LO SCUDO DELLA FEDE (219)

LO SCUDO DELLA FEDE (219)

MEDITAZIONI AI POPOLI (VII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE VII.

E dopo la morte?!

Suona la nostra agonia…. S’odono i lenti rintocchi della trepida campana, che par ululi in gemiti simili agli aneliti lenti, interrotti…. del nostro petto, che van cessando…. Sono già cessati! ;… e noi saremo morti. I vivi non sanno fare più altro per noi, che dirci: — Gesù, pel povero morto! Con una insolita pietà che vuol dire: Gesù se lo abbia in paradiso! In paradiso?…. ma se ce l’avremo meritato… E se no? ah se no, saremo nell’inferno!… Qui è finita l’ora di lusingarci. Nel mondo avevamo un’anima da salvare: il tempo della vita non era che un’ora da prepararci all’eternità; e quest’ora passò più rapida che la folgore. Date un’occhiata indietro: fa spavento come gli anni sfumarono via, senza che ce ne siamo accorti. Vi avviene pur sovente di dire discorrendo fra voi: il tal fatto avvenne or sono tre anni: oh no, sono già cinque: no, no, diciam correggendoci, sono già dieci; eppure par ieri! Dunque dopo alcuni anni che paiono ieri, noi ci troviamo come oggi alla morte. È divina la parola: che dice: venit hora et nunc est: viene l’ora della morte… Ma se l’ora è già adesso!… Ecco, ecco si sentono le grida: Lo sposo dell’anima viene. Su, su dunque moviamogli incontro; mano alle lucerne! Ma se le avrem preparate! Via, siam sopra viaggio, urge il partire, accingiamo le vesti, mano al bastone per andare: ma ahi! sulle mosse ci sorprende subito il ladro, la morte. E noi saremo adunque sorpresi alla sprovveduta? Eppure tutto ci avvisa di prevederne l’avvenire. Gli animali par che presentano il prossimo inverno; gli augelli metton piume più fitte, più folte pellicce i quadrupedi; e fino i rettili in quella lor nudità avanti al primi geli si sprofondano nelle viscere della terra a dormire assiderati. Guarda il fico, dice l’Evangelo; se germoglia i grossi, fa segno che vien già l’estate, come le brine sulla testa ci avvertono che viene la morte. Fu ben prudente il villico, dice il Signore, a prepararsi chi l’accogliesse in carità dopo il rendiconto della mal amministrata partita. Noi stessi negli affari del mondo siam tutto calcolo e previdenza: solo pel sommo, per l’unico, pel più tremendo degli interessi, che noi soli riguardano, noi trattiamo alla spensierata, chiudendo gli occhi per gettarci in perdizione; sicché corriamo ridendo fatuamente fino là dove, se un passo moviamo ancora, restiamo traboccati nell’abisso dell’eternità. Eppure tremiamo tutti i di sotto i colpi della morte, che coglie qui e là: chiniamo il capo per iscansare il colpo quest’oggi: e schermitolo diciamo: oh, là! siam vivi ancora! Va bene; ma, se oggi fossimo morti, che cosa ci troviam per noi preparato nell’eternità, chiusi gli occhi? Eccovi il punto da meditare: che cosa troveremo noi dopo morte? quando cioè appena spirati vedremo il nostro cadavere, e raccolto il bene e il mal fatto, ci presenteremo al giudizio, che sentenzierà per noi il paradiso o l’inferno? Signori, io vi propongo a meditare su questa dimanda: — e dopo morte?…. Salvatore Gesù, caro compagno di questo nostro peregrinaggio, voi che state qui nel Sacramento del vostro amore per portarci salvi nel più tremendo dei pericoli, deh aiutateci a meditare come vorremmo dopo morte essere salvati per l’eternità. O Maria santissima, colle più fine cure voi da buona madre provvedete per noi vostri poveri figliuoli già nell’abbrivo dell’eternità, tutto che vorremmo dopo morte averci preparato. Vi preghiamo ora per l’ora della nostra morte (Ave Maria ecc.). – Spirata l’anima nostra, sorgono i gemiti, le strida, gli urli dei nostri più cari per un momento ;… e poi silenzio cupo, come dopo lo scroscio della tempesta, e negra solitudine nella camera della nostra morte!… Noi dunque saremo morti!… E che ci aspettiamo?… resteremo cadaveri abbandonati! Anche re Luigi XIV, il più corteggiato monarca di Europa, sul più splendido dei troni, fatto cadavere venne abbandonato per molte ore nella camera reale, senza neppure il lumicino della mortuaria lampadella. Tutti saranno andati via dalla stanzetta nostra impauriti;… e noi?… e le anime nostre che propriamente siamo noi istessi, ci rivolgeremo indietro a dare un’ultima occhiata al nostro cadavere, il quale lasciamo. li colle tracce ancora spaventose delle angoscie dell’agonia sofferte. Evvi presso un lume da morto per terra, il quale lambendo gli aridi stami, riflette una pallida luce su quel letto in disordine….. Ahi travedesi orribilmente sformato quel volto color di cenere; irti i capelli e madidi di sudore gelato, annerite le occhiaie, gli occhi sprofondati nel tenebror della morte; e la bocca spumante tuttavia dalla pressura dell’agonia… Deh un Crocifisso!