LA GRAZIA E LA GLORIA (54)

LA GRAZIA E LA GLORIA (54)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO X

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO

CAPITOLO IV

Sulla condizione dei risorti dal punto di vista dell’attività vitale.

1. – Non abbiamo detto tutto sulla parte che sarà fatta ai corpi dei figli di Dio nella beatitudine eterna. La beatitudine non è tanto nell’essere e nel potere, quanto nell’atto. Glorificato dall’anima, il corpo avrà tutte le operazioni dei sensi che gli sono proprie? La risposta affermativa, per quanto certa, non manca di presentare alcune difficoltà. I nostri teologi, che le hanno riportate solo per risolverle, le riducono a due principali. Si veda, innanzitutto, come si producono le percezioni sensibili, siano esse della vista, dell’udito, del gusto, dell’olfatto o del tatto. Ovunque e sempre, l’organo deve subire l’azione di un agente esterno, cioè deve patire. Da qui l’assioma del principe dei filosofi: “sentire è soffrire: sentire est quoddam pati” (Arist., de Anima, t. II, testo 118). È possibile conciliare questa condizione necessaria con l’impassibilità? – Inoltre, è un fatto di esperienza che se l’intelligenza è fortemente presa da un pensiero, il corpo diventa come insensibile a tutti gli stimoli esterni; non si può vedere o sentire più che se si fosse ciechi o sordi. Mille fatti naturali lo testimoniano, e i fenomeni soprannaturali di estasi e rapimento, raccontati nelle vite dei Santi, non possono lasciare dubbi nella mente dei credenti.  Se l’esercizio delle facoltà sensitive è incompatibile con le alte contemplazioni di questa vita, come potrebbe non esserlo quando Dio si mostra faccia a faccia in tutto lo splendore della sua luce? – Vedremo presto come queste ed altre difficoltà simili possano essere risolte. Ma anche se fossero cento volte più imbarazzanti, il fatto sarebbe innegabile: perché rifiutandolo, dovremmo affermare che la risurrezione di Gesù Cristo non è il modello della nostra, diciamo di più, che non ci sarà alcuna risurrezione per gli eletti di Dio. Infatti, se Gesù Cristo è il modello divino su cui Dio riformerà i loro corpi, è ovvio che essi dovranno godere del perfetto esercizio delle facoltà sensitive: perché Gesù Cristo, risorto dai morti, lo ha dimostrato nella sua Persona, come attestano sia i Vangeli che gli Atti. – Ho aggiunto che sarebbe necessario negare la resurrezione stessa. Perché dovrebbe essere così? Perché le facoltà organiche eternamente inattive e senza atti sarebbero una contraddizione in un corpo posseduto da un’anima glorificata: a cosa servirebbero le potenze, quando le si tolgono le operazioni proprie, cosa che è ragione della loro esistenza: lungi dal partecipare alla beatitudine dell’anima, questa massa insensibile ne sarebbe un ostacolo. Come gli idoli delle nazioni pagani, essa avrebbe occhi per non vedere e orecchie per non sentire; mille volte più imperfetto, nello stato di perfezione finale, di quanto non fosse nello stato di imperfezione originaria. – Monumento eterno di un’opera incompiuta, darebbe inoltre una smentita formale alle promesse del Salvatore: è la vita eterna che Egli ha promesso all’uomo intero, nel suo spirito e nel suo corpo. « I vostri padri – Egli diceva ai Giudei – mangiarono la manna e morirono. Chi mangia questo pane vivrà eternamente » (Gv., VI, 49). È quindi evidente che i nostri sensi avranno la loro attività. E se il cielo si differenzia dalla terra, è perché lì questa attività si dispiegherà in operazioni incomparabilmente più eccellenti di quelle che potrà mai esercitare durante la prova.

