LA GRAZIA E LA GLORIA (60)

LA GRAZIA E LA GLORIA (60)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO XI

IL CARATTERE SOPRANNATURALE E GRATUITO DEI DONI FATTI DA DIO AI SUOI FIGLI. – UN’ULTIMA PAROLA SULL’ECCELLENZA DELLA GRAZIA E DELLA GLORIA.

CAPITOLO IV

Una parola finale sulla grandezza soprannaturale della Grazia e della Gloria.

1. – Abbiamo detto abbastanza per concepire, almeno imperfettamente, a quali altezze al di sopra della natura, delle sue perfezioni e delle sue legittime pretese, Dio si è compiaciuto di elevarci, quando ci ha adottati come suoi figli, da schiavi che eravamo per la nostra origine e ancor più per il nostro peccato. Un testo di San Paolo ce lo mostrerà forse in modo ancora più eclatante. « È per grazia di Dio – dice questo grande Apostolo – che sono quel che sono: Gratia Dei sum id quod sum » (1 Cor. XV, 10). Studiamo e meditiamo su tutto il significato contenuto in una frase così profonda. « Io sono colui che è – rispose Dio a Mosè che gli chiedeva il suo nome. E questo è ciò che dirai ai figli d’Israele: “Colui che è”, mi ha mandato a voi » (Esodo III, 15). Dio è Colui che è, perché è l’Essere stesso; « perché Egli stesso è per Sé stesso e per tutte le cose, e perché è in un certo modo l’unico Essere, essendo il suo Essere e l’essere di tutti » (San Bernardo de Consid., L. V. c. 6, n. 13: Ipse sibi, ipse omnibus est, ac per hoc quodammodo ipse solus est, qui suum ipsius est et omnium esse »). – Egli è Colui che è; tutti gli altri esseri, le sue creature, rispetto a Lui sono come se non fossero. « Tutta la mia sostanza – grida Davide – è come un nulla davanti a Voi » (Sal. XXXVIII, 6). « Alla Sua presenza – dice Isaia – le nazioni sono come una goccia d’acqua nel fondo di un vaso, come un granello di sabbia in una bilancia e le isole come una polvere leggera. Non basta dire: « Tutti i popoli sono davanti ai suoi occhi come se non lo fossero; sono per Lui come un vuoto nulla » (Is. XL, 17). Chi siete dunque Voi, o mio Signore e mio Dio? L’Essere per eccellenza, l’Essere. E cosa sono se mi misuro con Voi? Un’ombra dell’Essere, un nulla. E ora chiedo al vostro Apostolo: quali sono tutti i beni naturali che posso trovare in me stesso, per quanto grandi e preziosi possano essere per gli uomini ciechi, in confronto alla grazia consumata, anche quella che è ancora allo sbocciare? Un nulla. Perché? Perché questi doni mi costituiscono o mi perfezionano tutt’al più, al massimo nel mio essere umano, mentre la vostra grazia, la più alta ed incomprensibile partecipazione della vostra natura, mi conferisce un essere divino. Dio, dunque, dicendo: Io sono colui che è, ha proclamato l’infinita eccellenza della sua natura; e San Paolo, dicendo con quasi uguale enfasi: È per grazia di Dio che sono ciò che sono, ha dato la vera formula in cui si riassumono gli splendori della vostra grazia e della vostra gloria. – San Paolo era di famiglia onorata; era di condizione libera; era cittadino di Roma; si distingueva per l’eccellenza del suo ingegno. Diciamo di più: San Paolo era potente in opere e taumaturgo; era l’Apostolo delle genti e la loro luce; egli veniva favorito con le più sublimi rivelazioni dal cielo. Tutti questi « Egli ERA », che tuttavia lo innalzano così tanto, rispetto all’essere donatogli dalla grazia santificante e vivificante, non contano: perché è grazie ad essa che egli è e vuole essere ciò che è. – Che cosa sono dunque gli sventurati che non hanno ancora la grazia, o che l’hanno deplorevolmente persa, in confronto ai giusti, arricchiti del tesoro della grazia? Dal modo in cui la Sacra Scrittura ne parla, sembrerebbe che il rapporto tra i due tipi di uomini sia simile a quello delle creature con l’Essere increato. Il Re-profeta, dopo aver glorificato Colui che cammina senza macchia ed opera la giustizia, aggiunge « il malvagio è ridotto a nulla davanti a Lui » (« Ad nihilum deductus est in conspectu ejus malignus », Salmo XIV, 4). Questo è anche il pensiero del Savio: « Quando – egli dice a Dio – un uomo vorrebbe essere una meraviglia tra i figli degli uomini, se la tua sapienza ne è assente, deve essere considerato un nulla » (Sap. IX, 6). In altra parte, i nostri Libri sacri riportano questa ardente invocazione della santa regina Ester al suo Dio: « O Signore, non consegnare il tuo scettro a coloro che non sono », cioè agli empi (Esth. XIV, 11). È ancora Abdia che profetizza delle nazioni, nemiche di Dio, « che saranno come se non fossero » (Abd., 16). Su ciò San Girolamo fa questa osservazione: « Dell’uomo che muore nei confronti di Colui che disse a Mosè: “Colui che è mi ha mandato a voi”, è scritto che egli non è, secondo l’uso della Scrittura ». – Ma perché non dovremmo tornare a San Paolo? Non ha forse scritto di sé questa sentenza per sempre memorabile: « Anche se parlo il linguaggio degli Angeli e degli uomini… anche se penetro tutti i misteri e le scienze, anche se ho una fede che può spostare le montagne, se non ho la carità (in altre parole, se non ho la grazia di Dio grazie alla quale sono ciò che sono), non sono nulla, nihil Sum » (I Cor., XIII, 1, 2). Io ho letto nella Scrittura che gli occhi del Signore si posano con compiacenza sui giusti: e questo perché sono uno spettacolo bello, una cosa grande davanti a Lui, poiché vede