristo. Questi, invece di aiutarli, si disumanizzano. Questo ci porta al tema del presente capitolo: tutti dobbiamo soffrire, perché fa parte della nostra condizione umana. Ma come possiamo soffrire secondo gli insegnamenti di Nostro Signore Gesù Cristo? Come possiamo avere Cristo come nostro Maestro, il Re degli afflitti, in momenti così dolorosi?

I

“Cristo è il re dei tribolati”. Che cosa significa questo nella vita pratica? Quale forza ottengo se, nei giorni bui, sotto le disgrazie che mi sommergono, penso che Cristo abbia già percorso la stessa strada che io devo percorrere? Si dice che in primavera, quando la vite fiorisce, anche il vino comincia a muoversi, a fermentare, a sentire in un certo modo la fioritura della vite da cui proviene. Si potrebbe dire che esiste una sorta di “simpatia” tra il vino e la vite. Simpatia significa “partecipazione alla sofferenza di un altro, compassione, comunità di sentimenti”. Si dice anche che quando un uragano scatenato sferza il grande oceano, allo stesso tempo la superficie liscia dei laghi dolci e tranquilli, situati tra le montagne scoscese, comincia a muoversi; essi sentono in un certo modo le lotte dell’immenso mare, poiché provengono da esso. C’è simpatia tra il lago e il mare. C’è anche una certa simpatia tra le sofferenze di Cristo e le mie. Se “Cristo soffre”, io soffro. Se io soffro, Cristo soffre con me. Questa simpatia o “compassione” reciproca è in grado di mitigare e lenire la mia anima dolorante, persino di attenuare la paura della morte. Questo quando sarò in grado di soffrire con Cristo, avendo un cuore compassionevole per Lui, soffrendo con Cristo. – La vita a volte è molto dura e si è tentati di dire: “questo è il massimo e non un passo in più”, non ho più forza, non ce la faccio più. Così, quando vi sembra di non farcela più, invece di prendere una pistola per uccidervi, prendete un piccolo crocifisso, mettetelo davanti a voi e pensate a ciò che il Signore ha dovuto soffrire per voi. Quando la notte terribile vi avvolge, quando soffrite l’indicibile, pensate: Cristo ha sofferto molto di più per me. Consolatevi con il pensiero: quanto deve aver sofferto il Signore! – Un prete tedesco incontrò una vecchietta sulle rive del Reno e le chiese: “Come va, signora? “La mia casetta è stata distrutta da un incendio, i miei figli sono andati a vivere in America, io sono in grande miseria…”. Il Sacerdote voleva dirle qualche parla di consolazione ma l’anziana donna lo interruppe e disse con un sorriso gentile: “Nostro Signore Gesù Cristo è stato senza fissa dimora per tutta la vita, e io non sono ancora arrivata a quel punto; Lui ha dovuto andare a piedi nudi, io non ancora; ha dovuto portare una corona di spine, e io no!…”. Non sentiamo forse tutti che Cristo è veramente il Re dei tribolati e che il Cristianesimo è, senza dubbio, il grande benefattore dell’umanità afflitta? Oh, se solo l’olio dello spirito cristiano ungesse tutte le nostre ferite! – La vita è spesso terribile e crudele. Sembra che a ogni passo mi capiti una tragedia dopo l’altra. Ma se mi aggrappo alla croce di Cristo, la mia vita avrà un senso. Non potrò evitare la malattia, non potrò evitare che il mio matrimonio non vada bene; il mio marito severo non cambierà, il figliol prodigo non tornerà, la lotta quotidiana per uscire dalla miseria non sparirà; ma… l’imitazione di Cristo rende più facile la sofferenza. Ha scelto una vita piena di sofferenza per poterci dire: “Ascoltate e considerate se c’è un dolore come il mio dolore!”. (Lamentazioni di Geremia 1,12). Quello che dovete soffrire ora, io l’ho già sofferto, l’ho sofferto di più e l’ho sofferto per voi. Siete poveri? Ho scelto la povertà. Sacrificano la tua dignità e il tuo prestigio? Perché cosa mi hanno fatto? Sapete che sono stato schiaffeggiato. Sapete che in attitudini di disprezzo sono stato presentato a Erode. Guardatemi sulla croce. Lì sono stato abbandonato da tutti, anche dal cielo stesso. Piangete? Ebbene, mescolate le vostre lacrime con le mie, e perderanno la loro amarezza. La vostra croce è pesante? Portatela un po’ sulle mie spalle; la sopporteremo entrambi più facilmente. Siete pungolati dalle spine della vita? Guardate quelle che porto sulla testa. “Ma a volte i sentieri lungo i quali il Signore ci conduce sono troppo difficili, troppo rocciosi, troppo pieni di spine”, potrebbe dire qualcuno. Oh, sì, fratello, chi potrebbe negarlo? Ma sono impossibili? No. Sono impossibili solo per chi non ha fede. Se ho fede e credo che tutto ciò che mi accada nella vita è nelle mani di Dio; se ho fede e credo che c’è Qualcuno che non mi dimentica, anche quando tutti gli altri mi abbandonano; che mi ama quando nessuno mi ama; che veglia su di me quando tutti gli altri dormono…, la mia vita avrà un senso. Quale forza ha la nostra fede proprio nella sofferenza! Se nelle ambasce del dolore abbraccio il Cristo sofferente, la vita continuerà ad essere una “valle di lacrime”, ma la mia anima non cadrà nello sconforto. Continuerò a lamentarmi, ma le mie lamentele saranno orazioni, una preghiera sublime.  Continuerò a soffrire, ma non dispererò, e si sa che “non è il dolore che uccide, ma la disperazione; e non è la forza che dà la vita, ma la fede”.

II

Con quanto detto abbiamo appena risposto a un’obiezione che può essere sollevata da uomini superficiali: è lecito per un vero Cristiano lamentarsi, è lecito per lui fuggire dalla malattia, dalla morte? Risponderò a questa domanda senza mezzi termini. Sappiamo che la natura umana teme il dolore, sappiamo che vorrebbe fuggire dalla sofferenza e dalla morte. Morte! Morire! Questo pensiero travolge tutti gli uomini, anche i più favoriti dalla fortuna, quelli che non provano nessun altro dolore nella loro vita (se esiste un uomo del genere al mondo!). Chi non ha sentito la minaccia più o meno affrettata di morire? Un giorno o l’altro ci accorgiamo con spaventosa chiarezza di quanto il mondo sia effimero…. – Possiamo riassumere la storia dell’uomo in tre parole. Il vostro, come il mio: “Nasciamo, soffriamo, moriamo”. I secoli vengono e i secoli passano; gli uomini nascono e gli uomini muoiono; le città sorgono e altre scompaiono; le dinastie di re brillano e cadono…: tutto, tutto è in via di estinzione… C’è stato un giorno in cui anch’io sono entrato nel mondo con un grido alla nascita…, e ci sarà un altro giorno in cui con un altro grido o lamento lascerò questa vita. Che cosa terrificante, se questa fosse la fine di tutto, se la vita non fosse altro che questo! Sappiamo che non è così, eppure rabbrividiamo al pensiero della morte. E non dobbiamo scandalizzarci per questo, perché è Dio stesso che ha messo l’amore per la vita nei nostri cuori. – Un giornalista non credente si recò a Lourdes e scrisse in seguito le sue impressioni. Era stupito e scandalizzato da una cosa che gli sembrava incomprensibile: che uomini devoti e ferventi vadano in pellegrinaggio al santuario mariano per chiedere di essere guariti, per chiedere di allungare la vita. Non vogliono forse andare in paradiso, visto che sono così credenti? Non è illogico? O voi che fate questa domanda, non siete mai stati gravemente malati? Non avete mai passato una notte insonne con trentanove o quaranta gradi di febbre? Si vorrebbe dormire, dormire… anche solo per cinque minuti… ma non si riesce quasi a dormire… le gambe non riescono a stare ferme… si guarda l’orologio: le dodici e mezza! Oh, quanto tempo passerà prima che arrivi l’alba…. Ma ditemi, non siete mai stati malati? Se lo siete stati, infatti, non vi stupirete del fatto che in un caso del genere un uomo si aggrappi alla qualsiasi pagliuzza che possa dargli sollievo e… non per questo deve rinnegare la sua fede cattolica. Lo stesso GESÙ CRISTO ha cercato sollievo nel mezzo del suo grande dolore: “Padre mio, se è possibile, non farmi bere questo calice” (Mt XXVI, 39; Mc. XIV 14,36; Lc XXII, 42). E voi volete che il buon Cristiano non senta il dolore? Volete che colui che crede nell’eternità non si commuova davanti alla tomba dei suoi cari? No, no! Questa non è la fede cristiana. Anche noi ci pieghiamo sotto il peso del dolore, ma… non ci spezziamo. Anche noi piangiamo sulle tombe… ma non disperiamo, e così poniamo sulle tombe la croce di Cristo, che precede la risurrezione…. – Cristo crocifisso è la più grande consolazione per l’uomo che soffre! Le disgrazie, le sofferenze, arrivano anche a me; mi fanno male, ma non perdo mai la fede: “Quello che Dio prende, lo restituisce in abbondanza”. Quando? Non lo so. Ma so che tutto ciò che mi restituisce lo fa in abbondanza. Sono Cattolico eppure soffro; ma in mezzo a tutte le difficoltà sento le parole del Signore, piene di consolazione: “Conosco le tue opere, le tue fatiche e le tue sofferenze….. E che hai avuto pazienza, che hai sopportato per amore del mio nome e non sei venuto meno” (Apocalisse II: 2-3). E non dobbiamo dimenticare l’altra grande verità: il Signore non abbandona chi non lo abbandona per primo, ed è con noi anche quando non sembra essere attento a noi. – Santa Caterina da Siena, in una fase della sua vita, fu tormentata da terribili tentazioni; sudò quasi sangue nella dura lotta contro le tentazioni. Alla fine vinse, e la dolce gioia del trionfo le inondò il cuore. “O Signore”, si lamentò allora con Gesù Cristo, “dov’eri quando ero alle prese con tentazioni così terribili?” E il Signore gli rispose: “Nel tuo cuore”. “Ma come è possibile? – esclamò stupita la Santa: “Il mio cuore era pieno dei più turpi pensieri e Tu eri in esso?”. Allora il Salvatore chiese: “Quelle tentazioni ti sono piaciute o ti hanno fatto soffrire?” “Ah, quanto mi hanno fatto soffrire”, rispose CATERINA. “Vedi, figlia mia, che questi pensieri ti abbiano ferito e non hanno scalfito il tuo cuore, è stata opera mia. Ero nel tuo cuore anche allora, e ho permesso le tentazioni perché dovevano essere proficue per te. Tutti gli uomini soffrono, ma solo i Cristiani sanno soffrire; tutti muoiono, ma solo i Cristiani sanno morire.

* * *

Chiudo il capitolo con il caso di uno scrittore mistico medievale, TAULERO. Questo scrittore, profondamente religioso, incontrò un giorno un mendicante. Lo salutò calorosamente: “Buongiorno”. Il mendicante rispose: “Buongiorno? Io non ho mai avuto una giornata cattiva. Taulero si è giustificato: “Intendevo dire che Dio ti dia fortuna”. Ma il mendicante obiettò di nuovo: “Sono sempre fortunato”. Taulero spiegò di nuovo: “Intendevo dire che tutto accada secondo i tuoi desideri…”. “Ma tutto mi accade come desidero, e sono felice”, rispose l’uomo cencioso e affamato. Taulero era stupito. “Ma sei felice? … nemmeno chi non manca di nulla è felice…”. “Eppure sono contento. So di avere un Padre in cielo che mi ama. Quando la fame o il freddo mi tormentano, quando la gente di strada senza cuore si prende gioco di me, dico solo questo: “Padre, lo vuoi, perché anch’io lo voglio! In questo modo tutto ciò che voglio si realizza…”. “E se Dio ti gettasse all’inferno, vorresti comunque ciò che Dio vuole, ha chiesto Taulero? E il mendicante rispose: “Anche allora! Perché ho due braccia: la conformità alla volontà di Dio e l’amore. E se Dio volesse gettarmi all’inferno, abbraccerei Dio con queste due braccia e non lo lascerei andare, lo trascinerei con me all’inferno. E preferirei essere con Dio all’inferno che senza Dio in paradiso? La nostra vita sulla terra è sofferenza, dolore, ma non è un inferno. E anche se lo fosse! Se Dio è con me… – Dobbiamo afferrare la mano di nostro Signore Gesù Cristo! E dobbiamo dire: “Sì, mio Signore, soffro, ma persevero”. Voglio esservi fedele fino a quando la fede si trasformerà in visione, il desiderio in possesso, la breve sofferenza terrena in gloria eterna, questa vita così piena di sofferenze nella corona incomparabile della vita eterna.

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (10)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (10)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni)

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

AI 20 MILA CHE COMPRARONO E A1 100 MILA CHE LESSERO IL LIBRO DELLA GRAN BESTIA: DUE PAROLE.

Dio vi benedica gli occhi, le mani e le tasche, o carissimi giovani, che correste in tanta folla a vedere la Gran Bestia, e faceste sì buon viso, non dico a lei brutta e schifosa che è, ma a me, che mi sono ingegnato di dirvene tutto il male che si merita. Ma voi non vi siete accorti, o cari giovani, d’ una cosa. Tutti attenti, curiosi, incantati, cogli occhi tondi e colla bocca aperta a guardar di faccia il mostro, rivederne il pelo, osservar le zanne e gli artigli …. vi siete dimenticati di dargli una giratina per di dietro. Vi sareste accorti che gli mancava la Coda. Oh perché mo? lasciarlo senza coda il bestione? Forse che non ne ha da natura? — Oh si che ne ha! e come lunga! Ma la fu colpa della mia fretta; colpa, dico, che ora intendo correggere, appiccando alla BESTIA, con questo altro libretto, la sua brava Cona; e così avrete tutta la BESTIA intera e nel suo genere perfetta. Leggete e divertitevi. Se anche questo mio lavoretto vi torna gradito, spero non tarderemo a rivederci.

F. MARTINENGO, P. D. M.

I.

PRINCIPIIS OBSTA.

