LA GRAZIA E LA GLORIA (34)

LA GRAZIA E LA GLORIA (34)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO II.

Il merito, sua natura e sue condizioni.

1. – Non è mia intenzione trattare a lungo della natura del merito. Diremo solo ciò che è necessario sapere al riguardo per l’intelligenza della nostra crescita spirituale, cioè l’aumento della grazia santificante e delle virtù dell’anima dei figli adottivi. Prima di tutto, rivolgiamoci al Santo Concilio di Trento su questo grave argomento. Ecco come ne parla nell’esposizione autentica della dottrina: i peccatori, « una volta giustificati e resi amici di Dio e membri della sua casa (domestici), si rinnovano, come dice l’Apostolo, di giorno in giorno, camminando di virtù in virtù…; essi crescono con l’osservanza dei comandamenti di Dio e della Chiesa, nella giustizia che hanno ricevuto per grazia di Gesù Cristo, con la fede cooperante nelle loro buone opere e sono sempre più giustificati. Perché sta scritto: Il giusto diventa sempre più giusto. E ancora: Non abbiate paura di avanzare nella giustizia fino alla morte… È questo aumento della giustizia che la Chiesa chiede a Dio, quando gli dice: Donaci, o Signore, un aumento della fede, della speranza e della carità » (Conc. Trid., sess. VI, cap. 14). – I canoni fulminati contro l’eresia non sono meno espliciti dell’esposizione dottrinale. Testimone è il canone 24° della stessa sessione: « Se qualcuno dirà che la giustizia non si conservi e nemmeno si accresca davanti a Dio con le opere buone, ma che queste opere siano solo i frutti e i segni della giustizia acquisita, e non una causa di incremento per essa, sia anatema ». Anatema anche a chi dirà « … che le opere buone dei giusti sono talmente un dono di Dio e che esse non sono, nello stesso tempo, meriti per il giustificato; o chi sosterrà che il giustificato dalle buone opere che compie per grazia di Dio e per i meriti di Gesù Cristo di cui è membro vivente, non meriti in verità l’aumento della grazia e l’aumento della gloria. » Notiamo queste ultime parole del 32° canone: esse ci mostrano che questi due termini, grazia e gloria, sono associati in un merito comune; così che meritare l’aumento dell’una è per questo stesso fatto acquisire il diritto all’aumento dell’altra. E non c’è niente di più naturale, perché la gloria corrisponde alla grazia e quest’ultima è il seme della prima. – Ho voluto citare a lungo questi vari passi del Santo Concilio, sia perché ci dispenseranno dal riportarne altri, sia perché contengono in sostanza tutto ciò che dovremo dire sulle condizioni del vero merito. Ora, su questa questione capitale, se ci sono punti di dottrina indiscutibili, ce ne sono però altri in cui regna una certa divergenza di opinioni tra i nostri Dottori. Diciamo innanzitutto ciò che non può essere messo in dubbio; poi affronteremo i punti controversi per far emergere, se piace a Dio, il più probabile e il più consolante.

