DOMENICA III DI AVVENTO (2022)

III DOMENICA DI AVVENTO (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pietro

Semid. Dom. privil. di II cl. – Paramenti rosacei o violacei.

Il Signore è già vicino, venite, adoriamolo (Invitatorio). 1° Avvento. È Maria che ci dà Gesù: « Tu sei felice, o Maria, perché tutto quello che è stato detto dal Signore, si compirà in te » (Ant. Magn.). « Da Bethlem verrà il Re dominatore, che porterà la pace a tutte le Nazioni » (2° resp.) « e che libererà il suo popolo dal dominio dei suoi nemici » (4° resp.). Le nostre anime parteciperanno in un modo speciale a questa liberazione nelle feste di Natale, che sono l’anniversario della venuta in questo mondo del vincitore di satana. « Fa’, chiede la Chiesa, che la nascita secondo la carne del tuo unico Figlio ci liberi dall’antica schiavitù che ci tiene sotto il giogo del peccato ». (Messa del giorno, 25 dic.). S. Giovanni Battista prepara i Giudei alla venuta del Messia: egli ci prepara anche all’unione, ogni anno più intima, che Gesù contrae con le nostre anime a Natale. « Appianate la via del Signore » dice il Precursore. Appianiamo dunque le vie del nostro cuore, e Gesù Salvatore vi entrerà per darci le sue grazie liberatrici. – 2° Avvento. S. Gregorio fa allusione alla venuta di Gesù alla fine del mondo allorché, spiegando il Vangelo, dice: «Giovanni, il Precursore del Redentore, precede Gesù nello spirito e nella virtù d’Elia, che sarà il precursore del Giudice » (9a Lezione). Dell’avvento di Gesù come Giudice parlano l’Epistola e l’Introito. Se proviamo gran gioia nell’avvicinarsi alle feste del Natale, che ci ricordano la venuta dell’umile Bambino della mangiatoia, quanto più il pensiero della sua venuta in tutto lo splendore della sua potenza e della sua maestà, non deve empirci di santa esultanza, perché  allora soltanto la nostra redenzione sarà compiuta. S. Paolo scrive ai Cristiani: « Godete, rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto ancora, perché il Signore è vicino ». E come nella Domenica Lætare (Questa pia pratica in uso per la benedizione della rosa a Roma, nella Domenica Lætare, si è estesa a tutti i Sacerdoti che ne hanno desiderio per la celebrazione della Messa ed è passata alla Domenica Gaudete, perché queste due domeniche cantano la nostra liberazione dalla schiavitù del peccato per opera di Cristo), i Sacerdoti che lo desiderano celebrano oggi con paramenti rosa, colore che simboleggia la gioia della Gerusalemme celeste, dove Gesù ci introdurrà alla fine dei tempi. « Gerusalemme, sii piena di gioia, perché il tuo Salvatore sta per venire » (2a Ant. vesp.). Desideriamo dunque questo avvento, che l’Apostolo dice vicino, e, invece di temerlo, auguriamoci con santa impazienza che si realizzi presto. « Muovi, o Signore, la tua potenza, e vieni a soccorrerci » [« Ecco — dice l’Apocalisse — il Signore apparirà e con Lui milioni di Santi e sulla sua veste porterà scritto: Re dei Re e Signore dei Signori » (1° resp.). « Il Signore degli eserciti verrà con grande potenza » (4° resp.). « Il Suo Regno sarà eterno e tutte le Nazioni Lo serviranno » (6° resp.). (All). « Vieni, o Signore, non tardare » (Ant. delle Lodi). « Per adventum tuum libera nos, Domine »].

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Phil IV:4-6
Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum.

[Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni]

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetto, o Signore, la tua terra: hai liberato Giacobbe dalla schiavitù].

Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum.

[Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Aurem tuam, quǽsumus, Dómine, précibus nostris accómmoda: et mentis nostræ ténebras, grátia tuæ visitatiónis illústra:

[O Signore, Te ne preghiamo, porgi benigno ascolto alle nostre preghiere e illumina le tenebre della nostra mente con la grazia della tua venuta.]

Lectio

Lectio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Philipp IV: 4-7
Fratres: Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne et obsecratióne, cum gratiárum actióne, petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. Et pax Dei, quæ exsúperat omnem sensum, custódiat corda vestra et intellegéntias vestras, in Christo Jesu, Dómino nostro.
R. Deo gratias.

[“Rallegratevi sempre nel Signore: da capo ve lo dico, rallegratevi. La vostra benignità sia nota a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi di nulla: ma in ogni cosa le vostre domande siano manifestate a Dio nell’orazione, nella preghiera e nel rendimento di grazie. E la pace di Dio, che supera ogni mente, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Gesù Cristo „ (Ai Pilipp. IV, 4-7]

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Che significa rallegrarsi nel Signore?

Significa ringraziare Dio del benefizio che ci ha dato di una felice eternità, e della continua protezione che ci presta: e rallegrarsi dei mali e delle persecuzioni che si possono avere a sopportare per il Signore, come se ne rallegrarono gli Apostoli, e specialmente s. Paolo. – Docili all’esortazione di s. Paolo, la nostra vita sia esemplare, e mai la nostra sollecitudine per i beni temporali sia eccessiva; confidiamoci nella Provvidenza: gratissimi a Dio per i suoi benefizi esponiamo a Lui le nostre necessità. E può questo Dio di bontà, che ha cura dei più piccoli animali abbandonare i suoi figli, se ricorrono a Lui come al migliore dei padri?

SERVITE DOMINO IN LÆTITIA!

Ecco un testo latino, biblico, molto popolare, forse troppo, nel senso che forse c’è chi, malignamente o ingenuamente (non importa), lo fraintende. Però, a parte gli equivoci e i malintesi, il testo in sé è bello ed è di indubbia marca religiosa, giudeo-cristiana. Un’onda di letizia corre dal Vecchio al Nuovo Testamento, dalla Legge al Vangelo di Gesù Cristo. Nostro Signore non è il maestro arcigno e burbero, non è l’asceta truce o il filosofo altero. No. Di fronte ai discepoli del Battista, che digiunano troppo, i suoi discepoli digiunano meno, poco. Di fronte ai Farisei accigliati per ostentazione di virtù o per piccineria di spirito, il volto del Maestro, Gesù, e dei suoi discepoli è non solo sereno; addirittura ilare. E San Paolo riprende questa tradizione evangelica, come Egli suole, quando grida nell’Epistola che oggi leggiamo, ai Filippesi: allegri, allegri in Dio. « Gaudete, iterum dico gaudete. » Il quale cristiano gaudio non è — sarebbe quasi superfluo il dirlo se io non volessi circoscrivere bene questa gioia cristiana di fronte ad altri stati spirituali affini ma non da confondersi con essa — l’incomposta rumorosa sfrenata ilarità del mondo: una ilarità fatta di incoscienza e di voluttà più o meno accentuata. La gioia cristiana sta molto più in qua, sta molto più in su della follia pagana. Quella è divina, questa è brutale. Quella si esprime nel sorriso, nel riso magari; questa nella sghignazzata. Paolo la descrive benissimo con due tratti contrastanti: la letizia nostra è: divina; in Domino e composta, « modestia vestra nota sit omnibus hominibus. » Ma come la gioia cristiana si oppone alle accigliatezze o tristezze farisaiche e alla gioia pagana, così non va confusa colla serenità pura e semplice, colla imperturbabilità — per usare la frase precisa — del filosofo stoico, greco. Non turbarsi mai. Nell’alto cielo non arrivano i turbamenti atmosferici della terra. Ma questa imperturbabilità oltreché tutta umana, oscilla, nello stoicismo, tra l’egoismo e l’orgoglio; egoista la imperturbabilità se nutrita dal desiderio di non soffrire; orgogliosa se ispirata da desiderio di parere; è qualcosa di negativo, di freddo; anche il marmo non si turba mai, nella sua glaciale, marmorea freddezza e durezza. Il Cristianesimo ha portato al mondo l’attività di fronte alla passività, la possibilità di fronte alla negabilità. Quello che è la carità attiva e calda del Cristianesimo di fronte alla inerte compassione buddistica, questo è la gioia cristiana di fronte alla stoica imperturbabilità. Il Cristianesimo ci vuole, sì, sereni, della serenità di un bel viso terso, ma ci vuole anche lieti, giocondi, allegri, positivamente contenti. Non gli basta che noi non si maledica; vuole che benediciamo, e molto, la vita. Non solo non dobbiamo essere corrucciati coi nostri fratelli, ma dobbiamo verso di loro nutrire la nostra benevolenza. Il nostro non deve essere un viso olimpico, serenamente olimpico per disprezzo di tutti e di tutto, disprezzo altezzoso e quasi corrucciato, o disprezzo umoristico, disprezzo sempre…Noi non dobbiamo disprezzare nulla e nessuno. Dobbiamo amar tutti e tutto, meno il male. – Una luce divina deve nutrire questa nostra gioia: la luce della bontà di Dio. Il mondo, per noi che lo vediamo in quella luce divina del Dio Creatore, Creatore buono, il mondo è bello. – Per noi che vediamo la storia nella luce di Dio, il Dio Redentore, caritatevole, l’avvenire è santo. Non siamo dei fatui che non vedono le ombre nel quadro, nel mondo e nella vita: ma su quella ombra grandeggia la luce di Dio. La luce trionfa. Lietamente noi abbracciamo la vita — non dice l’accettiamo, che è di nuovo una espressione di passività: l’abbracciamo, che vuol dire attività — colle sue lotte e coi suoi sacrifici e dolori. Alla lotta andiamo giocondi, sicuri della vittoria; i sacrifici li accettiamo lieti, sicuri della ricompensa. « Servite Domino in Lætitia: » ripetiamolo pure il vecchio ritornello, con nuova e più lucida coscienza, e, soprattutto, applichiamolo.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps LXXIX: 2; 3; 79:2

Qui sedes, Dómine, super Chérubim, éxcita poténtiam tuam, et veni.

