LA GRAZIE E LA GLORIA (21)

LA GRAZIA E LA GLORIA (21)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE

CAPITOLO V

Altro modo in cui la grazia è causa di unione. Essa mette l’anima in possesso di Dio come oggetto di conoscenza e amore.

I. L’anima viviſicata, trasformata dalla grazia, e quindi tutta piena di Dio, Autore e consumatore di quella grazia, ha le sue operazioni soprannaturali, il cui termine e oggetto è Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. È con questa attività, di cui la grazia è il principio intimo, che i teologi scolastici sono particolarmente abituati a spiegare l’unione avvenuta tra Dio e le anime dei suoi figli adottivi (« Gratia conjungit nos Deo per modum, assimilationis: sed requiritur ut uniamur ei per operationes intellectus et voluntatis, quod fit per caritatem ». S. Thom, q. unic, de Charit… a. 2, ad 7.) – Riassumerò tutta la loro dottrina su questo punto prima di riportarne le loro stesse parole. Secondo questi grandi Dottori, l’unione delle creature con Dio, considerata dal lato della creatura ragionevole, è soprattutto il possesso di Dio. Ora, è attraverso la conoscenza e l’amore che lo spirito si unisce allo spirito; è attraverso la conoscenza e l’amore che l’anima può apprezzare e possedere la verità sovrana e la sovrana bontà. Infatti, possederle è goderne, o poterne godere, e non si gode di Dio se non conoscendolo ed amandolo. L’intelligenza che conosce, la volontà che ama, queste sono, se posso esprimermi così, le due braccia con cui lo si afferra per unirsi a Lui così strettamente che Egli è mio, come io sono suo. – Ora, qual è in me il primo principio di conoscenza e di amore che mi metta in possesso del mio Dio, che lo faccia entrare nella mia anima come un cibo misterioso di cui si nutre e si inebria? Lo abbiamo già dimostrato: è la grazia santificante, un riflesso divino, una sacra partecipazione del principio infinito per cui Dio contempla e ama se stesso nel possesso eterno e benedetto della sua bellezza. Perciò, se ho questa grazia santificante e, attraverso di essa, il potere di conoscere e amare il Padre mio e Dio mio con carità, lo possiedo in me con un possesso vivo e sovranamente intimo. – Non mi si dica che questa unione non possa essere l’opera propria della grazia, poiché ogni natura ragionevole ha di per sé il potere di conoscere e amare Dio, come ci insegna la dottrina cattolica. Infatti, altro è la conoscenza e l’amore di Dio, che scaturiscono dalla grazia, e altro è la conoscenza e l’amore il cui principio è la natura. Secondo natura, non conosco di Dio che quello che mi rivela di sé nelle sue immagini più o meno grossolane che sono la creatura; e se lo amo, è molto imperfettamente, come loro e mio Autore. Le due braccia che posso tendere a Lui, la mia intelligenza e la mia volontà, non Lo afferrano nella sua essenza divina, come è in sé, Padre, Figlio e Spirito Santo. Elevarsi a queste altezze è il privilegio esclusivo della grazia e delle virtù di cui la grazia è la radice. – Non mi si dica nemmeno che questo tipo di unione perfetta non sia della terra, ma del cielo. È vero che il godimento consumato richiede il dono della gloria, cioè una luce di comprensione che Dio riserva ai figli per l’ora in cui entreranno pienamente nell’eredità del Padre. Ma la grazia, attraverso la fede, la speranza e la carità, ce ne dà già il godimento imperfetto, e in questo godimento un pegno, un principio ed una caparra del godimento consumato. – Non c’è nessuno che non veda quale forza aggiunga questa nuova considerazione alle ragioni che abbiamo dato nel capitolo precedente circa l’operazione di Dio sulle anime dei suoi figli adottivi. Dio, senza dubbio, è presente nel minerale più umile, come lo è negli esseri intelligenti e ragionevoli. Tuttavia, non si pretenderà che la presenza su entrambi i versanti sia identica. Dio è presente nel minerale, ma non al minerale; Egli è l’uno e l’altro per lo spirito che, avendolo in se stesso, ha la conoscenza certa che Dio è lì, anche nelle profondità del suo essere. Certo, non è la stessa cosa avere la persona che ami vicino a te, ma non essere consapevole della sua presenza e non poterne godere o vederlo ed entrare in rapporti regolari con lei. Questa è una pallida immagine del complemento che l’idea che stiamo cercando di portare alla luce aggiunge alla nostra prima spiegazione.

