LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (16)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (16)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO SETTIMO

Suor Elisabetta della Trinità e le anime sacerdotali

« Il sacerdote è un altro Cristo che lavora per la gloria del Padre ».

1) Amicizie sacerdotali — 2) Il sacerdote della Messa — 3) Associata all’apostolato del sacerdote — 4) Il sacerdotE e la direzione delle anime.

Un’anima di contemplativa non si rinchiude negli stretti orizzonti delle mura del suo convento. La sua vita spirituale, slanciata nell’ampia corrente del pensiero della Chiesa, si muove seguendo le direttive e le mire stesse della redenzione. La sua preghiera corredentrice, ad ogni istante, copre l’universo. Così faceva la Vergine del Cenacolo. Mentre i primi Apostoli andavano all’azione ed al martirio, Maria li accompagnava, silenziosa orante, in tutti i loro combattimenti per Cristo. È chi oserebbe pensare che l’onnipotente intercessione della Madre di Dio non riuscisse più efficace, per l’estensione del regno di Cristo, delle stesse fatiche eroiche d’un san Pietro o di un san Paolo? La Chiesa di Gesù, in tutto il fluir dei secoli della sua storia militante non dimenticherà mai di essere uscita dalla preghiera contemplativa del Cenacolo; e la sua ina sulle anime serberà, come base costante, la preghiera dei suoi santi. – La maggior parte delle grandi famiglie religiose hanno fatto proprio, ed hanno attuato questo modo di concepire le cose, e gli Ordini più apostolici sostengono il ministero esteriore dei fratelli con la continua preghiera delle sorelle. San Domenico, prima ancora di fondare il suo Ordine, cominciò con lo stabilire le suore, contemplative ed apostoliche insieme, di Nostra Signora di Prouille, alle quali affidò la missione di sostenere, con la loro vita di preghiera e di sacrificio, le fatiche dei Predicatori. Riguardo a questo punto, suor Elisabetta della Trinità, si trovò, al Carmelo, dinanzi ad una delle tradizioni più care al suo Ordine, e più feconde per il bene spirituale della Chiesa: infatti, l’immolazione silenziosa delle figlie di santa Teresa è, prima di tutto, per i sacerdoti. Ed Elisabetta ebbe sempre una grande venerazione per il sacerdozio. Offrì per essi la sua vita? Non lo sappiamo con certezza; il suo parroco, che fu per molto tempo suo confessore, ne aveva la persuasione (ho avuto questo particolare da Lui direttamente.). Ad ogni modo, se nessun indizio positivo ci permette di affermarlo, abbiamo però numerosi documenti ad attestarci quale e quanta parte dedicò ad essi, nelle sue preghiere di Carmelitana. – Quando un sacerdote le aveva raccomandato il proprio ministero, prendeva molto sul serio la sua promessa di preghiera. « Dopo il nostro ultimo colloquio, sono unita a voi in modo particolare e un’intensa corrente di preghiera porta l’anima mia verso la vostra anima, specialmente durante la recita dell’Ufficio. Vi prometto che ogni giorno l’ora di Terza sarà per voi, per questa grande intenzione: che lo Spirito d’Amore, Colui che suggella e consuma l’Unità della Trinità, vi doni una supereffusione di Se stesso; e, alla luce della fede, vi porti in alto, su quelle vette dove, già irradiati dal sole divino, non si vive che di pace, di amore e di unione » (Lettera al sacerdote Don J… – 11 febbraio 1902) Suor Elisabetta della Trinità non si accosta ad un’anima sacerdotale — anche se della sua famiglia — se non con infinito rispetto: l’uomo scompare dinanzi a Cristo. In parlatorio, mai la minima ombra di sensibilità femminile. « Era un’anima, e basta », ci diceva il giovane sacerdote entrato a far parte della sua famiglia, al quale ella indirizzò il maggior numero di lettere di questo genere: non più di dodici in tutto. « Fin dall’inizio del colloquio, « Dio solo », e non si discendeva più da questa atmosfera tutta divina ». Suor Elisabetta aveva un’idea alta e pura del sacerdozio! Si possono seguire i minimi moti dell’anima sua nella corrispondenza con questo seminarista che essa accompagnava al sacerdozio e che seguirà poi nel suo apostolato. Il primo incontro fu tutto soprannaturale. Lo scriveva a sua sorella: «… Ho avuto un colloquio tutto divino col reverendo Don Ch… Credo che l’anima del sacerdote e quella della Carmelitana si sono fuse ». Un’intimità di anime si iniziava, che continuerà sino alla morte. – «… Prima di entrare nel silenzio rigoroso della Quaresima, voglio rispondere alla vostra buona lettera; la mia anima ha bisogno di dirvi che è in comunione con la vostra, per lasciarvi prendere, rapire, invadere da Colui che ci avvolge nella Sua carità e vuole consumarci nell’Uno, con Lui. Pensavo a voi leggendo queste parole del Padre Vallée sulla contemplazione: « Il contemplativo è un essere che vive sotto l’irradiamento del volto di Cristo; che penetra nel mistero di Dio, seguendo non il raggio luminoso che sale dal pensiero umano, ma la luce che emana dalla parola del Verbo Incarnato ». Non la sentite in voi la passione di ascoltarla, questa divina parola? Talvolta, il bisogno di tacere è così forte, che si vorrebbe non saper più fare altro che rimanere, come Maddalena, ai piedi del Maestro, avidi di ascoltare, di penetrare sempre più addentro in quel mistero di amore che Egli è venuto a rivelarci. Non pare anche a voi che, se l’anima non si discosta mai da questa sorgente, può come Maddalena, nella sua contemplazione, anche allora che, in apparenza, compie l’ufficio l’ufficio di Marta? In questo modo io intendo l’apostolato. sia per la carmelitana che per il sacerdote: l’uno e l’altra possono irradiare Dio, possono darlo alle anime, se non si allontanano dalla sorgente divina. Mi sembra che dovremmo avvicinarci molto al Maestro, metterci in comunione con l’anima Sua, fare nostri tutti i suoi affetti; poi andare, come Lui, nella volontà del Padre » (Lettera al sac. Don Ch. 24 feb. 1903). – Tutte le sue lettere sono animate dallo stesso accento soprannaturale. Nessuna formula di banali complimenti; dalla prima frase, le anime si stabiliscono in Dio, e non ne ridiscendono più: « Avendo amato i suoi che erano nel mondo, Egli li amò sino alla fine » S. Giov. XIII, 1). Mi pare che nulla, meglio della Eucaristia,  ci possa dire l’amore di Dio. L’Eucaristia è l’unione, la consumazione, è Lui in noi e noi in Lui; è dunque il cielo sulla terra? Il cielo nella fede, in attesa della visione, del « faccia a faccia », tanto sospirato.  « Saremo saziati quando ci apparirà la Sua gloria, quando Lo vedremo nella Sua luce » (Ps. XVI, 15). Che dolce riposo per l’anima, non è vero? Il pensiero di questo incontro con Colui che unicamente amiamo! Tutto il resto scompare, e ci sembra di entrare già nel mistero di Dio… È talmente « nostro » tutto questo mistero, come voi mi dite nella vostra lettera. – Pregate perché io viva pienamente la mia prerogativa di sposa. Pregate, perché sia sempre pronta a tutto, con la lampada della fede sempre viva, affinché il Maestro possa disporre di me come vorrà. Io bramo di restarmene continuamente vicina a Colui che sa tutto il mistero, per imparare tutto da Lui. «Il linguaggio del Verbo è infusione del dono ». È proprio vero; Egli parla all’anima nel silenzio. Oh, questo. caro silenzio!… per me, è la beatitudine. Dall’Ascensione alla Pentecoste, siamo state in ritiro nel Cenacolo, nell’attesa dello Spirito Santo; ed era così bello! Durante tutta questa ottava, abbiamo la esposizione del santissimo Sacramento, nella nostra cappella, e passiamo ore divine in questo piccolo angolo di paradiso, dove possediamo la visione sostanziale sotto le umili specie dell’Ostia. Si, Colui che i beati contemplano nella chiara visione, è il medesimo che noi adoriamo nella fede. Vi trascrivo un pensiero tanto bello che mi è stato inviato: «La fede è il « facie ad faciem » (1 Cor. XIII, 12) nelle tenebre. Perché non sarebbe così anche per noi, dal momento che portiamo in noi Iddio, e che Egli altro non chiede che di possederci, come ha posseduto i santi? Ma i santi erano vigilanti sempre; « Essi tacciono — come dice il Padre Vallée — vivono raccolti, e non hanno altra attività che di rendersi sempre più capaci di ricevere ». Uniamoci, per essere la gioia di « Colui che ci ha troppo amati » (Ephes. II, 4), come dice san Paolo; facciamogli nell’anima nostra una dimora in cui tutto sia in pace, in cui risuoni sempre il cantico dell’amore, del ringraziamento. E poi, silenzio!… il grande silenzio, eco di quello che è in Dio… Avviciniamoci, come mi dite, alla Vergine tutta pura, tutta luminosa, affinché ci introduca in Colui nel quale Ella penetrò così profondamente. Sia, la nostra vita, una comunione continua, un movimento semplicissimo verso il Signore. Pregate per me la Regina del Carmelo, ché io pure prego molto per voi, e vi assicuro che rimango a voi unita, nell’adorazione e nell’amore » (a Don. Ch. – 14 giu.1903). Nessuna traccia di sentimentalità o di esagerazione queste righe di una purezza che non ha più nulla della terra. – L’ora del diaconato si avvicina per il seminarista; in nome del Carmelo di Digione, suor Elisabetta gli assicura che non sarà dimenticato: « Misericordias Domini in æternum cantabo (Ps, LXXXIII, 2). La nostra reverenda Madre, non potendo scrivere lei stessa questa sera, mi incarica di venire a voi, affinché possiate ricevere una parola dal Carmelo, che vi dica quanto vi siamo unite in questo grande giorno. Quanto a me, io mi raccolgo e mi ritiro fino in fondo all’anima mia, dove abita lo Spirito Santo; e chiedo a questo Spirito d’Amore « che scruta, anche le profondità di Dio » (1 Cor. II, 10) di donarsi sovrabbondantemente e di irradiare l’anima vostra sotto la Sua grande luce, riceva « l’Unzione del Santo » di cui parla il discepolo dell’amore. Con voi, io canto l’inno del ringraziamento; ma con voi pure io taccio per adorare il mistero che vi avvolge. Il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, la Trinità tutta si china su di Voi, per far risplendere la « gloria della sua grazia » (A Don Ch… in occasione del suo diaconato – Aprile 1905). – San Paolo, nella sua epistola ai Romani, dice che « quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo » (Rom. VIII, 29). Mi sembra che parli proprio di voi. Non siete voi, infatti, questo predestinato che Dio ha eletto perché sia suo sacerdote? Penso che, nella sua attività di amore, il Padre si china sull’anima vostra e la lavora con il suo tocco delicato, perché la somiglianza con l’ideale divino sia sempre più perfetta, fino al giorno in cui la Chiesa vi dirà: «Tu es sacerdos in æternum » (Ps. CIX, 4). Allora, tutto in voi sarà per così dire una copia di Gesù Cristo, il Pontefice supremo; e voi potrete incessantemente riprodurlo dinanzi al Padre suo e dinanzi alle anime. Quale grandezza! La virtù « sovraeminente » di Dio fluisce nel vostro essere per trasformarlo e divinizzarlo. È opera sublime che richiede grande raccoglimento, grande amorosa applicazione & Dio » (Lettera a Don Ch… – Primavera del 1905. Prima della Sacra Ordinazione). – Giunta alfine l’ora dell’Ordinazione sacerdotale, l’anima di suor Elisabetta, impotente ad esprimere ì suoi sentimenti per l’imminenza del grande mistero, non trova rifugio che in una più intensa preghiera: « Avevo chiesto alla nostra reverenda Madre il permesso di scrivervi, per dirvi che l’anima mia è tutta con la vostra anima in questi ultimi giorni che precedono la sacra ordinazione; ma ecco che, avvicinandomi a voi, dinanzi al grande mistero che si prepara, non so più fare altro che tacere… e adorare l’eccesso d’amore del nostro Dio. Insieme alla Vergine, voi potete cantare il vostro « Magnificat », e trasalire in Dio, nostro Salvatore, perché l’Onnipotente ha compiuto in voi grandi cose e la Sua misericordia è eterna. Poi. come Maria, conservate tutto ciò nel vostro cuore, mettetelo vicino al Suo, perché questa vergine sacerdotale è anche « Madre della divina grazia » e, nel suo grande amore, vuole prepararvi a divenire « quel sacerdote fedele, secondo il Cuore di Dio », di cui parla la sacra Scrittura. Come questo « sacerdote del Dio altissimo, che non ha né padre, né madre, né genealogia, né principio di giorni, né termine di vita » (Heb. VII, 3), immagine del Figlio di Dio, così voi pure, mediante la sacra unzione, divenite quell’essere che non appartiene più alla terra, quel mediatore fra Dio e le anime, chiamato a far risplendere « la gloria della Sua Grazia », con la partecipazione alla sovraeminente sua virtù ». Gesù, il Sacerdote eterno, diceva al Padre, entrando nel mondo: « Eccomi per fare la tua volontà » (Hebr. X,9). Mi pare che questa debba essere anche la preghiera vostra, nell’ora solenne in cui vi inoltrate nel sacerdozio; e mi è caro ripeterla con voi. Venerdì, all’altare, quando fra le vostre mani consacrate verrà ad incarnarsi nell’umile ostia, per la prima volta, Gesù, il Santo di Dio, non dimenticate colei che Egli ha condotta sul Carmelo perché sia la lode della Sua gloria. Chiedetegli di seppellirla nella profondità del Suo mistero e di consumarla nelle fiamme del Suo amore. Poi, offritela al Padre insieme al divino Agnello. A Dio! se sapeste quanto prego per voi! La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con voi » (2 Cor. XIII, 3). – Suor Elisabetta amava il sacerdote soprattutto all’altare, nel momento in cui il Verbo Incarnato si immola fra le sue mani, per la Chiesa. Sentiva, per il profondo intuito del mistero di Cristo scolpito nella sua anima dal Battesimo, che in quell’ora specialmente il sacerdote compie nel mondo il suo grande ufficio di mediatore. Essa non baciava, come santa Caterina da Siena, le orme dei passi del sacerdote che le aveva dato il Cristo nella santa Comunione; ma supplicava, con un’insistenza che commuove, di essere ricordata durante il santo Sacrificio dai sacerdoti che la conoscevano; supplicava che immergessero l’anima sua « nel sangue dell’Agnello ». « Lo so che ogni giorno, durante la santa Messa, voi pregate per me. Mettetemi nel calice, affinché l’anima mia sia tutta impregnata del sangue del mio Cristo; ho sete di questo sangue, che mi renda tutta pura, tutta trasparente, in modo che la Trinità possa riflettersi in me come in un cristallo » (Lett. al Can. … – Agos. 1902). Ancora la medesima preghiera, quando entrava nei suoi ritiri particolari: « Parto, questa sera, per un grande viaggio. Per dieci giorni, solitudine assoluta, molte ore di orazione supplementare, velo abbassato quando devo circolare nel monastero. La mia vita sarà più che mai quella di un eremita nel deserto. Ma, prima di internarmi nella mia Tebaide, ho proprio bisogno di venire ad implorare il soccorso delle vostre preghiere, soprattutto una larga intenzione durante il santo Sacrificio. Nel momento in cui Gesù, il solo Santo, sì incarna nell’ostia che voi consacrate, vogliate, vi prego, consacrarmi con Lui come ostia di lode alla sua gloria, affinché tutti i movimenti, tutti gli atti miei siano un omaggio reso alla sua santità. « Siate santi, perché io sono santo » (Lev. XI, 44). Sotto questa parola mi raccolgo; camminerò, durante il mio viaggio divino, ai raggi di questa luce. San Paolo me la commenta, quando dice: « Dio ci ha eletti in Lui prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore » (Ephes. I, 4). Ecco, dunque, il segreto di una tale purezza verginale: rimanere nell’amore, cioè in Dio. « Dio è amore » (1 S. Giov. IV, 16). Durante questi dieci giorni, pregate dunque molto per me; ci faccio grande assegnamento. Anzi, vi dirò che mi pare una cosa semplicissima e naturale; il Signore non ha unito infatti le nostre anime affinché si aiutino a vicenda? e non ha Egli detto: « Il fratello aiutato dal fratello è come una città unita »? (Prov. XVIII, 19). Ecco, dunque, la missione che vi confido. E vi chiedo di voler ripetere per me la preghiera che saliva a Dio dal grande cuore di Paolo per i suoi cari figli di Efeso: « Vi conceda, il Padre, secondo la ricchezza della Sua gloria, di essere corroborati in virtù, mediante il suo Spirito, nell’anima vostra, così che Cristo prenda dimora nei vostri cuori per mezzo della fede; e voi, radicati e fondati in amore, possiate comprendere l’altezza e la profondità di questo mistero, e possiate conoscere l’amore di Cristo, che sorpassa ogni scienza, così che siate riempiti secondo la pienezza di Dio (Ephes. III, 14-19). Santifichiamo Cristo nei nostri cuori, affine di realizzare ciò che cantava Davide, sotto la mozione dello Spirito Santo: « Su di lui fiorirà, splendida, la mia santità » (Ps. CXXXI, 18 – A Don Ch…8 ott. 1905). E quando, nell’ultima fase della sua vita, suor Elisabetta ha trovato nella sacra Scrittura il suo nome nuovo, si rivolge ancora al sacerdote della Messa: « Aiutatemi, vi prego, ne ho tanto bisogno! quanto più cresce la luce, tanto più sento la mia impotenza. L’8 dicembre, durante la Messa solenne, fatemi il dono di offrirmi all’Amore onnipotente, perché io sia veramente « Laudem gloriæ ». L’ho trovato in san Paolo, ed ho compreso che questa è la mia vocazione fin dall’esilio, in attesa del Sanctus eterno » (A Don Ch… Dic. 1905).

3) C’è, nello svolgersi del mistero della Messa, un duplice gesto del celebrante, gesto che rivela molto bene la missione del sacerdozio e contiene tutto il senso della sua mediazione ascendente e discendente: l’elevazione dell’Ostia santa verso la Trinità alla Consacrazione, e la distribuzione del Pane di vita ai fedeli, al momento della Comunione. Offrire Cristo alla Trinità, donare Cristo al mondo: ecco la duplice missione del sacerdote sulla terra. Missione divina; per compierla degnamente, ci vorrebbe l’anima di Cristo, ed ecco perché la Chiesa tutta quanta, ma particolarmente le vergini contemplative sono impegnate alla conquista di tali anime; ed innumerevoli sono le vite che si immolano silenziosamente a questo scopo; sono le vite più pure, le più crocifisse che passano nei chiostri. Suor Elisabetta della Trinità. intuiva profondamente i bisogni spirituali del sacerdozio, e sentiva quanto è necessario pregare, perché i ministri di Dio siano santi. È chiaro che non bisogna chiedere ad una Carmelitana tutta una teologia del sacerdozio; suor Elisabetta non si addentra in una analisi particolareggiata delle virtù sacerdotali: pietà, castità, distacco dalle ricchezze, scienza, obbedienza, zelo per la salvezza delle anime e per la gloria di Dio; non è questo il suo compito, né sarebbe consono al suo temperamento spirituale. Fedele al suo metodo prende le virtù alla sorgente da cui scaturiscono: l’unione con Dio. Secondo un processo psicologico normale, per trasposizione, il suo sogno tutto personale di vita interiore viene proiettato nell’anima del sacerdote, ed una formula di sublime concisione ne definisce l’ideale santo: il sacerdote è « un altro Cristo che lavora per la gloria del Padre ». Quanto avrebbe compreso ed amato la parola così bella di Pio XI che nella sua Enciclica magistrale sul sacerdozio, dice: « il sacerdote viva come un altro Cristo. Vivat ut alter Christus » (Ad catholici sacerdotii – 20 dicembre 1935). Inoltre, secondo la sua grazia particolare, con atto delicatissimo e totale nascondimento di sé, senza neppure sfiorare il tono cattedratico, ma lasciando che con tutta semplicità l’anima sua di Carmelitana si effonda in una anima di sacerdote, suor Elisabetta sa ammonire che la vita interiore è il segreto di ogni apostolato, e che, senza vita interiore, anche il sacerdote, pur sollevando forse molto rumore, fa poco, pochissimo bene; quando non faccia invece del male, e un male irreparabile. Conosceva bene il testo del suo Padre spirituale, san Giovanni della Croce, nel Cantico: « Il minimo atto di amore puro ha più valore agli occhi di Dio ed è più benefico per la Chiesa e per l’anima stessa, che non tutte le altre opere unite insieme » (Cantico spirituale, str. XXIX). Tanto è vero che la più piccola scintilla di puro amore ha, per la Chiesa, la massima importanza. Essere apostolo significa comunicare Gesù Cristo al mondo; ma non si può donarlo che nella misura in cui lo si possiede. E lui stesso, il Maestro, ci ha insegnato le vere leggi dell’apostolato, nell’ultimo discorso ai discepoli, vigilia della sua morte. « Io sono la vite e voi i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porterà abbondanti frutti. Come il tralcio non può portare frutto da se medesimo, se non rimane unito alla vite, così neppure voi, se non rimanete in me. Senza di me, non potete far nulla. Ma se rimarrete in me (e nella misura in cui mi resterete uniti), porterete frutto, molto frutto. Tutto ciò che vorrete, chiedetelo e lo otterrete. Il Padre mio sarà glorificato, se produrrete frutti copiosi. Come il Padre ha amato me, così ho amati. Perseverate nel mio amore » (S. Giov. XV, 1). Questo discorso di Gesù dopo l’ultima cena è il codice dell’apostolato cristiano. – Seguendo il suo Maestro, suor Elisabetta della Trinità, cultrice squisita della vita interiore, non avrebbe potuto tacere questa particolare e assoluta necessità di intima unione con Gesù, per il sacerdote che vuole a sua volta comunicare Cristo alle anime. Nel pensiero di suor Elisabetta, l’apostolo è innanzi tutto un essere di preghiera e di immolazione silenziosa, ad imitazione del Crocifisso che ha salvato il mondo non con l’azione smagliante o con il fascino dei bei discorsi, ma col dolore e la morte. Ed essa, associando il suo apostolato all’azione del sacerdote, vuole restare nella linea di questa immolazione redentrice e nella imitazione di questa morte. Eccola, quindi, tutta intenta a « dare compimento nella sua carne a ciò che manca alle sofferenze di Gesù per il suo Corpo che è la Chiesa » ed a colmare così quelle misteriose lacune della passione di Cristo, lasciate da Dio perché possiamo apportare noi stessi la nostra goccia di sangue all’opera grandiosa della redenzione del mondo. « Chiediamogli di renderci coerenti nel nostro amore, cioè di fare di noi degli esseri di sacrificio; mi sembra che il sacrificio non sia che l’attuazione dell’amore:.« Mi ha amato e si è dato per me ». Mi piace tanto questo pensiero: «La vita del sacerdote — e della Carmelitana — è un Avvento che prepara l’Incarnazione delle anime ». Davide canta in un salmo: « Il fuoco dinanzi a Lui precede » (Ps. XCVI, 3). Il fuoco non è forse l’amore? E la nostra missione non è quella di preparare le vie del Signore mediante l’unione nostra a Colui che l’Apostolo chiama « un fuoco consumante »? (Hebr. XII, 29). Al suo contatto, l’anima nostra diventerà fiamma di amore diffusa per tutte le membra del Corpo di Cristo, che è la Chiesa; e consoleremo allora il Cuore del nostro Maestro che potrà dire, mostrandoci al Padre: « In essi, io sono già glorificato » (S. Giov. XVII, 10). L’anima apostolica di suor Elisabetta ha penetrato il senso profondo del dogma della Comunione dei santi, che associa ogni membro al bene spirituale della Chiesa tutta quanta. Cosciente di questa verità, essa, nel giudicare la parte sua personale di contemplativa nell’insieme del corpo mistico, sapeva elevarsi senza falsa umiltà a quell’altissima luce dell’unità che unisce tutti i membri della Chiesa militante e trionfante al « Cristo totale » in cammino verso la Trinità. La sua grande anima di contemplativa, lontana da vedute meschine e da piccole sensibilità, si muoveva a suo agio nei più ampi orizzonti del piano divino. « Non lo sentite anche voi che per le anime non esistono distanze, né separazioni, ma la realizzazione della preghiera del Cristo: « Padre, che essi siano consumati nella unità »? Mi pare che le anime pellegrine sulla terra e i beati nella luce della visione siano così vicini gli uni agli altri! poiché sono tutti in comunione con uno stesso Dio, con un medesimo Padre che si dona agli uni nella fede e nel mistero, e che sazia gli altri nella sua luce divina. Ma è il medesimo, sempre; e lo portiamo dentro di noi. Egli sta chino sulle anime nostre con tutto il suo amore, sempre, giorno e notte, bramando di comunicarci, di infonderci la sua vita divina per trasformarci in esseri deificati che lo irradino ovunque. Quale potenza esercita sulle anime l’apostolo che non si distacca mai dalla sorgente delle acque vive! Lasci pure che l’onda trabocchi e si sparga all’intorno; non c’è pericolo che la sua anima venga a trovarsi vuota, perché è in comunicazione con l’infinito. Io prego tanto per voi! prego che Dio invada tutte le potenze dell’anima vostra, che vi faccia partecipare a tutto il mistero, che tutto in voi sia divino e porti il suo suggello affinché siate un altro Cristo che lavora per la Sua gloria. – Voi, pure, nevvero, pregate me? Anch’io voglio lavorare tanto per la gloria di Dio; ma bisogna che sia tutta piena di Lui; sarò onnipotente allora, perché anche un solo sguardo, un desiderio, diverranno una preghiera irresistibile, che può tutto ottenere dato che, per così dire,  si offre Dio a Dio. Le nostre anime non siano che una sola, in Lui. Mentre voi lo porterete alle anime, io resterò come Maddalena, silenziosa e adorante, vicino al Maestro , chiedendogli di render fecondi nei cuori la vostra parola. Apostolo, Carmelitana, è tutt’uno. Doniamoci interamente a Lui, lasciamoci pervadere dalla Sua linfa divina; sia la vita della nostra vita, l’anima della nostra anima, e rimaniamo, vigili sempre, coscienti sempre, sotto la sua azione divina » (Lett. a Don B… 22 giugno senza data dell’anno). Tutto è equilibrato in questa dottrina dell’apostolato del sacerdote nella Chiesa, associato a quello della Carmelitana.  Mentre il sacerdote porta il Cristo nelle anime con la parola, coi Sacramenti e con le altre svariate forme del suo ministero, la Carmelitana se ne sta silenziosa come Maddalena ai piedi di Cristo, o meglio come la Vergine corredentrice ai piedi della Croce, immedesimata nell’intimo con tutte le vibrazioni dell’anima del Crocifisso e morendo con Lui per gli stessi fini di redenzione.

4) Il posto che occupa il Sacerdote nella vita cristiana è veramente della massima autorità ed importanza. Associato a Dio nella cura delle anime, egli è costituito, secondo la parola di san Paolo « collaboratore di Dio » (1Cor. III, 9). E suor Elisabetta della Trinità scriveva: «Voi siete il dispensatore dei doni di Dio; e l’Onnipotente, la cui immensità compenetra l’universo, sembra aver bisogno di voi per donarsi alle anime » (al Sac. Don B….). Verità, questa, a cui si riflette troppo poco. Il mondo riceve il Cristo dalle mani del Sacerdote. Al bimbo appena nato alla vita, egli dà, col Battesimo, un’altra vita: quella di Cristo; e in essa lo fa crescere, lo fortifica col sacramento della confermazione; lo nutre di Dio ogni mattina con le sue stesse mani; caduto, lo risolleva e lo risuscita alla vita divina; quando giunge poi l’ora in cui, divenuto uomo, sceglie e fissa la propria vita, è ancora il Sacerdote che viene a portare Cristo nel nuovo focolare; e finalmente, giunta la sera della vita, quando tutto è ormai compiuto, un gesto supremo di benedizione discende sul vegliardo che muore: « Parti, anima cristiana, ritorna a Cristo del tuo Battesimo », e il Sacerdote gli apre le porte del cielo. Dalla culla alla tomba, il sacerdote gli è vicino, sempre. Ma questa influenza del Sacerdote che accompagna l’uomo lungo tutta la sua esistenza, non si limita agli individui; si estende anche alle nazioni. Soltanto il Sacerdote ha ricevuto da Cristo la missione di « istruire tutti i popoli fino alle estremità della terra» (S. Matt. XXVIIIU, 19); ed egli, con la dottrina e col ministero della parola, rende docili le intelligenze al « giogo soave di Cristo ». Se si considerano le verità insegnate dal Sacerdote — osserva il Sommo Pontefice Pio XI nella sua enciclica Ad catholici sacerdotii » (20 dic. 1935) — se si vuol misurarne l’intima forza, si comprende facilmente a qual punto la di lui influenza sia benefica per l’elevazione morale e la tranquillità dei popoli. È il Sacerdote — e spesso soltanto lui — che ammonisce i grandi e i piccoli, ricordando loro la brevità fulminea di questa vita, la fugacità dei beni terreni, i veri valori spirituali ed eterni, la tremenda verità dei giudizi di Dio, l’incorruttibile santità di quello sguardo divino che scruta i cuori e dà a ciascuno secondo le opere sue. Veramente, il Sacerdote è il mediatore posto fra Dio e gli uomini per far discendere sopra di essi i beni che da Lui derivano, ed a Lui fare ascendere la preghiera che placa il Signore adirato ». Che dire poi dell’influenza esercitata dal Sacerdote sulle anime che, nella Chiesa, vivono una vita più intensamente spirituale? Queste soprattutto hanno bisogno di una guida sapiente per non smarrirsi nel « sentiero stretto » e fiancheggiato da precipizi, che conduce all’unione divina. San Giovanni della Croce ha pagine severe e avvertimenti gravi per i direttori spirituali insufficienti che mancano di scienza e di virtù. È dono sì raro e di così immenso valore, un saggio direttore! e san Francesco di Sales ammoniva di « cercarlo fra mille ». Santa Teresa, che ebbe un poco da soffrire a questo riguardo, serbò sempre un ricordo pieno di riconoscenza per quei Sacerdoti pii e dotti nei quali il Signore le aveva misericordiosamente fatto trovare un appoggio di cui non avrebbe potuto fare a meno, nelle ore difficili dell’anima sua e delle sue fondazioni; anzi, poiché, in tali circostanze, aveva ricevuto benefizi singolari dai grandi teologi dell’Ordine di san Domenico, la santa amava chiamarsi « domenicana di cuore ». Questo gusto della sana dottrina e della sapiente direzione è rimasto tradizionale, al Carmelo; e su questo punto, come su tutti gli altri, suor Elisabetta si mostrò vera figlia di santa Teresa. Bambina e giovinetta, andava regolarmente a confessarsi dal suo parroco che era insieme il suo direttore; ma lo trovava fin « troppo buono », e pensò di chiedere a un padre Gesuita una direzione più ferma. Scriveva nel suo diario, il 6 febbraio 1899: « Venerdì, sabato, domenica, avremo l’esposizione del santissimo Sacramento nella nostra parrocchia; e il mio antico confessore verrà a predicare l’adorazione perpetua. Sarò felice di rivederlo, di parlargli della mia vocazione; quante volte ho rimpianto la sua direzione ferma e severa! Il signor curato è tanto buono, anzi troppo buono; mi guida troppo dolcemente, non sa essere severo, mai. L’altro giorno ho parlato alla mamma del mio desiderio di lasciarlo e di andare invece dal Padre Chesnay, il predicatore degli esercizi spirituali, che sarei tanto contenta di poter avere come direttore; ma la mamma non ne è stata soddisfatta e d’ora innanzi non ne parlerò più. – Venerdì 10 febbraio: Sono andata a confessarmi, oggi, e sono rimasta veramente contenta; ho parlato al mio direttore del ritiro, gli ho confidato le mie risoluzioni e tutte le grazie di cui Dio mi ha colmato in questi giorni; ed egli mi ha consigliato di accusarmi, in ogni confessione, delle mancanze a questi miei propositi, assicurandomi che, in tal modo, farò un grande progresso ». A Digione, seguiva volentieri le conferenze spirituali i ritiri tenuti dai Padri Gesuiti e talvolta li consultava per il bene dell’anima sua, fedele poi a metterne in pratica i consigli. E quanto ammirava ed apprezzava la dottrina del Padre Vallée « così profondo, così luminoso! » (alla Signora A… – 29 settembre 1902.). La influenza di questo religioso eminente è manifesta in qualcuno dei caratteri più essenziali della fisonomia spirituale di suor Elisabetta: per esempio: tacere, credere all’amore, vivere nel profondo dell’anima in società con Colui che è presente e vuole, ad ogni istante, purificarci e salvarci. Tre mesi prima di morire, essa chiedeva ancora al Padre di darle i suoi consigli, e lo pregava a volerle tracciare un programma pratico di conformità al Crocifisso, idea gominante degli ultimi suoi giorni: «… Credo che l’anno venturo vi festeggerò con san Domenico nell’eredità dei santi, nella luce; ma, per quest’anno, mi raccolgo ancora nel cielo dell’anima mia per prepararvi una festa tutta intima; ed ho bisogno di dirvelo; ho bisogno anche, Padre mio, di chiedervi la vostra preghiera perché mi aiuti ad essere molto fedele, molto vigilante, e a salire il mio Calvario da vera sposa del Crocifisso: « Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi alla immagine del suo Figlio divino ». Questa parola del grande san Paolo riposa l’anima, ed io l’amo tanto. Penso che « nel suo eccessivo amore », Egli mi ha conosciuta, chiamata, giustificata; ed ora, nell’attesa di essere da Lui glorificata, voglio essere la lode incessante della sua gloria. Padre, chiedeteglielo per la vostra figliolina. Ricordate? proprio come oggi, cinque anni or sono, bussavo alla porta del Carmelo, e voi eravate lì presente, per benedire i miei primi passi nella santa solitudine. Ora, busso alle porte dell’eternità, e vi chiedo di volervi chinare ancora una volta sull’anima mia per benedirla sulla soglia della « casa del Padre ». Quando sarò inabissata nel fuoco immenso dell’Amore, in seno ai « Tre » verso i quali avete orientata l’anima mia, oh! non dimenticherò tutto quello che siete stato per me; e a mia volta, vorrei poter dare tanto al Padre da cui tanto ho ricevuto. Posso esprimervi un desiderio? Sarei felice di ricevere da ,voi due righe che mi indicassero come realizzare il piano divino: essere conforme all’immagine del Crocifisso. A Dio, mio reverendo Padre! Vi prego di benedirmi in nome dei « Tre » e di consacrarmi ad Essi come una piccola ostia di lode ». Non si vedeva suor Elisabetta, come tante anime inquiete, correre da un direttore all’altro; con semplicità e docilità, si accontentava dei confessori che la Provvidenza le inviava al Carmelo; tuttavia, in una necessità, non esitava a ricorrere ad un ministero straordinario. Così la vigilia della professione, l’anima sua smarrita e sgomenta non poté ritrovare la pienezza della pace che con la parola autorevole di un religioso prudente e sapiente, venuto apposta per lei. Per tutta la vita, serbò un affetto filiale e riconoscente al buon Canonico, amico di famiglia, che aveva ricevuto le sue prime confidenze. « Se la santa Regola del Carmelo — gli scriveva — impone silenzio alla mia penna, però la mia anima e il mio cuore non rinunciano, ve l’assicuro, a venire da voi; e valicano spesso la clausura; ma sono certa che il Signore me le perdona queste fughe, perché sono compiute con Lui e in Lui. Pregate tanto per la vostra piccola Carmelitana, perché sia più fedele, più amante, in questo nuovo anno; vorrei consolare davvero il mio Maestro, restando unita a Lui, sempre. Voglio farvi una confidenza tutta intima, dirvi che sogno di essere « la lode della Sua gloria ». L’ho letto in san Paolo; e il mio Sposo divino mi ha fatto sentire che questa è la mia vocazione fin dall’esilio, nell’attesa di cantare il Sanctus eterno nella città dei beati; ma questa vocazione di « lode di gloria » suppone una grande fedeltà: bisogna morire a tutto ciò che non è Lui, per non vibrare più che al suo tocco divino. E invece la povera Elisabetta fa ancora dei torti al suo Signore; ma, come un tenero Padre, Egli la perdona sempre, la purifica sempre col suo divino sguardo; ed essa, come san Paolo, cerca di dimenticare ciò che lascia indietro. Per slanciarsi sempre innanzi. Come si sente bisogno di santificarsi, di dimenticarsi, per essere interamente dedicata agl’interessi della Chiesa! Povera Francia! Io invoco per lei misericordia e la copro col sangue del Giusto, di Colui che è vivo sempre per intercedere in nostro favore (Hebr. VII, 25). E sento che la missione della Carmelitana è sublime: la Carmelitana deve essere mediatrice insieme a Gesù Cristo, deve essere per Lui quasi un prolungamento di umanità in cui Egli possa continuare la sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione. Chiedetegli che io possa essere all’altezza della mia vocazione, e non abusi mai delle grazie innumerevoli che Egli mi prodiga; perché se sapeste come un tale pensiero mi fa paura qualche volta! Ma allora mi rifugio in Colui che san Giovanni chiama «il Fedele, il Verace » e lo supplico di essere Lui stesso la mia fedeltà… – La domenica dell’Epifania si compie il terzo anniversario delle mie nozze con l’Agnello; durante il santo Sacrificio, consacrando l’Ostia in cui Gesù si incarna, vi prego, consacrate anche la vostra figliolina all’Amore onnipotente perché Egli la trasformi in Lode di gloria» (Al Can… – Genn. 1906). Ecco come la Carmelitana, fedele alla volontà del Maestro e alla sapienza della Chiesa, si rivolgeva al Sacerdote per chiedergli di aiutarla nelle diverse fasi della sua vita spirituale, e di condurla fino all’unione divina. È tutto il senso del Sacerdozio: con la parola, con la preghiera e con i Sacramenti, con la Messa soprattutto, « formare Cristo » nel mondo delle anime e « per Lui, con Lui, in Lui », consumarle « nell’unità » con Dio. Ma poi — cosa che suor Elisabetta della Trinità non supponeva neppure — essa traeva seco in un’atmosfera divina le anime sacerdotali che ebbero la fortuna di avvicinarla e che, tutte indistintamente, serbarono di lei il ricordo di una ben alta santità (Testimonianza ricevuta. Il suo confessore ha per lei un vero culto.). Caso non raro, nell’esercizio del sacro ministero: per un ammirabile compenso della Sapienza divina, il Sacerdote che si china sulle anime è santificato da esse. Chi ha molta esperienza, lo sa: se il Sacerdote è messo da Dio presso le anime per dirigerle e salvarle, vi sono pure, nel piano della Provvidenza, delle anime poste vicine al Sacerdote per rivelargli o per ricordargli il cammino delle eccelse vette. Il Padre Maestro Bafiez, celebre professore dell’università di Salamanca e fido appoggio di santa Teresa, era debitore alla grande riformatrice di alcuni fra i lumi più sublimi che fecero di lui un sì alto teologo contemplativo. E san Gioanni della Croce aggiungeva al suo « Cantico » una strofa stupenda sulla divina bellezza, dopo aver ricevuto le confidenze spirituali di una Carmelitana di Beas. Ma chi potrebbe dire le innumerevoli iniziative soprannaturali, nella vita della Chiesa attraverso i secoli, e le ere di apostolato che trovarono in questo stesso modo la loro ispirazione? Quante anime sacerdotali hanno attinto dagli scritti di suor Elisabetta della Trinità quello sguardo definitivo verso le alte cime, che tutto trasforma e rinnova! Per la umile Carmelitana di Digione è una sua maniera delicata e riconoscente di rendere al sacerdozio un po’ di tutto quello che ne ha ricevuto. Lassù, dal cielo, essa continua la sua missione di Carmelitana associata all’apostolato del Sacerdote per affrettare «il giorno di Cristo » (Eph. I, 10) in cui « Dio tutto in tutti » (1 Cor. XV, 28), per la « lode della sua gloria » (Eph.,, I, 12).