2. Inoltre, la Scrittura non si accontenta di affermare in generale queste operazioni della vita sensibile; ci descrive in molti punti le loro diverse manifestazioni. « Io so – dice Giobbe – che il mio Redentore vive… e io stesso lo vedrò, i miei occhi lo vedranno, io stesso e non un altro, e questa speranza riposa nel mio seno » (Giobbe XIX, 27). Sì, i nostri occhi di carne vedranno il Re Gesù, il più bello di tutti i figli degli uomini, e quella grazia incomparabile diffusa sul suo volto; lo vedranno, e nella sua santa umanità, mille volte più trasparente del cristallo, ammireranno il cuore ardente e radioso che ci ha tanto amati: e questa sola vista basterebbe a gettarci nell’estasi eterna. E anche Voi, o Maria, mia Regina e mia Madre, Vi contemplerò sul trono della vostra gloria, la più bella delle creature dopo vostro Figlio, vestita di sole e con il capo coronato di stelle (Apoc. XII, 1); e il vostro sguardo incontrerà il mio sguardo, e sentirò il mio cuore sciogliersi d’amore alla vostra presenza. Tutti questi benedetti abitanti del cielo, figli di Dio, li vedrò nella loro carne e con gli occhi della mia carne, una moltitudine immensa che nessuno potrebbe contare, in piedi davanti al trono, alla presenza dell’Agnello, vestiti di vesti bianche e con le palme nelle mani (Ap. VII, 9). In questa folla di volti amici riconoscerò quelli che ho conosciuto sulla terra, e chi può dire la gioia di questo incontro? Chi può dire la delizia in cui ci getterà la contemplazione di questa nuova terra e dei nuovi cieli, brillanti davanti a noi per magnificenza ed uno splendore rispetto ai quali tutto ciò che il nostro mondo offre di più ricco e bello non è nulla. – Vedremo con gli occhi ed ascolteremo con le orecchie; e cosa ascolteremo? Delle armonie ineffabili: l’inno di quei beati che « gettando le loro corone davanti al trono del Signore, ripetono in coro: Tu sei degno, Signore nostro Dio, di ricevere gloria, onore e potenza » (Apoc. IV, 10, 11); il cantico nuovo che i soli Vergini possono cantare seguendo l’Agnello, lo Sposo sacro delle Vergini (Apoc. XIV, 3, 4); l’Alleluia senza fine che risuonerà in tutte le strade e le piazze della Gerusalemme celeste (Tob. XIII, 22): i canti dei vittoriosi nel giorno del loro trionfo, i canti dei commensali seduti allo stesso inebriante banchetto, canti d’amore che riposa nel godimento dopo lunghi sospiri e amari dolori, canti di lode che non si stancano di benedire ed esaltare Colui la cui gloria e i cui benefici superano ogni concezione. Che dire poi delle parole, così dolci e così affettuose, che gli eletti di Dio si scambieranno tra loro nella misteriosa lingua del paradiso: infatti, molto meglio che nei tempi passati, questo popolo, che avrà un solo cuore ed una sola anima, avrà una sola pronuncia ed una sola lingua (Gen. XI, 1). Inoltre, poiché tutti saranno ascoltati e compresi da tutti, il dono delle lingue cesserà per sempre: « linguæ cessabunt », dice San Paolo (I Cor. XIII, 8). – Ecco un passo originale di Sant’Agostino, che si riferisce al nostro argomento. L’ho tratto da un sermone che tenne al suo popolo ad Ippona sulla risurrezione dei morti. « Che cosa faremo in cielo? Quello che so, fratelli miei, è che lì non dormiremo in un triste ozio, perché il sonno ci è stato dato per riparare le nostre forze, che una costrizione troppo prolungata finirebbe per spezzare. Quindi non c’è sonno. Dove non c’è la morte, non ci deve essere l’immagine della morte. Nessuno, però, deve temere la noia, quando gli si parla di una veglia perpetua in assenza di qualsiasi lavoro. Posso dire che non ci sarà noia; come questo avverrà non posso dirlo, perché non lo vedo ancora. Ma posso dire senza temerarietà, perché lo dico secondo le Scritture, quale sarà la nostra azione. Sarà tutta nell’Amen e nell’Alleluia. Che ne dite, fratelli? Vedo che avete inteso, e questo vi rende felici. Ma non continuate a fare pensieri carnali e a rattristarvi al pensiero che se uno di voi dovesse stare in piedi e ripetere continuamente Amen e Alleluia, si addormenterebbe alle parole e chiederebbe solo di tacere. No, non continuate a disprezzare questa vita in cielo e a dire a voi stessi: Cosa! dire sempre Amen e Alleluia; chi potrà mai stare al passo con questo? – Quindi parlerò, se posso e come posso. Non diremo Amen o Alleluia per mezzo di suoni passeggeri, ma con l’affetto dell’anima. Perché cos’è l’Amen? Che cos’è l’Alleluia? Amen, è vero; Alleluia, lode a Dio. Perché Dio è la verità immutabile, senza