LA GRAZIA E LA GLORIA (15)

LA GRAZIA E LA GLORIA (15)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO IV

Sulla distinzione tra la grazia e le virtù infuse, i loro rispettivi soggetti e la loro relazione reciproca.

I. – I teologi cattolici non hanno che una voce sola nell’insegnare che la grazia santificante si distingue in certi modi dalle Virtù infuse. Ma questa distinzione è una distinzione reale, è una distinzione logica; in altre parole, è in atto nelle cose, o solo nello spirito che le concepisce? …: è questa una questione sulla quale si trova, fin dall’inizio, più di un’opinione divergente. In generale, la controversia è limitata a queste due termini: la grazia e la carità (Sarebbe troppo difficile mantenere l’identità di tutte le Virtù infuse con la Grazia Santificante, e questo per due ragioni più che ovvie. La prima è che il giusto che, a causa di una colpa grave, è privato della grazia, può conservare le virtù teologali della fede e della speranza divine: segno evidente di una reale distinzione tra ciò che perde e tra ciò che conserva. La seconda è che l’identità delle virtù e della grazia difficilmente può essere compresa senza che vi sia un’identità delle virtù tra loro. Ora, come possono essere identiche queste virtù che possono essere separate al termine e durante la via? Al termine: perché solo la carità rimane, ad esclusione della speranza e della fede (1 Cor. XIII, 13). In via: perché la fede divina può sussistere in un’anima da cui non solo la carità, ma anche la speranza stessa sia bandita). – Dovremmo dire forse che siano una stessa cosa che risponde a due concetti e si esprime con due nomi diversi, a causa delle diverse funzioni che compie: la grazia, in quanto ci rende gradevoli agli occhi di Dio; la carità, in quanto è il principio dell’operazione divina? O dobbiamo considerare la grazia e la carità come perfezioni realmente distinte, in modo che differiscano sia per la loro natura che per il soggetto immediato a cui sono inerenti? S. Tommaso e la sua scuola sono per la seconda ipotesi, ed è nella scuola francescana che la prima ha reclutato soprattutto i suoi seguaci (altra è in questo punto la dottrina di Scoto e dei suoi discepoli, altra quella del dottore Serafico. Per il primo, la grazia e la carità sono così indistinte che hanno assolutamente la stessa sede: la volontà. Questa qualità tri-unitaria è « la carità, in quanto è quella per cui l’uomo ama Dio; la grazia, in quanto è quella per cui Dio ama l’uomo e lo accetta per la vita eterna », diceva Scoto (II, D. 27, q. 1). S. Bonaventura distingue abbastanza chiaramente tra la grazia e le virtù. Le virtù conferiscono potere e la grazia dà l’essere. La seconda è una e le prime sono molteplici; la prima è come il tronco, le altre come i rami. Dove la sua dottrina diventa meno chiara e appare anche meno conforme a quella del Dottore Angelico, è quando egli vuole determinare la rispettiva materia della grazia e delle virtù. Per farlo, egli considera le potenze dell’anima da un doppio lato: dal lato dell’essenza, dove esse attingono come al loro centro comune; dal lato delle operazioni, di cui esse sono il principio immediato. Considera, secondo lui, il soggetto della grazia dal primo punto di vista, quello delle virtù dal secondo. « Primo quidem dicitur (gratia) respicere Substantiam, non quia sit in illa absque potentia, vel per prius quam in potentia, sed quia habet esse in potentiis prout continuantur ad unam essentiam; virtus vero dicitur esse in potentia, quia in eis est ut referuntur ad operationes diversas » (11, D. 26 a, 1, q, 1). La prova che porta a sostegno della sua ipotesi è singolare; noi – egli dice – dobbiamo ricevere l’influenza divina attraverso le nostre forze. Per mezzo di esse meritiamo la lode o il biasimo; e di conseguenza, anche per mezzo di esse, Dio ci rende graditi ai suoi occhi per mezzo del dono della grazia (ibid.). San Tommaso ci dice che certi teologi hanno sostenuto con argomenti simili un’opinione antiquata che fa passare il peccato originale dalle potenze dell’anima alla sua essenza – 1, 2, q. 83, a.7). – Se la controversia non potesse che essere chiarita solo mediante un appello esplicito e diretto all’autorità delle Scritture e dei Padri, sarebbe forse piuttosto difficile trovare una soluzione incontestata. E la ragione principale è che le parole grazia e carità non sono sempre definite in modo così preciso che l’una non implichi mai