… un Crocifisso per carità sopra quel petto agghiacciato! Almeno quando vedremo sul petto tra le nostre mani incadaverite rialzato il Crocifisso, piglieremo coraggio noi, che speriamo di essere allora caduti morti appiè della croce colla nostra carne mortificata e crocifissa in Gesù Cristo. Confortati a questo pensiero, immaginiamoci di gettarci sul corpicciuol nostro morto, prima che si cali nella tomba, con quella pietà che Maria santissima addolorata usava al suo Gesù, quando se l’aveva morto sul petto. Anche noi baciamo di cuore la nostra povera testa: quanti crucci, come le spine, l’hanno trafitta! Solleviamo queste poveri nostre mani cadenti; le furono crocifisse in tanti lavori! O ricchi benedetti, baciate anche voi le vostre mani che sparsero la carità sui poverelli: sono ora come piene del Sangue di misericordia del benedetto Gesù! Baciamo in petto il nostro cuore, caldo ancora dell’ardente palpito con cui ci siamo slanciati, spirando, nel Cuore squarciato di Gesù Salvatore. Diciamogli inteneriti: dormi, caro compagno nei travagli della vita del nostro peregrinaggio; addio, finché lo squillo della tromba nel gran giorno della giustizia universale ci chiamerà a spezzarti i vincoli della morte! Allora ti ridesterai, povera carne mia, rifiorita al trionfo della risurrezione. Là via, lasciamo: ché a fare per noi viene la buona madre la Chiesa, e compie l’ufficio dell’ultima carità. Udite, udite già alla porta… il sospiro di una mesta preghiera… È il Sacerdote che è da Lei mandato a pigliarci questo povero avanzo del corpo nostro cadutoci per terra. Sull’uscio della camera del morto egli grida con un gemito: Si îniquitates observaveris, Domine… O Signore, se tenete conto delle nostre iniquità, chi potrà, Signore, reggere al vostro cospetto? Deh! usate misericordia grande, come la vostra bontà: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. Qui La si piglia su il nostro cadavere, fa precedere a capo di noi il Crocifisso pegno dell’immortalità che cammina in trionfo davanti alla morte, e che, passato il giorno di questi secoli in fuga, ci sarà alla testa nel trionfo della risurrezione. Passa il morto lungo le vie. Ve’: sarà forse il cadavere del più meschinello, disprezzato da tanti quand’era vivente; ora tutti si scoprono il capo in passando, perché sentono cantare che quelle ossa umiliate sotto la croce sono esultanti per la speranza del risorgimento; e tutti glielo implorano con un requiem æternam. Vedete, o fratelli, se non è buona la Chiesa! Come la buona genitrice tiene in freno nel suo ardore la gioventù, affinché non trasmodi: così la Chiesa dichiara guerra alla nostra carne nel rigoglio delle passioni; ma ora che quelle sono spente, si piglia in braccio il corpicciuol nostro agghiacciato, e se lo porta in mezzo al santuario della sua Casa: lo depone appié dell’altare, e par che dica al suo Sposo celeste: Gesù mio, mi è svenuto ora in braccio questo povero figliuolo; ma no che non è morto, egli dorme, perché è il figliuolo della mia speranza! Per questo, premurosa vi accende i lumi d’intorno, quasi volesse alla luce della sua fede spirargli dentro quell’ardenza inquieta come quelle fiammelle che si slanciano verso del cielo. Quivi si direbbe che se lo scaldi in seno coll’alito della sua carità, e come impaziente di affrettare la risurrezione ne anticipi il giubilo colla preghiera: venite, esclamando, venitemi tutti d’intorno, esultiamo che è Dio il Salvatore nostro. Eh preparatevi anche voi, se mai vi chiamasse sin d’oggi; e preghiam che ce lo introduca presto nella requie, in quella luce che splende eterna in pace di Paradiso: Venite, exultemus… requiem æternam… requiescat in pace.Qui ascende all’altare il suo Sacerdote, che gridaa ripetuti sospiri: Kyrie! Christe! buon Dio nostro!e voi, Gesù Cristo, non lasciatecelo patiretanto in Purgatorio, ma pigliatelo in seno dellavostra misericordia — eleison! eleison! Poi: si si,o fratelli, gridiam tutti insieme mettendo innanzile piaghe di Gesù nostro: oremus… per Christum Dominum nostrum. — E per consolare la nostrapietà Egli ci manda un suo ministro dappiè deltrono della bontà di Dio, che è l’altare, a dirci, di non contristarci; perchè, essendo il fratel nostro morto nel bacio del Signore, ci dà parola lo Spirito Santo, che lo rivedremo a momenti risuscitati anche noi. Itaque consolamini in verbis istis. Con questa cara confidenza circondiamo tutti l’altare. E qui non mancherà d’intervenire con noi Gesù Cristo in persona, Egli speranza e salute dei vivi e dei morti. Ce lo promise che, dove ci saremo noi fratelli radunati nel bacio santo di carità, Egli si troverà in mezzo di noi. Ecco di fatto che Gesù nella messa sta sull’altare tra il morto e noi vivi, ed innalzato in Sacramento tra il cielo e la terra, ci apre le braccia, ci dà il cuore, e ci dice: carne della mia Carne, sangue del mio Sangue, vi ho preparato il paradiso. Oh beati i morti che muoiono nel bacio del Signore: beati mortui qui in Domino moriuntur. Ma il cadavere si porta alla tomba, a questa orrida bocca della morte, che tutte ingoia le speranze dei mondani. Ebbene la Chiesa, per renderla men paurosa l’ha scavata nella terra santa, intorno al santuario (almeno una volta), dove sta sempre nella sua celletta d’amore Gesù pronto a porgere del tesoro delle sue misericordie: e quel suolo consacrato chiama il luogo da dormire in pace, Cœmeterium. In esso, dopo avere purificato il caro morto con pietose abluzioni, lo depone tra i profumi delle preghiere, che si elevano al cielo come segno che debba risorgere spiritualizzato per viver coll’anima in beatitudine di paradiso. Udite, udite come in uno slancio di confidenza essa canta già l’inno dello sperato