DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2022)

XV DOMENICA DOPO PENTECOSTE. (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La Lezione dell’Ufficio in questo giorno coincide spesso con quella del libro di Giobbe. Questo pio e ricco signore del paese di Hus, dapprima ripieno d’ogni bene, fu colpito dai mali più spaventosi che si possono quaggiù immaginare. « satana, dicono le Sacre Scritture, si presentò un giorno avanti a Dio e gli disse: Circuivi terram, ho percorsa tutta la terra e ho visto come hai protetto Giobbe, la sua casa, le sue ricchezze. Ma stendi la tua mano su di lui e tocca quello che possiede e vedrai come ti maledirà. Il Signore gli rispose: Va: tutto quello che lui possiede è in tuo potere, ma non togliergli la vita. E satana uscì dal cospetto del Signore. E ben presto Giobbe perdette il bestiame, i beni, la famiglia e fu colpito da satana con un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi fino alla testa ». E Giobbe, disteso su un letamaio, fu costretto a togliere il putridume delle sue ulceri con un coccio » La Chiesa, pensando alla malizia di satana, ci fa domandare di essere sempre difesi contro gli assalti del demonio, contra diabolicos incursus (Segr.). satana ha l’impero della morte e, se Dio lo lasciasse fare, dicono i Padri, egli toglierebbe a tutti gli esseri la vita che posseggono. S. Paolo definisce una sua malattia: «L’angelo di satana che lo colpisce «. Ed il demonio, dice la S. Scrittura, riduce Giobbe a un punto tale, che il santo uomo può gridare: « Il soggiorno dei morti è diventato la mia dimora, io ho preparato il mio giaciglio nelle tenebre, e ho detto al marciume: tu sei mio padre; alla putredine: madre mia, sorella mia. (XVII, 14). Le mie carni si sono consumate come un vestito roso dai tarli, e le mie ossa si sono appiccicate alla mia pelle ». Così la Chiesa applica ai Defunti il disperato appello che Giobbe fece allora ai suoi amici: « Abbiate pietà di me almeno voi, o amici, poiché la mano del Signore m’ha colpito «. Ma il suo appello rimase senza risposta; Giobbe allora si rivolse verso Dio e gridò con una salda speranza: « Io so che il mio Redentore vive e ch’io risusciterò dalla terra l’ultimo giorno; che sarò di nuovo rivestito della mia pelle e nella mia carne rivedrò il mio Dio. Lo vedrò io stesso e i miei occhi lo contempleranno: questa speranza riposa nel mio cuore ». E Giobbe descrive la gioia con la quale ascolterà un giorno la voce di Dio che lo chiamerà a una vita nuova: « Tu mi chiamerai e io ti risponderò, tu stenderai la tua destra verso l’opera delle tue mani ». – « Il Signore, mettendo fine ai mali che lo travagliavano, gli rese il doppio di quello che possedeva prima e lo colmò di benedizioni più negli ultimi anni di vita che non nei primi ». — La Chiesa, raffigurata in Giobbe, domanda a Dio « di essere purificata, protetta, salvata e governata da Lui » (Oraz.). Col Salmo dell’Introito essa dice: « Rivolgi, o Signore il tuo occhio verso di me ed esaudiscimi, che io sono povera e mancante di tutto (Versetto 1°). Signore, abbi pietà di me, che ho gridato verso di te tutto il giorno. Vieni alla mia anima che io ho elevata fino a te (Versetto 4°). Io ti loderò, o Signore, poiché mi hai liberato dall’inferno più profondo (Versetto 13°)». Col Salmo dell’Offertorio essa aggiunge: « Io ho atteso il Signore con perseveranza, ed Egli infine si è volto verso di me, ha esaudita la mia preghiera e ha messo sulle mie labbra un cantico nuovo ». Questo cantico è quello delle anime cristiane risuscitate alla vita di grazia. « È bello, esse dicono, lodare il Signore e annunciare la sua grande misericordia » (Grad.). « Sì, davvero il Signore è il Dio onnipotente, il Gran Re che regna su tutta la terra » (All.).L’Epistola di S. Paolo è intieramente consacrata alla vita soprannaturale che lo Spirito Santo dà o rende alle anime. « Se noi viviamo per lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito », cioè siamo umili, dolci, caritatevoli, verso quelli che cadono, ricordandoci che noi siamo deboli e che di fronte al supremo Giudice porteremo il fardello delle nostre colpe personali. Contraccambiamo generosamente con beni temporali (denaro, cibi, vesti) le persone che ci predicano la parola di Dio (divina parola che dà la vita) e non indugiamo, perché Dio non tollera che ci burliamo di Lui. Il raccolto sarà conforme alla natura della semenza gettata. Seminiamo opere piene di spirito soprannaturale e mieteremo la vita eterna. Non tralasciamo un istante di fare il bene. Evitiamo le opere della carne che sono la mancanza di carità, l’orgoglio, l’avarizia e la lussuria, poiché quelli che commettono peccati sono morti alla vita di grazia e non mieteranno che corruzione. Usciamo, dunque, dalla morte e viviamo come veri risuscitati. — Il Vangelo ci dà questo stesso insegnamento raccontandoci la risurrezione del figlio della vedova di Naim. Gesù, vedendo il dolore di questa madre, fu mosso a compassione: si accostò al feretro e toccando il morto disse: « Giovinetto, te lo comando, alzati! ». E subito il morto si levò e cominciò a parlare. E tutti glorificavano Iddio dicendo; « un grande profeta è apparso in mezzo a noi e Dio ha visitato il suo popolo ». Il Verbo facendosi carne si è accostato alle anime che giacevano nella morte del peccato, e, commosso dalle lacrime della Chiesa, nostra madre, le ha resuscitate alla vita della grazia. Poi, mediante l’Eucaristia ha posto nei corpi un germe di vita, affinché essi risuscitino nell’ultimo giorno (Com.). — Fa, o Signore, che il nostro corpo e la nostra anima siano interamente sottomessi alla influenza dell’Ostia divina, affinché l’effetto di questo sacramento domini sempre in noi (Postcom.). – Vivificati dallo Spirito Santo, solleviamo con sollecitudine quelli che sono morti alla vita della grazia, aiutiamo con le nostre sostanze quelli che con la parola della verità diffondono la vita dello Spirito, e promuovono sempre più in noi la vita soprannaturale che abbiamo ricevuta nel Battesimo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.


Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]


Ps LXXXV: 4

Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.

[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.

[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; VI: 1-10

Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

[Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda invidiandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronti con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia.]  

CONOSCI TE STESSO

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime.

[È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]


V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm.

[È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja.

[Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

[“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano, 1957)