Vecchia sentenza, nata ancor prima che nascesse la nostra lingua italiana (e di fatto è scritta in latino); e vuol dire, cari giovani, che in tutte cose convien badar bene ai principii, e se trattisi di male semenze, soffocarle tosto in sul primo germogliare. Più vecchio ancora (e più autorevole; perché scritturale) quel detto: qui spernit modica paulatim decidet. Sprezzi le piccole cose, il piccolo male? Bada! a poco a poco crescerà, diverrà grande e ti trarrà in rovina. A che consuona quel che dice con espressiva metafora un Apostolo: Quantus ignis quam magnam sylvam incendit! che Dante traduce: Poca scintilla gran fiamma seconda. Insomma è la storiella del zolfino, che perpetuamente in mille guise si ripete. Tonio sta novellando sull’aia cogli amici, accende la pipa, e il zòlfino mezzo acceso butta là, senza pensare che proprio là c’è il pagliaio. Di li a poco pagliaio, stalla, casuccia tutto una fiamma. Dio mio! Quantus ignis quam magnam sylvam incendit! – Ma a che mira tutto questo preambolo? Ad avvertirvi, miei cari giovani, che se volete che la GRAN BESTIA non vi metta l’ugne sul groppone, vi bisogna star desti con tanto d’occhi aperti ai primi assalti che la vi darà. V’ho già detto che a combatterla dovete incominciar subito; ora aggiungo, che dovete combatterla non solo nel molto, ma anche nel poco: non solo allorché aprendo la bocca e mostrando le zanne, minaccia divorarvi, ma anche quando, traendo la lingua, dà vista di volervi soltanto leccare. La è una bestia traditora, proprio come è il gatto, vedete! Scherzate col gatto, e se non è oggi è dimani, una buona sgraffiata non potrà mancarvi. Ma a me piace persuadervi per via di fatti. Sentite. Bertino, giovinetto di buon? Indole e di migliori costumi, usava famigliarmente con un suo cugino maggiore due o tre anni di lui. Chiamavasi Angelo, ma era ben altro; ché non tardò ad entrargli in certi propositi, i quali….non istavan mica bene. Bertino, ben educato, n’ebbe pena, e non volle più andarci con quell’impudente: ma la mamma che il teneva per uno stinco di santo, tanto bene sapeva infingersi! n’ebbe dolore, e se ne corrucciò col suo Bertino: . – Che non vai più col cuginetto?.. Già due volte che viene a chiamarti nel passeggio, e tu….— Che ci voleva a rispondere: Guarda, mamma mia buona; la cosa sta così e così? Bertino invece non n’ebbe il coraggio e tornò coll’Angelo cattivo. O giovanetti, se avete una mamma buona, come la penso io; una di quelle mamme, che nei figli, più che la grazia fallace e la vana bellezza, amano l’innocenza e la virtù, e tremano al sol pensarli viziosi e corrotti…. giovani cari, per una mamma cosiffatta non abbiate segreti: è l’angelo visibile che Dio vi ha dato: guai, se le chiudeste il cuore! Così fece pur troppo Bertino, e contro coscienza tornò a trattare col tristo compagno, contro coscienza ne udì cattivi discorsi e peggiori consigli, contro coscienza ne accettò un libro…. Quando il cugino gliel’offerse, il primo pensiero fu di rifiutarlo; la coscienza dentro gridava: no, non devi pigliarlo; il compagno insisteva: piglia, piglia…. Purché nol veda tua madre… che hai paura ti abbruci le tasche? — Be, lo piglierò’ (pensò allora Bertino), lo piglierò per cessar l’ importunità; non fia però mai vero che lo legga. — Ma quando l’ebbe addosso, gli parve averci l’inferno; lottò due giorni contro la. Tentazione d’aprirlo; finalmente (era da prevedersi) la curiosità. vinse. Una sera, assicuratosi che la mamma dormiva, si chiuse nel suo stanziolino, accese il lume, aperse tremando il libro, e vi stette sopra gran parte della notte. Il dimani. a ora tarda si levava pallido, col volto contraffatto, con due occhi che facevano paura. Quel libro maledetto gli aveva abbruciato; non: le tasche, ma l’anima. Povero Bertino; povero Bertino! Fu quello il principio di sua rovina. A venticinque anni, consunto nel vizio, morì. – Or  che ne dite della Bestia, giovinetti? L’ha la coda lunga si o no? Oh se l’infelice avesse avuto coraggio di troncarla risolutamente fin da principio!.. Tant’è, principiis obsta e « Poca scintilla, gran fiamma seconda! » … tenetelo a mente! Ma via! che vengo a contristarvi con esempi funesti? Voi sarete giovani franchi, di coscienza non solo, ma di coraggio: voi imiterete quel bravo giovinotto di nome Cesare, che io conobbi, or ha parecchi anni, studente all’università. Com’era bel giovane e ardito che figurava tra i primi, avean pigliato ad aliargli dattorno certi corbacci, coll’intento di tirarlo a una loro società, che dicevano di beneficenza, e non era in sostanza che la Massoneria. Ma Cesare, che sapeva per bene dove il diavolo tien la coda: — Sentite (disse ai compagni che l’importunavano) di ‘società io ne ho già tre, dalle quali non posso levarmi: la mia famiglia, la mia patria, la Chiesa. Ho quindi legami e doveri, come figlio, come italiano e come Cristiano. Più di così (confesso la mia debolezza) non posso portarne. Sicché abbiatemi per iscusato, e più non se ne parli. — I compagni non s’ardirono rifiatare, e Cesare fu libero per sempre dalla loro importunità. Felice, che seppe opporsi ai principii del male, e spegnerne prontamente la prima scintilla. Quell’atto di franchezza il rese libero e franco per tutta la vita. –  Attenti dunque, o giovanetti, attenti ai primi assalti della BESTIA; non arrestatevi a disputare con lei, voi non dovete concederle nulla, assolutamente nulla; ella è bestia Lig si DE 3 sì spietata e vorace, che se le darete il mignolo, v’abbranchera la mano, tutto il braccio e, tira, tira, vi strascinerà in perdizione.

II.

IL VISIBILE E L’INVISIBILE.

Gran danno, che Dio, coscienza, onestà, virtù sian cose che non si veggono nè si toccano; di che, quando vengono nel nostro spirito a battibecco con ciò che vediamo cogli occhi e tocchiam colle mani, pue troppo, il più delle volte ne vanno al disotto. Così è; il sensibile ci assorbe, ci rapisce così, che non ci lascia pensare a ciò che è sovrasensibile e spirituale. E questa è appunto la principale cagione per cui l’uomo sovente lasciasi imporre da altri nomini di quelle cose che fanno a sassate con Dio, colla coscienza. e col dovere; – Dio! … dov’è Dio? chi lo vede? chi lo tocca?.. E il dovere…. di che colore è egli il dovere? E la coscienza?… è vero che è fatta a maglia?… Pur troppo! Ce n’ha tante di cosiffatte!… Or bene, se abborrite, o cari giovani, dall’avere una coscienza cosiffatta, bisogna v’atteniate sodi a questo gran principio: che nostra regola di pensare e d’operare non dobbiamo cavarla dal sensibile, da ciò che si vede, si sente e si tocca; ma dai principii eterni della verità e della giustizia, i quali partendo, quai raggi luminosi, da Dio che non muta si riflettono nell’anima nostra immortale fatta a somiglianza di Dio. Per tal modo riesce l’uomo a formarsi Una coscienza e quindi un abito di operare diritto, uniforme e costante e poi quello che fa i caratteri forti ed elevati, de’ quali, mi pare, v’ho parlato nell’altro mio libretto della BESTIA. Ma se al contrario torrete a regola del pensare e dell’operar vostro il sensibile, come esso varia e si muta continuamente; così mutabile e vario sarà l’operar vostro; abbraccerete oggi come bene ciò che ieri fuggivate per male, e viceversa; e così, lascia e tira, tira e lascia, vi formerete la coscienza che abbiam detto di sopra, una vera maglia, anzi una rete maledetta, nella quale finirete col rimanere voi stessi malamente arreticati. –  Dicono che la volpe dorme con gli occhi aperti. Io nol so, che non ho mai vedute volpi a dormire; ma ben posso dirvi, cari giovani, che gli occhi aperti dovete tenerli ben voi, e dico gli occhi dell’anima; acciocché nel vivere e nell’operar vostro non v’accada di lasciarvi così, allucinare dalle cose visibili e mutabili di questa bassa terra, da dimenticarvi che sopra il vostro capo si spiega cotesto magnifico padiglione de’ cieli. — È un ricordo che davami a suo modo quel buon vecchio di mio nonno (Dio lo riposi!), il quale, fattomi osservare certe galline, che, appena spiovuto, uscivano in cortile e correvano ai laghetti qua e là lasciati dalla pioggia: — Guarda, guarda che fanno, mi diceva. — Bevono, risposi. — Bevono si; ma osserva il modo che tengono nel bere: chinano il capo; mettono il becco in molle, poi si levano su…. vedi, vedi!… Ed io che vedeva: — o perché fanno così, nonno? — Per insegnarci, Cecchino mio, che noi Cristiani non s’ha a star sempre con gli occhi o col capo all’in giù, come il porco, che pur rificca il grifo nel brago, ma ogni tanto levarci col pensiero e cogli affetti al cielo, dove sta di casa il Signor nostro Iddio. — Questo ricordo vorrei teneste bene a mente, miei cari giovani; abituandovi a pensar qualche cosa che non sia materia e fango; per esempio: Dio, l’anima, la virtù… e delle stesse cose sensibili che vi cadono sotto gli occhi servirvi come di tanti scalini da salire in alto, come v’ammonisce il poeta là dove dice, che le cose belle di quaggiù Sono scala al Fattor, chi ben l’estima. E già ce n’aveva avvisati un filosofo dell’antichità, il quale, benché pagano, tutta la sua filosofia riepilogava in questo grande ammonimento: sequere Deum. — Ma come seguir Dio (mi domandate) s’Ei non si vede? — Appunto guardandolo con. gli occhi dell’anima (vi rispondo); e così avvezzarci a contemplarlo come nostro Signore, anzi buon Padre, che sempre ci vede e ci benefica e ci ama: temer quindi d’offendere gli occhi suoi, più che gli occhi di qualsivoglia mortale. Di che ci lasciò bell’esempio Abramo, il gran patriarca lodato da s. Paolo, perché camminava sempre alla presenza di Dio invisibile, come se cogli occhi realmente il vedesse: invisibilem tamquam videns sustinuit. — E così il pensiero di quel grand’occhio aperto sopra di voi, vi sarà d’un possente aiuto a salvarvi fin dalle prime e più lievi tentazioni dell’umano rispetto: vinta la BESTIA al primo assalto, vi darà buona speranza. di vincerla sempre.

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (11)

VIVA CRISTO RE (14)

CRISTO-RE (14)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XVII

CRISTO, RE CROCIFISSO

Venerdì Santo!

Non c’è giorno più importante dell’anno! In questo giorno celebriamo che Nostro Signore Gesù Cristo è morto crocifisso per noi! Non ha lasciato questo mondo dopo una vita agiata; non ha terminato la sua vita in un letto morbido, circondato dai suoi cari; è morto su un patibolo ignominioso, sulla croce. Su di essa spirò, tra risate di scherno; su di essa terminò la sua vita mortale, sfinita dalle sofferenze dello spirito e del corpo, abbandonata da tutti. Sulla croce soffre per diverse ore. Sulla croce soffre e muore per noi. E ogni Venerdì Santo attira l’attenzione di tutti per un giorno. Allora l’uomo sente che non c’è meta più alta nella vita, non c’è missione umana più alta, non c’è dovere più santo di quello che ci mostra la croce di Cristo: salvare l’anima. – Il sacrificio del Venerdì Santo mi sta dicendo molto chiaramente: I. Come mi ha amato! Quanto mi ha amato e II. Quanto poco Lo amo.

I

Quanto mi ha amato!

Quanto? È morto per me! “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!”. Questo è amore. Gesù Cristo muore inchiodato a una croce. Non aveva un cuscino dove appoggiare il capo, coronato di spine. Gli abbiamo trafitto le mani e i piedi con chiodi affilati. Gli abbiamo dato da bere fiele e aceto. Invece di ricevere consolazione, ha ricevuto disprezzo e bestemmia… O Gesù, è questo che hai meritato da noi? Tu, Figlio di Dio, che sei sceso dall’alto dei cieli per darci il regno eterno del Padre tuo? E noi ti abbiamo inchiodato sulla croce! Come mi hai amato! – Sei stato tra cielo e terra, per coprire ogni uomo con il tuo corpo insanguinato e ferito, per coprire la mia anima peccatrice e nascondermi così dall’ira di Dio; per deviare, con le tue braccia tese in alto, i raggi della giustizia divina; per implorare il perdono per noi. Implorate il cielo per avere misericordia: “Padre, perdona loro…”, loro, tutti, senza eccezione. Non ti preoccupi di te stesso, non pensi al tuo dolore, pensi solo a me. Quanto mi ami! – Mi hai amato…, mi hai amato…. Ma chi può aspettarsi un tale eccesso di amore? Conoscevamo già le promesse del Messia che sarebbe venuto, fatte da Dio all’uomo nel Paradiso. Quando il Bambino di Betlemme sorrideva guardandoci negli occhi, quando il Figlio di Dio viveva in mezzo a noi come un fratello, sentivamo che il suo cuore ardeva di una luminosissima fiamma d’amore per l’umanità. Quando abbiamo ascoltato le sue parabole del buon samaritano, del figlio prodigo, del buon pastore alla ricerca della pecora smarrita, abbiamo sentito l’ardore dell’amore del Cuore di Gesù. Ma quell’amore senza limiti e senza misura, che l’ha portato a sopportare per noi, senza pronunciare una parola di lamentela, i colpi rudi, le flagellazioni, le pene e le ingiurie, la flagellazione, lo sputo, la corona di spine, i dolori della croce…, non potevamo sospettarlo.

Quanto ci ama Gesù!