trionfo: Accorrete, o beati del cielo, incontro a questo figliuol mio, e conducetemelo nella celeste Gerusalemme in seno allo Sposo mio divino. Signori, fermatevi in questo momento ad immaginarvi di essere voi qui adesso a piangere sul corpicciuol morto della vostra buona madre, o della sposa. Voi non vi sentireste consolati di veder quelle care morte trattate con tanta pietà? Ma dunque quanto sono crudeli coi vostri cari, e con voi stessi quei miserabili i quali, odiando, tristi come demoni, la Chiesa cattolica, ributtano via la madre in quei santi momenti di così caro dolore; e vogliono invece mettere intorno ai nostri morti coi loro funerali civili le turbe della società col cappello in testa, col sigaro in bocca, collo scherno dell’indifferenza, a cicalare le bestemmie dell’empietà fin sulla terra che pia li deve ora ricoprire. È questo un ultimo sacrilego insulto al poverino defunto, che dimanda dall’amore dei cari un requiem a calmare le fiamme che già lo abbruciano nel purgatorio! Ah sì, o fratelli, con noi Cattolici sorgono qui gli scismatici, gli eretici e gli ebrei, i turchi ed i pagani, sorgono tutti i popoli del mondo universo per difendere i poveri morti da queste atroci derisioni, che sono i funerali civili; ed imprecano ai profani che vogliono seppellire i morti senza pie preghiere, senza un lume di fede! Tutti i popoli con riti di dolore solenne implorano lagrimando dalle loro false religioni che temperino i dolori dei vivi, almeno colla cara lusinga che i riti aiutino i morti nell’altra vita. Ma io ben comprendo la condotta dei liberi pensatori d’oggidì. Essi han perduto ogni resto di fede e di buon senso; e non isperando più né paradiso, né purgatorio per sé, come possono volerlo per voi? Pregate per codesti sciagurati, ma fuggiteli; e, pieni di riconoscenza verso Iddio e la Chiesa, ricordatevi che solo la religione Cattolica a questo bisogno, cui sente l’umanità intiera di aiutare i proprii morti, provvede divinamente colla fede del suffragio, e coll’accompagnare per mezzo del Sacrificio del Figliuolo di Dio l’anima del caro defunto fino in seno al Padre celeste in paradiso. È vero: abbiamo proprio bisogno della Religion nostra per l’anima e pel corpo, in vita e fino dopo morte. – Ma non v’ha un raggio di lume di cielo, non una stilla di consolazione nella tetra camera del morto del mondo. Questi credeva di godere sempre, e non pensava stolto! che questo sempre del mondo finirebbe in questo punto della morte. È inutile lusingarci! Quella giovinetta è una splendida bellezza che brilla come la corolla sul fiore; ma dentro il calice di quel fiore evvi il verme della morte che lo corrode. Vedi che appassisce omai, che piega il collo avvizzito… vedi, quel fiore è già caduto! Quell’uomo illustre, quella dama del gran mondo, fate largo, passano in mezzo di noi, povera gente del volgo, tronfi in orgoglio: ma in quel pettoruto, ma sotto quei preziosi drappi, sotto quegli ori e quelle perle, dentro quelle membra, in isfoggio di nudità fin sugli occhi a Gesù nella chiesa cova la morte pascolata di peccati. Ecco che essa viene gigante, e con un colpo li getta cadaveri in mezzo all’orrore di tutti…. O fratelli, questo pensiero vi funesta forse troppo? Sentite un fatto, che vi darà la ragione del supplicarvi che faccio, a vincere ogni ribrezzo, e meditare qual uso vorremmo aver fatto del corpo allora quando lo vedremo incadaverito: e deh che non lo possiamo vedere che porti ancora i luridi marchi del peccato nel marciume della sozza carnalità! — Era morta la regina Isabella di Spagna; e toccato al principe Francesco Borgia, come al grande di corte di sangue più vicino al trono, d’accompagnarla cadavere in Granata nei sepolcri. Solenne il corteo, le vie della città tutte parate a nero, le truppe sotto l’armi a lutto. Appare la croce, e si ode il mesto canto: De profundis…. e Miserere…. a cui sembra rispondanole trombe in lugubre tuono ululando. Fra ilpopolo gremito procedendo la funebre pompa appariva,portata sul magnifico feretro; quasi sul tronodella morte, la regina defunta. Dietro al funereocarro le carrozze in gran lutto di corte, coperte dinere gualdrappe, i cavalli nere piume agitanti, etutti i grandi in corrotto. Tutta quella gran pompasi fermò sulla porta della sepolcrale cappella. Inmezzo ad essa si depose la cassa di bronzo a fregid’oro tra quei melanconici principi tutti schieratiintorno, per compiere la voluta cerimonia della ricognizionedel cadavere reale. Toccò al principeBorgia d’aprire la cassa. Viene scoperchiata la bara,si ritira il bianco velo steso sulla regina morta….Ah! dà indietro per orrore la Corte… sta solo ilprincipe Borgia. Sportosi innanzi, innanzi fissa quelvolto, e come da fulmine percosso, cade in ginocchiocolle mani serrate sul cuore… Isabella! esclama,in questo stato?…tu regina mia… Isabella?…Dov’è quello splendore di bellezza che irraggiavala reggia? Dove quelle due stelle di occhi in quellanobile fronte? Dove quel sorriso del labbro, ambitopremio dei cortigiani? Oh Isabella » la più avvenente,la più fortunata, la più grande di tutte ledonne del nostro mondo!:.. Sta sopra sé un istante…Tacete: è un momento solenne: opera la grazia di Dio in silenzio!