RESURREZIONE E VITA

È probabile che Gesù abbia risuscitato più morti; ma quelli ricordati dal Vangelo sono tre. Una figlioletta appena spirata, un giovane che già portavano alla sepoltura, un uomo morto da quattro giorni e sepolto: e cioè la figlia di Giairo capo della sinagoga, il figlio della vedova, Lazzaro di Betania. Parliamo oggi della seconda risurrezione, ossia del figlio della vedova di Naim. Accompagnato dai suoi discepoli, Gesù era giunto alle porte della città di Naim, quando s’imbatté in un funerale che ne usciva per avviarsi al cimitero. Sopra una barella, come era l’uso d’allora in quei luoghi, si portava  un giovane a seppellire. Era l’unico figlio d’una vedova. Povera madre! Già triste per la vedovanza, ora perdeva anche l’unico conforto dei suoi giorni presenti e l’unica speranza di quelli a venire, e lo perdeva troppo prematuramente. Ella seguiva il feretro con un aspetto così distrutto dal dolore che Gesù non seppe resistere. Non richiesto, mosso soltanto dalla sua pietà, raggiunse quella madre e le disse: « Non piangere ». Tali parole in quelle circostanze, dette da qualsiasi altro sarebbero suonate come un incoraggiamento vano o come un invito fuor di proposito; ma non sulle labbra di Gesù. S’avviò alla bara e la fermò toccandola. Poi, in mezzo allo stupore muto della gente, comandò con la sicurezza di chi sa d’essere infallibilmente ubbidito: « Giovane, levati su! ». Il morto immediatamente si levò a sedere, e mentre la turba presa dall’entusiasmo magnificava il Signore, Gesù lo rese vivo a quella madre a cui aveva detto di non piangere. Questo fatto dimostra anzitutto che Gesù è Dio, potente come il Padre. Non soltanto comanda alla natura modificandola, alle malattie guarendole d’improvviso, ai demoni scacciandoli, alle volontà ribelli piegandole amorosamente alla sua grazia, ma comanda alla più ineluttabile e fatale delle cose umane: la morte. « Come il Padre risuscita i morti e rende ad essi la vita, così il Figliuolo rende la vita a quelli che vuole ». Questo fatto dimostra inoltre che Gesù è Dio Redentore. La morte è la più amara delle conseguenze del peccato; se Gesù ci libera dalla morte, è perché prima ci ha liberato dalla causa, cioè dal peccato. Dunque, Egli è il Redentore che ci redime dalla colpa e dalla pena. Allora veramente Egli può dire di sé quello che ha detto: « Io sono la resurrezione e la vita » (Giov., XI, 25). La resurrezione della carne. La vita dell’anima. -1. LA RISURREZIONE DELLA CARNE. Non dovevamo morire. Fu il demonio a travolgerci nella morte coll’indurci al peccato. « Stipendium peccati mors ». (Rom., VI, 23). Siccome il peccato non ebbe eterna vittoria su di noi, ma temporanea perché fummo redenti da Gesù, così la morte non avrà su di noi eterna vittoria ma temporanea, Risorgeremo! a) La risurrezione della carne è una verità di fede; è l’undicesimo articolo del Credo. Ci è rivelata da Gesù stesso: « Verrà l’ora in cui tutti i morti risorgeranno: quelli che han fatto bene per la risurrezione eterna; quelli che han fatto male per la maledizione eterna » (Giov., V, 28-29). Ci è garantita da tre miracoli di risurrezioni, e soprattutto dalla risurrezione stessa del Redentore. Quel Gesù che risuscitò da morte la bambina di Giairo, il figlio della vedova, Lazzaro di Betania, quel Gesù che risuscitò se stesso dopo tre giorni per non più morire, vivificherà anche i nostri corpi mortali e darà a loro l’immortalità. Non siamo forse nutriti dall’Eucaristia anche perché già fin d’ora nella nostra carne mortale sia deposto il germe divino di una carne immortale? « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, io lo risusciterò all’ultimo giorno » (Giov., VI, 55). b) La risurrezione conformerà i nostri corpi a quello di Gesù risorto. saranno chiari e splendidi come il sole (Mt., XIII, 43); saranno sottili che potrebbero penetrare nel Cenacolo a porte chiuse; saranno agili talmente da trasportarsi con la velocità del pensiero; saranno impassibili, immunizzati dalle malattie e dalla morte. Allora, finalmente, la parola di Gesù « noli flere » Si sarà verificata nella sua pienezza. Più nessuno piangerà. « Dio asciugherà per sempre dagli occhi nostri tutte le lagrime: non ci sarà più né lutto, né lamenti, né dolori » (Apoc., XXI, 4). c) La risurrezione ci fa comprendere la grande stima in cui dobbiamo tenere il nostro corpo, e il grande rispetto con cui lo dobbiamo trattare. Lavato dall’acqua battesimale, unto col sacro crisma, nobilitato dal contatto con l’Eucaristia, un giorno dovrà essere degno di onorare il Regno di Dio. Non è cosa che si possa usare secondo i capricci del piacere, ma deve essere conservato secondo le leggi di Dio. Conserviamolo puro perché possa albergare un’anima santa; liberiamolo con la mortificazione dai malvagi istinti di corruzione che il peccato vi ha immesso. – 2. LA VITA DELL’ANIMA. La risurrezione del figlio della vedova non ci parla appena della risurrezione della carne, ma anche di quella dello spirito. La morte, conseguenza del peccato, prima che nel corpo aveva fatto strage nell’anima. Con tre mali il peccato aveva rovinata l’anima. La rese colpevole di fronte alla Giustizia Divina, e nel medesimo tempo incapace di soddisfare da sola, poiché l’offesa era stata infinita. La spogliò della vita soprannaturale della grazia riducendola nelle proporzioni di nuda e debole creatura. Le chiuse il cielo per sempre, essendo quella la beata dimora riservata ai figli di Dio. Orbene Gesù Cristo, morendo in croce, con tre beni redense l’anima. Pagò per lei la Divina Giustizia, espiò per i suoi peccati. « Ecco che il mio sangue sarà sparso per molti in remissione dei peccati » (Mt., XXVI, 28). Le ridonò la vita della grazia che è la sua stessa vita di Figlio di Dio. « Io sono venuto — diceva — perché abbiate la vita e ne abbiate tanta ». (Giov., X, 10). Riaprì a loro le porte del cielo, i regni del suo Divin Padre, la casa della gioia immensa ed eterna. « Bisogna — diceva — che il Figlio dell’uomo sia sospeso sulla croce perché ogni uomo che crede in Lui abbia la vita eterna » (Giov., III, 14-15). S. Bernardo incomincia una sua predica con una parabola che ci rende evidenti questi benefici della redenzione. Eccola: « Mi trovavo coi miei amici sopra una piazza a divertirmi allegramente: e non sospettavo che intanto nel palazzo reale venisse emanata una condanna di morte contro di me. Il figlio del re appena l’apprese, subito depose la sua corona, i suoi abiti principeschi, e rivestito con un rozzo saio di penitenza, il capo sparso di cenere, uscì dalla reggia a piedi nudi, gemendo e piangendo perché il suo servo doveva essere condannato a morte. Come lo vidi in quella guisa compassionevole, gli chiesi che cosa ciò significasse, ed egli mi rispose ch’era deciso di morire al mio posto ». Fin qui S. Bernardo. Ma non era lui di certo il giovane dissipato intento a godere sulla piazza della vita: quel giovane era simbolo dell’umanità. L’umanità con cieca leggerezza s’è abbandonata ai peccati, privandosi della felicità eterna. Venne il Redentore, si rivestì della nostra miseria, espiò la nostra colpa, ci ridonò la vita, ci riaperse la reggia celeste. – Forse, nonostante la Redenzione, qualcuno di noi si ostina nel sonno della morte. Non ode Gesù che scuote la sua anima incadaverita; non ode la santa madre Chiesa che lo segue piangendo. Apri gli occhi e guarda: guarda in quale stato ti ha ridotto il peccato. Apri gli occhi e guarda, guarda sulla croce in quale stato s’è ridotto per te il tuo Dio Redentore, Sorgi ora dalle iniquità per risorgere un giorno gloriosamente. Sorgi adunque, dico a te, peccatore. « Tibi dico, surge ». — RICORDATI, UOMO… Questo racconto evangelico ci presenta due scene: una ordinaria e l’altra straordinaria. Straordinaria è la risurrezione di un morto; ed in questa vita, forse, il Signore a noi non farà grazia di vederla. Ordinaria invece è la cerimonia della sepoltura. Fermiamo la nostra considerazione su questa. Un funerale non è cosa rara; e chissà quante volte ci siamo imbattuti in un corteo funebre! Levato il berretto, fermati al margine della strada con tanti altri curiosi, abbiamo osservato sfilare le confraternite, abbiamo contato il numero dei preti, delle corone di fiori, delle bandiere e degli stendardi, abbiamo ammirato il lusso e tante altre cose. Così per noi, e per molti, il funerale è diventato uno spettacolo di curiosità, e lasciamo inascoltato il monito solenne che dal feretro ci viene: « Memento, homo… Ricordati, uomo! ». « Ch’io mi ricordi della morte?! me ne scampi il cielo. Ho gli interessi a cui pensare, ho una lite da vincere, ho la moglie, ho la famiglia, ho i divertimenti… e se mai questo melanconico pensiero saltasse in mente, son sempre all’erta per annegarlo in un bicchier di vino ». Eppure, la morte viene a lungo passo: è già vicina. « Ch’io mi ricordi della morte? ma ho vent’anni, ne ho trenta, ne ho appena quaranta… ». Non devi dire: io ho, ma: io non ho… non ho più questi vent’anni da vivere; questi trenta, questi quaranta non li ho più. La morte è vicina: e nessuno ci pensa. – Una nave faceva rotta per Tarsis. Sotto coperta portava un uomo che dormiva profondamente. Era il profeta Giona che dormiva, benché sull’anima gli stesse il peccato di una grossa disubbidienza al Signore. Sul mare, improvvisa come una vendetta, scoppiò la burrasca. Ulula il vento, rugge l’acqua, scricchia il fianco della nave: e Giona dorme. I marinai remano disperatamente, e ciascuno invoca il suo Dio e getta in mare ogni roba che pesa: e Giona dorme. Un mostro dal dorso enorme affiora, tra onda e onda, in giro alla nave spalancando le fauci ingorde, bramose delle prossime vittime; e Giona dorme. « Svegliati! Svegliati! — urlava il pilota dandogli riscossoni — Alzati e invoca il tuo Dio che voglia ricordarsi di noi, e non ci lasci sprofondare » (Giona, I, 1-6). Cristiani, ciascuno di noi non è un altro Giona? siamo sulla fragile nave della vita; da ogni parte ci stringono le malattie, le disgrazie, i pericoli: e noi dormiamo con forse sull’anima qualche peccato grave. Da un momento fondare nell’abisso dell’eternità: e noi dormiamo in mezzo alle nostre quotidiane faccende. Già intorno ci sta il mostro infernale, il demonio, con la sua fauce per ingoiare la nostra anima sventurata: e noi dormiamo in quella abitudine peccaminosa, in quella relazione illegittima, in quella trascuratezza d’ogni dovere cristiano. Svegliamoci,  griderò io, ripetendo le parole del pilota. — Alziamoci e invochiamo il nostro Dio che ci scampi dalla morte improvvisa, che ci lasci il tempo di pensare frequentemente alla nostra fine, prima di scendere nella regione tenebrosa, avvolta dalla caligine di morte. Memento, homo… Ricordati, uomo che sei pellegrino, che sei cenere, che sei putredine. Sei pellegrino: non attaccarti alla terra. Sei cenere: non insuperbirti. Sei putredine: non cedere agli istinti della tua carne. – 1. … CHE SEI PELLEGRINO. Chi è pellegrino è di passaggio: La nostra vita è davvero un passaggio sulla terra: « ma breve come un sogno che all’alba del giorno eterno svanisce; ma inconsistente come un’ombra che non si lascia stringere dalle mani; ma veloce come un uccello che attraversa il cielo e scompare senza lasciarvi traccia; ma leggero come la polvere che il vento solleva un istante vorticosamente, e poi depone; ma delicato come la rugiada che ai primi raggi del sole svapora; ma caduco come il fior della rosa che dura poche ore e poi si sfoglia » (S. Greg. Naz., Or. X). Se così breve è il nostro passaggio sulla terra, non mette conto d’attaccare corpo e cuore alle cose di quaggiù. Se un viaggiatore, montato in treno, si mettesse affannosamente a pitturare il suo scompartimento, e vi spendesse le sue sostanze per adornarlo d’oggetti preziosi, e con tutta la passione del suo cuore lo vagheggiasse, voi vi persuadereste di essere davanti ad un pazzo. Ebbene il mondo è pieno di questi pazzi che tutta la vita e tutti gli affetti e tutti i sudori sprecano soltanto per le cose materiali, delle quali non potranno godere più di quello che un viaggiatore gode del suo scompartimento. Ancora pochi anni, pochi mesi, pochi giorni e poi la morte fischierà, e bisognerà lasciare il nostro treno, e scendere. Scendere, ma dove? All’eternità. « Io mi sono logorato per comprare quel terreno … » Va bene: ti sei logorato per tuo fratello che lo erediterà. « Io mi sono consumato giorno per giorno, e anche di notte, per quella casa » Va bene: ti sei consumato per i tuoi figli a cui l’abbandonerai. « Io mi sono strappato il boccone di bocca per mettere insieme quel danaro, per arrotondare la cifra sul libro di risparmio… ». Va bene: ti sei mortificato per ì tuoi eredi i quali si godranno le tue fatiche senza scrupoli e senza ringraziamenti. « E allora, di molt’anni di stenti che cosa mi resta? ». Il sepolcro. Et solum mihi superest sepulcrum. Di tanti possessi non è solo questo che rimane anche ad Alessandro Magno? Udite come di lui parla la Santa Scrittura: Possedeva la Grecia; e conquistò terra dei Persi, la terra dei Medi; e dopo si prese le fortezze di tutti i regni, le chiavi di tutte le città. E dopo si spinse fino all’estremo limite del mondo, s’impossessò delle ricchezze delle nazioni; l’universo ammutolì davanti a lui. E dopo… dopo il padrone dei re e dei popoli si pose in un letto e morì. Post hæc decidit in lectum… et mortuus est (I Macc. I, 1-8). Poveri