LA GRAZIA E LA GLORIA (14)

LA GRAZIA E LA GLORIA (14)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO III

Delle altre virtù infuse, comunemente chiamate virtù cardinali, e delle loro dipendenze.

I. – Le ultime righe del testo di San Tommaso che abbiamo appena letto, ci indicano, insieme alla fede, la speranza, la carità, altre virtù divinamente infuse che darebbero l’ultimo complemento all’attività soprannaturale dei figli di Dio. Si è convenuto di chiamarle Virtù Cardinali, perché sono come l’asse attorno al quale ruota tutta la vita morale dell’uomo. I teologi ed i filosofi, seguendo i Padri, ne riconoscono quattro: prudenza, giustizia, temperanza e fortezza; virtù principali a ciascuna delle quali sono attaccate un numero più o meno grande di virtù secondarie che non sta a noi caratterizzare in dettaglio (S. Thom. de Virt. card. c. un. a. 1. cum sqq.; col. 1. 2, q. 61). Ciò che è più appropriato al nostro argomento è cercare se, nell’uomo divinizzato dalla grazia, queste quattro virtù con quelle loro annesse siano virtù infuse e soprannaturali in se stesse, allo stesso modo delle virtù più divine della fede, della speranza e della carità. Bisogna ammettere che non troviamo più qui il perfetto accordo che abbiamo trovato parlando delle virtù teologali. È opinione di diversi teologi, che però sono di minore autorità, che questa prerogativa di avere necessariamente Dio solo come Autore, e di essere quindi soprannaturale come e quanto alla sostanza, è appropriata solo alle virtù propriamente teologiche. Per quanto riguarda le altre, esse avrebbero il loro principio nelle forze della natura; e, se i loro atti sono meritori, questo valore verrebbe loro, non dalla propria eccellenza, ma dalla dignità della persona che li compie e da un’influenza più o meno esplicita della carità. – Supponiamo che due uomini compiano lo stesso atto di giustizia; questo atto sarà meritorio per colui che porta in sé la grazia, e non lo sarà per l’altro. Ciò che fa la differenza non è il valore del principio prossimo, che da entrambe le parti è puramente naturale, ma la diversità dello stato. Avremo occasione di studiare questa questione del merito con calma, quando verrà il momento di considerare i figli adottivi dal punto di vista della loro crescita, poiché il merito ne è uno dei fattori principali. Qualunque possa essere il peso dei motivi addotti dai sostenitori di questa visione, due considerazioni mi sembrano più o meno decisive a favore delle virtù cardinali infuse.  La prima è una prova di autorità: ricordiamo la controversia che un tempo divideva i maestri della scienza sul tema della grazia santificante e delle virtù: i primi negavano che fossero conferite al Battesimo i secondi negavano che esse fossero conferite ai bambini nel Battesimo, e gli altri non stabilivano alcuna differenza tra i battezzati, qualunque fosse la loro età. Ora, su quali virtù verteva il dibattito? Si trattava solo delle virtù teologali, o si trattava anche delle altre? Il  Papa Innocenzo III, in un famoso documento (Innoc. III, cap. 3 Majores.), ce ne dà la risposta: « Ciò che molti affermano, cioè che né la fede, né la carità, né le altre virtù siano infuse nei bambini battezzati, per mancanza di consenso, non è approvato da un maggior numero… »  Pertanto, quando il Concilio di Vienne pronuncia che la sentenza affermativa è la più probabile, il termine “Virtù“, impiegato dai Padri, comprende sia le Virtù Cardinali che le Teologali, poiché erano entrambe oggetto del dibattito. – A questa venerabile autorità si deve aggiungere quella della Sacra Scrittura e della tradizione. Della Scrittura, dico: infatti, sono frequenti i passi in cui le nostre Sacre Lettere ci propongono la prudenza, la saggezza e la giustizia come atti o virtù, procedenti non dalla natura, ma dallo Spirito di Dio (Sap. VIII, 7; Gal. V, 22-23: II Pet. I, 4- 7, ecc.).  – Se, nel consultare la Tradizione, noi chiedessimo ai Padri, essi ci risponderebbero per bocca del grande Agostino: « Le virtù che ho nominato (pietà, castità, modestia, sobrietà…), queste sono le cose che devono essere conservate sempre e ovunque, in pubblico come in privato, nel lavoro come nel riposo: perché queste stesse virtù abitano nel cuore. E chi potrebbe elencarle tutte? Esse ci appaiono come l’esercito del grande Imperatore che siede nel centro della tua anima. L’imperatore fa del suo esercito ciò che gli piace; così Gesù Cristo Nostro Signore, appena comincia a dimorare nell’uomo interiore attraverso la legge, si serve di queste virtù come ministri per realizzare i suoi disegni » (S. August. in I ep. S.. Joan. Tract. 8, n. 1). Questo testo è così bello che merita di essere messo per intero davanti agli occhi del lettore.  “Opera misericordiæ, affectus charitatis, sanctitas, pietatis, modestia, sobrietatis, Semper hæc tenenda sunt. Sive cum in publico sumus, sive cum in domo, sive cum ante homines, sive cum in cubiculo, sive tacentes, sive aliquid agentes, sive vacantes; semper hæc tenenda sunt; quia intus sunt omnes istæ virtutes quas nominaxi. Quis autem sufficit omnes nominare? Quasi exercitus est imperatoris qui sedet intus in mente tua, Quomodo enim imperator per exercitum suum agit quodque (al. quod ei) placet; sic Dominus noster Jesus Christus incipiens habitare in interiore homine nostro, id est in mente per fidem, utitur his virtutibus quasi ministris suis. Et per has virtutes quæ videri oculis non possunt, et tamen quando nominantur, laudantur; non antera laudarentur nisi amarentur, non amarentur nisi viderentur; et si utique non amarentur nisi viderentur, alio oculo videntur, interiori cordis aspectu; per has virtutes invisibiles moventur membra visibiliter. Pedes ad ambulandum; sed quo? Quo moverit bona voluntas quæ militat bono imperatori. Manus ad operandum; sed quid? Quo jusserit charitas quœ inspirata est intus à Spiritu Sancto. Membra ergo videntur cum movenbur; qui jubet intus non videtur. Et quis intus jubeat, prope ipse solus novit qui jubet, et ille intus qui jubetur). – E, per caratterizzare meglio l’origine di questi doni, il santo Dottore ce li ha già mostrati come infusi nell’anima dei bambini piccoli, prima di qualsiasi uso dei loro poteri di ragionamento e fin dal Battesimo. – Veniamo alla seconda considerazione. Supponiamo che gli atti che dirigono e costituiscono l’osservanza della legge morale, quelli della giustizia, della religione, della temperanza ed altri, siano atti naturali in se stessi; supponiamo, per una successione conseguente, che le virtù da cui procedono non appartengano all’ordine delle virtù infuse, cosa ne risulterebbe? Questa conseguenza veramente stupefacente: che l’uomo trasfigurato nel suo essere dalla grazia, e divenuto deiforme, sarebbe deificato incompletamente nella sua vita morale; in altre parole, che la vita morale, in cui la dignità dei figli di Dio deve riflettersi, sarebbe esclusa da questa gloriosa trasformazione; perché i principi coinvolti rimarrebbero puramente naturali, come si possono trovare pure in un peccatore che è nemico di Dio. – Si può allora credere che Dio, che è così magnifico in tutti gli altri aspetti verso i suoi figli, abbia usato qui una tale parsimonia? Colui che, nell’ordine della natura, ha voluto che l’uomo avesse il potere di acquisire le virtù che lo ordinano all’adempimento più fedele e soave dei suoi obblighi morali di giustizia, temperanza e le altre virtù, avrebbe rifiutato lo stesso potere a colui che Egli eleva alla dignità di figlio? Un figlio degli uomini avrebbe le sue proprie virtù, e un figlio di Dio non avrebbe quelle che convengono alla sua nuova vita? Soprannaturalizzato nella sua tendenza immediata verso l’ultimo fine dalla fede, dalla speranza e dall’amore, non sarebbe più soprannaturalizzato nelle sue tendenze verso i fini intermedi e futuri, così indissolubilmente uniti con l’esistenza o la perfezione della carità! Io sono d’accordo che tra gli uomini, l’entrata in un nuovo stato di vita non richieda che solo una diligenza puramente incidentale nel modo di agire. Un semplice suddito che diventa imperatore o re, non riceve in sé un nuovo principio di azione che corrisponde alla sua nuova dignità. Né questo cambiamento di posizione sociale si basa su una trasfigurazione dell’essere interiore della persona che lo riceve. Ma la condizione dell’uomo a cui Dio dà il dono della sua grazia è ben diversa. Rivestito com’è di un nuovo essere, un essere che lo rende un dio, la sua vita morale deve corrispondere all’essere che ha ricevuto: deve avere un carattere superiore, e di conseguenza deve anche procedere da principii più alti dell’attività puramente naturale. Giudicare diversamente è stabilire una dualità di vita che nulla legittima (Vedi S. Franc. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. VII, c. 6; S. Thom: 1,2 q. 63. A. 4) e da cui mancherebbe manifestamente l’opera di Dio per eccellenza. – Ciò che fa esitare molti a ricevere come infuse le virtù, intellettuali e morali, di cui qui difendiamo l’esistenza, è che non hanno potuto vedere come, nella loro intima natura, esse differiscano dalle virtù acquisite naturalmente con la ripetizione di atti. Eppure, che abisso tra le une e le altre, quando le guardiamo dal punto di vista della loro essenza specifica!  Certamente, per fare solo un esempio, non è la stessa cosa praticare la temperanza secondo la regola imposta dalla ragione naturale, e osservarla secondo la regola propria dei figli di Dio, quella del Vangelo. – Non indulgere in eccessi nell’uso del cibo che danneggerebbero la salute del corpo, o moderare gli altri piaceri dei sensi in modo tale da vivere castamente, secondo gli obblighi dello stato di vita in cui ci si trova; non abbandonarsi alle inclinazioni disordinate che troppo spesso ci spingono ai piaceri proibiti; in una parola, mantenere la misura: questa è la natura propria della temperanza umana. Ma la temperanza del Cristiano che vive secondo i precetti ed i consigli del Vangelo, porta i suoi obiettivi ed i suoi sforzi molto più in alto. Non gli basta moderare i piaceri grossolani dei sensi; li rifiuta e li disprezza; non contento di governare il corpo, lo castiga e lo riduce in servitù. La croce è la sua delizia e la purezza degli Angeli la sua ambizione suprema. Vivere nella carne, come se non ci fosse più la carne, ecco fin dove arriva la temperanza di un figlio di Dio. – Sono ben consapevole che per avere la ragione ultima di questa rinuncia si deve tornare alla carità. Solo le anime fortemente innamorate dello Spirito Santo sono capaci di eccessi così eroici. Ma non ignoro nemmeno che, se è l’amore che le comanda, non è l’amore che deve eseguirne gli atti. Ogni virtù è determinata dal suo oggetto proprio e speciale – E siccome questo oggetto è per la carità Dio stesso, Dio sovranamente buono e sovranamente amabile, ne consegue chiaramente che l’oggetto della temperanza e delle altre virtù morali non sia immediatamente quello della carità. Dite, se volete, che queste virtù sono al servizio della carità; dei seguaci che la accompagnano per eseguire i suoi ordini, ciascuna nel suo dominio particolare, ed io lo sottoscrivo volentieri; perché l’ho imparato da S. Paolo. « La carità – egli dice – è paziente, è benigna, non è ambiziosa, non si gonfia », e così via. – Ma questo stesso richiede che queste Virtù appartengano allo stesso ordine della carità, che partecipino alla nobiltà del suo lignaggio, in una parola che siano virtù soprannaturali e, come la loro regina, divinamente infuse.

2. – Osserviamo che le virtù soprannaturali non escludono le virtù inferiori di cui la natura ci ha dato i germi, e che l’abitudine agli atti sviluppa più o meno prontamente nelle anime più di quanto la grazia non distrugga la natura stessa. Ma queste virtù umane non sono più, nel figlio di Dio, che le umili ausiliarie delle virtù superiori, e il loro ruolo è tanto più efficace quanto sempre più profonde esse gettano radici nelle profondità delle anime. – Ricordiamoci anche, perché lo si dimentica sì facilmente, che le virtù soprannaturali prevalgono su quelle della natura, non solo dal punto di vista dell’eccellenza, ma soprattutto dal punto di vista dell’attività, direi della virtualità, se fosse permesso usare questa parola. Infatti, esse non hanno solo lo scopo di facilitare il libero gioco delle nostre forze, o al massimo di perfezionare la loro stessa energia; ma danno loro anche una forza supplementare che non è nel loro dominio. Con esse, l’intelligenza alza le sue vedute ad altezze che nessuna mente creata potrebbe raggiungere, e la volontà conosce impulsi che la natura da sola non è in grado di produrre. Sebbene le virtù infuse diano all’anima una nuova potenza, non crediamo tuttavia che esse siano da sé stesse come le potenze naturali, un principio completo di operazioni. Per agire, esse hanno bisogno del concorso delle facoltà che suscitano e che servono loro da supporto. Non è che ci siano negli atti come due parti distinte, una delle quali una abbia la facoltà naturale e l’altra la virtù come causa: No: l’atto è tutto intero della virtù, come è tutto intero della potenza; infatti, la potenza e la virtù non formano che un principio prossimo che non è né la sola virtù, né la sola potenza, ma la potenza elevata, rafforzata, divinizzata dalla virtù. Non c’è nulla di identicamente simile nell’ordine degli agenti naturali, ma se ne possono trovare alcune lontane analogie. Vedete questa opera d’arte, un dipinto, per esempio: essa è del pittore e del pennello: tutto del secondo, tutto intero del primo. Ma il pennello, questa, non l’avrebbe mai fatta, se il genio dell’artista non l’avesse diretto, né vivificata con la sua azione. E, in un altro ordine, la sensazione, non è tutta del corpo e dell’anima, cioè dell’organo animato? – Se mi chiedete cosa ci sia nell’atto soprannaturale che richieda l’influenza della facoltà naturale, vi risponderò: È che esso è un atto di intelligenza o di volontà. Chiedetemi cosa sia la virtù infusa, e vi risponderò di nuovo: che essa è superiore ad ogni conoscenza, ad ogni volontà puramente umana. Certamente non che questi due elementi siano separati, né separabili nell’atto soprannaturale; ma comunque sono uniti in un’unità molto semplice, l’atto così com’è, o non sarebbe, o non sarebbe quello che è senza la doppia influenza che lo rende tale. Dire, come alcuni sembrano aver fatto, che la facoltà naturale non abbia nulla a che fare con l’operazione soprannaturale, e che tutto il suo ruolo si limiti a servire da supporto alla virtù, è dimenticare che la facoltà dell’anima è solo elevata nella sua attività per essere elevata nel suo atto. In verità, non so più perché la carità non debba essere nell’intelligenza e la fede nella volontà, se l’intelletto e la volontà non abbiano alcuna partecipazione attiva nella produzione degli atti che emanano dall’una e dall’altra virtù.

3. C’è una conclusione molto pratica da trarre da queste considerazioni sulle virtù infuse. Abbiamo ammirato in loro tutto un sistema di forze il cui possesso arma l’uomo, in vista dei combattimenti della vita cristiana, un’organizzazione completa per questo nuovo essere che è il figlio adottivo di Dio. Non lasciamo che la nostra armatura arrugginisca in un vergognoso riposo; usiamo questi meravigliosi organi, e non lasciamo che ciò che ci è stato dato per agire rimanga in una vile inerzia. È un gran peccato vedere un uomo di bei talenti e di grande intelligenza languire nell’ignoranza e nella pigrizia. Sarebbe un peccato minore se i Cristiani, portando nelle loro anime così tanti e così alti principi di attività soprannaturale, li annullassero con la loro indolenza, a rischio di perderli presto insieme alla vita divina che li sostiene? – Voi avete in voi la fede, la speranza e la carità; quelle abitudini di virtù che sono la pazienza, la dolcezza, la longanimità, la modestia, la continenza, la castità (Gal. V, 22), lo Spirito Santo li avrebbe seminati nelle vostre anime venendo Lui stesso a fissarvi la sua dimora, ed esse sarebbero lenti a rivelarsi con i loro atti? Sarebbe una pianta su cui pochi fiori sboccerebbero a malapena e che al massimo darebbe dei magri frutti? Ascoltiamo l’Apostolo e prendiamo per noi l’esortazione che ha fatto agli Ebrei, dopo aver raccontato lo stato disastroso di una terra che, spesso irrigata dalla pioggia, non produce altro che rovi e spine: « Miei diletti, benché parliamo in tale modo, noi ci aspettiamo cose migliori da voi  e più vicine alla salvezza… noi desideriamo che non diventiate indolenti, ma imitatori di coloro che per fede e pazienza erediteranno le promesse » (Ebr., VI, 9-13 ).

LA GRAZIA E LA GLORIA (15)

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO II

Le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità

Tra le virtù infuse, la dottrina cattolica ne propone tre principali: la fede, la speranza e la carità. Tutte e tre rispondono alla denominazione comune di virtù teologiche (o teologali), non solo perché hanno Dio come causa immediata, ed è Lui che ce ne ha rivelato la loro esistenza, ma anche e soprattutto perché, ordinandoci verso Dio, lo hanno direttamente come oggetto. Ho detto che ci sono proposte dalla dottrina cattolica: infatti, oltre al fatto che i Concili, ed in particolare il Concilio di Trento, ne fanno una menzione molto speciale, la Sacra Scrittura stessa le raccomanda in ogni momento; e la Chiesa, questa madre comune dei Cristiani, conformandosi alla volontà del suo divino Sposo, non desidera niente di meno che metterle nei cuori e nelle labbra dei suoi figli. Ora, se è vero, come abbiamo dimostrato, che gli atti presuppongono naturalmente dei principi d’azione che sono dello stesso ordine di questi atti, ovviamente gli atti di credere in Dio, di sperare in Dio, di amare Dio richiedono delle virtù infuse. Del resto, partendo da questo principio: che il nostro fine ultimo, come figli di Dio rigenerati in Cristo, fine verso cui dobbiamo tendere, e che, una volta raggiunto, farà la nostra beatitudine, è il possesso di Dio, non è difficile stabilire l’esistenza e la natura di queste tre virtù con una deduzione rigorosamente logica. Prenderò in prestito il mio ragionamento da S. Tommaso d’Aquino, e non farò che tradurre appena ciò che egli ci insegna nel terzo libro della Summa Philosophica (S. Thom., III, c. Gent., c. 102-103).

I. – Ecco, per prima cosa, come argomenta per dimostrare l’esistenza della più alta di queste tre virtù: la carità. La grazia santificante – dice questo grande Dottore – richiama in noi la carità, cioè l’amore perfetto di Dio. Che cos’è infatti la grazia se non un dono eccelso della dilezione divina? Ora, l’effetto proprio e naturale della dilezione divina nell’uomo è di condurlo a restituire a Dio, il donatore per eccellenza, amore per amore. Quando io amo e prodigo le testimonianze del mio amore amando, non è con lo scopo di conquistare il cuore della persona che amo, cioè di essere amato come io amo? Tanto che il mio amore, se incontra solo indifferenza e freddezza, invece di un amore reciproco, diventa languido e si spegne come un fuoco che è privato di ogni nutrimento! Cosa fa la grazia santificante in noi? – Ci assimila a Dio, ci rende partecipi della sua natura; ci dà diritto al possesso del Bene supremo; ci costituisce figli adottivi, amici, commensali ed eredi di Dio. Tutti questi titoli richiedono amore, non un amore qualsiasi, ma l’amore di carità. La somiglianza richiede l’amore: infatti ne è il naturale fondamento, poiché porta all’unità coloro che si somigliano (S. Thom., 1. 2, q. 27, a. 3). – La partecipazione della natura richiede amore: perché se partecipo alla natura di Dio, devo anche partecipare agli atti di cui, secondo il nostro modo di concepire, questa natura è essenzialmente il principio e la fonte, e di conseguenza nell’amore che ha per la sua infinita bontà. – La qualità di figlio adottivo richiede amore: perché si è mai figlio senza amare il padre, e qual Padre? – L’unione perfetta che sarà la nostra eredità richiede amore: come non amare infatti Colui che così teneramente e fortemente ci invita a vivere la sua vita, a possedere con Lui il sommo Bene, a sedere eternamente alla sua tavola nella gioia di un comune ed eterno banchetto? – E questo amore deve essere un amore puro e perfetto, l’amore della carità: perché la carità, come l’amicizia che contiene in sé, è fondata su questa comunione di natura, di aspirazioni, di beni e di vita (S. Thom., 1. 2, q. 27, a.3.). Ora, se la grazia santificante esige da noi in così tanti modi un amore filiale per Dio, non è necessario che nel darci questo amore, Dio ci dia anche il principio interiore che ci renda capaci di produrne gli atti? Posso io credere mai che, dopo aver fatto tanto perché io l’ami, mi abbia negato poi questa virtù della carità, il focolaio naturale da cui scaturisce l’amore divino? – Ma, si dirà forse, che bisogno c’è di un nuovo principio, poiché l’anima ragionevole con le sue potenze naturali può amare Dio con un amore di benevolenza, per se stessa, in vista della sua infinita bontà; amarlo non solo perché è la fonte da cui provengono tutti i beni, ma ancora perché Egli è in se stesso sovranamente buono, la bontà suprema, il Bene infinito. Io so quanti ostacoli potrebbero fermare l’anima in questo movimento di compiacenza amorosa; ma, mi guarderò bene dal negarlo, guardando le cose in sé stesse: questo amore di Dio conviene alla natura, e non supera assolutamente né la sua energia nativa né la sua tendenza naturale. Tuttavia, rimane pur vero che l’amore di carità supera assolutamente tutte le forze della natura. In effetti, che cos’è questo amore? L’amore di un bambino, l’amore di un amico? Ma in entrambi gli aspetti è di un’essenza così alta che nessun essere creato, per quanto perfetto e qualunque sia il diritto che presuma avere, possa vantarsi di giungere fin là. – Per convincervi di questo, chiedetevi quale sia l’amore naturale di Dio in una semplice creatura? L’amore di un umilissimo servo per il suo signore e padrone, l’amore di un fedele suddito per il suo re: infatti questo amore deve riflettere in sé la relazione essenziale della creatura con Dio. Noi vediamo ogni giorno, è vero, bambini adottati che nutrono per i loro genitori d’adozione sentimenti di figli, sudditi che diventano per i loro principi amici del cuore, senza che sia necessario infondere loro una nuova capacità d’amore. – Questa osservazione, lungi dall’invalidare la nostra conclusione, ci aiuta a capire meglio la sua forza. Poiché, infatti, il comune affetto del servo e del suddito, può essere convertito nell’amore di un bambino e di un amico, senza che si operi alcuna trasformazione nel principio interiore da cui procede l’amore? Questo perché l’estraneo che diventa figlio, il suddito che diventa amico, è uguale per natura alla persona che lo accoglie nella sua famiglia o nella sua cerchia di amicizia. Dall’una e dall’altra parte, ci sono degli uomini che si avvicinano e si uniscono. Se la facoltà di amare nel suddito o nell’estraneo è della stessa natura che nel padre e nel principe, essa è pienamente sufficiente per i nuovi sentimenti richiesti, come è sufficiente che il padre adottivo o il principe ami se stesso. Ma ditemi: questo servo di Dio, questo suddito del Re dei Cieli, partecipa nel suo proprio essere alla natura di Dio, e il suo amore è in qualche modo l’espressione viva di quella ineffabile carità di cui arde eternamente la società delle Persone divine? Dunque, ancora una volta, non c’è amore di figlio e di amico per Dio senza la partecipazione creata dell’amore infinito che chiamiamo Carità divina (Concil. Trident., sess.VI, c. 7).

2. – Se la grazia richiede la carità, essa può ancor meno esistere in un’anima senza la virtù della fede. La prima ragione è che il movimento che, partendo dalla grazia, ci inclina e ci porta verso il nostro fine ultimo, deve essere un movimento volontario e libero; perché è la provvidenza di Dio a condurre le sue creature al loro fine per vie appropriate alla loro natura. Ed è questo l’onore della creatura intelligente e libera di governare essa stessa la propria vita sotto il governo di Dio (“participat rationalis creatura divinam providentiam non solum secundum gubernari, sed etiam secundum gubernare: gubernat enim se suis actibus et etiam alia. S. Thom, Summ,. c.. Gent. LIII, c. 113. E da questo deriva che essa riceva comunicazione dalla fede (Ibid. c. 114). Ma ogni movimento volontario presuppone la conoscenza della meta da perseguire, poiché la volontà non agisce alla cieca. Se, dunque, devo muovermi liberamente e volontariamente verso il perfetto possesso del Bene Sovrano, il mio ultimo fine nell’ordine della grazia, devo necessariamente sapere, e in una maniera certa, qual sia questo fine del mio essere come figlio di Dio, e quali mezzi debba usare per acquisirlo. Ora, non è né la ragione da sola né la visione di Dio che mi dà questa doppia conoscenza; non è la ragione: poiché queste altezze sfuggono ai lumi naturali. Né è una visione, perché non la possiedo ancora che solo nella speranza. Cosa rimane allora, se non la fede? La fede, dico, « Sostanza delle cose che dobbiamo sperare, dimostrazione di quelle che non si possono vedere » (Hebr. XI, 1). – Una seconda ragione, non meno convincente della prima, deriva dalla legge del progresso, che governa ogni creatura uscita dalle mani divine. È infatti l’ordine della provvidenza di Dio che nessun essere al di fuori di Lui riceva, nel primo momento della sua esistenza, la perfezione finale che deve raggiungere. Ovunque e sempre ci deve essere crescita e movimento verso uno stato più perfetto. Tutto quaggiù è soggetto a questa legge; tutto deve salire dal meno perfetto al più perfetto, dalla bontà cominciata alla bontà consumata, sia le opere della natura, sia le produzioni dell’arte, sia le meraviglie della stessa grazia. – Io ho detto: le opere della natura. Aprire il libro di Genesi e vedrete la materia informe che, sotto l’azione del Creatore e per tappe successive, viene ordinata, si organizza e s’anima, e diventa il mondo dei vivi, il palazzo che Dio ha preparato per l’uomo. Senza andare tanto in alto, guardate quest’albero coronato di foglie e di frutti; non era all’inizio un debole stelo, che emergeva appena dalla terra e tremava al minimo soffio? E in quest’uomo di una maturità così vigorosa, quanti progressi si sono compiuti dal giorno in cui si è potuto dire: un bimbo è stato concepito! Ho detto: le produzioni dell’arte umana. Dov’è l’operaio che fin dalla prima stesura imprime al suo lavoro la perfezione? Quante notti passate nelle veglie, prima di avere questi capolavori di eloquenza, di poesia, di pittura!  Ho infine detto: le opere della grazia. Coloro che conoscono i misteri della nostra Santa Fede, sanno bene che per arrivare alla legge evangelica, la più perfetta di tutte, fu necessario che il mondo, sepolto nelle tenebre, fosse preparato per essa da rivelazioni, le quali vennero ad aggiungersi l’una di seguito all’altra, attraverso una lunga serie di secoli. “…e quando, nella pienezza del tempo, Dio, che un tempo aveva parlato ai nostri padri attraverso i profeti, ci ha rivelato tutta la Verità attraverso il Suo Figlio e lo Spirito del Figlio” (Ebr. I, 1), il progresso della fede non era ancora al suo termine. Al progresso nella rivelazione della verità è seguito il progresso nella comprensione e nell’espressione di quella stessa verità. – Dove ci portano queste considerazioni generali, se non alla conclusione che il figlio di Dio che deve, alla fine del suo sviluppo finale, trovarsi di fronte alla Bellezza Sovrana, contemplata senza ombre e veli, non possa, nel corso della sua formazione successiva, né vederla faccia a faccia né ignorarla completamente; in altre parole, che debba credere a ciò che vedrà? Poiché togliere la fede è togliere quel primo abbozzo di perfezione finale, “aliqua inchoatio finis“, che si trova in ogni essere creato, come il seme del suo normale sviluppo. Voi siete diventati, suppongo, con il lavoro e la meditazione uno studioso di prim’ordine. Ma questa Scienza ne aveva ricevuto il germe, indipendentemente da ogni studio e lavoro, nei primi principi che la natura incide universalmente nell’intelligenza umana al suo primo risveglio (S. Tom. De Verit,, q. 14, a 2; col. a.10). Ora, ancora una volta, Dio non è meno saggio né meno liberale nell’ordine della grazia che in quello della natura. Perciò, all’inizio della formazione soprannaturale, è necessario imprimere nel profondo delle anime questa conoscenza elementare delle grandi cose che un giorno vedremo, cioè la fede. – Ho dimostrato la necessità di conoscere il nostro fine mediante la fede: questa fede non è meno indispensabile per arrivare alla conoscenza delle vie che possono e devono condurvici. « Perché ciò che è ordinato verso il fine deve essere proporzionato al fine. Se dunque il fine ultimo della vita umana supera le potenze della natura, e di conseguenza della ragione … è anche necessario che ciò che ci dirige a questo supremo fine sia anche al di là della loro portata » (S. Thom. III, D. 24, q.1, a.3, sol 1. ad 3). Ecco perché il Santo Concilio Vaticano, con la Costituzione “Dei Filius“, ha formalmente insegnato che la rivelazione, e di conseguenza la fede, è assolutamente necessaria. Perché? « Perché Dio nella sua infinita bontà ha ordinato l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè alla partecipazione di quei beni divini che superano l’intelligenza di ogni anima umana » (Concilio Vaticano, sess. III, Cost. de Fide catholic, c. 2). – Aggiungiamo un’ultima prova, basata, come quelle che precedono, su un’analogia molto sorprendente che: in ogni essere capace di conoscere, il modo di conoscere è in relazione alla natura propria di colui che conosce. Infatti, il modo e la portata della conoscenza sono diversi in Dio, diversi nell’Angelo, puro spirito, diversi nell’uomo, composto di spirito e materia, e diversi nell’animale privo di ragione, secondo la differenza delle proprietà e delle nature. – Ora, la natura dei figli adottivi di Dio non è più una natura puramente umana, una natura racchiusa nei limiti che essa comporta in virtù dei suoi principi costitutivi e della sua origine; è una natura elevata, trasfigurata dalla grazia, la natura di un essere divinizzato, una natura deiforme. Perciò è necessario, in accordo con la legge che regola il modo e il campo della conoscenza secondo la natura e le sue proprietà, occorre, al figlio di Dio, dico, una conoscenza commisurata a ciò che è diventato per grazia. Più tardi questa sarà nella pienezza del suo essere di grazia, la visione di Dio; ora deve essere la fede a rivelargli misteri sconosciuti alla ragione. Perché solo la fede può stare tra la conoscenza naturale e l’intuizione della gloria, condividendo le infermità dell’una e gli splendori dell’altra.