l’altra. I Concili, e in particolare quello che potrebbe, ci sembra, fornire i migliori elementi di soluzione, voglio dire il Concilio di Trento, non sono stati sufficienti, fino ad ora, a porre fine al dibattito che è ancora in corso. Anche se quest’ultimo Concilio mi sembra piuttosto favorevole all’opinione di San Tommaso, offre tuttavia alcune espressioni dalle quali l’opinione contraria può essere almeno plausibilmente autorizzata. Qualunque siano le discussioni sui testi, credo che delle due teorie opposte la più razionale, la più soddisfacente, la più conforme all’analogia della natura così come all’analogia della fede, sarà, per qualsiasi spirito non prevenuto, quella del Dottore Angelico. Aggiungiamo che è, con poche eccezioni, il sentimento in favore presso i maestri della Scienza Sacra. Senza voler spingere troppo in là questa particolare questione, darò brevemente le ragioni che mi sembrano confermare il giudizio che ho espresso in precedenza. Le prenderò di nuovo in prestito da San Tommaso. – Prima di tutto, bisogna ben confessarlo, che l’anima del figlio adottivo non è solo elevata nelle sue facoltà, princìpi immediati di operazioni, ma anche e soprattutto nella sua essenza. È impossibile contraddirlo dopo le testimonianze così esplicite e così numerose che abbiamo tratto o dai nostri libri sacri, o dai Padri e dai Concili. Nessuno può concepire il perfetto rinnovamento dell’uomo interiore, la rigenerazione in Cristo, la nuova nascita, la ricreazione spirituale, tutti questi privilegi così spesso affermati e così magnificamente celebrati, se la trasformazione soprannaturale non raggiunga i nostri più profondi anfratti, la nostra natura e la sostanza. Generare, creare, deificare l’uomo, rifarlo a somiglianza di Dio, è dargli non solo un agire nuovo, ma l’essere stesso. Ricordiamoci anche che, secondo la sublime dottrina del Principe degli Apostoli, la grazia è soprattutto una partecipazione alla natura divina; in altre parole, e come abbiamo già dimostrato, una partecipazione della divinità concepita come principio primo e radicale delle operazioni immanenti. Ora la partecipazione della natura divina richiede e produce un’assimilazione della natura partecipante con la natura alla quale partecipa; e dove può essere questa somiglianza se non nella sostanza dell’anima, quando è la sostanza stessa che fa somigliare a Dio? E le virtù infuse, fede, speranza, carità, cosa sono se non una partecipazione dell’intelligenza e della volontà divine; dell’intelligenza con cui Dio conosce se stesso, della volontà con cui si diletta nelle sue infinite perfezioni (« Sient per potentiam intellectivam homo participat cognitionem divinam per virtutem fidei, et secundum potentiam voluntatis amorem divinum per virtutem charitatis; ita etiam per naturam anime participat secundum quamdam similitudinem naturam divinam, per quamdam regenerationem sive récreationem ». S. Thom, 1. 2, q. 110, a fin. corp.)? – Non voglio nascondere una risposta che, nell’idea dei suoi autori, arriverebbe a rovesciare tutta l’argomentazione precedente. Così essi dicono: c’è nell’anima del giusto una partecipazione alla natura di Dio; c’è, inoltre, una partecipazione alla sua intelligenza e volontà. Ma non dimenticate: in Dio, natura, intelligenza e volontà sono una cosa sola. Nulla, dunque, impedisce che queste partecipazioni, infuse divinamente nell’anima, anche se corrispondono a funzioni diverse, siano in se stesse una stessa realtà. La risposta è sottile; ma può essere rivolta contro i suoi autori, ed evidenzia ancora di più la forza della dimostrazione che vorrebbero ribaltare. Infatti, è un grande principio della sana filosofia che le perfezioni che si identificano nell’infinita semplicità di Dio, siano condivise e moltiplicate, quando lasciano la loro Fonte originale per comunicarsi alla creatura (Thom., 1 p., q. 13, a. 4 cum parall.). Così i raggi di luce che partono da un sole comune, si dividono e vanno a riprodurre in mille luoghi la luce, immagine del loro principio. Ma, per non lasciare spazio ad equivoci, non è forse vero che le nostre operazioni, soprattutto quelle con cui arriviamo più direttamente a Dio, Bontà sovrana e Verità suprema, sono partecipazioni della conoscenza e dell’amore infiniti? È meno vero che questa conoscenza e questo amore di se stesso non sono in Dio operazioni separate, ma l’unica e semplice sostanza che è Dio stesso? Nessuno dirà, credo, che i nostri