2. Per iniziare con ciò che riguarda il merito delle opere, considerate in sé stesse, sono indispensabili tre cose. Per essere meritoria, l’opera deve essere moralmente buona, deve essere libera e deve essere compiuta sotto l’influenza della grazia. – Dell’opera meritoria, ho detto che deve essere moralmente buona. Il merito è il diritto a una ricompensa; è un atto per il quale la grazia è il premio. Come può un’azione malvagia, che, lungi dal procurare gloria a Dio, costituirebbe una disobbedienza e un’offesa alla Maestà divina, dare diritto a qualcos’altro da parte di Dio se non a una punizione giustamente meritata? – Non parlerò qui di azioni che si chiamano indifferenti e che non avrebbero per loro natura né malizia né bontà morale. Secondo il sentire comune dei più grandi teologi, tali azioni non si verificano nella realtà, almeno quando si tratta di atti liberi. Infatti, ci sono due possibilità: o l’agente da cui promanano si propone un fine secondo la regola della ragione, e, in questa ipotesi, il suo atto o agisce senza un fine ragionevole, e quindi l’azione diventa cattiva, è un disordine, poiché è in flagrante disaccordo con la dignità della natura. In ogni caso, nessuno vedrebbe alcun merito in un atto privo di moralità. – Moralmente buona, l’opera per diventare meritoria deve comunque essere gratuita. È l’universalità dei Padri e l’intera teologia cattolica a gridarci per bocca di San Bernardo: « Dove non c’è libertà, non c’è merito”. Ubi non est libertas, nec meritum » (S. Bern, Serm. 81 in Cant.). E questo è ciò che risulta chiaramente dalla natura stessa del merito. In effetti, « meritare è acquisire per se stessi un qualche bene a titolo di salario. Ma questo richiede che si dia qualcosa il cui valore sia proporzionale (aliquid condignum) a ciò che è oggetto del merito. Ma noi non diamo se non ciò che sia nostro, ciò che possediamo e controlliamo. Inoltre, abbiamo il dominio dei nostri atti solo grazie alla libera volontà » (S. Thom. de Verit. q. 26, a. 6.). Questo è ciò che lo Spirito Santo ci fa ascoltare nel libro dell’Ecclesiastico: « Dio, fin dal principio, creò l’uomo e lo lasciò nelle mani del proprio consiglio… Davanti all’uomo ci sono la morte e la vita, il bene e il male; ciò che sceglierà gli sarà dato » (Eccl. XV, 14-18). Osserviamo, tuttavia, che la libertà, presupposta per merito, non è necessariamente quella libertà imperfetta che può essere indifferente al male o al bene, al vizio o alla virtù. Dio, l’esemplare infinitamente perfetto della vera libertà, come di tutte le perfezioni, non ha questa scelta. In virtù della sua natura, Egli è essenzialmente fissato nell’amore del bene e nell’orrore del male. Per Lui cessare di volere l’uno o odiare l’altro è cessare di essere Dio, esse sarebbero la stessa cosa. La sua libertà è la scelta tra beni finiti, perché la volontà divina conosce assolutamente una sola necessità, quella di amare il bene sovranamente perfetto. Amare il bene sovranamente perfetto, cioè Dio stesso. Pertanto, il potere che è in noi di scegliere tra il bene morale e il suo contrario, lungi dall’essere l’essenza del nostro libero arbitrio, è solo una sua triste imperfezione. (S. Thom. 3 p., q. 62, a.8, ad 3). E la gloria dei figli di adozione sarà quella di essere un giorno, come il loro Padre, liberi e legati per sempre all’amore della vera bontà. – Ma non è meno vero che toglierci la libertà significa toglierci tutti i nostri meriti. Il Concilio di Trento e i Pontefici hanno quindi condannato con anatema la negazione del libero arbitrio predicata dagli innovatori del XVI secolo (Concilio di Trento, sess. VI, can. 4 e 5) e le proposizioni in cui Giansenio insegnava che, nello stato di natura decaduta, l’assenza di coazione, anche quando prevalga la necessità, è sufficiente per il merito e il demerito (3° delle proposizioni, tratte dall’Augustinus di Cornelio Giansenio e condannate da Innocenzo X, etc.). – Un’ultima condizione finale dell’atto meritorio è che esso proceda dalla grazia. Supponete che la natura con le sue facoltà proprie ne sia l’unico principio, forse ne risulterà un titolo a qualche bene dell’ordine naturale; ma non aspettatevi che Dio doni la grazia o la gloria come ricompensa, perché non ci sarebbe quella giusta proporzione tra servizio e ricompensa che è essenziale per il merito propriamente detto. È questa assoluta impotenza della natura a meritare, in qualsiasi misura, i doni soprannaturali, che la Chiesa ha così spesso affermato contro i Pelagiani del V secolo, e gli eretici che li hanno più o meno seguiti nel corso dei secoli. Da queste lotte non potremo che trarre una doppia sentenza. Una è del famoso Concilio di Orange: « Sì, la ricompensa è dovuta alle opere buone, quando se ne fanno; ma la grazia che non è dovuta, precede affinché esse si facciano » (« Debetur merces bonis operibus si fiant; sed gratia quæ non debetur, præcedit ut fiant » Con. Araus, II can. 18). L’altra è di Sant’Agostino, l’immortale campione della grazia di Cristo: « Dio, quando incorona i nostri meriti, incorona solo i suoi doni », perché questi meriti devono avere le loro radici nella grazia per essere meritori (« Cum Deus coronat merita nostra, nihil aliud eoronat quam munera sua ». S. Agostino, ep. 194, n. 19). Ecco, dunque, le tre condizioni assolutamente indispensabili nei nostri atti, perché ci sia un merito davanti a Dio.