in loro l’immagine della sua natura, il santuario della Trinità, altri Se stesso. I peccatori, soprattutto quelli che sono eternamente vuoti di quell’essere che solo la grazia può dare, sono come cancellati dal libro dei pensieri divini. Dio non li conosce più (Mt. XXV, 12), tanto che sono per Lui una cosa senza realtà. – Qual è, dunque, la disgrazia e la follia di coloro che, per amore di miseri beni terreni, per il godimento di un giorno, o forse di un momento, non temono di rinunciare a questa grazia! Dovremmo dire che sono omicidi di se stessi, perché uccidono nelle loro anime il principio della loro vita per eccellenza, la loro vita soprannaturale? La Sacra Scrittura ci autorizza a farlo: « Chi non ama, rimane nella morte », dice l’Apostolo dell’amore (I Joan III, 14). E San Paolo: « La vedova che si abbandona ai piaceri è già morta » (I Tim. V, 6). Questo Vescovo di Sardi, di cui parla l’Apocalisse, « aveva il nome di vivente; ma poiché era infedele, era un uomo morto » (Apoc. III, 1). « Ah – dice San Girolamo – quanti sono oggi coloro che, sotto l’apparenza della vita, portano in sé i loro funerali e, simili a sepolcri imbiancati, sono pieni delle ossa dei morti! » (S. Ierome, ep. 43; Simeone, Jun, Divin amor, c. 31, P. G. t. 120,). – Di certo si può dire che ogni peccatore è l’assassino di se stesso. Lungi dall’essere un’esagerazione, questo è un rimanere al di sotto della verità: perché egli si annienta in un certo senso, quando distrugge il suo essere per eccellenza, l’essere divino. « Questo popolo stolto non mi ha conosciuto; sono figli stupidi e senza cuore, abili nel male e non più capaci di fare il bene. Ed io ho considerato la terra, ed ecco che essa era vuota e come nulla… ho riguardato e non c’erano più uomini » (Geremia, IV, 22, 23, 25). È un’immagine troppo viva di un mondo in cui Dio non regna nei cuori. Contraddire queste affermazioni significherebbe accusare di menzogna i Profeti, gli Apostoli e lo stesso Spirito Santo che le ha dettate nei nostri Libri Santi; e pretendere di vedervi uno di quei giri poetici che la fredda ragione deve riportare nella giusta misura, significherebbe chiaramente solo ingannare se stessi. (San Tommaso, in diversi punti delle sue opere, tratta una questione che tocca da vicino il nostro argomento. Si può odiare se stessi? « No – egli dice – nessuno, propriamente parlando, può odiare se stesso: perché ogni essere desidera così naturalmente il proprio bene, che non può desiderare il male in quanto male. Pertanto, poiché amare è volere il bene, è necessario amare se stessi. Tuttavia, capita per accidente di odiare noi stessi, e questo in due modi. In primo luogo, in relazione al bene che vogliamo per noi stessi: a volte, in effetti, il bene ricercato, essendo un bene relativo, è semplicemente cattivo in sé. Ora, cercare per sé ciò che è assolutamente un male, è un non amarsi, un odiarsi, poiché odiare qualcuno significa volergli del male. – In secondo luogo, in relazione a se stessi, a cui si vuole del bene. Ogni cosa è innanzitutto ciò che vi è di migliore e di più importante in sé. Pertanto, le nazioni dovrebbero fare ciò che il loro re fa in questa qualità, come se il re fosse l’intera nazione. È evidente che l’uomo è principalmente spirito e ragione. Eppure, ci sono uomini che stimano al di sopra di tutto in se stessi ciò che sono per la loro natura corporea e sensibile. Pertanto, amando se stessi in base a ciò che ritengono di essere, odiano ciò che essi sono realmente, quando perseguono ciò che sia contrario alla ragione. Ed è in entrambi i modi che chi ama l’iniquità non solo odia la propria anima, ma odia anche se stesso. » – 1. 2, q. 29, a. 4; col. 2, q. 25, a. 7. Di contro, nessuno ama se stesso come coloro che, nel conflitto dei beni e delle tendenze, preferiscono l’uomo interiore all’uomo esteriore, cosicché non c’è per loro alcuna deviazione nel giudizio che danno del loro essere, né alcuna deviazione nell’amore. Per questo il Salvatore ha detto: « Chi ama la propria vita la perderà, ma chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna » (Giovan. XII, 25). Non ci saranno mai espressioni abbastanza forti per esprimere le eccellenze dello stato di grazia e per farci sentire ciò che perdiamo perdendola. Il peccatore rimane senza dubbio un uomo, poiché conserva la sua natura umana; ma è un “dio decaduto”, poiché non partecipa più alla natura divina. Immaginate un re potente, rispettato, vittorioso, arbitro del mondo. Improvvisamente le avversità si abbattono su di lui: sconfitto, schiacciato da un avversario spietato, viene cacciato dal suo palazzo, espulso dal suo impero, senza corona, senza seguito, senza risorse, ridotto all’estrema angoscia: un nuovo Giobbe su un altro letamaio. Chi dirà che non abbia perso tutto, benché gli resti ancora qualche brandello per nascondere la sua vergogna e coprire la sua miseria? Ma la perdita della grazia è infinitamente più disastrosa, perché la distanza dal possesso dell’Essere divino allo stato di natura decaduta è incomparabilmente più grande che il cadere dallo splendore più regale all’estrema povertà. Questo perché, secondo le forti parole di San Tommaso: « il bene di una singola grazia supera il bene naturale di tutto l’universo » (S. Thom., 1. 2. Q. 113, a. 9, ad 2).