atti di pensare e volere, vedere e amare, anche se hanno Dio come oggetto, sono identici tra loro e si fondono con la nostra sostanza. – Ma a cosa serve lasciare il nostro soggetto? Voi mi dite che l’unità che è nell’archetipo debba essere riprodotta nei suoi flussi e nelle sue immagini. Spiegatemi, allora, come e perché la fede è così veramente distinta dalla grazia e dalla carità da non accompagnarle in cielo, e che nei cieli non è la stessa cosa che sulla terra, e che, nello stato attuale di formazione, si trova in molte anime dove non risiedono né la carità né la grazia! Così, le varie funzioni, come le diverse partecipazioni corrispondono in noi a perfezioni veramente distinte: perfezioni delle potenze spirituali per mezzo delle virtù e perfezioni della natura o dell’essenza per mezzo della grazia. Ed è così che, nel cercare di provare la distinzione tra la grazia e le virtù, abbiamo incontrato allo stesso tempo la rispettiva differenza dei loro soggetti immediati: tanto che le due parti della questione sono l’una in relazione all’altra in una dipendenza necessaria.

2.  – Il lettore mi sarà grato per avergli messo davanti due testi fondamentali di San Tommaso d’Aquino, che sono molto utili al nostro scopo: il gran Dottore si appoggia, in uno di essi, sull’idea stessa di virtù; nell’altro, sulla preparazione che il destino soprannaturale dei figli di Dio richiede. – Ecco il primo: « Alcuni dicono (Vediamo da questo che, se la scuola di Scoto ha adottato l’opinione che confonde la grazia e la carità per collocarle nella volontà come nel loro unico supporto, non lo fa allo stesso modo della scuola nel loro unico supporto, essa non l’ha inventata) che la grazia e le virtù sono quanto all’essenza una stessa cosa e che, da diversi punti di vista, essa sia nello stesso tempo tanto la grazia che la virtù: la grazia nella misura in cui si rende l’uomo gradito a Dio o ci è concessa liberamente; la virtù nella misura in cui ci perfeziona per agire bene. Questa non sembra essere l’opinione del Maestro delle sentenze. Ma, se riflettiamo attentamente sulla natura della virtù, questa opinione non sembra essere sostenibile: infatti, dice il Filosofo (Arist. VII, Physic., t. 17), la virtù è una disposizione del perfetto; e io chiamo perfetto un essere in cui le proprietà e le disposizioni corrispondano armoniosamente alla natura. Ne consegue che, in una creatura ragionevole, la virtù è misurata e determinata dal suo rapporto di convenienza con la natura preesistente. È ovvio, infatti, che le virtù acquisite dagli atti umani sono qualità per mezzo delle quali il soggetto che le possiede è disposto come si conviene alla sua natura d’uomo. – « Ora, caratteristica delle virtù infuse è di disporci in modo incomparabilmente superiore e per un fine superiore. È quindi anche necessario che si armonizzino con una natura superiore, cioè con quella natura divina che chiamiamo luce della grazia e che ci rende figli di Dio. Così come la luce naturale della ragione si distingue dalle virtù acquisite che le si riferiscono, così la luce della grazia, questa partecipazione della natura divina, si distingue anche dalle virtù infuse che ne derivano e si riferiscono ad essa. Da qui le parole dell’Apostolo: « Una volta eravate tenebre; ora siete luce nel Signore: camminate come figli della luce » (Efes. V, 8). Allo stesso modo, infatti, che le virtù acquisite dispongano l’uomo a camminare come si conviene alla luce naturale della ragione, così le virtù infuse lo perfezionano perché cammini come si conviene alla luce della grazia » (S. Thom. 1, 2. Q. 110, a. 3 in corp.). Che cosa è allora la grazia, se non è una virtù? Una qualità, un’abitudine che la virtù presuppone come suo principio e sua radice (Ibid. ad. 3). – Questo testo è tanto più degno di nota perché risponde, in anticipo, all’obiezione talvolta avanzata dai partigiani della dottrina opposta; la vostra opinione si basa su di una dottrina filosofica molto discutibile, la reale distinzione tra la natura dell’anima e le sue potenze. Infatti, San Tommaso d’Aquino, in questo passaggio, si basa su una distinzione del tutto diversa e a tutti gli effetti indiscutibile, voglio dire la distinzione tra l’anima e le sue virtù naturali. –  Passiamo ora al secondo testo. Dopo aver ricordato, come in precedenza, le due opinioni che dividevano gli antichi maestri, San Tommaso aggiunge: « E questa opinione (quella che distingue la virtù