2. Torniamo ai maestri della teologia scolastica, e vediamo con quale insistenza abbiano proposto la spiegazione di cui si è appena data un abbozzo. Questa sarà la migliore risposta a coloro che, non avendo meditato a sufficienza, ne riconoscono solo l’importanza secondaria. Prima di tutto, ecco il dottore Angelico. « Bisogna dire – egli scrive – che la nostra unione con Dio avviene per operazione nostra, cioè in quanto lo conosciamo e lo amiamo: ed è per questo che questa unione dipende dalla grazia abituale, poiché l’operazione perfetta presuppone Lui in noi come suo Principio » (S. Thom., 3 p., q. 6, ad 1). Altrove, parlando dell’unione finale che sarà la nostra eterna beatitudine, dice ancora: « L’unione fruitiva è un’unione per operazione e poiché l’anima umana è incapace di un’unione così perfetta senza un’abitudine infusa, da qui viene la necessità di una grazia abituale che sia il principio di questa beata unione » (III, D. 13, Q. 3 a. 1 ad 7). – E ancora: « Al di sopra del modo comune in cui Dio è in ogni creatura, c’è un modo speciale della presenza che è appropriato esclusivamente alla creatura ragionevole, in cui Egli è presente come il conosciuto nel conoscente, l’amato nell’amante; e poiché la creatura che ama e conosce raggiunge Dio stesso per mezzo della sua operazione, ne segue che Dio, secondo questo modo speciale di presenza, non solo è nella creatura ragionevole, ma vi abita come nel suo tempio » (S. Thom., 1 p., q. 43, a. 3). – Nella stessa parte della Summa Theologica egli aveva già scritto: « Dio è doppiamente in una cosa: è in essa come causa agente, e in questo modo è presente in tutto ciò che ha creato; Egli vi è come l’oggetto dell’operazione in colui che opera: questo si trova solo nelle operazioni dell’anima, dove il conosciuto è nel conoscente e il desiderato nel desiderante (« Per visionem fit quasi quidam contractus Dei ad intellectum, cum omne cognitum sit in cognoscente, secundum quod cognoscitur ». Id. IV. D. 49, q, l, a. 1, sol. 2). Ora, in quest’altro modo, Dio è soprattutto nella creatura ragionevole che lo conosce e lo ama attualmente, o almeno abitualmente. E poiché è la grazia che dà alla creatura ragionevole la facoltà di conoscerlo ed amarlo, si dice che Egli è in questo modo nei Santi in virtù della grazia (Id., 1 p. q. 8, a. 3, in corp. et ad 3). – Citiamo ancora un altro testo dove il Santo ci espone più ampiamente tutto il suo pensiero: « C’è come un cerchio dove si muovono le creature: infatti, uscite da Dio, loro primo Principio, esse vi ritornano come al loro termine finale. Ora a questo doppio movimento delle creature, corrispondono come le sue processioni da Dio fuori da Lui stesso. Secondo la prima, Egli fa uscire da sé le creature in qualità di Principio; e secondo l’altro, Egli le riconduce a sé in qualità di fine. Questo si riporta ai doni che costituiscono la nostra natura e le sue proprietà … questo si riferisce ai soli doni che ci uniscono in modo molto ravvicinato a Dio, nostro fine ultimo, cioè la grazia santificante e alla gloria. Infatti, tra le partecipazioni della bontà divina, non sono i primi effetti, intendo quelli con cui abbiamo l’essere creaturale, che ci uniscono immediatamente a Dio, ma gli ultimi, quegli stessi effetti, con cui raggiungiamo il Fine supremo: ed è per questo che lo Spirito Santo ci viene dato solo nei doni gratuiti. – Affinché possiamo