3. – Oltre a queste condizioni richieste nell’opera stessa, per il merito propriamente detto, quello che non è più di pura convenienza ma di condegnazione, che non è più rivolto alla sola misericordia, ma alla giustizia, ce n’è un’altra che deve riguardare la persona stessa dell’agente. Una cosa ammirevole che ci mostra la grandezza della grazia santificante e dei doni che l’accompagnano, quando un uomo, secondo il pensiero del grande Apostolo, « benché abbia una fede capace di spostare le montagne; quand’anche abbia distribuito tutti i suoi beni ai poveri e abbia dato il suo corpo per essere consumato dal fuoco, se non ha la carità, tutto questo non gli servirà a nulla » (1 Cor. XIII, 2, 3). – Si tratterebbe, ne convengo, e la fede me lo insegna, di disposizioni che mi preparano a ricevere la grazia, di meriti in senso lato, se volete; ma Dio non deve loro né la grazia né la gloria, né l’aumento di entrambe. Perché? Perché la condizione assolutamente essenziale del merito propriamente detto è lo stato di grazia; diciamo meglio ancora: Perché la dignità di essere figli di Dio deve essere considerata come la ragione primaria delle nostre opere meritorie (« E l’aumento della grazia e la sua infusione sono da Dio. Ma, per quanto ci riguarda, altra è l’influenza dei nostri atti su questa prima infusione, altra è sull’accrescimento della grazia. Questo perché, finché l’uomo non ha la grazia santificante, non partecipa ancora all’essere divino e, di conseguenza, le opere che compie non hanno alcuna proporzione con il bene soprannaturale che dovrebbe meritare. Ma una volta che per grazia gli è stato dato questo essere divino, questi stessi atti acquistano una dignità sufficiente per meritare l’aumento o la perfezione della stessa grazia » S. Thom., II D. 27, q. 1, a. 5, ad 3). La Santa Chiesa lo insegna espressamente attraverso il Concilio di Trento: infatti, se Dio promette un aumento della giustizia e la vita eterna come ricompensa per le buone opere, è ai giustificati, agli amici di Dio, alle membra vive di Gesù Cristo, ai rami che aderiscono alla vigna e che ricevono pienamente la sua influenza, ai membri della Chiesa e al popolo. La promessa è fatta ai giustificati, agli amici di Dio, alle membra vive di Gesù Cristo, ai tralci che aderiscono alla vite e ne ricevono pienamente l’influenza, è a coloro che vivono per grazia e si muovono nella carità, che è fatta la promessa. – Per quanto questa dottrina sia evidente nell’insegnamento del grande Concilio, ha ricevuto, se possibile, una manifestazione ancora più eclatante nella condanna del Bäjanismo. Ascoltiamo piuttosto le proposizioni proscritte dai supremi giudici della fede, S. Pio V, Gregorio XIII e Urbano VII. « È essere del sentimento di Pelagio il quale sostiene che un atto buono, fatto senza la grazia d’adozione, non