LA GRAZIA E LA GLORIA (45)

LA GRAZIA E LA GLORIA (45)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO III

La natura della visione beatifica. Il principio: l’essenza divina, la forma intellegibile; la luce della gloria.

1. – È attraverso la considerazione delle cose che rientrano nell’ambito della nostra conoscenza attuale che possiamo arrivare, per analogia, all’intelligenza delle realtà eterne. Perciò, per arrivare ad un’idea meno imperfetta dell’intuizione di Dio, nostra eredità e nostra gloria, diamo un’occhiata alla visione che più di tutte è alla nostra portata, cioè la visione sensibile di cui è capace il nostro occhio, intendo la visione sensibile di cui il nostro occhio è lo strumento. Cosa mi serve per vedere questo o quell’oggetto, ad esempio quest’albero? Due cose sono ugualmente necessarie: un organo vivente e la presenza luminosa dell’oggetto nell’organo. Che l’albero si riproduca attraverso la sua immagine sulla retina e si unisca all’organo; se l’organo stesso non è animato, se la facoltà di vedere si spegnein esso, non c’è visione. Non esiste nemmeno una visione con un organo perfettamente sano, con una facoltà nella pienezza della sua vita, finché l’oggetto rimanga estraneo ad esso. – Ora, ciò che abbiamo visto nella conoscenza sensibile, viene riprodotta per l’intuizione intellettuale. Datemi l’intelligenza più potente e libera nel suo esercizio, e tutto mi sarà oscuro, qualora alcun oggetto non abbia un’esistenza ideale nella mia facoltà di conoscenza. Supponiamo, invece, che un’intelligenza immersa, per così dire, nella luce, qualora manchi di una delle condizioni necessarie per entrare in azione, rimanga impotente a contemplare la verità che la penetra. Diciamo dunque in una parola, che la legge generale della conoscenza, comporta due elementi assolutamente essenziali: primo, una facoltà di conoscenza proporzionale all’oggetto; in secondo luogo, la presenza o l’unione dello stesso oggetto con la potenza che deve rappresentarlo.  Questo è ciò che l’Angelo della Scuola ha espresso molto felicemente quando dice: « Per costituire pienamente in noi il principio di ogni visione, ci deve essere la facoltà di vedere e l’unione dell’oggetto visibile con questa facoltà; infatti non c’è atto di visione senza che la cosa vista sia in qualche modo nel soggetto che la contempli » (S. Thom:; I p. q. 12, a. 2).Notiamo questa espressione generale: “in un certo modo”, quodammodo. Questo perché non tutti gli oggetti della conoscenza sono anche nel soggetto che li conosce. Io sono consapevole dei miei pensieri e dei miei giudizi: essi sono in me da se stessi e nella loro realtà. Io mi rappresento un oggetto distinto da me; che questo oggetto sia spirito o corpo, esso è in me, non con la sua sostanza, ma per l’immagine intellegibile dalla sua sostanza, per l’immagine intelligibile che me ne formo, grazie ai materiali fornitimi dalla conoscenza sensibile. – Non è possibile in questa sede spiegare nel dettaglio il complesso fenomeno della nostra attività intellettuale. Ma ciò che è importante notare è che l’oggetto, sia di per sé che per la sua somiglianza nella potenza del conoscere, svolge il ruolo di forma, in quanto la perfeziona, la completae ne determina l’operazione che deve compiere (« Effectus similatur causæ secundum formam suam. Forma intellectus ext res intellecta. Et ideo verbum quod oritur ab intellectu, est simililudo rei iulellectæ, sive sit idem quod intellectus, sive illud ». S. Thom. de Pot, q. 8, a. 1). Molto prima del Dottore Angelico, Sant’Agostino aveva esposto la stessa dottrina nella sua opera immortale sulla Trinità. « È evidente – egli scriveva – che ogni oggetto della nostra conoscenza cooperi a generare in noi la conoscenza che ne abbiamo: perché ogni conoscenza procede sia dal conoscente che dal conosciuto » (S. August., de Trinit., LIX, c. 46).È a quest’ultimo che appartiene la fecondazione dell’intelligenza, che senza di essa rimarrebbe sterile. È per questo che il grande Dottore, considerando l’intelligenza come quel tesoro di immagini che rappresentano in essa i diversi oggetti della conoscenza una volta acquisiti, la chiama una « memoria feconda »; ed è anche per questo che, parlando delle nostre idee, si usano le parole di parto dello spirito e di frutti dell’intelligenza « partus mentis, proles intelleclus » ricorrono così frequentemente nei suoi scritti. Questo, dunque, deve essere il principio successivo della nostra visione, se siamo chiamati a contemplare Dio faccia a faccia, come Lui contempla se stesso: una potenza vivente che è in grado di fissare il suo sguardo su questo sole risplendente di ogni verità, e Dio presente in questa potenza per fecondarla, attuarla e determinarla a vederlo come è in se stesso. Come avviene questa duplice elevazione dell’intelligenza creata? È questa la questione che cercheremo di risolvere, sostenuta da un lato dai dati della fede e dall’altro dalle conclusioni della sana teologia.