[O Signore, Tu che hai per trono i Cherubini, súscita la tua potenza e vieni.]

Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.

[Ascolta, Tu che reggi Israele: che guidi Giuseppe come un gregge. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,

Excita, Dómine, potentiam tuam, et veni, ut salvos fácias nos. Allelúja.

[Suscita, o Signore, la tua potenza e vieni, affinché ci salvi. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem

Gloria tibi, Domine!

Joann l: XIX-28

“In illo tempore: Misérunt Judæi ab Jerosólymis sacerdótes et levítas ad Joánnem, ut interrogárent eum: Tu quis es? Et conféssus est, et non negávit: et conféssus est: Quia non sum ego Christus. Et interrogavérunt eum: Quid ergo? Elías es tu? Et dixit: Non sum. Prophéta es tu? Et respondit: Non. Dixérunt ergo ei: Quis es, ut respónsum demus his, qui misérunt nos? Quid dicis de te ipso? Ait: Ego vox clamántis in desérto: Dirígite viam Dómini, sicut dixit Isaías Prophéta. Et qui missi fúerant, erant ex pharisæis. Et interrogavérunt eum, et dixérunt ei: Quid ergo baptízas, si tu non es Christus, neque Elías, neque Prophéta? Respóndit eis Joánnes, dicens: Ego baptízo in aqua: médius autem vestrum stetit, quem vos nescítis. Ipse est, qui post me ventúrus est, qui ante me factus est: cujus ego non sum dignus ut solvam ejus corrígiam calceaménti. Hæc in Bethánia facta sunt trans Jordánem, ubi erat Joánnes baptízans.”

“In quel tempo i Giudei mandarono da Gerusalemme a Giovanni i sacerdoti ed i leviti, per domandargli: Chi sei tu? Ed ei confessò, e non negò, e confessò: Non son io il Cristo. Ed essi gli domandarono: E che adunque? Se’ tu Elia. Ed ei rispose: Noi sono. Se’ tu il profeta? Ed ei rispose: No. Gli dissero pertanto: Chi se’ tu, affinché possiamo render risposta a chi ci ha mandato? Che dici di te stesso? Io sono, disse, la voce di colui che grida nel deserto: Raddrizzate la via del Signore, come ha detto il profeta Isaia. E questi messi erano della setta de’ Farisei. E lo interrogarono, dicendogli: Come adunque battezzi tu, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta? Giovanni rispose loro, e disse: Io battezzo nell’acqua; ma v’ha in mezzo a voi uno, che voi non conoscete: questi è quegli che verrà dopo di me, il quale è prima di me; a cui io non son degno di sciogliere i legaccioli delle scarpe. Queste cose successero a Betania di là dal Giordano, dove Giovanni stava battezzando”.

(Jo. I, 19-28).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LO SCONOSCIUTO