Si lascia inchiodare alla croce per dirmi quanto mi ama. In questo modo conquista la mia anima. Sto ai piedi della croce, sopraffatto dalla vista di tanto eccesso d’amore, e aspetto che il suo sangue prezioso, quel sangue divino, cada su di me e lavi i miei grandi peccati. Vorrei piangere amaramente, ma non posso; questo Gesù amoroso mi affascina, la sua parola mi costringe a guardarlo, non posso distogliere lo sguardo da Lui. Ma se lo guardo, sento che mi dice: “Guarda quanto ti ho amato…, e tu mi ami…? Questa croce macchiata di sangue non mi dice solo quanto mi ama, ma anche quanto poco lo amo. – Dal Venerdì Santo di duemila anni fa, la croce è stata eretta e tutti gli uomini passano intorno ad essa. Ci sono uomini dal cuore duro che passano oltre senza accorgersene, per i quali la morte del Signore non significa nulla, né la sua vita né la sua dottrina, la cui unica preoccupazione è il denaro, la tavola piena e il godimento dei piaceri…. Anima? Religione? Dio? preghiera? croce?…: queste parole sono incomprensibili per loro…. – Ci sono altri che per un momento guardano con entusiasmo alla croce e al Sacrificio cruento di Gesù Cristo…, ma sono spaventati dalle ripercussioni che comporta. “No, no; Gesù, nonostante tutto, non possiamo unirci al tuo partito. Dovremmo essere disposti a morire come Te? Morire ai nostri desideri disordinati, ai nostri istinti primordiali. Questo significherebbe una lotta incessante contro noi stessi, una vigilanza continua. No! Non è possibile. Combattiamo abbastanza. Combattiamo per le nostre mogli, per i nostri figli, per il nostro pane quotidiano, per la nostra posizione sociale, per il nostro futuro…. No, no; Gesù, non ti offendere; ma per Te, per la nostra anima, non abbiamo più tempo, non abbiamo più coraggio, non abbiamo più energie… Non siamo cattivi, abbiamo già portato la nostra croce…”. – Esiste un terzo gruppo. Sono gli uomini che si inginocchiano e pregano davanti alla croce. Non solo, ma condividono le loro disgrazie e sofferenze con quelle del Crocifisso…, con quelle di Colui che ha portato sulle sue spalle l’angoscia e il peccato dell’umanità. Apparteniamo a questo gruppo? O almeno, prendiamo la ferma risoluzione di arruolarci sotto la sua bandiera? Poiché il vessillo della Santa Croce è stato innalzato tra cielo e terra, tutti devono schierarsi. Guardate il Padre celeste: ora riceve il Sacrificio di suo Figlio. Guardate gli Angeli: commossi adorano il nostro Signore crocifisso. Guardate i suoi nemici: come lo bestemmiano, come lo maledicono! Guardati, fratello: dove ti trovi? Dimmi: tra i nemici di Cristo, tra coloro che lo odiano, che lo maledicono? Forse siete tra i soldati che si sono seduti ai piedi della croce e che, mentre accanto a loro si svolgeva la più grande tragedia della storia del mondo, se ne stavano seduti, come se nulla fosse, a giocare a dadi? Fratello, pensaci, non sei forse tra questi soldati? – “Cristo è morto per me. Ma io non parlo così”, mi dici, “ma non parlo così”. No, non parlate così, ma pensate e vivete come se Cristo vi fosse completamente estraneo, come se Cristo non avesse importanza per voi. Non vi interessa che sia stato flagellato nella notte; ma vi interessa che dobbiate rovinare un po’ meno il vostro corpo e che non possiate concedergli tutto ciò che chiede, anche se è qualcosa di peccaminoso. – Non vi dispiace che Cristo sia stato fatto bersaglio della derisione del mondo, che sia stato presentato alla folla bestemmiatrice come un pazzo; ma vi dispiacerebbe molto se qualcuno vi deridesse perché prendete sul serio la vostra fede. Non vi dispiace che Cristo sia stato coronato di spine acuminate; ma vi dispiacerebbe dover frenare i vostri capricci e sottomettere i vostri istinti. – Non vi importa che Cristo abbia versato tutto il suo sangue per voi; ma quanto vi pesa spendere un’ora ogni domenica per partecipare alla Santa Messa. Non vi dispiace che Cristo abbia dovuto strisciare, portando la croce, sulla strada rocciosa del Calvario, ma sarebbe un peccato se voi doveste scalare l’impegnativo sentiero della virtù. – Non vi importa che Gesù Cristo sia stato inchiodato alla croce e che il suo cuore sia stato trafitto da una lancia; ma sarebbe molto difficile soffrire per Lui e adempiere ai suoi precetti. Avete così poca pietà per questo Cristo che soffre così tanto per voi? Non lo compatite? Se lo compatiste davvero, non vivreste come fate.

* * *

Gesù! La vostra povertà deve essere la mia povertà. Il vostro dolore deve essere la causa del mio emendamento. La vostra corona di spine deve unire due cuori: il vostro e il mio. Le vostre lacrime e il vostro preziosissimo sangue riformeranno la mia vita. Il vostro amore ardente scioglierà il mio cuore duro, o Signore! Quando hai sofferto, la mia anima è stata purificata. Quando hai versato il tuo sangue, il mio castigo è stato mitigato. Quando ti sei immerso nel mare della sofferenza, sono stato salvato dalla dannazione. Quando Tu sei morto, io ho cominciato a vivere! – Mi interessa la Sua Passione; mi interessano i colpi e le frustate che ha ricevuto; mi interessa la croce su cui è stato inchiodato. E non mi importa di dover lottare per vivere senza peccare. Anche se dovessi combattere fino alla morte, non mi arrenderò, Signore! Farò tutto il possibile, mio Cristo crocifisso, per farvi regnare nella società, nelle famiglie, in ogni casa, in tutti i luoghi da cui siete stati cacciato. Dovete tornare a regnare nell’anima dei giovani. Gesù, che ci ha amati fino alla morte, ha il diritto di regnare in tutto il mondo. Egli ha il diritto che noi, che siamo stati redenti dal suo sangue, gli offriamo con gratitudine tutta la nostra vita. Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua santa Croce hai redento il mondo!

VIVA CRISTO RE (15)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII “PATERNA CARITAS”

In questa breve lettera Enciclica, il Santo Padre Leone XIII, si congratula con i Vescovi dell’Armenia per essere tonati alla piena comunione con Roma e con la Sede Apostolica, affinché si possa realizzare quell’unico ovile custodito dall’unico Pastore, il Pontefice romano successore di S. Pietro, condizione sine qua non che garantisce l’entrata nella via della salvezza eterna e dell’assistenza della grazia divina per mezzo dell’azione vivificante dello Spirito Santo. Tutti coloro che respingono l’unione con il “vero” ed unico Santo Padre, sono fuori dalla Chiesa Cattolica e quindi erranti lungi dal cammino verso la beatitudine eterna. Questo riguarda tutti gli scismatici, eretici ed apostati che, allontanatisi dall’ovile della Chiesa Cattolica romana e dalla guida del “vero” Santo Padre, sono sul precipizio della dannazione eterna. Oggi questi comprendono oltre agli scismatici anglicani, ortodossi e delle infinite sette protestanti, anche gli aderenti alle sette sedevacantiste pseudo-tradizionaliste ed alla setta modernista scaturita dalle eresie e blasfemie del Vaticano II che si è mascherata da “chiesa moderna”, aperta ai disvalori della modernità, in realtà aprendo le porte ad un ultrapaganesimo pratico ed ad una idolatria indifferentista che rende culto a demoni e totem vari … Pachamama docet. Stiano attenti tutti i fedeli sedicenti cattolici, la loro adesione alla sinagoga di satana ed al suo rappresentante usurpante che occupa sacrilegamente il seggio di S. Pietro, e la cui azione è sempre più evidente a chi mastica anche solo un poco di dottrina cattolica, li porterà inevitabilmente all’eterna dannazione e non potranno invocare la loro ignoranza invincibile, visto che per la maggior parte si tratta di persone che sanno leggere, scrivere, intendere ed informarsi, ma che preferiscono ingannare la loro coscienza partecipando a culti luciferini, spacciati per messe del novus ordo, o a preghiere sacrileghe e senza approvazione ecclesiastica… Preghiamo perché il Signore voglia illuminarli prima che sia troppo tardi.

Leone XIII
Paterna caritas

Lettera Enciclica

La paterna carità con la quale abbracciamo tutte le componenti del gregge del Signore è tale, per la sua forza e per la sua natura, che risentiamo, come in un’intima e costante comunione di sentimenti, tutto ciò che accade di propizio o di avverso nel mondo cristiano. Pertanto, come un grande e continuo dolore si era impadronito del Nostro cuore per il fatto che un certo numero di Armeni, principalmente nella città di Costantinopoli, si era separato dalla vostra fraterna società, così sentiamo ora una gioia tutta speciale e ardentemente desiderata nel vedere che tale discordia si è, grazie a Dio, felicemente sedata. Ma mentre Ci rallegriamo della concordia e della pace che vi sono restituite, non possiamo fare a meno di esortarvi a conservare con cura e a sforzarvi anche di accrescere questo grande beneficio della bontà divina. Per ottenere questo, cioè intendere la stessa dottrina e provare gli stessi sentimenti in ciò che concerne la religione, bisogna che restiate tutti costanti, come lo siete, nell’obbedienza a questa Sede Apostolica; e quanto a Voi, cari Figli, dovete essere fedelmente sottomessi è obbedienti al vostro Patriarca e agli altri Vescovi che hanno il diritto di dirigervi. – Ora, siccome per scuotere questa religiosa concordia spesso viene l’occasione sia di contrasti negli affari pubblici, sia di contestazioni nelle cose private, dovete scongiurare i primi con quel rispetto e quella sudditanza che così lodevolmente manifestate verso il supremo Principe dell’Impero Ottomano, di cui Noi conosciamo bene lo spirito di giustizia, lo zelo per conservare la pace, e le eccellenti disposizioni a Nostro riguardo dimostrate da brillanti testimonianze. – Quanto alle contestazioni e alle rivalità, ne sarete agevolmente liberati se imprimerete profondamente nel cuor vostro e terrete presenti nella vostra condotta i precetti che San Paolo, l’Apostolo delle genti, dà a proposito della perfetta carità, la quale “è paziente e benigna; non è invidiosa, non agisce inconsideratamente, non si gonfia d’orgoglio, non è ambiziosa, non cerca i propri interessi, non si adira, non pensa al male” (1Cor XIII, 4-5). Inoltre questa eccellente e perfetta concordia degli animi vi assicurerà un altro beneficio, perché per merito suo potrete accrescere, come abbiamo detto, e fare sviluppare sempre più i risultati della pace e della restituita concordia. Infatti, essa farà rivolgere su di Voi gli sguardi e i cuori di coloro che, pur avendo in comune con Voi la razza e la nazionalità, tuttavia sono ancora separati da Voi e da Noi, e non si trovano nel sacro ovile, di cui Noi abbiamo la custodia. Vedendo l’esempio della vostra concordia e della vostra carità, essi si persuaderanno facilmente che lo spirito di Cristo vige fra Voi, perché Egli solo può unire i suoi a se stesso in modo tale da formare un solo corpo. Voglia Iddio che essi riconoscano ciò e decidano di ritornare a quell’unità da cui i loro antenati si sono separati! – Certamente accadrebbe loro d’essere inondati da una indicibile gioia vedendo che, per mezzo della loro unione a Noi e a Voi, sarebbero anche uniti a tutti gli altri fedeli che, nel mondo intero, appartengono al Cattolicesimo; comprenderebbero allora che essi si troverebbero negli abitacoli della mistica Sionne, alla quale sola è stato dato, secondo i divini oracoli, di rizzare dovunque le sue tende e stendere su tutta la terra i veli dei suoi tabernacoli. – Per altro sta principalmente a Voi, Venerabili Fratelli, posti alla testa della Diocesi d’Armenia, operare affinché questo auspicato ritorno si realizzi; a Voi, cui non manca, lo sappiamo bene, né lo zelo per esortare, né la dottrina per persuadere. Noi vogliamo pure che i dissidenti siano richiamati da Voi a nome Nostro e sulla Nostra parola; infatti, lungi dall’averne vergogna, conviene grandemente ricondurre alla casa paterna i figli che se ne sono allontanati e che sono aspettati da lungo tempo; anzi, bisogna andar loro incontro e aprire le braccia per stringerli al loro ritorno. Né crediamo che le vostre parole e le vostre esortazioni cadranno nel nulla. Infatti, la speranza nel desiderato effetto Ci viene prima dall’immensa misericordia di Dio sparsa fra tutte le genti, e poi dalla docilità e dalle qualità naturali dello stesso popolo Armeno. Numerosi documenti storici attestano quanto esso sia incline ad abbracciare la verità, una volta che l’abbia conosciuta, e quanto sia disposto a ritornarvi se si accorge d’avere deviato. – Quegli stessi che sono separati da Voi nel loro culto si gloriano che il popolo Armeno sia stato istruito nella fede di Cristo da quel Gregorio, uomo santissimo soprannominato l’Illuminatore, che essi venerano in modo particolare come loro padre e loro patrono. Fra loro è rimasto pure memorabile il viaggio che egli fece alla volta di Roma per testimoniare la sua fedeltà e il suo rispetto verso il Romano Pontefice San Silvestro. – Si dice anche che egli sia stato ricevuto con l’accoglienza più benevola, e che ne ottenesse parecchi privilegi. In seguito questi stessi sentimenti di Gregorio verso la Sede Apostolica furono condivisi da molti altri di coloro che ressero le Chiese Armene, come risulta dai loro scritti, dai loro pellegrinaggi a Roma e, principalmente, dai decreti sinodali. È ben degno davvero di essere rammentato, a conferma, ciò che i Padri Armeni, riuniti in Sinodo a Sis l’anno 1307, proclamarono sul dovere di obbedire a questa Sede Apostolica: “Come è proprio del corpo essere sottomesso alla testa, così la Chiesa universale (che è il corpo di Cristo) deve obbedire a colui che da Cristo Signore è stato costituito capo di tutta la Chiesa”. Questo fu confermato e sviluppato ancora più chiaramente nel Concilio di Adana, nel sedicesimo anno del medesimo secolo. – Senza parlare di cose di minore importanza, vi è ben noto ciò che fu fatto nel Concilio di Firenze. I delegati del Patriarca Costantino V, essendosi recati colà per venerare come Vicario di Cristo Eugenio IV Nostro Predecessore, dichiararono di essere venuti a lui che era il capo, il pastore e il fondamento della Chiesa, pregandolo che il capo avesse pietà delle membra, che il pastore riunisse il gregge e confermasse la Chiesa quale fondamento. E presentandogli il simbolo della loro fede, lo supplicavano in questi termini: “Se manca qualche cosa, faccelo conoscere”. – Allora fu pubblicata dal Pontefice la Costituzione conciliare Exultate Deo, con la quale Egli li istruì su tutto quello che giudicava necessario conoscere della dottrina cattolica. I delegati, ricevendo questa Costituzione, affermarono a nome proprio, del loro Patriarca e di tutta la nazione Armena, di aderirvi pienamente e di sottomettersi con cuore docile e devoto, “dichiarando a nome dei suddetti, e come veri figli della obbedienza, di ottemperare fedelmente agli ordini e alle prescrizioni della Sede Apostolica”. Perciò il Patriarca di Cilicia, Azaria, nella sua lettera a Gregorio XIII, Nostro Predecessore, in data 10 aprile 1585, poté scrivere con tutta verità: “Ecco che noi abbiamo trovato i documenti dei nostri antenati sull’obbedienza dei Cattolici e dei nostri Patriarchi al Pontefice di Roma; nel modo in cui San Gregorio l’Illuminatore fu obbediente al Papa San Silvestro”. È per questo che la nazione Armena ricevette con grandi onori i legati di ritorno dalla Santa Sede, e si fece un dovere di osservare fedelmente i precetti della stessa. – Noi nutriamo veramente la fiducia che questi ricordi saranno efficacissimi per indurre parecchi di coloro che sono ancora separati da Noi a ricercare l’unione. In verità, se la causa della loro indecisione o della loro esitazione fosse il timore di trovare meno sollecitudine a loro riguardo presso la Sede Apostolica, o di essere accolti da Noi con minore affetto di quanto essi vorrebbero, invitateli, Venerabili Fratelli, a rammentarsi ciò che hanno fatto i Pontefici Romani, Nostri Predecessori, i quali non si sono mai trovati in difetto di testimonianze circa la loro carità paterna verso gli Armeni. Essi hanno sempre ricevuto con benevolenza quelli di loro che sono venuti in pellegrinaggio a Roma o che qui si rifugiarono; essi hanno anche voluto che fossero aperte per loro case d’ospitalità. Gregorio XIII, come è noto, aveva concepito il disegno di fondare un istituto per l’opportuna istruzione dei giovani Armeni, e se fu impedito dalla morte di mettere in esecuzione questo disegno, Urbano VIII lo realizzò in parte accogliendo, con gli altri allievi stranieri, anche gli Armeni nel vastissimo Collegio da lui istituito per la propagazione della fede. – Quanto a Noi, malgrado la malvagità dei tempi, abbiamo potuto, grazie a Dio, eseguire più largamente il disegno concepito da Gregorio XIII, e abbiamo assegnato agli alunni Armeni un fabbricato assai vasto presso San Nicola da Tolentino, istituendovi, nelle forme volute, il loro Collegio. Questo è stato fatto perché si rispettasse, doverosamente, la liturgia e la lingua dell’Armenia, così commendabile per l’antichità, l’eleganza e il gran numero d’insigni scrittori; e molto più perché un Vescovo del vostro rito dimorasse costantemente a Roma per iniziare alle cose sante tutti gli alunni che il Signore chiamasse al suo particolare servizio. A tale effetto era stata fondata da lungo tempo anche una scuola nel Collegio Urbaniano per l’insegnamento della lingua Armena, e Pio IX, Nostro Predecessore, aveva provveduto a che nel ginnasio del Seminario pontificio romano vi fosse un professore per insegnare agli alunni del paese la lingua, la letteratura e la storia della nazione Armena. – Del resto la sollecitudine dei Pontefici Romani verso gli Armeni non è restata circoscritta entro i confini di questa città, perché nulla è stato loro più a cuore che di togliere la vostra Chiesa dalle difficoltà in cui si trovava, e di riparare i mali che essa ebbe a subire per la perversità dei tempi. Nessuno ignora con quale cura Benedetto XIV si sforzò di proteggere e di conservare intatta la vostra liturgia, come quella delle altre Chiese orientali, e di fare in modo che la successione dei Patriarchi cattolici d’Armenia fosse reintegrata in favore della Sede di Sis. Voi sapete pure che Leone XII e Pio VIII dedicarono le loro cure affinché nella capitale stessa dell’Impero Ottomano gli Armeni avessero un prefetto della loro nazione per gli affari civili, come le altre comunità che appartengono a detto Impero. – Infine è vivo il ricordo degli atti compiuti da Gregorio XVI e da Pio IX per accrescere nel vostro paese il numero delle sedi episcopali, e perché il Prelato armeno di Costantinopoli primeggiasse in onore e dignità. Questo fu fatto, prima istituendo a Costantinopoli la Sede Arcivescovile e Primaziale, e poi decretandone l’unione con il Patriarcato della Cilicia, a condizione che la residenza del Patriarca fosse stabilita nella capitale dell’Impero. E per impedire che la distanza venisse ad indebolire la stretta unione dei fedeli Armeni con la Chiesa Romana, fu saggiamente provveduto a che il Delegato apostolico risieda nella medesima città, per rappresentare il Pontefice Romano. Voi stessi potete dunque essere testimoni della sollecitudine che abbiamo avuto per la vostra nazione, e Noi lo siamo a Nostra volta dell’attaccamento che professate verso di Noi, e del quale abbiamo spesso avuto la dimostrazione. – Quindi, poiché da una parte le qualità del vostro popolo, la pratica degli antenati e tutta la storia dei secoli passati sono fatti per attirare verso questa roccaforte della verità gli Armeni che sono separati da Voi, e con efficacia così grande che non saprebbero essere trattenuti da un più lungo indugio, e dall’altra la Sede Apostolica si è sempre sforzata di avere strettamente unita a sé la vostra nazione, e di richiamarla all’antica unione se qualche volta se ne allontanava, ne conseguono evidentemente validissime ragioni perché Voi, Venerabili Fratelli, vi consigliate, e perché Noi a Nostra volta abbiamo la buona speranza che sia pienamente ristabilita l’antica unione. Ciò tornerà certamente a profitto di tutta la nazione, non solamente per la salute eterna delle anime, ma anche per quella prosperità e quella gloria che si possono legittimamente desiderare sulla terra. La storia attesta infatti che fra i sacri Pastori dell’Armenia hanno brillato di più vivo splendore, come fulgide stelle, coloro che sono stati più strettamente uniti alla Chiesa Romana, e che la gloria della vostra nazione ha toccato il suo apogeo nei secoli in cui la religione cattolica vi ha prosperato più largamente. – Dio solo, moderatore di tutte le cose, può concedere che questo avvenga secondo i Nostri voti e i Nostri desideri, Lui solo, che “chiama coloro che vuole onorare e ispira sentimenti religiosi a chi vuole” . Con Noi fate salire verso di Lui supplichevoli preghiere, Venerabili Fratelli e diletti Figli, affinché, mossi dalla sua grazia trionfatrice, tutti coloro della vostra nazione che per il battesimo sono entrati nella società della vita cristiana e che tuttavia sono separati dalla Nostra comunione, Ci ricolmino d’una gioia intera ritornando a Noi, “professando la medesima dottrina, avendo la medesima carità e nutrendo tutti i medesimi sentimenti” (Fil II, 2). Sforzatevi d’avere per ausiliatrice presso il trono della grazia “la gloriosa, benedetta, santa, sempre Vergine Maria, Madre di Dio, Madre di Cristo” perché Ella offra “le nostre preghiere al Suo Figlio, nostro Dio”. Impiegate altresì come intercessore con Lei l’illustre martire Gregorio l’Illuminatore, affinché, quale ministro della grazia divina, compia e consolidi l’opera che egli ha cominciata a prezzo delle sue fatiche e della sua invincibile pazienza nei tormenti. Domandate infine, a imitazione della Nostra preghiera, che la docilità degli Armeni e il loro ritorno all’unità cattolica servano di esempio e di stimolo a tutti quelli che adorano Cristo ma sono separati dalla Chiesa Romana, affinché essi ritornino là donde sono partiti, e vi siano un solo ovile ed un solo Pastore. – Mentre a ciò dedichiamo i Nostri voti e la Nostra speranza, accordiamo, nell’effusione della carità e come pegno della bontà divina, la Benedizione Apostolica a Voi, Venerabili Fratelli, e a Voi tutti diletti Figli.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 luglio 1888, anno undecimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2023)