2. Cominciamo dalla presenza intelligibile di Dio nell’anima che deve contemplarlo nella sua gloria. Sappiamo che Dio è presente ad ogni creatura e sappiamo che, oltre a questa presenza comune, è unito in modo incomparabilmente più intimo alle anime che sono sue per la grazia e l’amore. Ma per quanto sia unito a queste creature privilegiate, non lo è in modo tale da rendersi immediatamente intelligibile per loro. Finché esse sono rivestiti della nostra mortalità, lo conoscono, ma attraverso le ombre della fede, nello specchio delle creature. – Come farà a diventare così presente in loro da essere loro intelligibile in se stesso, e perché la sua luce inaccessibile cada come un oggetto immediato davanti ai loro occhi? Basterà che Egli produca nelle profondità della mente un’immagine di se stesso, analoga a quelle che ci danno la conoscenza degli oggetti distinti dai nostri atti e da noi stessi? Questa è stata il sentimento di alcuni dottori; ma tutti i grandi maestri della scienza sacra sono unanimi nel respingere questa ipotesi. San Tommaso d’Aquino riassume in poche righe, nella Summa Theologica, le principali ragioni che lo portano a rifiutare qualsiasi fecondazione per immagine, quando si tratta della visione di Dio (Se un lettore volesse approfondire queste ragioni in tutto il loro sviluppo, potrebbe consultare S. Tommaso, 1 p., q. 12, a. 2; Supplem, q. 92, 9 a. 1; compend. Theol, 1a p. c. 105; 2° p., c. 9; de Verit. 1, ecc.). – Ecco la sostanza. Per quanto riguarda l’unione dell’oggetto con la facoltà che deve raggiungere l’essenza divina, nessuna somiglianza creata, nessuna immagine finita potrebbe bastare. La prima ragione è che nulla può essere conosciuto così com’è in sé da rappresentazioni di ordine inferiore. Così insegna giustamente Dionigi l’Areopagita nel suo trattato sui Nomi divini (Dionys: de divin, Nomin., c. 1, § 1. P. Gr., t, 3. p. 588.). Chi dirà mai che l’immagine di un corpo possa portarci alla piena conoscenza delle cose immateriali, considerate nella loro essenza? Essendo Dio incomparabilmente più elevato per natura di qualsiasi essere creato, di quanto lo sia un puro spirito al di sopra di un essere materiale, ne consegue chiaramente che nessuna similitudine creata sia in grado di rivelarci chiaramente la sua essenza. – Inoltre, questa essenza divina è l’Essere stesso: un privilegio incomunicabile a qualsiasi natura uscita dal nulla, poiché diventando puro essere sarebbe Dio. Ora, come potrebbe ciò che non è l’essere rappresentare l’Essere, non come si mostra imperfettamente a noi nelle fattezze delle creature, ma nella sua stessa sostanza, e tale come è nell’infinita purezza della sua natura? Infine, che cos’è l’Essenza divina, se non l’abisso infinito dell’Essere, un oceano senza sponde e senza fondo, che contiene in modo sovraordinato tutta la bellezza, tutta la perfezione, tutta la realtà possibile? Ora, una forma creata, per quanto perfetta la si possa immaginare, è necessariamente limitata nella sua virtù rappresentativa, poiché è limitata nel suo essere. Avrete, se volete, immagini distinte della giustizia, della sapienza e delle altre perfezioni che scaturiscono da Dio; ma una rappresentazione di questa perfezione sovrana, in cui tutti gli splendori dell’essere si identificano in un’unità molto semplice e indivisibile, nulla di creato potrà mai darla. – Se nessuna immagine può essere la forma intelligibile che rende Dio presente alla mente creata, cosa resta se non che Dio stesso si unisca alle nostre intelligenze, e che sia in esse ciò che è eminentemente per sé il principio fecondo e formale della visione beatifica? E questo è ciò che si degnerà di fare