difetti, senza progresso, senza diminuzione, senza alcuna mescolanza di falsità; la verità perpetua, stabile e sempre incorruttibile; perché, invece, ciò che facciamo nella creazione visibile, nel corso della nostra vita mortale, non è che una figura delle realtà a venire, e non camminiamo in piena luce, ma nella fede. Quando vedremo faccia a faccia ciò che vediamo in enigma e come in uno specchio, allora con un sentimento molto diverso, ineffabilmente diverso, diremo: è vero; e dire che è vero è dire Amen, ma con insaziabile sazietà. Poiché non ci mancherà nulla, ci sarà sazietà, e poiché ciò che non ci mancherà mai, ci rallegrerà sempre, sarà, se così si può dire, una sazietà insaziabile. Insaziabilmente soddisfatti della verità, ripeterete con non meno insaziabile sazietà: Amen. – « Ma chi potrà leggere ciò che è vero, ciò che l’occhio non ha visto, né l’orecchio ha udito, ciò che non è salito al cuore dell’uomo? Perciò, mentre contempliamo il vero con evidenza e certezza, senza smentite, con una fedeltà sempre nuova, infiammati dall’amore della verità stessa, incollati per così dire alla stessa verità da un abbraccio delizioso, casto e tutto spirituale, con la stessa voce esalteremo il nostro Dio e diremo Alleluja! Animati gli uni gli altri a cantare una lode uguale e comune, uniti nel più ardente amore per Dio e per i fratelli, tutti gli abitanti della città del cielo diranno Alleuja, perché diranno Amen. » – S. Agost., Serm 362, n. 29; col. N. 31.]. – Avendo letto nella storia dei Santi quali deliziosi profumi emanassero talvolta i loro corpi, anche e soprattutto quando la morte aveva fatto il suo lavoro in loro, non posso persuadermi che questi stessi corpi non esaleranno profumi meravigliosamente più dolci, una volta che Dio li avrà glorificati.  Poiché questi odori non erano più della terra e non avevano un equivalente tra le cose conosciute. Se talvolta coloro che li hanno annusati, volendo darne un’idea, ce li rappresentano come una miscela in cui si combinano in modo ineffabile i più squisiti profumi della terra, il più delle volte hanno una sola espressione per caratterizzarli: è un odore celestiale, un odore soprannaturale, un odore di santità, un odore di paradiso (cfr. a questo proposito M. J. Ribet, La mystique divine, t, IT. 2° p., 27). Non è quindi in cielo che dobbiamo vedere una semplice figura in questa apostrofe dello Sposo alla sposa, cioè dire a ogni anima fedele: « O sorella mia, sposa mia, l’odore dei tuoi profumi è al di sopra di tutte le spezie, e l’odore delle tue vesti come l’odore dell’incenso. Ella è il giardino chiuso, mia sorella, mia sposa… Là ci sono cipro col nardo, croco e zafferano, canna e cinnamomo, mirra e aloe con tutti i profumi più preziosi » (Cant. IV, 10-15). Quali saranno dunque le ineffabili fragranze esalate dalla carne del Salvatore, che profumeranno tutto il cielo e porteranno nelle anime quelle che sono le dolcezze celesti? – Dolcemente inebriato di profumi dall’olfatto, l’eletto avrà ancora i piaceri del gusto. Non è forse a questo che potremmo adattare queste parole dell’Apocalisse: « Al vincitore darò una manna nascosta » (Apoc. II, 17). È certo che questa misteriosa soddisfazione del gusto non viene dal mangiare o dal bere, perché un corpo spiritualizzato non usa il cibo. Ma, a parte questa fonte grossolana, Dio saprà trovare altri mezzi per compensare l’organo del gusto per le privazioni imposte dalla penitenza. Si dice che San Felice da Cantalice provasse un incomparabile piacere nel pronunciare il nome di Gesù, come se avesse assaporato il miele più delizioso. “Mel in ore“, dice il devoto San Bernardo, parlando dello stesso Nome. Chi può dubitare che il nome di Maria non provochi un piacere simile a chi lo ripete per benedirlo? Il tatto non sarà meno perfetto, né meno adatto degli altri sensi nel suscitare in noi le impressioni più delicate. Ma allontaniamo da noi tutte le immagini e i pensieri di gioie disordinate e di piaceri grossolani: dove la carità regna sovrana, dove la concupiscenza è spenta, dove la legge delle membra ha lasciato il posto al dominio trionfante dello spirito, tutto è puro e tutto è santo. Puri e santi sono i baci posati sulle sacre piaghe del Salvatore e sulle mani benedette della sua divina Madre; puri e santi sono anche i casti abbracci dati sotto lo sguardo di Dio, e tanto più dolci al cuore perché il primo motivo è l’amore divino. – Questo è ciò che dobbiamo sempre ricordare quando parliamo delle operazioni