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Paolo fuori le mura.

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Come l’ultima Domenica, e come le Domeniche seguenti, fino a quella della Passione, la Chiesa « ci insegna a celebrare il mistero pasquale, a traverso le pagine dell’uno e dell’altro Testamento ». Durante tutta questa settimana, il Breviario parla di Noè. Vedendo Iddio che la malizia degli uomini sulla terra era grande, gli disse: « Sterminerò l’uomo che ho creato… Costruisciti un’arca di legno resinoso. Farò alleanza con te e tu entrerai nell’arca ». E le acque si scatenarono allora sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. L’arca galleggiava sulle onde che si elevarono sopra le montagne, coprendole. Tutti gli uomini furono trasportati come festuche nel turbine dell’acqua » (Grad.). Non rimase che Noè e quelli che erano con lui nell’arca. Dio si ricordò di Noè e la pioggia cessò. Dopo qualche tempo Noè apri la finestra dell’arca e ne fece uscire una colomba che ritornò con un ramoscello freschissimo di ulivo, Noè comprese che le acque non coprivano più la terra. Dio gli disse: « Esci dall’arca e moltiplicati sulla terra ». Noè innalzò un altare e offri un sacrificio. E l’odore di questo sacrificio fu grato a Dio (Com.). L’arcobaleno apparve come un segno di riconciliazione fra Dio e gli uomini. – Questo racconto si riferisce al mistero pasquale poiché la Chiesa ne fa la lettura il Sabato Santo. Ecco come Essa l’applica, nella liturgia, a nostro Signore e alla sua Chiesa. « La giusta collera del Creatore sommerse il mondo colpevole nelle acque vendicatrici del diluvio, Noè solo fu salvo nell’arca; di poi l’ammirevole potenza dell’amore lavò l’universo nel sangue [Inno della festa del prezioso Sangue]. È il legno dell’arca che salvò il genere umano, e quello della croce, a sua volta, salvò il mondo. « Sola, dice la Chiesa, parlando della croce, sei stata trovata degna di essere l’arca che conduce al porto il mondo naufrago » [Inno della Passione]. La porta aperta nel fianco dell’arca, per la quale sarebbero entrati quelli che dovevano sfuggire al diluvio e che rappresentavano la Chiesa, è, come spiega la liturgia, una figura del mistero della redenzione, perché sulla croce Gesù ebbe il costato aperto e da questa porta di vita, uscirono i Sacramenti che donano la vera vita alle anime. Il sangue e l’acqua che ne uscirono sono i simboli dell’Eucaristia e del Battesimo » [7a lettura nella festa del prezioso Sangue].  « O Dio, che, lavando con le acque i delitti del mondo colpevole, facesti vedere nelle onde del diluvio una immagine della rigenerazione, affinché il mistero di un solo elemento fosse fine ai vizi e sorgente di virtù, volgi lo sguardo sulla tua Chiesa e moltiplica in essa i tuoi figli, aprendo su tutta la terra il fonte battesimale per rigenerarvi le nazioni » [Benedizione del fonte battesimale nel Sabato Santo]. Ai tempi di Noè, dice S. Pietro, otto persone furono salvate dalle acque; a questa figura corrisponde il Battesimo che ci salva al presente » [Epistola del Venerdì di Pasqua]. — Quando il Vescovo benedice, nel Giovedì Santo, l’olio che si estrae dall’ulivo e che servirà per i Sacramenti, dice: « Allorché i delitti del mondo furono espiati mediante il diluvio, una colomba annunziò la pace alla terra per mezzo di un ramo di Ulivo che essa portava, simbolo dei favori che ci riservava l’avvenire. Questa figura si realizza oggi, quando, le acque del Battesimo avendo cancellati tutti i nostri peccati, l’unzione dell’olio dona alle nostre opere bellezza e serenità ». Il sangue di Gesù è « il sangue della nuova alleanza » che Dio concluse per mezzo del suo Figlio con gli uomini. «Tu hai voluto, dice la Chiesa, che una colomba annunziasse con un ramoscello di ulivo la pace alla terra ». Spesso nella Messa, che è il memoriale della Passione, si parla della pace: « Pax Domini sit semper vobiscum ». « Il sacramento pasquale, dirà l’orazione del Venerdì di Pasqua, suggella la riconciliazione degli uomini con Dio ». Noè è in modo speciale il simbolo del Cristo a causa della missione affidatagli da Dio di essere « il padre di tutta la posterità » (Dom. di settuag., 6a lettura). Di fatti Noè fu il secondo padre del genere umano ed è il simbolo della vita rinascente. « I rami d’ulivo, dice la liturgia, figurano, per le loro fronde, la singolare fecondità da Dio accordata a Noè uscito dall’arca » (Benediz. Delle Palme). Per questo l’arca è stata chiamata da S. Ambrogio, nell’ufficio di questo giorno, « seminario » cioè il luogo che contiene il seme della vita che deve riempire il mondo. Ora, ancora più di Noè, Cristo fu il secondo Adamo che popolò il mondo di una generazione numerosa di anime credenti e fedeli a Dio. Ed è per questo che l’orazione dopo la 2a profezia, consacrata a Noè il Sabato Santo, domanda al Signore ch’Egli compia, nella pace, l’opera della salute dell’uomo decretata fin dall’eternità, in modo che il mondo intero esperimenti e veda rialzato tutto ciò che era stato abbattuto, rinnovato tutto ciò che era divenuto vecchio, e tutte le cose ristabilite nella loro primiera integrità per opera di Colui dal quale prese principio ogni cosa, Gesù Cristo Signor nostro » Per i neofiti della Chiesa — dice la liturgia pasquale — (poiché è a Pasqua che si battezzava) la terra è rinnovellata e questa terra così rinnovellata germinat resurgentes, produce uomini risorti » (Lunedi di Pasqua. Mattutino monastico). In principio, è per mezzo del Verbo, cioè della sua parola, che Dio creò il mondo (ultimo Vangelo). Ed è con la predicazione del suo Vangelo che Gesù viene a rigenerare gli uomini. « Noi siamo stati rigenerati, dice S. Pietro, con un seme incorruttibile, con la parola di Dio che vive e rimane eternamente. E questa parola è quella per la quale ci è stata annunziata la buona novella (cioè il Vangelo) » (S. Pietro, I, 23). Questo ci spiega perché il Vangelo di questo giorno sia quello del Seminatore, (« la semenza è la parola di Dio »). » Se ai tempi di Noè gli uomini perirono, ciò fu a causa della loro incredulità, dice S. Paolo, mentre mediante là sua fede Noè si fabbricò l’Arca, condannò il mondo e diventò erede della giustizia, che viene dalla fede » (Ebr. XI, 7). Così quelli che crederanno alla parola di Gesù saranno salvi. S. Paolo dimostra, nell’Epistola di questo giorno, tutto quello che ha fatto per predicare la fede alle nazioni. L’Apostolo delle genti è infatti il predicatore per eccellenza. Egli è il « ministro del Cristo » cioè colui che Dio scelse per annunziare a tutti i popoli la buona novella del Verbo Incarnato. « Chi mi concederà – dice S. Giovanni Crisostomo, – di andare presso la tomba di Paolo per baciare la polvere delle sue membra nelle quali l’Apostolo compì, con le sue sofferenze, la passione di Cristo, portò le stimmate del Salvatore, sparse dappertutto, come una semenza, la predicazione del Vangelo? » (Ottava dei SS. Apostoli Pietro e Paolo – 4 luglio). La Chiesa di Roma realizza questo desiderio per i suoi figli, celebrando, in questo giorno, la stazione nella Basilica di S. Paolo fuori le mura.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhæsit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos.

[Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto dimentico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis.