Il mondo era stanco d’attendere. Eran secoli e secoli che i Patriarchi e i Profeti l’avevano annunciato, ed ogni giorno il popolo scrutava i confini del deserto per vedere se venisse verso Sion il Dominatore della terra (Is., XVI, 1), ed ogni alba alzava le mani verso l’alto e scongiurava che si squarciasse alfine il cielo e il Salvatore discendesse (Is., LXIV, 1). Ed ecco che fuori dalle lande desolate della Perea esce un uomo; e si ferma sulla riva sinistra del Giordano, presso Betania, a battezzare e a predicare. L’asprezza del suo abito, fatto con peli di cammello e stretto ai fianchi con cinghia di cuoio, l’austerità del suo volto e della sua vita, che sostentava di radiche amare e di miele silvestre, la sua parola minacciosa e sdegnosa fece balenare a molti l’idea ch’egli fosse il Messia atteso. I Giudei di Gerusalemme lo mandarono ad interrogare per bocca di autorevoli rappresentanti: sacerdoti e leviti. « Sei tu il Cristo? ». Ma il Battezzatore protestò e confessò: « No: io, non sono il Cristo ». « Allora sarai Elia? o almeno un profeta? ». « Né Elia io sono, né un Profeta. Sono l’eco della Sua parola che s’alza dal deserto; sono l’ombra della Sua figura che s’avanza; sono indegno di essergli schiavo e di curvarmi a sciogliergli i legacciuoli dei calzari ». Quelli disillusi protestarono: « Allora perché battezzi? ». « In acqua soltanto io battezzo. Ma in mezzo a voi c’è Uno che voi non conoscete ». Medius autem vestrum stetit quem vos nescitis. Ed in mezzo a quella gente, ignoto, c’era il Figliol di Dio, incarnato per la salute del mondo. Portava vesti d’operaio, mangiava carne e beveva vino coi peccatori, lo chiamavano il figlio del fabbro. Sì, figlio del fabbro: ma di quel fabbro che edificò il mondo non col martello, ma con il comando della sua volontà, di quel fabbro che compagnò con ordine gli elementi dell’universo, di quel fabbro che accese il sole e le stelle con fuoco non terreno, di quel fabbro che, all’impeto della sua voce, fece balzare dal nulla ogni cosa. Medius autem vestrum stetit quem vos nescitis Questo rimprovero può essere rivolto anche ad un gran numero di Cristiani, ai nostri tempi. Quel Gesù che era presente e sconosciuto in mezzo ai Giudei ai giorni del Battista, è pure presente e sconosciuto in mezzo a noi. Il piccolo catechismo c’insegna che nell’Eucaristia vi è lo stesso Gesù che nacque dalla Vergine Maria; che vi è vivente e immortale come lo è in Paradiso; che vi è certamente perché ce l’assicurò Egli medesimo quando disse: questo è il mio corpo. Da fanciulli imparammo queste verità, le credemmo, e le crediamo ancora; ma in pratica Gesù Eucaristico è uno sconosciuto tra gli uomini. Perché i Cristiani sentono così poco desiderio della S. Comunione? Perché a stento e non tutti riescono ad ascoltare una Messa alla settimana? Perché le chiese sono sempre silenziose e deserte, mentre tutta la vita ferve nei teatri, nelle osterie, nelle piazze? Perché Gesù Eucaristico è in mezzo a noi come uno sconosciuto: 1 – sconosciuto nella S. Comunione – sconosciuto nella S. Messa – sconosciuto nel S. Tabernacolo. Oggi, davanti a Lui che ci guarda e ci vede fin nel profondo del cuore, esaminiamo in proposito la nostra coscienza. – 1. GESÙ È SCONOSCIUTO NELLA COMUNIONE. Una tempesta improvvisa colse la nave su cui viaggiava Satiro, fratello di S. Ambrogio quando già all’orizzonte s’intravvedeva il profilo scialbo del porto. Il vento gonfiava le onde enormemente e le nubi erano discese in giro alla nave come una coltre grigia densa. Il fragore dell’acque copriva l’ululo delle donne e il pianto dei bambini. Qualche mercante s’era buttato sopra le sue casse, piene di prodotti oltremarini, quasi per strapparle alla furia selvaggia dell’elemento, o per sommergersi con esse in fondo al mare. Satiro, quando vide che la nave, sbattuta contro uno scoglio, faceva acqua da ogni parte e calava a picco, dimenticò la sua roba e i suoi denari, e gridò ad alcuni Cristiani: « Datemi l’Eucaristia ». Quelli portavano seco il Sacramento come permetteva la liturgia del tempo. Ma Satiro non poteva far la Comunione, ché ancora non era battezzato: perciò, posta e sul cuore l’Ostia santa, si gettò in mare. Che cosa può fare un uomo contro l’infinita rabbia del mare? Ma quest’uomo portava Gesù, il dominatore del mare, e toccò la sponda della salvezza.  Ogni giorno quante persone fan naufragio nella vita! Sono giovani travagliati dalla passione impura, che a loro suscita in mente una fosca nuvolaglia di pensieri, che a loro ridesta in cuore rabbiose ondate di desideri, e deboli e stanchi della dura lotta si abbandonano agli istinti cattivi disperatamente. Sono fanciulle che dopo aver cercato di resistere alle frivolezze della moda, dei divertimenti, delle compagnie, sfiduciate si lasciano trascinare dalla corrente vorticosa, del male verso la rovina eterna. Sono uomini che non si sentono capaci di liberarsi dalla bestemmia, dal gioco, dal vino, dal furto, da un affetto proibito e impuro. Sono madri di famiglia che hanno perso la pazienza e la forza di portar la croce: e non sanno più educare i figliuoli, e s’imprecano la morte ogni giorno, e più volte al giorno. »: Povera gente! Avete in mezzo a voi colui che può salvarvi dalla bufera, e voi non lo conoscete, non lo volete conoscere. Perché v’attaccate a mille cose di quaggiù, come quei mercanti che speravano di salvarsi gettandosi sopra le casse delle loro merci? Imitate piuttosto l’esempio di Satiro; gridate anche voi: « Datemi l’Eucaristia ». Con essa nel cuore non temerete né il demonio, né le passioni; con la forza che in voi metterà Gesù Eucaristico trionferete di ogni vizio, porterete ogni croce e la serenità della vita ritornerà ancora sopra il vostro cielo. – Alcuni credono di aver toccato la perfezione se una volta all’anno, a Pasqua, non tralasciano la Comunione. Oh quanto poco conoscono Gesù! Valeva forse la pena, allora, di rimanere tra noi sotto le specie di pane? « Si panis est — dice S. Ambrogio — quomodo illum post annum sumis? ». Se questo pane celeste avesse virtù di prolungare per molti anni la vita terrena, o soltanto di guarire dalle infermità corporali, in folla il popolo si accosterebbe alla sacra mensa. Ma la vita e la salute dell’anima non sono da più di quelle del corpo? Ma Gesù Cristo non è il dono che supera ogni dono? Sì: ma troppi Cristiani ignorano. Medius vestrum stetit quem vos nescitis. – 2. GESÙ SCONOSCIUTO NELLA MESSA. Circa l’ora nona d’un Venerdì, lontano ormai nei secoli, moriva in croce il Salvatore del mondo. Era disceso dal cielo in una notte rigida d’inverno, era cresciuto nel lavoro e nell’umiltà, per tre anni aveva camminato senza requie predicando e facendo miracoli, ed infine perseguitato e calunniato e flagellato moriva come un delinquente, lui il Figlio di Dio, per la salvezza degli uomini. E gli uomini non se ne davano pensiero. – A Roma forse in quell’ora tutto il popolo era assembrato nella cavea del circo, urlando di gioia belluina ad ogni gladiatore che gettasse il rantolo dell’agonia. Ad Atene la gente non pensava che a danzare e a mangiare allegramente. Ad Alessandria, ad Antiochia affluivano i mercanti non desiderosi d’altro che di perle e di profumi orientali. A Gerusalemme stessa la maggior parte della popolazione attendeva alle solite faccende d’ogni giorno. E Gesù, intanto, spasimava e agonizzava per tutti costoro. – Sul Calvario c’erano delle persone. Ma i più erano là indifferenti e curiosi. Stabat populus spectans (Lc., XXIII, 35). E Gesù moriva per loro. I ricchi e i caporioni lo beffavano: « Alios salvos fecit, se salvum faciat ». E Gesù moriva per loro. Anche i soldati lo prendevano in giro, e gli umettavano le labbra riarse con l’aceto: « Si tu es rex, salvum te fac ». E Gesù moriva per loro. Perfino il ladro, a sinistra crocifisso, lo scherniva: « Si tu es Christus, salvum fac temetipsum et nos ». E Gesù moriva per lui. Cristiani, questa tragedia che non ha confronti, nel mondo, si ripete ancora e spesso tra noi. Che cosa è la S. Messa? è il Sacrificio della croce, — risponde il catechismo, — che si rinnova sui nostri altari realmente quantunque senza spargimento di sangue. È ancora Gesù che si sacrifica al suo divin Padre per la salute di noi peccatori. « Prendimi, o Dio — sembra che dica ogni volta che il sacerdote leva l’ostia e il calice in alto — prendimi, salva gli uomini ».— Fra tutte le azioni più sacre e venerande della fede, non ve n’ha alcuna che possa paragonarsi al sacrificio della Messa: questa è il compendio di tutta la nostra santissima Religione. Eppure gli uomini, ancora come in quel venerdì ormai lontano nei secoli, se ne danno così poco pensiero! Come gli antichi Romani, come gli Ateniesi, come i commercianti di Alessandria e d’Antiochia, gli uomini anche oggi hanno tempo per tutto: per i teatri, per i balli, per le chiacchere, per gli affari; ma per la Santa Messa, no. Quanti Cristiani hanno il coraggio di non trovare, nemmeno alla festa, il tempo per ascoltare la S. Messa. I selvaggi, convertiti dai missionari, fanno giornate di cammino, attraverso foreste senza sentieri, per udire una S. Messa; e noi non sappiamo balzare dal letto qualche tempo prima, e noi non abbiamo la forza di fare un piccolo sacrificio per ricevere tanto bene. Medius vestrum stetit quem vos nescitis. Oh se lo si conoscesse Gesù che s’immola ogni giorno sull’altare, sarebbe ben diverso il nostro contegno durante la S. Messa! Molti vi assistono di malavoglia e nei giorni d’estate si ama rimanere fin sul sagrato per divagarsi meglio con la gente che passa. Si mormora del prete che nel celebrare non è frettoloso come si desidera. Si girano gli occhi su tutto e su tutti con un’aria curiosa e maliziosa. Si cerca un amico per scambiare qualche chiacchiera o qualche sorriso. Si viene alla chiesa: a sfoggiare il lusso delle vesti, l’acconciatura del volto e della persona. Così, così han fatto i Giudei sotto la croce. Intanto sull’altare Gesù muore un’altra volta per noi!… S. Giovanni Crisostomo, accortosi un giorno che durante il Santo Sacrificio stavano taluni in piedi e cianciavano, in un impeto di zelo così li apostrofò: « Qui stanno tremanti perfino gli Angeli e voi, in piedi, cianciate? Mi meraviglio come non vi colpisca un fulmine, o sacrileghi. Mentre il sangue dell’Agnello leva al Padre per i Cristiani voci di misericordia, contro voi lancia una voce terribile di vendetta e maledizione ». Non così, o Cristiani, rechiamoci ad ascoltare la S. Messa, ma coi sentimenti di Tommaso apostolo quando disse: « Andiamo anche noi e moriamo con lui! » (Giov., XI, 16). Con Cristo che rimuore sull’altare, moriamo al peccato e al mondo. – 3. GESÙ SCONOSCIUTO NEL TABERNACOLO. Assalonne, privato da Davide suo padre dell’onore di comparire alla sua presenza, non sa trovar pace. Che gli vale essere sfuggito alla morte, se vivo gli è proibito di vedere il volto di suo padre? Che sollievo potevano dargli, in questo stato, le parole degli amici da cui era corteggiato e l’abbondanza dei beni che possedeva? Cupo di giorno, inquieto di notte, s’aggira come un’ombra singhiozzante intorno alla reggia, penetra furtivamente nelle anticamere, e scongiura qualcuno che gli ottenga il sospirato favore. Un giorno, non potendone più, ferma Gioab e gli dice: « Recati innanzi al re mio padre e digli che da due anni languisco. Che non mi neghi più di vedere la sua faccia! E se il mio delitto è tale da non lasciarmi sperar perdono, o Gioab, digli che mi è più dolce morire che vivere senza vederlo ». Obsecro ergo ut videam faciam regis; quod si memor est iniquitatis meæ, interficiat me (II Reg.,XIV, 32).Quale stridente confronto, o Cristiani, tra noi e quel figlio sgraziato! Gesù nel Santo Tabernacolo ove s’è fatto eterno prigioniero d’amore, non ci proibisce d’andare a lui, anzi c’invita: «Voi che faticate, voi che siete angosciati, venite da me che vi ristorerò» (Mt., XI, 28). «O assetati, venite all’acqua! » (Is. LV, 1). Eppure le chiese per tutta la giornata sono sempre silenziose e deserte come una tomba. Quante volte si passa davanti alla chiesa e perché non si entra almeno un minuto a salutare Gesù?— Non si ha tempo — si dice; ma se s’incontra un amico per strada, nonostante tutta la fretta che ci sospinge, ci si indugia per delle mezz’ore. Perché nei lunghi pomeriggi le buone donne di casa non sanno correre da Gesù per una visitina? Perché si va, a poco a poco, dimenticando la bella consuetudine di passare da Gesù, dopo il lavoro della giornata, a prendere la perdonanza? Medius vestrum stetit quem vos nescitis. Quando il rimorso dei peccati vi stringe il cuore, voi cercate il rimedio nelle dissipazioni: e in mezzo a voi c’è Uno che vi può guarire, e non lo conoscete. Quando qualche disgrazia, qualche calunnia, qualche discordia vi strazia l’anima,voi cercate conforto tra gli amici, che non vi sanno comprendere, né vi possono aiutare; e in mezzo a voi c’è Uno che vi può consolare e non lo conoscete. – Nella notte di Natale, S. Gaetano da Thiene vegliava in preghiera ardente davanti al presepio nella basilica di S. Maria Maggiore. Con la sua fede rifaceva la storia di quella notte santa, e gli pareva d’esser lui pure un pastore a cui l’Angelo annunciasse la grande gioia. E gli pareva d’accorrere anche lui giù per le stradette rupestri verso la grotta di Betlemme, ove con un fil di voce gemeva l’Onnipotente nato bambino. Ed ecco, mentre così meditava, gli apparve davvero la Vergine Maria che portava il Bambino. E venne da lui e reclinò sulle sue braccia aperte e tremanti il piccolo Figlio di Dio. E Gaetano lo guardava, e stringeva al suo cuore di povero uomo quel Cuore di Dio, e gustava il paradiso. (Brev. Ambr., 9 Agosto). – Cristiani, in tempo d’Avvento, ravviviamo il nostro amore e la fede verso il santissimo e divinissimo Sacramento: Che Gesù Eucaristico non sia più per noi lo Sconosciuto! Allora nella Comunione di Natale, che tutti vorremmo ricevere, sarà la Madonna che metterà tra le nostre braccia, nel nostro cuore tremante di poveri peccatori il suo piccolo Figlio di Dio. E gusteremo un presagio di paradiso. — PREPARIAMOCI AL S. NATALE CON UMILTÀ. Davanti alla rude umiltà di San Giovanni Battista viene spontanea questa osservazione: Il primo peccato nell’universo fu di superbia. A redimere il mondo rovinato dalla superbia ci volle l’umiltà di Colui che, essendo Dio per natura, s’abbassò fino alla nostra misera condizione di uomini. Volendo poi mandare avanti chi gli preparasse la strada, era conveniente che scegliesse un uomo come Giovanni, che sapeva stare al suo posto. Questi infatti non s’arrogò il posto di Dio: « No, io non sono il Cristo ». Questi infatti non s’arrogò il posto del prossimo: « No, io non sono Elia; no, io non sono il profeta ». Umiltà con Dio, umiltà col prossimo prepareranno nel nostro cuore la strada al Signore che viene nel santo Natale. – 