sensibili dell’età futura e del piacere che le accompagna. Tutti vanno a Dio. Un piacere che non si potrebbe gustare se non per amore, sarebbe un orrore e diventerebbe il più intollerabile dei tormenti. « Il mio cuore ha sussultato di gioia, la mia carne ha trasalito per l’eccitazione – dice il Profeta reale – ma è per il Dio vivente » (Sal. LXXXII, 3). È ispirata dallo stesso sentimento, la moltitudine di cui San Giovanni, l’Apostolo del cielo, ha sentito la grande voce che diceva: « Alleluia, perché il Signore nostro Dio, l’Onnipotente regna. Rallegriamoci, esultiamo e rendiamo gloria a Lui, perché è giunto il tempo delle nozze dell’Agnello » (Ap. XIII, 6-7). Certamente ella accetta la gioia: perché questa gioia è un dono di Dio, in cui ella lo ama. Non solo lo accetta, ma è entusiasta di gioire con tutte le sue forze, perché la gioia degli invitati è la gloria del Re che li ha radunati per il banchetto di nozze eterno dello Sposo, suo Figlio. – Non immaginiamo quindi lo stato del cielo come un’estasi immobile, dove tutte le forze del corpo sono sospese. No, il paradiso sarà per l’uomo esteriore, così come per l’uomo interiore, una vita pura, libera, piena: l’esercizio senza fatica, senza ostacoli, senza affanni, sovranamente perfetto e sovranamente delizioso, delle nostre facoltà spirituali e corporee. Bisogna essere ignoranti delle cose della fede, come lo sono i nostri moderni increduli, per mettere la beatitudine dei Cristiani nel sonno inerte e totale che essi perseguono con le loro beffe.

3. – Potrei passare oltre e dire, come fece una volta la venerabile Giovanna d’Arco ai suoi giudici, “Confido in Dio”. Ma a questa soluzione generale se ne possono aggiungere alcune particolari. Innanzitutto, è un fraintendimento della dottrina aristotelica prendere la sofferenza che essa rivendica nelle percezioni sensibili per la sofferenza esclusa dal dono dell’impassibilità. Non nego che questo doppio patire non sia unito nel nostro attuale stato di imperfezione. Troppo spesso la luce, la cui impressione sull’organo ha determinato la visione, stanca l’occhio e lo danneggia. Quindi, a parità di condizioni, le stesse cose accadono agli altri sensi. È soprattutto l’immaginazione che, applicata troppo fortemente e troppo costantemente agli stessi oggetti, finisce per alterare il suo organo; ed è per questo che il lavoro del pensiero, quando è perseguito senza prudenza, provoca una stanchezza che può portare persino all’esaurimento. – Ma questi due fenomeni, l’impressione che determina la percezione sensibile e l’alterazione più o meno notevole dell’organo che essa provoca, quando è troppo vivace o troppo continua, sono distinti e separabili; altrimenti si dovrebbe dire che nessuna operazione dei sensi si svolge senza fatica e senza lesioni organiche, il che è manifestamente contrario all’esperienza. Non confondiamo quindi la passività delle facoltà organiche con la patibilità e, poiché quest’ultima scompare nella gloria, pretendiamo che la prima scompaia con essa. Ora, se la passività permane, cioè se l’organo animato rimane sensibile alle influenze esterne degli oggetti della conoscenza, la prima difficoltà che ci è stata imposta si dissolve con l’equivoco che le faceva da supporto. – La seconda difficoltà è tutt’altro che facilmente risolvibile. Ciò che lo rende ancora più grande è la sensazione comunemente ricevuta da San Tommaso riguardo al rapimento sperimentato da San Paolo, e raccontato dalla stesso nel capitolo XII della seconda epistola ai Corinzi. L’Angelo della Scuola suppone, al seguito di Sant’Agostino, che San Paolo sia stato allora ammesso alla visione transitoria dell’essenza divina; inoltre suppone e dimostra, in base al testo dell’Apostolo, che questa visione fosse accompagnata da una cessazione della percezione sensibile. È impossibile, infatti, che l’attenzione dell’anima, condizione necessaria per l’intero atto cosciente di conoscere, si frammenti tra oggetti diversi, a meno che non ci sia un legame tra di essi che li riporti all’unità. Ora, non è il caso dell’essenza divina come degli altri oggetti della conoscenza umana, che raggiungiamo per mezzo di rappresentazioni tratte dalla percezione dei sensi; ma nessuna immagine proveniente dai sensi può conoscere la visione di quella. Perciò l’attenzione dell’anima sarà tanto più assolutamente allontanata da ogni oggetto sensibile quanto più la verità suprema, rivelandosi in tutta la sua gloria, assorbirà tutte le forze dell’anima. Questa, in breve, è la dottrina dei maestri: con essa vediamo che il ragionamento conferma l’obiezione tratta dall’esperienza, invece di indebolirla (S. Thom., 2. 