3. – Infine, la grazia è in noi la radice della virtù della speranza. Il vero amore non prescinde dal desiderio di un’unione sempre più intima con la persona amata. Per questo è così dolce per gli amici vedersi e vivere tra loro in modo familiare, e così difficile a volte essere separati per troppo tempo. E nella famiglia, che strazio quando la morte porta via un padre o dei figli teneramente amati! Che gioia quando siamo riuniti alla stessa tavola, nella stessa casa. – E così, dal momento che la grazia fa dell’uomo un amico di Dio e, ancor più, un figlio prediletto di questo Padre così amoroso; poiché sappiamo per fede che è possibile per noi avere con questo amico e Padre l’ineffabile unione che renderà la nostra beatitudine eterna, come può il desiderio di questa vita comune con Lui non essere il frutto naturale della grazia e della carità? E siccome il desiderio, senza la speranza di arrivare al possesso dei beni a cui si aspira, è il tormento dell’anima, era necessario che Dio, arricchendoci della sua grazia, desse alla fede e alla carità quella compagna inseparabile: la speranza divina. – Questa prova suppone l’esistenza della carità nell’anima del fedele. E ce n’è un’altra che non poggia necessariamente su questa ipotesi. La fede che ci ha fatto conoscere il nostro destino soprannaturale, ci mostra che esso non è solo sovranamente invidiabile, ma anche possibile con l’aiuto promessoci da Dio. Questo è sufficiente per far nascere in noi l’atto di speranza. Così io trovo in questa doppia rivelazione le due condizioni necessarie per aspirare al possesso di Dio: l’amore iniziale della bontà suprema e la fiducia di poterla raggiungere per goderne. E poiché, nei giusti, le abitudini infuse rispondono agli atti come una causa al suo effetto, ne consegue chiaramente che la grazia che ci giustifica non può entrare in un’anima senza portare con sé la santa speranza, forza e consolazione del nostro esilio. Diciamo dunque con il Principe degli Apostoli: « Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il quale, secondo la grandezza della sua misericordia, ci ha rigenerati… nella viva speranza di quella eredità immortale e incorruttibile che ci è riservata nei cieli…  »  (1 Pet., I, 3-4- ).

4. – S. Tommaso riassume tutta questa dottrina in un passaggio molto bello nelle sue Questioni Controverse. Penso che sia utile dare qui tutto il testo, in modo che si possa abbracciare a colpo d’occhio tutto l’insegnamento del principe della Scuola sulla grazia e le virtù infuse. Dopo aver osservato che la funzione propria della virtù è quella di rendere buono l’essere che la possiede e l’atto che compie, e che, di conseguenza, la virtù si distingue dunque nell’uomo dai beni che sono appropriati all’uomo, il santo dottore continua: « Dobbiamo considerare che c’è un doppio bene per l’uomo:  uno che è proporzionato alla sua natura razionale, l’altro che supera incomparabilmente i poteri e le esigenze di questa stessa natura… Ora – egli aggiunge – tutto ciò che è ordinato verso un fine lo è per sua operazione. D’altra parte, è evidente che i mezzi debbano essere realmente proporzionati a questo stesso fine. La conclusione che segue rigorosamente da queste tre verità è che l’uomo, ordinato verso un fine soprannaturale, debba avere in sé delle perfezioni che superano in virtù i principi e le perfezioni proprie alla sua natura. Questo non potrebbe essere, se Dio, con la sua operazione onnipotente, non gli abbia infuso, oltre e al di sopra dei principi naturali, altri principi di operazione essenzialmente superiori alle sue energie native. – « Ora, i principi naturali di operazione, quelli che sono propri dell’uomo in quanto uomo, sono l’essenza dell’anima e le sue potenze ragionevoli, l’intelligenza e la volontà: l’essenza per cui è uomo; l’intelligenza, con quella conoscenza come innata dei principi primi che presiedono ad ogni sviluppo intellettuale; la volontà, con l’inclinazione naturale verso il bene che deve essere la perfezione della natura e il suo legittimo coronamento. È necessario, quindi, che l’uomo sia capace di compiere gli atti che lo ordinano al fine della vita eterna, debba, dico, avere in sé sia la grazia che dà all’anima l’essere spirituale, sia i principi di attività che sono in armonia sia con il nuovo essere che con il fine superiore per cui è fatto. – « Quali saranno questi principi? Prima di tutto, sono le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità: la fede per illuminare l’anima con certe verità soprannaturali che sono in quest’ordine ciò che i principi naturalmente conosciuti sono nell’ordine della natura; la speranza e la carità per inclinare e muovere l’anima all’acquisizione del bene soprannaturale verso cui la volontà puramente umana non è sufficientemente ordinata. E, proprio come questi principi naturali richiamano con essi le abitudini di virtù che perfezionano l’uomo nell’ordine della natura, così è necessario che l’anima rigenerata riceva dall’influsso divino, oltre alla grazia e alle virtù teologali, altre virtù infuse che la perfezionino e la rendano capace di tendere, attraverso tutta la sua attività, al fine supremo della sua vita soprannaturale e divina » (S. Thom. De Virt. In comm. q., un., a, 10).

LA GRAZIA E LA GLORIA (14)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (15)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (15)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO SESTO

JANUA CŒLI

« Tutto, in Lei, si svolge di dentro »

1) La Vergine del Carmelo — 2) La Vergine della Incarnazione 3) Janua coeli.

Era impossibile che suor Elisabetta della Trinità non riserbasse alla Madre di Dio un grande posto nella sua vita. Condizione essenziale per essere salvi è la devozione alla Madre di Cristo; e tutti i santi, infatti, hanno amato Maria con passione, ciascuno nella linea della propria grazia personale. San Paolo, in conformità alla sua missione, mette in evidenza il posto che, nell’economia della Redenzione, occupa la Vergine santa in funzione del mistero di Cristo « nato da una donna » (Gal. IV, 4), per essere il Salvatore dell’umanità decaduta. Nel cuore di Giovanni scolpito, indelebile, il ricordo dell’ora suprema in cui il morente ha lasciato Maria per Madre a lui e a tutti i predestinati; e, nella sua Apocalisse, ci rivela come questa dolce Madre non si disinteressa di noi, dopo la sua morte e gloriosa assunzione; anzi, più vigile, più madre che mai teneramente china su tutti i suoi figli, si vale della sua presenza dinanzi al volto dell’Onnipotente, per meglio intercedere in nostro favore. Sant’Agostino ce la mostra divenuta Madre del « Cristo totale » nel momento dell’Incarnazione, per la sua carità. I Padri greci hanno esaltato con grazia poetica e con ,magnificenza la « tutta santa », il tabernacolo vivente del Verbo Incarnato, il tempio purissimo della Trinità. Da venti secoli, la Chiesa d’Oriente e d’Occidente, con sant’Efrem, san Cirillo, sant’Anselmo, san Bonaventura, san Tommaso — bisognerebbe citare tutti i dottori e tutti i santi — non fa che proclamare la parte unica ed universale di Maria nell’opera della nostra salvezza. Madre di Dio e degli uomini, Maria adempie il disegno divino con la sua bontà materna. Non un movimento si produce in tutto l’insieme della redenzione senza che, dopo Gesù e con Gesù, Maria non vi abbia la sua parte: « Questa è la volontà immutabile di Colui il quale ha stabilito che tutto ci giunga per mezzo di Maria » (S. Bernardo: Sermo de Nativitate B. V. M.). – Nella sua devozione mariana, ogni santo serba la propria fisonomia. Estatico dinanzi alle grandezze della Vergine Madre, l’anima ardente di un san Bernardo, il citaredo di Maria, canta: « De Maria, numquam satis ». San Tommaso ferma il suo sguardo di teologo sulla divina maternità, chiave di volta di tutte le grandezze di Maria; e contempla la Madre del Verbo che, per questa maternità, tocca i confini della divinità, perché il Figlio dell’Eterno Padre è anche e veramente Figlio della Vergine. La devozione mariana di suor Elisabetta della Trinità non va ridotta ad una forma troppo determinata di « schiavitù », quale la concepiva, per esempio, il beato Grignon di Montfort. Non sappiamo nemmeno se ne avesse letto il « Trattato della vera devozione alla Vergine santa », capolavoro della nostra letteratura mariana. – Essa va alla Madonna con tutta la sua anima di contemplativa e trova in Lei la perfetta realizzazione del suo ideale interiore. Si sente attirata soprattutto dalla Vergine dell’Incarnazione, adoratrice del Verbo nascosto nel suo seno, che passa calma e maestosa sulle montagne della Giudea, raccolta nell’intimo col Verbo che abita in Lei, senza che nulla possa distrarla dalla sua visione interiore. La Vergine preferita da suor Elisabetta della Trinità è la Vergine del silenzio e del raccoglimento. Ma non è stato sempre così. Per molto tempo, la sua pietà verso Maria somigliava a quella di molte fanciulle la cui fisonomia spirituale non ha ancora delle note definite e personali. Andava alla Vergine santa come alla custode della sua purezza e, in ognuna delle feste di Maria. rinnovava il suo voto di verginità. Ricorreva a Lei in tutti i suoi bisogni, un po’ come fanno i bimbi che, istintivamente, cercano protezione presso la mamma; e, nei momenti difficili la implorava fervorosamente per il suo avvenire e per la sua vocazione. La Vergine di Lourdes la vide, supplice ai suoi piedi per tre giorni, offrirsi nelle sue mani come vittima per i peccatori, sotto il suo sguardo materno, per sempre. Mai Elisabetta sarebbe uscita di casa per recarsi ad una festa mondana, senza essere andata prima dalla Madonna a chiederle la benedizione. E la Madonna esaudisce sempre la preghiera dei cuori puri; la grazia che emana da Lei, Vergine, fa vergini le anime, le custodisce sante e immacolate nell’amore, sotto lo sguardo di Dio; e suor Elisabetta della Trinità deve alla sua speciale protezione la grazia di essere passata sulla terra pura come un giglio. Il suo « diario » di fanciulla è pieno del pensiero di Maria. In ogni occasione, lieta o triste, ricorre a Lei, invocandone l’intervento persino in certi particolari che ci farebbero quasi sorridere, ma i santi vedono le cose meglio di noi. Un giorno, per timore di essere applaudita, in un concerto e di provarne vana compiacenza, prega la Vergine santa di impedirle, in qualche modo, di partecipare a quella festa; ebbene, la sera della vigilia viene assalita da un mal d’orecchi così forte che, l’indomani, deve rinunciare a presenziare al concerto. A quattordici anni, va in pellegrinaggio, insieme ad una piccola amica, al santuario di Nostra Signora d’Etang in Borgogna, per impetrare la grazia di morire giovane: e lascerà la terra a 26 anni. Non si contano poi le preghiere e le novene, ogni volta che c’è una grazia nuova da ottenere. Nella sua vita di fanciulla, la Vergine santa c’entra sempre, in tutto. Citiamo a caso, il suo « Diario »: « 2 febbraio 1899 – Purificazione. Ad ogni festa di Maria, rinnovo la mia consacrazione a questa cara Madre. Oggi, dunque, mi sono donata a Lei, gettandomi di nuovo fra le sue braccia con la più assoluta confidenza. Le ho raccomandato il mio avvenire, la mia vocazione ». – « 12 marzo 1899. Maestro buono, se Tu non mi dai quest’anima, io ne morrò di dolore. Dammela, te ne scongiuro, a costo di qualsiasi tormento. Maria, Vergine di Lourdes, Nostra Signora del perpetuo soccorso, vieni in mio aiuto; tutto è perduto, se tu non fai un miracolo. E io conto su questo miracolo ». – « 24 marzo 1899. O Maria, Tu che io prego ogni giorno per ottenere l’umiltà, soccorrimi; schiaccia il mio orgoglio, mandami molte umiliazioni, Madre buona ». –  « 2 aprile 1899. Tutto è finito. Come è passata presto questa missione! Prima di lasciare la Chiesa, ho affidato il mio povero peccatore alla Vergine del perpetuo soccorso: le avevo promesso di invocarla ogni giorno per questa povera anima. Poi, mi sono nuovamente consacrata a Maria, abbandonandomi a Lei con fiducia piena; mi ha così bene esaudita riguardo alla mia vocazione, che io non potrò mai esprimerle come vorrei, tutta la mia riconoscenza e il mio amore. Sono felice, ho il cuore traboccante di gaudio; pregusto fin d’ora la mia prossima gioia. O Madre del perpetuo soccorso, ogni giorno ti invocherò per questa doppia intenzione: perché tu continui a sostenere la mia mamma car che ora a mi comprende così bene, e poi perché Tu sostenga anche me, in questa via della croce con Gesù, nella quale mi impegno con tanta gioia. Madre mia, fammi la grazia di perseverarvi, di divenire veramente perfetta; custodisci puro il mio cuore! ».

1) La sua pietà di Carmelitana verso la Vergine santa diviene ben presto vita di intimità profonda. In virtù di un processo psicologico del tutto normale, eppure degno di nota, si riscontrano nella devozione mariana dei santi gli stessi lineamenti generici della loro fisonomia spirituale. Suor Elisabetta della Trinità che, fin dal suo primo giorno al Carmelo, era « passata tutta quanta nella anima di Cristo », in virtù dei medesimi riflessi psicologici, fisserà il suo sguardo contemplativo sull’anima della Vergine. Soltanto pochi giorni dopo la sua entrata in Convento, scriveva alla mamma: « Ho messo l’anima mia in quella della Madre dei dolori e l’ho pregata di consolarti tanto. Abbiamo, in fondo al chiostro, una statua di « Mater dolorosa » per la quale ho molta devozione; amo tanto queste lacrime della Vergine Madre! Tutte le sere, vado a parlarle di te, mamma ». Il Carmelo è, per eccellenza. un Ordine mariano. « Le anime chiamate da Dio a servirlo nel nostro Ordine, sappiano che loro  primo e principale obbligo, come Carmelitano, è di onorare con particolare cura la santissima Vergine Maria: primieramente nella sua dignità suprema di Madre di Dio, in tutti i privilegi e le grandezze che questa dignità racchiude e nella sovranità che le conferisce sul cielo e sulla terra; in secondo luogo, nella bontà eccessiva e nella umiltà che hanno indotto la Vergine santa a farsi la Madre e la Patrona di questo Ordine. Per soddisfare a tale obbligo, ciascuna avrà cura di comunicarsi almeno una volta al mese, in onore della Santissima Vergine: e cioè, per il compimento dei suoi disegni sulla terra, per l’accrescimento. in tutte le anime, della devozione verso di Lei, e per ottenere che membri di questo Ordine la amino, la onorino, la servano e le appartengano, secondo tutta la estensione dei disegni di misericordia del suo divin Figlio e suoi » (Direttorio portato in Francia dalle Madri spagnole). – Notiamo la singolare elevatezza di questa devozione a Maria. La Carmelitana va diritta alla Madre di Dio per congratularsi con Lei di quella maternità. divina che spiega tutto in Maria: i privilegi e le grandezze e la sovranità sull’universo. – È l’atteggiamento normale di una Carmelitana: prima di tutto e sempre, Dio. Non c’è bisogno di aggiungere « Dio solo »; è sottinteso: l’anima della Carmelitana, dinanzi al mistero, si muove in una luce tutta divina, escludendo assolutamente ogni altra luce. La Vergine, come la Umanità santa del Cristo, ed ogni altra creatura, non sono considerate che in relazione a Dio. E soltanto in un secondo sguardo, discendendo dalla « suprema dignità di Madre di Dio », la Carmelitana penetra in quella Maternità di grazia « che, in un eccesso di bontà e di umiltà, ha indotto le Vergine santa a costituirsi Madre e Patrona del suo Ordine ». Ma non deve fermarsi qui; e, secondo la vocazione apostolica del suo Ordine, deve pregare e immolarsi « per il compimento dei disegni di Maria sulla terra », perché aumenti l’onore tributatole dalle anime, e perché i membri dell’Ordine, in particolare, la amino, la onorino, la servano e le appartengano, secondo tutta l’immensità dei disegni di misericordia del divin suo divin Figlio. Suor Elisabetta della Trinità seppe profittare in grado straordinario della devozione così equilibrata a cui i membri dei grandi Ordini religiosi – Sono iniziati durante la loro formazione. Una lunga tradizione di santità, una parola udita nel commentare un punto della Regola o del Direttorio, la silente correzione quotidiana operata dal semplice gioco degli avvenimenti della vita comune e cher ristabilisce le cose al vero posto, tutto questo fa sì che le anime fedeli, impegnandosi del più puro spirito del loro Ordine, avanzino rapidamente verso la perfezione. Ciò appare evidente, in modo particolare, in suor Elisabetta della Trinità, nello svolgersi della sua vita mariana. – Entrata nel Chiostro, la sua pietà verso Maria, assume rapidamente un carattere carmelitano. Per comprendere questa forma di devozione mariana, bisogna rendersi conto che, al Carmelo, la solitudine è tutto. E quale solitudine nell’anima della Vergine! In lei, più niente di umano. È l’essere puro, luminoso, trasparente, libero, che l’amore colpevole e soltanto troppo sensibile non sfiorò mai; è la tutta Vergine per eccellenza, separata da tutto.  È Colei che passò nella via «Sola col Solo », non volendo altri che Lui, nella gioia e nel dolore. Solitudine del cuore della Vergine, che il sensibile non avvinse mai, che attraversò gli affetti di questo mondo effimero « santa ed immacolata nell’amore ». – Solitudine dell’anima della Vergine in conversazione con Dio solo, seza dobbio in attiva partecipazione alla vita degli uomini, ma per compiervi un’opera ddivina, anima di Corredentrice, sempre più immedesimata con l’animo di Cristo  così solitario la sera, sulla montagna, o nell’orto del Gethsemani. Solitudine divina dell’anima della Vergine, elevata, col Verbo suo Figlio, sini al confine della Divinità, e là associata a tutti i disegni della Trinità a causa del suo posto universale nella salvezza del mondo; soprattutto, così infinitamente distante dal Dio suo Figlio. Sono abissi che fanno tremare. –  Giunti alle alte cime, i santi sono gli uomini più soli sulla terra. Che dire della Vergine e di Cristo? Chi pensa alla solitudine dell’anima del Verbo? In principio era il Verbo, e il Verbo in Dio, era nella propria dimora; e il Verbo si è fatto carne, è venuto ad abitare fra noi, ma i suoi non l’hanno ricevuto. E noi l’abbiamo visto, quale un Dio solitario, aggirarsi in mezzo alla sua creazione. È vero; dentro di « Lui c’era l’Unità col Padre e con l’Amore; ma chi avrebbe potuto supporlo, vedendolo? – Lo stesso, fatte le dovute proporzioni, era dell’anima di Maria, così sola in mezzo agli uomini a Nazareth, a Bethlem, ai piedi della croce; in realtà, tutta nascosta in Dio con Cristo del quale sempre, nel cuore, meditava il mistero.

2) Questa vergine del Carmelo, estranea a tutto il creato e adoratrice del Verbo ascoso nel suo seno, è la Vergine dell’Incarnazione, la Vergine che suor Elisabetta della Trinità predilige, perché anche il suo ideale è vivere silenziosa e adoratrice del Dio celato nelle intime profondità dell’anima sua. – « Pensiamo che cosa doveva provare l’anima della Vergine quando, dopo l’Incarnazione, possedeva in sé il Verbo Umanato, il Dono di Dio! Con quale silenzio, con quale raccolta adorazione doveva inabissarsi nel profondo dell’anima sua, per stringere a sé quel Dio di cui era Mamma! » (Lettera alla sorella – Novembre 1903). – Non devo fare nessuno sforzo per penetrare in questo mistero dell’inabitazione divina nella Vergine santa; mi sembra di trovarvi il movimento abituale dell’anima mia, che fu pure il suo: adorare in me il Dio nascosto » (Lettera alla sorella – Novembre 1903). – Leggendo san Giovanni della Croce, scopre in Maria il modello perfetto dell’unione trasformante, e sogna di passare sulla terra come la Vergine: silenziosa e adoratrice del Verbo, tutta perduta nella Trinità. « Leggo in questo momento delle pagine così belle nel nostro Padre san Giovanni della Croce, sulla trasformazione dell’anima nelle Tre Divine Persone. A quali abissi di gloria siamo chiamati! Ah! io comprendo i silenzi, il raccoglimento dei santi che non potevano più uscire dalla loro contemplazione. Perciò, Dio poteva condurli sulle divine altezze, dove l’« Uno » si compie e si perfeziona fra Lui e l’anima divenuta misticamente sua sposa. Il nostro beato Padre dice che, allora, lo Spirito Santo la eleva ad altezze così stupende, da renderla capace di produrre in Dio la stessa spirazione d’amore che il Padre produce col Figlio e il Figlio col Padre; spirazione che è lo stesso Spirito Santo. E dire che il Signore buono ci chiama, in nome della nostra vocazione, a vivere in queste luminosità sante. Che adorabile mistero di carità … Vorrei corrispondervi passando sulla terra, come la Vergine santa: « Custodendo tutte queste cose nel mio cuore » (S. Luc. II, 51), seppellendomi, per dir così, nel fondo della mia anima, affine di perdermi nella Trinità che ivi dimora, per trasformarmi in sé. Allora il mio nome, « mio ideale luminoso », sarà realizzato: io sarò veramente Elisabetta della Trinità » (Lettera al sacerdote Don Ch… 23 novembre 1903). – Nutriva particolare devozione per un’immagine che aveva ricevuta e che rappresentava la Vergine dell’Incarnazione, raccolta sotto l’azione della Trinità. « Nella solitudine della mia cella che io chiamo « il mio piccolo paradiso », perché è tutta piena di Colui del quale si vive in cielo, guarderò spesso la preziosa immagine, e mi unirò all’anima della Vergine allorché il Padre la copriva della sua ombra, il Verbo si incarnava in Lei e sopra di Lei scendeva lo Spirito Santo per operare il grande mistero. La Trinità tutta è in azione, si offre, si dona. E la vita della Carmelitana non deve forse svolgersi in questi amplessi divini? » (Lett. alla s De S… 1905). La Vergine dell’Incarnazione, tutta raccolta sotto la azione creatrice della Trinità « che opera in Lei grandi cose » è il più caro, il più intimo ideale della devozione mariana di suor Elisabetta, l’ideale a cui si sente attratta quasi per « connaturalità », diremo con la teologia. Da questa devozione lungamente vissuta doveva scaturire un giorno quell’elevazione così bella alla Vergine, scritta nel suo ritiro: « Come trovare il cielo sulla terra ».« Si scires domum Dei! Se tu conoscessi il dono di Dio! » (S. Giov. IV, 10), diceva una sera Cristo alla Samaritana. Ma che è mai questo dono di Dio, se non Lui stesso? Il discepolo prediletto ci dice: « Egli è venuto nella sua casa, ma i suoi non l’hanno ricevuto » (S. Giov. I, 11). E san Giovanni Battista potrebbe ripetere ancora a molti quel suo rimprovero: « C’è in mezzo a voi — in voi — uno, che voi non conoscete » (S. Giov. I, 26). « Se tu conoscessi il dono di Dio ». Ma una creatura c’è, che ha conosciuto questo dono di Dio, che non ne ha lasciato disperdere la minima particella; una creatura così pura, così luminosa, da sembrare, lei, la stessa luce: Speculum iustitiae; una creatura la cui vita fu tanto semplice, tanto nascosta in Dio, che non se ne può dire quasi nulla. Virgo fidelis: è la Vergine fedele, colei che « custodiva tutte le cose nel suo cuore » (S. Luc. II, 51). Se ne stava così piccola, così raccolta dinanzi a Dio nel segreto del Tempio che attirò le compiacenze della Trinità santa. « Perché Egli ha rivolto lo sguardo alla piccolezze della sua ancella, ormai tutte le generazioni mi chiameranno beata » (S, Luc. I, 48). Il Padre, chinandosi verso questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, volle che fosse nel tempo, la Madre di Colui di cui Egli è Padre nell’eternità. Intervenne allora lo Spirito d’Amore che presiede a tutte le opere divine; la Vergine disse il suo « fiat »: « Ecco la serva del Signore; si faccia di me secondo la tua parola » (S, Luc. I, 38), e il massimo dei miracoli si compì. Con la discesa del Verbo in Lei, Maria fu per sempre preda di Dio. – La condotta della Vergine nei mesi che passarono tra l’Annunciazione e la Natività mi pare debba essere di modello alle anime interiori, a quelle anime che Dio ha elette a vivere raccolte « nel loro intimo », nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quanta pace, in quale raccoglimento Maria agiva e si prestava ad ogni cosa, Anche le azioni più ordinarie erano da lei divinizzate perché, in tutto ciò che faceva, la Vergine restava pur sempre l’adoratrice del dono di Dio; né questo le impediva di donarsi è attivamente anche nella vita esteriore, quando c’era da esercitare la carità: il Vangelo ci dice che « Maria percorse con grande sollecitudine le montagne della Giudea, per recarsi dalla cugina Elisabetta » (S. Luc. I, 39). La visione ineffabile che contemplava dentro di sé non diminuì mai la sua carità esteriore, perché se la contemplazione si volge alla lode e all’eternità del suo Signore, ha in sé l’unità e non potrà perderla mai » (Il Paradiso sulla terra, 12° orazione).

3) Una tale elevatezza di pensiero non scaturisce d’un tratto e a caso; suppone una lunga vita di intimità con Maria; e i documenti infatti la confermano. Bambina ancora, le sue prime poesie erano sbocciate per cantare la Vergine, « custode della sua purezza »; il suo diario di fanciulla era pieno del pensiero lei: e quando divenne Carmelitana, la Madonna rimase sempre inseparabile dai minimi particolari della sua vita. Spesso, firmava le sue lettere: « Suor Maria Elisabetta cella Trinità ». Compose la sua celebre preghiera nella festa della Presentazione, quella festa « tanto cara » in cui ritrovava il movimento più abituale del suo cuore: l’oblazione della Vergine alla Trinità, non più a Gerusalemme, ma nel tempio dell’anima sua. « O mio Dio, Trinità che adoro!… Pacifica l’anima mia, rendila tuo cielo, tua amata dimora, luogo del tuo riposo. Che, in essa, non ti lasci mai solo, ma tutta io vi sia, ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice ». Quando giunse la sera di questa vita così breve, suor Elisabetta si volse con raddoppiata tenerezza alla Immacolata, la Madonnina della sua vestizione. « È stata lei, l’Immacolata, a darmi l’abito del Carmelo; oggi la prego di rivestirmi con quella tunica di finissimo lino della quale si adorna la sposa per recarsi al banchetto di nozze dell’Agnello » (Lettera al Canonico A… – Fine luglio 1906.). Una notte — era in infermeria — mentre il suo sguardo si posava sopra un’immagine della Vergine addolorata appesa alla parete, sentì interiormente uno di quegli avvertimenti che Dio suole rivolgere all’anima dei suoi santi. Ricordandosi, allora, di una Vergine di Lourdes dalla quale aveva ricevuto tante grazie quand’era bambina, richiese alla mamma, affinché Colei che l’aveva vegliata nel suo ingresso alla vita, « la custodisse ancora al suo uscirne ». Da allora, la chiamò « Janua cœli », e quella statua non la lasciò più. Estenuata di forze, suor Elisabetta si trascinava ancora nella piccola tribuna prospiciente il coro, portando penosamente nelle mani quella statua alta più di trenta centimetri, quasi troppo pesante per le sue dita tremanti, prive di forza. Quando si vedeva Janua cœli, Laudem gloriæ non era lontana. Un giorno suor Elisabetta mise nella cella della sua Madre Priora una piccola costruzione in cartone rappresentante una fortezza col ponte levatoio. Vicino alla porta chiusa, una Vergine di Lourdes in rilievo: era Janua cœli. Ad un angolo della torre merlata, sventolava una bandiera recante questa iscrizione: « Castello del dolore e del santo raccoglimento, abitazione di Laudem gloriæ in attesa della Casa del Padre. Janua cœli (Janua cœli è un’invocazione della S. Vergine che significa “Porta del cielo”) era divenuta per lei la porta della Trinità. – Nelle ultime ore della sua agonia, si cercava di consolarla ricordandole la presenza della Vergine che amava tanto. « La Vergine santa sarà là, ti terrà la mano ». « Sì, è vero, Janua cœli Janu: lascerà passare Laudem gloriæ » L’antivigilia della morte, fu udita ancora mormorare: « Fra due giorni, sarò in seno ai miei Tre. « Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi » (Ps. CXXI, 1). È la Vergine, questo essere tutto luce, tutto purezza, della purezza di Dio, che mi prenderà per mano per introdurmi in cielo, in quel cielo così splendente …» – Volle sotto la protezione di Janua cœli l’ultimo suo ritiro sulla terra, e la sera del 15 agosto vì entrava come « nel noviziato del cielo, per prepararsi a ricevere la veste della gloria » (Biglietto di una consorella). Fino dal primo giorno di questo suo ritiro, si rivolgeva alla Vergine, per chiederle la realizzazione del supremo desiderio dell’anima sua: « Essere conforme a Cristo, crocifisso per amore, e divenire, a somiglianza di Lui, una perfetta lode di gloria della Trinità. « Nessuno ha veduto il Padre — ci dice san Giovanni — se non il Figlio e coloro ai quali è piaciuto al Padre di rivelarlo » (S. Giov. VI, 46); e mi pare che si possa soggiungere: Nessuno ha saputo comprendere il mistero di Cristo nella sua profondità, se non la Vergine santa. Giovanni e la Maddalena sono penetrate molto addentro in questo mistero; san Paolo parla spesso dell’« intelligenza » che gliene è stata data; eppure, come rimangono nell’ombra tutti i santi, quando si pensa alla chiarezza interiore della Vergine!… Essa è inenarrabile. Il segreto che « Maria custodiva e meditava nel suo cuore » nessuna lingua ha potuto mai esprimerlo, nessuna penna rivelarlo. Questa Madre di grazia formerà l’anima mia, farà sì che la sua figliolina divenga un’immagine vivente, « eloquente » del suo Primogenito, il Figlio dell’Eterno, Colui che fu la perfetta lode di gloria del Padre» (?Ultimo ritiro, I). Nell’ultimo giorno dello stesso ritiro, suor Elisabetta compose di getto, come un canto sgorgato dal cuore, una bella elevazione alla Vergine, di una sicurezza dottrinale impeccabile e di una profondità sorprendente. È l’ora della sua più evoluta dottrina mariana. Vi sono certe pagine dei santi, che bisognerebbe leggere in ginocchio: « Dopo Gesù Cristo e, s’intende, a quella distanza che passa tra l’infinito e il finito, vi è una creatura che fu anch’essa la grande lode di gloria della santissima Trinità; ella corrispose pienamente all’elezione divina di cui parla l’Apostolo: fu sempre pura, immacolata, irreprensibile agli occhi del Dio tre volte santo. – La sua anima è così semplice; i movimenti ne sono così profondi, che non si posson scorgere. Sembra riprodurre sulla terra la vita dell’Essere divino, l’Essere semplicissimo; quindi, è così trasparente, così luminosa, che si potrebbe crederla la stessa luce; eppure, non è che « lo specchio del Sole di giustizia: speculum iustitiæ ». « La Vergine custodiva queste cose nel suo cuore » (S. Luc. II, 51). tutta la sua storia può essere compendiata da queste parole; visse nel proprio cuore e a tali profondità che lo sguardo umano non può seguirla. Quando leggo nel Vangelo che « Maria percorse con tutta sollecitudine le montagne della Giudea » (S, Luc. I, 39) per andare a compiere un’opera di carità presso la cugina Elisabetta, io la vedo passare bella, calma, maestosa, intimamente raccolta col Verbo di Dio. La sua preghiera, come quella di Lui, fu sempre: « Ecce: eccomi! ». — Chi? — L’ancella del Signore, l’ultima tra le sue creature. Lei, sua Madre! –  Era così sincera nella sua umiltà! Perché fu sempre dimentica, libera di se stessa, sicché poteva cantare: « L’Onnipotente ha fatto in me grandi cose; tutte le generazioni mi chiameranno beata ». – Questa Regina dei vergini è anche Regina dei martiri; ma la spada la trafigge nel cuore, perché tutto, in Lei, si svolge nell’intimo. La contemplo. Oh, come è bella nel suo lungo martirio, circonfusa da una specie di maestà da cui emana e forza e dolcezza! Perché ha imparato dal Verbo stesso come dovevano soffrire quelli che il Padre ha scelti come vittime, quelli che ha deciso di associare alla grande opera della redenzione, « che ha conosciuti e predestinati ad essere conformi al suo Cristo », crocifisso per amore. È lì, ai piedi della Croce, diritta e forte nel suo coraggio sublime; e Gesù mi dice: « Ecce Mater tua ». Me la dà per Madre. Ed ora che è ritornata al Padre, che ha messo me al suo posto sulla croce, affinché « io soffra in me quello che manca alla sua Passione per il suo mistico Corpo che è la Chiesa », la Vergine è qui ancora, vicina a me, per insegnarmi a soffrire come Lui. per farmi sentire gli ultimi canti dell’anima di Gesù, che soltanto Lei, sua Madre, ha potuto intendere. – E quando avrò pronunciato il mio « consummatum est », sarà ancora Lei, Janua cœli, che mi introdurrà negli atrî divini dicendomi, piano, la misteriosa parola: « Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi: in domum Domini ibimus » (Ps. CXXI, 1 – Ultimo ritiro).

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DELLA SS. B. VERGINE MARIA (2022)

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DELLA SS. B. VERGINE MARIA (2022)

La devozione al Cuore Immacolato.

(Dom P. Guéranger, l’Anno liturgico, vol. II, Ed. Paoline, Alba, 1957)

La devozione al Cuore Immacolato di Maria è antica come il Cristianesimo. Lo Spirito Santo l’insegnò per mezzo di san Luca, l’evangelista dell’infanzia del Salvatore: « Maria conservava nel suo Cuore e meditava tutte queste cose ». « E la Madre di Gesù conservava tutte queste cose nel suo Cuore» (Lc. II, 19; 51). La devozione, che porta i fedeli a rendere a Maria l’onore e l’amore che a Lei si devono, ha qui la sua origine. I più grandi Dottori della Chiesa cantarono le perfezioni del suo Cuore: sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo, san Leone, san Bernardo, san Bonaventura, San Bernardino da Siena, le due grandi monache sante, Gertrude e Metilde… Nel secolo XVII, san Giovanni Eudes « padre, dottore e apostolo del culto al Sacro Cuore » (Bolla di Canonizzazione) si fece dottore e apostolo del culto al Cuore purissimo di Maria e dal dominio della pietà privata, lo introdusse nella Liturgia cattolica.

Oggetto della devozione.