… Sorge il principe repente in piedi;e coll’impronta sul volto del più sublime pensierogetta uno sguardo, come un lampo che annientala Corte dei Grandi… poi: Mondo! hai finito d’ingannarmi! — E sì davvero, che il mondo nonl’ebbe ingannato più mai; perché egli si diedetutto a Dio: si fece religioso gesuita, e morì gransanto. — Anche noi guardiamoci li già come cadaveri;quindi sorgiamo su, colla ferma risoluzionein cuore di chi vuol salvarsi davvero, a dire: mondo,colle tue baie, co’ tuoi romanzi, colle tue promessehai finito ora d’ingannarmi… Ah mondo! tu nonmi lasci pensare alla morte, e mi meni colla manosugli occhi fino al punto in cui mi getti là inorriditocadavere in perdizione! amici del far tempone,voi coll’onda grossa mi strascinate a perdermi allegramente!giuochi, che rovinate con me la mia famiglia! taverne, dove m’ubbriaco in gozzoviglie,tane di vizi, voi mi menate in inganno per lasciarmi in appresso incadaverire del corpo, e coll’animadannata in inferno! — Dite voi adunque a quella persona che vi lega il cuore: oh! hai tu un bell’essere lusinghiera, ma tra poco ambedue saremo cadaveri in isfacelo! e l’anima?… » Fuggi, o giovane, fuggi via a tempo da quegli ingannevoli amici, e ritorna a’ tuoi buoni genitori in vita onesta: tornate, o mariti, alle vostre pie spose e voi tutti, uomini, che correte a perdervi in questo mondo di spensierati, pensate di vedervi li cadaveri, perduti eternamente. – E noi ora meditiamo nel secondo punto come in fine alla povera nostra persona non resti che quel po’ di bene, ed ahi! tutto quel male, che ci avremo preparato. Osservate intanto come v’inganna il mondo colle sue scene che durano un istante. Sul far di notte torna dalla campagna la contadina meschinella coll’osso della vita curvo sotto il fastello, e tirasi appresso l’affamato fanciullo che dice piangendo la preghiera del poverello. Con lei s’incontra l’artigiano affranto, tutto negro del fumo dell’officina, col cencio fracido di sudore sulle spalle; e vanno, per riaversi un poco, a ricoverarsi nelle tane dei loro tugurii. In passando appiè del palazzo del ricco sentono salire su i profumi di cucina, che, per la fame che lor divora le viscere, li fanno sospirare, mentre odono dal piano nobile, tra il cicalare dei ben pasciuti parassiti centellanti nettarei liquori, l’armonia che la giovine dama cava dalla tastiera del cembalo agile come l’aleggiare di un angelo terreno. Essi, che non ne ponno più della vita, guardano in alto agli illuminati cristalli delle finestre; e la pia sospira: almeno là quelli stanno bene! — E l’artigiano, a cui manca il conforto della rassegnazione, dice tronco con una bestemmia tra i denti: è quello il paradiso! — Ah, cari miei, che dite voi? Che coloro stan sempre bene? e che il paradiso è là?… Passate la sera appresso, e vedrete che quel paradiso è finito per sempre: transivi, et ecce non erat. Dalle finestre spalancate pare esca l’orrore: è un silenzio da morto in quel palazzo. E dove è mai il padrone corteggiato da chi lo sapeva godere? Voi potete entrare nella sua camera aperta. Vedrete il suo letto ravvoltolato come di chi è partito, e il signore stirato giù, stecchito cadavere sopra una tavola, fintantoché s’inchiodino quattro assicine da fargli la bara. Poverino! non ha più niente di che sia padrone, più niente di ben di mondo; e soltanto gli resta dopo morte ciò che ha preparato per l’eternità. – Io non so, o fratelli, se a voi non venne mai fatto di visitare una casa or ora abbandonata da chi traslocava altrove il domicilio, per non ritornarvi più mai. È una vera spelonca. Strappato ogni ornamento dalle denudate pareti, portato via ogni cosa dove si va a dimorare per sempre. Così vorrà ben l’anima niente lasciare in terra di tutto che buono sia da godersi nell’altra vita per l’eternità. In quella camera da re, il morto è un grande uomo del nostro tempo. postosi alla testa del partito dei politici del proprio interesse, egli giunse a soperchiare gli emuli, menò il paese; e per l’amor della patria fece tutti servire a se stesso. Chi fosse stato oso di avvisarlo, che guai a chi tocca le cose della Chiesa, perché è un toccar Dio stesso; e che le scomuniche sono tremende maledizioni, le quali penetrano le ossa, e sradican le famiglie; eh via, gli avrebbe risposto, che egli era un tristanzuolo del partito nero: e gli avrebbe fatto, fiscaleggiandogli fin l’intenzione, onoratamente la spia… Ora è morto il grande uomo, proprio sconcertato ne’ suoi grandi disegni, i quali come sogni d’infermo sono dileguati; e non è più che un miserabile, il quale ha le mani vuote per l’eternità. Glielo prevedeva bene lo Spirito Santo: nihil invenerunt in manibus suis! — Attraversate quell’aja di grande masserizia; passate in mezzo alle mandre, vere ricchezze di Giobbe; fatevi tra i contadini che si danno facende. I lavori della fattoria sono troppo importanti; e come non permettevasi che si riposassero alla festa, così non si arrestano essi, neppure il giorno in cui è morto il padrone. Questi era un uomo di considerevole fortuna; lavorò dodici, ventiquattro o più anni a condur quel gran fondo; si cavò dai cenci, fece il grandioso acquisto, allargò il tenimento, cacciando i vicini a coltelli d’usura. Allora che era attorno a far grandi affari, chi l’avesse avvisato