noi! dopo aver comprato case e campi e robe, dove aver trascurati i precetti di Dio e della Chiesa per arricchire e guadagnare, dopo aver lavorato con ingiustizia e con frode, di festa e non di festa, cosa ci resterà da fare? metterci in un letto e morire. – 2. … CHE SEI CENERE. S. Efrem, spesse volte al tramonto andava tra le sepolture, a meditare, Triste e pensieroso s’aggirava di tumulo in tumulo, leggendo le iscrizioni e i titoli dei defunti: principi della città, magistrati della provincia, ricchi signori, sapienti ammirati dal mondo… Il santo, a volte, li chiamava ad alta voce per nome: nessuno più rispondeva. Dove sono quelle superbe figure di uomini, di donne, a cui tutti si assoggettavano? Quella lingua che non parlava se non dei propri meriti, se non dei difetti altrui, dov’è? dove sono quelle orecchie che non volevano sentire se non la propria lode? Tutto è diventato cenere. Ricordati, uomo superbo, che sei cenere! Allora S. Efrem ritornava nella sua casa più umile e più paziente. Perché mai Luigi Gonzaga ha gettato via gli abiti di raso e di velluto per indossare la saia del gesuita? Perché ha rifiutato la gloria del marchesato, l’onore di palazzi superbi, l’ubbidienza di molte popolazioni, per nascondersi in squallidi conventi ed applicarsi ai mestieri dei servi? Di questo fatto non vi saprete mai dare una soddisfacente spiegazione, se non osserverete quel cranio di morto che i pittori sogliono raffigurare accanto a lui. Luigi Gonzaga si è ricordato, e come! di essere cenere. Così non vi saprete mai spiegare perché S. Carlo Borromeo, ricco di famiglia, cardinale in giovane età, amato dal Papa suo zio, era diventato tanto umile, se non vi ricorderete che nel suo arcivescovado aveva fatto dipingere l’immagine della morte. Ogni volta che le passava davanti, S. Carlo le sorrideva come per dire: « Lo so, lo so che tra poco verrai a ridurmi in cenere ». Adesso potrete anche comprendere perché noi siamo superbi: in casa non vogliamo osservazioni, non comandi; per strada desideriamo che gli altri ci guardino; in compagnia ci annoiamo se altri non discorrono di noi; dappertutto vogliamo apparire più di quello che siamo; a tutti vogliamo imporre i nostri pareri. Senza riguardi offendiamo il prossimo e maltrattiamo i familiari; se alcuno poi offende noi non gli perdoniamo mai senza umiliarlo. Perché questa superbia in noi? Perché non ci ricordiamo di essere cenere. Ricordati, uomo… – 3. … CHE SEI PUTREDINE. ,C’è nella Storia Sacra un esempio terribile. Iezabel era donna corrotta e amante dei piaceri. Adorava il suo corpo, si cerchiava di nero gli occhi, si adornava senza modestia. Ebbene alla mattina era alla finestra, perfidamente lusingatrice… Non era ancor calato il sole ed alcuni uomini trovarono sotto a quella finestra il cadavere della disgraziata, orribilmente sconciato dai cani, con il cranio, i piedi, le mani staccate del tronco. Inorriditi quegli uomini fuggirono esclamando: « I cani han mangiato la carne di Iezabel, e il suo corpo è una putredine sulla faccia della terra » (IV Re, IX, 37). L’applicazione è chiara. Quella donna che oggi dissacra la bellezza del suo volto con artifizi, quella giovane che adora il suo corpo e si veste non come a una cristiana conviene, quel giovane e quell’uomo che schiavi della loro carne si abbandonano agli istinti più disonesti e brutali, dite, tra poco che saranno? Alla mattina profumati e azzimati come idoli, e alla sera, forse, marcia e vermi. Putredini dixi: pater meus mater mea et soror mea, vermibus (Giob., XVII, 14). Se ogni volta che gli occhi vogliono guardare, se ogni volta che il corpo vuol godere, noi pensassimo alla morte, oh quanti peccati di meno! Perdere l’anima, per accontentare questa carne che diverrà tra poco putredine e vermi, non è stoltezza? Da S. Filippo Neri si presenta, un giorno, un giovane dissoluto e già tanto corrotto. « Padre! — geme, mettendosi in ginocchio davanti all’amabile santo. — Padre, voglio convertirmi, ma non ci riesco. Le tentazioni sono più forti di me, non ci riesco ». S, Filippo, sollevandolo e abbracciandolo paternamente, gli dice: « Coraggio, tutti i giorni dirai la Salve Regina, e penserai alla morte: immaginerai il tuo corpo sotterra, i tuoi occhi putridi, la tua carne marcia, la tua bocca verminosa, e dirai: ecco per che cosa ho perduto il paradiso. » Accetta il giovane e parte: riesce a tenersi puro per una volta, per due, per sempre. Sembrerebbe incredibile, eppure fu così. – Or udite una parabola che raccontava, predicando, s. Antonio da Padova. Un uomo inseguito da una belva, cadde in un burrone. Per sua fortuna poté aggrapparsi a un arboscello che sporgeva dalla parete rocciosa: rimase così sospeso a quell’esile sostegno, senza speranza di risalire, con sotto i piedi l’abisso. Ed ecco due topi, l’uno bianco e l’altro nero, farsi intorno all’arboscello suo salvatore, e rosicchiargli la radice. Tra pochi istanti che sarebbe avvenuto dell’infelice? Eppure, lo credereste? dimentico del pericolo, era intento a succhiare alcune gocce di miele sparse sulle foglie del suo sostegno. Come quel disgraziato siamo tutti noi, Cristiani. Da un momento all’antro la vita nostra si può spezzare: l’abisso eterno è spalancato ai nostri piedi. Il topo bianco il giorno, il topo nero la notte, senza requie rodono l’arboscello della nostra esistenza e noi, dimentichi del supremo pericolo, badiamo soltanto a succhiare dalle cose di quaggiù, dalla gloria, dal piacere qualche stilla di godimento. Memento, homo… Ricordati uomo che sei pellegrino, che sei cenere, che sei putredine. — LA SANTA MADRE CHIESA PIANGE. Questa donna di Naim mi ricorda un’altra mistica donna che oggi piange dietro alle anime morte non di uno solo, ma di mille e mille suoi figli giovanetti: la santa madre Chiesa. Non è essa la sposa di Cristo vedovata per l’Ascensione di Lui al cielo? Tutti i giovani che hanno perso l’innocenza della vita, e l’amore alla preghiera e il desiderio della Comunione, non sono forse i suoi figliuoli morti? La gioventù non respira più nell’atmosfera cristiana, ma agonizza e muore nello spasimo di un’asma morale. V’è un attossicamento di anime, una lebbra di cuori, una tubercolosi spirituale, per ciò la Chiesa oggi piange. O Cristiani aprite una volta gli occhi e vedete la corruzione della nostra gioventù come dilaga; poi ricercatene qualche causa per opporvi rimedio. – 1. LA CORRUZIONE DEI GIOVANI. Un giorno che il Papa San Gregorio attraversava la piazza del mercato di Roma, vide un gruppo di giovani legati sopra un banco: bellissimi di forma, piacevoli di volto e tutti biondi di capelli. Erano schiavi ed aspettavano che qualcuno li comprasse. Il beato Gregorio passando vicino, domandò al mercante donde li avesse condotti. « Di Bretagna, — rispose quello — là, ove gli abitanti risplendono di simigliante bianchezza ». E ancora domandò: « Almeno sono essi Cristiani? » E il mercante rispose: « Non sono Cristiani, anzi sono involti negli orrori del paganesimo ». Allora S. Gregorio incominciò fortemente a sospirare in mezzo al mercato, e a piangere come un fanciullo, così dicendo: « Ohimè, dolente! che bellissimi giovani e che splendidi facce son venduti schiavi agli uomini pessimi e al demonio maligno ». Usciamo anche noi, e guardiamo con occhi cristiani su questa gran piazza di mercato che è il mondo: guardiamo la sorte della nostra gioventù. Sono fanciulli che a otto a dieci anni perdono di già la santa Messa nei giorni festivi; che di già non pregano più né mattina né sera. Sono giovani che non vengono mai alla dottrina cristiana, che non vogliono frequentare più l’oratorio, per divertirsi tutta la domenica e offendere il Signore. – I campi sportivi, i divertimenti; i balli rigurgitano di giovanetti: alla sera tornano a casa, ma il loro occhio non è limpido, ma la loro fronte non è più serena, ma la loro anima è una fiamma. Una fiamma d’impurità che li divora. Essi hanno visto, hanno udito, hanno imparato il male. E quando il demonio del vizio brutto entra in corpo a un nostro figliuolo lo rende muto. Subito ve ne accorgete, perché non prega più, non si confessa più come una volta, non apre più la sua bocca a ricevere il Pane degli Angeli. Allora è finita. E che cosa si può sperare ancora quando finanche le fanciulle hanno perso il senso del pudore istintivo nel cuor della donna? Voi le vedete in giro ad ogni ora, e sole: di giorno, di sera, di notte. Voi le sentite frivolmente ridere e scherzare per le strade; vestono una moda così immorale che forse non s’è vista mai, neppure al tempo dei pagani. E la gioventù ha l’anima bella. Un’anima splendente, che non vien di Bretagna come quei giovani che vide il beato Gregorio, ma viene da Dio e a Dio deve ritornare. Ma chi piange ora che sì belle anime cadono schiave di uomini pessimi e del demonio maligno? Il Papa più volte ha levato il suo grido d’allarme e contro alla moda e contro alla corruzione che dilaga. Il Papa dal Vaticano, come un giorno S. Gregorio sul mercato di Roma, sospira fortemente e piange sulla rovina della gioventù. – 2. QUALCHE CAUSA. « Oh i ragazzi adesso, non sono più come quelli di una volta! Nascono già con un istinto più perverso… » così dicono le mamme ed anche i papà. Può darsi: ma è proprio possibile che il Signore tutti i buoni figliuoli li abbia già fatti nascere, e per i nostri tempi, abbia riserbato soltanto i cattivi? « Adesso si respira un’aria diversa. Ai nostri tempi non c’erano tanti luoghi di divertimento, tanti sports: e siamo cresciuti più sani e più onesti ». Sì, questo è vero ma non basta a spiegar tutto. Io credo, — e scusate genitori se Ve lo dico, è per vostro bene — io credo che la vera colpa di tanto sfacelo morale ricada sui padri e sulle madri. Sapete perché i ragazzi di adesso non sono più come quelli di una volta? Perché anche igenitori d’adesso non sono più come quelli d’allora. Il figlio in mano vostra è come una cera e cresce come voi lo volete. Il grande vescovo di Costantinopoli S. Giovanni Crisostomo, quell’uomo meraviglioso che tanta orma di sé ha impresso sui secoli della storia, nacque nel 344, in una ricca e distinta famiglia. Il padre Secondo morì nel fior dell’età e lasciò vedova a vent’anni Antusa. A questa donna, ben degna dell’augusto nome di madre, si deve in gran parte la gloria del figlio. Per donarsi totalmente all’educazione del suo Giovanni, rifiutò un secondo matrimonio. Fu così fedele per ben due decenni ai suoi doveri di madre da strappare al pagano Libanio queste parole: « Che donne meravigliose ci sono tra i Cristiani! ». Or dove sono queste mamme? Che meraviglia allora che non ci siano più figli come Giovanni Crisostomo? Naturalmente non basta sorvegliare e avvisare i figli, sgridarli, castigarli: bisogna dar loro l’esempio. Perché i giovani non ragionano ancora e vivono di imitazione. Il piccolo Origene era un’anima ardente e pura. In quel tempo infieriva la persecuzione contro i Cristiani: lo sapeva il fanciullo, ma non aveva paura. Anzi agognava il martirio, per testimoniare col suggello della vita e del sangue a Cristo tutto il suo amore. Già in secreto aveva deciso di consegnarsi spontaneamente nelle mani dei carnefici. E sarebbe morto martire se l’astuzia della madre non fosse riuscita ad impedirglielo. La santa donna, che aveva intuito l’eroico disegno del suo figliuolo, ,prima che si svegliasse, nascose tutti i suoi abiti e l’obbligò a rimane a letto (EUSEBIO, Storia Eccl., VI, 2-5). Com’è possibile in un fanciullo tanto coraggio, tanta fede e questo entusiasmo fino alla morte? Com’è possibile? Suo padre gliene aveva dato l’esempio: il beato Leonida era morto martire. O genitori! i vostri figliuoli cresceranno secondo i vostri esempi. Li volete obbedienti? Cominciate voi a ubbidire a tutte le leggi di Dio. Li volete devoti, che frequentino i Sacramenti? Cominciate voi ad essere devoti e a frequentare i Sacramenti. Li volete puri, onesti, lavoratori? Cominciate voi ad essere puri, onesti, lavoratori. Infine vi raccomando: pregate per i vostri figliuoli, offrite qualche sacrificio per loro, fate per loro qualche elemosina. Perché noi ci affanniamo, ma quello che fa tutto è Dio. Una volta ho sentito una mamma che in un momento di stizza, fece questa imprecazione contro un suo bambino: « Che Dio ti faccia morire! ». No: non dite mai, non dite più questa parola. Bisogna pregar Dio per i vostri figliuoli ogni giorno, non perché li faccia morire, ma perché ce li preservi dal male, che è tanto nel mondo, che è orribile. Così pregava Gesù per i suoi Apostoli, che teneramente amava come figliuoli: « O Signore! non perché li tolga da questo mondo, ma perché li preservi dal male, io ti prego ». Non rogo ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo (Giov., XVII, 15). – O Gesù! che un giorno hai sentito fremere il tuo cuore davanti alla desolata donna di Naim piangente sul suo giovanetto figlio, oggi ti prenda compassione anche della santa madre Chiesa, che piange la rovina di tanti suoi figli giovanetti. Non permettere che pianga più oltre: consola il tuo Vicario. O Gesù! come un giorno alle porte di Naim, avvicinati oggi alle porte delle nostre città, alle porte dei nostri paesi, alle porte del cuore dei nostri figliuoli. Toccali tu. Liberali dalla morte del peccato. Grida anche loro la tua parola di vita: « Giovanetto, risorgi: son io che te lo comando ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro.

[Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus.

[I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:


[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.

[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.

[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (220)

LO SCUDO DELLA FEDE (220)

MEDITAZIONI AI POPOLI (VIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE VIII.

L’inferno

« Signore, credete voi all’inferno?… » disse ad un missionario un cotale che, vantandosi incredulo, voleva mostrar lo intrepido col ridere delle più terribili verità della Religione. E l’uom pio e colto a lui: Si veramente, vi credo io; ma debbo aggiungervi che lo credete anche voi: poiché questa smania di combattere la credenza dell’inferno dimostra che voi l’avete fitta nel fondo dell’anima, e appunto vi sforzate di combattere il pensiero dell’inferno, perché nol potete cacciare di cuore. Ché, o signore, non si combatte contro ciò che non sì crede neppur per sogno; ma si combatte un pensiero che ci sta dinanzi come un nemico: l’inferno è là, vi par di sentirlo intronare anche da lontano; e voi vorreste cercar di ripararvene, almen col negarlo, Vani sforzi o Signore: l’inferno sta. – Siccome però ad ogni modo quello che più ci importa, non è tanto il crederlo, quanto il non aver da provarlo col precipitarvi disperatamente, fermiamoci qui a far bene il nostro conto. Poniamo qui quasi sulla bilancia noi due ciascuno dalla parte della nostra coscienza, a maniera di contrappeso, gli argomenti che fanno inclinare me a credere per evitarlo; voi, a non crederlo e a cimentarvi di trovarvi poi dentro dannato senza averlo creduto. Adunque io credo e metto da parte mia le mie ragioni sulla bilancia. Con me credono anche le nazioni di tutte le falsi religioni eziandio più contrarie alla Religione nostra Santissima. Giobbe in oriente, lontano dal popolo fedele degli ebrei ripete la parola primitiva di tutta la più remota antichità la credenza di una terra di miserie, di tenebre e di orrore eterno nella vita futura. Gl’Indiani credono il Naraka, l’inferno cioè dalle tre porte, in cui si pagano i delitti, la concupiscenza, la collera, l’avarizia. I Cinesi credono che le anime dei tristi diventino demoni. Gli Egiziani credono ai loro Mani dell’altra vita. 1 Greci ed i Romani ammettono il Tartaro sede di pianti e disperazione. E poi meraviglia! entra Colombo nel mondo nuovo, e sente un vecchio Cacico, il quale con sua meraviglia, gli dice in faccia nettamente che una via conduce i cattivi all’inferno. E noi sappiamo come i Peruviani, i Virginiani ed altri ammettono un luogo di supplizio per tutti i malvagi; e in fine come i Maomettani abbiano fede nella esistenza dell’inferno, come noi Cristiani (Codice Sacro o Parallelo di tutte le religioni, per Anot de Maiziéros. — Roselly, Cristo al cospetto del secolo). Tutti questi popoli, siccome credono con me all’inferno, così io li metto colle loro ragioni sulla bilancia dalla parte mia. Ora voi mettete con voi quelle poche teste degli scapati che non vorrebbero credere all’inferno. Da qual parte penderà la bilancia?… Aspettate…; ché io ho da mettere dalla parte mia tutte le ragioni che fecero credere l’inferno ai più grandi filosofi, agli uomini più dotti del mondo. Basti ricordarvi fra gli antichissimi il più saggio, Socrate, il quale muore asserendo l’immortalità e quindi confessando il premio e i castighi eterni. Dal maestro non si scosta Platone, che assevera come la morte fa vedere da qual parte stanno i prudenti e da qual parte gli stolti, e come muoiono i malvagi e restano precipitati all’inferno, luogo terribile! (Delle leggi, lib. xt). Cicerone il più dotto dei Romani scrive lui non avere paura di esser deriso nell’eternità da quelle teste piccine che non vi credono. Metto con me le due forse più belle teste di uomini che siano esistite: io dico s. Agostino, sempre in aspre penitenze con gemiti, per scampar dall’inferno; e s. Tommaso, che scrisse tanti libri, per mostrare a tutti di salvarsi da quella orrenda disperazione. Metto i moderni filosofi; e di loro i più dotti: Leibnizio, che disputò tanto sulla religione, ma ammise sempre come certissimo l’inferno: Malebranche e Bacone, Newton e Keplero. Vi aggiungo Bossuet il più grande genio del suo secolo, e Pascal il talento più bello; e infine Gioberti il più audace in altre opinioni, ma nelle sue maggiori opere, credente anch’esso nell’inferno; e Rosmini di Gioberti più potente pensatore, che scrisse esercizi e raccomandò tanto di meditare l’inferno. Signore, ho nominato grandi menti d’uomini, e per me vi confesso sulla mia coscienza che colla povera mia persona pesano quelle tante teste di dotti, molto più che non pesiate voi, e con voi i pochi che sbadatamente e senza ragione negan l’inferno; e sento che col peso del vostro no, non mi potete trascinare con voi a negarlo. Ma aspettate ancora, perché io metto con me quasi trecento milioni di Cattolici credenti l’inferno, con cinquanta milioni di scismatici che si staccarono dalla soggezione del Papa, ma stanno col Papa nella credenza dell’inferno: vi aggiungo il mille e mille milioni d’innumerabili Cattolici di tutti i secoli passati, che non sognarono mai di dubitare dell’inferno: e i troppi eretici di tutti i tempi, Ariani, Nestoriani, Macedoniani, Eutichiani, Pelagiani, e tutti i protestanti nelle loro sette divisi, che tutti tagliuzzarono, straziarono pur troppo la Fede cattolica; ma tutti conservarono intiera la credenza delle pene eterne nell’inferno. Signore mio, chi avrà più ragioni d’uomini che pesino dalla sua parte: io o voi ?… Oh ma aspettate: ancora! (Poiché siete voi che mi avete domandato, ed io debbo darvi intiera la mia risposta). Metto ancor con grande mia consolazione da parte mia e a credere con me i milioni di Martiri, che sfidarono le più orrende morti, per salvarsi dall’inferno: l’immenso popolo di penitenti che si castigarono terribilmente qui in terra. per non essere puniti in inferno; e l’immenso esercito de’ fervorosi Santi, che tormentarono la loro carne innocente per non aver a provar i tormenti dell’inferno: metto poi il gran numero di buona gente, che tutti si conservano onesti e buoni a fine di evitare l’inferno. E, mentre tutti questi fanno traboccar la bilancia da parte mia a farmelo credere, su su a voi, signore. Mettetevi voi colla vostra testa a contrappeso contro tutto questo immenso numero d’uomini che credono l’inferno. Perdonate; ma voi pesate un po’ poco! Cercatevi pure di porre con esso voi tutti coloro che ridono dell’inferno e in fin fine troverete chì?… Troverete i ladri che rubano a man larga, troverete i truffatori delle famiglie, troverete gl’imbestiati nei vizi, la feccia d’ogni ribalderia; e quando voi (che non credo) voleste gittar sulla bilancia dalla parte vostra tutta quella accozzaglia di malvagi, vorreste fare il torto a me di tirarmi con quel gentame, e di farmi affiatare con una bordaglia sprofondata in tutti i delitti?… No no, ché io starò sempre in compagnia di tutti i Cattolici fermo col mondo universo a credere l’inferno; santa credenza, la quale mantiene probi tanti in terra e manda tanti santi a popolare il paradiso. Allora l’incredulo collo scherzo dello stolto: eh via! esclama, che nessuno è mai venuto di là a dirci che ha provato l’inferno. E l’uom di Dio di rimando: appunto appunto io lo crederei più certamente eziandio per questo; perché, se anche un solo fosse di là venuto, potrei esser tentato a dubitare della verità di quella Parola, che ci assicura esservi l’inferno, e che ci assicura egualmente che chi va là dannato, non ne esce più mai. Ma, signor mio, ditemi per fede vostra: è poi egli vero che non venne mai nessuno dal mondo dell’eterna verità ad assicurarci che vi é l’inferno?… Viva Dio! e non venne Gesù Cristo, il quale diede tante prove di esser venuto dal cielo, e da diciotto secoli le continua a dare? Non ha egli milioni di testimoni che diedero la vita, a fine di assicurarci che Gesù dice sempre la verità? Non sono forse ormai due mila anni che tutti coloro, i quali negano la parola di Gesù, sono trovati essi bugiardi e vanno tutti perduti? Ma i suoi miracoli ma i miracoli di coloro che credettero a Gesù, ma le loro virtù, ma gli studii, le scienze, la storia, ma tutto che vi ha di buono e di ben fatto nel mondo per Gesù, non prova forse che Gesù non inganna nessuno? Ebbene Gesù con quella sua bocca di verità assicura, che i morti in peccato, maledetti discendono nel fuoco eterno! Ah! se Gesù Cristo mette Egli stesso sulla bilancia la sua Parola dalla parte mia, io non posso non gridare sdegnato Miserabile a voi : che non credete! Io vi cerco quanto pesate in contrappeso contro di Gesù Cristo… Eh che non vi trovo più!… Siete sfumato a nulla :… no, no, non pesate affatto più niente. Ond’io mi getto ululante in terrore in braccio a Gesù il quale rivelandoci l’inferno, vi sta, direi, crocifisso sulla bocca colle braccia larghe per salvarci in Paradiso, col grido — Adveniat regnum tuum… libera nos a malo! Salvator benedetto, dall’orlo dell’inferno portateci in Paradiso! Eppure, signor caro, io vorrei discendere al vostro cuore. Ora ditemi voi sulla. vostra coscienza sentite ancora: vi sono tante ragioni da poter provarci che certamente non vi sia l’inferno! No voi, no tutti gl’increduli con voi, no tutti insieme non lo potrete provare mai. Dunque, al tutto al tutto se non volete credere, dovete per forza, dovete almeno dubitare che vi sia! Orribil cosa il dubitare di ciò che affatto importa più di Sapere! Grazie a Dio! credendo noi, siam decisamente risolti di salvarci in paradiso; e intanto io, voi, tutti moriremo fra poco: ma se voi morite dubitando, e poi vi trovate nell’inferno… ohimé! ohimé!… fate… fate una troppo cattiva giornata!… Pensatevi bene!… tremenda giornata, che comincerà per voi l’eterna disperazione dell’inferno!