Di questa devozione egli ci dice: « Nel Cuore santissimo della prediletta Madre di Dio, noi intendiamo e desideriamo soprattutto venerare e onorare la facoltà e capacità naturale e soprannaturale di amare che la Madre dell’amore tutta impegnò nell’amare Dio e il prossimo. Poiché sia che il cuore rappresenti il cuore materiale che portiamo in petto, organo e simbolo dell’amore, o piuttosto la memoria, la facoltà d’intendere con cui meditiamo, la volontà, che è radice del bene e del male, la finezza dell’anima per la quale si fa la contemplazione, in breve, tutto l’interno dell’uomo (noi non escludiamo alcuno di questi sensi) intendiamo e vogliamo soprattutto venerare e onorare prima di ogni cosa e sopra ogni cosa, tutto l’amore e tutta la carità della Madre del Salvatore verso di Dio e verso di noi » (Devozione al Sacro Cuore di Maria, Caen, 1650, p. 38 e Cuore ammirabile, 1. I, c. 2). – La cosa più dolce per un figlio è onorare la madre e pensare all’amore di cui è stato oggetto. San Bernardo, parlando del Cuore di Gesù, ci dice: « Il suo Cuore è con me. Il Cristo è mio capo. Come potrebbe non essere mio, tutto quello che appartiene alla mia testa? – Gli occhi della mia testa sono miei e allo stesso modo questo cuore spirituale è veramente mio cuore. È veramente mio e io possiedo il mio cuore con Gesù» (Vigna mistica, c. 3). Possiamo dire allo stesso modo del Cuore di Maria: una madre è tutta di suo figlio e gli appartiene con i suoi beni, il suo amore, la sua vita stessa. – Un figlio può sempre contare sul cuore della madre. – Noi tutti siamo figli della Santa Vergine, che ci accolse con Gesù nel suo seno nel giorno dell’Incarnazione. Ci generò nel dolore sul Calvario e ci ama in proporzione di quanto a Lei siamo costati. – Essa ha offerto al Padre, per noi, quanto aveva di più caro. Gesù! Ha detto il suo fiat per l’immolazione, lo ha dato a noi e come l’avrebbe dato senza dare se stessa?

Confidenza nel Cuore Immacolato.

Maria ridice a noi le parole di Gesù: Venite a me voi tutti e vi consolerò… Ci sorride e ci chiama come a Lourdes e nessuno, per la sua indegnità, ha motivo di starne lontano. Il Cuore di Maria fu sede della Sapienza, dimora per nove mesi del Verbo fatto carne, formò il Cuore stesso di Gesù e gli insegnò la misericordia verso gli uomini, pulsò all’unisono col Cuore di Gesù e per quel cuore fu ornato dei più preziosi doni di grazia. Cuore materno per eccellenza, resta il rifugio dei poveri peccatori. Per questo fu fatto immacolato e ne sgorgò soltanto sangue purissimo, il sangue dato a Gesù, perché lo versasse per la nostra salvezza. È il Cuore depositario e custode delle grazie meritate dal Signore con la sua vita e con la sua morte e sappiamo che Dio non distribuì mai, né distribuirà grazie ad alcuno se non per le mani e il Cuore di Colei, che è tesoriera e dispensatrice di tutti i doni. È il Cuore, infine, che ci è stato dato con quello di Gesù, « non solo per modello, ma perché sia il nostro, perché, essendo membra di Gesù e figli di Maria, dobbiamo avere con il nostro Capo e con la nostra Madre un solo cuore e dobbiamo compiere tutte le nostre azioni con il Cuore di Gesù e di Maria » (S. Giov. Eudes, Cuore ammirabile, 1. XI, c. 2).

Consacrazione al Cuore Immacolato.

Se la consacrazione individuale di un’anima a Maria le assicura le grazie più grandi, quali frutti non potremo attendere dalla consacrazione del genere umano fatta dal Sommo Pontefice? La Vergine stessa si degnò farci sapere che desiderava tale consacrazione e, rispondendo al desiderio della Madonna di Fatima, S. S. Pio XII, il giorno otto dicembre 1942, pieno di confidenza nell’intercessione della Regina della pace, solennemente consacrò il genere umano al Cuore Immacolato di Maria. Le nazioni cattoliche si sono unite al supremo Pastore.

La festa del Cuore di Maria era stata concessa a parecchie diocesi e a quasi tutte le Congregazioni religiose, che la celebravano in date differenti. S. S. Pio XII l’estese a tutta la Chiesa e la fissò al giorno 22 Agosto.

La maternità di Maria data dall’Incarnazione, fu proclamata in modo solenne sul Calvario da Gesù morente. Dandoci sua madre. Gesù ci diede la prova più grande del suo amore e Maria, accettando di divenirlo, ci mostrò quanto il suo Cuore possedesse di tenerezza e di misericordia. Maria non si sentì mai madre come in quel momento in cui vedeva il Figlio soffrire e morire in croce, intendeva che ci confidava e ci donava a Lei, e accettò di estendere l’affetto che nutrì in vita per Gesù, non solo su san Giovanni, ma su noi tutti, sui carnefici del suo Figlio, su tutti quelli che erano stati causa della morte di Lui. – Quando il centurione venne ad aprire il cuore di Gesù già morto, la spada predetta dal vecchio Simeone penetrò nell’anima, nel Cuore di Maria e produsse una ferita che, come quella del Salvatore, resterà sempre aperta.

Santa Messa

Paramenti bianchi – Doppio di II Classe

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

 Hebr IV: 16.
Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.


[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno]

XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea regi.
Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.

[Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema].

Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.

[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui in Corde beátæ Maríæ Vírginis dignum Spíritus Sancti habitáculum præparásti: concéde propítius; ut ejúsdem immaculáti Cordis festivitátem devóta mente recoléntes, secúndum cor tuum vívere valeámus.

[O Dio onnipotente ed eterno, che nel cuore della beata Vergine Maria hai preparato una degna dimora allo Spirito Santo: concedi a noi di celebrare con spirito devoto la festa del suo cuore immacolato e di vivere come piace al tuo cuore].

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XXIV: 23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei, fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ, et virtútis. Transíte ad me omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.

[Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna].

Graduale

Ps. XII: 6
Exsultábit cor meum in salutári tuo: cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Il mio cuore esulta nella tua salvezza. Canterò al Signore perché mi ha beneficiato, inneggerò al nome del Signore, l’Altissimo.]

Ps XLIV: 18
Mémores erunt nóminis tui in omni generatióne et generatiónem: proptérea pópuli confitebúntur tibi in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[Ricorderanno il tuo nome di generazione in generazione, e i popoli ti loderanno nei secoli per sempre. Alleluia, alleluia].

Magníficat ánima mea Dóminum: et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo. Allelúja.

Luc 1: 46; 47

[L’anima mia magnifica il Signore, e si allieta il mio spirito in Dio, mio Salvatore. Alleluia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIX: 25-27
In illo témpore: Stabant juxta crucem Jesu mater ejus, et soror matris ejus María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus. Deinde dicit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

OMELIA

[P. V. STOCCHI, S. J.: “DISCORSI SACRI”, Tipogr. Befani, ROMA, 1884]

DISCORSO XXIV.

SANTISSIMO CUORE DI MARIA

Qui me invenerit, inveniet vitam.

(PROV. VIII, 35.)

Fino da quando da chi mi tiene il luogo di Dio mi fu posto sopra le spalle il carico alla natura poco soave, di predicare la parola di Dio in tanta iniquità di tempi, il mio cuore e i miei occhi si conversero subito alla stella benedetta del mare, alla Madre immacolata di Dio e Madre nostra Maria, e posi incontanente le mie povere fatiche sotto gli auspici e sotto il patrocinio di Lei, alla quale fino dagli anni primi della mia vita ho dedicato tutte le cose mie e me medesimo. Da Lei Madre di grazia, di luce, di fortezza e di verità sperai forza e vigore, da Lei grazia e virtù, da Lei efficacia e dono per condurre le anime a Gesù Cristo, da Lei insomma ogni cosa, e se nulla hanno operato le povere mie fatiche, se qualche frutto ha secondato il sudore e il travaglio della parola di Dio seminata da me, tutto il inerito è stato sempre di Maria della quale la misericordia e il patrocinio e nel corpo e nell’anima tocco tutto giorno con mano. Essendo così, è naturale che io ardentemente desideri di fare alcuna cosa che sia cara a questa Vergine gloriosa per attestarle la mia gratitudine; e fra le altre è mio costume di argomentarmi di tirare a Lei i cuori di tutti persuadendo a tutti che trovata Maria, troveranno la vita conforme a quello: qui me invenerit inveniet vitam. E per riuscire in questo intento soavissimo io ho per costume di non lasciare che trascorra alcun corso di predicazione, nella quale io abbia parte, senza favellare del Cuore benedetto di Maria, additandolo a tutti come porto unico e soavissimo di pace, di sicurezza, di misericordia. Tale io ho trovato il Cuore di Maria per me, tale l’ho sempre mostrato agli altri, tale a voi, se mi udirete, lo mostrerò stamattina signori miei. Vi parlerò del cuore di Maria pianamente e devotamente, quanto mi sarà possibile, cercando di innamorarne tutti e specialmente i poveri tribolati, gli afflitti e i peccatori, e beato me se riuscirò nell’intento. Innamorarsi del Cuore di Maria è come far suo quel Cuore benedetto; chi ha fatto suo il cuore di chi che sia è padrone di tutto l’uomo. E che bramerà di vantaggio chi abbia fatto suo il Cuor di Maria?

1. È cosa che si ripete ogni giorno nella santa Chiesa cattolica, e che mille volte ridetta torna sempre gradita come se nuova fosse al popolo cristiano, che nulla è più amabile più soave più salutare del pensiero, del nome, della memoria della Madre di Dio. Maria! Basta pronunziare questo nome perché palpiti ogni cuore, perché sorrida ogni labbro, perché ogni tristezza si dilegui, perché ogni petto si riempia di giubilo. Come, se dando luogo i nembi, la stella del mattino scintilla tremula nell’azzurro del firmamento, o come se dopo la pioggia si colori tra le nubi la variopinta gloria dell’iride, così dice Bernardo, tra le tenebre di questa terra sgombrano le nuvole, riede il sereno, chetano i turbini e fiorisce la pace, quando s’invoca Maria: Maria nella quale tutto innamora, il nome, il grado, la grazia, la gloria, la dignità. Tutto questo è verissimo e io mi glorio di predicarlo, né tacerò le glorie e le misericordie di tanta Madre, finché il cuore nel petto mi palpita, e si snoda alla parola la lingua. Con tutto ciò dilettissimi dopo avere detto Maria, provatevi a dire Cuore di Maria, voi sentite subito di avere detto qualche cosa di più caro, di più tenero, di più soave che dicendo semplicemente Maria. Accade a noi o Madre benedetta quando menzioniamo il tuo Cuore quello che ci accade quando menzioniamo il Cuore del tuo Figliuolo. Io dico Gesù, e il nome di Gesù è miele alle labbra, melodia alle orecchie, giubilo al cuore, ma se dopo avere detto Gesù passo innanzi e dico Cuore di Gesù, sento l’anima mia essere percossa di affetti insoliti verso il mio Redentore e me ne rendo questa ragione. Quando io dico Gesù, mi si rappresenta al pensiero nella pienezza della sua magnificenza della sua potestà il Verbo incarnato. Lo vedo quindi non solamente uomo ma Dio, non solamente amico e fratello, ma Pontefice e Re, non solamente Padre ma Giudice. Non così quando dico Cuore di Gesù. Il cuore è simbolo dell’amore, è sede dell’amore, è organo dell’amore. Chi dice Cuore dice amore, chi vede il cuore vede l’amore, e quando nomino il Cuore di Gesù, sparisce il Giudice, il Re, l’Onnipotente a cui ogni ginocchio si curva in Cielo ed in terra, e vedo solo l’amante delle anime, il Pastor buono, il vero padre ed amico dell’uman genere morto in croce per me. E anche in questo o Madre benedetta Voi vi rassomigliate al vostro Figliuolo. Io dico Maria, e nominandovi vedo Voi tutta quanta. Non vedo solamente la più amabile e misericordiosa creatura che abbia fatto il Signore, ma vedo ancora la augusta Regina della terra e del Cielo, l’innalzata al consorzio della Trinità sacrosanta, la piena e soprappiena di santità. E allora sento di amarvi, ma all’amore si mesce la riverenza, e per alta ammirazione la mia fronte si curva davanti a Voi. Eppure noi abbiamo bisogno di accostarci a Maria con fidanza filiale. E però passiamo avanti e diciamo Cuore di Maria. Ed ecco alla menzione del cuore sparisce la grande, la Regina, la sublime, la tutta santa, e altro più non vediamo fuorché la Madre piena di misericordia e di amore. Vengono quindi al dolce richiamo del tuo cuore, vengono gli uomini al tuo cospetto o Maria e ti raccontano i loro dolori e ti partecipano le gioie, ti svelano le proprie miserie e ti chiedono le tue ricchezze, i nostri peccati, i nostri peccati medesimi non ci sgomentano vedendo il tuo cuore, e scoprendoli a te, sentiamo rilevarsi l’anima e speriamo la misericordia e il perdono. E questo è il motivo perché in questi miseri tempi Maria ha svelato straordinariamente il suo Cuore. Ha voluto alla nostra generazione pervertita dalla empietà offrire un’esca dolcissima e un porto di salute e di pace. E gli uomini hanno inteso quest’arte di amore, e veduto il Cuor di Maria come trovato avessero un centro di attrazione invincibile, a quello sono corsi e in quello hanno trovato vita, salute, grazia, ogni bene: e più facile sarebbe contare le stelle del cielo e le arene del mare che le misericordie e le grazie d’ ogni maniera, che la devozione al suo Cuore ha espugnato a Maria. No, quando si fa capo al suo Cuore, Maria non resiste.

2. Ma entriamo alquanto più addentro e scandagliamo la ragione intima di tanta forza di attraimento che esercita sugli uomini il Cuore benedetto di Maria e la troveremo, per cosi dire, naturale nell’ordine soprannaturale della grazia. Mi aiuti Maria perché il concetto della mente esprima adeguatamente la lingua. Uno degli spettacoli più misteriosi e più teneri che la natura appresenti è l’amore dei figliuoli verso la madre, e viceversa l’amore della madre verso i figliuoli. Ferì questo spettacolo la mente e gli occhi del divino Crisostomo, e lo espresse con viva eloquenza così. Mostra a un pargoletto lattante ancora e ignaro di tutto una regina coronata di gemme e vestita di oro dall’una parte, dall’altra mostragli la sua madre avvolta nei cenci e coperta di povertà e di squallore e vedrai. Nulla intende quel piccioletto nulla conosce, ma con tutto ciò non cura la regina, la sprezza, la sdegna, la risospinge, ma non così colla madre. Si ravviva tutto vedendola, brilla, sorride, e protendendo verso di essa con l’animo la persona, si scaglia e quasi si avventa per abbracciarla. Che è mai questa attrattiva, questo impeto e questa foga che rapisce quell’animo inconsapevole verso la madre? Che sia, non domandare che io non lo so, so che è cosa verissima e potentissima ed è un senso, un istinto ideato dalla mente divina e dalla divina mano inserito nell’anima, che stabilisce, corrobora, illeggiadrisce le relazioni naturali tra figlio e madre, tra madre e figlio. Essendo così, qual luogo tiene Maria nell’ordine mirabile della redenzione e della grazia? Tiene il luogo di Madre. Mirabil cosa. Gesù Cristo è venuto in terra per stabilire tra gli uomini una famiglia collegata coi vincoli dell’amore e della fede, la quale in terra si inizi, e si consumi e perfezioni nel Cielo. In questa famiglia è un Padre ed è pio, un primogenito ed è Gesù Cristo, fratelli moltissimi di ogni popolo, d’ogni tribù, di ogni lingua. Ma alla buona economia della casa è richiesto che ogni famiglia abbia una madre, che divida col padre l’autorità, che vegli con occhio amoroso la prole, e sopraintenda agli uffici più intimi e più delicati di casa. Ora Dio non ha voluto che a questa gran famiglia della sua Chiesa una madre mancasse, ed ottima di tutte le madri le ha dato Maria. E Madre la saluta la Chiesa, e il vocabolo col quale ogni Cristiano appella Maria è il dolce nome di Madre. Né questa è squisitezza o esagerazione mistica, ma verissima dottrina cattolica: e i Padri di tutti i secoli con consenso pienissimo insegnano che, come Gesù Cristo è il nuovo Adamo miglior dell’antico, Capo del genere umano rigenerato, così è Maria l’Eva novella Madre per grazia di tutti quelli che Gesù Cristo rigenerò alla salute; e sono celebri i paralleli che tra Eva e Maria tessono Ireneo, Epifanio, Agostino e Bernardo. Voleva quindi ogni ragione che, come nell’ordine della natura Dio inserisce nei figli un attraimento arcano verso la madre per cui anche il pargoletto inconsapevole la discerne tra mille e a lei corre e in lei si abbandona, così nell’ordine della grazia un affetto arcano, una propensione quasi istintiva fosse inserita verso Maria. E questo affetto questa propensione lo Spirito Santo medesimo inserisce nei petti cristiani sino da allora che nel santo Battesimo muoiono all’antico Adamo e rinascono al nuovo Adamo che è Gesù Cristo. In quelle acque sacrosante nelle quali veniamo rigenerati, insieme colla grazia santificante e cogli abiti delle virtù soprannaturali che ci si infondono, ci si infonde ancora l’abito dell’amore a Maria. E per negare che questo affetto ce lo troviamo quasi inserito nel cuore bisogna chiudere gli occhi alla luce, bisogna negare quello che ci dice ragionando altamente nel nostro cuore l’intimo senso. Pigliare quel pargoletto e quella pargoletta che pendono ancora dal seno materno, mostrate loro la immagine di Maria. Vedrete un’arcana simpatia, una tenerezza, una propensione, un attraimento di quell’anima innocente verso la benedetta fra le donne. Insegnategli a giungere le tenere mani e a balbettare con labbro infantile Maria, e vedrete con quanta facilità con quanto diletto quel dolce nome si stampa in quella memoria e in quel cuore, e dal cuore viene sul labbro, e sarete costretti a dire che lo Spirito Santo diffuso nei loro cuori generi questo affetto, generato lo nutrisca, nutrito lo perfeziona. Quindi è che questo affetto, se il peccato e l’iniquità non lo spengono, insieme colla fede cresce cogli anni e ci appresenta quello spettacolo che tutto giorno e agli altri porgiamo noi stessi, e noi stessi ammiriamo negli altri. Se ci stringe un pericolo, chi invochiamo per soccorso? Maria. Se ci rallegra insolazione chi ringraziamo per gratitudine? Maria. Se un ci preme, chi invochiamo per refrigerio? Maria. Se ci assedia una necessità a chi ci volgiamo per sovvenimento? A Maria. Si vede, o si vede e si tocca con mano in questa gran famiglia cristiana quello che si vede in ogni ben composta famiglia, e come in quella in ogni necessità, in ogni pena, in ogni consolazione, i figli fanno capo alla madre e tratti quasi da una dolce necessità ne la chiamano a parte; così anche in questa. E come nella famiglia un figlio che non ama la madre, che la disconosce e le fa villania, si ha in conto di mostro snaturato e maledetto dagli uomini e da Dio; così fra i Cristiani quelli che non amano, che non curano, che hanno alieno e avverso l’animo da Maria, sono pochi perché sono mostri, e i mostri non sono mai un gran numero. Anche fra i Cristiani di vita prodigata e perduta troverete di rado alcuno che non serbi nel petto qualche scintilla di amore a Maria, e questo è pegno di salute e ancora di misericordia, e basta perché non se ne debba disperare la conversione. Ma se qualcuno se ne trova o Dio guai a lui; fa orrore, mette spavento appunto come un mostro, e fra i segni di riprovazione non ce n’è alcuno che sia più terribile di una non so quale alienazione e avversione di animo da Maria. Questa avversione questo allenamento si è sempre visto negli eresiarchi più atroci e più empì, e Lutero diceva, siccome è noto, tutta l’anima mia si ribella e non posso patire in pace che mi si dica che la mia speranza è Maria. Infelice, cui il demonio invasava il petto del veleno e dell’odio che lo consuma contro la sua nemica. Quest’odio vediamo rinnovellato ai dì nostri nei settari che si sono venduti alle congreghe d’inferno, e fanno guerra a Maria, ne bestemmiano il nome, ne distruggono il culto e le immagini, anime reprobe e destinate all’inferno. Da questi infuori, regna in tutti i cuori cattolici l’amore, la tenerezza e una propensione filiale verso Maria. Ma che dico solo tra i Cattolici? Domandate donde trae suo principio la conversione degli eretici alla Chiesa Cattolica e sentirete che il primo passo fu un pio affetto che sentirono nascersi in petto verso Maria. Interrogate il missionario che si aggira per le barbare spiagge dell’Australia e della Polinesia come fa ad attrarre a sé quei barbari e di bestie farli uomini e di uomini Cristiani? Sotto un padiglione di verzura adorna di veli e di fiori che dà il paese, campeggia una cara immagine di Maria. Il selvaggio dal folto dei macchioni e dal cupo degli antri dove si intana vede quella cara sembianza e si accosta, e attonito domanda chi sia quella matrona sì augusta e sì amabile? Ode che è la Madre di Dio, e tirato e vinto quasi da catena amorosa dal nome di Maria è condotto a Gesù Cristo e alla Chiesa. Non vi faccia meraviglia. L’anima, disse sapientemente Tertulliano, è naturalmente cristiana, e avendo col Cristianesimo proporzione sì grande, non può non avere propensione naturale verso chi è la Madre di Gesù Cristo e del Cristianesimo, delle membra e del capo. Ma se Maria è la Madre universale andate al suo cuore. La madre più che altro si governa col cuore, e se volete espugnarla ragionate poco e date opera di guadagnarle il cuore: guadagnato il cuore è già vinta. Maria è Madre andiamo al suo cuore, preghiamola pel suo Cuore, espugniamo il suo Cuore: la impresa è facile, ed otterremo ogni cosa.

3. Ma Dio tanto amore ha infuso e propensioni affettuose così mirabili nel cuore del popolo cristiano verso Maria, avrà poi lasciato imperfetta l’opera sua, e non avrà acceso una fiamma di amore corrispondente nel cuore di tanta Madre? Voi intendete bene che questa mia domanda significa questo. Se ci ama Maria, e il nostro cuore ha risposto a quest’ora, se ci ama Maria? E non è il medesimo dire Maria e dire la più tenera e amorosa di tutte le madri? Le opere di Dio sono perfette nell’ordine della natura, ma nell’ordine della grazia sono perfette infinitamente di più. Ora la natura con la sua mano innesta nel petto dei figli l’amore verso la madre, ma nel cuore delle madri inserisce un amore molto più veemente molto più tenero, molto più sviscerato e costante. Vedrete quindi moltissimi figli disamorati delle loro madri, ma madri che non amino i figli le troverete rarissime, e appena qualcuna che vi metterà come snaturata sdegno e ribrezzo. Ora volendo Dio dare in Maria al mondo una madre, inserì nel cuore degli uomini un grande amore di Lei, ma nel cuore di Lei accese verso di noi un amore che non ha paragone altro che coll’amore che per noi arde nel cuore di Gesù. E per questo affetto cominciò il Signore l’opera sua fino da quando questa futura Madre di Dio e degli uomini fu concetta, e le collocò in petto un cuore somigliante a quello che da Lei preso avrebbe Gesù, perché Maria, dice sapientemente S. Efrem Siro, è un’opera fatta solamente pel Verbo incarnato, di forma tale che se il Verbo non si fosse dovuto incarnare Maria non sarebbe stata nel mondo introdotta. A questo cuore poi lavorato apposta per amare gli uomini, Gesù medesimo che creato lo aveva, dette colla sua mano stessa la perfezione e la tempera, e lo empié del suo amore medesimo e lo scaldò della sua medesima fiamma. E chi ne può dubitare? Gesù prese carne dei sangui purissimi sgorgati dal Cuore di Maria, Gesù albergò nove mesi nel santuario verginale dell’utero di Maria, e quei due cuori palpitarono di un medesimo palpito e vissero di una medesima vita. Che faceva quei nove mesi che tenne compresso il claustro delle viscere materne, che faceva dico, il Cuore di Gesù? Ardeva di amore smisurato ed ineffabile verso i figliuoli degli uomini. Come dunque non doveva accendere il Cuore di Maria del suo medesimo ardore e temperarlo alla fucina delle fiamme che consumavano il suo? Ma che sarà stato poi durante quei trentatré anni che Ella dimorò con Gesù pellegrina celeste sopra la terra? Ci dice il Vangelo che questa Verginella prudente teneva sempre gli occhi in quel modello divino e tutto esaminava notava tutto, e quello che Gesù faceva e quel che diceva, e le comunicazioni mirabili col Padre, e le predilezioni verso i figliuoli degli uomini, e le propensioni, e i desideri e gli affetti, e nulla le sfuggiva e faceva tesoro di tutto, e tutto conservava dentro al suo cuore e tutto ponderava, tutto pensava, tutto seco medesima conferiva con diligenza celeste. Conservabat omnia verba hæc in corde suo. (Luc. II, 51) Avete udito? Teneva assiduamente il suo Cuore alla scuola del Cuore di Gesù e lo formava su quel modello divino con sollecitudine tenera, gelosa, assidua, squisita. Conservàbat omnia verba hæc in corde suo. E che altro da quel Cuore poteva imparare il tuo Cuore o Maria fuor che ad amare quantunque immeritevoli, quantunque ingrati i figliuoli degli uomini? Ma che fa mestieri procedere per argomenti a mostrare l’amore di Maria verso gli uomini? Basta aver occhi per vedere com’Ella tutti mirabilmente fornisce gli uffici di ottima madre. A che prove conoscete se una madre ama veramente i figliuoli? Alle opere. Vedete non vive altro che per la sua famiglia, altro non cerca, di altro non si briga,non pensa ad altro. Ora in ogni famiglia ben ordinata, chi guardi bene vedrà che essendoci una madre e un padre sono tra questo quasi domestico magistrato compartiti gli uffici. L’autorità paterna è un’autorità grave e robusta, la materna, amorosa e soave, il padre sopraintende ai negozi che escono fuori delle pareti domestiche, e regola le relazioni esterne della famiglia, la madre è una autorità casalinga a cui appartengono le cure tenui ed interne. Alle cure grandi e rilevanti attende il padre, la madre dà opera alle incombenze minute. Però la madre si tiene davanti da mane a sera la sua famigliuola e vede tutto, tutto procura, nulla le sfugge. Al modo medesimo passano le cose in questa gran famiglia della Chiesa, dice Bernardo. Ci è Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro Fratello e da loro scende ogni bene. Ma ci è anche una Madre a cui appartiene il governo e l’economia domestica di questa famiglia ed essa è Maria. Si tiene Ella però davanti tutti i figli della santa Chiesa Cattolica, e tutti ci vede, ci conosce tutti, tutti ci custodisce, tutti ci veglia, vede tutte le nostre necessità, indaga i bisogni e a tutti e pensa e provvede. E questo povero figlio è peccatore, è peccatrice questa povera figlia: e questo è tribolato, quest’altra è afflitta: e quale è infermo e quale in pericolo: a questo tende insidie il demonio, quest’altro il mondo lusinga: questa sta per cedere a un seduttore, quell’altro incatenano i lacci di una occasione: vede Maria vede, il Cuore materno incenerisce, l’amore la sollecita e non ha pace. Si volge al Figlio, si appresenta al trono della Trinità sacrosanta, e supplica e implora a questo la conversione, la salute a quell’altro, a chi la forza e la grazia, a chi la speranza, a chi la consolazione, a chi lo scampo e la vita, a chi la vittoria contro il maligno in vita e in morte. Però è sempre attorno pel Paradiso, e i santi Padri leggiadramente la chiamano del Paradiso la faccendiera. Però come nella famiglia i figlioletti chiamano più la madre che il padre, così nella Chiesa cattolica si chiama Maria continuamente, Maria… Maria. Non udite? Maria si grida dal mare se minaccia procella, e se l’onda è tranquilla le si insegna a salutarla Stella del mare: Maria si invoca dalla terra o volgono prosperi e felici i successi o corrono torbidi e avversi. Dai letti del dolore si chiama Maria, nelle angustie e nelle distrette Maria s’invoca. Ed Ella? Ed Ella come Colei che tota suavis est ac plena misericordiae, che tutta è soave e piena di misericordia, omnibus sese exorabilem, dice Bernardo, omnibus clementissimam præbet, omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur affectu. Con quel suo Cuore buono, largo, benfatto, generoso, benefico, a tutti si porge esorabile, clementissima a tutti, e con amplissimo affetto s’intenerisce alle necessità di tutti. Però ogni tempio, ogni lido, ogni terra, ogni spiaggia è piena dei monumenti e dei voti che attestano, che Cuore sia quello di Maria, e quei monumeni e quei voti gridano in loro linguaggio, Maria ha un cuore grande, tenero, gentile, benefico: chi fa capo a quel Cuore non patisce ripulsa: omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur affectu.

4. E perché Maria fosse tale, Dio volle esercitare e perfezionare col dolore il Cuor suo immacolato, verginale, santissimo, innocentissimo. Avrete sentito dire che Maria dal momento che divenne Madre di Dio divenne Madre ancor di dolore, e portò sempre infitta nel mezzo al Cuore una spada. È verissimo e così fu, e così conveniva che fosse. Perché osservate. Una madre buona e degna di questo nome ama tutti egualmente i figliuoli suoi: non ha parzialità per nessuno: sono tutti frutti delle sue viscere, li ama tutti ad un modo. Ma se tra i figli alcuno ne sia pel quale sperimenti più tenerezza qual è? È quello per cui ha molto patito. Il cuore di ogni madre è fatto così, il dolore patito genera amore, e il figliuolo delle lacrime e del dolore è il figliuolo prediletto. Essendo così, Dio che ci ha dato per figli a Maria, e ha costituito Lei nostra Madre perché tutti ci avesse in grado di prediletti ha voluto che tutti fossimo per Lei figli di dolore. Già fin da quando aperse le sue viscere al Verbo di Dio intese che quel figliuolo destinato ad essere vittima del genere umano sarebbe per Lei figliuolo di lacrime: ma lo intese anche meglio poco di poi. Aveva appena da quaranta giorni partorito Gesù e Madre fortunata e incomparabile portava al tempio il frutto delle sue viscere, quando torbido e rabbuffato le si fece incontro un vegliardo per nome Simeone e presole di tra le braccia il bambino, questo bambolo, esclamò: è posto in ruina e in resurrezione di molti, e in bersaglio di contradizione: e tu donna preparati perché per conto di Lui una spada ti trapasserà il cuore da parte a parte. Intese allora Maria tutto il mistero e capi che quel figlio all’età di trentatré anni le morirebbe crocifisso. Povero Cuore da quel giorno in poi non ebbe più lieta un’ora, e come Gesù dal presepio al calvario ebbe sempre nel cuore la croce, così tu o Maria avesti sempre nel cuore la spada. Cresceva Gesù, crescendo in età sempre diveniva più vezzoso, più giocondo, più bello, lo irraggiava la sapienza, lo infiorava la grazia, Dio e gli uomini si compiacevano in esso, le spose e le madri di Sion ti predicavano beata, e tu tacevi: ma chi ti avesse letto nel cuore avrebbe letto le parole della desolata Noemi: non mi chiamate felice ma amara perché il Signore mi ha ripiena di amaritudine: e il significato di queste parole si sarebbe inteso quel giorno che ti sarebbe conferito il grado di Madre degli uomini. Orsù dilettissimi, rispondete: quando e dove Maria veramente ci partorì e diventò Madre di noi? Nel gran giorno del dolore là sul Calvario. Stabat iuxta crucem Iesu Mater Eius. (Joan. XIX, 25.) Pendeva Gesù dalla croce sanguinolento olocausto: ai piedi della croce stava Maria. Presso Maria, rappresentante nostro, stava Giovanni. Maria trambasciava di dolore, Gesù la vide, e additandole Giovanni le disse: ecco il tuo figliuolo, e a Giovanni: ecco la Madre tua. Allora divenne Maria Madre nostra, e in Giovanni tutti quanti ci accettò per figliuoli, e Gesù consumò l’opera gettandole in petto una parte di quella fiamma che nel suo Cuore allora ardeva per noi. Coraggio o carissimi, coraggio: Maria ci ama, siamo suoi figli e non figli in qualunque modo, ma figli del suo dolore, e però prediletti, e quando ci vede ricordandosi quel che ha patito s’intenerisce, il suo Cuore non regge più e dimentica tutto e solo sente le voci dell’amore. Tutta la terra è piena delle misericordie di Maria verso i figliuoli degli uomini che si cantano in ogni lingua, si magnificano da ogni labbro. Come mai in tal Regina tanto amore verso una generazione scortese, ingrata, villana? Non vi stupite, gli uomini sono figliuoli del suo dolore. Nessuno, dunque, abbia temenza di accostarsi a Maria. Ogni temenza sarebbe irragionevole. Andate pure e sappiate che quando un figliuolo la supplica, il cuor suo non resiste. Guardatela ha il Cuore in mano e par che vi dica son Io sì, son Io, son vostra Madre, accostatevi e vedrete che Cuore è questo.

5. E però è che la anta Chiesa tutti invita, tutti sprona a rifuggire al Cuor di Maria: ma di preferenza appresenta quel Cuore ai peccatori, che pei peccatori sembra che sia aperto principalmente in questi tempi novissimi, onde la devozione al Cuore di Maria è ordinata principalmente alla conversione dei peccatori. Intendo, intendo. Datemi una madre tenera, sviscerata quanto volete dei suoi figliuoli, datemela a vostro talento imparziale verso tutti i frutti delle sue viscere, vedrete con tutto ciò, che se uno dei suoi figliuoli o le cade infermo e il morbo si aggrava, o geme prigioniero, o vaga tribolato e ramingo sembra che questa madre muti natura. Non sembra più imparziale né eguale con tutti i figli: sembra invece che dimentichi tutti gli altri, che non li curi: tutte le sollecitudini sembrano essere pel figliuolo che tribola e che patisce, sembra che in lui si concentri tutto l’affetto. La vedete quindi o assisa di dì e di notte alla sponda del letto molcere le angosce e alleviare i dolori del caro infermo: o sollecita di sapere le novelle del prigioniero diletto, e dell’amato ramingo, di altro non favella se parla, ad altro non pensa se tace, non ode volentieri che si parli di altri fuorché di loro. Sono tribolati, hanno ragioni sovrane sul cuor materno. Ora chi sono in questa gran famiglia che Dio ha dato a Maria i poveri peccatori? Sono figli prigionieri, sono figli raminghi, son figli infermi. Infermi della pessima malattia del peccato, raminghi ed esuli dalla casa del Padre, prigionieri del diavolo già condannati all’inferno. Li vede Maria e ne sa la miseria incomparabile, e il suo Cuore materno si strugge e si consuma di dolore e di amore. Poveri figli non sanno quello che fanno, sono ciechi, sono travolti da infelicissimo errore: si perdono e non intendono il loro male. Ah! il Cuor di Maria non ha pace, grida mercé al suo Figlio, li cerca, li scuote, li sollecita, li invita, li alletta, e con tenere voci da mane a sera li chiama, e poiché non ascoltano si volge ai figli fedeli, e voi, dice, voi aiutatemi, se mi amate, aggiungete la vostra voce alla mia, e uniti insieme riconduciamo al Padre questi profughi sconsigliati e cari. Peccatori, sentite a quando a quando quelle voci al cuore, quelle grida della coscienza lacerata, quegli impeti, quegli impulsi a tornare al Padre? Sono le voci di Maria che vi chiama, ah! se avete cuore umano nel petto consolate il dolore e rasserenate il cuore di questa Madre. Su rispondete, parlate. Quem fructum habuistis in quibus nunc erubescitis? (Rom. VI, 21). Vi è messo conto a partirvi dalla casa del Padre? A mettervi per le vie tribolate dell’iniquità? A cambiare il giogo di Gesù colla catena del diavolo? O cari anni della vostra innocenza! O giorni felici della coscienza serena! Allora passavano i dì tranquilli, allora correvano placide e dolci le notti, allora guardavate il cielo con lieto sembiante, allora invocavate con dolce affetto i nomi di Gesù e Maria, il presente era giocondo, non vi atterriva il futuro, la pace del cuore si dipingeva nell’occhio sereno e nel volto. E ora? E ora non ci è più pace. Torbidi i giorni, tetre le notti, la coscienza s’indraga siccome un serpe, pochi momenti di ubriaca voluttà e poi tempesta e fremito nel cuore, e il tumulto e la rabbia del cuore vi si dipinge negli occhi torvi, nel volto arroncigliato, nelle parole rabbiose, nei modi protervi. Su dunque sorgete, poveri assetati di pace, tornate al Padre. Ma vi manca la lena, il giogo del peccato vi grava verso la terra, vi stringe i piedi la catena inveterata di satana. Ecco vi si apre in buon punto il Cuor di Maria. Alzate gli occhi: guardate quella benedetta sembianza, contemplate quegli occhi, quel cuore, quel dolce atto d’invito e poi non confidate se vi riesce. O sì, sì confidiamo, confidiamo tutti o Maria. Il tuo nome infonde fiducia, rincuora la tua sembianza, ma se contempliamo il tuo Cuore, forza è che ci diamo per vinti, perché esercita un’attrattiva che ci trascina. Trahe nos dunque trahe nos Maria. Mostraci, mostraci cotesto Cuore. In odorerm curremus unguentorum, (Cant. IV, 10) correremo all’odore dei tuoi profumi, e riconciliati con Dio e salvi con Te e per Te, cominceremo nel Tempo e continueremo nella eternità a cantare o clemens, o dulcis, Virgo Maria.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Luc. 1: 46; 1: 49
Exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus.