col Vangelo di porsi in serbo in man dei poveri un bel tesoro pel dì della morte; chi gli avesse detto, pregandolo per carità, che una pagliuzza di quell’oro raccolto dai troppo rincarati frumenti avrebbe consolato tante famiglie, le quali basiscono di fame in questi anni di carestia pei poveri, e di gran fortuna per lui, egli avrebbelo avuto in grado? L’accorto, sapeva troppo bene che i tanti pochi fanno il molto, egli che filava sottile il centesimo e così giunse a formarsi un gran capitale. E poi certamente bisognava avere ardimento, quando sedeva al rendiconto tra i contadini la domenica, di venirgli a dire che andasse alla spiegazione del Vangelo anche pel buon esempio de’ suoi dipendenti. Bisognava aver del bel coraggio per avvisarlo che in quella solennità si acquistava la indulgenza plenaria, e che egli poi aveva un’anima da salvare… Eh via! lo stolto avrebbe sogghignando risposto, che le cedole erano in aumento, che le campagne rendono a chi può più spendere, senza strascinarsi nelle Chiese per terra a domandare la benedizione. Ma che è mai? Sta notte, quando appunto faceva calcolo di un grosso guadagno, è stato chiamato al giudizio di Dio… Come s’era preparato egli al rendiconto?. Ben si sa che aveva un ingente capitale nello scrigno; ma quel denaro là non deve aver valore pel regno eterno. E tutte quelle sue ricchezze? Aspetti l’anima a partire fino al dimani, e vedrà farsi scherno alla sua gretta economia, e sfondare nelle feste da ballo, né i sfarzi e nei viaggi, l’eredità degli accumulati tesori. Era adunque egli uno stolto, che non si è avveduto del bene per l’anima sua. Lo stolto era adunque; e glielo aveva detto Gesù, domandandogli per chi andasse accumulando tanta polvere: Quæ parasti, cuius erunt? In quel gabinetto elegante, che i pagani avrebbero scambiato con un tempietto della molle dea del piacere, in quel corpicciuol di cera albergava la vita di una signorina di garbo, di cuor tenerissimo, di sentire bene squisito. Almeno ella, l’affettuosa donna, si avrà fatto un po’ di ben Dio coi Sacramenti, colle opere di pietà. Pensate! … la non aveva proprio tempo. Due ore alla toeletta tutte le mattine, tre alla festa per mettersi coll’elegante bambina alla parata pell’ultima Messa; poi riabbellirsi per le visite, e mutare di vesti per la passeggiata di gala…; poi la sera l’interessante conversazione…; poi e poi?… Via, è morta! L’anima sua ora vede dentro nel forzierino le splendide parature di gioie; ma quei diamanti, sian pure d’acqua la più fulgente, non splendono nell’atmosfera dell’eternità: rovista nelle guardarobe tal ricchezza di vesti che le costano mezza la vita (e forse fin l’onore!); ma quelle vesti eh! non vorranno portarle neppure le emule; le son giù di moda, e resteranno da corrodere alle tignuole. L’aveva ben avvisata Gesù, cose che tinea corrumpit. Ma quei popolani, accorsi ad un palazzo, girano nella sala parata di nero a camera ardente, intorno alla bara gallonata d’oro, la quale rinchiude un gran signore del mondo. Ricco fortunato! Sapeva bene egli godere a modo! Lusso di casa, le mila lire in cavalli, festini sfarzosi; per lui le facili grazie delle famose bellezze. Sdraiato in trono nel suo salone, si dava l’aria di dotto (e la gente ne rispettava il diritto, perché era un… carico d’oro), e, cioncando, giù sentenze all’abbacchiata fino sul Papa, il quale, se voleva esser prudente, dovrebbe pensare come lui. Egli aveva una satira sempre alle persone devote; e già poi qualche persecuzioncella al noioso Prete zelante. Ora ecco, è morto! Tra la luce dei doppieri una densa turba si fa alla porta con grande pompa ad accompagnare al sepolcro il suo cadavere. Ma, e l’anima? L’anima è già sepolta nell’inferno! Ce ne dà parola Gesù, che dice sempre la verità: Mortuus est dives, et sepultus est in inferno. Ah sì che il mondo non ebbe più utile avviso di questo: Quid prodest homini, quid prodest si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur?  Che giova all’uomo guadagnarsi pur tutto il mondo, se, va coll’anima in perdizione nell’inferno? Ah signori, che l’anima del perduto dietro al mondo troppo vede allora come niente le giova di ciò che nel mondo ebbe preparato in tutta la vita! Ah che vorrebbe ella allora una qualche cosa aver in pronto per l’eternità! Subito colla rapidità della mente scorre pei campi con dispendio e sudore di sangue coltivati: penetra nei soliti ridotti, nei caffè, nelle bettole, e case in cui, se non si vedeva mai nella chiesa, era però immancabile tutti i di: ma caffè, bettole e case non gli ricordano altro che i suoi peccati. Ora di tremendo abbandono! Sola co’ suoi peccati, in quella tetraggine orrenda a lei pare di sentire nella propria camera come un fremere di cupa tempesta…. Dalle pareti che nascosero i suoi vizi, voci alte e fioche, e un battere di mani, e visioni d’orribili spettri a minacciar con ischerno: venient visiones horribiles!