[O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

[“Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenta nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo”]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

La lettura di questo lungo brano della seconda lettera di San Paolo ai Corinzi ci fa pensare alle orazioni più celebri del foro profano in difesa propria: Demostene, Cicerone. C’è tutto l’impeto di quei discorsi immortali. Nulla come un giusto amor di se stesso rende eloquente l’uomo. Ho detto giusto amor di sé, il che significa la fusione di due motivi della più singolare efficacia; l’egoismo, forza così pratica, e la giustizia, forza così ideale. Nella foga dell’autodifesa Paolo ricorda rapido, incisivo, travolgente i suoi martiri: « dall’abisso dei dolori di ogni genere che ho sofferto » si solleva ai doni celesti di che Dio lo ha letteralmente ricolmato. Quadro magnifico fatto di ombre e di luci ugualmente poderose. – Ma quando calmata la prima ammirazione che ci ha suggerito quel confronto con le pagine apologetiche anzi autoapologetiche più celebri della letteratura umana, ci si rifà a meditare il testo, si scopre una superiorità morale ineffabile dell’Apostolo sui profani oratori. Questi difendono, nelle loro arringhe fiammanti, ardenti i loro equi interessi. E l’equità toglie all’amor proprio ciò che da solo avrebbe di basso. Ma quando Paolo assume con un tono alto e sonoro, senza un’ombra di esitazione la sua difesa, egli difende una grande causa. Chiamato da Gesù Cristo a predicare il Vangelo nel mondo pagano, Paolo giudeo si gettò in questo apostolato a lui commesso con lo slancio della sua natura vulcanica, Paolo fu bersaglio immediato e poi via via crescente ai colpi di coloro che in quei giorni avrebbero voluto il Vangelo o tutto e solo o principalmente per i Giudei, e i Gentili o esclusi dal banchetto cristiano o ammessi ai secondi posti. Ire terribili come tutte le ire nazionali, che si scaldano per di più al fuoco delle religioni, roba incandescente. Per paralizzare un lavoro come quello di Paolo che essi credevano funesto, questi Cristiani rimasti più scribi e farisei che divenuti Cristiani veri, apponevano alla figura di Paolo, l’ultimo arrivato nel collegio apostolico, la figura veneranda dei veterani, dei compagni personali di Gesù Cristo, degli intemerati discepoli che non avevano come Paolo lordato mai di sangue le loro mani, sangue cristiano. Quelli erano apostoli, non costui; un aborto di apostolato. Colpivano l’uomo in apparenza; in realtà attentavano alla grande causa dell’apostolato cristiano, libero e universale. Un apostolato a scartamento ridotto essi volevano; un timido apostolato cristiano, schiavo del giudaismo, dal giudaismo tenuto alla catena. Non sentivano, né la vera grandezza della Sinagoga che era quella di mettersi tutta a servizio della Chiesa, né la vera grandezza della Chiesa ch’era quella di abbracciare il mondo. Tutto questo Paolo difende in realtà, difendendo, esaltando in apparenza se stesso. E perché tutto questo Egli difende, la sua apologia acquista un calore di eloquenza e una dignità di contenuto affatto nuovo. E perché d’orgoglio personale non rimanga neppure l’ombra, dopo che l’Apostolo ha parlato con un senso altissimo di dignità, rivendicando il suo giudaismo, dolori e glorie della sua attività apostolica, parla l’uomo. Un povero uomo egli è, e si sente, il grande Apostolo; pieno di miserie fisiche che si risolvono in umiliazioni morali. Quelle debolezze gli dicono ogni giorno ch’egli non è se non un debole strumento nelle mani del Forte, che lavora in lui per la santità interiore, per la sua apostolica propaganda, lavora la grazia di Gesù Cristo. Le sue maggiori glorie sono così le sue umiliazioni, documenti e prove del Cristo presente, « inhabitat in me virtus Christi».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram.

[Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam. Sana contritiónes ejus, quia mota est. Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc VIII: 4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres cœli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

[« In quel tempo radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo a lui da questa e da quella città, disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla, parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Parte cadde sopra le pietre; e nata che fu, seccò, perché non aveva umido. Parte cadde tra le spine; e le spine, che insieme nacquero, la soffocarono. Parte cadde in buona terra; e nacque, e fruttò cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchie da intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano, che parabola fosse questa. Ai quali egli disse: A voi è concesso d’intendere il mistero di Dio; ma a tutti gli altri (parlo) per via di parabole, perché vedendo non veggano, e udendo non intendano. La parabola adunque è questa. La semenza è la parola di Dio. Quelli che (sono) lungo la strada sono coloro che la ascoltano; e poi viene il diavolo, e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli poi che la semenza han ricevuta sopra la pietra, (sono) coloro i quali, udita la parola, la accolgono con allegrezza; ma questi non hanno radice, i quali credono per un tempo, e al tempo della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine, denota coloro i quali hanno ascoltato; ma dalle sollecitudini, e dalle ricchezze, e dai piaceri della vita a lungo andare restano soffocati, e non conducono il frutto a maturità. Quella che (cade) in buona terra, denota coloro i quali in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza »]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA PAROLA DI DIO

La seconda spedizione in Africa riuscì fatale a S. Luigi IX re di Francia. Accampato a nove miglia da Tunisi aveva di fronte un esercito assai superiore al suo. L’acqua mancava; la polvere del deserto toglieva il respiro; la peste mieteva i Cristiani chiusi nel campo e costretti alle difese. Il re, colpito dal morbo, si sdraiò sulle sabbie a morire, ma prima di chiudere gli occhi per sempre, chiamò il figlio ereditario e gli disse salutandolo per l’ultima volta: « Figlio mio, ascolta la parola di Dio e tienila in cuore ». Poi spirò. – Oh se quelle spiagge deserte ove il santo guerriero moriva avessero potuto parlare! Un giorno ivi fiorenti comunità cristiane, e dottori illustri, e santi e martiri formavano una delle più liete provincie della Chiesa Cattolica. Poi tutto isterilì e si fece il deserto. Perché? Perché la parola di Dio non era più discesa a fecondare di virtù i cuori degli uomini. E dove essa non cade, manca l’acqua e la rugiada necessaria ad ogni buona germinazione. Perciò San Luigi IX agonizzante volle come suprema parola dire al figlio suo Filippo erede del trono: — Ascolta la parola di Dio e tienila in cuore. Questa raccomandazione è il frutto più bello e utile che possiamo ricevere dalla parabola che Gesù ci racconta nel Vangelo odierno. « Ascolta la parola di Dio, che è sempre preziosissima, e tienila in cuore ove fruttificherà per la vita eterna ». – 1. ASCOLTA LA PAROLA DI DIO. « Dio… se lo vedessi! se lo sentissi! », dicono alcuni ripetendo le parole dell’innominato al Cardinale Federico « io ascolterei la sua parola, la metterei in pratica; ma dov’è questo Dio che parla? ». Cristiani, nella sua provvidenza Dio non ha voluto istruire gli uomini da se stesso, che è il primo lume; e neppure ha voluto istruirli per mezzo di Angeli, i quali sono come delle seconde luci; ma ha voluto istruire l’uomo per mezzo dell’uomo. Sarebbe una tentazione troppo superba pretendere di vedere e udire il Signore direttamente: Caveamus, — dice S. Agostino — tales tentationes superbissimas et periculosissimas. Ravviviamo la fede e ricordiamoci: 1) Parola di Dio è quella del Sacerdote sul pulpito e nel confessionale. Come il centurione Cornelio, benché vedesse un Angelo non fu dall’Angelo istruito, ma mandato a S. Pietro, così noi dobbiamo ricevere le parole che illuminano l’anima dei nostri Sacerdoti. 2) Parola di Dio è quella del Catechismo. In questo piccolo libro è raccolto muto l’insegnamento del Vangelo, l’insegnamento del Maestro unico e infallibile Gesù. Chi rifiuta la sua parola, rifiuta la vera sicurezza. Tutte le domeniche esso è spiegato ed insegnato nelle chiese ma quelli che assiduamente vengono ad impararlo sono pochi. Ai Cristiani del suo tempo S. Pietro (I Pet., III, 15) diceva che erano obbligati a rendere ragione della loro fede e della loro speranza a chiunque domandasse: ora troppi Cristiani non sanno più né quel che credono, né quel che sperano; e perciò prestano orecchio e battono le mani al primo ciarlatano che sbraiti le sciocchezze più assurde contro il Redentore e la sua Chiesa. 3) Parola di Dio è quella dei nostri superiori: e intendo dire del Papa, vicario di Gesù Cristo, e del nostro Vescovo. Quando essi parlano o scrivono, tutti i Cristiani bramano di raccogliere la loro parola, di comprenderla, di meditarla, di praticarla: si abbonano perciò a quei giornali e a quei fogli che la riferiscono stampata; la fanno conoscere a quelli che la ignorano; la difendono da quelli che la fraintendono. 4) Parola di Dio è quella che ci dicono o ci dicevano i nostri buoni genitori, specialmente la nostra madre. Se tutti i figlioli, benché adulti, ascoltassero sempre la loro mamma, quanta più religione ci sarebbe nel mondo! 5) Parola di Dio è quella dei buoni libri e dei giornali cattolici. Poche ore prima del suo martirio, il Beato Teofano Vénard dalla prigione così scriveva al fratello: « Quando, fanciulletto di nove anni, menavo al pascolo la mia capra sul poggio  di Bel-Air, io leggevo con trasporto il libro ove si narra la vita e la morte del vemerabile Carlo Cornay e mi dicevo: — Anch’io voglio andare al Tonchino, anch’io voglio essere martire… » E lo fu davvero. Ma voi intendete bene come Dio gli avesse parlato attraverso le parole di un buon libro. 6) Parola di Dio è quella della nostra coscienza, Talvolta è voce amara che ci rimorde; e la sentiamo improvvisamente destarsi in noi dopo una festa mondana, un ballo, un cinematografo, una passeggiata, un’ora di peccato, una giornata di vanità. Talvolta è voce buona di approvazione: e la sentiamo dopo una sincera confessione, un atto di carità, una fervorosa preghiera. Talvolta infine è voce di incitamento verso la perfezione: Dio passa accanto al cuore nostro e picchia: ci chiede forse di fare penitenza, di aiutare i poveri, di suffragare i morti, di beneficiare le missioni, di accettare volentieri una croce… – 2. TIENLA IN CUORE. Non basta che il divin Seminatore passi nel mondo a gettare a larghe manate il seme della sua parola; è necessario che la terra l’accolga bene, altrimenti invano aspetteremo i frutti. Se il seme è sempre ottimo, il terreno spesse volte è inospitale. Infatti, ci sono cuori dove la parola di Dio non può operare per tre difetti: la distrazione, l’incostanza, le cattive abitudini. – 1) I distratti. V’è della gente assidua alle prediche, alla dottrina cristiana, alla meditazione, eppure non ricava frutto: è distratta. Il seme divino cade, ma prima che i solchi del cuore lo accolgano già è beccato via dal demonio. Dice una bella leggenda che S. Antonio da fanciullo era stato incaricato di custodire un campo di spighe dalla voracità degli uccelli. Mentre adempiva con vigilanza l’ufficio suo, un suono di campane lo chiamava alla chiesa vicina. Come recarsi in chiesa, se i passeri divorano il frutto del campo? Un’idea gli balena in mente: batte le mani e a stormi gli uccelli devastatori seguono il minuscolo incantatore che corre verso una casuccia: li fa entrare per la porta spalancata che poi richiude in fretta, libero così d’andare a parlar con Dio. – Cristiani, ci sono uccelli voraci, i quali mentre cerchiamo d’ascoltare la parola di Dio, devastano ogni frutto nel nostro cuore: sono le distrazioni: stormi di pensieri terreni, di cure mondane, di affetti non celesti. Bisogna saperli rinchiudere in qualche casaccia, altrimenti invano cadrebbe su noi il seme divino. – 2) Gli incostanti. Vi sono altre persone che ascoltano attente la parola di Dio la trovano giusta e bella, si commuovono: ma poi, tornate alle loro occupazioni quando si tratta di metterla in pratica, esse non sanno sormontare le difficoltà e cedono alle prime tentazioni. Hanno sentito che Dio vuole da loro maggior preghiera, maggior purezza, maggior giustizia; hanno anche promesso di rinnovare la vita; ma poi non si sentono il coraggio di mantenere. Per tal modo la parola di Dio, che già era cresciuta su in pianticella, per mancanza d’amore avvizzisce prima d’emettere la spiga. Costoro sono simili a quelli che vanno al fonte per attingere acqua, ma ritornando con la brocca piena, la sentono pesare e la rovesciano per via. – 3) Gli schiavi delle passioni. C’è della gente, infine, che ascolta la parola di Dio ma col cuore intricato di spine. Essi hanno una relazione illecita che non vogliono spezzare, hanno roba o danaro altrui che non vogliono restituire, da anni commettono un peccato che non vogliono abbandonare. E allora, che frutto potrà in esse fare la parola di Dio? Il Signore, dice S. Agostino, fa piovere sulle messi e sugli spineti: ma la medesima acqua prepara le messi per il granaio e gli spineti per il fuoco. Così è della parola di Dio che cade sui cuori buoni, e su quelli schiavi delle passioni; prepara gli uni per il Paradiso, e gli altri per l’Inferno. – Ed ora ascoltate la parabola che Gesù racconta nel Vangelo di questa domenica e sentirete quanto è bella e quanto è vera! Ai suoi discepoli Gesù spiegò la parabola. Il seme è la parola di Dio: esso cade su certi cuori duri come la strada da dove le distrazioni lo beccano via prima che sia meditato; esso cade in certi cuori pietrosi dove attecchisce, ma per il loro temperamento mobile e facilmente scoraggiabile non può giungere alla spiga; esso cade anche in certi cuori che da tenaci rami di spine e di gramigne sono legati alle cose mondane, alle passioni, ai peccati. Ma quando la parola di Dio cade nei cuori di buona volontà, allora produce innumerevoli e meravigliosi frutti. Chi ha orecchio per intendere, intenda. — SEME BUONO E TERRA CATTIVA. È facile smarrirsi nel deserto. Sopra l’immensa distesa di sabbia del Sahara, il vento soffia terribile, cancella ogni pista sul suolo, trasporta le dune e muta l’aspetto dei luoghi. Il viaggiatore esterrefatto non sa più orizzontarsi, e si smarrisce cercando invano la via del ritorno. Per ciò, prima d’inoltrarsi in quel pauroso regno dei venti e delle belve, scrive le indicazioni necessarie sopra alcuni cartellini che semina nei posti più visibili, fermandoli con grosse pietre. La vita nostra può essere paragonata ad un viaggio nel deserto. Le passioni violente soffiano talvolta sul nostro cammino, sollevano davanti agli occhi il polverone e ci fanno perdere la giusta via. Ma Dio ha fatto spargere, nei luoghi più incerti, la parola del suo Vangelo, e la spiegazione della sua santa parola. Chi non si cura della parola del Signore cammina a casaccio, e finisce alla perdizione. A farci comprendere la preziosità della parola di Dio, Gesù Cristo narrò ad una grandissima turba di popolo, la parabola del seme: Eppure questo seme, benché divino, non sempre fa frutto: la colpa è della terra cui viene a cadere, che spesso è troppo dura, sassosa, rimboschita. – 1. IL SEME È BUONO. Nel cimitero di Friburgo v’era un tumulo con queste parole: « Proibisco, per sempre, che si tocchi la mia tomba. Il tempo e le intemperie vi avevano incavato un taglietto superficiale che, a stento avrebbe ricevuto una vespa. Dall’albero che stendeva la sua ombra e la sua frescura sopra il tumulo, cadde un piccolo seme che, scivolando per la lastra di marmo, si fermò nella breve incavatura. Nessuno s’accorse, tanto la cosa fu piccola e silenziosa. Dopo alcuni giorni però, videro la lapide che chiudeva il sarcofago spaccata in mezzo. Il seme inturgidito aveva avuto tanta forza da rompere il marmo. Semen est verbum Dei. Qualsiasi parola di Dio somiglia a questo seme: essa è divina e potente. Solo la parola di Dio ha tanta forza da spaccare il sepolcro del peccato in cui marciscono certe anime. Chi poteva fermare Paolo, quando con gli occhi infiammati dall’odio spronava disperatamente il cavallo sulla strada di Damasco? La parola di Dio. Chi poteva nel giorno della prima Pentecoste strappare al ritmo vorticoso del commercio una folla di tre mila uomini, d’ogni lingua e nazionalità, costringerli a tacere, ad ascoltare, a convertirsi? La parola di Dio, predicata da S. Pietro. V’erano Parti, Medi, Giudei; v’erano di Cappadocia, d’Asia, di Frigia, d’Egitto, di Libia, e piangevan tutti sulla pubblica piazza i loro peccati e domandavano la penitenza ed il Battesimo. Exiit qui seminat seminare semen suum. Quest’uomo che uscì a seminare e che semina un seme suo e non d’altri, è Gesù Cristo che cammina davanti a noi, e semina nella nostra vita, ad ogni momento e in mille guise, il seme della sua parola. Perché una parola così potente e così diffusa non produce che scarsi frutti? Perché la terra in cui cade è cattiva. – 2. LA TERRA È CATTIVA. Gli Angeli discesi a Sodoma entrarono nella casa di Loth. Fuori la gente folle d’impura passione urlava. Gli Angeli compresero come i Sodomiti s’erano affondati nel peccato fino all’ultimo livello e che per loro non v’era altro che il fuoco. Per ciò dissero a Loth: « Hai tu qualcuno dei tuoi, o genero, o figlio, o figlia? Menali via tutti da questa città, perché la distruggeremo. I peccati di Sodoma gridano vendetta. E il loro grido giunse fino a Dio che ci manda a sterminarla ». Loth uscì, e chiamò i suoi parenti e con nel cuore l’ansia del flagello imminente, disse a loro la parola degli Angeli, li scongiurò a cessare dai peccati, a fuggire dalla città maledetta. E quelli scoppiarono a ridere. Già il cielo si tingeva foscamente di rosso, già le prime fiamme passavano nell’aria sibilando e quelli credettero che Loth parlasse loro per burla. Et visus est eis quasi ludens loqui (Gen., XIX, 14). Quante volte i sacerdoti nelle chiese annunciano i castighi di Dio, e molti non ci fanno nemmeno caso, come se il Sacerdote parlasse per altri. Quante volte si predica l’infinito amore di Gesù Cristo per le anime nostre: la sua nascita in una stalla, la sua vita raminga e povera, la sua morte in croce, e nessuno pensa a ricambiare quest’amore, come se tutta la vita di Nostro Signore fosse una invenzione del Sacerdote che predica. È il seme della parola di Dio che cade in terra non buona. Dum seminat; aliud cecidit secus viam. La strada significa il cuore dell’impuro ove passano tutti: i cattivi pensieri, i desideri peccaminosi, le passioni e gli istinti più bassi. In questi cuori la parola del Signore non produce frutto alcuno. Che frutto ha prodotto la parola degli Angeli nel cuore impuro dei parenti di Loth? Et aliud cecidit supra petram. La terra pietrosa significa il cuore del superbo. La superbia fa il cuor duro, perché non vuol ricevere nessuna correzione. Se discende la pioggia sulla pietra, la bagna di fuori, ma dentro no, che resta arida. Così, se la pioggia della divina parola e della divina ispirazione cade su cuor superbo, lo tocca di fuori appena, che dentro non vi può andare. La terra spinosa significa il cuore dell’avaro. Le ricchezze si dicono spine perché tengono legata l’anima alla terra e la soffocano negli intrighi degli affari e delle mollezze della vita e nel desiderio d’onori mondani. Se infondi in un vaso pieno d’aceto una goccia di miele, tu perdi il miele e non muti l’aceto. Vasi d’aceto sono i cuori degli avari, pieni d’ansietà, dentro i quali la parola celeste si perde e l’ispirazione è soffocata. – Francesco Saverio, quando ancora gli sorrideva la speranza di un brillante avvenire, quando ancora gli si apriva una vita infiorata di piaceri e di denari, incontrò Ignazio di Lojola che gli disse: Figliuolo! Se non vi è altra vita che questa, né vi sono altri beni che i caduchi: tu sei saggio a goderli, io sono pazzo a privarmene. Mentre se vi è una vita futura e l’inferno e il paradiso, allora io sono saggio e tu stordito. Potrai essere felice, quaggiù, quarant’anni e qualcuno ancora: ma finiti anche questi ti aspetta l’inferno senza speranza. E l’inferno ti sembra un male da nulla, per non subire qualsiasi patimento ora, pur d’evitarlo? E il paradiso ti sembra un bene da nulla, per non rinunziare a qualsiasi gioia ma pur di raggiungerlo? « Ancora fluttui nell’incertezza e non decidi? ». Francesco ascoltò, meditò, e la parola di Dio produsse mirabile frutto. Partì per le Indie, convertì a Gesù Cristo cinquantadue regni, inalberò la croce su una vastissima regione, battezzò di sua mano un milione d’infedeli. Moriva nell’isola di Sanciano sospirando d’entrar nella Cina, che gli si stendeva davanti, e ch’egli benedisse nella tremula luce della sua agonia. In lui la parola divina aveva fruttificato il cento per uno.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVI: 5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam.

Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

APPARIZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA A LOURDES – 11 FEBBRAIO (2023)

11 FEBBRAIO 2023 – APPARIZIONEDELLA VERGINE MARIA A LKOURDES

Hymnus {ex Proprio Sanctorum}


Te dícimus præcónio,
Intácta Mater Núminis,
Nostris benígna láudibus
Tuam repénde grátiam.

Sontes Adámi pósteri
Infécta proles gígnimur;
Labis patérnæ néscia
Tu sola, Virgo, créderis.

Caput dracónis ínvidi
Tu cónteris vestígio,
Et sola glóriam refers
Intaminátæ oríginis.

O gentis humánæ decus
Quæ tollis Hevæ oppróbrium,
Tu nos tuére súpplices,
Tu nos labántes érige.

Serpéntis antíqui potens
Astus retúnde et ímpetus,
Ut cǽlitum perénnibus
Per te fruámur gáudiis.

Jesu, tibi sit glória,
Qui natus es de Vírgine,
Cum Patre et almo Spíritu,
In sempitérna sǽcula.
Amen.

[Ti celebriamo con canti,
o Immacolata Madre di Dio,
tu benigna le nostre lodi
ricambia colla tua grazia.

Posterità colpevole di Adamo,
nasciamo tutti colpevoli;
dalla macchia del nostro progenitore tu sola,
o Vergine, nasci immune, come ne insegna la Fede.

La testa dell’invidioso dragone
tu schiacci col piede,
e sola hai la gloria
d’intemerata origine.

O decoro dell’uman genere,
che di Eva togli l’obbrobrio,
tu soccorrici, te ne supplichiamo,
tu rialzaci nelle nostre cadute.

Potente qual sei,
dell’antico serpente rintuzza le insidie e gli assalti,
affinché per te partecipiamo
alle gioie eterne degli abitatori celesti.

O Gesù, sia gloria a te,
che sei nato dalla Vergine,
insieme col Padre e collo Spirito Santo,
per i secoli eterni.
Amen.]

Quattro anni dopo la definizione dommatica della immacolata Concezione della beata Vergine, sulla sponda del fiume Gave presso il borgo di Lourdes, delta diocesi di Tarbes in Francia, la stessa Vergine si fece vedere più volte nell’insenatura d’una roccia nella grotta di Massabielle a una fanciulla chiamata volgarmente Bernadetta, poverissima sì ma ingenua e pia. La Vergine immacolata appariva di aspetto giovane e benevolo, ricoperta d’una veste e d’un velo bianco come la neve, e cinta d’una fascia celeste; una rosa d’oro ne adornava i piedi. Il primo giorno dell’apparizione, che fu l’11 Febbraio dell’anno 1858, insegnò alla fanciulla a far bene e con pietà il segno della croce e, facendo scorrere nella mano la corona che prima le pendeva dal braccio, l’eccitò, col suo esempio, alla recita del santo rosario: cosa che ripeté pure nelle altre apparizioni. Ma il secondo giorno dell’apparizione, la fanciulla temendo, nella semplicità del suo cuore, un’insidia diabolica, gettò sulla Vergine dell’acqua benedetta; ma la beata Vergine, dolcemente sorridendo, le si mostrò con volto ancor più benevolo. Nella terza apparizione poi invitò la fanciulla alla grotta per quindici giorni. D’allora le parlò più spesso, e la esortò a pregare per i peccatori, a baciar la terra e a far penitenza; quindi le ordinò di dire ai sacerdoti che edificassero ivi una cappella, e di venirvi alla stessa guisa con solenni processioni. Di più le ordinò di bere dell’acqua della fonte, ch’era ancora nascosta sotto la sabbia ma sarebbe subito sgorgata, e di lavarsi con essa. Finalmente la festa dell’Annunziazione, domandando la fanciulla istantemente il nome di lei, che s’era degnata di apparirle tante volte, la Vergine, portate le mani sul petto ed alzati gli occhi al cielo, rispose: Io sono l’Immacolata Concezione. – Crescendo la fama dei benefizi, che si asseriva aver ricevuto i fedeli nella grotta, aumentò ogni dì più il concorso degli uomini attirati alla grotta dalla venerazione del luogo. Ond’è che il vescovo di Tarbes mosso dalla fama dei prodigi e dal candore delta fanciulla, quattro anni dopo le cose narrate, dopo giuridica inquisizione dei fatti, riconobbe con sua sentenza, che i caratteri dell’apparizione erano soprannaturali, e permise nella stessa grotta il culto alla Vergine immacolata. Subito vi si edificò una cappella: da quel giorno sono quasi innumerevoli le folle di fedeli che vi accorrono ogni anno per ragione di voto e di supplica dalla Francia, dal Belgio, dall’Italia, dalla Spagna e da altre regioni d’Europa e fin dalle lontane Americhe, e il nome dell’Immacolata di Lourdes diviene celebre in tutto l’universo. L’acqua della fontana, portata in tutte le parti del mondo, rende la sanità agl’infermi. E l’orbe cattolico, riconoscente di tanti benefici, v’ha eretto intorno meravigliosi monumenti sacri. Innumerevoli vessilli, mandati là dalle città e popoli quali testimoni dei benefici ricevuti, formano al tempio della Vergine una decorazione meravigliosa. In questa sua quasi dimora la Vergine immacolata è venerata continuamente: di giorno con preghiere, canti religiosi e altre solenni funzioni; di notte invece con quelle sacre processioni nelle quali turbe pressoché infinite di pellegrini con ceri e torcie sfilano cantando le lodi della Vergine. –

Omelia di san Bernardo Abate
Omelia 2 su Missus


R
allegrati, padre Adamo, ma tu soprattutto, madre Eva, esulta: come foste i progenitori di tutti, così di tutti foste pure la rovina; e, quel ch’è più deplorevole, prima rovina che progenitori. Consolatevi, la dico a tutti due, per questa figlia, e per tale figlia; ma principalmente a quella che fu la prima cagione del male, il cui obbrobrio s’è trasmesso a tutte le donne. Infatti si approssima il tempo in cui ormai sarà tolto l’obbrobrio, e l’uomo non avrà più di che accusare la donna: né cercando esso impudentemente di scusare se stesso, non dubitò di accusarla crudelmente, dicendo: «La donna, che m’hai data, m’ha dato del frutto, ed io l’ho mangiato» Gen. 3,12. O Eva, corri dunque a Maria; o madre, corri a tanta figlia; risponda la figlia per la madre; liberi lei la madre dall’obbrobrio; lei soddisfaccia al padre per la madre: perché se l’uomo è caduto per la donna, egli ora non si rialza che per la donna. – Che dicevi, o Adamo? «La donna che m’hai data, m’ha dato del frutto, e io l’ho mangiato» Gen. 3,2. Queste sono parole maliziose, colle quali aggravi anziché diminuire la tua colpa. Nondimeno la Sapienza ha vinto la malizia, perché ella ha trovato nel tesoro della sua inesauribile bontà quell’occasione di perdono che Dio, interrogandoti, cercò, ma non poté cavare da te. Infatti invece della prima donna ci è data un’altra donna, una prudente, invece di una stolta, una umile, invece di una superba; la quale invece d’un frutto di morte, ti dia a gustare un frutto di vita, e in cambio di quell’amaro e velenoso alimento, ti procuri la dolcezza d’un frutto eterno. Muta, dunque, le parole della stolta scusa in voci di azioni di grazie, e di’: Signore, la donna che m’hai data m’ha dato del frutto (dell’albero) della vita, e io l’ho mangiato; ed esso è più dolce alla mia bocca del miele, perché per esso m’hai reso la vita. Ed ecco perché l’Angelo fu mandato alla Vergine ammirabile e d’ogni onore degnissima! O donna singolarmente veneranda, ammirabile più che tutte le donne, riparatrice dei tuoi progenitori, sorgente di vita per l’intera posterità! – Qual’altra donna ti sembra aver Dio preannunziato, quando disse al serpente: «Porrò inimicizia fra te e la donna» Gen. 3,15. E se dubiti ancora avere egli inteso di Maria, ascolta quel che segue «Ella ti schiaccerà la testa». A chi è riservata questa vittoria, se non a Maria? Ella senza dubbio ha schiacciato la testa velenosa, ella ha ridotto a niente ogni suggestione del maligno sia ch’esso tenti colla seduzione della carne o con l’orgoglio dello spirito. E qual altra cercava Salomone quando diceva «Chi troverà la donna forte?» Prov. 31,10. Conosceva infatti quest’uomo sapiente l’infermità di questo sesso, la fragilità del suo corpo, la volubilità del suo spirito. Ma siccome egli aveva letto la promessa fatta da Dio, e gli pareva conveniente che colui che aveva vinto per una donna fosse vinto per mezzo di essa, sommamente meravigliato, esclamava: «Chi troverà la donna forte?». Ch’è quanto dire: Se dalla mano d’una donna dipende così e la nostra comune salvezza e la restituzione dell’innocenza, e la vittoria sul nemico; è assolutamente necessario di trovare una donna forte che possa essere capace di tanta opera.