dalla grazia) è quella più conforme alla ragione….. Perché il perseguimento e l’acquisizione di un fine presuppone essenzialmente tre cose in ogni essere ordinato a questo fine: una natura proporzionata al fine; un’inclinazione naturale verso lo stesso fine; il movimento di tendenza che lo porta verso questo fine… Questo è ciò che osserviamo nell’uomo considerato nella sua costituzione puramente naturale, astrazione fatta per l’elevazione che gli deriva dalla grazia. Egli ha una natura ragionevole, alla quale risponde un fine proporzionato, intendo questa contemplazione più o meno perfetta delle cose divine, in cui i filosofi hanno posto la suprema felicità dell’uomo. Ha la sua inclinazione naturale verso questo stesso fine: testimone ne è il desiderio innato che ci spinge a risalire dagli effetti alle cause inferiori fino alla Causa prima. Ha nella sua intelligenza e nella volontà naturale il principio del movimento che deve condurlo al possesso del fine proprio della sua natura. – « Ora, c’è un fine a cui l’uomo è destinato da Dio, un fine sublime che supera in modo eccellente ogni proporzione alla natura umana, cioè la vita eterna, la visione chiara dell’essenza stessa di Dio; una visione così al di sopra di ogni natura creata, che è propria e connaturale a Dio solo. Occorre dunque che l’uomo riceva da Dio non solo la forza di agire in vista di questo fine superiore, non solo un intimo principio di tendenza, ma anche e soprattutto una perfezione che valorizzi tanto la sua natura da esserci una proporzione adeguata tra essa e questo fine: poiché dove c’è diversità di fine, ci deve essere diversità di nature, poiché natura e fine sono due cose correlate che si chiamano e si rispondono a vicenda. Ora, se la carità inclina la volontà verso questo fine divino, se le altre virtù sono mezzi per compiere le opere che ce la faranno acquisire, spetta alla grazia elevare la nostra natura alla sua altezza. – « Come nell’ordine puramente naturale c’è un’altra natura, un’altra inclinazione della natura, un altro movimento e operazione della natura, così nell’ordine divino altra è la grazia, altre le virtù e altra la carità. Che questa analogia sia corretta, abbiamo come garanzia Dionigi l’Areopagita: perché nel secondo capitolo della “Gerarchia Ecclesiastica” egli insegna espressamente che nessuno può avere l’operazione spirituale se prima non abbia ricevuto l’essere spirituale, così come, per avere l’operazione propria di una natura, è necessario prima esistere in quella natura » (S. Thom., De verit., q. 27 a, 2). Anche qui le ragioni che dimostrano la reale distinzione tra la grazia e le virtù infuse, provano allo stesso tempo che le virtù e la grazia hanno supporti diversi: la grazia si appoggia immediatamente sulla natura, e le virtù, sulle facoltà della natura. – Concludiamo con l’Angelo della Scuola: « La grazia è nell’essenza dell’anima, che perfeziona conferendole l’essere spirituale e rendendola per assimilazione partecipe della natura divina … mentre le virtù perfezionano i poteri in vista delle operazioni sante ». E ancora: « L’ordine della grazia perfeziona quello della natura. Ed è per questo che la virtù, principio gratuito delle operazioni, perfeziona la potenza, principio naturale delle stesse operazioni; e la grazia, principio dell’essere spirituale, perfeziona l’essenza dell’anima, principio dell’essere naturale (S. Thom., de Verit., q. 27, al 6 in corp. e ad 3.- Devo inoltre osservare che anche coloro per i quali l’anima non è realmente distinta dalle sue facoltà spirituali, non sarebbero autorizzati a rifiutare le prove che abbiamo dato. Supponendo, dunque, che la loro opinione sia tanto vera quanto discutibile e contestata dalla maggior parte dei nostri grandi Dottori, con San Tommaso in testa, direi loro: dovete almeno confessare una distinzione formale o virtuale (perché questi sono i termini che usano); una distinzione, dico, che è sufficiente perché le operazioni immanenti dell’anima, considerate come intelligenza, non siano atti della stessa anima, formalmente considerata come essenza o come volontà. Ora, se le operazioni realmente distinte l’una dall’altra possono essere adatte all’anima secondo diverse virtualità o formalità, perché non dovrebbe essere lo stesso per le qualità distinte che sono la grazia e le virtù infuse? Niente nelle vostre idee impedirebbe dunque alla grazia di trasformare l’essenza e alle virtù di elevare le potenze).