… Di qua ad assalirla un demonio furente che ha nome Bestemmia, dalla faccia di fuoco, con sul volto smanie di dannato, la quale le vibra sul volto le bestemmie, proprio le stesse bestemmie da lei già vomitate nei trasporti de’ suoi furori. Dall’altra parte un mostro che Avarizia si noma, accosciato sulla cassa forte, sì batte la ventraia di metallo sonante, e mostra nel pugno di ferro semichiuso il danaro, che gronda il sangue dei bisognosi colle usure scannati, con tra i piedi gruppi di famigliuole dalle facce ingiallite. Il erudo divorossi il superfluo da Dio assegnato ai poveri per isfamarsi. Colà in mezzo un barbuto demonio che Orgoglio si appella, colle smorfie da dotto seduto al tavoliere, in mezzo agli oggetti preziosi che valgono niente, col dito di fuoco accenna sulle larghe gazzette le eresie, le ferite alla Chiesa, e gl’insulti sacrileghi lanciati fino a Gesù in persona, dei quali egli sì è pascolato forse ancor ieri; poi svolge i bei fogli, e mette sugli occhi le scandalose immagini della grande edizione di tutti i romanzi figurati. Ma il demonio più sozzo, cui labbro pudico non sa nominare, in atroci spasimi di convulsione tenta ripetere i ributtanti orrori di una invasata carnalità; e tutti insieme vanno ululando in riddone infernale: opera tua sumus, sequemur te usque ad tribunal Christi!… Maledetto, siamo le opere tue che ti accompagneremo fino al giudizio di Gesù Cristo! – Fratelli, fratelli, affrettiamoci di prepararci per quell’ora di troppo spavento degli amici intorno a conforto; e tali sono le opere buone che ci accompagneranno al giudizio di Dio. Così intervenne alla buona, ma prudente Tabita, morta santamente in Ioppe. Colpiti da quella spaventosa disgrazia tutti ì miserabili, mandando strida lungo le strade, cor- revano alla casa della loro ben amata benefattrice, era la corte della folla; la gente si urgeva per cacciarsi dentro nella sala; e disputavansi di farsele appresso, e la baciavano tutta d’intorno scoppiando di pianto, qual figliuoli sulla estinta madre di tutti. Quand’ecco all’improvviso entrare san Pietro, e tutti serrarglisi dattorno per dirgli ciascuno inconsolabile il suo dolore. Un povero vecchio barcollante per troppa angoscia gli alza la faccia in volto, e a calde lagrime: Oh Pietro, sì gli dice, la mi dava tutti dì la minestra di sua mano. — Ma l’ansia gli serra la parola in gola, abbassa la testa bianca sulle mani in tremito sul suo bastone… — Oh Pietro, me l’ha fatta lei questa veste che mi toglie la vergogna, — prorompeva una giovanetta, ed empiva le mani di pianto. E i poveri fanciulli senza papà e mamma strillavano forte: era la nostra madre! e, tutti ripetere singhiozzando: era la madre nostra! S. Pietro, intenerito alle lagrime s’avvicina alla morta, la piglia per mano, e: sorgi, le dice, sorgi, o Tabita; e la ridona a’ suoi beneficati. — Questo fatto vi consola, non è vero? Ebbene esso affigura la consolazione di voi, o buoni, i quali vivete con tutta la carità che potete con tutti. Coloro che ebbero provata la vostra bontà vi circonderanno il cadavere, accompagnando coi gemiti le anime vostre innanzi a Dio. Tutta in lagrime una meschinella: Signore, dirà coi singhiozzi, ella mi diede il letticciuolo pe’ miei poveri innocentini, e quella robettina pel vispatello che mi era ignudo! Mi consolava tanto, dirà sospirando una figliuola, quando veniva a dire tante mie disgrazie; essa fu che mì collocò in una buona famiglia, mi accolse abbandonata in sua casa; ed io non aveva che lei, buon Gesù mio, perché non ho più la mamma mia. Ed una poverina da lunga malattia consumata, colle sole labbra disseccate intorno ai denti dirà in un gemito che Dio ascolta: Ah non vedrò più quell’angelo venirmi a portare al letto la carità, a girarmisi intorno, a servirmi la tanto buona! Diranno tutti addolorati: le sue opere buone accompagnino la cara persona, o Gesù, innanzi al vostro trono — Opera enim eorum sequuntur illos. Deh, miei cari, mentre abbiam tempo, mettiamo in serbo opere buone e tante nel tesoro della bontà di Dio. Fedele è Dio, che le terrà conservate nelle sue pietose mani a nostro pro pel giorno del maggior nostro bisogno. – Ma ora meditiamo, come, dopo di avere raccolto tutto che facemmo di bene e di male, dobbiamo presentarci al giudizio di Dio. Qui dunque finisce il tempo, e qui davanti all’anima si spalanca l’abisso dell’eternità. Ma tra il tempo e l’eternità vi è un momento indefinibile, il quale partecipa del tempo e resta eternità. È questo il giudizio di Dio, in cui vien decretato Paradiso o inferno per sempre. Suvvia adunque leviamo di qui l’anima, via là il cuore dal mondo; non guardiamo più indietro: è inutile stender ancora le braccia. Il mondo non era che un fantasma: ora è sparito per sempre. Gioventù, lunga vita, onori, piaceri goduti erano un lampo di falsa luce: ora non ne resta altro che un ricordo di confusa visione. Tutte le cose mondane per noi cadono sepolte nell’orrido nulla, e al fragor dell’orrenda ruina balena un bagliore di fulmine che consuma: nel pensiero ogni limite di figura, e gitta l’anima sopra l’abisso della eternità. Negro abbandono! cupo silenzio! dall’orizzonte del tempo addentriamoci nell’orrenda eternità!