[L’anima mia esulta perché Dio è mio Salvatore, perché il Potente ha operato per me grandi cose e il Nome di Lui è Santo.]

Secreta

Majestáti tuæ, Dómine, Agnum immaculátum offeréntes, quǽsumus: ut corda nostra ignis ille divínus accéndat, cui Cor beátæ Maríæ Vírginis ineffabíliter inflammávit.

[Offrendo alla tua maestà l’Agnello immacolato, noi ti preghiamo, o Signore: accenda i nostri cuori quel fuoco divino che ha infiammato misteriosamente il cuore della beata Vergine Maria.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitate beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]


Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann XIX: 27
Dixit Jesus matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus: deinde dixit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[Gesù disse a sua Madre: «Donna, ecco il Figlio tuo». Poi al discepolo disse: «Ecco la Madre tua». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Postcommunio

Orémus.
Divínis refécti munéribus te, Dómine, supplíciter exorámus: ut beátæ Maríæ Vírginis intercessióne, cujus immaculáti Cordis solémnia venerándo égimus, a præséntibus perículis liberáti, ætérnæ vitæ gáudia consequámur.

[Nutriti dai doni divini, ti supplichiamo, o Signore, a noi che abbiamo celebrato devotamente la festa del suo Cuore immacolato, concedi, per l’intercessione della beata vergine Maria: di essere liberati dai pericoli di questa vita e di ottenere la gioia della vita eterna.]

V. Ite, Missa est.
R. Deo grátias.

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

UB’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XV – “HUMANI GENERIS REDEMPTIONEM”

Questa stupenda lettera Enciclica di S.S. Benedetto XV, è dedicata ai predicatori della parola di Dio. Pieno di citazioni scritturali ha da essere solo letta, tanto ogni commento risulti inutile. Si traccia la figura del predicatore, le sue caratteristiche, i suoi doveri e le sue responsabilità gravi verso il Signore Gesù di cui deve essere copia fedele nell’indirizzare anime al cielo e dar gloria all’Eterno Padre. Qual differenza siamo oggi costretti  a vedere in tanti che si spacciano per illuminati portatori della parola di Cristo, ma questo in verità dovrebbe farci subito capire con chi abbiamo a che fare, uomini senza missione canonica, senza giurisdizione perché scismatici e “una cum” false autorità apicali usurpanti indebitamente cattedre ed incarichi vari, dal parrocchiale, al curiale, e dal 1958, perfino la cattedra di S. Pietro. Come non meravigliarsi allora dei frutti marci e maleodoranti di insulse false predicazioni il cui intento, più o meno dichiarato, è la perdita delle anime? Come non meravigliarci di una società, un tempo cristiana, nella quale trionfa un paganesimo pratico con l’idea del soprannaturale totalmente estranea alla vita di strati sociali indirizzati come “pecore matte” alla dannazione eterna? I pochi resistenti del pusillus grex abbiano però fede ed abbandono in Dio che interverrà al momento più opportuno per distruggere col soffio della sua bocca (2 Tess, II, 8) l’uomo iniquo della perdizione con i suoi adepti e i falsi profeti … il dragone soccomberà … Et Ipsa conteret caput tuum … Intanto ci consoliamo con questo prezioso magistrale stupendo documento.

Benedetto XV
Humani generis redemptionem

Lettera Enciclica

I. L’ANNUNCIO DELLA PAROLA

La predicazione prosegue l’opera della redenzione.

Avendo Gesù Cristo nostro Signore col morire sull’altare della Croce compiuta la Redenzione del genere umano, e volendo indurre gli uomini mercé l’osservanza de’ suoi comandamenti a guadagnarsi la vita eterna, non ricorse ad altro mezzo che alla voce de’ suoi predicatori, commettendo loro di annunziare al mondo le cose necessarie a credere o ad operare per la salute. “Piacque a Dio di salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21). Elesse egli quindi gli Apostoli, ed avendo loro infusi con lo Spirito Santo i doni appropriati a sì alto ufficio: “Andate – disse – per tutto il mondo e predicate l’Evangelio” (Mc XVI, 15). Ed è questa predicazione appunto che rinnovò la faccia della terra. Poiché se la Fede cristiana convertì le menti degli uomini da molteplici errori alla conoscenza della verità, e le anime loro dall’indegnità dei vizi all’eccellenza di ogni virtù, non per altra via le convertì se non per via della predicazione: “La Fede dall’udito, l’udito poi per la parola di Cristo” (Rm X, 17). Laonde, siccome per divina disposizione, sogliono le cose conservarsi per quelle medesime cause che le hanno generate, egli è manifestato essere legge divina che l’opera dell’eterna salute si continui per la predicazione della cristiana sapienza; a buon diritto venir questa annoverata tra le cose di suprema importanza, e meritare perciò tutte le nostre cure e sollecitudini, massime se ci fosse ragion di credere ch’ella, perdendo in efficacia, fosse in qualche modo venuta meno alla sua nativa integrità. – Ed è questo appunto che s’aggiunge ai tanti mali, che Noi sopra ogni altro affliggono in questi miseri tempi. Se miriamo quanti sono coloro che attendono alla predicazione, li ritroviamo in sì gran numero che forse mai non fu il maggiore. Ma se al tempo stesso consideriamo a che sono ridotti i costumi pubblici e privati e le leggi onde si reggono i popoli, vediamo crescere ogni giorno il disprezzo e la dimenticanza d’ogni concetto soprannaturale; vediamo illanguidire il vigore severo della virtù cristiana, con obbrobrioso e rapido ritorno all’indegnità della vita pagana. – Di tanti mali molte certamente e varie sono le cagioni: non si può negare però che purtroppo insufficiente sia il rimedio che i ministri della divina parola vi dovrebbero apportare. Forse che la parola di Dio non è più quella che l’Apostolo chiamava viva ed efficace e penetrante più d’una spada a due tagli? Forse col tempo e coll’uso la spada s’è spuntata? Certo ella è colpa dei ministri, che non sanno maneggiarla, s’essa perde spesso della sua forza. Né davvero si può dire che gli Apostoli incontrassero tempi migliori dei nostri, come se allora il mondo fosse più docile al Vangelo o meno riottoso alla legge di Dio. – Gli è perciò che consci del dovere che l’Ufficio apostolico c’impone e mossi dall’esempio dei due nostri immediati Predecessori, abbiamo creduto, in un affare di tanta importanza, di dover porre ogni diligenza per chiamare la predicazione della divina parola alla norma data da Cristo e dalle leggi ecclesiastiche.

II. CAUSE DI INEFFICACIA

Non si deve predicare senza mandato

Nel che, o Venerabili Fratelli, importa ricercare anzitutto quali siano le cagioni che fanno tralignare dalla retta via. Ora siffatte cagioni possono ridursi a tre: o perché viene commessa la predicazione a chi non si dovrebbe; o perché non ci si apporta la dovuta intenzione; o ancora non si predica nel modo che si conviene. – Infatti, secondo che insegna il Concilio di Trento, l’ufficio di predicare spetta ai Vescovi principalmente. E gli Apostoli, ai quali succedettero i Vescovi, quello soprattutto ritennero che loro appartenesse. Così Paolo: “Non mi ha mandato Cristo a battezzare, ma a predicare il Vangelo” (1Cor I, 17). E gli altri Apostoli similmente: “Non è giusto che noi tralasciamo la parola di Dio per servire alle mense” (At VI, 2). – Però sebbene quest’ufficio appartenga ai Vescovi in proprio, tuttavia essendo essi occupati da molti altri pensieri nel governo delle loro Chiese, né potendo perciò sempre né in ogni caso adempirlo di per sé, è necessario che vi soddisfacciano anche per mezzo di altri. Laonde chiunque, oltre i Vescovi, esercita quest’ufficio, lo esercita senza dubbio come un incarico episcopale. Questo adunque rimanga anzitutto bene stabilito: a nessuno essere lecito d’intraprendere da sé l’ufficio di predicare, essere anzi a ciò necessaria la legittima missione, che nessuno può dare, dal Vescovo in fuori: “Quomodo praedicabunt nisi mittantur? – Come predicheranno se non sono mandati?” (Rm X, 15). Quindi mandati furono gli Apostoli, e mandati da Colui che è Pastore supremo e Vescovo delle anime nostre (cf. 1Pt II, 25), mandati i settantadue discepoli; e lo stesso Paolo, quantunque costituito già da Cristo vaso di elezione per portare il nome di Lui dinanzi alle genti ed ai re (cf. At IX, 15), non iniziò il suo apostolato fino a quando i seniori, ubbidendo al comando dello Spirito Santo: “Mettetemi da parte Saulo per l’impresa” (del Vangelo) (At XIII, 2), impostegli le mani, non lo licenziarono. La qual cosa nei primi tempi della Chiesa fu consuetudine costante. Tanto che tutti, anche i più insigni nel semplice ordine sacerdotale, come Origene, e quelli che dappoi furono innalzati alla dignità episcopale, come Cirillo di Gerusalemme e gli altri antichi Dottori della Chiesa, tutti, autorizzati ciascuno dal proprio Vescovo, intrapresero l’opera della predicazione. – Oggi all’incontro, o Venerabili Fratelli, si direbbe sia invalsa un’usanza ben differente. Non sono rari, tra i sacri oratori, tali di cui si potrebbe ripetere con verità quello onde si lagna Iddio presso Geremia: “Io non li avevo mandati quei profeti, eppure correvano da sé” (Ger XXIII, 21). Basta infatti che alcuno o per naturale inclinazione o per altro motivo qualunque s’invogli di darsi al ministero della parola, perché facilmente gli si apra l’accesso al pergamo, quasi palestra da esercitarvisi ognuno a suo talento. Tocca dunque a voi, o Venerabili Fratelli, riparare a tanto disordine; e poiché ben sapete come dovrete un giorno rendere conto a Dio ed alla Chiesa del pascolo che avrete fornito alle vostre greggi, non vogliate permettere che alcuno, senza il vostro consenso, s’introduca nell’ovile e quivi a suo piacimento pasca le pecorelle di Cristo. Nessuno, pertanto, nelle vostre diocesi d’ora innanzi dovrà predicare se non sia stato da voi stessi chiamato ed approvato. – Vorremmo perciò, su questo proposito, che con ogni vigilanza consideriate a quali persone affidate incarico così santo e rilevante. Il decreto del Concilio Tridentino, infatti, questo solo permette ai Vescovi, che scelgano uomini idonei, cioè dire che siano capaci di adempiere salutarmente il dovere della predicazione. Salutarmente, dice – notate bene la parola che esprime la norma in questo affare – non dice con eloquenza, non già con plauso degli uditori, ma con frutto delle anime, che è il fine proprio del ministero della divina parola. Che se desiderate intendere da Noi anche più precisamente quali veramente si debbano reputare idonei, diremo senz’altro che sono quelli appunto ne’ quali riscontrate i segni della vocazione divina. Imperocché quei requisiti stessi che si domandano acciocché alcuno sia ammesso al sacerdozio: “Nessuno si appropria da sé tale onore ma chi è chiamato da Dio” (Eb V, 4), sono pure necessari perché egli sia giudicato atto alla predicazione.

Chi può essere ammesso a predicare

Vocazione questa non difficile ad intendere. Poiché allorquando Cristo, Maestro e Signor nostro, stava per salire al cielo, non disse già agli Apostoli che, spargendosi pel mondo, subito principiassero a predicare, ma “trattenetevi in città sino a tanto che siate rivestiti di virtù dall’alto” (Lc XXIV, 4). Sicché questo è l’indizio d’essere alcuno da Dio chiamato a tale ufficio, s’egli sia dall’alto rivestito di virtù. Il che come sia, Venerabili Fratelli, lo possiamo raccogliere dall’esempio degli Apostoli, tostoché ricevettero virtù dal cielo. Era su di loro disceso appena lo Spirito Santo, che lasciando stare i mirabili carismi loro conferiti essi, di rozzi e fiacchi uomini che erano, ad un tratto diventarono dotti e perfetti. Così se un Sacerdote sia fornito di conveniente dottrina e di virtù purché egli abbia tanto in doni di natura da non tentare Iddio giustamente si potrà giudicarlo chiamato al ministero della predicazione, né vi sarà ragione che il Vescovo non lo possa ammettere. Ed è quello stesso che intende il Concilio di Trento, quando stabilisce che il Vescovo non permetta di predicare ad alcuno che non sia ben provato per costumi e per dottrina. È quindi dovere del Vescovo assicurarsi per via di lunga ed accurata esperienza quanta sia la scienza e la virtù di coloro, ch’egli pensa d’incaricare dell’ufficio di predicare. E s’egli in ciò si dimostrasse troppo facile e trascurato, mancherebbe ad un suo gravissimo dovere, e sul suo capo ricadrebbe la colpa e degli errori profferiti dal predicatore ignorante e dello scandalo e mal esempio del malvagio. – Ma per facilitarvi l’adempimento dell’obbligo vostro in questo genere, o Venerabili Fratelli, ordiniamo che d’ora innanzi tutti coloro che domandano la facoltà di predicare abbiano a sostenere un doppio e severo giudizio, dei costumi e della scienza loro, così appunto come si suole per la facoltà di ascoltare le confessioni. E chiunque o per l’uno o per l’altro conto sia ritrovato manchevole, senza nessun riguardo, come inetto venga escluso da tale ufficio. Lo esige la dignità vostra, perché, come abbiamo detto, i predicatori fanno le vostre veci: lo esige il bene della santa Chiesa, nella quale, se altri mai dev’essere sale della terra e luce del mondo, ciò spetta a colui che è occupato nel ministero della parola (Mt V, 13-14).

Il fine e le forme della predicazione

Ben considerate queste cose, può sembrare superfluo il procedere a spiegare qual debba essere il fine e il modo della sacra predicazione. Giacché ove la scelta dei sacri oratori si faccia secondo la mentovata regola, che dubbio c’è che quelli, i quali sono adorni delle richieste qualità, si proporranno nel predicare una degna causa e si atterranno a una degna maniera? Tuttavia, giova lumeggiare questi due capi, affinché tanto meglio apparisca perché mai talvolta venga a mancare in alcuni l’ideale del buon predicatore. Che cosa i predicatori nell’adempiere al loro ufficio abbiano da avere innanzi agli occhi, si rileva da questo, che essi possono e debbono dire di sé quel di San Paolo: “Facciamo le veci di ambasciatori per Cristo” (2Cor V, 20). Se dunque sono ambasciatori di Cristo, nel compiere la loro ambasceria debbono volere quello stesso che Cristo intese nel darla loro: anzi quello che Egli stesso si propose, mentre visse sulla terra. Giacché gli Apostoli, e dopo gli Apostoli i predicatori, non ebbero missione diversa da quella di Cristo: “Come mandò me il Padre, anch’io mando voi” (Gv XX, 21). E sappiamo per che cosa Cristo discese dal cielo, avendo egli apertamente dichiarato: “Io a questo fine son venuto nel mondo, di rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). “Io son venuto perché abbiano vita” (Gv X,10). – Quelli dunque che esercitano la sacra predicazione debbono mirare all’una e all’altra cosa, cioè a diffondere la verità da Dio rivelata, e a destare ed alimentare la vita soprannaturale in coloro che li ascoltano; in una parola, a promuovere la gloria di Dio, coll’attendere alla salute delle anime. Laonde, come a torto si direbbe medico chi non esercitò la medicina, o maestro di un’arte qualsiasi chi quell’arte non insegni, così chi predicando non si cura di condurre gli uomini a una più piena cognizione di Dio e sulla via dell’eterna salute, potremo dirlo un vano declamatore, non un predicatore evangelico. E così non ve ne fossero di siffatti declamatori!

Intenzioni dei falsi predicatori

E che cosa è poi quello da cui si lasciano soprattutto trasportare? Alcuni dalla cupidigia della gloria umana, per soddisfare alla quale “si studiano di dir cose più alte che adatte, ingenerando nelle deboli intelligenze stupore di sé, non operando la loro salute. Si vergognano di dir cose umili e piane, per non sembrar di saper solo queste… Si vergognano di allattare i pargoli” . E mentre il Signore Gesù dall’umiltà degli uditori voleva s’intendesse essere Egli colui che si aspettava: “Si annunzia ai poveri il Vangelo” (Mt II, 5), quanto non brigano costoro per acquistarsi rinomanza dalla predicazione nelle grandi città e sui pulpiti primarii? E poiché nelle cose rivelate da Dio ve n’ha di quelle che spaventano la debolezza della corrotta natura umana, e che perciò non sono adatte ad adunare moltitudini, da esse cautamente si astengono e prendono a trattare argomenti ne’ quali, salvo la natura del luogo, niente v’ha di sacro. E non raro avviene, che nel trattar di verità eterne discendono alla politica, massime se qualche cosa di questo genere occupi fortemente gli animi degli uditori. Questo solo sembra essere il loro studio, di piacere agli uditori e imitar quelli che San Paolo dice lusingatori delle orecchie (2 Tm IV, 3). Di qui quel gesto non pacato e grave, ma da scena e da comizio; di qui quelle patetiche modulazioni di voci o tragiche impetuosità; di qui quel modo di parlare proprio dei giornali; di qui quella copia di sentenze attinte dagli scrittori empii ed acattolici, non dalle divine Lettere né dai Santi Padri; di qui finalmente quella vertiginosità di parola che nei più d’essi si riscontra e che serve sì a ottundere le orecchie e a far stupire gli uditori, ma che non reca ad essi niente di buono da riportare a casa. Ora è incredibile di che inganno siano vittime cotali predicatori. Conseguano pure quel plauso degli stolti che essi cercano con tanta fatica e non senza profanazione: ma vale la spesa, quando con ciò essi vanno incontro al biasimo degli uomini savii, e, quel che è peggio, al tremendo giudizio severissimo di Cristo? – Se non che, Venerabili Fratelli, non tutti i predicatori che si allontanano dalle buone regole cercano, nel predicare, unicamente gli applausi. Il più delle volte quelli che si procurano siffatte manifestazioni lo fanno per giovarsene ad altro scopo anche meno onesto. Giacché dimenticando il detto di San Gregorio: “Il sacerdote non predica per mangiare, ma perciò deve mangiare perché predichi”, non sono rari coloro i quali, sentendo di non esser fatti per altri uffici, dove vivere con decoro, si sono dati alla predicazione, non per esercitare debitamente questo santissimo ministero, ma per fare i loro interessi. Vediamo quindi tutte le sollecitudini di costoro essere volte non a cercare dove si possa sperare un maggior frutto nelle anime, ma dove predicando v’è da guadagnare di più. – Ora da uomini siffatti non potendosi aspettar altro che danno e disonore per la Chiesa, dovete, Venerabili Fratelli, vigilare con ogni diligenza affinché, scoprendo qualcuno che faccia servire la predicazione alla sua vanità o all’interesse, lo rimoviate senza indugio dall’ufficio di predicare. Giacché chi non si perita di profanare cosa sì santa, non avrà certo ritegno di discendere ad ogni bassezza, spargendo una macchia d’ignominia non solo sopra di sé, ma anche sullo stesso sacro ministero, che così indegnamente egli compie. – E dovrà usarsi la stessa severità contro coloro che non predicano come si deve, per aver trascurati i necessari requisiti a compiere bene questo ministero. E quali siano questi, lo insegna coll’esempio suo colui che dalla Chiesa fu denominato il Predicatore della verità, Paolo Apostolo; ed oh se, per beneficio di Dio, avessimo molto maggior numero di predicatori simili a lui!

III. CONDIZIONI PER PREDICARE

La scienza necessaria

La prima cosa, dunque, che apprendiamo da San Paolo si è con che preparazione e dottrina egli intraprese a predicare. Né qui intendiamo degli studi ai quali egli aveva diligentemente atteso sotto il magistero di Gamaliele. Giacché la scienza in lui infusa per rivelazione, oscurava e quasi sopraffaceva quella che egli da sé si era procacciata: benché anche questa non gli giovò poco, come dalle sue Lettere si ricava. La scienza è affatto necessaria al predicatore, come dicemmo; della cui luce chi è privo facilmente erra, secondo la verissima sentenza del Concilio Lateranense IV: “L’ignoranza è la madre di tutti gli errori”. Tuttavia ciò non vuole intendersi di qualsiasi scienza, ma di quella che è propria del Sacerdote e che si restringe, per dir tutto in poco, alla cognizione di sé, di Dio e dei doveri: di sé, diciamo, perché ognuno metta da parte i propri vantaggi; di Dio, perché conduca tutti a conoscerlo e ad amarlo; dei doveri, perché li osservi e insegni ad osservarli. La scienza delle altre cose, se manchi questa, gonfia e nulla giova.

Disponibilità senza condizioni

Ma vediamo qual fu nell’Apostolo la preparazione interiore. Nel che tre cose debbono massimamente tenersi sotto gli occhi. La prima, che San Paolo si abbandonò tutto alla divina volontà. Non appena infatti, mentr’era in cammino verso Damasco, fu tocco dalla virtù del Signore Gesù, egli proruppe in quella esclamazione, degna d’un Apostolo: “Signore, che vuoi tu che io faccia?” (At IX, 6). Per amor di Cristo, cominciò subito ad essergli indifferente, come gli fu poi sempre in appresso, il lavorare e il riposare, la penuria e l’abbondanza, la lode e il disprezzo, il vivere e il morire. Non è da dubitare che perciò egli profittasse tanto nell’apostolato, perché si sottomise con pieno ossequio alla volontà di Dio. Al modo stesso quindi innanzi tutto serva a Dio ogni predicatore che s’affatica alla salute delle anime: in maniera che non si dia alcun pensiero degli uditori, del successo, dei frutti, che sarà per avere: che cerchi, infine, non sé, ma Dio solo. – Questo studio poi così grande di prestare ossequio a Dio richiede un animo sì disposto a patire, che non si sottragga a nessuna fatica o incomodo. La qual cosa in Paolo fu insigne. Giacché avendo il Signore detto di lui: “Io gli farò vedere quanto debba egli patire per il nome mio” (At IX, 16), egli da allora abbracciò tutti i travagli sì volenterosamente da scrivere: “Sono inondato dall’allegrezza in mezzo a tutte le nostre tribolazioni” (2Cor VII, 4). Ora questa tolleranza della fatica se nel predicatore sia segnalata, purificandolo da quel che in lui v’è di umano, e conciliandogli la grazia di Dio necessaria per far frutto, è incredibile quanto renda commendevole la sua opera agli occhi del popolo cristiano. Al contrario poco riescono a muover gli animi, quelli che dovunque vanno, cercano comodità più del giusto, e fuori delle loro prediche, non toccano quasi altro del sacro ministero; sì da apparire che essi badino più alla propria sanità, che al vantaggio delle anime. – In terzo luogo, finalmente, dall’Apostolo s’impara che al predicatore è necessario quello che si dice lo spirito di orazione: egli infatti come prima fu chiamato all’apostolato, cominciò a pregar Dio: “Ei già fa orazione” (At IX,11). E la ragione è perché non coll’abbondanza del dire, né col discutere sottilmente o col caldamente perorare si ottiene la salute delle anime: un predicatore che si fermi qui non è altro che “un bronzo sonante o un cembalo squillante” (1Cor XIII,1). Ciò che dà vigore alle parole dell’uomo e le fa mirabilmente efficaci a salute, è la divina grazia: “Dio diede il crescere” (1Cor III, 6). Or la grazia di Dio non si ottiene con lo studio e coll’arte, ma s’impetra con la preghiera. Onde chi poco o niente è dedito all’orazione, indarno spende la sua opera e la sua diligenza nella predicazione, perché innanzi a Dio non caverà nessun profitto né per sé né per gli uditori.

Dottrina e pietà

Pertanto, a restringere in poco quanto siamo venuti dicendo fin qui, ci serviamo di queste parole di San Pietro Damiano: “Al predicatore due cose sono sommamente necessarie, cioè dire, che sovrabbondi di sentenze della dottrina sacra e fiammeggi dello splendore di religiosa vita. Che dove un sacerdote non riesca ad unire in sé le due cose, di guisa che sia esemplare di vita e copioso dei doni di dottrina, è meglio senza dubbio la vita che la dottrina… Più vale la chiarezza della vita per l’esempio, che l’eloquenza e l’accurata eleganza dei discorsi… È necessario che il sacerdote, che esercita l’ufficio della predicazione, versi piogge di dottrina spirituale ed irraggi lume di vita religiosa: a maniera di quell’Angelo, il quale annunziando ai pastori il nato Signore, balenò d’uno splendore di chiarezza, ed espresse con parole ciò che era venuto ad evangelizzare” .

Predicare tutta la verità e tutti i precetti

Ma per ritornare a San Paolo, se esaminiamo di quali cose fosse solito trattare predicando, egli compendia tutto così: “Non mi credetti di sapere altra cosa tra di noi, se non Gesù Cristo, e questo crocifisso” (1Cor II, 2). Fare che gli uomini conoscessero sempre più Gesù Cristo, e d’una cognizione che giovasse a vivere e non a credere soltanto, ecco quello a che egli s’affaticò con tutto il vigore del suo petto. E però predicava tutti i dommi o precetti di Cristo anche i più severi senza nessuna reticenza o temperamento, intorno all’umiltà, all’abnegazione di sé, alla castità, al disprezzo delle cose terrene, all’obbedienza, al perdono dei nemici o simili. Né mostrava alcuna timidezza nel proclamare: che si scelga tra Dio e Belial, perché non si può servire ad entrambi; che tutti, appena escono di questa vita, hanno a presentarsi a un tremendo giudizio; che con Dio non c’è luogo a transazioni; che o è da sperare la vita eterna, se si osserva tutta la legge, o, se per secondare le passioni si trascura il dovere, è da aspettarsi il fuoco eterno. Né mai il Predicatore della verità stimò di astenersi da siffatti argomenti per la ragione che, data la corruzione dei tempi, sembrassero troppo duri a coloro ai quali parlava. Apparisce chiaro dunque come non siano da approvare quei predicatori, che non osano toccare certi capi di dottrina cristiana, per non riuscir molestie all’uditorio. Forse che il medico darà rimedii inutili all’infermo, se questi per caso abborrisca dagli utili? E poi qui si parrà la virtù e l’abilità dell’oratore, se egli le cose ingrate avrà col suo dire rese grate.

Non serve la sapienza del mondo

Gli argomenti poi che aveva preso a trattare in che modo l’Apostolo li esponeva? “Non nelle persuasive dell’umana sapienza” (1Cor II, 4). Quanto importa, Venerabili Fratelli, che ciò sia da tutti sommamente ritenuto, mentre vediamo non pochi oratori sacri che predicano mettendo da parte la Sacra Scrittura, i Padri e i Dottori della Chiesa e gli argomenti della sacra teologia, e non parlano se non quasi solo il linguaggio della ragione. Ed è, senza dubbio, uno sbaglio: giacché nell’ordine soprannaturale non si riesce a nulla coi soli amminicoli umani. – Ma si oppone: al predicatore il quale si fondi troppo sulle verità rivelate, non si presta fede. – È proprio vero? Ammettiamo pure che ciò avvenga presso gli acattolici: sebbene, quando i Greci cercavano la sapienza, s’intende, di questo mondo, l’Apostolo predicava Gesù Crocifisso. Ma, se volgiamo gli occhi alle popolazioni cattoliche, in esse coloro che sono alieni da noi, ritengono per lo più la radice della Fede: le menti infatti sono accecate perché son corrotti gli animi. – Finalmente con quale spirito predicava San Paolo? Non per piacere agli uomini, ma a Cristo: “Se piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo” (Gal I,10). Con un’anima tutt’accesa della carità di Cristo, non altro cercava se non la gloria di Cristo. O se quanti s’affaticano nel ministero della parola, amassero tutti davvero Gesù Cristo, e potessero far proprie l’espressioni di San Paolo: “Per causa di cui (Gesù Cristo) ho giudicato un discapito tutte le cose” (Fil III, 8); e “Il mio vivere è Cristo” (Fil III, 8). Tanto quelli che ardono d’amore, sanno infiammare gli altri. Onde San Bernardo così ammonisce il predicatore: “Se tu bene intendi, cerca d’esser conca e non canale”; cioè di quel che dici sii pieno tu stesso, e non ti basti solo trasfonderlo negli altri. “Ma – come lo stesso Dottore soggiunge – oggi nella Chiesa abbiamo molti canali e pochissime conche”. – Affinché ciò non accada in avvenire, dobbiamo rivolgere tutti i nostri sforzi, o Venerabili Fratelli: a noi spetta, respingendo gl’indegni, e incoraggiando, formando, guidando gl’idonei, fare che di predicatori, secondo il cuore di Dio, ne sorgano quanti più si può. . Pieghi poi lo sguardo sul suo gregge il misericordioso Pastore eterno, Gesù Cristo, anche per le preghiere della Vergine Santissima, Madre augusta dello stesso Verbo incarnato e Regina degli Apostoli; e rinfocolando lo spirito dell’apostolato nel Clero, faccia che siano numerosi quelli che cerchino “di comparir degni d’approvazione davanti a Dio, operai non mai svergognati, che rettamente maneggino la parola di verità” (2Tm II,15). – Auspice dei doni divini e in attestato della nostra benevolenza, a voi, o Venerabili Fratelli, e al vostro Clero e popolo impartiamo con ogni affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma presso San Pietro, il 15 giugno, festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, dell’anno 1917, terzo del nostro Pontificato.

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio – Paramenti verdi.

La Chiesa nella liturgia di questo giorno ci insegna come Dio accordi il suo aiuto divino a tutti quelli che lo domandano con confidenza. Ezechia guarì da una malattia mortale, grazie alla sua preghiera, come pure liberò il suo popolo dai nemici; mercè la sua preghiera sulla croce, Gesù cancella i nostri peccati (Ep.) e risuscita il suo popolo a nuova vita mediante il Battesimo di cui è simbolo la guarigione del sordo muto, dovuta pure alla preghiera di Cristo (Vang.). Così, dato che per la virtù dello Spirito Santo, Gesù cacciò il demonio dal sordo muto e che i sacerdoti di Cristo cacciano il demonio dall’anima dei battezzati, si comprende come questa XI Domenica dopo Pentecoste si riferisca al mistero pasquale ove, dopo aver celebrata la risurrezione di Gesù si celebra la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa, e si battezzano i catecumeni nello Spirito Santo e nell’acqua affinché, come insegna S. Paolo seppelliti con Cristo, con Lui resuscitino. – Il regno delle dieci tribù (regno d’Israele) durò 200 anni circa (938-726) e contò 19 re. Quasi tutti furono malvagi al cospetto del Signore e Dio, allora, per castigarli, dette il loro paese ai nemici. Salmanassar, re d’Assiria, assediò Samaria e trascinò Israele schiavo in Assiria nell’anno 722. I pagani, che presero il posto nel paese; non si convertirono totalmente al Dio d’Israele e furono detti samaritani dal nome di Samaria. — Il regno di Giuda durò 350 anni circa (938-586) ed ebbe 20 re. Una sola volta questa stirpe regale fu per perire, ma venne salvata dai sacerdoti che nascosero nel tempio Gioas, al tempo di Atalia. Parecchi di questi re furono malvagi, altri finirono come Salomone nel peccato, ma quattro furono, fino alla fine, grandi servi di Dio. Questi sono Giosafat, Gioathan, Ezechia, Giosia. L’ufficio divino parla in questa settimana di Ezechia, tredicesimo re di Giuda. Egli aveva venticinque anni quando diventò re e regnò in Gerusalemme per ventinove anni. Durante il sesto anno del suo regno Israele infedele fu tratto in schiavitù. « Il re Ezechia, dice la Santa Scrittura, pose la sua confidenza in Jahvè, Dio d’Israele e non vi fu alcuno uguale a lui fra i re che lo precedettero o che lo seguirono; così Jahvè fu con lui ed ogni sua impresa riuscì bene ». Allorché Sennacherib, re d’Assiria, voleva Impadronirsi di Gerusalemme, Ezechia salì al Tempio e innalzò una preghiera a Dio, pura come quelle di David e Salomone. Allora il profeta Isaia disse a Ezechia di non temere nulla poiché Dio avrebbe protetto il suo regno. E l’Angelo di Jahvè colpì di peste centosettantacinque mila uomini nel campo degli Assirii. Sennacherib, spaventato, ritornò a marce forzate a Ninive ove morì di spada. Dio accordò più di cento anni di sopravvivenza al regno di Giuda pentito, mentre aveva annientato il regno d’Israele impenitente. — Ma Ezechia cadde gravemente malato e Isaia gli annunciò che sarebbe morto: « Ricordati, o Signore, disse allora il re a Dio, che io ho proceduto avanti a te nella verità e con cuore perfetto, e che ho fatto ciò che a te è gradito » (Antifona del Magnificat). E Isaia fu mandato da Dio ad Ezechia per dirgli: « Ho intesa la tua preghiera e viste le tue lacrime; ed ecco che ti guarisco e fra tre giorni tu salirai al Tempio del Signore ». Ezechia infatti guari e regnò ancora quindici anni. Questa guarigione del re che uscì, per cosi dire, dal regno della morte il terzo giorno, è una figura della risurrezione di Gesù. Così la Chiesa ha scelto oggi l‘Epistola di S. Paolo nella quale l’Apostolo ricorda che il Salvatore è « morto per i nostri peccati, è stato seppellito ed è resuscitato « nel terzo giorno » e che per la fede in questa dottrina noi saremo salvi come l’Apostolo stesso. Per questo stesso motivo è preso per l’Introito il Salmo 67, nel quale lo stesso Apostolo ha visto la profezia dell’Ascensione (Ephes., IV, 8).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXVII: 6-7; 36

Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.

[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]


Ps LXVII: 2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.

[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.]

Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.

[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.