Hódie gloriósa cæli Regína in terris appáruit; hódie pópulo suo verba salútis et pígnora pacis áttulit; hódie Angelórum et fidélium chori immaculátam Conceptiónem celebrántes gáudio exsúltant.

V. Dignáre me laudáre te, Virgo sacráta.
R. Da mihi virtútem contra hostes tuos.

Orémus.
Deus, qui per immaculátam Vírginis Conceptiónem dignum Fílio tuo habitáculum præparásti: súpplices a te quǽsumus; ut, ejúsdem Vírginis Apparitiónem celebrántes, salútem mentis et córporis consequámur.
Per eúmdem
….

[Dal Messale Romano]

LO SCUDO DELLA FEDE (239)

LO SCUDO DELLA FEDE (239)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (7)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO II

L’OFFERTA DEL SACERDOTE.

Accompagniamo ora il Sacerdote, e vediamo con qual rito presenti a Dio l’offerta del pane e del vino. Il suddiacono si copre del gran velo umerale; e questo velo, che riccamente scende giù dalle spalle, serve all’uopo come di pezzuola, per non toccare colle mani l’offerta; al modo stesso che ogni inserviente, che assiste alle mense non ardirebbe con mani nude presentar cibo o checchessia ad uomo civile. Serve anche ad involgere e coprire l’offerta, affine di rappresentarla con garbo e venire a scoprirla dinanzi al Sacerdote. Con questo velo adunque prende egli dalla credenza il calice colla patena, e sopra di questa il bianchissimo pane azzimo, volgarmente detto l’ostia. La patena, col pane sopra essa, presenta al diacono, il quale alla destra del Sacerdote scopre l’offerta, la prende dalle mani del suddiacono, e baciando il sacro vaso, che la porta, la rimette con riverenza nelle mani del Sacerdote. Questi l’innalza davanti al petto, e tenendola sollevata verso il cielo, al cielo alza gli occhi e comincia l’orazione, che diremo appresso. In quest’atto si fa l’offerta. Il popolo sospende il canto, e sta silenzioso e prostrato a piè dell’altare. Quando una densa nube copriva il Sinai, e tra il balenar dei lampi, e il rombar dei tuoni andava in fiamme la vetta, e traballava in sussulto tutto quel monte, come per terrore alla presenza di Dio, gli Israeliti pavidi alle radici del monte si prostravano colla faccia nella polvere, e gridavano timorosi: « Non parlateci voi, o Signore; ché noi cadremmo morti, sfolgorati dalla vostra maestà! Parlate al vostro servo Mosè, ed egli ci ridica i vostri comandamenti. Come essi, il popolo cristiano manda sull’altare il suo condottiero, il santo del Signore a trattar con Lui i suoi interessi: mentre egli resta appiè prostrato, e si spande in gemiti di umiltà. Il Sacerdote, novello Mosè, alza le palme stese sotto la patena; e vedendosi innanzi agli occhi, nell’offerta, il cuore di tutti i fedeli, come Mosè (Exod. 33, 18), collo sguardo al cielo pare che con uno slancio di confidenza chieda a Dio di lasciarsi vedere. In quell’istante, gli ha un ufficio da compiere assai onorevole, egli ha da presentargli un offerta, ed ha il presentimento, che troppo ben accetta riuscir gli debba (Card. Bona; Rerum liturg.. lib. 2, Cap. 9, n.3). Posto là sotto la croce, prende conforto da quell’immagine del sacrificio, che sta per fare in realtà. In questo pensiero, cogli occhi alzati al suo Dio Padre, lo supplica coll’orazione che verremo commentando nell’esporla.

L’Orazione: Suscipe, sancte Pater.

« O Padre onnipotente, eterno Iddio degnatevi di accogliere quest’ostia immacolata, che io vostro servo di offerirvi non son degno…… » — Ma qui il povero Sacerdote, infelice! si ricorda di essere uomo peccatore, e ben sapendo ciò che disse Giobbe, « che solo, quando è la tua mano monda da ogni iniquità, allora potrai levare la faccia confidente innanzi a Dio » (Iob. XI, 14.), ei si corregge subito dal suo ardimento. Abbassa lo sguardo umiliato, e come all’umile pubblicano, non gli basta l’animo di tenere gli occhi alzati a mirare in volto il Signore che sa d’aver offeso pur troppo. Però tenendo le mani sollevate innanzi alla croce, e chini gli occhi a terra quasi non voglia più levarli (Luc. XVIII, 15) si affretta a dire continuando: « Quest’offerta offro a Voi, Dio mio, vivo e vero per gli innumerabili miei peccati e per le offese e negligenze mie, per tutti i fedeli Cristiani, vivi e defunti, affinché a me e a tutti essa torni a profitto di vita eterna. » – Fa il segno di croce sulla mensa. Qui abbassa, tenendola fra le mani, la patena, e così segna con essa sul corporale la croce, e sul luogo segnato di croce depone il pane offerto. Il corporale, o candido lino, consacrato per deporvi sopra il santissimo Sacramento, significa il lenzuolo di lino, in cui fu involto il Corpo di Gesù Cristo (Beda Hom. in Mase. 13 et Ben. XIV, lib. 1, cap. 5, n. 4, De sac. Miss.). Il segno di croce, su cui depone l’offerta sopra l’altare, significa, che li sull’altare, come sul Calvario, in questa mistica Croce si rinnoverà quel sacrificio medesimo, che fece di se Stesso Gesù, Pontefice immortale, e vittima eterna (Durandus, lib. 4, cap. 30. n. 17, et Honorius in Gent. Anim., lib. 1, cap. 96). – Il diacono intanto infonde il vino nel calice, ed il suddiacono presenta l’acqua per essere benedetta dal Sacerdote.

ART. I.

LA BENEDIZIONE DELL’ACQUA ED INFUSIONE DI ESSA NEL CALICE

Antichissimo è l’uso di mischiare un po’ di acqua nel vino da consacrarsi, e secondo la regola di s. Agostino, non essendovi canone di alcun Concilio, né ordinazione di Pontefice, che mostri il principio dell’istituzione, si deve conchiudere essere questa una pratica dai santi Apostoli insegnata, e tratta dall’esempio di Gesù Cristo, che si crede avere, secondo 1’uso della Palestina, infusa l’acqua nel vino nella cena della santa istituzione (Durandus, 4 Diss. IX, q. 5, Conc. Trid. sess. XXII, Cap. 7). Cerchiamo ora di questo rito la significazione. Sempre è da ricordare che nel Sacrificio della santa Messa si rappresentano intorno al Corpo reale e divino tutti i misteri della passione e morte del divin Salvatore. – Ora quando il divin Redentore fu dalla lancia trafitto sulla croce, mandò fuori dalla ferita Acqua insieme col sacratissimo Sangue, ed il santo Pontefice Alessandro I (Ep. Ad Cæcil.), comandando che si continuasse l’uso di mischiare l’acqua nel calice, come sempre si è fatto, dichiara, che questo poco d’acqua significa appunto l’Acqua, che sgorgò dal santo petto di Gesù trafitto. – L’acqua poi nella santa Scrittura si usa pure per esprimere il popolo; « e così dice san Cipriano, vedendo noi nell’acqua intendersi il popolo, e significarsi nel vino il Sangue di Gesù Cristo; quando nel calice l’acqua si mischia col vino, il popolo si aduna in Cristo, e la plebe dei credenti sì unisce, e si congiunge a Lui, in cui credette. E come l’unione dell’acqua col vino si fa nel calice in modo da non potersi l’una dall’altro disgiungere, così il popolo in Chiesa costituito, perseverante fedelmente in ciò che crede, non potrà mai da Cristo essere disgiunto » (Durandus.). Si uniscano adunque qui i fedeli a Gesù, come le membra al loro capo, e con Esso si offeriscano sull’altare. Il Sacerdote poi non benedice al vino, perché il vino esprime Gesù, e Gesù non ha bisogno di benedizioni (Gavantus. Com. ad Rubric. Miss. p. 2. t. 7 et Durandus). L’acqua invece, che rappresenta il popolo, si benedice col segno della croce, perché gli uomini, per essere degni di comunicare con Dio, hanno bisogno della grazia, che in loro si trasfonde per i meriti della Passione divina. Nella Messa dei defunti l’acqua non si benedice, perché  il popolo benedetto di coloro che dormono nella pace del Signore, è già in grazia (S. Cirill, Cath. De Bapt.). – Finalmente vi è una terza ragione, per cui così nell’offerta l’acqua al vino sì mischia; ed è che l’acqua significa la mondezza; e tutte le volte, che l’uomo ha da trattare con Dio, ha bisogno di purificarsi, per non offendere la santità dello sguardo divino (Daniel 2. 39.). Ond’è, che l’acqua viene sempre nelle benedizioni adoperata, e si frammette sempre tra Dio e gli uomini, vero simbolo di umiltà; perché, servendo essa in natura a purificare dalle sozzure ì materiali oggetti, col cospergere che facciamo col l’acqua le nostre persone e le cose nostre, esprimiamo desiderio vivissimo di purificarci, per non offendere la maestà divina. – Il suddiacono presenta l’acqua, dicendo al Sacerdote: « benedite, o reverendo padre; » ed il celebrante alza la mano, e la benedice, facendo il segno di croce. Mentre il suddiacono nella Messa solenne, e nella privata il celebrante, infonde l’acqua, egli recita la seguente orazione, che le premesse osservazioni faranno intendere pur bene.

Orazione nell’infondere l’acqua nel calice,

« O Dio, che la dignità dell’umana sostanza mirabilmente componeste, e riformaste più ancora mirabilmente, pel ministero di quest’acqua e di questo vino, a noi concedete di poter essere consorti della divinità di Colui, che si è degnato di esser partecipe dell’umanità nostra, Gesù Cristo, vostro figliuolo, Signor nostro, che nell’unità dello Spirito Santo con Voi vive e regna Dio per tutti i secoli dei secoli. Così sia. » – Il Sacerdote poi alza fra le mani, come fece della patena, il calice; al cui piede tenendo la mano il diacono, questo ministro aiuta il Sacerdote a sostenere l’offerta, come dai ministri si sostenevano le braccia a Mosè, che pregava per la vittoria del popolo; e così mentre l’accompagnava co’ suoi voti innanzi a Dio, dicono insieme cogli occhi alzati al cielo la seguente orazione.

Orazione dell’offerta del calice.

« Noi offriamo a voi, nostro Signore, il calice salutare, supplicando la vostra clemenza, ché in odore di soavità ascenda nel cospetto di vostra divina Maestà per la salute nostra e di tutto il mondo. » Segna qui pure di croce col calice il luogo, dove lo depone; poi lo copre coll’animetta o palla, per rispetto e pulitezza. – Presentata in tal modo l’offerta, il diacono rimette la patena vuota al suddiacono, a cui appartiene la custodia dei vasi sacri. Ed esso copertola col ricco velo, che li pende dagli omeri, scende giù a piè dell’altare, e vi sta in atto di guardia, per tenere discosta dall’altare la calca, sicché non turbi l’ordine del luogo santo; rimane come servo che attende i cenni del maggior ministro, pronto a presentargli all’uopo nel Sacrificio il vaso che tien sollevato sul petto.

ART. II.

ORAZIONE: IN SPIRITU HUMILITATIS.

Nella santa Messa mai non è da dimenticarsi di Gesù Cristo, perché, mentre si offre il sacrifizio del suo corpo, nei vari riti, giova ripeterlo, si fa memoria dei misteri della sua vita, e massime della sua passione. Il santo profeta David, illuminato dallo Spirito del Signore, prediceva che il Figliuol di Dio fatto uomo, così parlerebbe al suo Padre divino: « Sacrifizi, oblazioni non volendo voi più, m’avete fatto adatto questo mio corpo. Ecco che io vengo ad offrirvelo. » Questo sacifizio di sé compiutolo sul Calvario, provvide si rinnovasse nella santa Messa. Ora il Sacerdote suo rappresentante ha preparata la materia, come doveva, e sta per prestar l’opera al sovrano Pontefice in cielo, che offrirà ancora per mezzo suo il gran Sacrifizio divino. Ma qui egli, sollevato all’altezza di così sublime ministero, non può a meno di sentire il peso non solamente delle proprie ma delle iniquità di tutto il popolo: per lui non vi ha miglior consiglio, che salvarsi in umiltà e ripararsi sotto la croce, (e questo esprime coll’inchinarsi). Perché un cuor contrito ed umiliato non sarà sprezzato da Dio (Salm. 50.); non potendo far altro, confessa in gran contrizione il peccato, e, mentre sta per rinnovare il mistero di redenzione per espiarlo, si mette sotto le piaghe di Gesù Cristo. Questo fa, quando s’inchina a’ pié della croce innanzi all’offerta, ponendo sulla mensa le mani giunte in atto di deporre se stesso, ed il popolo, come vittima legata, e supplicando, che sia ricevuta in olocausto insieme col Sacrificio tanto accettevole a Dio, che sta per offrire. Recita perciò in quest’atto l’orazione:

In spiritu humilitatis,

« In ispirito di umiltà, ed in animo contrito veniamo accolti da Voi, o Signore, e il sacrifizio nostro così sia fatto, che si meriti di essere ben accolto nel vostro cospetto. »

È questa la preghiera medesima, che recitavano quei tre generosi giovanetti israeliti in Babilonia, allorché avendo rifiutato di piegar il ginocchio innanzi alla statua del re Nabucodonosor (Daniel. III, 38.), erano stati gettati vivi ad ardere nella fornace. Il Sacerdote fa quest’orazione nell’istante in cui sta per compiere il gran Sacrificio, per dire con essa: Signore, non confondeteci, ributtando l’offerta che facciamo; ma adoperate con noi secondo la vostra clemenza, nella misura delle vostre misericordie, che non han fine. » Compiuta la preghiera, si rizza, ed alza gli occhi alla croce, e su per questa scala di paradiso va a fare l’invito allo Spirito Santo di discendere in sull’altare coll’orazione, che segue.

Art. III.

VENI SANCTIFICATOR.

Orazione.

« Venite, o Santificatore, onnipotente, eterno Iddio, e benedite a questo sacrificio al vostro santo nome preparato. »

Esposizione.