veramente ricevere lo Spirito Santo, non è sufficiente una nuova relazione di qualsiasi tipo tra la creatura e Dio; ci deve essere una relazione tra il soggetto possidente e l’oggetto posseduto: perché ciò che è dato a qualcuno deve in qualche modo essere posseduto da lui. Ora, una Persona divina non può essere posseduta da noi che con un godimento perfetto: ed è il possesso della gloria; o da un godimento ancora imperfetto, e questo è il possesso che risulta dalla grazia santificante », e dalle virtù infuse (S. Thom., I D. 14, q. 2, a.2. Cfr. de Pot., q. 10, a. 1). Questo è ciò che pensa San Tommaso d’Aquino.  – S. Bonaventura, in un articolo del suo commento alle Sentenze, dove doveva dimostrare che lo Spirito Santo non sia inviato al giusto solo con i suoi effetti, ma nella sostanza, scriveva a sua volta: « Dare una cosa è consegnarla al donatario perché la possieda; e possederla, per colui che la riceve, è poterla usare o goderne in piena libertà. Quindi l’uomo è veramente un possessore quando ha ciò che possa usare o godere. Ma l’oggetto del vero godimento è Dio, e il principio dell’uso conveniente è la grazia. Quindi il possesso perfetto richiede che si abbia Dio e la sua grazia. Così anche, poiché il dono perfetto va di pari passo con il possesso perfetto, non c’è dono eccellente e perfetto se non il dono increato che è lo Spirito Santo e il dono creato che è la grazia. È dunque necessario che entrambi ci siano divinamente donati » (S. Bonaventura, I D 14, a. 2 q. 1; Col.; Brevil. p. V., c. 1. Cfr. L. IV, c. 3, p. 234). – In un’altra opera, egli ritorna sulla stessa idea, tanto è centrale nella sua dottrina. « Per godere di una cosa, sono necessarie due condizioni: da un lato, la presenza del bene che rende possibile il godimento, e dall’altro, la disposizione adeguata a goderne. Così il possesso dello Spirito Santo richiede sia la presenza sostanziale che il dono creato di questo Spirito divino, cioè l’amore con cui ci uniamo a Lui. Non pensiamo, però, che quando lo Spirito Santo ci venga dato, cominci ad essere dove non era ancora. No; ma è in noi in modo nuovo, per la produzione di un nuovo effetto, in virtù della nuova relazione in cui entriamo con Lui; ed è così che è nella sua creatura, come non lo era prima; perché ora è in essa come termine di conoscenza e d’amore. Ne consegue che, nella giustificazione, riceviamo una doppia carità: la carità che ci ama e la carità con cui amiamo… Perciò, sebbene Dio sia in tutte le cose per essenza, per presenza e per potenza, tra gli uomini lo possiedono solo coloro che portano in sé la grazia » (idem, Compendio di teologia, c. 9). – Ciò che il Dottore serafico insegna qui, in accordo con l’angelico San Tommaso, lo aveva sentito dal suo illustre maestro, Alessandro di Halés, il cui insegnamento ho già trascritto (Alex. Halens, 3 p. q. 61, m. 2, a. 3. Cfr. L. IV, c. 3, p. 233). San Tommaso avrebbe potuto apprenderlo anche dalle lezioni di Alberto Magno, se avesse dovuto imparare nelle scuole. È questa, infatti, la dottrina di questo illustre dottore che « la carità ci volge verso Dio e ci trasforma in Dio ». Per mezzo di essa aderiamo a Dio; per mezzo di essa siamo uniti a Lui, in modo da diventare un solo spirito con Lui. Per mezzo dell’amore di carità, Dio viene all’uomo e l’uomo va a Dio. Dio non abiterà mai in un cuore vuoto di carità. Se dunque abbiamo la carità, possediamo