… Miseri a noi! dobbiamo presentarci per essere giudicati dalla tremenda Maestà di Dio, davanti a cui non solo questa nostra povera terra, ma milioni di mondi non sono che polvere dalla sua mano dispersa. Increduli, voi iterate la bestemmia: Dio, Dio! e chi è questo Dio? Dove è questo vostro Dio? Ma mentre voi pazzi frenetici vibrate un insulto contra la Divinità, tra il vortice veloce del tempo vi travasa dal tempo nell’eternità come bolle di schiuma schifosa; ed eccovi trabalzati a’ piedi del trono, dal quale il Dio da voi disdetto vi fulmina nel suo giudizio….. Ecco: Dio sta; e voi ad essere giudicati da Lui…. Ah troppo immensamente è grande Iddio! e se scruta le creature nella sua giustizia, trova falli fino negli angioli stessi…. E chi mai di noi può reggere al suo cospetto? Nel tremendo abbandono in cui ci troviamo nella solitudine della morte appena spirati, chi verrà mai ad accompagnarci davanti a Dio?….. Angeli, Arcangeli, Potestà dei cieli…. venite, venite voi…. Ma voi vi velate dell’ali il volto tremanti dinanzi all’Altissimo!… Ma dunque da soli noi?…. Sì; nessuno starà alla nostra difesa (così san Bernardo), nessuno potrà almen dire per noi: Grande Iddio, perdonate!… Nessun dalla nostra parte può stare a fidanza…. nessuno! Gesù Redentor benedetto, Voi venite al grand’uopo nostro!… Oh fratelli, solleviamo l’anima e il cuor in alto, al cielo. Gesù Cristo è là in Paradiso in quella inaccessibile luce della Divinità: ma oh! tra i bagliori divini lo travediamo. Si… Egli è in seno al Padre, Dio fatto uomo: e Salvator nostro. Egli siede sul trono della sua gloria Signore dei mondi, ma padre qual è di noi figliuoli del suo Sangue, ha il Cuore qui in terra, con noi qui si abbassa, s’impicciolisce, a noi qui si unifica, ci compenetra, ci assorbe tutti nella sua Persona divina, e dà la sua vita in Comunione con noi. — Dunque noi ci troviam con Gesù tutto nostro; dunque Gesù qui è Dio:…. Dunque noi siam con Dio…. Dunque è tolto via l’abisso di mezzo che divide l’uomo dalla Divinità; e noi possiamo presentarci subito, farci vicino vicino a Dio… Ah siam già con Dio! — Ecco dove vanno a finire tutti i misteri della Religione cattolica, nella Comunione. Questo è l’abbraccio con cui Dio tira l’umanità a sommergersi nel paradiso della bontà sua divina. Dio della misericordia, Amor nostro Gesù, abbandonati noi da tutte le creature al cimento coll’eternità, evocati al giudizio troveremo dunque Voi amico divino, tenero padre: Voi vi piglierete in braccio l’anima nostra, e in quel terrore la nasconderete in seno a voi, ed oh, se Gesù sa trattar da padre di bontà al tutto divina! Per isgombrare lo spavento Egli ci mostra subito subito le belle cose che debbono assai ben confortarci, ciò sono i doni stessi che noi gli abbiamo fatto, e ci dice che Egli li teneva in serbo per noi e per questo  momento. Buon Gesù! Ma che mai di buono abbiamo noi potuto fare a voi, Gesù?.,. e le carità usate ai più cari de’ miei figliuoli, che sono i tribolati, i più miserabili? e la difesa della mia buona sposa la Chiesa tra tante persecuzioni su quella povera terra? E tutte le opere buone?… Nulla ho dimenticato: non un bicchier d’acqua dato in mio nome, non una parolina di carità. — Certo, certo: un gemito, un sospiro, un desiderio, tutto va nel tesoro della bontà di Dio, il quale ha un Paradiso da rimeritarci di ogni cosa. Ma tant’è! il giudizio, che decide del paradiso o dell’inferno pur sempre fa paventare sin gli angeli ;…. e l’anima trema. Ma Gesù: se sono io stesso che ti ho da giudicare! su su al Padre: ti presento io tra le mie braccia! Allora l’anima sente a dire: Volo, Pater, ut ubi ego sum, sit et minister meus: Padre mio, voglio che il mio servo sia sempre dove io mi sono. Entra dunque, il mio fedele buon servo, entra nell’eternal gaudio, t’imparadisa con Dio: serve bone et fidelis, intra in gaudium Domini tui. Gesù mio, io non vi abbandonerò piùmai, finché respiro: starò sempre qui con voi nelSacramento; affinché, quando mi sorprenda la morte,a tutt’ore io mi muoia sul petto a Voi. Allora, trale vostre braccia…. gaudio di paradiso!…E quale sarà la nostra sorpresa nel gaudio delparadiso! – Vedetelo in questo bel fatto. Sant’Anastasia,damigella la più fortunata, la più avvenenteche fosse nel più gran mondo, veniva cercata a sposadall’imperator Giustiniano. Ma ella per togliersi allosplendor del trono, luce di fosforo, alle delizie dellareggia, incanto di un’ora, agli amori dello sposomonarca, lusinghe di un momento, sparisce dalprincipesco suo palazzo di Costantinopoli, e via anascondersi in un monastero d’Egitto. Ma colà pureviene pressata a diventare imperatrice; di che ellase ne fugge, e va a seppellirsi in una caverna deldeserto della Tebaide. Par di vederla, quel fior didelicata bellezza, ne’ suoi quindici anni, candidacome un giglio tra le spine di orride rupi, in quellanegra spelonca, umida, fradicia tra l’acquitrinosgocciolante che faceva pozza in quel fondo di fango.Col brivido alla vita in quella paurosa oscurità, laverginella si peritava appena di guardarsi d’intorno.Sentiva l’intronare dei venti del deserto che percuotevanole coste delle tristi montagne; e la nottesentiva il ruggir dei leoni, che rombavano cupamentein gola in quel tenebrore, di che tremava tutta. Sulfar della sospirata mattina volgeva gli occhi a quel filo di luce dello spiraglio, ma intorno alla bocca dell’antro le apparivano sole le strisce luccicanti della schifosa lumaca notturna, e se la lucertola allo spuntar del sole protendeva la verde gola a quel buco dello speco, inorridita all’afa si ritraeva sulle foglie dell’edera della fratta a godersi del sole d’oriente di fuori. E la fanciulla…., pensate! a durarla là dentro un lungo anno. E si che le venivano i tristi pensieri: Anastasia, povera Anastasia, sepolta viva qui a questo modo!