3. – Per quanto solida possa sembrare questa conclusione, alcuni chiarimenti non saranno superflui. Vedi, dicono coloro che pretendono di identificare la grazia e la carità, come quest’ultima realizza tutto ciò che si attribuisce alla prima. Non è forse la carità che distingue i figli di Dio dai figli del diavolo (I Giovanni, III, 10, 14)? Non è forse il principio divino che da solo rende le nostre opere apparentemente più umili come tanti meriti presso Dio, il sovrano ricompensatore (I Cor. XIII, 1-4)? Lo concedo; ma allo stesso tempo sostengo che queste e altre formule simili hanno tutte la loro legittima interpretazione al di fuori del sistema che confonde la grazia con la carità. Dirò di più: queste stesse formule, per essere assolutamente vere, richiedono che la carità sia diversa dalla grazia e che la supponga. Sì, la carità distingue i figli adottivi di Dio dai figli della perdizione. Ma perché? Perché è la manifestazione più perfetta e inconfondibile della vita soprannaturale e divina. Né la fede né la speranza, per quanto vivaci e certe possano essere in un’anima, godono di questo privilegio, perché nessuna di esse è essenzialmente unita alla grazia. Al contrario, la carità non va mai senza questa stessa grazia, da cui è inseparabile. Essa, dunque, lo rivela; e chi sapesse, senza dubbio, amare Dio con un amore di carità, avrebbe infallibilmente Dio come Padre e sarebbe suo figlio. E ciò che dico è da intendersi non solo della virtù, ma soprattutto degli atti di carità, perché di queste tre cose, la grazia, la virtù della carità e il suo atto perfetto, né la terza può andare senza la seconda, né questa senza la prima. E questo è il significato che emerge dal testo di San Giovanni: « In questo – egli dice – si manifestano i figli di Dio e i figli del diavolo (in hoc manifesti sunt). Chi non è giusto non è nato da Dio, né chi non ama il suo fratello » (I. Giovanni, III, 10). La grazia, non più che la sostanza stessa della mia anima, cade direttamente sotto lo sguardo della coscienza. L’una e l’altra si manifestano più o meno chiaramente solo negli atti che producono, l’anima con i suoi poteri e la grazia con la virtù della carità. – Ma se la carità caratterizza il figlio di Dio come i frutti fanno conoscere l’essenza dell’albero, essa è impotente a costituirne la natura. Questo perché l’amicizia, per quanto perfetta possa essere, non conferisce né il titolo né i diritti di figlio. Un conto è il bambino, un altro l’amico. I figli adottivi di Dio sono, è vero, suoi amici; ma dell’amicizia di un figlio per suo padre, e quindi di un’amicizia che presuppone la filiazione e non la compie. Cosa devo dire? Lo stesso amore di Dio per la sua creatura e della creatura per il suo Dio non può avere il carattere della vera amicizia senza la grazia santificante, formalmente considerata come una partecipazione della natura divina; perché, bisogna ripeterlo ancora, l’amore della perfetta amicizia si forma solo tra esseri che hanno una certa comunità di natura e di vita. – Sono anche convinto che non ci sia merito propriamente detto per un’anima in cui la carità sia assente; e questa è una dottrina che dovremo spiegare meglio nel corso di questo lavoro. Ma concludere da questo che la carità sarebbe sufficiente per il merito, indipendentemente dalla grazia che trasforma l’uomo nella sua natura più intima, sarebbe un tentativo molto rischioso, per non dire altro. – Ascoltiamo l’Angelo della Scuola: « La carità non è sufficiente a meritare il bene eterno, se non si presuppone in colui che le merita una capacità positiva (idoneitas) che risulta dalla grazia; infatti senza questa superiore dignità, l’amore creato non sarebbe degno di una così alta ricompensa » (S. Thom., de Verit., q. 27, a. 2 ad 4; col. 1, 2. Q. 114, a. 2). Tutto il merito parte da uno stato deiforme (cfr. propp. 