sia meritorio della vita eterna (Prop. 12). Pensa come Pelagio chi dice che per meritare sia necessario essere elevato dalla grazia di adozione, ad uno stato deiforme » (Prop. 17). Ma perché non si sospetti che queste condanne siano rivolte esclusivamente al paragone ingiurioso fatto tra la dottrina di Pelagio e quella che sostiene la grazia santificante come primo principio del merito, ci sono altre proposizioni altrettanto riprovevoli che non contengono nulla di simile; questa, ad esempio: « La ragione del merito non deriva dal fatto che chi compie opere buone abbia come ospite la grazia e lo Spirito Santo, ma solo dal fatto che obbedisce alla legge divina » (Prop. 15; col. prop. 15). Ancora, la Proposizione 17 così recita: « Le opere di giustizia e di temperanza, compiute da Gesù Cristo, non hanno ricevuto un valore maggiore dalla dignità della persona che le ha compiute, persona che le eseguiva ». – Queste condanne sono piuttosto notevoli, perché ci rappresentano la grazia dell’adozione, non solo come condizione necessaria, ma anche e soprattutto come fattore essenziale e principale del merito della condignità. E la natura stessa delle cose è lì a confermare ciò che l’autorità ci ha appena insegnato. Come può crescere nella grazia colui che non esiste ancora, e come può meritare un aumento di gloria colui che non è ancora figlio, quando l’eredità è solo per i figli? – Entriamo ancora più nel merito e consideriamo il rapporto tra le opere e il premio che è loro destinato. Se si tratta di una questione di stretto merito e di giustizia, non deve esistere una giustizia, che ci sia una vera proporzione tra questo e quelli? Se l’omaggio viene da un amico di Dio, da un figlio amato, da un cuore pieno di Spirito Santo, capisco che può essere così degno di stima agli occhi della giustizia divina. Perché Dio vede in essa non tanto il suo valore, che a volte è molto piccolo, ma la persona stessa che la offre. La più semplice carezza di un caro bambino non ha spesso più potere sul cuore di una madre di tutti i segni di deferenza di un estraneo o di un nemico? Da quando la dignità della persona deve essere trascurata quando si tratta di stimare il prezzo degli omaggi resi o ricevuti? – Il più piccolo degli atti d’amore o di obbedienza offerti a Dio dal Verbo fatto uomo aveva un valore incomparabile ed un peso infinito. Questi atti di bontà finita, se considerati in sé, appaiono come informati dall’incommensurabile grandezza della Persona che li ha prodotti. Da qui la dottrina certa che per pagare tutti i debiti del mondo e per meritare tutte le grazie che sono state o saranno mai distribuite in cielo e in terra, bastava che il cuore salisse dal Dio incarnato verso il Padre. Ora, non dimentichiamo che chiunque sia in stato di grazia non è più solo un uomo: è un dio deificato.