per i suoi eletti. Questa essenza, che è la pienezza della verità, penetrerà, per così dire, fin nelle più intime profondità del nostro intelletto e, attraverso questa meravigliosa unione, realizzerà pienamente la parola del profeta: « in lume tuo videbimus lumen, nella tua luce, o Dio, vedremo la tua luce » (Sal. XXXV, 10). – Allora capiremo anche il testo profondo dell’amato Apostolo: « Saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è in se stesso ». L’intelligenza, per conoscere il suo oggetto, deve assimilarsi ad esso, così che la misura dell’assimilazione sia anche la misura della perfezione della conoscenza. Vedere Dio, quindi, non in quel modo imperfetto che il nostro stato di infanzia può rivendicare, ma con un’intuizione modellata, per così dire, su quella di Dio, il che significa diventare come Lui, poiché Egli deve diventare incomparabilmente più simile, poiché deve essere Lui stesso in noi come la forma vivente ed il complemento luminoso del nostro essere intellettuale. – Non chiedetemi come si possa realizzare questa unione della luce sostanziale con l’intelligenza creata. Ci basta aver dimostrato che sia assolutamente necessario per concepire la visione che ci viene promessa. Inoltre, per quanto misteriosa possa essere in sé, la ragione non ha nulla nei suoi principi che ci obblighi a rifiutarla. Nessun’altra sostanza, è vero, anche se si tratta di uno spirito puro come quello degli Angeli, è in grado di fornire un’immagine di sé. Nessun’altra sostanza, è vero, anche se si tratta di un puro spirito come gli Angeli, può unirsi immediatamente all’intelligenza creata, in modo tale da diventare il principio determinante di una conoscenza di cui essa stessa sarebbe l’oggetto; ma altra è la condizione dell’Essenza divina, altra è la condizione della creatura. Solo quella è puramente luce e puramente verità, tutta la luce e tutta la verità, mentre la creatura partecipa alla luce ma non è Luce, partecipa alla verità ma non è la Verità, così come partecipa all’Essere e non è l’essere per essenza. Anche se, dunque, la sostanza creata è radicalmente impotente a svolgere il ruolo di forma intelligibile in qualsiasi intelligenza che non sia la sua, non ne consegue che abbiamo il diritto di attribuire la stessa impotenza alla sostanza increata: perché ciò che sarebbe un ostacolo per la prima non lo è lo più per la seconda. – Un’analogia proposta dall’Angelo della Scuola ci aiuterà forse a capire questo. Vedete – egli dice – l’anima umana: sebbene abbia una natura propria e sussista da sola, nulla le impedisce di unirsi alla materia per costituire con essa un unico e medesimo essere, un unico e medesimo principio di vita, perché è forma e nient’altro che forma. Ma il composto che risulta dall’unione non può in alcun modo diventare a sua volta l’elemento formale di un altro essere; e la causa di ciò sta nella sua materialità. Così, nell’ordine della conoscenza, può convenire a Dio, la verità pura, essere la forma ideale di uno spirito creato, per quanto questo ruolo sia incompatibile con un’essenza che non è di per sé né la verità né il centro da cui scaturisce ogni luce intellettuale (S. Thom, Gent, L. III, c. 51). – Il lettore mi sarà grato di mettergli ancora una volta davanti agli occhi l’insegnamento di S. Francesco di Sales. « Quando guardiamo una cosa – dice questo grande e santo Dottore – anche se è presente per noi, non è, non si unisce ai nostri occhi, ma invia loro solo una certa rappresentazione o immagine di sé che è chiamata specie sensibile, per mezzo della quale vediamo. E quando contempliamo qualcosa, nemmeno ciò che ascoltiamo si unisce alla nostra comprensione, se non