1. UMILTÀ con Dio. Nella Storia Sacra si racconta che a Nabucodonosor venne in mente di farsi una statua d’oro e di innalzarla in mezzo a un vasto piano. Nel giorno dell’inaugurazione fece dare questo bando: « Magistrati e Popolo, siete avvisati: appena udrete la poderosa orchestra suonare con trombe, flauti, arpe, cetre, zampogne, sull’istante vi butterete per terra adorando la statua del Re. Se qualcuno non lo farà, una fornace di fuoco inestinguibile già arde per lui ». Evidentemente una folle superbia spingeva Nabucodonosor a credersi Dio, e a scimmiottare il castigo divino dell’inferno. Non passò molto tempo che la vendetta del Signore lo raggiunse. Fu preso da un male strano e bestiale per cui urlava e morsicava come una belva, mangiava fieno come un bue, e gli crescevano sulle dita le unghie come artigli. Chi volle farsi Dio, si trovava ad essere bestia. (Dan., III, 1-7; IV, 26-30). L’orgoglio è quella profonda depravazione che induce l’uomo a mettersi al posto di Dio. – a) Sono io il Messia! gridano tante anime, non a parole ma con la pratica della vita: ad esempio, con lo spirito d’indipendenza dalle leggi di Dio. Perché il Signore deve proibirmi questo piacere? Che c’entra Lui con l’uso che del matrimonio io credo di fare nel segreto della mia famiglia? Così della propria volontà si fanno una statua d’oro da adorare. b) Sono io il Messia! gridano tante anime con il loro spirito d’egoismo che le inclina ad operare per sé, come se fossero fine a se stesse. Perché devo perdere un guadagno se mi viene da un lavoro di festa? Che mi viene in tasca a frequentare la Chiesa, le prediche? Così, del proprio interesse si fanno una statua d’oro da adorare. – c) Sono io il Messia! gridano tante anime con il loro spirito di vana compiacenza che si diletta nelle proprie qualità come se Dio non ne fosse l’autore; che si vanta per qualche opera buona come se essa non fosse, prima di tutto, principalmente il risultato dell’azione divina in loro. Così della propria stima si fanno una statua d’oro da adorare. – E in conclusione, tante anime, arrogandosi il posto di Dio, misconoscendo la loro realtà di creature che devono ubbidire, servire, adorare il Signore, sono diventate più felici, più elevate? Né più felici, né più elevate. Dio le vede cadute nell’abbiezione di Nabucodonosor. Si sono preclusa la comprensione e la grazia dell’umile nascita di Gesù nella stalla di Betlemme. – 2. UMILTÀ COL PROSSIMO. San Giovanni Battista ricusò di innalzarsi nella stima dei suoi contemporanei, proclamandosi Elia o il Profeta. Quanti invece tenendosi per grandi uomini, disprezzano il prossimo col cuore, con la parola, con gli atti. – a) Col cuore perché hanno invidia dei buoni successi altrui; si rattristano come di un torto fatto a loro; e giungono perfino a desiderarne il male. Essi sono il grande Elia, il Profeta atteso, e guai a chi fa ombra su di loro. – b) Con la parola perché vedendo il prossimo sbagliare, lo diffamano ripetendo a tutti con maligna mormorazione quel che hanno veduto o saputo. E non vedono i loro sbagli e i loro peccati; si credono zelanti come Elia, santi come il Profeta. – c) Con gli atti perché non riconoscono nessuna superiorità più in su della loro, e vogliono a tutti soprastare. Se si ricordassero che coi loro peccati hanno meritato l’inferno, e dovrebbero stare sotto i piedi del demonio, con quanta più delicata carità tratterebbero il prossimo. Ma essi si credono come Elia destinati al Paradiso prima ancora di morire. – Il santo Natale s’avvicina. Moviamo incontro a Gesù Bambino col sentimento della nostra nullità e miseria. Egli è colui che redimendoci dalla maledizione e dalla schiavitù ci ha riaperto le porte del paradiso, di cui avevamo smarrito la chiave. A S. Gerardo Maiella, quand’era fanciullo, capitò un caso tanto bello che quasi non parrebbe vero, ma è degno di fede perché fu esaminato e riconosciuto dalla Chiesa quando si trattò la causa della sua beatificazione. Gerardo faceva da servitorello al Vescovo di Lacedonia. Un giorno fu visto con la faccia pallida e piena di spavento vicino al grande pozzo sulla piazza del mercato. Con negli occhi una muta angoscia guardava in quell’oscura profondità. Neppur lui sapeva dire come fu: ad un certo momento udì un tonfo, ed erano le chiavi di casa sgusciategli dalle dita. E adesso che fare? che cosa gli avrebbe detto il suo padrone, malaticcio e nervoso? Forse l’avrebbe messo alla porta. Dove sarebbe andato, solo, senza lavoro, senza tetto? Di colpo gli balenò un’idea. Attraversa correndo la piazza, entra nella cattedrale, e prende, dalla cuna in cui giaceva, la statuetta del Bambino Gesù. « Bambino Gesù — supplica Gerardo quasi stringesse non una figura di gesso, ma proprio Lui di carne, vivo e respirante. — Tu soltanto puoi aiutarmi. Tu e nessun altro: fammi dunque ripescare la chiave! ». Poi legò il Bambino Gesù alla corda del pozzo e lo fece calare dolcemente. Come lo sentì nell’acqua gli gridò dentro con tutta la forza della sua speranza: « Bambino Gesù! portami su la chiave ». E cominciò a ritirare la corda. – Un grido di gioia: già sull’orlo era apparso il Bambino Gesù e nella manina teneva la chiave. Gerardo la prese da Lui, e poi sospinto come da un vento di allegrezza e di riconoscenza corse a riportarlo nella sua cuna. Cristiani, questo fatto è la conclusione più bella al Vangelo che abbiamo spiegato in questa terza settimana d’Avvento. – Gli uomini per la loro superbia avevano perduto la chiave della loro casa, cioè del Paradiso. Il demonio con l’astuzia e con la menzogna l’aveva fatta sgusciare dalle loro mani, e con riso beffardo l’aveva gettata in un abisso, donde era impossibile riprenderla. – Venne Gesù Bambino, ci ripescò la chiave, e ci riaprì il cielo: non da noi, ma solo da Lui venne la nostra salvezza. Umiliamoci! Il triste tempo della chiave perduta è finito: la chiave del Paradiso c’è per tutti che la vogliono. Rallegriamoci con riconoscenza amorosa! E se qualcuno sentisse di non potersi rallegrare perché nel suo cuore s’è spalancato ancora un pozzo di peccati e la chiave di nuovo gli è caduta dentro, con una umile, sincera confessione faccia calare Gesù Bambino in quel suo pozzo. Riavrà la chiave. — PREPARATE LA STRADA DEL SIGNORE. Anche a noi che ci prepariamo al Santo Natale, S. Giovanni grida: Dirigite viam Domini. Gesù Bambino è per venire e la via per cui verrà è il nostro cuore: bisogna prepararglielo. Per preparare la strada all’ingresso d’un re prima la si eguaglia, poi la si netta da ogni lordura, infine la si adorna. Eguagliar la via del cuore significa, dunque, togliere ogni occasione di caduta in peccato. – Nettare il cuore da ogni lordura significa purificarlo da ogni colpa. Infine adornarlo non è altro che abbellirlo d’opere buone. Queste son le tre cose che verrò spiegando un poco, son le tre cose che dobbiamo fare prima che giunga Natale. – 1. TOGLIERE LE Occasioni. Gerolamo il dalmata, un giorno, sparì dalle liete brigate romane: lo si cercò alle terme, al circo, ai divertimenti; invano. Per lunghi anni non si seppe più nulla di lui, così allegro, così intelligente. Ma una volta Vigilanzio lo scovò in una grotta in Palestina presso Bethlem, sfinito dalla penitenza, colla faccia sulla terra, pregante. Lo chiamò: « Gerolamo! Perché ti sei rintanato come un orso in questa spelonca, di che temi? ». Si rizzò il santo sulle ginocchia e, guardandolo, gli disse: « Vigilanzio; sai di che temo? temo di tanti pericoli tra i quali tu vivi, temo i discorsi oziosi, le liti, l’avarizia sordida, temo gli occhi della donna mondana ». Poi ritornò a poggiare la testa sul suolo di quella grotta dove quattro secoli prima era nato Gesù, il Salvatore. « Questo è un fuggir da vigliacco, — insistè Vigilanzio, — e non un vincere da glorioso. Bello è saper resistere al male pur vivendone in mezzo! ». « Basta, Vigilanzio. Se questa mia è debolezza, confesso d’esser debole. Confiteor imbecillitatem meam. Preferisco fuggire per vincere, che rimanere per perdere ». L’unico modo, dunque, di toglier le occasioni è quello di fuggirle. Se un santo, già disfatto dalle penitenze, assicura di non saper resistere in mezzo alle occasioni, come pretenderemo noi di non vedere senza lasciar quella compagnia, senza abbandonar quel ritrovo, quella relazione, senza bruciar quel libro? S. Bernardo dice che la nostra natura è troppo debole, e perciò è più facile risuscitare un morto che vivere nelle occasioni senza peccare. Via adunque quella lettura, via quella persona, via quel gioco. Il Signore viene, bisogna preparargli la strada. – 2. TOGLIERE IL PECCATO. Era un giorno arioso d’aprile quando Gesù uscito dalla casa di Marta prese la via di Gerusalemme. Il mezzogiorno dorato si stendeva sopra la città affollata d’ogni gente accorsa per la celebrazione della Pasqua vicina. La notizia si diffuse rapidamente e la moltitudine cominciò ad affluire. Irrompeva giù dall’Oliveto incontro al Signore, agitando rami di palma, frasche di mortella, ciocche d’ulivi. Alcuni gettavano sotto al suo passo i propri mantelli. E Gesù avanzava: mite e solenne come un trionfatore, cavalcando un asino non mai aggiogato. Tutti che l’accompagnavano si sentivano esaltare in quell’ora di trionfo luminoso. « Benedetto chi viene in nome di Dio! » gridò qualcuno; tutta la folla rispose con urlo impetuoso: « Osanna, osanna! ». « Benedetto il re d’Israele che viene! » gridarono altri che sopraggiungevano allora e tutti in un rapimento sovrumano risposero: « Osanna, Osanna! ». Non era questo il giorno più bello per Gesù? Eppure, come dall’alto della costa Gesù vide Gerusalemme bianca di marmo e piena di sole, scoppiò in pianto sopra di essa. Videns civitatem, flevit super illam (Lc., XIX, 41). Buon Dio! Ora che la città è tutta in festa dentro le sue mura, ora che tutto il popolo corre ad incontrarlo con fronde e con grida, Gesù piange. Gesù, che non ha pianto quando quelli del suo paese lo buttarono fuori dalla sinagoga; che non ha pianto quando gli gridarono dietro ch’era indemoniato; che non ha pianto quando tolsero su i sassi per lapidarlo, piange ora, nel giorno suo più bello. Videns civitatem flevit super illam. Perché? Egli intravvedeva sotto le fronde di palma e d’ulivo il tradimento: distingueva tra osanna e osanna il terribile crucifige di pochi giorni dopo; e quei mantelli sotto il suo passo gli erano immagine delle sue vesti di cui l’avrebbero tra poco spogliato. Per questo piangeva. Or ecco, Cristiani, che Gesù sta ancora per venire. Nel santo Natale Gesù entra nel mondo, entra nei nostri cuori. Io so che in tutte le famiglie all’avvicinarsi di questa solennità c’è molta preparazione. Le massaie fan rilucere il rame; il capo di famiglia pensa ai vestiti nuovi per i figliuoli; i figliuoli sognano i regali; ogni soglia s’adorna con vischio, con fronde di alloro, con piccoli abeti. Tutto questo va bene: ma forse son come le palme agitate dai Giudei, son come gli osanna d’allora. Tutta esteriorità e sotto c’è il peccato. Gesù Bambino venendo nelle nostre case, nei nostri cuori, Egli che vede fino in fondo alla coscienza, forse scoppierà in pianto. Videns… flevit. Vede che abbiamo dimenticato i nostri doveri di famiglia: che abbiamo trascurato l’educazione dei figli; che li abbiamo considerati come un fastidio da evitare. Vede la nostra passione per il gioco, per il vino; vede quell’amicizia indegna, vede i cattivi desideri, i pensieri. Vede che da mesi e mesi non ci confessiamo mentre sulla coscienza pesano certi peccati, certi sacrilegi, certe confessioni mal fatte. Gesù Bambino vede e piange. Come fa pena un bimbo che piange! quando di notte, svegliandoci, s’ode il suo vagito passare nel tenebroso silenzio, ci si stringe il cuore, non possiamo riprendere sonno e mormoriamo: « Ma perché lo lasciamo piangere?!… ». Allora, perché non ci farà pena il vagito di un Dio Bambino, perché lo lasceremo piangere? – Purifichiamoci con una bella confessione! che non li veda più i nostri peccati! Sorriderà. – 3. ORNIAMO IL CUORE. È commovente leggere nella Storia Sacra con quale desiderio bruciante i patriarchi invocavano la nascita del Messia. Quando qualche disgrazia li opprimeva, dicevano: « Gocciate o cieli, dall’alto; s’aprano le nubi e discenda il Giusto » (Is., XLV, 8). Quando la tirannia di qualche re li angariava, sognavano il soavissimo regno di Cristo: « Signore, dicevano, manda il tuo Agnello a regnare su Gerusalemme » (Is., XVI, 1). E quando Mosè ebbe l’incarico di liberare il popolo dalla schiavitù, e tremava di spavento, gli sgorgò l’invocazione sublime: « Signore, manda colui che devi mandare, che m’aiuti » (Esodo, IV, 13). – In questi giorni che precedono il Santo Natale facciamo nostre queste aspirazioni; ripetiamole mattino e sera, ma soprattutto nei momenti della tentazione. Ripetiamole quando l’adempimento del nostro dovere ci pesa: quando l’osservanza della legge del Signore ci sembra dura e difficile. Solo così, con la preghiera e con le opere buone, si può adornare il nostro cuore. Gesù venendo non troverà in noi lo squallore della stalla di Bethlem, ma un’abitazione calda d’affetto. – L’anima diletta dei Sacri Cantici, nel cuore della notte, udì strepere vicino alla sua porta. Si sveglia e tende l’orecchio. Sentì una voce che la chiamava: « Aprimi, sorella mia, amica, colomba!» Ella, sorpresa così tra la veglia e il sonno, pensava: «Devo proprio vestirmi e scendere ad aprire che fa freddo, che è notte, che ho sonno? » E si voltò dall’altra parte. Ma poiché la voce insisteva a chiamarla, poiché alla sua porta s’insisteva a bussare, dopo un poco decise di scendere ad aprire. Ma quando fu aperta la porta, non trovò più nessuno. S’accorse, disperata, che di là era passato il suo Signore, che aveva bussato proprio alla sua porta, ch’ella, per pigrizia, non gli aveva aperto, ed Egli se n’era andato lontano. Lo chiamò allora, con quanto fiato avesse in gola, perché tornasse; ma la sua voce velata di pianto tremava nella notte senza stelle, e nessuno le rispondeva: vocavi et non respondit mihi. Lo cercò allora, correndo come una pazza in giro per la città, interrogando le sentinelle, ma non lo trovò: quæsivi eum et non inveni (Cant., V, 6). – Il Santo Natale è vicino, e Gesù Cristo già bussa alla porta dell’anima nostra. Ci scuote dal sonno dei peccati e ci dice: « Aprimi! scaccia fuori il demonio e apri al Signore ». Temiamo che se ne vada via per sempre da noi. Forse è l’ultima volta che Gesù ci chiama a convertirci; poi ci abbandonerà in balia delle nostre passioni. Forse è l’ultimo Natale della nostra vita, poi verrà la morte. E nel momento della morte saremo noi che busseremo alla casa di Gesù; ma se adesso non gli apriamo, neppure Egli aprirà a noi, allora.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXXIV:2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob: remisísti iniquitatem plebis tuæ.