4. – Una condizione finale richiesta per il merito in senso stretto, cioè solo per quello di cui ci occupiamo qui, deve essere presa dal lato di Dio. Affinché abbiamo diritto alla ricompensa agli occhi della giustizia eterna, Dio deve essersi impegnato liberamente a darcela. Invano offrirei a questo artista un prezzo equivalente, o addirittura superiore, al valore della sua opera. La giustizia non lo obbligherebbe a consegnarmelo, se non fosse contento di accettare il mio denaro come pagamento per il suo lavoro. « Dio – dice Sant’Agostino – è diventato nostro debitore, non perché abbia ricevuto qualcosa da noi, ma perché ci ha fatto le sue promesse ». (Debitorem ipse fecit se, non accipiendo sed promittendo. Non ei dicitur: redde quod accepisti, sed, redde quod promisisti. S. Agosto. Ep. 194). Non esamineremo se questa promessa non sia sufficientemente contenuta nella capacità soprannaturale che Dio ci ha dato di compiere degli atti, il cui valore è proporzionale o all’aumento della grazia santificante o alla beatitudine finale. Molti l’hanno pensato e io considero la loro opinione molto probabile. In ogni caso, ci basta vedere le promesse divine registrate nelle Scritture e manifestamente promulgate dalla loro infallibile interprete, la santa Chiesa (Conc. Trident. Ss. VI, c. 16). – Non esaminerò nemmeno un’altra questione molto controversa, anche se la divergenza delle soluzioni è forse più nelle parole che nelle cose. I nostri meriti ci conferiscono davanti a Dio uno stretto diritto alla giustizia, tanto da diventare Egli in verità nostro debitore? Sì, dicono gli uni; no, dicono altri in modo più preciso. Qualunque sia la formula, poiché Dio è la regola suprema e la fonte di ogni obbligo e dovere, non può essere vincolato, come lo siamo noi. Il suo obbligo nei suoi confronti, non è altro che la necessità di non abdicare a se stesso; e questa stessa eminenza dell’obbligo divino a favore della creatura, lungi dal diminuire la certezza delle nostre speranze, le innalza infinitamente: è infatti manifestamente impossibile che Dio sia contrario a Dio. A chi parla del nostro diritto e del debito di Dio, come se fossero diritti e debiti tra creature, vorrei chiedere che cosa diamo a Dio che non sia innanzitutto un dono della sua liberale munificenza? L’assioma: “Do ut des“, io do a te affinché tu dia a me, quando si tratta di Dio, ha un significato così particolare che non si applica a nessun altro se non a Lui. Se gli diamo le nostre opere buone per riceverne il prezzo di un tesoro che sia esclusivamente nostro, lo otteniamo. Guardate e vedete come, prima di essere nostre, queste opere sono ancora più di Dio, poiché Egli ci ha dato la facoltà di farle, la dignità soprannaturale che le nobilita e l’operazione stessa che le costituisce; da Dio che si è liberamente impegnato a ricompensarle oltre ogni misura. – C’è bisogno di aggiungere che in questo ammirevole commercio, tutto il profitto sia per noi? Dio sarà meno felice, meno ricco, meno perfetto, se gli rifiutate la vostra benedizione, o il vostro amore sarà in grado di aggiungere la minima parte alle sue infinite perfezioni? È partendo da questo pensiero che il Dottore Angelico, seguendo Sant’Agostino, risolve una singolare difficoltà. La ricerca della propria gloria, si diceva, non può essere un peccato, poiché Dio, il modello che dobbiamo imitare come figli diletti (Efesini V, 1), ci ha creati per procurarci la sua. Sì, risponde il grande teologo, Dio cerca la sua propria gloria; ma, oltre al fatto che non si eleverà mai al di sopra di se stesso, per quanto lo si possa lodare, perché è al di sopra di tutte le cose; è a noi che conviene conoscere la sua grandezza e sapere che è al di sopra di tutte le cose. è opportuno conoscere la sua grandezza, e non Lui. E poiché non lo conosceremmo se non lodasse se stesso, è evidente che non cerca la sua gloria per sé, ma per noi. Da qui la conclusione che l’uomo possa anche desiderare la buona fama, ma a beneficio dei fratelli, secondo le parole del Maestro: « Che vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli » (Thom., 2. 2 q.132, a. 1). – Infine, è necessario aggiungere che l’infinita sovranità di Dio ripugna ad ogni dipendenza esterna? Chi è dunque al di sopra di Lui per imporgli leggi o per mantenerlo nella regola della giustizia, Lui che è la stessa regola e la giustizia per essenza? Affrettiamoci a concludere con San Tommaso: « Poiché tutte le nostre azioni hanno merito solo presupponendo l’ordinazione divina, da cui traggono tutto il loro essere e tutto il loro valore, ne consegue che Dio non è semplicemente debitore nei nostri confronti, ma lo è per il suo proprio » (Id. t. 2, q. 114, a. 1 ad 3), sia che ci conceda l’aumento di grazia per le nostre opere di figli, sia che ci prepari quello della gloria.

LA GRAZIA E LA GLORIA (35)