… Guai! guai! a chi l’avrà da provare prima di crederlo. — Veh quibus prius experienda sunt, quam credenda (Eusebio, Emiss.). – Ora io lascerò gl’increduli, piangendo per loro. Mi consolo con voi, fratelli: noi spireremo (ho fiducia) nel Costato di Gesù nel Sacramento, intorno a cui stiamo tutti raccolti; e il giorno della beata nostra morte sarà il giorno senza tramonto della beatitudine eterna con Dio. Buon Gesù, Signor della giustizia e della misericordia, noi col cuore impaurito sul vostro amatissimo Cuore mediteremo in prima l’inferno, col fuoco dell’ira della giustizia divina: poi mediteremo nell’inferno la disperazione di aver perduto il paradiso e Dio per le miserie dei nostri peccati: infine vi mediteremo la disperazione dell’eternità. O Maria Santissima, Voi che vedete noi poveri vostri figliuoli qui sospesi sopra l’abisso d’inferno, teneteci voi tra le vostre braccia, fin tanto che… ah sì, sì, non ci abbiate messi salvi in paradiso! Eh, coraggio, o fratelli! Quando pur vi spaventassi, me lo dovete perdonare; anzi, mi dovete voler bene, come si vuol bene alla madre, allorché porta proprio sul focolare il bambino arditello colla faccetta fin sopra il fuoco; poi gli fa stendere la manina fino rasente alla fiamma, e quando il bambino mette lo strido: Ah, mamma, abbrucia!… la mamma sel porta via baciandogli la mano, e gli dice. coi baci: Bambolo delle mie viscere, sta lontano dal fuoco!… Per simil guisa l’inferno sarà per noi un castigo, che il Signore ci minaccia da padre, per non avere a darcelo da giudice; e stando noi stretti per terrore insieme sopra di esso, io vi bacerò sul cuore a tutti, gridandovi: figliuoli, figliuoli miei, al paradiso, al paradiso! Cader nell’inferno vuol dire cadere nelle mani della giustizia di Dio per la tremenda vendetta. Quanto è orrenda cosa cadere nelle mani della giustizia divina! Udite: Nei primi tempi gli uomini, quasi fosser giganti da sfidare lo sdegno di Dio, con atri delitti provocavano la sua vendetta. Dio guardò il mondo nell’atto del suo sdegno, e mandò il diluvio universale ad affogar quella carne di peccato infangata; tanto che il mondo fu ridotto ad un ammasso di cadaveri nel fango. Altra volta l’orrida puzza di carnalità in osceni delitti Sali fino al firmamento, e provocò ancora la giustizia di Dio. Lo sdegno di Dio fece piovere fuoco sugli impuri; sterminò le cinque città, e sprofondò la Pentapoli in un tetro lago, che tuona furente ancora tra le sue rive abbruciate sopra l’onde nere; quanto è tremenda la vendetta della giustizia di Dio! E si che sulla terra non cadono che alcune stille della vendetta di Dio: Stillabit furor Domini. Ora, che mai sarà nell’inferno, dove in ispirito di tempesta si rovescia, come rovinoso torrente di zolfo, il fuoco del furore di Dio? Ignis et sulphur et spiritus procellarum (Ps. XVI, 8 ); ignis furoris Dei? (Ez. XXII, 21). Questo fuoco del furore di Dio investe le anime sciagurate, le compenetra tutte, e, diremo, le sostiene come il corpo le sosteneva nella vita umana; e con esse s’identifica, quasi loro formasse proprio una persona di fuoco. È troppo terribile questo pensiero! Noi qui non possiamo fermarci una idea adeguata di quei tormenti che debbono essere infiniti; poiché i dolori della vita nostra qui non possono essere senza misura. I dolori che soffriamo nel nostro corpo sono limitati dalla stessa poca forza, che hanno le parti del corpo di resistere alle impressioni dolorose, quando queste siano, per esempio, da un colpo di pesante martello, da tagliente lama di coltello, o da un carbone ardente disorganizzate, guastate, disciolte affatto. Allora cessa il dolore. Spiegherò il pensiero con un fatto. Muzio Scevola, quando il re Porsena assediava Roma, penetrato nel campo di lui fin dentro nella sua tenda per isbarazzarsi di quel nemico, piantò uno stile nel petto al suo segretario, scambiandolo pel re al suo più splendido adornamento. Arrestato e tradotto davanti al re Porsena, lì per essere condannato, Muzio Scevola, a fine di spaventare il re con coraggio disperato, guata non lungi un braciere di carbone in vampa; con fremito di rabbia stringe il pugno levandolo contro di lui, e steso il braccio, lo mette dentro ai carboni imperterrito. Ahi! crepano i carboni, si disciolgono gemendo le carni, stridono le ossa, bollono le midolle, s’innalza negro fumo a coprir quell’orrore!… Il re stesso, sceso di trono, pieno di ribrezzo strappa via il suo assassino da quell’orrido patimento. Anche noi fremiamo a tale spettacolo di martirio!….. Per me vi direi: contemplatelo con tranquillità, perché quel sì crudo dolore finisce in poco. Di fatto, abbruciata la mano, il dolore non si sente più. Ma nell’inferno il fuoco tormentatore è sposato all’anima immediatamente, e compenetrato nella sua essenza così, che avvampa ella col fuoco istesso unificata. Come quando essendo una massa di ferro gittata dentro una fornace nel furor del suo incendio vediamo che il fuoco la investe e se l’assorbe, e con vibranti ignicoli la penetra tutta, sicché il ferro diventa rosso, concentra in se medesimo e condensa la forza del fuoco, e avvampa tanto da diventare più rovente che gli stessi carboni ardenti, quasi fosse il loro ardore da esso raccolto e condensato in potenza maggiore; non altrimenti nell’inferno il fuoco essendo coll’anima incorporato, e dall’anima come vivificato, fa provare all’anima dolore tanto grande, quanto è grande dell’anima la capacità. Ora l’anima ha una capacità quanto al nostro pensiero smisurata; e lo proviamo noi che si possono sentire tanti nuovi svariati dolori, quante da tutti i nervi scossi pegli urti sul corpo si posson nell’anima suscitare sensazioni dolorose. E se il corpo nostro resistesse contro ciò che gli s’infigge e gli fa male, né venisse mai consumato, il dolore crescerebbe senza limiti, durando sempre finché dura il corpo per tal maniera maltrattato. Ora fino l’antico Galeno osservava che nel solo cervello siamo capaci di sentire più di mille dolori a cagione dei nervi, che in lui si condensano. Povero quell’antichissimo dotto! Egli non conosceva come i nervi si distinguono a migliaia, ben più sottili di una sottilissima rete, i quali avviluppano il corpo nostro, s’intrecciano incarnati nei muscoli; anzi sono essi che formano insomma l’insieme del corpo nostro sensibile. Dunque a mille a mille può l’uomo sentire i dolori, come a mille a mille sono diversi i modi dei movimenti sconcertati di ciascun suo nervo; e debbe quindi sentire l’anima nostra acutissimi i dolori, finché il dolore stesso non consumi i nervi. Pensate ora voi, se vi dolesse un dente di quello spasimo di dolore atroce, che per poco fa impazzire nel furore il povero sofferente, e se nell’istesso istante tutti i denti vi dolessero di quell’atrocità, che si sente sotto la tenaglia; atrocità che cresce tanto, e crescerebbe sempre, finché non restasse estirpato; se poi, mentre il povero sofferente spasima forsennato così, un altro tormentatore crudelissimo nell’istesso momento gli piantasse i chiodetti sotto le unghie; e in quel punto un altro gli conficcasse punte di ferro roventi nelle pupille, e gli si lacerassero le viscere e tutte le carni in tutta la vita…. Ah! Dio buono! salvatelo voi da quel mare sconvolto di tanti tormenti atroci, da far disperare il pensiero….. Aiutiamoci noi in quest’orrore con un’immagine. A Roma, nella chiesa di S. Stefano, detta La rotonda, gira un colonnato di dentro; tra tutte quelle colonne in cerchio sotto gli archi, nello sfondato di altrettante cappelle, stanno dipinti a vivissimi tratti i più spaventosi martirii che si fecero soffrire ai Santi. Chi si pone nel centro, e in quegli orrori gira lo sguardo atterrito, sente un brivido di spavento alla vita! Difatti, se voi da quel punto da cui guardandovi intorno vedeste qui i martiri schiacciati sotto due macigni, in modo che loro escano gli occhi dalle orbite e le viscere dal ventre; là appresso vedeste strappare con tenaglie i denti e le unghie, mentre si versa loro in bocca il piombo liquefatto, che viene fuor giù per terra colle intestina in ceneri; e più là nei petti squarciati divorare le belve le carni dei palpitanti in agonia… Ah! non andiam più oltre; ci fa troppo ribrezzo, e rifugge il pensiero da quegli orrori!… Eppure fate ragione, dice s. Giovanni Grisostomo, che e ferro e fuoco e belve non sono neppure un’ombra che valga ad esprimere quel fuoco tormentatore: Pone ferrum, ignem et bestias; attamen umbra non sunt ad illa tormenta (Hom. 34, 28 Mat.); per poco dobbiamo pensare che, come fa intendere s. Tommaso, se si presentassero tutti questi tormenti da soffrire ai dannati, si getterebbero con furore in quegli spasmi, e sì parrebbe loro in essi di riposare. Eh,signori, sprofondatevi in quella disperazione, come se vi foste già precipitati, per non precipitarvi mai, mai! E chi di noi potrà abitare incatenato in quel fuoco divoratore, senza mai consumarsi? Quis poterit de nobis habitare cum igne devorante? (Is. XXXIII, 11). Noi!… che metteremmo un mondo sossopra per levarci un incomoduccio? Voi, a cui manca l’animo al sentimento di un dolore, che continui? Voi, o delicate, che se un pulcino in pigolio di duolo vi morisse sulla palma della mano, ah vi farebbe svenire del cuore? Noi doverla durare in quel fuoco, che abbrucia fino il pensiero, e fa cadere atterrita l’immaginazione? E riflettiamo, o fratelli, che quel fuoco scruta le anime, perché è fuoco della giustizia e del giudizio di Dio: Igne iudicii (Job., XX, 18), e fa scontare ad uno ad uno i nostri peccati; che quel fuoco sa distinguere chi più peccò da chi peccò meno, e che al senso che più peccò più atroce applica il tormento!… Oh vada nell’ebbrezza della passione, per continuare ad ingolfarsi sempre più nel peccato, vada a dire lo spensierato: un peccato più, peccato meno, posto che mi danno, è l’istesso. Tristo a te, sciagurato! Che dici tu mai?… Un peccato di più importa un inferno di tormenti di più. In quello scontare così atrocemente ad uno ad uno tutti i peccati, il dannato dovrà percuotersi il capo, mordersi le mani al tremendo rimorso di essersi dannato per ciascuna propria colpa: Luet, quæ fecit omnia. Poniamoci ora a meditare la disperazione di aver perduto Dio e il paradiso per le miserie dei nostri peccati; e, per comprenderla alquanto, immaginiamo un’anima sopra morte nell’ultimo anelito dell’agonia. Tremendo istante! tutte le cose del mondo le sono sfuggite d’intorno; in silenzio di morte, in pauroso tenebrore spira l’anima; e dal limite del tempo si trova balzata nel mondo della eternità, in peccato mortale!… Ahi!… piomba in inferno!