Dio, perché Dio è carità » (S. Alberto M., De adhærendo Dei, c. 12). Ora, entrambi avevano tratto questa dottrina comune dalla fonte delle Scritture, come può insegnarcelo un bel testo di San Francesco di Sales. « Quando lo Spirito Santo vuole esprimere l’amore perfetto, usa quasi sempre le parole di unione e congiunzione. Nella moltitudine dei credenti, dice S. Luca, c’era un solo cuore e una sola anima (Atti IV, 32). Nostro Signore ha pregato suo Padre per tutti i fedeli, perché siano tutti una cosa sola (Gv. XVIII, 2). San Paolo ci avverte di stare attenti a conservare l’unità dello spirito attraverso l’unione della pace. Questa unità di cuore, anima e mente, significa la perfezione dell’amore, che unisce diverse anime in una sola. Così si dice che l’anima di Gionata era unita all’anima di Davide, cioè, come aggiunge la Scrittura, egli amava Davide come la propria anima (1 Reg. XVIII, 1). – « Il grande apostolo di Francia, secondo il suo proprio sentire e quello del suo Ieroteo, scrive, credo, cento volte in un solo capitolo dei Nomi Divini, che è l’amore che unifica, riunisce, raccoglie, stringe, raccoglie e riporta le cose all’unità. Gregorio di Nazianzo e Sant’Agostino dicono che i loro amici con essi, non avevano che una sola anima, e Aristotele, approvando già ai suoi tempi questo modo di parlare: « Quando – dice – vogliamo esprimere quanto amiamo i nostri amici, diciamo: l’anima di costui e l’anima mia non è che una: l’odio ci separa e l’amore ci unisce. Il fine ultimo dell’amore non è altro che l’unione dell’amante con l’amato » (Trattato sull’amore di Dio, L, 1, c. 9.). Questo testo fa molta luce sui precedenti. Inoltre, si accorda mirabilmente con l’affermazione di San Paolo: « Chi aderisce al Signore è un solo spirito con lui » (I Cor. VI, 17). « Ogni amore, sia esso di Dio o degli Angeli, l’amore spirituale o l’amore sensibile, è una forza unitiva e concretiva, che muove gli esseri superiori a diffondersi su quelli inferiori, gli esseri uguali a fluire in comunicazioni reciproche, e gli esseri subordinati a gravitare verso quelli superiori come verso il loro centro. – S. Dionigi, de Div. Nomin,, c. IV, § 15). Perché cos’altro è aderire a Dio se non conoscerlo intimamente e amarlo con l’amore perfetto di carità? S. Giovanni, l’Apostolo e il discepolo dell’amore, non predica nulla più spesso di questo privilegio della carità divina. « Chi sta nella carità sta in Dio e Dio in lui, perché l’amore è il legame per eccellenza; poiché tende a chiudere insieme due cuori che si amano; perché li fonde in modo da disporli a questa  flusso reciproco (« L’amore divino è ancora estatico; perché dove domina, colui che ama non è più suo, ma di colui che ama… Così il grande Paolo, eletto dal divino Amore, la cui potenza lo rapiva nell’estasi, gridava con voce più che umana: Io vivo, ma non sono io, bensì Cristo che vive in me: come un vero amante, passato, come dice di sé, in Dio, vivendo non di una vita propria, ma della vita sovranamente cara dell’oggetto del suo amore. » S. Dionigi, ibid. §13). « Il mio cuore – esclama la sacra amante dei Cantici . il mio cuore si è sciolto quando il mio amato mi ha parlato » (Cant. V. 6, Col. s. Thom., 1, 2. Q. 28 tot.). Ora, la carità che opera un tale mirabile avvicinamento, ha la sua radice nella grazia, ed è alla grazia che dobbiamo riferire i suoi atti come alla loro causa primordiale.