[Hai benedetto, o Signore, la tua terra: liberasti Giacobbe dalla schiavitù: perdonasti l’iniquità del tuo popolo.]

Secreta

Devotiónis nostræ tibi, quǽsumus, Dómine, hóstia iúgiter immolétur: quæ et sacri péragat institúta mystérii, et salutáre tuum in nobis mirabíliter operétur.

[Ti sia sempre immolata, o Signore, quest’ostia offerta dalla nostra devozione, e serva sia al compimento del sacro mistero, sia ad operare in noi mirabilmente la tua salvezza.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis


Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Is XXXV: 4.
Dícite: pusillánimes, confortámini et nolíte timére: ecce, Deus noster véniet et salvábit nos.

[Dite: Pusillànimi, confortatevi e non temete: ecco che viene il nostro Dio e ci salverà.]

Postcommunio

Orémus.
Implorámus, Dómine, cleméntiam tuam: ut hæc divína subsídia, a vítiis expiátos, ad festa ventúra nos præparent.

[Imploriamo, o Signore, la tua clemenza, affinché questi divini soccorsi, liberandoci dai nostri vizii, ci preparino alla prossima festa.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

LO SCUDO DELLA FEDE (231)

LO SCUDO DELLA FEDE (231)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (5)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO II

ART. II

L’Altare.

L’Altare fu il primo monumento, che gli uomini proscritti dal paradiso terrestre, ricoverati alla meglio in questa valle di lagrime, s’affrettarono ad innalzare a memoria della perduta grandezza, e per implorare la pietà di Dio (Ben. XIV, ap. Cic. lib. 2, cap. 11, n.1). D’ allora in poi pel mondo universo l’erezione degli altari fu sempre come uno slancio dell’umana natura verso del cielo, dove sente ancora, che debbono essere collocati i suoi destini. L’erezione degli altari adunque dagli uomini fatta è come un’eco alla primitiva rivelazione, di cui si trova una parola, un argomento, un segno in tutte le religioni dell’universo (Cantù, St. Univ. v. Religione. Dei Sacrifizi religiosi del Card. Tadini; Plutarc.). Coll’ erigere in tutti i tempi, in ogni angolo della terra, dov’è un gruppo d’uomini uniti in società, altari in onore di qualunque divinità, gli uomini confessano solennemente di riconoscere il primo e l’universale loro dovere; anzi esprimono il maggiore, il sommo loro bisogno; manifestano il più naturale sentimento, il dovere cioè d’onorare Dio, il bisogno d’una felicità. senza fine, e il sentimento di demeritarla per propria colpa. Queste verità le ha rivelate Dio; e le nazioni infedeli le hanno malamente offuscate e confuse, bruttando la religione primitiva e rivelata di superstizioni miserande, che la sfigurarono. Eppure come, distrutta la civiltà, i popoli barbari rizzano le loro catapecchie sulle rovine delle città devastate, ma non ne distruggono affatto i nobili avanzi, sicché i ruderi di quelle macerie accennano alle antiche glorie, e fanno indovinare la grandezza guastata, così in mezzo alle superstizioni, di che le nazioni guastarono la religione primitiva, restano ancora alcuni avanzi di verità, quasi frantumi di antico edifizio e monumenti della sua grandezza; e le loro favolose leggende sono quasi archivi di antichissime tradizioni. Difatti in tutte le religioni vediamo confessato il dovere e il bisogno che hanno gli uomini di offrir sacrifici al loro Creatore. Ora sull’Altare di Lui, che potevano mai deporre gli uomini, che degno fosse di venire accolto da Dio? Che far potevano, se non presentargli quelle vittime, che per loro si credevano le migliori, e poi distruggerle innanzi a Lui, per protestargli di riconoscere di dovergli il tutto; ma niente potere offrirgli, che si meritasse di stare al suo cospetto? Veramente gli antichi sacrifici, più che offerte erano voti, erano come suppliche: desse agli uomini da offrirgli tale un dono che gli fosse gradito. Dio lo dà a noi questo dono, il più grande della sua misericordia, sul nostro altare. Per noi l’altare è il più bel monumento della bontà del Signore, è il fondamento di tutte le speranze, è il centro della devozione, è il focolare della carità, è il santuario delle nostre consolazioni veramente divine, è la rupe benedetta, da cui zampilla l’acqua saliente a vita eterna: sì, l’altare è come il campo, in cui si dà lo spettacolo di qual misericordia è Dio potente! – Quando gli antichi Patriarchi ricevevano la grazia di un’apparizione celeste, si affrettavano d’innalzare almeno un cumulo di pietre a monumento, che stesse a memoria del favore divino, e confortasse i posteri a sperare tutto da Dio. Ecco ora la Chiesa, che nel mezzo del tempio sotto le cupole, che si slanciano arditamente verso il cielo sublimi come il pensiero della fede che le ha inspirate, sull’eretto altare, pianta il Crocifisso, quasi dicesse: « guardate, o figliuoli, che cosa ha saputo fare Iddio per voi; poi dubitate, se potete della sua bontà!… e mostra attaccata al patibolo l’immagine del Figliuolo di Dio Crocifisso!…. Contempliamola questa adorata immagine.