15 e 17 e damnatis in Bajo.). E questo è di nuovo ciò che dovremo dimostrare più tardi. L’ultima ragione è che la gloria è un’eredità, e che l’eredità non è semplicemente per chi ama, ma per i figli: « si filii et hæredes ». I figli degli uomini, per vivere bene, cioè per agire meritoriamente, « devono essere figli di Dio » dice Sant’Agostino nello stesso senso. « Non vivunt bene ſilii hominum, nisi effecti ſilii Dei » (S. Augus., 2 ep. Pelag., L. I, n. 5). È così che la teoria scotista vede rivoltarsi contro di sé anche gli argomenti con i quali si pensava di sostenerla. – Un altro difetto che segnalo di sfuggita è che i teologi successivi ne hanno tratto conclusioni più o meno inaccettabili. Se la grazia santificante è la carità, in altri termini, se la forma soprannaturale che ci dà l’adozione di figli è una perfezione non della natura, ma della volontà, questa grazia da sola è impotente a conferirci questi diritti di eredi. Dunque, ci dovrà essere al di sopra di essa, qualche accettazione gratuita di Dio, che stabilisca il legame infallibile tra la grazia interiore e il possesso dell’eredità celeste. Perché la deduzione di San Paolo “si filii et hæredes” sia rigorosa, Dio deve, per così dire, aggiungere al dono della grazia un nuovo atto che faccia l’accordo necessario tra la dignità di figlio e il titolo di erede. Così concludevano i Nominalisti. – Altri, più vicini a noi, hanno ceduto ad un ostacolo ancor più dannoso. Convinti che tutto sia nella carità, e considerando che la virtù non è che per la sua operazione, hanno dedotto che è l’atto di carità che rende le anime gradite a Dio. Da qui la conclusione finale: lo stato di grazia è costituito dagli atti d’amore che rimangono moralmente nell’anima finché nulla sia venuto a ritrarli: questo è troppo manifestamente contrario a tutto ciò che abbiamo dimostrato con l’autorità delle Scritture, dei Padri e dei Dottori, perché sia necessario ripeterlo.

4. – Abbiamo sentito il Dottore Angelico parlare della grazia come di un principio e di una fonte da cui escono le Virtù infuse (Thom., 1. 2, q. 110, a. 3 ad 3.). Per San Bonaventura è il tronco di cui le virtù sono i rami (San Bonaventura, Brevil. P. 4, c. 4). Questa dottrina è certamente molto bella, ma ha le sue difficoltà. Perché alla fine, né i ruscelli possono esistere senza la sorgente, né i rami senza il tronco che li supporta, né gli effetti senza la causa. Ora sappiamo che ci sono virtù, e le più nobili, come la speranza e la fede, che sopravvivono alla grazia. – Inoltre, sembra anche che la grazia possa esistere in un’anima senza virtù, poiché i maestri della vita spirituale ci esortano ad acquisirle, anche se suppongono che siamo in stato di grazia e giustificati. Cerchiamo di risolvere i due problemi in successione. – E prima di tutto, cosa si debba intendere quando si dice che la grazia è la fonte e il principio delle virtù? L’obiezione che ho proposto poco fa dimostra con evidenza che la grazia non è per le virtù ciò che la sostanza dell’anima è per le sue potenze. Se a volte confrontiamo queste due relazioni tra loro, possiamo solo trovare da entrambe le parti una certa analogia, ma non una perfetta uguaglianza. Infatti, la sostanza è per le facoltà di cui è il principio, un immediato supporto necessario per le facoltà di cui è il principio; mentre le virtù non sono inerenti alla grazia, ma alle potenze naturali dell’anima che esse perfezionano in vista delle loro operazioni. Inoltre, essendo le potenze naturali dell’anima proprietà di propria natura specifica, è ugualmente impossibile che l’anima esista senza di esse, o che esse esistano al di fuori dell’anima (S. Thom., 1. 