3. – Il coronamento della nostra adozione, la completa espansione di questa sostanza iniziale, initium substantiæ (Hebr. III, 14), che noi siamo oggi per grazia, non avverrà che in cielo. (è là che, divenuti uomini perfetti in Cristo, la nostra unione che oggi è abbozzata, sarà perfetta; là saremo veramente con Gesù Cristo, e Gesù Cristo sarà Egli stesso in noi; là, entrando nella gioia del Signore, ci troveremo pienamente penetrati e investiti dall’essenza divina. Ora, in cosa consiste soprattutto l’unione di beatitudine, e come si opera? Per la visione intuitiva e l’amore beatifico. È attraverso questi due atti che noi saremo con il Cristo; attraverso di essi Egli diventerà il nostro cibo, la nostra gioia, il nostro tutto. Grazia consumata, luce di gloria, carità perfetta, con le loro operazioni più sublimi della conoscenza e dell’amore, questo, noi lo sappiamo e lo gusteremo un giorno, è ciò che ci riempirà di Dio, ciò che realizzerà pienamente le promesse del Salvatore: Dio in noi, e noi in Dio. Se l’unione eterna dell’anima con il suo Dio deve essere perfezionata dalla conoscenza e dall’amore, non deve l’unione del tempo essere dello stesso ordine? – Questo, dunque, è l’esemplare e il culmine della nostra attuale unione. Da entrambe le parti, è unione attraverso le operazioni più spirituali dell’anima, con Dio per oggetto; la differenza è solo nella perfezione dei principi e nella perfezione degli atti che emanano da questi principi. « La vita della grazia e la vita della gloria sono la stessa cosa, dice Bossuet, nella misura in cui non c’è differenza tra l’una e l’altra se non quella che si trovi tra l’adolescenza e il fiore degli anni. Là è consumata, qui è in via di perfezionamento; ma è la stessa vita (di conseguenza, la stessa unione)… La gloria non è altro che una certa scoperta che si fa della nostra vita nascosta in questo mondo… » (Bossuet, 2° ser. (Bossuet, 2° sermone per la festa di tutti i Santi).

4. – La teologia mistica ci parla anche dell’unione dell’anima con Dio; di questa unione che, nel suo più alto grado, tiene per così dire il mezzo tra l’unione comune dei giusti e l’unione consumata dei beati, tra l’oscurità della fede e la piena luce della gloria. Non è più la terra e non è ancora il cielo. Il Cantico, quel dolce poema dell’amore divino, come l’ha giustamente chiamato Dionigi l’Areapagita (Hecc. Hierarc., c. 5), ci racconta, in versi di incantevole bellezza, le gioie, le prove e gli effetti. Non mi impegnerò a ripercorrerne qui i caratteri e i gradi, poiché il nostro soggetto è ben diverso. Inoltre, coloro che la condiscendenza divina ha colmato più abbondantemente di questi favori straordinari, si dichiarano impotenti a descriverceli. Se ne parlano, come fanno San Bernardo, Santa Teresa e San Giovanni della Croce, è per loro stessa ammissione un balbettio, tanto è incapace la lingua umana di esprimere queste misteriose comunicazioni e l’orecchio umano di ascoltarle. Ma ciò che è importante notare è che questa unione, sotto qualsiasi forma, con qualsiasi nome la si chiami, unione semplice, estasi, rapimento, volo dello spirito, fidanzamento mistico o matrimonio, è iniziata, perfezionata e consumata dall’operazione di Dio nell’anima e dell’anima su Dio (È questo doppio nodo che uno studioso mistico ci ha indicato nelle righe seguenti: « Tertius modus unionis est animæ contemplativæ cum Deo per quemdam confactum substantialem Dei ad anima quo præsens et unitus sentitur; et perficitur hæc unio, quando etiam potentiæ spirituales animæ, quantum patitur vitæ præsentis Status, Deo adhærent, intellectus per cognitionem pene continuam ac veluti evidentem, voluntas vero per amorem, non tantum desiderii, sed quodammodo satietatis et fruitionis. Phil. de S. Trin. p. 3 Tr. 1, D 1, A. 5). I Santi, parlando delle nozze spirituali, cioè dell’unione più stretta dell’anima con il suo Dio durante i giorni di questa vita mortale, usano una doppia formula. Per alcuni, questa alleanza si consuma al centro o nella sostanza dell’anima (Santa Teresa, Castello interiore, 7a dimora, c. 1; 5. Giovanni della Croce, La vive flamme de l’amour, cant. 6° vers. – Tradotto da P. Maillard – Opere spirit. Lyon, 1894, p. 243), e gli altri, nel seno della Trinità (S. Angela di Foligno, Bolland. 