Il Crocifisso.

Che bella posizione, sclameremo col gran Bossuet, ha fatto pigliare al figliuol di Dio la croce! Eccolo Crocifisso innalzato ira il cielo e la terra, e par che dica: « Figliuoli, al cielo, al cielo…; è là tutto il vostro bene che sospirate. » Il Crocifisso tien le braccia allargate, e vuol dire: « venitemi tutti in braccio; menatemi i figli; cercatemi tutti i peccatori; vi voglio portar tutti in paradiso. » Il crocifisso mostra al cielo le mani piene di sangue, e par che gridi: « Padre! pago io per li peccati di tutti. » Il Crocifisso stende le braccia sopra di noi, e vuol dire: « Padre, li amo come vita mia questi figliuoli del mio sangue: me li piglio sotto di me, come la madre stringe il bimbo al seno che lo alimenta, come la gallina copre coll’ali i suoi pulcini e se li scalda nel proprio petto. » Il Crocifisso lascia cader giù la testa, e con questo dice: « Poverini miei; tribolati, crocifissi in tanti mali con me, guardatemi come sono tutto piagato anche io! ancora un poco, e poi meco a vita eterna… » Il Crocifisso manda il sangue dal cuor squarciato; e vuol farci intendere che sta sempre pronto a pioverci il sangue sull’anima nei Sacramenti, e pigliarci in quel cuore in Comunione, e portarci in paradiso. Sì, contempliamo ancora e poi sempre Gesù benedetto crocifisso! Ve?!… tiene le braccia alzate verso il cielo; ma il peso del corpo lo strascina giù verso la terra: e vuol dire tutta la Religione cattolica. Con quelle braccia al cielo ci dice: « O figliuoli, io son Dio col Padre eternamente beato; ma fattomi Uomo con voi, là pur nel ciclo qualche cosa mi manca! ; » par che dica quasi li per cader sull’altare: « mi mancate voi altri carne della mia carne, sangue del mio sangue; il cuor mio mi tira giù, mi lega a voi in Sacramento, mi sacrifico con voi su questo altare per salvarvi meco. » Oh Crocifisso! Oh monumento della bontà di Dio, fatto nostro in sacrifizio! Oh! quando entriamo nella chiesa, contempliamo quella cara adorata immagine del Crocifisso Gesù, e, mentre quella benedetta figura ci mette sotto gli occhi visibili ed insanguinate le piaghe, che misticamente ma realmente, benché invisibili offre Gesù sull’altare nella santa Messa (C. Bona, Rerum lit. lib. 1, cap. 23, v.$, et Ben. XIV, De sac. Miss.), deh! corriamo coll’anima sotto la croce, pregando che le vive gocce del sangue divino piovano sul nostro cuore, e lo fecondino di santi affetti. Oh! per chi comprende i segreti divini nelle cerimonie della Chiesa, e vede nel Crocifisso l’immagine del Figliuol di Dio morto pei nostri peccati, basterà bene contemplarlo per guarire dalle piaghe, di che hanno i peccati avvelenato il cuore (Ecco un bel fatterello che fa comprendere quanto è caro oggetto al cuor cristiano l’adorabile immagine del Crocifisso. Predicando il Card li Cheverus, accorrevano molti protestanti attirati dall’amabile sua parola, e, vedendolo in tanta bontà, gli fecero sentire come verrebbero ben più volentieri, se non tenesse al fianco quell’idolo, dicevano, del Crocifisso: e si narra, che Cheverus il dì appresso di dal pergamo: Signori, sento che ad alcuni offende la vista il Crocifisso: io vorrei compiacerli, e per ora lo levo; e così dicendo abbassasse la croce, e la mettesse come al coperto…:. poi, rivolto a loro che restavano sorpresi, soggiunse Io ho da raccontarvi il fatto seguente: — Un dì un signore usciva di casa, e sopra via gl’interruppe addosso un assassino, che lo riversa per terra, e con un ginocchio sul petto gli drizza al cuore un pugnale. In quel frangente un buon uomo si getta sopra a difesa dell’assalito, e lo copre colla propria persona: il sicario giù un colpo cuore al buon uomo che cade trafitto sul signore protetto! Un pittore per caso quivi presente, colpito a quello spettacolo, corre a casa e dipinge al vivo, come l’aveva nell’immaginazione, il ritratto del signore caduto e del buon uomo, che morendo, lo salva: e porta il dipinto coperto al signore, dicendo: vi presento un regalo che vi gradirà: e glielo scopre in parte. « Ah! il mio ritratto, esclama, in quell’orribile istante!… » Ma il pittore alza il restante del velo… ed il signore a quel punto balza in piedi, gridando: « Ah! il buon uomo che mi ha salvato! Vi ringrazio, vi ringrazio di avermelo così al vivo dipinto!» E si getta sopra, e lo bacia, e ribacia a calde lagrime, sclamando: « Cara immagine, ti terrò sempre con me! » — Signori, dice Cheverus, alzando allora il Crocifisso: io vi presento un ritratto: guardatelo; vedete di chi è. E scopre il Salvatore, e continua: « Voi andavate tutti perduti; Egli vi coprì colla sua persona, e ricevette questo colpo nel petto!… Lascio la fredda discussione: m’indirizzo al vostro cuore, io vi dirò; Non volete l’immagine del Salvatore?… io me la porto con me …   Allora sì alza un grido da tutti, e Cattolici e protestanti esclamarono a gara: « Vogliamo il Crocifisso: Vogliamo il Crocifisso! » Cheverus l’abbassò dal pulpito, e quelli si strinsero intorno disputandosi di coprirlo di baci e di lacrime.).

I ceri e i gradi dell’altare,

Stanno sui gradi dell’altare i ceri ardenti. I gradini significano i vari gradi di virtù e di santità, per cui le anime staccandosi da questa povera terra s’innalzano a Dio per l’amor del Crocifisso. I candelieri ardenti ed il Crocifisso in mezzo mostrano i popoli credenti uniti dalle due parti opposte, giudaica e gentile a Colui, che, elevato in alto trae ogni cosa (Innoc. III, Rosm. Dell’educ. Crist.): e i ceri significano le anime che s’incamminano su per quei gradi. Ecco la nostra destinazione. Su via, colla mente illuminata dai raggi della santa fede, coi cuori ardenti di carità, giubilanti per le più care speranze, palpitando di tenerezza intorno all’altare, nel vedervi Gesù sacrificare se stesso per nostra salute, corriamogli in seno. – I ceri adunque, che spandono nelle sacre ombre del santuario, come le stelle nel firmamento, una mite luce d’intorno, e col tremolio delle loro fiammelle danno movimento, pare che spirino fra la quiete maestà dei sacri riti quasi un’anima misteriosa, e sembrano qualche cosa di più che un semplice simbolo privo di vita; i ceri, io dico, vivi e scintillanti popolano, se così lice esprimerci, di tanti esseri vivificati il santo altare. Mentre andranno a posarsi fra loro quegli angelici spiriti, che, adorando continuamente Gesù, vivono della vita della sua Divinità, anche noi mandiamo a frammischiarsi con essi, e palpitare d’amore in mezzo al tremolio dei lumi, i nostri cuori ardenti di divozione. Sembra a noi poi, che le candele intorno al Crocifisso rendendo la più bella immagine della vita cristiana, suggeriscano queste tre osservazioni: I. Le candele stanno diritte al cielo rivolte; II. Sono candidissime; III. Si consumano spandendo luce nel Santuario in mezzo al popolo. Ora, come la candela è ritta, così la vita nostra deve essere al cielo indirizzata, e noi, camminando innanzi a Dio, dobbiamo tendere alla patria nostra tenendo al Paradiso rivolto i pensieri, mentre siamo pellegrini in terra. La candela è bianca, e significa che la religione è pura, ci conserva mondi dalle brutture di questo povero secolo: perché l’oblazione di un’anima pura, quasi vittima immolata sull’altare del Dio vivente, insieme con Gesù è il culto accettevole che Dio dimanda, e rende onore alla divina Maestà, dinanzi a cui viviamo. – La bianca candela poi si consuma a gloria di Dio spargendo luce; e ci insegna che dobbiamo, come olocausto tutto a Dio devoto, consumarci in opere di carità, spargendo intanto luce di buon esempio, sicché veda il popolo le opere nostre, e renda gloria al Padre nostro, che è nel cielo. Questi ceri che ardono in pieno giorno fra le ombre del Santuario, ricordano ancora quei tempi di fervore, e di persecuzione, in cui i santi nostri misteri venivano celebrati di notte nelle oscure viscere della terra, cioè nelle (Ben. XIV, lec. cit.):