….. scappa, scappa via da tale spavento. Ma Anastasia pigliava se stessa con carità (perché giova tanto nelle tentazioni forti trattar con carità la povera anima nostra), e diceva a se stessa: Fa coraggio, Anastasia, ancor un momento! E durò là per cinque lunghi anni. E sì che il demonio le sì arraffava d’intorno a terribilmente tentarla in mille modi: Anastasia, non la puoi durare ve’:… guardati le braccioline come le sono già scarne; tu ti consumerai arrabbiata…. Vedi, sono ancora i belli venti anni:… e le damigelle meno ricche di te:… e tu, stolta!… e puoi essere imperatrice e far tanto bene! Ed ella: fa cuore, Anastasia, anco un momento! E stette là dieci anni!… Ma via, non voglio tenervi sospesi più: ella stette là venticinque anni; e quindi volò in paradiso… Oh colassù i venticinque anni che breve momento! Deh fanno ora mille e trecento e più anni; ed ella nell’eternità di Paradiso che breve momento! Passeranno i mille secoli, e di là i venticinque anni della caverna che breve momento le sembreranno, che lampo scomparso in quella eternità! Oh paradiso, oh eternità! O cari, o cari miei, ancora a noi la nostra vita che breve momento parrà, quando saremo ingolfati nella eterna beatitudine in paradiso! O Paolo santo, aveste ben ragione d’esclamare: non sono condegni i patimenti di questo momento della vita presente, ove ci si presenti all’anima eternità del paradiso: non sunt condignæ. Oh eterna gloria di paradiso! Oh beatitudine eterna di paradiso! paradisi gloria, paradisi gloria!… Ma al Giudice divino ancora vanno i peccatori. Grande Iddio! e come reggeranno essi al terrore della vostra Maestà che li sfolgora nel suo furore? Signori, a Roma, nella famosa cappella Sistina, Michelangelo dipinse nel suo Giudizio Gesù Cristo in atto di fulminare i reprobi nell’inferno con maestà tanto tremenda che, qualvolta uno sì metta a fissarlo in volto, non si può reggere per terrore, bisogna abbassi lo sguardo. Ora non fu che un uomo mortale, che tentò dare una smorta idea dell’Uomo- Dio sdegnato con un po’ di tinte di meschini colori. Quindi fate ragione voi quale sarà tutta la Maestà presente di un Dio vendicatore. Fa fremere il pensarvi. Immaginiamoci sol quell’istante in cui ì perfidi fratelli di Giuseppe venivano strascinati in catene appiè del trono del più gran principe reggitore d’Egitto, accusati com’erano di una colpa, ma colla coscienza angosciata ancor più per un vecchio e troppo enorme delitto che lor premeva sempre sul cuore; ché avevano essi il proprio fratello assassinato. Quando il Principe, che sedeva in soglio a giudicarli, sorse di repente in piedi e gridò in tuono tremendo: Figliuoli di Giacobbe, riconoscetemi, io sono Giuseppe, il fratello da voi tradito e venduto! tutti guardarongli in volto, e dissero in cuore: mio Dio è proprio il fratello Giuseppe!…. Caddero per terra quasi da fulmine rinversati: e chi si ricordava di avergli detto il primo mandiamolo a morte!… chi d’avergli gettato la corda al collo: chi quando lo calava giù nel pozzo, e se lo vedeva col volto in su gridante pietà: ed egli a chiudergli sopra il pozzo col sasso. Né fu di loro chi non si pensasse d’avergli contati in sulla faccia i danari della venduta sua persona…. Nessuno, nessuno aveva forza di guardargli in volto, dandosi tutti per morti; e grazia sarebbe stata per loro morire subito lì. E sì, che il fratello balzò subito di trono a tirarseli su, e abbracciarli ad uno ad uno, e d’ogni più tenero modo cercare di consolarli. Non pertanto eglino non potevano proprio riaversi; ed ogni più sensibile tenerezza di Giuseppe era un colpo a farli svenire nelle sue braccia. – Ah peccatori dementi! voi oltraggiate ad oltranza la tremenda Maestà di Dio;… a voi toccherà ricordarvi allora di tutti gli oltraggi…. Orrendo a dirsi, quando la tremenda parola: maledetti! vi riverserà nel fuoco d’inferno, tuonando: eternità…. eternità d’inferno. A me manca la parola, e sono tutto in terrore come quel solitario, al quale, ridotto a fil di morte, sulla porta dell’eternità fu rivelato in visione come fa Dio il giudizio. Restò il meschino da cosiffatto terrore colpito, che ristette muto per dodici anni, sempre cogli occhi fissi per terra, sempre col fremito della costernazione addosso… in meditare le parole: Dio, Giudizio, eternità, inferno!… Nella sua agonia serratiglisì intorno i monaci per supplicarlo a calde lacrime, che aprisse la bocca, e dicesse almeno una parola…. la parola più importante, egli trabalzò in tremore confuso, esclamò con un cupo gemito: Fratelli, fratelli, poveri noi! Giudizio di Dio! Eternità! Paradiso, o inferno!!! Ammutirono tutti in silenzio pauroso; ed egli andò a sprofondarsi nella eternità. – Anch’io lascio a voi quest’avviso: Figliuoli, figliuoli: e dopo morte? Dopo morte, giudizio di Dio! Paradiso, o inferno nella eternità! — Pensatevi, ché anche in questi poveri tempi di fede morta basta questa meditazione a farvi conoscere se, a vostro giudizio, l’anima vostra vede ancor qualche cosa.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.