4 gennaio, L. I, p. 197, 198). Fondamentalmente, è la stessa idea. In entrambi i casi, queste formule tendono allo stesso obiettivo: esprimere, per quanto lo permetta l’imperfezione del linguaggio umano, l’eccellenza suprema dei due elementi che costituiscono questo tipo di unione, cioè la manifestazione che Dio fa di se stesso alla sposa, e l’intensità dell’amore che quest’ultima concepisce per il suo Sposo divino. « È – dice San Giovanni della Croce – l’amore che la porta a questo alto grado di perfezione e la unisce infine strettissimamente a Dio. E siccome ci sono diversi gradi in questo amore, più l’anima ne ha percorsi, più profondamente è in Dio …. e poi l’ultimo grado è nella sua consumazione, l’anima è nel suo centro il più profondo di tutto, cioè è tutta penetrata dalle luci di Dio, tutta ardente delle fiamme del suo amore »  (S, Giov. della Croce, ibid.). – Ho detto dell’unione mistica che si realizza per operazione di Dio sull’anima. Egli vi entra e la tocca nella parte più intima di essa: là Egli gli scopre le sue infinite bontà, le parla, la illumina, la infiamma. Senza dubbio ci sono delle tenebre in questa manifestazione di Dio alla sua creatura; ma la coscienza di Dio presente è così forte e così intima la luce, che nulla, durante la durata di questa grazia, può distrarla. Voci divine e soprannaturali di cui parla S. Ignazio, quando scrive nel libro degli Esercizi: « Appartiene solo a Dio dare consolazione all’anima, senza alcuna causa precedente, perché appartiene solo al Creatore entrare nell’anima, uscirne, ed eccitare in essa i movimenti interiori che la attirano interamente all’amore della sua Maestà divina » (S. lgnat. Exerc. spir. Reg. pro plen. discret. spirit. Reg. 2). – Ho detto che la stessa unione si ottiene con l’operazione dell’anima su Dio. Come, in effetti, potrebbe Dio dare all’anima un’esperienza così profonda della sua presenza in essa, come potrebbe afferrarla, parlarle e accenderla con il fuoco del santo amore, se l’anima rimanesse inattiva e non rispondesse alle operazioni di Dio con le proprie operazioni? – Non ignoro che alcuni falsi dottori abbiano insegnato un’unione in cui l’anima rimarrebbe assolutamente passiva; ma così facendo hanno distorto in modo strano la passività di cui parlano i veri mistici. Per loro, la passività significa l’assenza di qualsiasi operazione sia nella mente che nella volontà; per loro, essere passivi è ricevere questa felice unione “senza causa”, cioè senza che nessuno degli atti ordinari dell’intelletto e della volontà possa farla nascere in chi la riceve (S, Ignat., l. c.). Se non si chiama Dio, invano si cercherebbe di attirarlo con suppliche, sospiri e lacrime; invano si cercherebbe di trattenerlo quando gli piacesse andare via o nascondersi. Anche la santità più consumata non ha un tale potere, ed è perciò che questi singolari favori della bontà divina portano il nome speciale di favori e grazie soprannaturali: soprannaturali, dico, non solo perché la natura in virtù delle proprie forze non possa raggiungerli, ma anche e soprattutto perché non sono compresi nella provvidenza ordinaria di Dio sui suoi eletti. Ci sono modi e metodi per arrivare con la grazia al perfetto spogliamento di sé; sarebbe un’illusione cercarne o proporne uno che porti all’unione mistica dei contemplativi. Qui, soprattutto, si adempiono le parole del Maestro: « Lo Spirito soffia dove vuole » (Giovanni III, 8). – Ma se il flusso di Dio nell’anima e dell’anima in Dio, che avviene in questa misteriosa unione, dipenda solo da Dio, non è meno certo che esso supponga la partecipazione dell’anima. « È una verità indubbia – scrive San Francesco di Sales – che l’amore divino, mentre siamo in questo mondo, sia un movimento, o almeno un’abitudine attiva che tende al movimento, e anche quando raggiungesse la semplice unione, non cessa di agire, anche se impercettibilmente, per aumentarla e perfezionarla sempre di più » (San Francesco di Sales, Trattato sull’Amore di Dio, L. VII, c. 1). Ed è per questo che la santa amante del Cantico, dopo aver detto che dorme appoggiata al seno dello Sposo, aggiunge che il suo cuore veglia (Cant., V, 2). E S. Paolo: « Io vivo; no, non sono io che vivo, ma Cristo in me ». – Non diciamo forse, parlando dell’unione consumata, che essa è per eccellenza una vita, la vita eterna? Non è quindi né pura passività né inerzia, anche quando è immutabile ed eterno riposo nella verità e nella bontà. Un uomo è in contemplazione davanti a un capolavoro; non si muove e non si agita. Pretendete che sia solo passivo, quando tutta la sua anima è persa nell’ammirazione davanti al quadro o alla statua che lo incanta? Ora, se agli atti di contemplazione si deve attribuire la virtù di unire l’anima a Dio a tal punto che « l’anima è in Dio e Dio in essa » (S. Teresa, Autobiografia, c. 18), non è ovvio che gli stessi atti, anche se di minor grado di elevazione, spieghino come ogni anima giusta sia il tempio di Dio, e Dio il luogo dell’anima?