… Al lampo del vero svelato l’anima conosce Dio in se stesso… Oh che paradiso è mai Dio! Ella si slancia a Lui che è il sommo Bene; ella non può stare senza di Lui; ma Dio la ributta. Chiama, e (S. Agost. Seom. ad arem.) nessun le risponde; grida, e nessuno l’ascolta; agogna furiosamente di sommergersi nella beatitudine di Dio, e viene sprofondata nell’abisso della disperazione tra tutti i mali; smania furente, vuol essere felice in cielo, e si trova inabissata in un mar di fuoco nell’inferno; s’allarga nella capacità di posseder tutto Dio, e si trova compenetrata da tutti gli spasimi dentro del fuoco. Orrenda posizione! L’anima misura allora tutta, per tutta l’eternità, la disperazione di aver perduto il paradiso e Dio. Perdere Iddio è così già una pena infinita, al tutto, quanto è infinito Iddio, dice sant’Agostino (De Civ. Dei, c. 28). Perdere Iddio ?!… vuol dire perdere il sommo Bene necessario; vuol dire essere decaduto dal possedimento di tutti i beni; e, perdutane ogni speranza, trovarsi nell’orrida certezza di non aver che tutti i mali. Almeno qui, anche quando viviamo in mezzo dei mali, che ci tormentano molto, la sola speranza di aver poi un po’ di bene, ci fa respirare alquanto; e questo pensiero lusinga la povera nostra immaginazione. Dall’altra parte il sommo Bene, restando qui per noi ancora. velato, come dice s. Paolo, non ci strascina colla foga della necessità a cercarcelo in Dio particolarmente. Eppure anche costaggiù sulla terra, quando Dio si svela in grazia ad alcun’anima privilegiata, rapisce quest’anima a sé sommo Bene; così, che il sol pensiero di poterlo perdere ancora, la fa fremere terribilmente. S. Giovanni Grisostomo con quel suo genio sublime, con quel suo cuor così grande, elevatosi insino a Dio, da Dio poi si abbassava col pensiero nell’inferno; e di là balzava via fremente, correndo come forsennato per la sua casa colle grida: Ohimé!… Alle sue grida accorrono atterriti i suoi famigliari: O padre, gridando, che è mai che vi fa spasimare crudelmente così?… Oh Dio, oh Dio, ei ripeteva in singhiozzi a loro, io posso perdermi ancora; posso dannarmi, lontano da Dio, perduto per sempre?! Ohiméè!… ohimé!… S. Francesco Borgia, che tutte le sere (proprio tutte le sere, o miei cari fratelli), faceva un’ora di meditazione sopra l’inferno, un dì, addentratosi profondamente col pensiero in quella terribile disperazione, sentì tal tremito in tutta la vita, e si dibatté sì fortemente che faceva muovere il solaio della celletta in cui meditava, gemendo acutamente: povero me! chi mi salva?… Accorrono i religiosi, per soccorrerlo: O padre, gli dimandano tutti solleciti, o padre, che mai vi sentite? come possiamo aiutarvi? E il Santo in tale fremito di convulsioni: M’avete da domandare che mal mi sento? io sento l’orrore di poter perdere Iddio! Oh Madre mia, Maria; io muoio, se penso che posso perdere Iddio!… Deh pensiamo là (quando, conosciuto che lo avremo, ci sforzerà la necessità di immergerci nella beatitudine divina), se ci dovessimo dibattere nella disperazione di avere perduto il paradiso di Dio, per restar dannati in inferno! L’anima dopo il giudizio anche col corpo dannata, con quegli occhi di fuoco su a cercar la luce del cielo, e non vedere che truce bagliore di inferno!….. Di là da quell’abisso a slanciarsi colle braccia allargate, come il cuore, nel mare della beatitudine celeste; e sprofondarsi nel fuoco eterno!… Essa entra in furore contro se stessa! Si strappa colle mani roventi gli occhi; ma gli occhi vedon tuttora! si rode con denti infocati le carni e le ossa; ma rinascono ognora! si tuffa furiosamente per cercare la morte; ma vive sempre ancora di quell’orrenda vita, che la terribile parola di Dio chiama la morte eterna!… Sciagurato! Te l’aveva pur detto il predicatore, che in quell’occasion di peccato!…. dal fianco di quell’orribile creatura saresti….. Ah, ripete il dannato: sono pur troppo precipitato nell’inferno! — Tristo! ti correva pure appresso il buon Parroco, e ti gemeva dietro, e ti richiamava piangendo a far la Pasqua; perché se tu morivi senza Sacramenti!… e il dannato risponde a quella voce in sé stesso: orrenda quella mia morte! così son caduto in inferno! — Infelicissimo! Ti stringeva nel petto il Confessore supplicandoti a calde lagrime di cessare per carità da quel mal abito di continuo peccato!… di troncare di un colpo quella catena!… — eh no, urla il dannato, non cessai il peccato, e la catena m’ha strascinato in inferno! — Te lo dicevano i Sacerdoti più illuminati e gli uomini di virtù più soda: che se morivi scomunicato!… ahi son morto, ripete mordendosi nel cuore di quell’orrida morte e son dannato in inferno! Maledetti quegli amici, quei giornali del partito del proprio interesse, gli empii per mestiere, che mi han fatto perder la fede! Ah… il maledetto son io; sì, son io, che ho voluto dannarmi! E che mi valse quella roba mal acquistata! Quei piaceri che passarono via più rapidi della folgore!… Per aver gustato quegli assaggi di dolcezze, che ora mi fan tanto schifo e ribrezzo, son dannato per l’eternità: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!.. Gemeva così nell’ansia sopra morte il buon Gionata. Udite il fatto: Questo guerriero ispirato attaccò di notte i Filistei, che gli fuggivan davanti alla rotta, e li batteva inseguendoli. Allora il re Saulle, suo padre, spinge tutto l’esercito a compiere quella vittoria. Era il momento di coglierla, se si battevano ancora in sul terminare della gloriosa giornata. Saulle fa suonare le trombe, a rinfocar la battaglia col grido « vittoria, vittoria a momenti!… Pena la morte a chi gustasse cibo prima che l’abbiam compiuta. » Gionata alla testa de’ suoi prodi nel furor del combattimento batte i Filistei inseguendoli dentro un bosco; e tutto bagnato di sudore, com’era, e di sangue, in quella foga vede dal cavo di un albero un favo stillare fresco e limpido miele. Si risente allora, che l’abbruciava la sete; vi stende la spada, e con una goccia di miele sulla punta bagnasi il labbro trafelante in quello ardore; e continua a battersi ancor più rinfocato. Compiuta la vittoria, si suonano le trombe a raccolta; e sono i capitani adunati innanzi alla tenda reale a render conto ciascuno della loro fazione eseguita. Ma oh! si trova che Gionata avea assaggiato quel po’ di miele contro il divieto! Al tutto al tutto fu forza al padre condannarlo alla morte!… Ebbene, la storia dice che, quando gli sgherri gli serravano le manette ai polsi, quel guerriero, terrore dei Filistei, tremava tutto, e, piangendo come una femminella, gemeva: o povero me! Deh fossi morto nel fervor della mischia al varco; dove i Filistei mi appuntavano le picche a petto; ed io mi slanciai sopra, e li ho schiacciati! fossi caduto quando, duellando nello scontro del duce nemico, mi vibrava quel bravo così ben misurati colpi, io sarei caduto col brando alla. mano e colla gloria in fronte di chi muore per la patria e la Religione; invece infelicissimo! gustai una goccia di miele vietato, e vado a morire per questo: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!… » Il pensiero di morire di morte disonorata per così poca cosa l’aveva così fattamente abbattuto, da non potersi più riavere! Buon per lui, che il popolo alza le grida in tuttol’esercito « grazia al duce nostro Gionata, a cui dobbiamo la grande vittoria! » e fu deliberato. Ma il dannato è là col rimorso di aver perduto il paradiso e Dio per le brutte miserie dei suoi peccati! « Maledetto a me, urla quel re o capitano famoso per le sue vittorie, io portai sulla fronte altéra un alloro bagnato di tanto sangue cristiano; ma la corona mi è caduta per terra appassita alla morte, e mi trovo col capo giù fitto nel fuoco! Maledetta a me, stride la signora della gran vanità, tra i sorrisi e le moine de’ galanti, gustai il dolce di quel ballar svergognato; passò in un istante quell’aura che mi accarezzava fuggendo, e mi trovo dannata coi demoni per sempre! Disgraziati noi, dicono tanti, gustammo brutti piaceri; no, che non li gustammo! passaron via nell’assaggiarli, come la folgore passa scoppiando; è una goccia di miele schifoso che svaporò sulla punta delle labbra; ecco. che per quei peccati ci siamo dannati: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!… A questo pensiero il dannato smania in rabbioso furore contro se stesso, morde nel proprio petto, squarcia le proprie viscere, cerca nella propria coscienza il verme che lo rode del rimorso di essersi voluto egli stesso dannare, e stringe tra lebranche roventi il cuore, per strozzare quel verme. Ma l’Evangelo grida tremendo: Vermis eorum non moritur; ma il verme del rimorso non muore, lo tormenta nella più disperata eternità! Ah via ancora, o fratelli, ripigliate con me coraggio in questa meditazione; e col sentimento vivo vivo di quell’immensità di dolori, col dolored’aver perduto il paradiso, col rimorso straziante d’aver comprato coi peccati l’inferno, immergiamoci col pensiero nella disperata eternità dell’inferno. Inferno di tormenti!… disperazione per tutta la eternità!… che paurosi pensieri!… sempre dannati in quella atrocità di spasimi?!… Il sempre opprime il nostro pensiero così, che, fin ancheun piacere che s’immaginasse durarci per sempre, ci soffocherebbe l’animo. Difatti, immaginatevi, dopo una lunga fatica, di riposarvi con piacere sopra un letticciuolo, come di rose in un gabinetto brillante d’oro e di splendidi specchi infiorati di gemme, in cui vi fosse dato godere d’ogni lautezza;tutto ridesse d’intorno a voi. In quella pace, mentrevoi godete col pensier vostro, se vi piombasse sul cuor la sentenza: siete condannati a restar lì per sempre!