[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

[“Fratelli: Vi richiamo il Vangelo che vi ho annunziato, e che voi avete accolto, e nel quale siete perseveranti, e mediante il quale sarete salvi, se lo ritenete tal quale io ve l’ho annunciato, tranne che non abbiate creduto invano. Poiché in primo luogo vi ho insegnato quello che anch’io appresi: che Cristo è morto per i nostri peccati, conforme alle Scritture; che fu seppellito, e che risuscitò il terzo giorno, conforme alle Scritture; che apparve a Cefa, e poi agli undici. Dopo apparve e più di cinquecento fratelli in una sol volta, dei quali molti vivono ancora, e alcuni sono morti. Più tardi appare a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Finalmente, dopo tutti, come a un aborto, appare anche a me. Invero io sono l’ultimo degli Apostoli, indegno di portare il nome di Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per la grazia di Dio, però sono quel che sono; e la sua grazia in me non è rimasta infruttuosa.”].

LA SINTESI DEL CREDO IN S. PAOLO.

Una delle cose che ci stupiscono davanti a certi monumenti costrutti dalla mano dell’uomo, monumenti materiali, è la loro antichità. Quando dinanzi all’arco di Tito, ancora così ben conservato nelle sue linee maestose, e anche in certi, in molti particolari secondarî, possiamo dire: ha duemila anni circa… ci pare d’aver fatto un grande elogio. Eppure questo è monumento morto. Noi ci troviamo oggi dinanzi a un monumento vivo, una costruzione ideale, cioè di idee, di concetto, di verità: il Credo, quello che voi sentite cantare ogni domenica. Ebbene il Credo ha duemila anni di vita. E noi ci troviamo oggi davanti al primo Credo, quale lo insegnava Paolo ai suoi convertiti. Non c’è tutto, c’è però la sostanza, il midollo centrale. Alcuni articoli sono sottintesi come presupposto necessario e implicito: altri saranno da lui stesso accennati altrove come corollari, ma il nucleo centrale è il Cristo Gesù, e Gesù è crocifisso e risorto. La sostanza, il centro del Vangelo è lì. Dio, Dio Creatore fa parte del credo religioso; cioè proprio di ogni religione che voglia essere appena appena non indegnissima di tal nome. Anche i Giudei credono in Dio Creatore e Signore del cielo e della terra. San Paolo non ricorda questo articolo, qui dove sintetizza il suo Credo, il Credo dei suoi Cristiani, non perché  essi possano impunemente negare Dio, ma perché è troppo poca cosa per noi l’affermarlo Creatore. Il nostro Credo incomincia dove finisce il Credo della umanità religiosa. Ed eccoci a Gesù Cristo. Uomo-Dio, Dio incarnato, uomo divinizzato, mistero di unione che non è confusione e non è separazione. Ebbene, questi due aspetti che in Gesù Cristo Signor nostro si sintetizzano, San Paolo li scolpisce, da quel maestro che è, nella Crocifissione e nella Resurrezione di Lui. « Io, dice Paolo ai suoi fedeli — suoi… da lui istruiti, da lui battezzati, da lui organizzati, — io vi ho prima di tutto trasmesso quello che ho ricevuto anch’io, vale a dire: che Cristo è morto per i nostri peccati, come dicono le Scritture, che fu sepolto ». È il poema, grandioso poema, e vero come la più vera delle prose, delle umiliazioni di N. S. Gesù Cristo: l’affermazione perentoria e suprema della sua vera e santa umanità: patire, morire, patir sulla Croce, morire sulla Croce. – San Paolo tutto questo lo ha predicato ai Corinzi, come egli stesso dice altrove, con santa insistenza. A momenti pareva che non lo sapessero: era inebriato della Croce; ossessionato dal Crocefisso. Lo predicava con entusiasmo. E veramente questo Gesù che soffre e muore è così nostro. È così vicino a noi. Non potrebbe esserlo di più. « In labore hominum est: » è anch’egli soggetto al travaglio degli uomini. Travaglio supremo, supremo flagello: la morte. Tanto più ch’Egli è morto non solo come noi, ma per noi, per i nostri peccati e per la nostra salute; per i nostri peccati, causa la nostra salute, scopo e risultato della Redenzione. Ma per le loro cause sono morti anche gli eroi: Gesù Cristo è quello che è, quello che Paolo predica, la Chiesa canta nel Credo: Figlio di Dio unigenito, e la prova, la dimostrazione: la Sua Resurrezione. Uomo muore, Dio vive di una vita che vince la morte, e va oltre di essa immortale. Perciò Paolo continua: «Vi ho trasmesso che Cristo risuscitò il terzo giorno, come dicono le Scritture ». E della Resurrezione cita i testimonî classici, primo fra tutti Cepha, ultimo lui, Paolo, ultimo degli Apostoli, indegno di portarne il nome, ma Apostolo come gli altri. La morte univa Gesù a noi, la vita non lo separa da Noi. Gesù Crocifisso è il nostro amore mesto e forte. Gesù Risorto è la nostra grande speranza, primogenito quale Egli è di molti fratelli. Da venti secoli la Chiesa canta questo inno di fede, di speranza, d’amore.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXVII: 7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.

[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja

[A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX: 2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc VII: 31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.

[“In quel tempo Gesù, tornato dai confini di Tiro, andò por Sidone verso il mare di Galilea, traversando il territorio della Decapali. E gli fu presentato un uomo sordo e mutolo, e lo supplicarono a imporgli la mano. Ed egli, trattolo in disparte della folla, gli mise le sua dita nelle orecchie, e collo sputo toccò la sua lingua: e alzati gli occhi verso del cielo, sospirò e dissegli: Effeta, che vuol dire: apritevi. E immediatamente se gli aprirono le orecchie, e si sciolse il nodo della sua lingua, e parlava distintamente. Ed egli ordinò loro di non dir ciò a nessuno. Ma per quanto loro lo comandasse, tanto più lo celebravano, e tanto più ne restavano ammirati, e dicevano: Ha fatto bene tutte le cose: ha fatto che odano i sordi, e i muti favellino!”


Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano, 1957)

LA MUTOLEZZA SPIRITUALE

Gli presentarono un uomo sordo e muto perché lo guarisse. Ed Egli, sempre buono, lo trasse in disparte dalla folla, e gli toccò le orecchie e la lingua. Poi levò lo sguardo al cielo e gemendo gli disse nel dialetto di Palestina: « Effeta! » — Apriti. — E subito, sotto il comando della voce divina, le sue orecchie, rimaste chiuse fino allora, udirono, e la sua lingua, muta fino allora, parlò. Perché Gesù davanti a quell’uomo sordo e muto guardò in alto tristemente e gemette? Il Maestro divino col suo sguardo che abbraccia l’universo e trapassa i secoli, in quel povero disgraziato scorgeva tanti sordi e muti spirituali, più compassionevoli e sventurati di quel meschino. — Ci sono uomini sordi alla parola di Dio: i Sacerdoti, mandati da Gesù ad annunziare il suo Vangelo nel mondo, gridano nelle chiese per far giungere nei cuori gli insegnamenti divini. Eppure, quanti non vengono mai alla predica, o, se vengono, a mala pena, sbuffando, sopportano un predichino di pochi minuti! Quanti raccolgono la divina parola con un orecchio e con un altro la disperdono! — Ci sono uomini sordi alle buone ispirazioni: da tempo, forse, il Signore punge col rimorso certi cuori induriti ed essi non si convertono, non migliorano la vita; da tempo forse il Signore chiama certe anime buone ad una vita più perfetta, allo stato religioso, e quelle non si decidono mai. — C’è poi la sordità caratteristica dei figliuoli, che non vogliono mai ascoltare le parole dei genitori, e non pensano che i genitori hanno ricevuto l’autorità da Dio e che facendo il sordo con loro, lo fanno con Dio. Ma è soprattutto della mutolezza spirituale che io intendo parlare: non è forse una delle malattie più diffuse in questi tempi nostri? Si potrebbe considerarla sotto un quadruplice aspetto: un mutismo di preghiera; un mutismo di confessione; un mutismo di rancore; un mutismo di rispetto umano. – 1. UN MUTISMO NELLA PREGHIERA. Nel secolo VI i Goti e i Greci si disputavano il dominio d’Italia. Gli eserciti erano accampati sulle falde del Vesuvio, pronti alla battaglia. Contro al vecchio e terribile Narsete capo dei Greci, i Goti avevano eletto un giovane audace fino alla temerità e valoroso fino alla morte. In lui i soldati imperiali, appena scoppiata la mischia, tesero l’arco e incoccarono le saette; ma Teia era protetto da un alto scudo di pelle. Giungevano i dardi sibilanti, s’infiggevano rabbiosi nel cuoio, e infissi tremavano invano. Ma tratto tratto lo scudo diventava così pesante di ferro che bisognava cambiarlo. In uno di questi momenti Teia lasciò il suo petto scoperto davanti al nemico: fu un istante e bastò. Una saetta avvelenata lo colpì nel cuore e cadde. La vita nostra, ha detto lo Spirito Santo, è una battaglia. Il demonio ch’è più forte e più furbo di noi cerca coi dardi velenosi di farci cadere in peccato. Iddio, per questa lotta, ci armò di uno scudo invincibile: la preghiera (S. AMBROGIO, De obitu Valent.). Ma guai a noi se anche un istante solo lo deponiamo: basterebbe quello istante al demonio per trovarci inermi e per colpirci. È necessario pregare sempre e non smettere mai (Lc., XVIII, 1) perché il demonio sempre ci tenta e non si stanca. Invece, quanti Cristiani passano le lunghe giornate, le settimane intere, muti con Dio. Per loro il Signore quasi non esiste: lavorano, sudano, si logorano, sono oppressi dalla sventura, sono tormentati dalle tentazioni, ma l’aiuto di Dio non lo chiedono mai. Poveretti! Essi non ricordano più che se il Signore non edifica la casa, inutilmente lavorano quei che la costruiscono; se il Signore non custodisce la città, inutilmente vigilano le sentinelle (Ps. CXXVI). Beati quelli che hanno fatto della preghiera il respiro della loro anima! Beate le mamme che hanno imparato ad accudire alle loro faccende recitando giaculatorie, beati gli uomini che tra il rullo sordo delle officine mormorano brevi orazioni! È così che S. Paolo voleva i Cristiani: « Bramo che gli uomini preghino in ogni luogo… ». (I Tim., II, 8). Ed egli ne dava l’esempio: anzi una tradizione ricorda che quando lo decapitarono sulla via Ostiense presso la terza pietra miliare, la sua testa già stroncata abbia pregato ancora, ripetendo tre volte il nome di Gesù. – 2. UN MUTISMO NELLA CONFESSIONE. Quando il Conte di Carmagnola fu sconfitto dai Milanesi, il governo veneto lo condannò a morte come un traditore. Ed il terribile Consiglio dei Dieci ordinò che venisse trascinato con le mani legate dietro la schiena sulla Piazzetta di S. Marco, e giustiziato tra due colonne: ma prima però gli avessero a porre in bocca una spranga di ferro. Oh se il conte di Carmagnola in quegli ultimi istanti avesse potuto parlare! Avrebbe detto parole strazianti, avrebbe invocato la pietà del popolo per i suoi bambini innocenti: e tutto il popolo commosso, sarebbe insorto e l’avrebbe salvato. Ma quella inesorabile verga di ferro gli sprangava la bocca. Ogni uomo che commette peccato mortale è reo di tradimento, di quel tradimento che Giuda fece nell’orto degli ulivi; e Dio lo condanna alla morte eterna dell’inferno. Oh se il peccatore non si ostinasse a fare il muto, ma parlasse, ma confessasse al Sacerdote il suo peccato, la bontà di Dio cancellerebbe la sua condanna, e gli perdonerebbe! Oh se Giuda non si fosse chiuso nella sua muta disperazione, ma fosse corso, invece che all’albero del suicidio, all’albero della croce, e là, piangendo avesse aperto la sua bocca a confessare il suo peccato, dall’alto Gesù morente avrebbe detto anche a lui quella parola di perdono che già aveva detto al ladro. O uomini, che a fatica trovate la via del confessionale una volta l’anno, e forse nemmeno, ricordatevi che è il demonio che con le sue mani vi tiene chiusa la bocca, perché non vuole che ritorniate ad essere buoni! Ed intanto la vita fugge e la morte è qui vicina: ma se non vi confessate di frequente e bene in vita non sperate di fare una buona confessione sul letto di morte. In quel momento il nemico dell’anima vostra avrà maggior interesse di chiudervi la bocca con la spranga ferrea del silenzio. E voi cadrete nel baratro dell’inferno: allora aprirete le labbra per maledire la vostra stoltezza, ma inutilmente: sarà troppo tardi. –  3. MUTISMO PER RANCORE. Sapete come si potrebbe paragonare l’anima di non pochi Cristiani? Ad un crivello, in cui vi sono molti fori per i quali sfugge il grano buono e rimangono soltanto le pagliuzze. Così anche molte anime, che pur si credono buone, lasciano cadere dalla memoria i benefici e le belle virtù del prossimo per ricordare soltanto le offese e i difetti. Perciò il mondo è pieno di rancore e di mutismo per rancore. Quante volte vediamo un fratello che non saluta suo fratello, che non parla più con lui; un figlio che non parla co’ suoi genitori, una cognata con la propria cognata, un vicino con il suo vicino… È bandita così la pace dai focolari domestici e dai paesi che pur si dicono cristiani: e dove è bandita la pace è pure scacciato Gesù Cristo che a questo mondo è venuto a portare la pace. Una volta i Cristiani si distinguevano dall’amore vicendevole che si portavano, dalla pazienza con cui si compativano e s’aiutavano, ma oggi i Cristiani fanno anch’essi; troppo sovente, come quelli che non hanno fede. Basta una parola, uno sgarbo, uno sbaglio e subito ci adontiamo, rompiamo ogni relazione, ci odiamo cordialmente. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Rom. XII, 21). Non lasciarti vincere dall’offesa, ma vinci nell’amore ogni odio. Massimiliano, il giovane imperatore del Messico, prima d’essere ingiustamente fucilato, ricordando il precetto di Gesù, esclamò: « Perdono a Lopez il suo tradimento e al Messico il suo delitto! ». Tutti piangevano: e quando lo videro immobile sulla terra, piansero anche i suoi nemici. – 4. MUTISMO PER RISPETTO UMANO. A Torino, nel palazzo del Signor Gaetano della Rovere, S. Luigi Gonzaga vide un vecchio che credeva di rallegrare un crocchio di giovani con qualche parola poco pulita. Non poté tacere: e, ardendo nel volto, gridò: « Vecchio! e non hai vergogna di parlare così? Le parole cattive fanno marcire il cuore ». Ogni giorno sul tram, in strada, in officina, all’osteria si può trovare quale persona maleducata che bestemmia, o deride la Chiesa e i preti, o fa discorsi luridi. Eppure, dove sono quelli che hanno il coraggio di gridare una parola franca di biasimo? Dove sono quelli che hanno il santo ardire di far chiudere quelle bocche blasfeme ed impure? Se ci fosse qui il profeta Isaia potrebbe lanciare a tutti il suo rimprovero: « Muti! Muti! Voi siete come cani che non sanno nemmeno latrare ». Se si trattasse di difendere il nostro onore, scatteremmo come molle, ma perché si tratta dell’onore di Dio, sentiamo vergogna o poco ce ne importa. Nel giorno del giudizio supremo anche Cristo avrà vergogna di noi e della nostra viltà di fronte al Padre Celeste e agli eletti del paradiso. Che cosa si dovrebbe dire poi a certi padri e a certe madri? Vedono i figli battere una cattiva strada, mettersi in pericoli manifesti per la loro anima; vedono le loro figlie vestire una moda indegna di persone oneste, le vedono frequentare compagnie sospette, le vedono ritornare a sera tarda… e tacciono. Muti! Muti come cani che non sanno nemmeno latrare. Un giorno non lontano piangeranno sopra i loro figliuoli che saranno diventati il loro crepacuore; saranno lacrime inutili come una pioggia caduta sulla pietra. – Oggi Gesù passa anche davanti a noi, e noi pure forse trova colpiti d’una qualche mutolezza spirituale: o di preghiera, o di confessione, o di rancore, o di rispetto umano. Anche davanti a noi mestamente egli alza gli occhi al cielo e freme e geme. O Cristiani! Che il gemito del Figlio di Dio non passi invano, anche questa volta, sopra la nostra anima muta! — DI ALCUNE MERAVIGLIE DEL CREATO. Se poi ci fosse capitato di assistere a qualche miracolo, di vedere i morti risorgere, i sordi riacquistare l’udito, i muti parlare, gli storpi camminare, oh! Certo anche la nostra voce si sarebbe unita a quella delle turbe del Vangelo per esclamare: « Ha fatto bene tutte le cose! ». Sentimenti giusti e degni di un cuore cristiano. Ma, fratelli, non dimentichiamoci che, pur vivendo lontani dal tempo in cui Gesù viveva quaggiù sulla terra, noi, verso il Signore, possiamo e dobbiamo diportarci come facevano un giorno le turbe. Se non cadono più sotto i nostri occhi i miracoli, ci sono però altre meraviglie osservando le quali altro non ci resta che lodare il Signore il quale davvero ha fatto bene tutte le cose. Sarebbe uno sbaglio pensare soltanto al passato ed invidiare la vita mortale di Gesù sulla terra e poi non curarci neppure di quanto ogni giorno possiamo vedere coi nostri occhi e meditare nel nostro cuore. Oggi vi voglio parlare appunto di alcune meraviglie che il Signore, nella sua bontà, ha compiuto nel mondo materiale e nel mondo spirituale. A pensarci bene vedremo che ben poco dobbiamo invidiare alle turbe di Galilea, mentre invece dovremmo pentirci di essere stati troppo ingrati e freddi col Signore e di non avere più spesso esclamato di Lui: « Ha fatto bene tutte le cose! ». – 1. ALCUNE MERAVIGLIE CHE SI VEDONO. Pensate, per esempio, al sole, a questo astro maggiore della natura che Iddio fa sorgere ogni giorno tanto sui giusti che sopra i cattivi. È tale, da solo, una meraviglia, che molti popoli antichi avvolti nelle tenebre della superstizione, lo hanno adorato come fosse una divinità. Questa massa enorme di fuoco il Signore l’ha posta in mezzo a molti pianeti che gli girano attorno come soldati col loro capitano. Fosse troppo vicino alla terra la abbrucerebbe col suo caldo, fosse invece eccessivamente lontano non le giungerebbe più il calore e la luce richiesta. Il Santo re Davide assomiglia il sole ad uno sposo, splendido nei suoi vestiti da nozze, che avanza circondato da una festa radiosa. Provate a pensare che sarebbe mai di tutto il creato se il sole non ci fosse più. Invece col dolce tepore dei suoi raggi mattinieri sveglia la natura che dorme e le imprime il bacio dell’amore di Dio. E difatti, al suo primo saluto rispondono gli uccelli col loro cinguettio chiacchierino, rispondono le erbe e i fiori che drizzano su in alto i loro steli ed aprono le corolle olezzanti ai più grati profumi. Perfino le onde del mare s’acquietano al suo apparire, perfino gli uomini cominciano più volentieri la loro giornata di fatica e di sudore. Ma se il sole ci fosse sempre, noi ci stancheremmo: ed ecco la notte ristoratrice a portare il suo riposo agli uomini ed alla natura, a compensare quasi con la sua freschezza il calore e l’aridità del giorno. Ecco ancora l’avvicendarsi bello delle varie stagioni nel corso non breve di un anno intero. L’autunno semina a mani piene, l’inverno prepara e rafforza i germogli, la primavera offre l’incanto dei fiori, l’estate porta la gioia dei frutti. Se dopo il sole, voi pensate alla terra, alla madre terra che agli uomini dona la varietà delle pietre e dei marmi onde costruire le case, la ricchezza del cotone, del lino, della lana, della seta con cui fabbricarsi le vesti, l’abbondanza dei frutti onde non solo saziare la fame ma allietare il gusto in mille maniere, voi non potete fare altro che innalzare l’inno della riconoscenza e dell’amore a Dio che ha fatto bene tutte le cose. Il creato è un inno sublime, è una musica bella che canta la grandezza e soprattutto la bontà del Signore. Ma ogni cosa è fatta per l’uomo, ogni essere il Creatore l’ha voluto perché meno triste fosse la dimora di colui che è il re del creato. Questo è lo scopo della creazione in tutta la moltitudine immensa delle cose necessarie oppure soltanto utili. Ma tocca poi all’uomo capire il suo dovere e servirsi delle cose create per salire verso il Creatore. Il Santo re Davide quando cantava sulla cetra le lodi di Dio chiamava tutto il creato a benedire il Signore: aveva capito che « i cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento annunzia le opere delle sue mani, Un giorno getta all’altro la parola della lode e una notte trasmette all’altra le notizie: e queste non sono parole né discorsi di cui non si sappia intendere la voce » (Ps., XVIII, 1-4). – 2. ALCUNE MERAVIGLIE CHE NON SI VEDONO. Bello, interessante lo studio degli astri, lo studio della terra che noi abitiamo, ma, o Cristiani, c’è un’altra astronomia, un’altra geografia che non si vede ma pure esiste ed è sublime e stupenda: è il mondo soprannaturale, la vita dei figlioli di Dio, è tutto il meraviglioso intreccio di quelle verità che si studiano sopra il Catechismo e che la Chiesa insegna ai piccoli e ai grandi. Saremmo ingenui se noi pretendessimo in pochi minuti di far passare sia pure brevemente tutto quanto fa parte della vita dell’anima cristiana: solo gettiamo uno sguardo sopra qualche astro splendente di luce più bello in questo panorama che Dio soltanto può comprendere bene. La grazia. — Cosa sia proprio, noi non lo sappiamo: ma è certo che se non abbiamo il peccato mortale noi la possediamo dal giorno in cui abbiamo ricevuto il S. Battesimo. S. Caterina da Siena vide un giorno, per favore divino, un’anima priva di peccato e divinizzata dalla grazia. Era tanta la bellezza di quella visione e la dolcezza che ne ridondava in lei ammirante che sarebbe venuta meno se Dio non l’avesse sostenuta. – Quando a Lisieux, nella clausura delle carmelitane, morì S. Teresa del Bambino Gesù, tutte le suore sentirono per le sale, per le celle del convento un finissimo olezzo di violette, tanto che sembrava ritornata la primavera. AI contrario, ci furono dei Santi a cui il Signore fece vedere l’anima in peccato mortale. Il ribrezzo, il puzzo, lo schifo che ne provarono fu tale da farli morire, se Dio non li avesse sostenuti. Dunque, o Cristiani, la grazia è lo splendore, è il profumo, è la vita, è il sole dell’anima. Guai se questo sole si spegne! E allora teniamolo acceso, conserviamolo sempre radioso col fuggire il peccato. Solo il peccato è la vera rovina dell’anima, scomparsa la grazia, l’anima è arida e secca come il deserto, è fredda come il ghiaccio, in una parola, è morta come la terra senza sole. La grazia è vita, ma perché possa durare occorre che sia alimentata. Nutrimento di questa vita sono i Sacramenti e sopra tutti il Sacramento dell’Eucaristia. Attorno all’Ostia bianca tutto è silenzio, ma io sfido chiunque a trovare una meraviglia più grande della Santa Eucaristia. Se la grazia è qualche cosa di sublime, l’Eucaristia è ancora più grande. La grazia è creata da Dio nell’anima, ma l’Eucaristia, contiene Gesù Cristo stesso, il Figliuolo di Dio, il dispensatore della grazia divina che ci ha meritato con la sua Passione. – Le pensiamo noi queste cose quando andiamo in chiesa a sentire la S. Messa? Restiamo persuasi quando passiamo davanti ai nostri templi? Se è così, in chiesa bisogna diportarci bene, bisogna pregare con gusto, bisogna accostarci di spesso alla S. Comunione: chi non mangia muore. Cristiani, le anime nostre, hanno ricevuto il dono di una vita divina, ed hanno bisogno di un frequente cibo divino per non morire, avviciniamole spesso al candore santo dell’ostia bianca e poi custodiamole sempre con la massima cura perché hanno toccato Gesù. – In una notte fiammante di stelle una donna ed un uomo guardavano il firmamento con gli occhi torbidi di peccati. « Martino — disse la donna — guarda come è bello il cielo! ». « Sì! — rispose Lutero — è bello ma non è fatto per noi! ». Cristiani, per gustare le bellezze del cielo bisogna avere la grazia di Dio. Oh allora il cielo stellato e le meraviglie della natura ci fanno pensare con un desiderio immenso alla vita di gloria che si raggiunge con la vita della grazia. — APRI L’ANIMA ALLA PREGHIERA. I gesti di Gesù in questo miracolo, ci ricordano il rito del santo Battesimo. È ancora Gesù che nella persona del suo ministro tocca l’orecchio e bagna di saliva le labbra del battezzando, e ripete il suo comando miracoloso: « Apriti! ». Apriti! e l’anima ch’era sorda e muta alla vita soprannaturale si apre alla grazia che da ogni parte scaturisce in lei e la rende una nuova creatura, innestata a Cristo come un tralcio nel tronco della vite, figlia anch’essa di Dio e perciò erede delle divine sostanze. Questi sono gli effetti del Battesimo. Ma l’immenso tesoro di grazie che Dio pone in noi deve essere accuratamente conservato, rinnovato, accresciuto con una continua preghiera. È necessario che il battezzato preghi sempre senza mai cessare. In un libro molto noto di letteratura umoristica si parla di un buffo barone (quello di Münchhausen) il quale pretendeva di sollevarsi da terra aggrappandosi ai capelli. Illusi nella medesima stoltezza sono quei Cristiani che pensano di vivere il loro Battesimo e di salvarsi senza pregare continuamente, soltanto aggrappati alle proprie forze. – Nell’ordine soprannaturale noi, colle nostre forze, non possiamo tener fronte ai nostri nemici spirituali così astuti e così forti. Non possiamo nella nostra debolezza sostenere il peso della legge di Dio e osservare i comandamenti. Non possiamo compiere il minimo atto di virtù. Esplicita la parola di Gesù Cristo: « Senza di me non potete far nulla » (Giov., XV, 5); è ben esplicita la parola dell’Apostolo Paolo: « Noi non siamo capaci di pensare, da per noi stessi, qualche cosa di buono; la nostra capacità è da Dio » (II Cor, III, 5). Da ciò risulta che la preghiera è il linguaggio indispensabile della vita cristiana e che ogni mutismo in proposito è ingiustificabile. – LA PREGHIERA È IL LINGUAGGIO DELLA VITA CRISTIANA. Lo Spirito Santo provoca continuamente l’anima battezzata con queste parole: « apriti alla preghiera! ». Anzi Egli stesso forma nel profondo dei cuori quei gemiti inenarrabili, quegli atti di domanda fiduciosa che attraversano i cieli e vanno a toccare il cuore di Dio. – a) Quando alla vista di un cielo stellato, d’un ridente mattino, d’un campo promettente copioso raccolto, d’una cerchia di monti, di un’azzurra conca di lago, dello sconfinato orizzonte del mare, voi assurgete ad ammirare la grandezza, la bellezza, la forza di Dio Autore di tutte le cose; quando considerando le vicende degli uomini e i casi stessi della vostra vita voi intravvedete la trama della sapienza e della bontà di Dio che tutto dispone soavemente; e nel medesimo tempo di fronte alla Maestà Divina sentite la nullità del vostro essere, e v’inchinate col vostro pensiero profondamente davanti a Lui, riconoscendolo per vostro Padre, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di adorazione. È un dovere la preghiera di adorazione; è un dovere del figlio riconoscere suo padre; del suddito riconoscere il suo sovrano; del servo riconoscere il suo padrone; della creatura riconoscere il suo Creatore. È poi una delle forme più belle di preghiera, perché l’anima non chiede nulla per sé, dimentica se stessa e si immerge in Dio: lo loda, lo adora, lo benedice, lo glorifica per nessun motivo interessato, ma solo per la sua gloria. Propter magnam gloriam tuam! – b) Quando ripensando ai molti e segnalati benefici ricevuti da Dio, voi sentite in fondo all’anima vostra sgorgare l’onda della gratitudine verso di Lui, e mentre il cuore si effonde in teneri affetti, il labbro non sa contenere calde espressioni di ringraziamento, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di ringraziamento. È un dovere la preghiera di ringraziamento, perché è un dovere del beneficato essere riconoscente dei benefici ricevuti. Un soldato indigeno durante la guerra africana faceva questa pungente osservazione: « I soldati bianchi, quando si sentono colpiti dalla disgrazia, allora implorano soccorso: aiutami, buon Dio! buon Dio, aiutami! Quando invece tutto procede bene, a loro gusto, allora se ne fregano di Dio, anzi lo bestemmiano con le parole e lo insultano con le opere ». Quel soldato nero forse esagerava, ma diceva una dolorosa verità. Infatti, quanti sospiri, quante novene, lumini, fiori per ottenere una grazia! ed ottenutala, intenti a godersela, si dimentica il benefattore. I più grandi benefici del Signore sono tre: — la Creazione; e di questo lo dovete ringraziare con le preghiere del mattino e della sera; — la Incarnazione del suo Figlio; e di questo lo dovete ringraziare con la S. Messa ogni domenica e ogni festa di precetto. E perché fuggire via prima delle tre «Ave Maria » finali? È forse segno di riconoscenza?  — la vostra divinizzazione mediante la grazia santificante; e di questo lo dovete ringraziare con la fuga dalle occasioni di peccato.  – c) Quando alla considerazione dei vostri sbagli, vi sentite profondamente penetrati di umiliazione e di dolore per le offese fatte a Dio, e inorridendo alla vostra perfidia e miseria cominciate a rivolgervi a Lui implorando perdono, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di propiziazione. È un dovere la preghiera di propiziazione perché è dovere dell’offensore chiedere perdono all’offeso, dichiararsi pronto alla riparazione. – d) Quando nei dubbi, nei pericoli, nelle lotte, nelle tribolazioni, nelle amarezze, voi sentite il bisogno di Dio e a Lui ricorrete chiedendo aiuti materiali e spirituali, invocando specialmente per l’anima luce, assistenza, forza di adempire fedelmente la Sua divina volontà, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate! Questa è la preghiera di domanda. È un dovere la preghiera di domanda (o impetrazione), perché è un dovere indeclinabile per ciascuno di provvedere alla propria eterna salvezza, e così raggiungere il fine vero per cui è stato creato. Siccome nel presente ordine di Provvidenza Dio ha legato la concessione delle sue grazie alla preghiera, è ben chiara la conseguenza che ne deriva: chi prega si salva, chi non prega si danna. – INGIUSTIFICABILE MUTISMO Ho l’impressione incresciosa che in questo nostro tempo si preghi troppo poco. -a) La società moderna, in quanto tale, non prega più: le nazioni sono diventate o atee o indifferenti. Nei parlamenti e dai governi non si nomina più il nome di Dio, né per invocarlo, né per ringraziarlo. – La famiglia moderna va perdendo il suo linguaggio cristiano. Il Rosario in troppe case non risuona più, e quella sua dolce e intima monotonia non solleva più i cuori oppressi dalla faticosa giornata. b) Degli individui, molti non aprono più bocca col Signore: moltissimi aprono ancora la bocca ma non il cuore e non è preghiera la loro. Sono Cristiani che non possono vivere, e in realtà non vivono, in grazia di Dio. In essi il Battesimo è ridotto a un’energia soffocata, a un germe isterilito. satana, ritornandovi con la sua tirannia, li ha rifatti sordi e muti: sordi agli inviti di Dio, muti a chiamarlo e a rispondergli. — Non prego, perché è inutile pregare: Dio vede bene che al mondo ci sono anch’io e sa già i miei bisogni. Dio sa che ci sei al mondo, ma tu non sai che al mondo c’è anche Dio, Dio sa i tuoi bisogni, ma tu non sai i suoi desideri e le sue volontà sopra di te. — Non prego perché non ho mai ottenuto nulla. Senza dubbio tu sbagli le cose da chiedere. Dio non nega mai nulla di ciò che è necessario o utile alla nostra salvezza eterna. I beni temporali che gli vai chiedendo, tu non puoi sapere se siano favorevoli o dannosi alla tua anima. Fidati di Lui. Guai se ascoltasse tutte le sciocchezze che gli chiediamo! Molte nostre preghiere assomigliano a quelle di una fanciulla che pregava perché cessasse la febbre di sua madre così: « Fate che la febbre scenda a zero, fate che  scenda a zero ». — Non prego, perché non ho ottenuto nulla anche quando chiedevo beni spirituali. T’inganni: non ti avrà esaudito in quella forma che t’aspettavi. Dio non ha promesso di esaudirci a modo nostro, ma al suo. S. Monica aveva pregato che Dio non lasciasse partire dall’Africa il suo Agostino, altrimenti non si sarebbe convertito più. Dio lo lascia partire per l’Italia. Monica dunque non fu esaudita? Anzi meglio e più presto: in Italia Agostino doveva convertirsi e porre le basi della sua santità. — Non prego perché non ho fede: mi pare di buttar via il tempo a parlare con nessuno. Appunto perché la tua fede è quasi spenta hai bisogno di pregare di più. La preghiera è l’olio della lampada della fede. S. Tommaso d’Aquino, il più sapiente dei santi e il più santo dei sapienti, diceva: « Ho visto più luce ai piedi del Crocifisso che in tutti i libri dei sapienti ». L’uomo che non prega è un viaggiatore sperduto in una foresta e senza lume. — Non prego perché sono sempre quel medesimo peccatore. E lo sarai, finché non ti metterai a pregare veramente. Senza preghiera si è incapaci di essere puri, di essere umili, di perdonare, di amare. –  Ma la più grave disgrazia di quelli che non pregano è che a poco a poco si rendono incapaci di pregare. È un incensiere spento, che non solleverà più alle sfere celesti una nube di profumo attesa e gradita. È un’arpa dalle corde consunte e infrante, che non vibrerà più nessuna nota che s’accordi ai canti angelici.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.

[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta

Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:


Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:


Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Prov III: 9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.

[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio  

 Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (216)

LO SCUDO DELLA FEDE (216)

MEDITAZIONI AI POPOLI (IV)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE IV.