5. – Ma una grave difficoltà sorge contro queste spiegazioni. Se sono la conoscenza e l’amore che ci mettono in possesso di Dio, allora non abbiamo più quella presenza intima, quando non siamo nell’atto di conoscere e di amare. Per quanto plausibile sia la conclusione, nulla obbliga ad ammetterla. Infatti, anche se non ho le operazioni, conservo i principi da cui emanano; il torrente non scorre ancora, trattenuto com’è da ostacoli esterni, ma la sorgente è piena; la mia mente e il mio Cuore non sono attualmente diretti verso Dio, ma rimane il peso che tende a spingerli in Lui; non agisco come proprietario, ma ho i miei titoli e baderò ai miei frutti, quando mi piace. – Ascoltate di nuovo S. Francesco di Sales nel suo ingegnoso e grazioso linguaggio: « Immaginate dunque che San Paolo, San Dionigi, Sant’Agostino, San Bernardo, San Francesco, Santa Caterina di Genova o di Siena, siano ancora in questo mondo, e che siano addormentati per la stanchezza dopo molte fatiche intraprese per amore di Dio; immaginate, d’altra parte, qualche anima buona, ma non così santa come loro, che si trovi nello stesso momento in preghiera di unione. Ti chiedo, mio caro Teotimo, chi sia più unito, più vicino, più attaccato a Dio: o questi grandi Santi che dormono, o quest’anima che prega? Certamente sono questi amanti amorosi: perché hanno più carità e i loro affetti, anche se in qualche modo sopiti, sono così impegnati e presi dai loro padroni che sono inseparabili da loro. Ma – vi chiederete – come può essere che un’anima che è in preghiera di unione, e mossa all’estasi, sia meno unita a Dio di quelle che dormono, per quanto siano sante? Ti dico, Teotimo, questo è più avanzato nell’esercizio dell’unione e quelli sono più avanzati nell’unione; quelli che sono uniti, non si uniscono, poiché dormono, e quello si unisce, essendo nell’esercizio e pratica attuale dell’unione » (Id. L. VIII, c. 3). – Possedere in sé tutti i principi della conoscenza e dell’amore, cioè dell’unione, non è possedere l’unione, tanto più perfetta perché questi principii stessi sono più intensi e più perfetti? Si potrebbe dire ancora: poter conoscere Dio e amarlo, conoscerlo anche e amarlo attualmente con l’amore perfetto di carità, non è l’unione che fa dell’anima del giusto un tempio di Dio: perché né la conoscenza né l’amore presuppongono la presenza reale del loro oggetto, anche se lo attirano all’anima, o spingono l’anima verso di esso. D’accordo, ci sono conoscenze ed amore compatibili con l’assenza; e questo è troppo ovvio per essere dimostrato. Ma chi non vede che questo non sia il caso della conoscenza e dell’amore di cui stiamo parlando? Ecco due amici separati da una grande distanza: pensano l’uno all’altro, si amano. Non direi, naturalmente, che siano veramente presenti l’uno all’altro; tuttavia, questa distanza reciproca tende a diminuire in proporzione alla conoscenza e all’affetto che hanno l’uno per l’altro. Cosa c’è di più comune di queste e simili espressioni: … tu sei sempre presente per me nei miei pensieri; … ti porto nel mio cuore? – Supponiamo che, per un incredibile prodigio, la distanza che separa questi amici non impedisca loro di conversare familiarmente l’uno con l’altro, né di vedersi a tutte le ore, né di darsi i segni di amicizia che sarebbero possibili se vivessero fianco a fianco, nella stessa città, sotto lo stesso tetto; direte voi che, per quanto lontani possano essere nel corpo, non hanno cessato di essere nello spirito? Lo