… Per sempre? Tutto il bello svanisce d’intorno, splendor d’oro, di specchi, di gemme efiori, tutto vi si impallidisce d’innanzi, vi angusti il letto, tutto s’annegra e vi mette in cupa malinconia; perché quel piacere ha da durare per sempre. Pensare poi che un acuto spasimo dovesse durar per sempre, ci fa tremare il cuore. Provate, quando siete nella smania per un atroce dolore di denti, a pensare: se durasse per sempre; andremo in terrore per troppa pressura d’affanno. – Per fermare qui il vostro pensiero che rifugge da tale immaginazione, sentite un fatto, di cui si hanno tanti testimoni e fino popoli intieri accorsi allo spettacolo che videro, a dispetto della difficoltà di credere miracolo tanto straordinario. S. Simeone Stilita, per fuggir dall’inferno, elevato sempre al pensiero del paradiso, si condannò a viver sempre sul capitello di un’alta colonna in mezzo al deserto, esposto al sole, ai venti, alle tempeste. Là sempre col cuore al cielo anelando, si vide comparire davanti un carro di fuoco, ed un, che angelo pareva, lo invitasse a montar sul carro, per portarlo al paradiso. Simeone in quell’ardore che vel rapiva, alza il piede facendosi il segno della santa croce… La visione disparve… E Simeone tutto sdegno contro se stesso: « Ah peccator disgraziato, esclama; pretendevi dunque di volar in paradiso sopra un carro di fuoco? Ben ti darò io la penitenza!…» Si condannò a restar sempre col piede a mezz’aria, in atto di montare sul carro per tanti giorni, che gli venne a marcire la coscia! Che patimento! Oh miei cari! pensiam piuttosto nell’inferno, disperazione di restare là ad abbruciare nel fuoco per sempre!… Il sempre dell’eternità non è possibile di potercelo immaginare…….. Deh pensate qui ad un infelicissimo che sia condannato a subire la morte fra pochi giorni. Egli là sul giaciglio in fondo della secreta, col capo sulle ginocchia, i capelli tirati su gli occhi tra le pugna che rode….. Conta i giorni… dimani l’ultimo dì… orribile quest’ultima notte!… Batte la mezzanotte; quel colpo dell’ora è un colpo di folgore che lo percuote… a sei ore, muggisce tra i denti, sono strozzato!… Gli si annegra il pensiero, in quella tetraggine gli balena sugli occhi la scure che gli è vibrata… sente il colpo… no… è il colpo del fatale martello che batte già un’ora… poi due ore… poi tre!… Balza in piedi, per fuggir dall’ultima ora, che gli rapisce la sua esistenza! di due passi concitati, si contorce, si serra tutto in se stesso coi denti sulle pugna serrate fino alla gola. Guata cogli occhi orribilmente sbarrati, quasi avesse la morte alla strozza!… batte i piedi in atto feroce e sta… origlia… Oh! rumor di gente?! Son gli sgherri già sotto al finestrino che preparano l’esecuzione!.., Oh! il cigolio di un carro? E il carro che viene per portarlo al patibolo!… No, no, non vuol morire!….. vaneggia, frenetico fugge col pensier dalla morte, che lo divora; ma col pensiero sale il patibolo!… ritira dalla scure il collo!… ahi gente il colpo!… Si salva ancora! ma trucemente guata, come se vedesse ai piedi la propria testa rotolar sul palco, fissa cogli occhi di fuoco negli occhi spalancati del capo tronco!… Là, respiriamo, fratelli, ché la sua morte fu un colpo, che appena sentito era passato! Dunque la sua morte fu un mal da niente. Oh, voi rispondete: ma restò morto per sempre… A noi, a noi, fratelli miei, sta già spalancato sotto i piedi l’inferno! ogni anno è un’ora veloce che ci rapisce la vita. Non corriamo, no; son i battiti del cuore che ci precipitano alla morte. E l’agonia, tutte le cose intorno a noi rovinan via confusamente, già c’ingoia l’eternità! Ah, se l’eternità sarà per noi l’inferno!… Che terribile momento al primo piombar nell’inferno!… in quella disperazione è impossibile che regga l’anima, e cerca buttarsi fuori… Oh è la notte d’inferno!… Qual notte?… La prima notte nell’eternità dell’inferno! Guata a destra ed a sinistra con uno sguardo, che è un fulmine, vuol misurar l’orbita della giustizia eterna; ma non l’arriva!… Si butta sopra i secoli, che immagina, si accavalcan davanti sconvolti; ma la travolge perdutamente il vortice dell’eternità. Come il povero naufrago, quando da un colpo di mare in tempesta spezzata la nave, si sprofonda nell’abisso dell’acqua; egli si slancia nel mare. Un’ondata gli irrompe nel petto; ei d’uno slancio la sorpassa; un’altr’onda lo sommerge alla gola; ed ei sbuffando la rompe. Altre onde lo investono ai fianchi; ei spezza l’una e getta l’altra in isbieco di dietro snervata. Quando ruggendo sopra esse un flutto più rabbioso gli si infrange sul capo e l’ingoia. É sommerso!… no, ancor appar là, che a fieri colpi battendosi si sostiene sopr’acqua, e sul dorso del flutto maggiore s’alza impettito e guata!… A un’onda vede appresso altre onde; dall’uno e dall’altro fianco sempre onde appresso ad altre onde, e guarda indietro, non vede che onde, e lontano lontano le onde che crestate di bianco si confondon coll’altro orizzonte sul negro cielo in bufera! Disperatamente si dibatte! Ma si sprofonda snervato; pur si batte ancor dentro l’abisso, mentre resta affogato! Così il dannato nel mar di fuoco si batte furente cogli anni che egli così immagina nel baratro dell’eternità. Ho da restar qui, dice urlando, un anno! Che disperazione, un anno d’inferno! Col pensiero furente lo passa. E poi ancor dieci anni! Ei li divora con tutta la rabbia. Poi cento anni, e trangugia tutta la disperazione di cento anni d’inferno! Poi mille anni e mille mille anni! ne prova tutta la disperazione dei mille anni! Adoperate adesso le solite immagini creando col pensiero tanti mila anni, quante sono le foglie di tutte le piante; tanti mila anni, quante le goccioline di tutti i mari; tanti mila anni, quanti i granelli di sabbia di tutta la terra. E il dannato travolto in quei milioni di anni del tremendo vortice dell’eternità, vi ripiomba in fondo, e in ogni momento sente tutto il peso della disperazione di tutta l’eternità. L’eternità pesa tutta su un solo momento: Æternitas tota in uno puncto, dice s. Agostino. L’inferno sta massimamente qui; con tutti i mali la disperazione sotto il pendolo dell’eternità che batte sempre!… non mai!… sempre dannato! né fine mai… Sempre in quel fuoco, né cessa mai! Miei fratelli, sempre in inferno! trasvoliamo veloci sopra mille e mille anni e sempre mille anni che non cessano mai. Sempre! non mai! mi si annegra l’immaginazione! cade il pensiero sprofondato in troppo terrore; e sopra l’abisso d’inferno, ahi ahi sudo freddo alla vita! Ah, che il mio pensiero si perde!… Corro furioso tra voi, miei figliuoli, urlando « correte in braccio a Gesù per salvarvi dall’inferno! » Racconterovvi un fatto qual lo raccontano alcuni storici. L’imperatore Zenone aveva una bellissima sposa, Adriana, che amava tanto; ma, dicono, l’imperatrice era bella come un angelo, cattiva, perversa come un demonio; la perfida tramava di perderlo. I principi di corte, scoperta la trama, avvisavano del tradimento l’imperatore. Zenone inorridì all’avviso; ma ritornando alla reggia si vede davanti l’imperatrice nello splendore della sua bellezza; e svanito lo spavento: è tanto bella, esclama, è impossibile che sia cattiva. Va, t’affida, perché è bella! Gli amici più fedeli, penetrati mel gabinetto, assalgono al cuore Zenone: Imperatore, vi giuriamo, l’imperatrice vi perde; in lega col generale vostro nemico ormai vi circonda Costantinopoli coll’esercito in rivolta!… Imperatore, forse fra pochi giorni voi perdete coll’impero la vita! — L’imperatore spaventato ritorna ad Adriana; e al guardarla nelle attrattive più lusinghiere: noiosi, esclama, quei troppo zelanti amici! L’è tanto bella, è impossibile che sia cattiva. Va là! va là!… Un giorno, mentre sì adorava dinanzi la tanto cara imperatrice; ecco oh! salta fuori dal cortinaggio del trono un sicario, che gli si slancia col pugnale alla vita! L’imperatore mano alla spada; ma due braccia di ferro gli serran le braccia di dietro! L’imperatore fa di gridare: all’armi! Ma una mano gli chiude la bocca e lo stringe alla strozza; e tutti intorno tanti assassini ad afferrarlo. E l’imperatrice? Eh, svolta via e dispare!… Stretto tra quei feroci vede guizzarsi sugli occhi uno stile, e glielo piantan dentro nella pupilla d’un occhio! E glielo cavano crudelmente a bell’agio. L’imperatore in orrido fremito guizza come un lampo guatando con l’altro occhio insanguinato… ah, si vede drizzar la punta dello stile nell’altr’occhio, che gli viene con crudo strazio cavato! Sente abbavagliare la bocca; stringersi di corde tutto d’intorno, al collo un capestro; e d’un urto è buttato per terra. Povero imperatore! con una corda al collo lo strascinan fuori dalla reggia giù per lo scalone battendo sui gradini la testa. Strascinato fino al pianerottolo, nello svolto aspetta il colpo di morte. Ma lo strascinano ancora giù dall’una all’altra scala fino (s’accorge anch’esso alla fredda atmosfera) nei sotterranei! Buttato là in fondo, sente smover coi ferri un gran sasso che copriva il sepolcro secreto. Ed egli in quell’angoscia tremenda si dice in cuore: preparan già il sepolcro da mettermi dentro… Quando sentesi sollevare da terra… egli aspetta il colpo… Ma, oh gli si taglian tutto d’intorno le corde! Egli mette un grido, allargando le braccia, ahi piomba dentro al sepolcro!… Sente la lapide che piomba a chiuder la tomba « son sepolto vivo!….. » esclama… E gira in quell’orrore le braccia! tocca cadaveri che s’infrangono sotto le mani! Fa un passo… si sprofonda dentro di essi! risalta contro il sasso sopra la testa; e ricade nel putridume! cerca le pareti tastando intorno intorno, vi si getta contro per arrampicarvisi, e ricade! S’arrampica su per l’altra parte e ripiomba! Si slancia ancor più furioso a salir su quei muri; si urta colle mani e col petto su, giù battendosi contro essi; ma ricade senza speranza! Affrante cerca ancora sforzarsi!… Deh, deh non mi domandate come fu trovato alcuni mesi dopo! Aveva alle mani le palme consunte fatte bianche ossicine, le vesti consumate sul petto e le costole spolpate dal tanto batter su contro il muro!… Oh Dio! quanti tormenti là!… Miei fratelli, vi spaventa troppo all’immaginarvelo?… Io pure son tutto atterrito!… Ma calmiamoci; sono tormenti da poco, perché ben presto dovette morire!… Però, intanto quanti spasimi in quella disperazione per quel poco tempo!… Ma deh deh, se morendo siam noi sepolti in inferno!… Deh, fate a voi dunque la carità di mettervi in salvo… Uditeci, uditeci; noi vi gridiam pure forte; noi atterriti vi spaventiamo… Oh quanto vi piangiamo appresso per avvertirvi che con quella persona, con quella vita, con quei furti coperti, con quella roba scomunicata… voi, ancor per poco, e siete traditi in inferno. Voi dite pur anche talvolta col yostro buon cuore « il povero padre che ci avvisa ha ragione! » Ma poi tornate in quell’osteria, in quella casa la sola vista della persona solita vi fa uscire di capo; e volendo fermarvi in mezzo a quel tradimento, per poco che non ci diciate:… tristi di preti! e perché ci gridate tanto appresso? — Perché?