per mezzo di un’altra rappresentazione e immagine molto delicata e spirituale che si chiama specie intelligibile. Noi vediamo e sentiamo così, tutto ciò che vediamo o sentiamo in questa vita mortale, ivi comprese le cose della fede… Ma in cielo, ah! mio Dio, qual favore! La divinità si unirà alla nostra comprensione, senza alcun tipo di intermediario o rappresentazione… O vero Dio! Quanto è dolce per la mente umana essere unita per sempre al suo oggetto sovrano, ricevendo non la sua rappresentazione, ma la sua presenza; non un’immagine o una specie, ma l’Essenza stessa della sua divina verità e maestà… in modo che la sostanza eterna serva da specie, oltre che da oggetto, alla nostra comprensione. – « Felicità infinita, Teotimo; e che non solo ci è stata promessa, ma ne abbiamo una caparra nel sacratissimo Sacramento dell’Eucaristia, il banchetto perpetuo della grazia divina, perché in esso riceviamo il sangue del Salvatore nella sua carne, e il suo sangue; il suo sangue che ci viene applicato con la sua carne, la sua sostanza attraverso la sua sostanza alla nostra bocca corporea, affinché sappiamo che Egli ci applicherà così la sua Essenza divina nel banchetto eterno della gloria. È vero che qui questo favore ci viene realmente fatto, ma sotto la copertura delle specie o apparenze sacramentali, laddove in cielo la divinità si donerà a noi allo scoperto, e noi la vedremo faccia a faccia così com’è » (S. Franç. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. III, c. 11). – E ciò che è ancora più ammirevole è che l’intelligenza, una volta consumato questo matrimonio interamente spirituale con la Luce sostanziale che lo penetra, non ha più bisogno di specie intelligibili ed immagini finite per contemplare il mondo degli esseri creati, oggetto secondario della visione beata. Dio, vedendo se stesso, conosce con lo stesso atto ogni creatura distinta da sé, sia essa esistente o solo possibile. Non è questo il momento di dimostrarlo: ma se c’è un fatto certo è che la conoscenza che l’Intelligenza divina ha degli esseri creati non richiede né presuppone in essa come principio alcuna forma particolare che li rappresenti; la stessa perfetta semplicità dell’Essere divino si oppone, come una barriera insormontabile, a ciò che non sarebbe più una perfezione, ma la degradazione della sua natura (S. Thom. c. Gent., L, I, c. 51-52). – Eppure, la legge di ogni conoscenza richiede che nulla possa essere conosciuto se non è presente, per se stesso o per la sua somiglianza, nella facoltà che deve conoscerlo e concepirlo. – A chi dobbiamo chiedere la spiegazione di questo mistero? All’infinita perfezione dell’Essenza divina. Ogni essere, a parte Dio, è per sua natura un’imitazione più o meno perfetta, un’irradiazione più o meno pura di quella pienezza dell’Essere a cui tutto partecipa, tutto tranne il nulla. Ne consegue che, essendo l’Essenza divina davanti allo sguardo di Dio, non solo come l’abisso senza fondo delle perfezioni increate, ma anche come il prototipo e l’esemplare di tutta la realtà finita, Dio conosce con un solo atto e nell’esemplare tutto ciò che gli assomiglia in diversi gradi. La sua stessa essenza è dunque per Dio la forma intelligibile, infinitamente una, con la quale, contemplando se stesso nella sua gloria, vede con uno sguardo unico e sempre immutabile, e le sue infinite perfezioni, e quell’universalità di esseri che non sono, né possono essere, se non nella misura in cui lo rappresentano per qualche lato. – Queste spiegazioni ci porteranno alla comprensione di una formula che ricorre spesso nei trattati dei nostri teologi scolastici. Dio – essi dicono – vede se stesso in se stesso; quanto