Catacombe

Eisistono ancora, in Roma specialmente, in Napoli, e altrove le catacombe; e sono escavazioni sotterraner, spesso a due o più piani, con corridoi tortuosi, che girano, e s’attraversano in ogni senso, e formano sotto la terra il più intricato labirinto di tetri viottoli, molti dei quali mettono, e s’incontrano in una camera o grotta quasi ad un centro, in cui trovi avanzi di altari o mense, con altri argomenti, che indicano aver servito alla celebrazione dei santi riti cristiani. In alcuni s’addita il luogo, ove si riponevano le lampade; anche qualche traccia di pulpito, da cui il Vescovo parlava a’ suoi fedeli raccolti; anche sedili, in cui pare si ascoltassero le confessioni. Tutto è scavato nel tufo; e sono estesi così quei sotterranei, che le catacombe sole, dette di S. Sebastiano in Roma, si credono tenere ben dodici miglia, e più di duecento miglia tutte le altre catacombe insieme. – Non si può esprimere a parole ciò che si sente in cuore nel visitarle! Immaginatevi per una scaletta, o per ripida scesa, di scendere giù nelle viscere della terra, e di trovarvi in mezzo a centomila sepolcri scavati nel tufo, a tre piani orizzontali, nei due fianchi di quegli anditi. In quel tenebrore, in mezzo a quei morti di benedetta memoria, a cui dà vita la fede nostra, che è la medesima di quei prodi, che la difesero col sangue, voi colla vostra fiaccola in mano cercate ansiosi di visitarli. Ben vi pare di parlare con ciascun di loro, d’interrogarli dei patimenti e dei tempi loro, ed in quelle lapidi leggere la risposta; e quasi vi compiacete di stender loro la vostra mano, di baciare quei cari fratelli di eterna speranza. Mettete la candeletta fra le fessure dei lastroni scassinati di tufo o di terra cotta, e vedete dentro le ossa dei martiri con al fianco l’ampolletta del sangue raccolto, e talvolta lo strumento del martirio. Qui un pontefice, poi un vergine illustre, od un soldato; colà un fanciullo, poi una matrona romana; poi un padre, una madre, e intorno tutti i figli sepolti l’un all’altro vicini, e tutti martiri: e sopra il tufo rozzamente graffiato con un saluto il nome del martire, e un simbolo della vittoria e della vita eterna, e più sovente la semplice scritta: è morto per Cristo: il che significa l’anagramma figurato in questo modo XP. –  Convien pur dire che quei nascondigli fossero cari alla pietà dei fedeli, che, adornandoli di pitture, mosaici, e talvolta anche di graziose sculture per esprimere con divozione i santi misteri, ne fecero la culla dell’arte cristiana. Là nelle viscere della terra, in quelle figure del Redentore, di Maria e dei Santi, rozze, se vuoi, e di duro contorno, ma altrettanto devote e care, tu scorgi l’arte cristiana ancora bambina; ma traspira dentro un casto sorriso di bellezza più pura della terrena, che accenna già allo splendore della celeste bellezza che si sarebbe rivelata pei sommi Raffaello o Michelangelo e nel grazioso e melanconico Gaudenzio Ferrari e nell’Angelico pittore Beato! che rapito in estasi coglieva in cielo quei tipi di bellezze di paradiso, e le traduceva in quelle sante amabilissime sue Madonnine, in quelli angioletti vestiti di corpicciuoli, diresti spiritualizzati, che ti rubano il cuore ad amore divino. Così le arti sorelle, appena comparve la religione cattolica, si affrettarono ad offrirle l’umile tributo di loro servitù; ed essa in contraccambio spirò in quelle la propria divinità. Le ha ben ricompensate! Fino dalle prime persecuzioni ordinò la Chiesa con sapiente disposizione. Notai, che tenessero registro degli atti dei martiri, del dì del martirio, e del luogo di loro sepoltura. Meritano pure di essere ricordati quei generosi, a cui era affidata la cura delle preziose reliquie dei Santi scannati. Essi si chiamavano Fossori o Fossari; e trovasi talvolta nelle catacombe dipinto il Fossore in atto di scavare la fossa; mentre un altro gli fa lume colla lucerna. Questi Fossori vanno contati fra i maggiori eroi del Cristianesimo: perché, e si esponevano ai persecutori, affine di raccogliere gli avanzi dei Martiri trucidati, e passavano la vita in quei tetri sotterranei nel preparare depositi ancora in bell’ordine, e talvolta lavorati con amore e buon gusto, ai santi cadaveri dalla persecuzione mandati giù loro in abbondanza (Ognora si vanno trovando sempre nuovi monumenti che provano essere stati  moltissimi i martiri, vedi la Civiltà Cattolica. fasc. del 1 luglio 1854. Fra tanti monumenti che provano il numero dei martiri, piace qui presentar due sole iscrizioni fra le moltissime raccolte dai Visconti. (Memorie Romane d’ntichità, Roma 1825).

I

MARCELLA ET CHRISTI MARTIRES CCCCC L.

II

HIC REQUIESCIT MEDICUS CUM PLURIBUS

CL MARTIRES CHRISTI

Sovente poi si mettevano solamente numeri, che forse indicavano i martiri colle corone e palme.). Il Sacerdote poi, i discepoli, le anime fervorose, massime le donne dedicate alla pietà, come si facevano un santo impegno di mandare pei diaconi i loro soccorsi di carità nelle prigioni ai confessori; così, quando venivano uccisi, era per loro un dovere di tenera religione raccogliere ì cadaveri, ed anche nasconderli nelle proprie case, e sovente spedire le reliquie alle diverse chiese (Oltre alle catacombe, che sono piene di monumenti, che parlano della devozione, con cui si raccomandavano ai Santi i primi fedeli, non possiamo trattenerci di riportare questi due fatti. Quando si era per tagliare la testa a s. Cipriano, ì fedeli corsero in quel pericolo a stender d’intorno a lui i pannolini, per raccogliere il sangue prezioso. Poi non si può leggere niente di più tenero e di più devoto di ciò che scrive s. Giovanni Grisostomo della venerazione, con cui furono ricevute le reliquie di s. Ignazio che soffrì il martirio a Roma, 100 anni dopo Cristo. Egli era vescovo d’Antiochia, e vediamo che il suo corpo fu traslocato di città in città alla sue sede, come un tesoro inestimabile. Di questa traslazione ecco come parla eloquentemente S. Giovanni Grisostomo: « Quando egli dunque soggiacque in questa città (di Roma), o piuttosto, quando salì al cielo, rivenne per essere coronato, perché la volontà di Dio volle ch’Ei ritornasse fra noi, e il martire fosse diviso tra le nostre città. – Quella città vide colare il suo sangue, ma voi avete onorato le sue reliquie e vi siete rallegrati del suo vescovato. A Roma si sue reliquie, e vi si vide lottare, vincere e trionfare; voi lo possedete ognora: Dio ve lo tolse per poco tempo, e ve lo rendette con molto più di gloria. E siccome coloro, che prendono a prestito del danaro, danno poi con usura ciò che ricevono, così Dio, avendo preso per un istante questo prezioso tesoro, ed avendolo mostrato a quella città, ve lo ritorna sfolgoreggiante di nuovo splendore. Avete spedito un Vescovo, ed avete ricevuto un Martire; lo avete mandato con preghiere, e lo avete ricevuto con corone, e non solo voi, ma tutte le città, che si sono trovate sul suo passaggio; poiché da quali sentimenti non sono state comprese, quando videro traslocare queste reliquie? Quali frutti d’una santa gioia non hanno esse raccolto? Con quali acclamazioni non hanno salutato il coronato vincitore? In quella guisa che gli spettatori si slanciano nell’arena si impadroniscono del nobile combattente, che, superati i suoi avversari, si avanza nella sua gloria, non permettendogli toccar terra, e portandolo seco in trionfo; nella stessa guisa tutte le città, ricevendo alla loro volta da Roma questo santo uomo, hanno recato ed accompagnato il Martire vincitore fino a quella città, celebrando con inni la sua gloria, e trionfando del demonio, i cui artifizi ricaddero in suo proprio disdoro, e il quale, adoperandosi contro il Martire, non ha adoperato che contra se stesso. » (Hom. in s. Ign. mart.). Impertanto scorgiamo che le reliquie dei Santi sono onorate da coloro che gli hanno rate dai discepoli immediati degli Apostoli, da coloro che li hanno conosciuti, e che dalla venerazione di quelle si cavarono col più gran rispetto sublimi lezioni, tenendole le chiese, che le possedevano, come un pegno per ottenere grazie da Dio per l’intercessione dei Santi.). – Le catacombe, massime in Roma, diramansi intorno, e sotto gli edifizi della città. Alcune eran in principio scavate per estrarre la pozzolana, specie di calcina per fabbricare; le più erano scavate per servire alle sepolture: e quindi guardate come luoghi sacri, in cui era quasi pei pagani una profanazione il penetrarvi. Restavano adunque come un rifugio dove nascondersi i fedeli cerchi a morte. Qualche volta dall’interno delle case si passava in quei sotterranei. Di qui avveniva che le case dei più ragguardevoli fedeli servivano di chiese, cioè luoghi di adunanze o di collette; e i sotterranei di cimiteri. Illustri sono i Cimiteri o Cripte o Catacombe di S. Lucia, Priscilla e Lucina, ecc. Così di quei nascondigli presero pratica i Cristiani perseguitati, e li scelsero per convegno ai vivi, e per sepoltura ai morti. Succedeva adunque un martirio? I coraggiosi fedeli, col pericolo della propria vita, raccoglievano gli estinti, il sangue sparso, i ferri, i sassi, e tutto che fosse del loro sangue prezioso consacrato; componevano quelle membra lacerate nelle nicchie scavate, dove ora le troviamo, Chiamavano poi quei santi asili della morte col soave nome di Cimiteri, cioè dormitori: espressione di una coscienza pura e tranquilla consolantesi nella certezza di svegliarsi all’altra vita, dopo il sonno della beata morte cristiana. – A chi visita Roma con cuore ben disposto alle inspirazioni della fede cristiana, tutto parla di pietà e di fervore, e lo fa vivere e conversare coi Santi in quell’alma città, centro della Religione, e come casa propria della Madre universale della cristiana famiglia, singolar medo di comunione cattolica! Ad ogni passo egli trova una casa, un monumento, una pietra, che lo mette in relazione con un eroe del Cristianesimo. Là può sedersi e meditare sopra a cento e mille tombe che stanno intorno a quella di s. Pietro, monumenti eloquenti della religione Divina da lui predicata. Quando s’entra, per esempio, nella chiesa di S. Prassede, eretta sull’area della casa di questa ricca Verginella, e si vede la statua della vergine in atto di spremere le spugne inzuppate del sangue dei Martiri, per nasconderlo in un pozzo che ancora è là scavato; a quella vista, in quel luogo dinanzi a Dio nel santo ciborio, che nella sua eternità ravvicina tutti i tempi nell’istante presente, pare allora di veder qualche cosa di più di una morta immagine, e sì veramente sì sente, si gode la comunione dei Santi. – Nelle catacombe adunque, che s. Girolamo chiama vere basiliche della morte, si raccoglievano dì e notte i fedeli a celebrare i santi misteri; e mentre Roma incestuosa e micidiale, spalancante le porte al vitupero, era invasa da prostituzioni e da suicidi, ed i Romani erano vili così da adorare sull’altare il delitto, incensando al dio Nerone: anime, che quel mondo era indegno di possedere, nelle viscere della terra si apparecchiavano a fecondar col sangue la rigenerazione dell’umanità, col rinnovare sulle tombe dei sacrificati il sacrificio del Dio-Uomo morto per tutti in croce, pregando per quelli, che lo crocifiggevano. Intorno a quelle tombe si raccoglievano nascostamente sbucati dalle città e dagli ergastoli degli atroci padroni. e venivano a trovarsi liberi e schiavi con Pontefici miracolosamente scampati al martirio e filosofi mutati in apostoli, che in quella dottrina trovavano la soluzione di quelle interminabili questioni (Cantù, Storia universale). Quivi ricevevano col vero il Pane Celeste, giravano il calice del Sangue Divino, e celebravano insieme l’agape, cioè facevano carità mangiando insieme ricchi e poveri i cibi a gloria di Lui, che li dà, e rallegravano la sacra accolta nella fratellanza dell’affetto e nella gioia del perdono per l’amor di Dio, così consolante in pure coscienze. Seduti all’ombra di morte giuravano su quelle tombe la fede, e si confortavano colla Comunione a confermarla in faccia alle genti nelle tremende prove sul patibolo, sopra il fuoco, ed in mezzo alle fiere dell’anfiteatro forse dimani; se pure non venivano là in quegl’istanti scoperti e scannati sull’altare, così mischiando il proprio sangue col Sangue di Gesù Cristo in Sacrificio, come avvenne al Pontefice s. Stefano, trafitto nelle catacombe di S. Sebastiano sull’altare, e dai fedeli quivi sepolto, quale era vestito, insieme colla cattedra su cui fu scannato.