… perché non vogliamo lasciarvi dannare! Intanto vi sorprende come un assassino la morte; già vi strozza, tutte le cose più care vi vanno in dileguo, s’annegra la vista: siete nell’ansia dell’agonia… aspettate il colpo… la morte vi percuote… vi slanciate nell’eternità… in peccato mortale!… siete dannati in inferno per sempre… Salvatevi, salvatevi; siete ancora a tempo!… L’inferno! miei fratelli, ci è dunque spalancato l’inferno; e noi vi pendiamo sopra! Ora diceva san Tommaso: io non so comprendere come si possa credere l’inferno, ed essere in peccato mortale, e quindi sentirsi urtare a piombarvi dentro continuamente; e sì possa intanto dormire tranquillo una lunga notte sull’orlo dell’inferno, senza cercare subito per ispavento di rimettersi in grazia di Dio. Vi è l’inferno, è verità di Dio; e un peccato mortale può precipitar l’uom nell’inferno! Dunque dal primo peccato mortale, dite tutti in voi stessi, che io avessi da tanti anni commesso, potrei essere per tanti anni disperato nell’inferno! E se fossi da tanti anni in quella disperazione! e mi apparisse, ìl che non può essere mai, un Angelo nell’inferno; e mi invitasse ad uscire da quella dannazione, per ritornare nel mondo qui, e cercare di salvarmi in paradiso; con qual furore non mi slancerei fuori d’inferno, per incamminarmi a tutta possa sulla via del paradiso?!… con qual diligenza non vorrei frenare la lingua, mortificare gli occhi, castigare la carne, che mi volesse strascinar nell’inferno? Ricevere i sacramenti per santificarmi pel paradiso?… Al tutto al tutto, griderei sempre, voglio assicurarmi il paradiso. Se poi appena fuori dall’inferno, incontrassi sopra via quella maledetta persona, che mi fece cader nell’inferno, vorrei urlare infuocato: Va, va lontano da me, brutto demonio; che mi avevi tradito e traboccato in inferno!… io ho provato l’inferno! Se appena fuori d’inferno, passando lungo la strada vedessi la porta dell’osteria o di quella casa, in cui la cattiva occasione mi fece andare dannato: ecco, ecco, griderei con tutto furore, quell’orrenda bocca d’inferno! Eh, come fuggirei alla larga da essa lontano! Perché ho provato l’inferno!… Se mi venissero incontro gli amici da buon tempo, che mi hanno fatto perder l’innocenza, mi hanno fatto perder la fede, mi menarono in quella via di peccato, per cui sono già andato a dannarmi; per poco che io non mi slancerei per… « Là via via, o maledetti! io starò più volentieri nel fuoco che in compagnia di voi! Perché ho provato l’inferno! Tanto, se l’avessi provato per giustizia di Dio! Ed ora perché non lo trovai per sua grande misericordia, sto tranquillo; anzi, ballo allegramente e come cogli occhi bendati sull’orlo dell’inferno; lì per cadervi ad ogni piè sospinto! Anzi orribile tracotanza! provoco lo sdegno di Dio a cacciarmi dentro coi miei peccati sulla coscienza, qui sopra quel fuoco, che già mi assale per divorarmi vivo? – Vi è l’inferno, verità di Dio! un peccato può precipitar l’uom all’inferno. Dunque quando si ha un peccato mortale sull’anima, ad ogni momento si può di un colpo essere precipitato giù nell’inferno… Voi sapete come le vipere stanno d’inverno accovacciate sotto le radici di rovi, assiderate dal gelo. Fate di tirare fuori di sotto la ceppaia la vipera, e raccoglietevela in mano. Che bella bestiolina è mai la vipera! Contemplatela sulla vostra mano; arrotondata nella propria vita, si tien protetta sotto in mezzo la sua testina, si passa sopra la coda a legarsi; che bel gruppo grazioso!… Ma voi a me: padre, che dite mai? la vipera è così bella?… eh fa ribrezzo solo al pensarla. — Ma io vi rispondo: questo, miei cari, è un pregiudizio. Se voi la contemplate per bene vi debbe comparire amabile, più che io non vi dica. La vipera ha un bel grigiolino lungo la vita che gradatamente si sfuma sotto la gola cangiantesi in colore di rosa sanguigno… è una grazia a vederla; accarezzatela… Eh via, non perdete l’opera in queste belle parole; non farete mai che la vipera non ci faccia ribrezzo. Vi replico, è un pregiudizio. Fate di vincerlo, e nel coricarvi stanotte mettetevi sul petto la viperina… È vero che, se si ridestasse, vi darebbe col morso la morte; fidatevi pure, è fitto inverno, non si ridesta sì tosto; potete tenervela forse ancor un mese addormentata sul petto… — Ah perdonatemi! Se con questa viva immaginazione vi addormentate, voi trasognate stanotte; e vi parrà nel sonno sentirvela sul petto contrarsi e vermicolare in sussulto e lasciarvi cader giù al fianco la coda. Allunga il collo… serpeggia mollemente sul petto… scorre giù alla vita… ahi che mi morde!… stridete svegliandovi atterrito; e colla mano tastate sul letto ad assicurarvi tremando che un sogno sia sì veramente. Ah vi mette tanto orrore dormir colla vipera addormentata sul petto; e dormite poi col peccato e fino in sul dormire ve l’accarezzate e lo suscitate a ridestarsi, affinché quasi vi sorprenda tra il sonno e la veglia tranquilli, anche che possiate morir in quell’ora!… Ma, se vi si dà il colpo di morte?… Dio santissimo! nella morte piombate in inferno! Verità di Dio! grida qui s. Leonardo, si può essere in peccato mortale addormentato nel più stupido sonno; e sentir il colpo di morte improvvisa… ed aprire gli occhi e trovarsi all’improvviso sepolto coi demoni nell’inferno per tutta l’eternità! Pensatevi sopra… è un pensiero che vale una predica… Dunque, ogni movimento del cuore che pur batte sempre, coll’ultima sua battuta in peccato vi piomba in inferno!… Dunque, può un sospiro cominciare sul letto e finir nell’inferno!… Ma oh, se io tremo, come una madre, che qualche spensierato non mi si precipiti in perdizione!… Ecco Perché vi trattai come la madre. Quando la buona vede il bimbo suo spensieratello saltellare sul parapetto del pozzo e colla mano agitare sull’acqua la catenella! Essa forse grida per ispavento? no; lo farebbe scivolare dal sasso! ma va adagino alla larga al pozzo di dietro e sporge un occhio alla svolta del muro, allarga le braccia, e… fa un salto alla vita. Ahi che cado! stride il bimbo! Ma la madre l’ha stretto sul seno, e se lo porta via; e gli dice coi baci tremando: sta lontano sempre dal pozzo! Anch’io mi slancio tra le vostre braccia atterrito, vi grido: fuggite, fuggite dall’inferno… su via con me, vi voglio tutti in paradiso. Verità di Dio! Ma se vi è l’inferno che minaccia ingoiarvi; ci aspetta però anche il paradiso. Deh deh, vorrei gridarvi intenerito alle lagrime da non ne poter più; perché vorrà qualcuno andar sempre su quella strada sulla quale può sprofondarsi nell’abisso d’inferno? Sentite; se potessi vorrei fare con voi, come fece s. Ignazio. Un suo amico tutte notti, passando sopra un ponte attraverso alla Senna in Parigi, andava in casa d’occasion di peccato. Né per pregar che facesse il Santo, di non andar più là, di dove poteva precipitar tutte notti nell’inferno, non ne fu niente. Il Santo, che avrebbe per salvarlo data la vita, nell’ardenza del suo amore, va ed aspetta di notte sotto il ponte della Senna; e vedendo che passava il povero giovane, rompe egli il ghiaccio del fiume, e si getta nell’acqua stridendo coi denti ohiméè!… ohimé!… Ascolta il giovane e corre giù ad aiutare chi mai fosse caduto, e vede… una testa a fior di ghiaccio… Corre, guarda! Oh chi mai?!… Oh Ignazio mio, sei caduto così! e si voleva gettar nell’acqua a cavarlo… Ed Ignazio: Va va, troppo a me così caro, ma disgraziato amico! va a peccare; io starò qui per gridare a Dio nel mio dolore di non lasciarti cadere nell’inferno! — Il giovane esterrefatto: Ignazio mio!… ti giuro che fuggendo da quel pericolo, mi salverò! E fu salvo! Io vorrei farlo per voi; chiedetemi che volete, per farvi fermare sulla via all’inferno! Ma poi potete anche voi, fratelli… si, la potete fare da voi questa prova, che s. Alfonso chiama la prova del senso. Quando siete terribilmente tentati, immaginatevi di essere lì per precipitar nell’inferno… anzi di essere precipitati!… mettete la mano anche sulla fiamma della lucerna, ferma lì, ahi abbrucia… Ancor ferma li; quando la fiammella in isventolio vi lambe sotto… ahi che abbrucia troppo!… — In quel bruciore della fiamma che appena sfiora la mano, dite: Anima mia, anima mia, e tu ti vuoi precipitarmi nel fuoco d’inferno!… Oh se il pensiero è tutto nel fuoco d’inferno!… scappiam via! scappiamo via a salvarci. Ma se vi è l’inferno, verità di Dio! vi è pure per noi aperto il paradiso!… Questo pensiero fermò tanti che sulla strada dell’inferno andavano a perdersi strascinati dai loro peccati, e si salvarono ancora. Questo pensiero spinse tanti a lasciare il mondo e farsi religiosi, a non dar mai indietro innanzi a qualunque difficoltà. Essi fecero ragione alla propria coscienza così, e dissero nel loro cuore: in mezzo a questo nonnulla di cose di mondo, anima mia, dove corri?… Corro sopra una via in mezzo a continui agguati: dopo l’uno un altro pericolo; mi son scavati sotto tanti trabocchetti… posso precipitarvi, e, quando men lo penso, trovarmi nell’inferno… e voi, mio Dio, mi mostrate davanti una strada più sicura!… Convertirmi e anche farmi religioso (eh non è più il tempo! mi si grida…) -Alto là, vi darò io in sulla voce; finché vi è l’inferno e il paradiso, è sempre il tempo di metterci sulla via più diritta pel paradiso!….. Questo pensiero popolò il deserto di penitenti; questo pensiero fece correre tante anime timidette a ripararsi nei monasteri… questo pensiero riempì il paradiso di Santi… Questo pensiero mi trasporta qui qui sopra la bocca dell’inferno; ma trovo sull’abisso spalancato che vuole ingoiarci, Gesù Crocifisso che ce lo chiude colla propria vita, che allarga le braccia per portarci nel Sacramento in paradiso. Date indietro, salvatevi; ché per andare all’inferno avete da calpestar Gesù Cristo, avete da insultar la Madre Chiesa; avete da mandare a male il Sangue di Gesù, non ricevendo o ricevendo male i Sacramenti. Vi butto Gesù dinanzi: montategli sul petto, per andar all’inferno calpestatelo sotto de’ piedi col maltrattarlo, coll’odiarlo, coll’offenderlo nella vostra vita cristiana… No no, nol farete; dovete salvarvi tutti in paradiso.