Abbiamo detto invita lo Spirito Santo, benché non lo nomini personalmente. Giova qui osservare, che le sante Scritture, per essere comprese dagli uomini, si adattano nelle loro espressioni alla piccolezza dell’umana capacità; e che nel linguaggio delle medesime, trattandosi colle due Persone, il Figlio e lo Spirito Santo, bene si pregano, invitandole a discendere dal cielo; ma non mai così col Padre, prima Persona, sommo Principio della Divinità (Ben. XIV, De suo. s., lib.1, cap. 10, n, 21). Egli si prega non già mai che venga; ma bensì, o che mandi lo Spirito suo, Emitte spiritum tuum, o che mandi ai suoi il Redentore, e l’agnello, che toglie i peccati del mondo; Mitte nobis redemptorem. Mitte agnum qui tollit peccata mundi. Se qui adunque si fa preghiera a Dio di discendere come autore di santificazione, intendere si deve, che s’inviti lo Spirito Santo. Egli, che con prodigio d’amore divino creò dal Sangue purissimo di Maria Vergine quel corpicciuol animato nel Bambino celeste; Egli rinnovi il prodigio di quella verginale maternità; e le sostanze del pane e del vino, restandovi pur le apparenze sensibili di pane e di vino, che sono le specie, trasmuti nella sostanza del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo (Bossuet, Expl. de la Mess.), ed infonda l’anima della carità nella Chiesa, che gli si ha da incorporare (S. Fulgen. ad Mon., lib 2, cap. 9). Così fin qui gli uomini prima hanno sull’altare deposto tutto che per loro si poteva: poi col Sacerdote si son messi come altrettante vittime nelle mani di Dio; e finisce qui l’opera loro. Essi non operano più in là: hanno esaurita, per dir così, tutta la loro potenza. Adesso non rimane altro a far loro, che stare aspettando, che Dio voglia intervenire coll’opera sua. Ma qual sarà quell’uomo, che potrà fare che intervenga l’opera divina? Il Sacerdote, il quale dagli uomini assunto, viene per gli uomini costituito a trattare quelle cose, che devono essere trattate con Dio (Ad Hebr. V, l et seq.). Egli si prostrò già insieme col popolo in ispirito di umiltà e di contrizione; ora alza la sua voce, che sarà in cielo esaudita per la riverenza che si merita (Ibi.) il rappresentante di Gesù Cristo; e invoca lo Spirito Santo onnipotente, eterna virtù di Dio ad operare il gran prodigio. Fatta tale invocazione, nell’istante che attende l’opera di Dio, mette mano a profumare l’altare, ardendogli d’intorno i santi timiami per preparare, come può meglio il luogo, che deve essere onorato dalla presenza divina.

VIVA CRISTO RE (13)

CRISTO-RE (13)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XVI

CRISTO, RE DEI DOLORI

« All’udire ciò, presero molte pietre per scagliarle contro di Lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio » (Gv VIII, 59). Quale profonda tragedia si cela dietro queste parole! La tragedia degli uomini di allora e degli uomini di oggi: l’abitudine di lapidare chi ci fa del bene. Guardare dall’alto in basso i migliori. È l’incredibile ostinazione con cui gli uomini hanno lanciato in faccia al nostro Salvatore il grido di ribellione: « Non vogliamo che quest’uomo sia il nostro Re! » Il Signore rifiutato deve nascondersi e andarsene. Quanto lontano andrà l’umanità quando si separerà da Cristo! Al punto da raccogliere pietre da scagliare contro il loro Re. Nostro Signore è il Re dei dolori. Non è solo il testardo popolo giudaico che voleva lapidarlo, oggi lo lapidano anche per i molti peccati che vengono commessi. Eppure, questo Re dei dolori è l’unica speranza dell’umanità, che procede a tentoni perché ha perso la bussola. Se guardiamo alla storia dell’umanità, quante volte si è ripetuta la scena: « Non vogliamo che questo sia il nostro Re ». « Non lo vogliamo! », gridano i coniugi; « la Religione non ha il diritto di interferire nel nostro matrimonio; saremo felici a modo nostro ». « Non lo vogliamo! », grida un giovane frivolo e affamato di piacere. « Il sesto comandamento? Non fa per noi!  ». « Non lo vogliamo! » gridano i politici; « la Religione non ha nulla a che fare con la politica; lo Stato moderno non può tenere conto della religione ». « Non lo vogliamo! », gridano molti scienziati; « la scienza è al di sopra della morale ». « Non lo vogliamo! », gridano gli artisti, le star del cinema…. « Non lo vogliamo! », gridano gli intellettuali, i finanzieri, gli imprenditori, gli operai. « Non vogliamo seguire i dieci comandamenti ». Povero Cristo, Tu, Re dei dolori, ci guardi dalla croce. Tutti sono contro di Te? Quanti pochi Ti seguono! Cosa rimane per Te? Solo le chiese, i tabernacoli! E se i malvagi ti lapidano anche lì, non c’è più un solo rifugio per te. Ma ecco che Gesù Cristo rimane saldo in quest’ultimo rifugio…. Il tabernacolo è ancora suo; e cosa vediamo? Il Re del dolore parte da lì per il suo cammino di conquista. Quando sembrava che l’intera società avesse bandito Cristo; quando sembrava che non ci fosse più posto per Lui su questa terra; quando pensavamo che la croce di Cristo giaceva a terra ed era sepolta sotto la polvere dell’oblio e la spazzatura della malvagità; quando la società erigeva i suoi nuovi idoli invece di prostrarsi davanti alla croce di Cristo; allora, nei nostri giorni, Cristo inizia a riconquistare il mondo…. I Romani presero la città di Gerusalemme nel 70 d.C. e la distrussero completamente, e con essa i luoghi sacri della cristianità. Distrussero il sepolcro di Nostro Signore e sul Golgota, dove aveva sofferto ed era morto, eressero un tempio a Venere e a Giove e collocarono le loro statue sulla cima del Calvario. Sul luogo stesso della croce di Cristo, le statue degli dei pagani!…. Fino all’arrivo dell’imperatore Costantino il Grande e dell’imperatrice Sant’Elena, che fecero distruggere il tempio pagano e scavare per cercare di ritrovare i luoghi sacri… Dopo un lungo e faticoso lavoro, finalmente apparve la tomba…, e non lontano da essa tre croci…, e i chiodi e l’iscrizione. Tre croci! Ma non sapevano quale fosse la croce di Cristo. Sicuramente è uno delle tre, ma quale? Non sapevano… Infine, hanno toccato un uomo gravemente malato con le tre croci. E al tocco della terza croce il malato guarì. Abbiamo trovato la croce di Cristo, fu il grido trionfale che passò di bocca in bocca in tutta la cristianità. Abbiamo la croce di Cristo! La croce di Cristo ha toccato un malato ed è stato guarito. Ci sono malati oggi? Non c’è solo una persona malata, ma l’intera società. Anche oggi vediamo idoli al posto della croce di Cristo? Vogliamo essere curati? Non c’è altro modo: innalziamo la croce di Cristo in tutti i luoghi dove un tempo si trovava e da dove è stata sostituita dagli idoli del paganesimo.

Prima di tutto, dobbiamo innalzare la croce nella nostra anima, nella nostra vita più intima. La conseguenza sarà questa: se la croce di Cristo è saldamente piantata nella mia anima, nulla potrà abbattermi. Cristo Re è stato crocifisso. Sembrava che tutta l’opera della sua vita sarebbe stata distrutta e buttata giù. Ha forse fallito? Niente affatto! Poi prese possesso del Suo trono. Voi soldati senz’anima, che lo avete incoronato di spine, sapevate quello che stavate facendo? No! Voi che avete piegato le ginocchia davanti a Lui in segno di scherno; Pilato, che ha fatto scrivere sulla croce: “Gesù di Nazareth, Re dei Giudei”… sapevate quello che stavate facendo? No. Non sospettavate che in quel momento l’impero di Roma stava vacillando e che il potere sovrano del Cristo crocifisso stava prendendo il suo posto. – Quanti milioni di persone hanno cercato nella Santa Croce il conforto, la pace e la forza di cui avevano bisogno… O Santa Croce! Ci ha sollevato dalle nostre passioni e ci ha liberato dalla nostra schiavitù. San Venceslao, il re santo, in una fredda notte d’inverno camminava a piedi nudi per le strade coperte di neve visitando le chiese. Era accompagnato da un servitore, che si lamentava per il freddo che faceva. « Guarda: cammina sui miei passi e vedrai che non hai freddo », disse Venceslao. Il servo lo fece e da quel momento non ebbe più freddo. – « Figlio, figlia – dice anche a te il nostro Re crocifisso – sei triste? Ti lamenti che il cammino della tua vita è terribilmente difficile? Guarda: segui i miei passi, aggrappati alla mia croce e non cadrai mai ». Prima di tutto, dobbiamo innalzare la croce nella nostra anima!

2° – In secondo luogo, quindi, sollevarla in famiglia! Molte famiglie si vergognano della croce; idolatrano il denaro, l’orgoglio, la vanità, la vita comoda, i piaceri… insomma, i sette peccati capitali…; è logico che poi sorgano gravi litigi e si creino molti problemi. C’è stato un tempo in cui la croce era l’ornamento di ogni casa cristiana; davanti agli occhi del Crocifisso cresceva il bambino; dal crocifisso traeva forza il marito stremato dal lavoro; serviva da incoraggiamento alla madre oberata dalle faccende di casa. Ma oggi la croce non presiede più le nostre case, perché? Perché la croce può rimanere solo dove vive lo spirito del Crocifisso. Ma questo spirito è uno spirito di amore e di sacrificio, mentre in molte famiglie regnano solo il disamore e l’egoismo. Cosa ci dice il crocifisso? « Prima gli altri, poi io! » E cosa ci dice invece l’egoismo? « Prima io, poi… io, e solo dopo gli altri! » Possiamo conciliare questi due spiriti? La famiglia cristiana è molto diversa da quella pagana. La famiglia cristiana si basa sullo spirito di sacrificio. Cosa significa essere un padre cristiano? Lavorare dalla mattina alla sera per la famiglia! Cosa significa essere una madre cristiana? Lavorare dall’alba al tramonto per la famiglia! Cosa significa essere un figlio cristiano? Obbedire ai miei genitori con rispetto e amore, prima ai miei genitori e solo dopo a me. Ma com’è la famiglia dove regna l’egoismo. Non c’è nessun crocifisso sulle pareti, perché? Perché tutta l’atmosfera è tale che il crocifisso, araldo di una vita di sacrifici, non ci starebbe bene. Sacrifici? « Bah! Dobbiamo divertirci il più possibile e sacrificarci il meno possibile ». Questo è il motto. Per questo i genitori evitano di avere figli; per questo non educano i figli ad essere esigenti e ad avere spirito di sacrificio….  Dobbiamo prendere la croce in famiglia!

E anche nella scuola! La maggior parte delle scuole e delle università europee sono state fondate dalla Chiesa. Ma l’educatore principale dei bambini e dei giovani è la famiglia, quindi, a chi spetta la responsabilità dell’educazione spirituale dei bambini e dei giovani? Al padre, alla madre e al Sacerdote: dove troviamo la forza di educare all’amore per il lavoro, alla purezza di vita, alla coerenza di vita, alla costanza nel fare il bene…? Dall’esempio di Cristo inchiodato alla croce. – Più di 40.000 studenti maomettani studiano all’Università del Cairo. E qual è la materia più importante che viene insegnata? Il Corano. Per loro questo libro è filologia ed etica, storia e diritto, filosofia e archeologia… E quando una volta uno straniero espresse il suo stupore per questo modo di pensare, la guida gli sussurrò all’orecchio: « La chimica è importante, ma Allah è più importante ». In un certo senso aveva ragione: la chimica è importante, importante, anche la tecnologia, la medicina; tutte le scienze sono importanti…, ma Dio è il più importante! Un tempo anche noi la pensavamo così. Nelle città, nei villaggi, l’edificio più visibile di tutti era la Chiesa, e sopra di essa la croce di Cristo sulla sua torre. Oggi non è più così, i grandi edifici sono le banche, le aziende, le fabbriche… Ma questo non sarebbe importante se la conoscenza scientifica non fosse spesso usata e manipolata per combattere la Religione. – Cosa ci succederà se adoriamo la scienza e la tecnologia, se non riconosciamo che ci può essere qualcosa di più prezioso, se non riconosciamo Dio, il Creatore dell’intero universo? Vedremo come l’uomo, che nega Dio, finirà per distruggere se stesso.

Alzare la croce in officina, in fabbrica. – Per le corporazioni del Medioevo la fede religiosa era la cosa più importante, ed è per questo che la croce presiedeva tutti i luoghi in cui si lavorava. L’artigiano doveva solo guardare la croce per trarne forza, incoraggiamento e perseveranza per fare un lavoro ben fatto; e quando la guardava, la persona in autorità imparava da essa ad essere giusta, ad amare i suoi subordinati, a trattarli come meritavano. All’ombra della croce non potevano esserci imbrogli, frodi sul lavoro, odio, lotta di classe, avidità, abbassamento dei salari, trattamenti disumani. – Poi è arrivata la rivoluzione industriale e i padroni assetati di profitto hanno preferito lasciare da parte la Religione, perché serviva solo a frenare la loro avidità. « La Religione non ha nulla a che fare con la finanza e il mondo degli affari… via il crocifisso… » e lo hanno tolt!. Qual è stato il risultato? La lotta di classe, che tante volte ha messo i popoli gli uni contro gli altri e che ha dato origine a tante guerre. Ma la questione sociale non sarà risolta finché non vedremo tutti Cristo inchiodato alla croce come modello da seguire, perché Cristo è il Re del lavoro!

***

Quando lo scrittore svedese Strindberg, dopo aver condotto una vita di totale traviamento e vizio, sentì che la sua fine si avvicinava, chiese che venisse posta una croce sulla sua tomba, con questa iscrizione: Ave Crux spes unica! « Ave, Santa Croce, nostra unica speranza ». Sì, anche oggi la nostra unica speranza è la croce di Cristo Re; è il nostro unico orgoglio, la nostra unica consolazione quando la sofferenza ci attanaglia. « Non mi vanto di conoscere altro… se non Gesù Cristo e lui crocifisso » (I Cor II, 2). Nel crocifisso è contenuta tutta la nostra teologia dogmatica e morale; c’è il nostro Catechismo; da esso scaturisce la nostra forza, la nostra speranza, la nostra felicità. La gentilità moderna ha seppellito la croce di Cristo; le statue pagane del disamore, del dio denaro e dell’immoralità risorgono sulla croce. Siamo Cristiani, ma abbiamo perso la croce.

VIVA CRISTO RE (14)