La pietra Sacra.

Data pace alla Chiesa dall’imperator Costantino, fu una santa letizia per tutta la cristianità: allora sbucavano i Sacerdoti dallo squallido silenzio delle catacombe a celebrare i riti della nuova alleanza, e a spiegare al cospetto del mondo lo splendor maestoso del puro culto divino. Allora Pontefici e Vescovi dedicare chiese a pieno sole, specialmente sopra quei sotterranei, e a celebrare la memoria dei Martiri, che là eran sepolti. Quivi tutti i fedeli sicuri, riconoscendosi fra loro, si abbracciavano, e saldavano la fratellanza col Sacrificio della perpetua commemorazione; e cantavano inni a Dio, che aveva sedate le tempeste, sui gloriosi sepolcri, che restavano nell’interno delle chiese sotto le mense, e che, a ricordo del loro coraggio, chiamavano confessioni. E perché sotto ma chiesa sola spesso erano molto tombe di Martiri illustri, che meritavano un particolare monumento, moltiplicossi fino d’allora il numero delle cappelle al modo appunto che si vede nelle chiese moderne, e si mandò poi a raccogliere reliquie di santi Martiri, e se ne deposero frammenti in tutti gli altari; e dei Martiri più chiari per meriti e per singolare gloria di combattimenti, o per opere, o per miracoli, si collocavano i corpi in urne preziose. Di qui l’uso di foggiare a modo di urna sepolcrale il cippo, Su cui posano le mense degli altari anche ai dì nostri. Religiosamente osservando questo costume, scriveva S. Ambrogio a Marcellina sua sorella, che la basilica di Milano egli non voleva consacrare, come si usava in Roma, se non trovasse reliquie di Martiri (Epist. 51 ad Marcellinam sor.), come poi consacrò di fatto, trovati ch’ebbe i corpi de’ ss. Gervasio e Protasio. Quindi poi le pietre consacrate, per servire di mensa per celebrare, hanno tutte nel mezzo un sepolcreto, entro il quale sono sigillate le reliquie dei santi Martiri (Conc. Alric. vulgo dictura cap. 56, Bon 1, Celert. 1, ex Conc. Carth. 7, et Ben XIV loc. cit, S. August. 113 sermo.), ed anche di altri Santi (Maasi, Del vero Focl. Vol. 2, Lib. 5, cap. I). Così sull’altare cattolico a’ piedi del Crocifisso sono deposte le spoglie di quegli eroi, che resero il più grande onore che uomo potesse a Dio, sacrificandogli tutto se stessi. Questi uomini sentivano di non aver la vita per altro che per darla a gloria di Dio; caddero a piè della Croce, e vi lasciarono i loro corpi, trofei della vittoria, che sopra del mondo riporta la croce piantata sulle gloriose spoglie di più milioni di martiri. Questi milioni di Martiri sono il più grande olocausto e il più degno del cielo, che sulla terra potevano offrire gli uomini rigenerati dal sangue di Dio fatto Uomo. Così si può dire veramente che la terra ha dato tal frutto, che il cielo non poteva aspettare migliore; né poteva essere altare più santo delle tombe dei martiri, sopra cui offrire a Dio il gran sacrificio, che i corpi dei suoi fedeli sacrificati. Come nel tempo della persecuzione la santa Messa si celebrava sulle tombe dei Martiri, così anche a’ dì nostri sopra le loro ossa si sacrifica il sacratissimo Corpo di Gesù, che in loro trasfuse tanto eroismo di virtù, che seppero morire per Dio, e che fu per loro, ed è per noi, arra e pegno di risurrezione alla vita dell’immortalità. Qui intanto accompagnano dall’altare il gran sacrifizio coi profumi dei loro sacrifici particolari (S. Paulin. Ep. Nol. in 6 feb. nar. 9 post medium in epist. Ad Severum.).

Il Pallio, e il vario colore dei drappi sacri.

L’altare si para a festa, e si addobba del ricco Pallio, che è un drappo, che lo fregia con decoro, e pende dinanzi sotto la mensa di color corrispondente a quello delle sante vesti, di che si parano i ministri. Anche nelle famiglie il dì delle gioie più care va distinto di vesti più gaie, come hanno le loro vesti i giorni di corruccio e di duolo. Tutto è armonia nella Chiesa, e col variar dei colori mostra la varietà delle celesti attrattive (Ps. XLIV), che rende questa sposa terrestre si bella agli occhi dello Sposo divino. Co’ diversi colori, giusta la diversità dei tempi e delle feste, si esprimono i diversi affetti dei fedeli, or di letizia per la gloria di Dio, ora di gratitudine pei suoi benefizi, or di fortezza nelle avversità, ora di afflizione per i propri o gli altrui peccati (Bona. Trac. ant. Loc. cit.). Nel bianco colore risplendente d’oro, ora tu intendi i gigli di purità, che adornano le vergini sposate a Dio eternamente in Paradiso; ora l’illibato costume di quegli austeri penitenti, la cui vita è così caro spettacolo agli uomini ed agli Angioli: ora la carità di quei Pontefici, e Sacerdoti, che, consumandosi nei travagli del loro ministero, generarono tanti figli pel paradiso. Nel color rosso contempli il sangue sparso , e le rose eterne, di che risplendono i Martiri in gloria. Poi nel color della melanconica viola intendi il gemito della Chiesa, che in mesto ammanto si presenta al grande Sposo signore dei cuori, e lo prega, che converta i figli suoi peccatori: ora invita noi, vestiti a lutto, ad accompagnare colla nostra preghiera il gran sacrificio, per espiare le colpe dei confratelli che gemono nel purgatorio: mentre appiè delle tombe rallegra l’orror della morte colla speranza del paradiso (Ben. XIV, lib. I, cap. 8, n. 16 et Ugo Op. cit.). Finalmente nel color verde usato in tutte le feste dell’anno, in cui non si faccia festa particolare, e non sia tempo di duolo e penitenza, la Chiesa fa intendere, che questo è il tempo di seminare in opere buone, affine di raccogliere in vita eterna, essendo questo non il tempo di godere, ma di sperare e di preparar l’eternità. Il bianco pannolino che si stende purissimo sopra la sacra mensa, ricorda il lenzuolo in cui fu involto dopo morte la santissima salma del Redentore, e la purezza, che deve aver l’anima e il cuore, in cui ha da discendere Gesù Cristo (Isidorus Pelusiota lib, I, ep. 123. Beda Hom. Rabanus lib. L de rit. Cler.).