2, q. 175, a. 4; de Verit., q. 13, a. 3 e 4). – Tuttavia, la dottrina cattolica ci presenta un fatto innegabile in cui si dimostra che l’intuizione di Dio è alleata, non per un momento fugace, ma per tutta la vita, interamente all’esercizio più perfetto di tutte le facoltà sensitive. È nel Verbo incarnato che questo strano fenomeno ci viene rivelato. Da un lato, è assolutamente certo che Gesù Cristo, nella regione superiore della sua anima, fosse costantemente illuminato dagli splendori della visione divina. Se alcuni teologi, per spiegare i dolori della Passione, hanno ritenuto possibile ammettere un’eclissi momentanea, è sempre prevalso il sentimento contrario. D’altra parte, sarebbe una negazione del Vangelo ed un capovolgimento dell’intera economia della nostra fede negare a Gesù Cristo le funzioni della vita sensibile. Pertanto, l’esperienza garantisce che non c’è alcuna incompatibilità radicale tra il libero uso dei sensi e l’intuizione di Dio. – Ciò che rende illusoria la questione è che non sappiamo distinguere tra due stati così diversi tra loro: lo stato di beatitudine e quello di mortalità attuale. In quest’ultima, l’anima dipende in larga misura dal corpo e dai sensi; nella prima, l’intero impero appartiene all’anima divinizzata dalla luce della gloria. Abbiamo già visto quali conseguenze opposte derivino da questo stato di dolcezza: come, nell’uno, l’infermità del corpo si rifletta, per così dire, sull’Anima e la appesantisca; e come, nell’altro, la glorificazione dell’Anima si traduca in una correlativa perfezione di tutto l’essere organico. È in virtù della stessa legge che, nella condizione attuale della nostra natura, l’anima, per elevarsi alla vita superiore dello spirito, debba astrarsi dalle operazioni inferiori; e che sarà in grado, nella beatitudine, non solo di contemplare Dio senza ostacoli, ma anche di far scendere dall’alto di questa contemplazione un nuovo vigore sulle sue facoltà di sentire (S. Thom., 2. 2, q. 173, a. 4 ad 1.). – Ma allora, si potrebbe dire, perché San Paolo, momentaneamente elevato al cospetto di Dio, perse l’uso delle facoltà sensitive e perché Nostro Signore lo conservò, dal momento che entrambi erano in uno stato di mortalità? È perché, rispondono i nostri Dottori, il principio successivo della visione non era lo stesso nel Maestro e nel discepolo. Gesù Cristo aveva in sé, sotto forma di perfezione permanente, la luce della gloria: tanto da richiedere un intervento della sua potenza divina per salvaguardare nel suo corpo le debolezze della mortalità, rivendicate dal suo ruolo di Redentore. In Paolo, invece, l’atto della visione divina, essendo come un lampo fugace, non procedeva da un principio intimo e stabile nell’anima. L’Apostolo non ha ricevuto la luce della gloria, come la possiedono i Santi in cielo e come l’ha ricevuta Gesù Cristo, conversando con noi. L’illuminazione che gli rivelò, per un istante, le profondità di Dio, era analoga alle grazie passeggere che riceve un peccatore (S. Thom., de Verit., q. 13, a. 3, ad 3; q. 10, a. 11, ad 3; cf. 2-2, q. 175, a. 3, ad 2). E questo è il motivo per cui, riguardo alla visione divina, c’era una differenza tra San Paolo e ogni Beato abitante del cielo che è analoga a quella che si riscontra, riguardo allo stesso atto soprannaturale, tra due Cristiani, l’uno privo della grazia e delle virtù infuse, e l’altro giustificato. Quindi, per concludere, se l’esempio di San Paolo dimostra che la visione immediata di Dio ha come conseguenza in questa vita la cessazione della percezione sensibile, nulla ci obbliga a dare lo stesso giudizio sulla stessa visione, come quella che ammiriamo in Nostro Signore e nelle sue membra glorificate. – Bisogna ammettere che tutte queste spiegazioni, anche se mille volte più luminose e profonde, sono solo concezioni infantili rispetto alle realtà che il Signore ha preparato per coloro che lo amano. E non è l’ultima delle nostre consolazioni, in mezzo all’angoscia in cui ci troviamo, sapere che questa futura beatitudine dei nostri corpi superi in modo eccellente tutte le gioie di questo mondo, essendo essa stessa superata dalla beatitudine sostanziale dell’anima, cioè dalla vista, dall’amore e dal godimento di Dio?

LA GRAZIA E LA GLORIA (55)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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