Il peccato

Noi siamo qui creati da Dio; tutto che abbiamo viene da Dio: adunque il sommo nostro dovere, la prima nostra giustizia è servire a Dio. Perciò commettere il peccato vuol dire non curar di Dio, negare la nostra sottomissione all’Eterno Creatore del tutto. Commettere il peccato, vuol dire, avere l’ardimento di usurpare le creature ordinate al servizio di Dio e con sacrilego insulto farle servire a scapricciare le nostre passioni a dispetto di Lui: vuol dire abusare dei doni della sua bontà e della vita istessa che Egli con amor ci conserva; e mentre come il più tenero dei padri, si piglia ogni più minuta cura di noi, noi voltargli le spalle colla più orribile ingratitudine, e venirgli a dire crudamente: Non serviam, io non mi curo di Voi: andate lungi da me, io vi ributto; non ho paura del vostro sdegno: e questa poca polvere, questa mia carne, anzi questa bruttura mi è più cara che non tutto il paradiso vostro, e Voi, Dio Stesso!…. Quale orribile tracotanza! Osare tal sacrilego sformato insulto contro alla divina Maestà tremenda, che, se solo soffia nel suo sdegno, manda l’universo in perdizione, e mentre ci tien sospesi qui affinché non cadiamo in inferno, noi avere l’audacia di batterci contro di Lui tra le sue braccia istesse; di mordergli la mano che ci sostiene; di gettare esecrati in seno alla Divinità santissima le ributtanti schifezze, le vituperate cose; insomma fare il peccato in braccio a Lui che lo aborrisce tanto, fino a mandare il suo Figlio a morir, per distruggerlo… Commettere il peccato vuol dire adunque commettere un male di tanto enorme malizia, quanto è grande Iddio in Se medesimo. Noi no, non diremo più in là: perché non possiamo spiegare quanto sia enorme male il peccato. Eh, bisognerebbe poter dimostrare quanto è grande Iddio!…. Via: facciamo di elevarci col pensiero alla sua grandezza. Considerate: mentre tutte le potenze della terra con tutti i loro sforzi non giungeranno mai a creare un sol granellino di polvere, Dio colla sua parola getta nel firmamento a mille a mille ì mondi come una manata di polvere. Così creò l’universo; E tal Maestà tremenda osiamo noi oltraggiar col peccato ?!… No no, non può bastar neppur l’inferno a dare condegna soddisfazione a Dio! Solo Dio stesso poteva cavarsi dal seno il Figliuol suo che si offrisse vittima per noi peccatori!….. Dio Crocifisso! Dio Crocifisso!… Ecco l’opera dei nostri peccati. O Maria Addolorata, tutta aspersa di Sangue sotto la croce del vostro Figlio Divino, voi là ben comprendeste che cosa sia peccato! E noi a calde lacrime vi confesseremo, che ci siamo traditi perdutamente, quando abbiamo commesso i peccati ma ora siamo così miserabili da non potere conoscere quanto spaventoso male abbiamo fatto! Madre benedetta, tirateci voi a guardare nel Cuore di Gesù qui in Sacramento, il quale così addentro squarciato, se ci fa intendere in qualche modo, che cosa sia peccato, ad un tempo però ci consola con dirci, che vi è ancora per tutti perdono per quel Sangue, che gronda ancor caldo sull’anima nostra in Confessione. Ora noi non potendo comprendere che cosa sia il peccato in se stesso, qui ai piedi di Maria, sotto Gesù lacerato in croce faremo di pesare la grandezza dei castighi del peccato, per fare conto quanto debba essere paurosa la sua malizia. Entriamo nella meditazione a pesare sulla bilancia della giustizia di Dio il peccato e i suoi castighi negli angeli ed in Adamo. Meditiamo primamente come fu castigato il peccato degli angeli, per piangere atterriti i peccati nostri in contrizione. Sa la vostra pietà come gli angioli peccarono contro Dio. – Tutto il genere umano sorge con noi per confermare il fatto della caduta degli angeli: mostrando esso in tutte le religioni (pur così svariate, pur così corrotte) che tutte le nazioni del mondo di tutti i tempi confessarono sempre esservi degli spiriti che diventarono malvagi, perché si ribellarono contro la Divinità. Tanto che, se si togliesse via da tutte le mitologie delle false religioni tutto ciò che hanno d’irragionevole, tutto ciò che hanno d’immorale, si troverebbe in fondo di tutte le credenze dell’universo questa verità del racconto della parola di Dio che rivela il mistero: peccarono gli angeli! La ragione annientata davanti al vero Dio non ha nulla da contrapporre. Poiché insomma nella caduta degli angeli si vede la creatura fornita d’intelligenza e di libera volontà la quale abusò dei doni. di Dio e non lo volle servire, non serviam, per innalzare se stessa. È verità, che una immensa moltitudine di angeli peccò! e che dopo il loro peccato, Dio si trovò in un nuovo rapporto con quelle creature. Egli le amava com’erano uscite dal suo amore; ma ora questi spiriti non erano più i figliuoli che volessero ricambiare d’amore Lui sempre, ì quali Egli voleva sempre seco beati. Si sono ribellati, e diventati nemici che lo vogliono combattere ostinatamente, commettendo il male davanti alla sua essenziale bontà. Ora la bontà di Dio deve difendersi contro del male che l’attacca. Così la bontà di Dio che si difende piglia la forma di un altro tremendo attributo, diventa giustizia: e bontà e giustizia di Dio si difendono dal male con castigare il peccato. – Qui, intanto, prima di pesare il peccato, vi prego, o carissimi, di fermarvi in cuore queste due verità, che avremo da ripetere all’uopo nel corso di questa meditazione. La prima è che Dio è infinitamente giusto, e perché è giusto non castiga mai il peccato più di quello che si merita. La seconda, che Dio è infinitamente buono, e per la sua bontà castiga il peccato sempre meno di quanto si merita. Ora lucifero, uno dei più belli angioli, in cui Dio sfoggiò nella ricchezza. dei suoi doni, lucifero principe della luce, rizza il capo nel regno dei cieli in orgoglio contro all’Altissimo, e dice: chi è questo Dio?…. Io nol servirò!… Con lui corrono a ribellarsi molti altri angeli: perché all’orgoglio non manca mai la bordaglia dei vili che si danno seguaci. Allora Dio guarda lucifero e gli angioli peccatori che gli stanno dinanzi in rivolta…. Li ha da castigare terribile nella sua giustizia, cui tempera la sua bontà; e Dio fulmina gli angeli colla tremenda parola « Siate castigati! » Ah! lucifero e gli angeli peccatori precipitano riversati dal cielo: più che folgore rapidi piomban fulminati in inferno!… Sono là i maledetti, diventati spaventosi demoni; e saran demoni, orrore di tutto il creato, e per tutta l’eternità!.. Deh deh! venite col pensiero sopra quest’orrido baratro di disperazione; e da quest’abisso misurate, se lo potete, la distanza che allontana il cielo dall’inferno; e pensate che, quanto è smisuratamente grande questo abisso di distanza, altrettanto è spaventosamente grande la malizia del peccato. Di qui colla mente dall’abisso dell’inferno solleviamoci a contemplare quegli angioli, quando essi erano in quello splendore di gloria, in cui potevano essere felici sempre in paradiso: e quindi guardiamoli giù, ora che sono. demoni, mostri orrendi in quella disperazione senza fine! Fermiamoci sopra l’inferno spalancato sotto dei nostri piedi, ed entriamo in giudizio colla nostra coscienza. Fu un solo peccato dagli angioli commesso, e col solo pensiero, quando non era ancor morto il Figliuolo di Dio per far comprendere quanto gran male fosse il peccato; e quegli spiriti sublimi, nella cui bellezza si specchiava Iddio stesso in cielo, diventarono orridi demoni, nell’inferno disperati per sempre… Noi pecchiamo tante volte, pecchiamo di pensiero, pecchiamo di parole, pecchiamo di opere, in ogni maniera commettiamo di esecrati peccati..; e noi la duriamo ancor per tanto tempo con tanti peccati a provocare l’ira di Dio… Deh deh! come potremo reggere dinanzi al furore di Dio!… Ahi che ci pare che già ci fulmini qui…. Ahi che c’ingoia l’inferno!… Dove fuggiamo?… la terra, i cieli, l’abisso sono nella sua mano: Egli conserva tutto colla sua parola: Egli può mandare i mondi in rovina sol che si sdegni..; Ahi ahi! Se ci vede ancor peccatori siamo dannati… Ripariamoci pentiti sotto il Crocifisso: attacchiamoci a Lui, affinché non ci divori quel baratro di disperazione eterna. – Or sì ben intendiamo il grande terrore dei Santi. Quando leggiamo, che certe anime di molta santità sovente esclamavano di non sapere come ad ogni momento non li colpisse ancora la giustizia di Dio! come mai la terra li sostenesse tuttora! come non si spalancasse, per ingoiarli, l’inferno! quando troviamo che non si potevano “dar pace più, al pensiero d’aver potuto forse anche con un solo peccato offendere Dio, noi consideriamo queste espressioni, come iperboli esaltate della fervente loro pietà. Pare a noi che dicessero con se stessi queste ed altre quasi sante menzogne, ma che non dovessero poi sentire in coscienza di meritarsi tanto castigo…. Ah, miei fratelli, che i Santi ben si addentravano in questa grande meditazione che spaventa l’anima: che, cioè è verità di Dio avere un solo peccato fatto gli angeli diventare demoni…. Grande Iddio, la Maestà vostra tremenda, e il pensiero di aver potuto peccare contro di Voi, li inabissava in tanto terrore! E noi?… Noi dobbiamo fare uno sforzo per eccitarci a qualche dolore, dopo di aver commessi tanti peccati!! Oimé, oimé! in così tetro accecamento siam noi caduti, che l’inferno spalancato, gli angioli per un peccato dannati, lo sdegno di Dio offeso non ci spaventano per niente! laddove per l’enormità dell’offesa di Dio un peccato solo ci dovrebbe spezzare il cuore per contrizione. – Intanto il primo frutto, che dobbiamo raccogliere da questa meditazione, si è l’umiltà, la quale ci deve rendere rassegnati a ricevere tutte le tribolazioni in questa povera vita, come tante grazie fatteci dalla misericordia di Dio, per risparmiarci i tremendi castighi della sua giustizia. Dobbiamo ricordare, anzi ripetere sovente alla nostra coscienza questa tremenda verità: per un solo peccato gli angioli meritarono di essere precipitati in inferno: or io troppo più di loro ho peccato le tante volte; non ho dunque ragione di lamentarmi di qualunque male m’incolga: i mali sono tanti colpi di che la giustizia di Dio castiga me peccatore, ma i suoi castighi in questa vita mia sono altrettante misericordie. Iustus es, Domine, et rectum iudicium tuum… Virga tua et baculus tuus, ipsa me consolata sunt. Adunque, se sono calunniato e maltrattato dagliuomini, dirò all’anima mia: è un po’ di giustiziache le creature, senza saperlo, fanno contro di meprotervo nemico di Dio. Se sarò caduto in povertà,se verrò buttato a languire sul letto dei dolori intante malattie, se mi colpiranno disgrazie d’ognimaniera… buon Dio! tutto è sempre per la vostra grande misericordia; che invece di avermi sprofondato nell’inferno, mi fate soffrire un tal poco di tribolazioni in questo così breve momento di vita: misericordia Domini quod non sumus consumpti !….È una grande misericordia di Dio, se non siam oradivorati dal fuoco eterno…. perocché, se Dio avesse fatto con noi a rigor di giustizia fino dalla prima colpa commessa, da tanti anni noi dovremmo esser dannati per sempre in inferno. Virga tua et baculus tuus, ipsa me consolata sunt. Quindi noi dobbiamo concepire un santo sdegno contro quest’uomo peccatore che siamo noi, e smontar giù da tante pretensioni, trangugiando nel silenzio dell’umiltà disprezzi e sofferenze, dispiaceri d’ogni fatta, ricordando che siam poveri sciagurati, meritevoli del fuoco eterno. Quando poi la nostra carne, questa nemica dell’anima che ci fece offendere Dio, intollerante di patimenti si lamentasse per poco di aver a soffrire, noi la porteremo col pensiero sopra l’inferno, e: guarda, le diremo, li dentro, in quell’orrendo fuoco dovrebbe essere la tua abitazione coi demoni in quegli spasimi tremendi per sempre…. Tizzone d’inferno! E ti lamenti di questi pochi mali di così breve momento? …. Ah gettiamoci piuttosto a baciar inteneriti nel cuore Gesù, il quale, mettendo i nostri patimenti insieme coi suoi, soddisfa per noi; e così ci porta via di bocca all’ inferno, e ancor ci vuole beati in paradiso. – Meditiamo nel secondo punto come fu castigato il peccato d’Adamo. Iddio creò Adamo padre di tutti gli uomini, e lo pose nel paradiso terrestre. Là, elevato come in trono, sovrano di tutte le creature della terra, viveva sotto un padiglione d’immensa luce di cielo; ai suoi piedi stendevasi un velluto d’erbe smaltato di fiori, davanti a lui le piante chinavano i rami ad offerirgli ogni maniera di frutta, e gli animali intorno ad aspettare i suoi cenni. Tutti i beni ch’ei gustava, come tanti assaggi, lo dovevano invogliare del Sommo Bene..; e… il cuore irrequieto lo slanciava a trovarlo in seno al Creatore. Affinché poi questa creatura, questo figliuolo anzi dell’amore di Dio non trasmodasse in perdizione, ma sì contenesse sottomesso al suo dominio e si lasciasse da Lui guidare, il quale lo avrebbe fatto beato, Dio gli fece comando, che non toccasse il frutto dell’albero della scienza del bene e del male; perché altrimenti si attirerebbe addosso, con tutti i mali, la morte. Adamo negò obbedienza, mangiò il frutto. Ecco il primo peccato. – Così Adamo peccò d’orgoglio rifiutando di assoggettarsi al comando di Dio. Ma, come peccò Adamo, pecchiamo noi disobbedendo alla legge di Dio. Adamo peccò d’amor proprio volendo mangiar del frutto per farsi eguale a Dio. Or, come peccò Adamo pecchiamo noi, quando invece di valersi delle cose create per servir Dio secondo la sua volontà ci serviamo, delle cose date a noi dalla. sua bontà, per accontentare noi a dispetto di Dio. Adamo peccò di sensualità, volendo mangiar del frutto per accontentare la gola. Pur troppo come peccò Adamo si pecca da noi per accontentare la carne! Ora come vediamo pesare il peccato d’Adamo, pensiamo da Dio si pesi ad uno ad uno ogni nostro peccato. – Ora ecco Adamo, ecco l’uomo che si ribella a Dio come nemico; e per la sua giustizia lo debbe fulminar di castigo; ma egli si ricorda della sua bontà. Ah, figliuoli! che qui batte troppo vivamente il cuore, erribil sicché mi è d’uopo interrompere per ricordarvi intenerito, che fin d’allora il Figliuol di Dio Salvator nostro benedetto diceva al Padre: pagherò io per quest’infelici! Così Dio nell’atto di castigare il peccato, guardando la bontà del Figliuol suo, pigliò la bilancia della sua giustizia: mise da una parte il peccato d’Adamo, come mette ciascun nostro peccato; e per contrabilanciare la colpa col meritato castigo, gettò sull’altra parte tutti i mali che prevedeva nel mondo: pesò…..; pesava di più il peccato. Deh pensate, verità di fede! che non vi sarebbero mali nel mondo se mai non vi fosse stato peccato. No, no vi sarebbero dispiaceri, non dolori, non lacrime di patimenti, non disperazioni, se mai non vi fosse stato il peccato. Dunque pel peccato vennero nel mondo tutti i mali. Tutti i mali? Che terribile parola, che spalanca innanzi alla mente il mare immenso di tutte le sciagure umane! Fermate il pensiero sulla serie delle sole malattie del corpo. Se vi si schierassero sotto degli occhi qui tutti i poveri infermi, che languiscono solamente in quest’oggi in tutti gli ospedali del mondo, (mio Dio!), quante luride piaghe! quanti tormini di convulsioni spaventose! quante membra consumate dall’etisie! quanti indescrivibili malori, tutti ributtanti che maciullano questa povera carne umana! Rifugge atterrito il pensiero… Immaginatevi poi tutti gli ammalati di tutto il mondo, di tutti i secoli. Che mar di dolori, troppo più grande del mar che abbraccia la terra! A questi mali solo dei corpi senza misura aggiungete tutti i mali dell’anime, i quali travalicano ogni misura immaginabile. Or Dio gettò questo smisurato ammasso di mali sulla terribil bilancia, gettò di riscontro il peccato: pesò…; pesava di più il peccato! Allora Dio gettò sulla bilancia la morte. Poiché non vi sarebbe stata la morte nel mondo, ove il peccato non l’avesse introdotta. Ma or via, mi dite: vi siete mai voi, o fratelli, fermati a considerare il terribile male che è la morte; e quanti spaventosi dolori cagiona agli uomini la morte? Pensate un istante: proprio in quest’oggi chi sa a quanti infelici quanti dolori fa provare la morte! Entriamo in quella povera casa percossa dalla disgraziata morte della madre di famiglia, che è la appena spirata. Quante angosce sotto quel tetto! In un angolo della camera il padre infelice colla testa sulle ginocchia, colle mani nei capelli!… cupo in silenzio!… poi si batte la fronte!… poi rompe nel gemito: Ma la compagna della mia vita è morta!…. morta la madre dei miei figliuoli!… Ma io non posso senza di lei;… e i miei poveri figli…. No!… qualunque altra disgrazia!… — Poi egli guarda come fulminato sul letto:… la madre è morta….. Ahi quali strida !…. sono esse di dolore… troppo acuto!… Ah è la figlia maggiore che corre dentro convulsa colle mani nelle trecce, e si getta colla testa contro del letto, e: Oh mamma, oh la mia mamma…. non l’avrò più!… No, mamma! che non dovete morire!… Qui’sempre con me voi.. ; non vi porteran via dalle braccia mie: no mai…, Alza la testa, la guarda esterrefatta… La mamma è morta…. Entra piangendo forte il fanciulletto: corre al solito dalla sorella; ma la buona ora lo respinge; ed egli alle ginocchia del padre; ma il padre lo ributta via, e: Va, disgraziato!… è per te questo colpo! … povero figliuol mio, senza la madre!… — Il figlio si volge alla mamma…, e si stringe al braccio di lei che pende dal letto… Ahi! ché è il braccio stecchito di un freddo cadavere! Si alza in punta di piedi, e guata sul letto… La madre è morta!… Si getta per terra arrotolandosi come in convulsione; urla… In quegli strazianti dolori anche il bimbo abbandonato si arrampica dalla culla a cercar il seno alla madre; ma quel seno è gelato, e quel cuore non palpita più!… La guarda in volto; ma quel volto color di cenere è sformato…; ma quella bocca fumante!.. quell’occhio di vetro annebbiato di morte!… Stride il povero bimbo…… Ha ragione: ha ragione!…… La sua mamma è morta. Oh la morte!…. La più orrida cagion di mali per questa povera famiglia umana… Oh morte, sempre terribile in tutte le forme, con cui ti presenti!… – Signori! noi vedemmo la morte forse nel più orrendo de’ suoi trionfi. Al tempo della guerra, per assistere i porveri nostri figliuoli scannati, ci gettammo sul campo della battaglia in quell’aria fosca di fumo, nei bagliori d’incendi dei diroccati edifizi. Oh Dio, quante urla! Voci alte e fioche e strida strazianti! Erano trentamila tra i morti ed i feriti morenti…. un orrore d’inferno! Qui subito un soldato sbattuto colla persona contro d’un sasso, portatagli via da un colpo la mascella di sotto, teneva la lingua penzoloni sovra del petto..: guizzava uno sguardo..; voleva dirci: deh aiutatemi a ben morire!… — Un altro rotto del capo…, colla faccia tutta di sangue, colla mano attrappata tentava in tremore stringerci la mano per…. Ahi moriva! Di li appresso un capitano, colla vita ad un albero spezzato, sentendo la nostra parola di pietà, manda un sospiro: Oh un sacerdote qui?…. — Sì, mio buon signore, per aiutarvi!… » – « O Padre, una consolazione anche per me!…. Guardatemi: ditemi, vedrò ancora i miei figliuolini?… » Poverino! una palla gli aveva portato via un occhio, e l’altro gli pendeva fuor sulla guancia. Qui, là, membra tronche colle schegge delle ossa infrante: larghi squarci nei petti; e tanti pensiero!….e tanti tenersi le viscere che si riversavan per terra: e troppi ammucchiati in pozze di sangue, stesi morti Ora ecco: li colle pugna serrate nello spasimo dei dolori… cogli occhi sbarrati e come di vetro sanguigno… colle tracce d’orrende morti ancor sulle facce annerite…. Noi piangevamo come madre sui poveri figli strozzati così, quando un buon ufficiale col pallore della morte… a noi « Oh Padre… avete ragione di piangere!… guardate là: per prendere quella posizione attaccaronla sei mila soldati, e tornarono soli cinquecento; cinquemila e cinquecento li mitragliati dai cannoni, trafitti nelle cariche alla baionetta, calpestati dai cavalli: orribile sfracellamento!… » Ah quanti orrori! oh morte!… Uomini d’orgoglio, ecco dove va a finire il carro della vostra tracotanza… alla morte!… alla morte!… A terra tutti sotto i passi della morte, che ci butta schiacciati appiè del trono della giustizia di Dio!… Ahi dalla terra tutta mischiata di tanti milioni di morti balena un lampo di luce di sangue, e tuona tremenda la voce: stipendium peccati mors: la morte è la paga del peccato. Questo tuono lascia voi per orrore nel silenzio, e me nel fremito del terrore!… Eppure Dio gettò con tutti i mali la morte sulla terribile bilancia: pesò;… pesava di più il peccato. Allora Dio nella tremenda sua giustizia gettò sulla bilancia finalmente l’inferno. Poiché non vi sarebbe l’inferno per gli uomini se non avessero mai peccato. – L’inferno?!… E chi può ponderare l’inferno? Chi può durarla in fissarsi in quel mare di disperati dolori?… Guardate nell’inferno quei reprobi che si arrovellano con furor di demoni in quei vortici di fiamme, che si sprofondano in quella fornace immensa di fuoco, cercano la morte, e trovano sempre la disperazione in rabbia eterna; ed ahi sotto i colpi del pendolo dell’eternità che batte coll’immutabile « sempre!… non mai!.. sempre nel fuoco: non fine, non mai…. sempre… fine non mai!… » Ahi ahi il fuoco dell’eternità ci abbrucia fino il pensiero!…. Col cuore annientato rifuggiamo dall’inferno!… – Ora ecco: Dio gettò tutti i mali del mondo, gettò le morti tutte, gettò l’inferno stesso sulla terribile bilancia e di riscontro il peccato: pesò;… pesava di più il peccato!… Poiché i mali degli uomini e fino tutti i mali dell’inferno, osserva S. Agostino, non sono che mali contro le creature; ma il peccato è male che offende il Creatore. Ma dunque il peccato prevalerà contro Dio? Ma dunque sopra il bene ha da vincere il male? E la giustizia eterna non avrà soddisfazione? E che ci voleva a soddisfare pel peccato? – Miei fratelli, guardiamo il Crocifisso, e comprendiamo. Ci voleva che Dio, per non mancare alla sua giustizia, sì cavasse dal seno della sua misericordia, come vittima condegna, il Figliuolo del suo eterno amore. Il Figliuol suo venne sulla terra, si fece uomo come noi per fare causa con noi comune; si mise dentro della nostra famiglia, stette in mezzo di noi dalla nostra parte, e volle dare Egli tale soddisfazione nel fior della vita, offerendosi per noi pagatore fino colla propria vita. Contempliamolo là nell’orto del Getsemani. Si getta in ginocchio davanti al Padre suo celeste; e, se si può dire colla misera parola umana: ciò, che diceva colla sua divina: Padre, par che esclami, sciagurati gli uomini vi offendono troppo indegnamente, e non potendo dare soddisfazione alla vostra giustizia, essi vanno tutti perduti! Ma eccomi, mi sono fatto uomo anch’io con loro, e soddisferò io per questi che mi ho fatto fratelli di mio sangue. — Così si piglia sul Cuore i peccati di tutti; vede la grandezza della Divinità in se stesso, e l’enormità dell’offesa di Dio: ne sente tutto il tremendo peso: il cuore umano nella sua Persona divina non può reggere più, gli viene meno la vita!… cade per terra!… in quella pressura di spasimo agonizza in sudore di morte! Ahi suda sangue! e in tanta copia che il sangue scorre fino per terra! Eccovi Gesù tutto bagnato di Sangue, boccheggiante in agonia che nell’anelito mette un gemito « Oh il peccato!… » e giù una pioggia di Sangue! « Che gran male è il peccato!…. » e piove Sangue ancora! Buon Gesù, Salvator nostro Dio, al dolore del vostro Cuore per li peccati unite il dolore nostro, piovete sul nostro arido cuore le calde gocce del Sangue vostro. E noi diciamo col pianto: Signore, mi pento e mi dolgo col vostro dolore solo degno di Dio: Vi abbiamo tanto offeso!… — Corriamo sotto la Croce a confessarci. Ma egli si dà in mano ai Giudei, che gl’irrompono addosso, lo tempestano di battiture, lo strascinano sul Calvario al patibolo. Lo han già gettato per terra!… Sentite? Sono colpi di martello!….. L’inchiodano sopra una trave, e lo levano alto in croce. Gesù con quel fascio di spine conficcato nel capo, colle mani, coi piedi inchiodati pende di croce, e non ne potendo più, mette l’altissimo grido; consummatum est. »: Gli uomini consumarono adunque il male del peccato! e Dio consumò il sacrificio della sua bontà!! Questo grido si fa sentire fino nel più alto dei cieli; e il terribile Angelo, che di là veglia alla difesa dell’onore di Dio, scosso a quel grido, abbassa lo sguardo sul Calvario, vede Gesù che spira per lo peccato: rompe la spada della vendetta di Dio, e bagnando il dito tremendo nel Sangue di Gesù, scrive sul terribile libro del giudizio divino: gli uomini otterranno perdono, perché soddisfece per loro il Figliuolo di Dio; — Ora l’eterna giustizia che aveva gettato sulla bilancia tutti i mali, tutte le morti e l’inferno, e che vedeva pesare sempre più il peccato, pone Gesù morto crocifisso. Pesa..; pesa di più il Crocifisso! Una sola goccia del Sangue di Dio pesa più che tutto l’universo: Gesù versa tutto il Sangue: la bilancia trabocca, balza via il peso del peccato… e davanti agli occhi di Dio resta sulla bilancia solo Gesù sacrificato il quale chiama col suo Sangue, col suo Cuore squarciato misericordia pei peccatori. Deh! corriamo sotto a Gesù Crocifisso: qui vi è perdono per tutti. Sì, spero, saremo già perdonati; ma è però verità che atterrisce al pensarvi, che noi peccando abbiamo commesso così gran male, sicché per riparare il peccato Egli ha voluto morire in croce il Figliuolo di Dio. Ora se noi vedremo la croce sulle nostre chiese, la croce sugli altari, la croce appesa al letto, dappertutto la croce, quella croce, diremo tremando, ricorda Gesù morto in croce pei miei peccati! Faremo come san Francesco d’Assisi. Sentite il fatto. Un di passava il Santo per un sentiero in una foresta, in cui i boscaioli atterravano alcuni alberi. Tra l’erba vide una pianta squadrata a modo di trave. San Francesco all’improvviso resta cogli occhi fissi sopra la trave, diventa pallido, pallido.., trema tutto della persona.., gli manca il cuore, cade svenuto sopra un sasso… mette un gemito di ansioso dolore come si sentisse morire… « Oimé!…. Oimé!… » Accorrono i boscaioli: « O Padre Francesco, che è mai? Vi ha morso una vipera?…. o qualche fiera vi ha addentato? Dove è la vipera? » e la cercavano colle mani nell’erba. « Ma dite, dite, padre: da qual parte fuggi la fiera? » E la cercavano colla secure tra i buscioni. E Francesco col pallor della morte, la bocca aperta, gli occhi sbarrati, le braccia colle mani larghe in fremito di convulsione a rispondere: oimé!… o figliuoli! altro che vipera!.. altro che bestia feroce!.. ho veduto una trave che mi ricorda, che il Figliuol di Dio è morto inchiodato sopra una trave pei miei peccati….. Oimé! oimè che mi si spezza il cuore;… — Fratelli, mandiamo le nostre grida sotto il Crocifisso: poveri noi! tristi a noi! che, commettendo i peccati, abbiam fatto così gran male, che per pagare il peccato volle morir trafitto in croce il Figliuol di Dio!… Non ci resta che piangere i nostri peccati con un atto di viva contrizione ai piedi del Crocifisso. Ora ci metteremo qui ad imparare insieme a far l’atto di contrizione. – Un venerando Vescovo, Monsignor De-la-Motte, diceva che, quando era per disporsi all’atto di contrizione per confessarsi, faceva tre stazioni: si fermava cioè col pensiero in tre luoghi. Si metteva in prima col pensiero come sollevato tra il cielo e l’inferno: poi si figurava di esser sopra tutti i cadaveri del mondo orribilmente ammucchiati, finalmente tutto atterrito si immaginava di essere sul Calvario appiedi di Gesù morente. Impariamo a farlo anche noi. Quando ci prepariamo alla Confessione facciamo la prima stazione. Alla presenza di Dio, fermi qui in terra, ritti verso del cielo, spingiamo lo sguardo fino in paradiso… Oh che oceano di luce! che splendore di gloria! che interminabile gaudio di Dio… O paradiso… o paradiso! Ma che? ci pare di vedere tra quei seggi di eterna gloria che alcuni troni sono abbandonati. Gli spiriti che vi risiedevano, dove sono presentemente? Abbassiamo lo sguardo nell’inferno spalancato di sotto. Sono là, diventati orrendi demoni, in eterna disperazione!… Chi precipitò dal cielo quegli angioli? chi li piombò nell’inferno? Il peccato!… Oh Dio… oh paradiso tutto perduto pel peccato… oh inferno meritato pel peccato!… Ed io ho da volere ancora il peccato? Bisogna che io abbia perduto la fede!… – Per fare la seconda stazione immaginiamoci di esser li fermati coi piedi sopra il coperchio di una sepoltura, o sopra i cadaveri di un cimitero. Eh via, basta fermarci sopra questa povera terra, sulla quale, se battiamo il piede, ci par di sentire risponderci il fremito di milioni e milioni di morti, i cui scheletri sono lì in frantumi, la cui polvere è frammischiata a tutto il terriccio, e le cui carni infracidiscono in quel fango. Immaginiamoci di tener i piedi sopra la sterminata montagna di tutti i morti del mondo: penetriamo col pensiero tra tutti i corpi dei morti. Ve’ li quante floride membra di gioventù imputridite, e quei biondi capelli avviluppati con quelle ossa in marciume annerite, e… Deh chi fece morir tutto quel mondo d’innumerabili genti? Fu il peccato!… E le anime loro… dovrebbero essere in quel gaudio d’eterna gloria in paradiso; eppure chi sa quante sono dannate in inferno!… Chi fece perdere a loro il paradiso? Chi le sprofondò nell’inferno?.. Il peccato… Ed io vorrò ancora commettere il peccato? Bisogna che io operi da pazzo furioso, per gettarmi a perdermi orribilmente così… Mio Dio, mio Dio, mi consumi qui subito il vostro amore, prima che io commetta ancora il peccato! – Ora dove faremo noi la terza stazione? Voi mi prevenite al Calvario, al Calvario coi cuori trepidanti sotto la croce… Ahi! si fa scuro il sole, e nel negro cielo le stelle pallide tremolano di smorta luce come fiaccole del funerale di Dio. Trema la terra: ci scoppia il monte sotto dei piedi; fremono i morti in gola ai sepolcri; e fino i giudei si battono in terrore il petto. Oh ascoltiamo il grido di Gesù, il quale mette uno strido: Eloîm Eloim lama sabactani: Oh mio Dio, oh mio Dio mi avete adunque abbandonato solamente, perché ho la forma degli uomini che sono peccatori! Mette ancora un più alto grido: consummatum est! il peccato fu consumato; è consumato il sacrificio di Dio per salvare l’uom peccatore! Rispondiamogli colle grida del nostro dolore, quasi si spezzi il cuore in contrizione: Gran Dio della eterna giustizia, Signore della misericordia e del perdono, Gesù Salvatore benedetto, cavate le lacrime da questo cuore di sasso! Ora comprendo alquanto che cosa sia il peccato: vi ho fatto così grande offesa, che per soddisfare a’ miei peccati non bastano tutti i mali, non basta la morte, non basta anche l’inferno: ci voleva, o buon Gesù, il vostro Sangue. Deh! vi supplico, vi scongiuro pel vostro Cuore santissimo per noi squarciato! Toglietemi questa vita piuttosto che io. pecchi ancora, e dal Cuor istesso mandatemi il Sangue, che scancelli il peccato, cui io non posso tollerare più; struggete ogni avanzo che mi lasciò. il peccato. – Con questo atto di contrizione vi do in mano la chiave del paradiso. Se voi vi confessate con questa contrizione in cuore, è di fede; otterrete per Gesù subito il perdono. Se morite senza potervi confessare con questa contrizione in cuore, vi salvate. Ripetetelo adunque tutte le sere sovente in vita sicché l’abbiate in pronto in caso di morte.