2. – Perciò, di tutte le opere di Dio, la più nobile, la più eccellente, è la produzione della grazia e della gloria. Un bambino che esce giustificato dalle acque del Battesimo è una testimonianza più eclatante della virtù divina di migliaia di mondi prodotti per ordine di Dio. Dal punto di vista del modo di agire, è vero che la creazione prevale sulla giustificazione del peccatore, poiché parte dal puro nulla; ma, se guardiamo alla grandezza del termine, è la giustificazione ad avere una singolare preminenza (S. Thom., 1, 2, q. 113, a.9). – È secondo questa idea che Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni, interpreta le parole del Signore: « In verità vi dico: chi crede in me farà le opere che io faccio; ne farà anche di più grandi ». « Ascoltate dunque e comprendete: chi crede in me farà le opere che Io faccio; Io faccio per primo e lui dopo di me, perché Io lo faccio fare. E di quali opere parla, se non di quelle che trasformano l’empio in giusto? E ne farà di più grandi. E quali, ve ne prego? Fa dunque qualcosa di più grande di tutte le opere di Cristo, colui che opera la salvezza con timore e tremore? È vero, è Cristo che opera in lui, ma non Cristo senza di lui. Sì, dico, c’è un’opera più grande del cielo e della terra, e di tutto ciò che ammiriamo in cielo ed in terra. Il cielo e la terra passeranno, ma la salvezza e la giustificazione dei predestinati rimarranno in eterno. Lì vedo l’opera della mano di Dio; qui contemplo, inoltre, l’immagine di Dio » (S. August., in Joan Tract. 112, n. 3). Se la grazia iniziale, quella che fa in noi « l’inizio della sostanza di Cristo, initium Snbstiantiæ ejus” (Ebr. III, 14); quella che è solo il seme di Dio nelle anime (I Joan., III, 9), e l’alba ancora velata del giorno radioso dell’eternità; se, dico, questa grazia è di tale prezzo e di tale eccellenza, quale sarà allora la grazia consumata nella gloria? Invano cerco di immaginarlo: essendo essenzialmente al di sopra della mia natura, è immensamente al di là di ogni mia concezione. E sento i figli di Dio, che sono venuti alla casa del Padre, gridarmi dai loro troni: Non consumarti in sforzi vani, ma piuttosto: « Vieni e vedi, veni et vide » (Gv. I, 46). « E lo Spirito e la sposa che li hanno generati dicono: “Vieni” » (Ap. XXII, 17). Dovrei esitare a rispondere con San Giovanni: « Sì, io sto per venire”. Amen. Venite, Signore Gesù » (Ibid. 20). – « Grazie a Dio per il suo dono ineffabile. – Gratias Deo super inenarrabili dono ejus »  (II Cor. IX, 15): questo è il canto eterno dei figli adottivi nel loro trionfo. Facciano il cuore ed il sangue di Gesù che siano un giorno il nostro!

F I N E