direste, soprattutto, se uno di loro potesse, a volontà, penetrare davvero, per un’azione misteriosa, nell’anima del suo amico, per parlargli cuore a cuore, per fornire continuamente l’orecchio alle sue parole, per accertare i suoi domini e i ricordi della sua amicizia? Ora, ecco cosa avviene tra l’anima del giusto e Dio, in virtù dei doni soprannaturali della grazia,…  cosa dico? Ciò che suppone per i due amici non è solo che un’ombra dell’ineffabile scambio del figlio adottivo con suo Padre: perché è la sostanza di Dio che è lì, che dà, conserva e attiva il potere di conoscerlo e amarlo. – Vorrei che coloro ai quali questa obiezione sembra così grave, facessero una semplice riflessione su queste parole dell’Apostolo: « Finché siamo in questo corpo mortale, siamo ancora lontani dal Signore. » E perché dunque lontani se Egli è dappertutto, anche nelle profondità di noi stessi? « Perché noi camminiamo con la fede, non nella pienezza del chiarore della vista » (II. Cor., V, 6-7). Così Paolo ha un immenso desiderio di vedere il proprio corpo dissolversi per essere se stesso con Cristo (Fil. I, 23) e perdersi in Lui. – Soppesiamo attentamente queste parole, perché forniscono la soluzione necessaria. Essere lontani da Gesù Cristo per i giusti di questa terra è conoscerlo e amarlo in modo imperfetto. Vederlo faccia a faccia, amarlo di un amore che nulla turba, nulla distrae, nulla arresta è essere con Lui, inabissarsi in Lui. Tuttavia, l’unione che abbiamo con Dio con la conoscenza di Dio e l’amore di amicizia è una presenza intima, un possesso, quando si compara lo stato del giusto e l’allontanamento della natura e del peccato. E Dio è veramente in questa anima di giustificato, come nel suo tempio. Se il tempio di Dio è, per eccellenza, la dimora in cui Dio è manifesto, conosciuto, amato, lodato, adorato, come rifiuteremmo noi questo titolo all’anima in cui la grazia, la fede, la speranza, la carità, tutte le virtù si incontrano e si uniscono per dargli il potere di glorificare interiormente il suo Dio? – Concludiamo questo capitolo con un testo di San Paolo: esso riassume, in poche parole, le nostre precedenti spiegazioni sull’unione soprannaturale dei figli adottivi con Dio. « Io inchino le mie ginocchia al Padre di Gesù Cristo, nostro Signore …., affinché, secondo le ricchezze della sua gloria, vi rafforzi nell’uomo interiore per mezzo del suo Spirito; affinché Gesù Cristo abiti nei vostri cuori per mezzo dello Spirito e voi siate radicati e fondati nell’amore » (Efes. III, 13-17). – Entriamo nel pensiero dell’Apostolo. La fede fa abitare Cristo nei nostri cuori: non la fede morta che si può trovare in un peccatore, sebbene egli non sia né il tempio né la dimora privilegiata di Dio, ma la fede nobilitata dalla grazia santificante, poiché essa presuppone la formazione dell’uomo interiore; la fede che, mescolando le sue radici con quelle della carità, opera con essa e attraverso di essa, « fides quæ per charitatem operatur » (Gal. V, 6). E poiché questa fede si trova nei figli di adozione, in virtù del loro Battesimo, con la grazia e la carità che la vivificano, le loro anime sono un tabernacolo dove Dio fa la sua dimora; e ogni madre cristiana può, seguendo l’esempio del padre di Origene, il martire Leonida, baciare con amore e rispetto il petto del proprio figlio battezzato: perché questo petto è in tutta verità il santuario dello Spirito Santo.

LA GRAZIA E LA GLORIA (22)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.