agli altri esseri, non li vede in se stessi, ma nella propria essenza. Ciò significa che di essi non conosce che l’essere che essi hanno in Lui? No, senza dubbio: perché Egli vede tutto ciò che sono e tutto ciò che hanno, al di fuori della loro fonte primaria, cioè al di fuori di Dio. Vedere una cosa in sé stessa vuol dire vederla nella sua specie o forma intelligibile; vederla in un’altra è anche conoscerla, ma per la forma o immagine dell’oggetto in cui è vista. Pertanto, poiché l’Essenza divina è per Dio la forma unica, in virtù della quale conosce tutto ciò che cade sotto lo sguardo della sua intelligenza, è vero dire che vede se stesso in se stesso, e che vede il resto in se stesso (S. Thom., c. Gent;: L. 1. C. 53-55: 1 p., q. 14, a. 5 e 6). – Pertanto, anche noi, vedendo Dio, la Verità sovrana, in se stesso, vedremo tutto in Lui. Perché? Perché questa stessa Essenza divina che, non essendo che una e medesima cosa con l’intelligenza di Dio, fa che essa sia l’infinita comprensione di tutta la verità, diventerà per la più ineffabile delle unioni la forma ideale della nostra stessa intelligenza; non una forma ridotta, ma una forma sussistente, archetipo e modello di ogni partecipazione creata dall’Essere infinitamente perfetto. « Così – dice l’Angelo della Scuola – nell’intelligenza creata che vede Dio si realizza la condizione di ogni conoscenza, cioè l’assimilazione del soggetto conoscente all’oggetto conosciuto. Infatti, le somiglianze delle cose preesistono nel loro archetipo, l’Essenza divina, alla quale questa intelligenza è unita. (S. Thom., 1 p., q. 12, a. 9).

3. – Dopo aver studiato come Dio si unisca all’intelligenza della sua creatura per diventare oggetto della contemplazione beatifica, ci resta da considerare questo potere stesso. Le sue forze native sono sufficienti; o se ha bisogno di qualche miglioramento, è sufficiente quello che ha ricevuto dalla fede? No, né la ragione né la fede hanno il potere di elevarci a quella visione sublime in cui Dio sarà in sé e nella sua stessa essenza la meta immediata della nostra intuizione. Ho già mostrato che su questo punto è presente la radicale impotenza della natura (L. II, c. 2.). Ho solo una parola da dire sulla fede: è che, pur aprendo davanti a noi orizzonti nuovi e radiosi, non cambia il nostro modo naturale di pensare e di concepire. Pertanto, laddove le energie naturali dell’uomo sarebbero assolutamente impotenti, l’aiuto che essa ci dà non può supplire all’incapacità della sola ragione. La fede ci fa credere e noi dobbiamo vedere ciò che crediamo. Le Sacre Scritture ci avvertono che la fede non rimane (1 Cor. XIII). Essa è la conoscenza imperfetta della via, non è la luce che ci è riservata per il termine. – Che cosa serve dunque all’intelligenza, se la virtù naturale della ragione, se la chiarezza soprannaturale della fede, non è in grado di portare i nostri occhi a queste misteriose altezze? La teologia risponde: la luce della gloria, cioè una forza intellettuale di ordine superiore, che corrisponde alla forma divina con cui lo spirito dell’uomo deve contemplare il suo Dio (S. Thom., 1 p., q. 12, a.5). Ascoltiamo ancora una volta gli insegnamenti del Maestro. « È impossibile – egli ci dice – che un essere si elevi ad operazioni superiori alle sue, se prima non riceva un supplemento di forza e di virtù. – Questa aggiunta può derivare, è vero, da un semplice aumento di intensità della sua energia primaria. Così il calore, per il fatto stesso di diventare più intenso, produce effetti sempre più violenti. Ma, osserviamo bene, questi effetti, per quanto grandi possano essere, non cambiano di natura e sono sempre dello