LA GRAZIA E LA GLORIA (12)

LA GRAZIA E LA GLORIA (12)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO PRIMO

L’esistenza e la natura delle virtù infuse

1. – Abbiamo constatato l’esistenza della grazia santificante, principio inerente e permanente nell’anima, che ci conferisce un essere divino, una vita deiforme, l’essere e la vita dei figli di Dio. Ma tutto l’essere è per agire. Da qui proviene che la natura che ci rende uomini non va senza le potenze dell’operare, intelligenza, volontà, facoltà sensibili, organismo, in modo che l’azione possa corrispondere all’essere, il movimento vitale alla vita sostanziale. – Se quindi noi abbiamo in virtù della nostra trasformazione soprannaturale un essere superiore, un primo principio di vita che la natura non poteva dare, dobbiamo aspettarci di trovare in noi delle forze e quasi delle nuove facoltà che ci fanno vivere con una vita superiore e compiere atti in relazione all’essere di grazia che noi abbiamo ricevuto. Perché tutto è armonia nelle opere di Dio. Non sto ancora esaminando se queste facoltà dell’uomo rigenerato siano veramente distinte dalla grazia santificante. Quello che constato è che, se c’è in noi un dono di Dio che ci dà l’essere spirituale, Dio doveva infonderci dei principi di azione proporzionati a questo dono di bontà misericordiosa. Senza questo, la nuova opera rimarrebbe incompiuta; l’uomo soprannaturale, che dovrebbe prevalere così meravigliosamente sull’uomo naturale, sarebbe per questo motivo inferiore ad esso. – Questa prova, tratta dalla grazia e dal suo effetto proprio, cioè dall’essere divino dato a noi in essa e attraverso di essa, diventa ancora più convincente, quando consideriamo il fine che dobbiamo un giorno perseguire e possedere, nella nostra qualità di figli di Dio. Se dovessimo solo lottare per un fine naturale; in altre parole, se la nostra beatitudine fosse proporzionata alla nostra natura, i principi di azione che troviamo in essa sarebbero sufficienti per questo compimento. Ma, come abbiamo già visto e vedremo ancora, il nostro destino di figli di Dio è incomparabilmente più grande di quello che sarebbe convenuto a noi se Dio ci avesse lasciato nella bassezza della nostra condizione nativa. La nostra felicità e la nostra gloria è che siamo chiamati a partecipare all’eredità dell’unigenito Figlio del Padre, a vedere Dio faccia a faccia; e noi sappiamo che nessuna facoltà puramente naturale, per quanto elevata, perfetta e potente possa essere, può raggiungere queste altezze sublimi. Perciò, dove Dio ha provveduto con più liberalità e più saggiamente ai figli adottivi che ai servi, o meglio, che agli esseri senza ragione, il dono della grazia, il dono della grazia ha in proporzione a quelli della natura, dei principi superiori, che ci ordinano al fine del nostro nuovo essere e della nostra nuova vita (S. Thom., 1, 2, q. 62, a. 1). Questi principi li chiamiamo virtù soprannaturali o virtù infuse; virtù, perché ci sono date per agire secondo le regole della perfezione; virtù soprannaturali perché superano sia i limiti che le esigenze della natura razionale; virtù infuse perché la natura non può essere la loro fonte, e perché hanno Dio non solo come causa prima, ma anche come causa principale. – Notiamo, di passaggio, come queste virtù differiscano dalle virtù naturali o acquisite, dal doppio punto di vista della loro origine e della loro essenza. Virtù naturale è un prodotto della nostra attività, la scienza per esempio, o la prudenza; la virtù soprannaturale viene solo da Dio, come la grazia santificante di cui è il complemento. La virtù naturale non dà il potere di agire: perfeziona l’attività nativa, la rende più flessibile e determinata, senza elevarla al di sopra di se stessa; la virtù soprannaturale non dà solo la facilità di agire, ma una nuova e più alta energia, l’agire da se sessa stessa. Togliete le virtù acquisite, non avete tolto il potere di attività proprio della natura; togliete le virtù infuse, è l’impotenza assoluta nell’ordine delle operazioni divine, a meno che Dio, con un atto molto particolare della sua infinita potenza, non supplisca a ciò che manca, come spiegheremo presto. – Il nome di virtù, quindi, è appropriato alle abitudini infuse in un senso incomparabilmente più elevato. Perché, ancora una volta, non è un germe già preesistente nell’uomo che esse sviluppano; ma è un’attività di ordine superiore che realizzano. In altre parole, non solo stimolano le forze innate della natura, esse le trasformano, come la natura stessa è trasformata dalla grazia, e le innalzano ad altezze dove non avrebbero potuto elevarsi da sole. Ecce nova facio omnia (Apoc., XXI, 5). – « Ci sono delle abitudini che hanno la loro origine nella potenza naturale, come quella che si acquisisce con la ripetizione degli atti; e di queste abitudini è giusto dire che non diano il potere, ma che perfezionino (abilitando) quello che già si ha. Ci sono altre abitudini che discendono dall’alto, e dipendono meno dal soggetto che le possiede che dall’agente che le dà (infonde). E questa abitudine nobilita la potenza, e può elevare il soggetto in cui viene ricevuta, al di sopra di se stesso, a causa del principio da cui procede. E questa abitudine è la grazia» (S. Bonav. Bonav., II, D. 28, dub. 1). – Ho detto che queste abitudini sono state chiamate virtù infuse per distinguerle dalle virtù acquisite dal movimento libero e naturale delle nostre facoltà. Va notato con la teologia che ogni virtù infusa non è necessariamente una virtù soprannaturale del tipo che attribuiamo ai figli di Dio. Nulla impedisce a Dio, la cui potenza non conosce limiti, di produrre in un momento, nell’anima più ignorante, una conoscenza pari a quella di un uomo sapiente. Questa scienza sarebbe infusa, è vero; ma non sarebbe infusa da se stessa sola, a causa della sua natura, poiché avrebbe potuto essere, e lo sarebbe stato davvero in altri, il risultato di studio e di lavoro personale. Le virtù di cui parliamo sono infuse dalla loro natura, cioè, si possono avere solo in virtù dell’infusione divina; perché superano e sorpassano ogni attività ed ogni energia puramente naturale. Come abbiamo dimostrato, la grazia è qualcosa di permanente nell’anima rigenerata: infatti, è necessario che la vita soprannaturale, frutto e prodotto della nuova nascita in Dio, debba essere duratura come la vita naturale, termine risultato della venerazione comune. Ma questo richiede anche che le virtù infuse non siano nell’anima in uno stato transitorio e come degli ausiliari di passaggio. È, infatti, la caratteristica della natura, in qualsiasi ordine essa sia, l’avere proprietà stabili e capacità permanenti come se stessa. Pertanto, tutte le prove che dimostrano questa permanenza della grazia considerata come principio dell’essere soprannaturale e divino, provano con la stessa forza la conservazione permanente delle virtù che la seguono e la accompagnano. – Mi si potrebbe rimproverare di non usare, in una materia essenzialmente teologica, altri argomenti che prove prese in prestito dalla ragione naturale, come se l’intera questione delle virtù infuse non rientrasse nell’insegnamento della Chiesa e della rivelazione. Io oso dire che questa accusa è infondata. – Qual è il nostro punto di partenza? L’esistenza della grazia santificante nell’anima dei giusti, cioè di una forma permanente che gli dà un essere divino; poi la destinazione di ogni figlio di Dio alla visione intuitiva, cioè alla beatitudine perfetta che supera universalmente ogni merito e ogni energia nativa di una sostanza creata. Queste due verità fondamentali le ho dimostrate entrambe con prove strettamente teologiche. Quando, quindi, me ne servo come di principi primari, dai quali deduco logicamente l’esistenza e la necessità delle Virtù Infuse, non mi baso su dati filosofici e puramente razionali, ma su delle verità dogmatiche. La filosofia non è la maestra che mi insegna; ma è la serva amica che penetra nel dominio della rivelazione, al seguito e sotto la guida della fede, per chiarire la sua espressione e svilupparne il contenuto.  – Prendiamo un esempio, al di fuori della presente questione: il dogma più misterioso di tutti, quello della Trinità. Alla sua stessa luce la ragione, lungi dal poter dimostrare un mistero così grande, probabilmente non ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. È dunque solo per fede che ci viene conosciuto con questa conoscenza imperfetta alla quale ci è dato di aspirare, mentre siamo ancora in esilio.  Quando però sappiamo dalla rivelazione divina che esistono nel seno di Dio, per mezzo dell’intelligenza e della volontà, processi analoghi a quelli che la coscienza scopre nella mente creata, diventa possibile, se non facile, per noi concludere logicamente da questo fatto di fede tutto ciò che la dottrina cattolica ci insegna sulle Persone divine, cosa le costituisca, cosa le distingua, e quale debba essere il loro numero, l’ordine e la nozione propria. – I nostri Dottori, e S. Tommaso d’Aquino più e meglio di tutti gli altri, hanno fatto felicemente questo lavoro, che è la ſides quærens intellectum di S. Agostino e S. Anselmo. E in questo tipo di deduzione la ragione, partendo dalla fede, supera i limiti della fede stricta, tanto è fruttuoso il metodo in mani abili. È così che siamo arrivati finora alla conoscenza delle virtù soprannaturali, quel corollario obbligatorio della grazia che ci dà il nostro essere divino.

2. – Del resto, ciò che abbiamo dedotto dai principi dottrinali possiamo confermarlo direttamente con l’autorità della Tradizione. Infatti, i Concili di Trento e di Vienne non sono meno espliciti sulle virtù infuse che sulla grazia che ci giustifica. Come quest’ultima è infusa in noi nella nostra nascita spirituale, così lo sono queste ugualmente. « Nella giustificazione, dice il primo Concilio, l’uomo riceve infuse (con la remissione dei peccati), per mezzo di Gesù Cristo sul quale è innestato, la fede, la speranza e la carità  » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 7). Queste ultime espressioni devono essere intese come significanti non solo gli atti di queste virtù, ma le virtù stesse, come è evidente sia dai termini usati dal Concilio, sia dalla generalità della dottrina. Dai termini impiegati dal Concilio: in effetti, infondere non si dice delle operazioni che sono nostre e di Dio, ma dei principi di azione che sono di Dio solo. Dalla generalità della dottrina: poiché la giustificazione, descritta in questo capitolo, è la giustificazione comune, dei bambini come degli adulti, quella che rigenera e fa passare dallo stato di decadenza in cui nascono i figli di Adamo, allo stato di grazia e di adozione. Se, dunque, i bambini rigenerati sono incapaci di produrre qualsiasi atto di queste virtù, è necessario che queste virtù, debbano riceverle come principi superiori di azione. « È impossibile piacere a Dio senza la fede », dice l’Apostolo (Ebr. XI, 6; Lc. XVI, 16) al seguito di Nostro Signore. Quale fede può avere un neonato quando viene battezzato, oltre alla fede abituale, cioè la virtù stessa del credere? Ecco perché Lutero si è attirato il giusto ridicolo quando, in difesa della sua giustificazione per mezzo della fede, ha osato sostenere che i bambini al battesimo sono entrati in possesso della giustizia di Cristo con un atto esplicito di fede soprannaturale! – Ricordiamo ancora la decisione del Concilio di Vienne e la soluzione della grande questione che allora divideva la Scuola. Ciò che abbiamo detto sulla grazia ci dispensa dal dare qui nuovi sviluppi che sembrerebbero giustamente superflui. – Se vogliamo risalire il fiume della tradizione, troveremo le affermazioni molto formali di Sant’Agostino sull’esistenza delle virtù infuse. Può avere in vista altra cosa che questi principi prossimi di attività soprannaturale, nel testo già citato: « Al Battesimo i bambini ricevono allo stato latente questo principio di vita che, nell’adulto, si manifestano con gli atti. » (S. Aug. De Peccat. Merit. Et rem., L. I, c. 2). Si potrebbero, al bisogno, accumulare testimonianze; i corsi di teologia dogmatica ne sono pieni. Qui, per esempio, il Papa santo Gregorio Magno ci mostra lo Spirito Santo che abita nel cuore dell’uomo giusto con la fede, la speranza, la carità, l’umiltà, la castità, la misericordia e tutta il glorioso corteggio delle altre virtù (S. Greg. M., Hom. 5 in Ezech). S. Prospero deplora « il naufragio universale causato dalla colpa originale, in cui si oscurano la luce e la bellezza delle virtù, mentre la sostanza e la volontà rimangono salve ». (S. Prospero, c. Collat., c. 9 al. 19).

3. – Ho voluto trattare l’intera questione prima di affrontare una difficoltà la cui soluzione potrà, se non mi inganno, chiarire e confermare ulteriormente la dottrina che precede. Consideriamo l’uomo che non sia ancora uscito dal peccato: egli è, come il giusto, destinato a possedere Dio nella beatitudine, poiché il fine ultimo di ogni creatura ragionevole è la visione di Dio. Da qui l’obbligo per lui di tendere alla giustizia; e poiché questa tendenza non va senza opere proporzionate alla grazia che la corona, è necessario che egli produca atti soprannaturali. Quindi – ed è in questo punto speciale che sorge la difficoltà – le virtù infuse, non più della stessa grazia santificante, sono necessarie per produrre le operazioni superiori alle forze naturali. Che non siano assolutamente necessarie, lo concedo volentieri; ma la tesi e le prove che le dimostrano non sono meno solide né meno vere. Una prima osservazione da fare è che gli atti che dispongono alla giustificazione, motus ad justitium, come li chiama il Concilio di Trento, non sono meritori né della stessa grazia giustificante né della gloria futura (Conc. Trid. Sess. VI, cap. 8). – Il merito propriamente detto appartiene solo ai figli di Dio; quindi, dove non è presente il principio formale dell’adozione, cioè la grazia santificante con le virtù che la accompagnano, non ci sono e non possono esserci azioni meritorie. Non possiamo negare, è vero, che gli atti con cui un peccatore si prepara allo stato di grazia siano intrinsecamente soprannaturali, cioè superino in sostanza ogni attività della natura. La dottrina della Chiesa sembra così formale che, dopo il Concilio di Trento, non c’è più alcuna seria controversia su questo punto tra i teologi cattolici. Ma, osserviamo bene, questi stessi atti preparatori alla giustificazione, atti di fede, di speranza, di pentimento ed altri, se non presuppongono la partecipazione permanente della natura e della virtù divina, alla quale esse dispongono, richiedono tuttavia un’elevazione transitoria delle facoltà dell’anima; e questo è ciò che il Santo Concilio ci insegna espressamente in molte occasioni (Concilio Tridentino, sess. VI, cap. 5 e 6; can. 3). – A cosa si debba attribuire questa elevazione temporanea e come spiegarcela? Questa è una questione secondaria, la cui risposta sarà liberamente discussa dai nostri Dottori, finché la Chiesa non avrà detto la parola che ponga fine a tutte le controversie tra noi. Il Concilio di Trento ci insegna in generale che è un impulso, un tocco dello Spirito Santo che risveglia l’anima, la illumina, la eccita e « la muove, ma non l’abita ancora » (Consiglio, Triden., Sess. XIV, c. 4, col. Sess. 6, l. cit.); nella presente questione questo insegnamento ci è sufficiente. Ma non è evidente che la condizione dei bambini sia tutt’altra che la condizione di coloro che non siano ancora battezzati, dal punto di vista dell’attività soprannaturale? – Che Dio si rifiuti di concedere loro le virtù infuse; che si accontenti di concedere loro l’assistenza temporanea che chiamiamo grazia attuale, lo posso capire; è nell’ordine. – Non avendo ancora la natura dei figli di Dio, come potrebbero averne le facoltà? – Ma che, dopo aver dato loro misericordiosamente la partecipazione della sua natura e della sua stessa vita, rifiuti a coloro che la possiedono come forma stabile e permanente, la partecipazione della sua intelligenza e della sua stessa volontà, cioè le virtù infuse, i principi prossimi e permanenti di operazione, io non posso intenderlo. Sarebbe sconvolgere tutto l’ordine della sua provvidenza e mettere da parte le regole della sua infinita saggezza. Che cos’è questo? Quelle forze soprannaturali che non sono nell’anima perché la grazia, il suo sostegno naturale, ne è ancora assente, non vi verrebbero, quando questa grazia già vi regna? Vedrei allora i figli di Dio senza le proprietà che corrispondono alla loro natura, quando anche nei gradi più bassi della scala degli esseri, ogni sostanza e ogni vita possiede, da Dio, le potenze proporzionate alla sua essenza? È questo credibile; è degno di un Dio Sovranamente saggio e Sovranamente buono? (S. Thom. de Virtut. in communi, a 10 cum paral. – Da 1à il Santo Dottore trae una grave conseguenza. Se l’uomo in virtù della grazia santificante è un dio; se per le virtù infuse possiede principi di azione proporzionati a questa grandezza soprannaturale « oportet quod regula (agendi) sit divinitas ab homine participata suo modo, ut jam non humanitus, sed quasi deus factus participative operetur ». In III, D. 34, q. 1, a. 3).

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (14)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (14)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO QUINTO

LA CONFORMITA’ A CRISTO (II)

5) Uno dei più mirabili effetti di questa divozione fu di immedesimare suor Elisabetta della Trinità con i sentimenti più intimi di Gesù verso il Padre suo. Ben lo sanno i teologi: un duplice movimento spirituale faceva vibrare senza posa l’anima di Gesù Cristo: la redenzione del mondo e la gloria del Padre. Per questo, Egli si è incarnato: per salvare gli uomini e, dopo averli purificati dai loro peccati nel suo sangue, farne gli adoratori della Trinità. E nei minimi atti di Gesù, nei minimi suoi gesti, chiaramente si manifesta come ciò che più di tutto e prima di tutto gli sta a cuore sia la gloria del Padre. Per il Padre è il suo primo pensiero, entrando nel mondo: « Tu non hai più voluto gli olocausti né i sacrifici degli uomini; eccomi, io vengo per immolarmi alla Tua gloria» (Salmo XXXIX-7). Di tutto il mistero dell’infanzia e della vita nascosta di Gesù, un solo episodio ci è noto: il suo indugio nel Tempio ove fu ritrovato e la sua risposta alla Madre: «Non sapevate che io devo attendere a ciò che riguarda il Padre mio? » (San Luca, II-49). Quest’unica parola di Lui che affiora dal vasto silenzio di trent’anni, illumina come folgore tutto il mistero di Gesù. Come Maria, bisogna che lo sappiamo noi pure che il Figlio è venuto prima di tutto per la gloria del Padre. Nella sua vita pubblica, Gesù lo dichiara in modo da non lasciarci alcuna incertezza in proposito. « Uguale » al Padre come Dio, (« Il Padre ed io, non siamo che Uno ») (San Giovanni, X, 20) tuttavia, nella sua umanità, Gli tributa sottomissione riverenza in tutti i suoi atti. « Faccio sempre -afferma — ciò che a Lui piace» (San Giovanni, VIII-29). – Analizziamo attentamente, per esempio, l’incontro con la Samaritana; e comprenderemo che il punto culminante di questo episodio che ha mutato la storia religiosa della umanità, consiste e si rivela nel desiderio più segreto del Cuore di Gesù: trovare « degli adoratori in spirito e verità, che tali sono appunto gli adoratori che il Padre domanda; Pater quærit » (San Giovanni, IV-23.). Tutto il Vangelo di san Giovanni bisognerebbe citare, e particolarmente la preghiera sacerdotale di Cristo, confidenza suprema del suo cuore, dove la Chiesa troverà, sino alla fine dei secoli, l’alimento per la sua vita contemplativa. Il Maestro divino dà uno sguardo alla propria vita, quindi la riassume in due sole parole: « Glorificavi Te, Padre, sulla terra, io ti ho glorificato » (S. Giov. XVII, 1). E le sue ultime parole di Crocifisso, Gesù morente le rivolge tutte al Padre (S. Luc. XXIII, 46). Appena risorto, parla ancora del « Padre che è Padre nostro, del Dio suo che è Dio nostro » (S. Giov. XX, 17). – Paolo ce lo mostra, nella sua vita di eternità, « sempre dinanzi al Volto del Padre, intercedendo in nostro favore » (Ebrei, VII-25.), in attesa del gesto supremo col quale, alla fine dei tempi, «consegnerà il regno al Padre suo. Allora, sarà la fine» (I Cor., XV, 24). – Suor Elisabetta della Trinità ebbe coscienza, in grado veramente raro, dell’assoluta preminenza che la gloria del Padre aveva su tutti i sentimenti più intimi dell’anima di Gesù, di Colui che fu « la più perfetta lode di gloria del Padre » e della Trinità. I testi che ci ha lasciato a questo riguardo sono poco numerosi ma espliciti, e si trovano inseriti nella linea del suo pensiero più maturo. « Nel sublime discorso dopo la Cena, che è come un ultimo canto di amore dell’anima di Gesù, Egli rivolge al Padre questa bella attestazione: « Ti ho glorificato, sulla terra; ho compiuto l’opera che Tu mi avevi affidata » (S. Giov. XVII, 4). Noi, consacrate a Lui, noi, sue spose, che dobbiamo quindi essergli perfettamente somiglianti, dovremmo potergli ripetere queste stesse parole, al tramonto di ogni nostra giornata. Mi domanderete: — Ma come Lo glorificheremo? — È semplicissimo; e Gesù stesso ce ne confida il segreto quando ci dice: « Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato » (Lettera alla signora A… 1906 -). E intanto, una misteriosa trasformazione veniva operandosi nell’anima di suor Elisabetta della Trinità, che era tutta applicata a studiare e ricopiare in sé i movimenti dell’anima di Cristo. Il motto di san Paolo: « Mihi vivere Christus est » (Filippesi, I-21), realizzandosi in lei, le dettava una formula che traduce benissimo il carattere tutto proprio della sua devozione al Figlio di Dio: « Esprimere il Cristo allo sguardo del Padre », formula che racchiude il più alto ideale del Cristiano. « Stimo perdita tutte le cose, rispetto alla superiorità trascendente della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per amore di Lui, ho perduto tutto…, e tutte le cose stimo come immondizia, per conquistare Cristo, e per potere essere trovato in Lui non avente una giustizia mia, ma la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Ciò che io voglio, è conoscere Lui, è la partecipazione alle sue sofferenze, la conformità alla sua morte… Continuo la mia corsa, studiandomi di arrivare là dove Cristo mi ha destinato chiamandomi. Mi preoccupo di una cosa sola: dimenticando tutto ciò che lascio indietro, e slanciandomi costantemente verso ciò che mi sta dinanzi, correre diritto alla mèta, al premio della superna vocazione alla quale Dio mi ha chiamato in Cristo Gesù» (Fil. III, 8, 14). Di tale vocazione, l’Apostolo ha spesso rilevato la grandezza. « Dio – egli dice – ci ha eletti in Lui prima della creazione, nell’amore » (Efes. I, 4). « Siamo stati predestinati per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della Sua volontà, affinché siamo la lode della Sua gloria » (id. I, 11- 12) Ma come rispondere alla dignità di questa vocazione? Ecco il segreto: « Mihi vivere Christus est… Vivo enim, jam non ego, vivit vero in me Christus » (Gal. II, 20). Bisognaessere trasformati in Gesù Cristo, m’insegna san Paolo:« Coloro che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li haanche predestinati ad essere conformi all’immagine delFiglio suo » (Rom. VIII, 29).È necessario dunque che io studi questo divino Modelloper imitarlo e divenire così conforme a Lui, dapotere esprimerlo allo sguardo del Padre. E prima di tutto, che cosa dice Egli entrando nelmondo? « Eccomi, vengo, o mio Dio, per fare la tua volontà » (Ebr. X, 9). Questa preghiera mi pare che dovrebbe essere il palpito del cuore della sposa. Il Maestro divino fu così verace in questa prima oblazione! e tutto il resto della sua vita non ne fu, per così dire, che la conseguenza: « Mio cibo — si compiaceva di ripetere — è fare la volontà di Colui che mi ha mandato » (S. Giov. IV, 36). E cibo dovrebbe essere anche per la sposa la volontà di Dio, pur essendo al tempo stesso spada che la immola. « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice; ma si faccia la tua volontà e non la mia » (S. Matt. XXVI, 39). E in pace, con gioia, va incontro ad ogni immolazione insieme al suo Maestro, rallegrandosi di « essere stata conosciuta » dal Padre, dal momento che la crocifigge insieme al Figlio suo. – «Ho preso le tue leggi per mia eredità in eterno, perché esse sono la delizia del mio cuore » (Ps. CXVIII, 111). Ecco il canto dell’anima del mio Maestro, canto che deve avere una larga eco in quella della sposa; con la sua fedeltà di ogni momento a queste leggi esterne ed interne, essa renderà testimonianza alla verità e potrà dire: « Colui che mi ha mandata non mi ha lasciata sola; Egli è sempre con me, perché io faccio sempre ciò che a Lui piace » (S. Giov. VIII, 29). Non lasciandolo mai, mettendosi intensamente a contatto con Lui, ella potrà irradiare quella virtù segreta che salva e redime le anime. Spoglia, libera di se stessa e di tutte le cose, potrà seguire il Maestro sul monte, per elevare dalla sua anima, con Lui, un’orazione a Dio. Poi, sempre per mezzo del divino Adorante, di Colui che fu la grande lode di gloria del Padre, « offrirà ininterrottamente a Dio un’ostia di lode, cioè il frutto delle labbra che rendono gloria al Suo Nome. E Lo loderà nella espansione della sua potenza, secondo l’immensità della sua grandezza » (Ps. CI, 1-2). Quando giungerà l’ora dell’umiliazione, dell’annientamento, ricorderà questa breve parola: « Jesus autem tacebat » (Matt. XXVI, 63), e tacerà, serbando tutta la sua forza per il Signore, quella forza che si attinge dal silenzio. – Quando verrà l’abbandono, la desolazione, l’angoscia che strapparono a Cristo quel grande grido: « Perché mi hai abbandonato? » (S. Matt. XXVII-46) si ricorderà di questa preghiera: « Siano essi ripieni del mio gaudio » (S. Giov. XVII, 13); e, bevendo fino in fondo il calice preparatole dal Padre, saprà trovare in quella stessa amarezza una soavità divina. E infine, dopo aver ripetuto tante volte: « Ho sete », sete di possederti nella gloria, spirerà dicendo: « Tutto è consumato… ! Nelle Tue mani raccomando l’anima mia». E il Padre verrà a prenderla, per trasferirla nella sua eredità dove « nella luce vedrà la Sua luce » (Ps. XXXV, 10). « Sappiate — cantava Davide,  – che Dio ha glorificato meravigliosamente il suo Santo ». Sì, il Santo di Dio sarà stato glorificato in quest’anima, perché avrà distrutto ogni cosa per rivestirla di Sé, e perché essa avrà praticamente vissuto la parola del Precursore: « Bisogna che Egli cresca e che io diminuisca » (Giov, III, 20 – Ultimo ritiro, XIV.). « Io ripongo la gioia dell’anima mia, (quanto alla volontà, e non alla sensibilità), in tutto quello che può immolarmi, umiliarmi, annientarmi, perché voglio far posto al mio divino Maestro. « Non son più io che vivo; è Lui che vive in me ». Non voglio più vivere della mia propria vita ma essere trasformata in Gesù Cristo, affinché la mia vita sia più divina che umana, e il Padre, chinandosi su di me, possa riconoscere, l’immagine del Figlio suo diletto, nel quale ha riposto tutte le sue compiacenze » (« Il paradiso sulla terra » 5° orazione). « Siamo « Lui » e andiamo al Padre nel movimento della sua anima divina » (Lettera 29 settembre 1902.).

6) Un altro anelito faceva vibrare giorno e notte l’anima di Cristo: il desiderio della nostra redenzione. Mentre passava, solitario e pensoso, per le vie della Palestina, o mentre le folle di Gerusalemme, lo premevano d’ogni parte, Gesù, sempre in solitudine col Padre suo, trattava l’affare della nostra salvezza. Ci guardava sempre. Neppure un istante si è distolto da ciascuno di noi quel suo sguardo divino che tutto abbracciava: il cielo, l’inferno, i destini della Chiesa e di ciascuna delle nostre anime, fino ai minimi particolari; la sua visione del mondo uguagliava, non per intensità di luce, ma in estensione, quella della Trinità. Nulla gli rimase celato, del passato, del presente, dell’avvenire; e questa scienza di Gesù era rivolta tutta alla nostra salvezza. Uguale al Padre per la natura divina, Cristo-Uomo era pur nostro, interamente nostro. « Uno » col Padre, « Uno » coi suoi fratelli: ecco tutto il mistero di Gesù. Cristo si compie in noi. Il pensiero cristiano si è indugiato amorosamente ad analizzare questo aspetto « di Cristo in noi », di cui parla san Paolo, il Dottore per eccellenza del Corpo mistico di Gesù. Vi si manifesta una duplice corrente. La speculazione dei Padri greci di oriente si è compiaciuta nella contemplazione di questa misteriosa unità che lega i Cristiani fra loro e con Cristo e trova il suo modello supremo nell’unità della Trinità. Il pensiero occidentale, invece, ha rivolto la sua considerazione meno alla Trinità che alle membra  offerenti del Salvatore. Sant’Agostino, eco di san Paolo, ce ne ha lasciato la esposizione in pagine rimaste classiche e inarrivabili. E appunto a quest’ultima corrente di pensiero si ricollega la formula, ormai così celebre, con la quale suor Elisabetta della Trinità ha concepito in maniera tutta personale, ed ha espresso la parte che le è assegnata nel corpo mistico: « Essere per Cristo un prolungamento di umanità, una umanità superaddita (« Superaddita » mi pare che renderebbe pienamente e con molta aderenza l’espressione di suor Elisabetta « humanité de surcroit ». (N. d. T) nella quale Egli possa rinnovare tutto il suo mistero ». Due giorni dopo la composizione della preghiera donde è tolta questa formula, essa stessa spiegava il suo pensiero: « Vivo, iam non ego; vivit vero in me Christus »: è il mio ideale di Carmelitana e credo sia pure quello della vostra anima sacerdotale; e, soprattutto, quello di Cristo, ed io Lo prego di volerlo realizzare pienamente nelle anime nostre. Siamo per Lui, in qualche modo, un prolungamento di umanità, dove Egli può rinnovare tutto il Suo mistero. Io Gli ho chiesto di stabilirsi in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. E non posso dirvi quale pace ineffabile dona all’anima mia il pensiero che Egli supplisce alle mie impotenze e che, se cado ad ogni istante, è lì sempre, per rialzarmi e farmi penetrare ancora più intimamente in Lui, nel fondo di quella divina Essenza che già abitiamo mediante la grazia; ma io vorrei seppellirmici, a profondità tali, che nulla possa farmene uscire » (Lettera al sacerdote Don Ch… – 23 novembre 1904.). Come lontano ci porta, suor Elisabetta, con questa dottrina del Corpo mistico di cui essa vive, dagli orizzonti ristretti e dai meschini punti di vista fra cui si trascinano talvolta le anime religiose nella loro piccola vita di comunità! I grandi orizzonti della vita della Chiesa divengono per lei familiari. « Come forte si sente il bisogno di sacrificarsi, di dimenticarsi, per essere interamente dedicati agli interessi della Chiesa! Povera Francia! Io la copro col sangue « del Giusto », di Colui che è vivo sempre, per intercedere e implorare misericordia. La missione della Carmelitana è veramente sublime: essa deve farsi mediatrice con Gesù Cristo, deve essere per Lui quasi una umanità sovra-aggiunta, nella quale Egli possa perpetuare la Sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione » ((Lettera al Canonico A… – Gennaio 1906). Chi non ammirerebbe la fecondità apostolica di una anima che sa elevarsi così fino all’abituale visione del Cristo totale? « Chiunque vive nella carità — insegna san Tommaso — partecipa a tutto il bene che si fa nel mondo » (In Symbolum Apostolorum: Sanctorum communionem.). E i veri contemplativi, lo comprendono. Santa Teresa di Gesù Bambino sognava di lavorare per il bene spirituale della Chiesa, sino alla fine del mondo, e suor Elisabetta della Trinità ambiva di « rivelare a tutte le anime » il segreto di gioia e di santità che portano celato nell’intimo, mediante il mistero della divina inabitazione. Una vera Carmelitana, dopo essersi data tutto il giorno alla salvezza delle anime con la preghiera e l’immolazione silenziosa, venuta l’ora del necessario riposo, si rifugia nell’onnipotente intercessione universale della Vergine Corredentrice, supplicandola di continuare per lei, mentre ella dorme, l’opera sua di mediazione in favore dei poveri peccatori, proseguendo così efficacemente l’azione distruggitrice del male nel mondo. – Così faceva suor Elisabetta della Trinità dimenticando i suoi dolori e superando se stessa, nell’unico desiderio di « consumarsi » in amore per Cristo, di « distillare il proprio sangue, goccia a goccia » per « il Corpo di Lui che è la Chiesa » (Colossesi, I-24.). Tutto questo voleva significare con la espressione: « Essere per Cristo umanità sovra-aggiunta ».

7) Essere un altro Cristo, ma sulla croce: fu il sogno supremo di suor Elisabetta della Trinità. « Per lungo tempo, il Crocifisso accentrò tutta la sua orazione », scriveva il Padre Vallée che la conosceva intimamente. In seguito, dopo le grandi grazie dell’inabitazione della Trinità, ritornò al Crocifisso, non più soltanto come contemplativa, ma come imitatrice della sua Morte. « Configuratus morti Eius » (Filippesi, III-10.): ecco il pensiero che non mi abbandona mai,che mi dà forza nel dolore. Se sapeste quale azione demolitricesento in tutto il mio essere! È la via del Calvarioche si è aperta per me, e sono tanto contenta di camminarvi come una sposa a fianco del divino Crocifisso » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1906). Alla mamma, il cui cuore è già straziato al pensiero di perderla, rivolge qualche parola di consolazione, ricordandole il valore della sua sofferenza redentrice. « È il Signore, sai, che si compiace di immolare la sua piccola ostia; ma questa Messa che Egli celebra con me, in cui il sacerdote è l’Amore, può durare molto ancora. Eppure la piccola vittima non trova che sia lungo il tempo, nella mano di Colui che la sacrifica; e può assicurarti che, se passa per il sentiero del dolore, cammina molto più spesso nell’ampia via della gioia, della verità, di Colui che nulla potrebbe rapirle. « Io gioisco — diceva san Paolo — perché do compimento nella mia carne a quello che manca alle sofferenze di Cristo per il Corpo di Lui che è la Chiesa » (Colossesi, I-24,). Anche il tuo cuore, mamma, dovrebbe divinamente esultare pensando che il Maestro si è degnato scegliere la figliola tua, il frutto del tuo seno, per associarla alla grande opera della redenzione e per soffrire in lei quasi un prolungamento della Sua passione. La sposa è. tutta dello sposo. Lo sposo mio mi ha presa; vuole che io gli sia quasi un prolungamento di umanità dove Egli possa soffrire per la gloria del Padre, per i bisogni della Sua Chiesa » (Lettera alla mamma – 10 settembre 1906.). « Come sarei felice se il mio Maestro mi chiedesse anche di versare il sangue per Lui! Ma ciò che bramo soprattutto è il martirio d’amore che ha consumato la mia Madre santa Teresa, colei che la Chiesa proclama « vittima di carità ». E poiché il Verbo di Verità ha detto che la più grande prova di amore è dare la vita per chi si ama, io Gli do la mia, perché ne faccia ciò che vuole; se non sono martire di sangue, voglio esser martire di amore » (Lettera alla mamma – Luglio 1906.). « Rallegrati pensando che, fin dall’eternità, noi siamo stati conosciuti dal Padre, come dice san Paolo, e che Egli vuol ritrovare in noi l’immagine del Figlio suo cro cifisso. Se tu sapessi come è necessario il dolore, perché l’opera di Dio si compia nell’anima! Egli brama di arricchirci delle sue grazie; ma siamo noi che limitiamo il suo dono, che ne determiniamo la misura, in proporzione della generosità con cui ci lasciamo immolare da Lui; ma immolare nella gioia, nell’azione di grazie, come Gesù, dicendo con Lui: «Non berrò io, dunque, il calice preparatomi dal Padre mio?» (S. Giov. XVIII, 2). Il Maestro chiamava l’ora della passione « la sua ora », quella per la quale Egli era venuto, quella che tutti i suoi desideri affrettavano, Quando una grande sofferenza, o anche un sacrificio piccolissimo ci si presenta, pensiamo subito che quella è « l’ora nostra », l’ora in cui possiamo dar prova del nostro amore a Colui che ci ha « troppo amati », secondo l’espressione di san Paolo » (Lettera alla mamma – Settembre 1906.). Come tutti i santi, suor Elisabetta della Trinità capiva il valore della sofferenza e sapeva che l’unione con Dio non si compie e non si perfeziona che sulla croce; quindi la loda e la esalta, questa sofferenza santa, crocifiggente, che imprime nell’anima sua e nel suo corpo l’effigie del Crocifisso. « Il dolore è un dono così grande, così divino! Mi pare che, se i beati in cielo potessero invidiare qualche cosa, ci invidierebbero proprio questo tesoro. Ha un’influenza così potente sul cuore di Dio! E poi, non trovate voi pure che è tanto bello poter donare a chi si ama? La croce è l’eredità del Carmelo. Il grido della nostra Madre santa Teresa, era: « O soffrire o morire », e san Giovanni della Croce, quando nostro Signore gli apparve chiedendogli che cosa desiderasse in premio di tante pene sopportate per Lui, rispose: « Signore, soffrire ed essere disprezzato per Tuo amore» (Lettera alla signora A… – Agosto 1904). Non crediamo però che il dolore la trovasse insensibile; tutt’altro. Ma sapeva attingere la forza di soffrire nel ricordo del suo Maestro Crocifisso. Lei stessa ci confida il suo segreto: «Vi dirò come faccio quando mi si presenta qualche cosa di penoso: guardo il Crocifisso e, vedendo fino a che punto Egli si è dato per me, sento che non potrei fare di meno per Lui che donarmi, consumarmi, per rendergli un poco di tutto quello che mi ha dato. La mattina, durante la santa Messa, assimiliamoci il Suo spirito di sacrificio; siamo sue spose, dobbiamo. dunque essergli simili. Se siamo fedeli a vivere della sua vita, se ci immedesimiamo con l’anima del Crocifisso in tutti i suoi movimenti, non dovremo più temere le nostre debolezze, perché sarà Lui la nostra forza; e da Lui, chi potrà separarci? » (Lettera alla signora A. febbraio 1903). Gli otto ultimi mesi della sua vita furono un vero martirio; ma essa si immergeva con avidità nel dolore; e alle sue lettere o biglietti, apponeva la dicitura: « Dal palazzo del dolore e della beatitudine ». E scriveva: « Esperimento, gusto, gioie ineffabili: la gioia della sofferenza. Sogno di essere trasformata, prima di morire, in Gesù Crocifisso » (Lettera a G. de G. … Fine di ottobre 1906). Così, l’ultimo suo canto è un inno al dolore: una vera « lode di gloria » è un’anima crocifissa.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (15)