stesso tipo. Se si vogliono ottenere effetti positivi di ordine incomparabilmente superiore, non è più solo la stessa forza, resa più intensa, che si debba applicare; è una virtù che si deve aggiungere all’energia primitiva. Nessun corpo sarà coronato da un’aureola luminosa se il sole non verrà a inondarlo con i suoi raggi. Ora, la virtù naturale dell’intelligenza è assolutamente impotente a vedere Dio faccia a faccia. Perciò essa ha bisogno di ricevere un complemento di luce intellettuale; e questo complemento deve essere di natura eminentemente superiore, poiché la ragione ultima della sua impotenza risiede nell’essenza stessa della sua virtù nativa » (S. Thom, c. Gent., L. III, c. 53; S. Franc. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. III, c. 14). – Questo indispensabile complemento è ciò che i teologi hanno convenuto di chiamare luce di gloria: luce perché dissipa le nostre tenebre originarie e ci rende visibile Dio; luce di gloria perché vedere Dio è la gloria della creatura prima ancora che di Dio. – Questa prova è perentoria, ma ce ne sono altre che non di meno e certamente portano alla stessa conclusione. Ricordiamo che la visione beatifica presuppone, come elemento necessario, un’unione molto speciale dell’intelligenza con la Luce increata, principio e termine di questa visione. Ora la stessa unione, lungi dal rendere vana la luce della gloria, non può essere spiegata senza di essa. Infatti, due cose che non sono state unite non possono essere intimamente legate l’una all’altra, senza che almeno una di esse subisca un qualche cambiamento. Questo principio è abbastanza chiaro di per sé. Inoltre, l’abbiamo già utilizzato per dimostrare che la dimora dello Spirito Santo nei giusti non va senza una trasformazione soprannaturale delle anime che Egli benedice con la sua presenza. Se, dunque, nessuna intelligenza creata può aspirare alla visione di Dio, senza che l’essenza divina sia in essa come forma infinitamente intelligibile che la avvolge e la penetra, ci deve essere una modificazione da parte della creatura: perché la stabilità immutabile della natura divina si oppone a qualsiasi idea di cambiamento di cui diventerebbe oggetto. Ora, questa trasformazione dell’intelligenza umana, dove la troveremo, se la luce della gloria, invece di essere una realtà, sia solo una parola vana? – Aggiungiamo una terza ed ultima prova. L’Essenza divina è una forma intelligibile che, per sua natura, è così propria dell’intelligenza di Dio da non avere alcuna proporzione con essa: perché in Dio queste tre cose, l’intelligenza che conosce, l’oggetto che è conosciuto ed il principio formale da cui la conoscenza procede, sono una sola e medesima cosa, senza divisione o distinzione. Come potrebbe la stessa forma intelligibile diventare la forma di un’intelligenza creata, se questa intelligenza non ricevesse in sé una partecipazione più profonda e sublime dall’intelligenza a cui questa forma è naturalmente propria? Quindi, ancora una volta, è necessario, per la visione beatifica, che l’intelligenza creata sia resa ad immagine dell’intelligenza increata mediante un’assimilazione che superi in eccellenza ogni altra luce intellettuale, sia che provenga dalla natura, come la ragione, sia che provenga dalla grazia come la fede (S. Thom., Gent., vol. III, c. 53). La luce della gloria ha quindi due funzioni che si completano e si richiamano a vicenda: da un lato, è il legame necessario tra l’anima del veggente e la luce divina che la feconda; dall’altro, è una capacità aggiuntiva che dà l’attitudine necessaria a contemplare l’infinito splendore, presente in ciascuno degli eletti. Confesso che questa dottrina non è di fede in ogni dettaglio. Ciò che ogni Cattolico debba credere, perché la Chiesa, illuminata dalla rivelazione, lo ha solennemente definito, « è che l’anima umana ha bisogno della luce della gloria per elevarsi alla visione di Dio e per goderlo nella beatitudine » (Concil. Viennens. Damnat. error. Beguardorum… prop. 5). Per quanto riguarda la determinazione più esplicita e precisa di questa elevazione soprannaturale, questa è, in misura maggiore o minore, una questione di scienza teologica. Una cosa è certa: le stesse ragioni che provano l’esistenza di virtù infuse, anteriori agli atti meritori, dimostrano la necessità di una simile elevazione per l’intelligenza, ammessa alla contemplazione della bellezza eterna. Né l’analogia tra la natura e la fede, né la perfezione dello stato, richiesta per la beatitudine, ci permettono di immaginare una luce di gloria che non istituisca nell’anima alcun principio reale e permanente dell’operazione divina (S. Thom.; 2. 2., q. 175, a. 3 ad 2; de Verit., q. 20, a. 2; q. 13 ad 2 ecc.). Non credo che ci sia nulla nei Padri che ci obblighi a dubitare di queste verità. È vero che essi non parlano espressamente di questo principio creato che abbiamo chiamato luce della gloria. Questa è l’osservazione di Petau (Petav., de Theolog. dogmat., t. 1, de Deo, L. VII, c. 8, n. 3); ma bisogna riconoscere che tutti richiedono nel beato una virtù superiore alle forze naturali, come questo grande teologo concede e dimostra negli stessi testi. Che poi il nome di luce della gloria si applichi o all’Essenza divina che si unisce all’intelligenza come sua forma ideale, o alla virtù creata che rafforza l’intelligenza stessa, è una mera disputa di parole, purché si sia d’accordo sulla sostanza della dottrina. – Non mi sembra neppure che si possa attaccare la teoria di San Tommaso, di San Francesco di Sales e degli Scolastici in nome dei testi accumulati dal dotto Thomassin (Thomass. De Deo, L. V, c. 16). Secondo lui, la dottrina dei Padri si riassumerebbe in due affermazioni principali. In primo luogo, la forma intelligibile che rende visibile Dio all’anima beata è il Verbo; da qui la nota espressione: « Vedere nel Verbo ». In secondo luogo, la luce della gloria non è altro che lo Spirito Santo, che è unito molto strettamente alla mente del veggente. Così, è attraverso Dio che Dio viene visto, perché lo Spirito Santo è la potenza attraverso la quale viene visto, e il Figlio è la specie nella quale viene visto” (in un’appendice speciale sul verbo nella visione beatifica, diremo cosa si può intendere con queste parole: « vedere Dio nel Verbo »). Queste due affermazioni, dico, anche supponendo che esprimano bene il pensiero dei Padri a cui Thomassin le attribuisce, non vanno in alcun modo contro la nostra dottrina. Se ne sarà pienamente convinti, se ricordiamo i caratteri ipostatici del Figlio e dello Spirito Santo e le leggi di appropriazione. – Poiché il Figlio procede per via di intelligenza, come Verbo, e quindi come luce e verità, cosa c’è di più naturale che attribuire al Figlio ciò che è appropriato all’Essenza divina, in quanto Luce e Verità? Inoltre, che cos’è il Verbo se non l’immagine, la somiglianza, il volto, la parola, la manifestazione viva e sostanziale di Dio? Così, c’è un nuovo titolo per il ruolo di immagine e la funzione di forma ideale che la divinità ricopre nella visione beatifica, da appropriarsi a Lui, piuttosto che al Padre o allo Spirito Santo. D’altra parte, non dobbiamo forse vedere nel Principio superiore di attività che deve elevare l’intelligenza e renderla adatta alla contemplazione di Dio, la perfezione suprema e finale della creatura ragionevole, il dono per eccellenza che viene fatto all’uomo, la causa prossima della sua unione beata con Dio? Ora, se non sbaglio, è proprio questo il carattere degli effetti divini che attribuiamo singolarmente a Colui che si manifesta come il complemento della Trinità, il Dono personale, l’Unione del Padre e del Figlio, cioè allo Spirito Santo. – Leggo nel Vangelo: « Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio ha voluto rivelarlo » (Mt X, 27). E ancora: « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio ». E ancora: « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e Io lo amerò e mi manifesterò a lui » (Gv. XIV, 21). Bisognerà concludere che questa rivelazione che ci viene fatta dal Padre e dal Figlio, sia l’opera esclusivamente personale del Figlio unico? Niente affatto, perché leggo altrove: « Nessuno conosce ciò che è in Dio se non lo Spirito di Dio; e noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che è di Dio, per conoscere i doni che Dio ci ha fatto » (1 Cor., II, 11-12). È sempre la stessa legge di appropriazione, attraverso la quale tutto si chiarisce e si riconcilia nell’unità armoniosa di una verità totale. – Un errore che non posso passare del tutto sotto silenzio consisterebbe nel supporre, come alcuni sembrano aver fatto in passato, che la luce della gloria sia la visione di Dio stesso, che è diventata, non so per qual influsso, la visione stessa della creatura. Chimere di menti sbagliate che non meritano di essere confutate. Perché non è forse follia lusingarsi di vedere con un atto che non sia nostro? Se non c’è altra visione che quella di Dio, diresti cento volte che essa non è comunicata; non è questo un atto in cui trovo la mia stessa vita: quindi, per quanto perfetta possa essere la visione divina, mi lascia nelle tenebre. Rispondereste che, se la visione divina non è vostra, ne avete la coscienza e che con questa coscienza entrate in possesso del suo oggetto? Si tratterebbe comunque di un’illusione manifesta: perché ciò che cade sotto l’occhio della vostra coscienza sono i vostri atti e non quelli degli altri. Chiunque volesse andare a fondo di tali teorie vi troverebbe presto il panteismo come corollario o principio; e questa ragione da sola è sufficiente perché esse siano universalmente bandite da ogni scuola e libro cattolico. Ma questo è sufficiente per parlare del principio prossimo della visione beatifica. È giunto il momento di studiarne esplicitamente l’oggetto e le operazioni.

(Vale la pena di citare il testo seguente, molto adatto a chiarire molte delle idee contenute in questo terzo capitolo. « Oportet nunc considerare et intelligere: quis sit modus videndi Deum per essentiam. In omni siquidem vision oportet ponere aliquid quo videns visum videat. Et hoc est vel essentia ipsius visi, sicut Cum Deus cognoscit seipsum, vel aliqua similitudo ejus, sicut cum homo videt lapidem. Et hoc ideo quia ex intelligente et intelligibili oportet aliquo modo fieri in intelligendo unum. Non autem potest dici quod essentia divina videatur ab aliquo intellectu creato per aliquam similitudinem…. Omnis enim similitudo divinæ essentiæ in intellectu recepta non potest habere aliquam convenientiam cum essentia divina, nisi analogice tantum. Et ideo cognitio quæ esset per talem similitudinem, non esset ipsius Dei per essentiam, sed multo imperfectior quam si cognosceretur substantia per similitudinem accidentis. Restat ergo ut illud quo intellectus creatus Deum per essentiam videt, sit essentia divina. Non auteun oportet quod ipsa essentia intellectus ipsius, quod se habeat ad ipsum ut forma. » – S. Thom. De Verit. D. 8, a. 1).

LA GRAZIA E LA GLORIA (46)