2, q. 110, a.4, ad 4. Non è così, quando si tratta di qualità che rispondono alla natura individuale, per esempio la scienza o la probità). – Diciamo però che la grazia è, a più di un titolo, la radice e la ragione delle virtù: lo è perché Dio le relaziona essenzialmente alla grazia come al loro centro, così che siano infuse ed esistano solo per il suo bene. Questa è una verità così certa che dove la perdita della grazia è irreparabile, come nei dannati, non ci sono né ci possono essere virtù infuse. È così, perché le virtù non possono essere connaturalmente nelle potenze, a meno che la grazia non le preceda per essenza: potenze elevate che presuppongono un’essenza elevata. È così, perché è dalla grazia che esse ricevono la loro linfa e la pienezza della vita. Al di fuori dello stato di grazia, esse sono come quei rami separati dal loro tronco su cui ancora crescono fiori e foglie, ma che non si coronano mai di frutti. È per questo che i teologi dicono di queste virtù che sono informi, finché non mettano radici nella grazia. È così, perché le virtù trovano il loro stato normale, definitivo, assicurato solo nell’adesione alla grazia. – Paragonerei volentieri la fede e la speranza separate dalla grazia alla quantità, substrato delle specie sacramentali. Questa particola sensibile che vedo, che tocco, è un accidente che l’onnipotenza del Creatore conserva separato dalla Sostanza del pane, suo soggetto e principio naturale. Ma, nella Separazione stessa, conserva una estensione essenziale nell’esistere naturalmente solo nella sostanza da cui è miracolosamente staccata; ed è per questo che, sebbene abbia nell’Eucaristia il modo di essere di una Sostanza, rimane sempre per la sua intima essenza un puro accidente (S. Thom. , 3 p., q. 77, a. 1, ad 2). – Così, osservata la debita proporzione, le virtù che sopravvivono nell’anima dopo la perdita della grazia vi rimangono, ma come in uno stato di violenta sospensione, richiamando per così dire con tutte le loro forze quella stessa grazia da cui sono necessariamente dipendenti, e che sola può restituire loro tutta la perfezione pretesa dalla loro natura. – Il secondo problema non è meno facile da risolvere. È il caso delle virtù come della grazia stessa: esse sono capaci di crescere. Perciò, esortarci ad acquisire le virtù non è solo pressarci per farle entrare nei nostri cuori attraverso la giustificazione, ma piuttosto raccomandarci l’esercizio frequente e generoso di esse, affinché crescano e si sviluppino e portino sempre più abbondanti frutti di salvezza. Questo adolescente è un uomo, dotato di una natura ragionevole, sapiente anche per la sua età. Questo mi impedirà forse di dirgli: sii più umano; vivi come un essere ragionevole, e lavora per diventare un vero studioso? – Le esortazioni dei maestri di vita spirituale hanno ancora un altro scopo. Per capire bene questo, ricordiamo che le virtù infuse, mentre danno il potere di produrre opere sante, non danno lo stesso grado di facilità d’azione delle virtù acquisite. E la prova è che questa facilità non è sempre proporzionale al grado di perfezione soprannaturale. Un peccatore che è tornato a Dio dopo una lunga serie di colpe spesso trova più difficile conservare la fede divina, ed ha inclinazioni più violente al male, di quanto non lo fosse il giorno dopo la sua prima caduta, anche se aveva già perso le virtù infuse perdendo la grazia. – Questo è un fenomeno inspiegabile, se fosse nella natura di queste virtù rendere facile il compimento degli atti per i quali sono state date. D’altra parte, è un fatto di esperienza che la generosa e frequente ripetizione degli stessi atti virtuosi diminuisce le difficoltà iniziali, e talvolta fa trovare gusto in ciò che era più ripugnante alla natura. – Da dove viene questo cambiamento? Ha meno a che fare con la crescita intrinseca delle virtù infuse, che con la scomparsa degli ostacoli che impedivano la loro azione? Man mano che un’anima si dona con maggiore costanza a Dio, cioè, man mano che moltiplica le sue vittorie, l’uomo esterno diventa più flessibile; le passioni perdono il loro potere; le tendenze malvagie, nate dal disordine della vita, si indeboliscono; le tenebre si dissipano sulla superficie dell’anima; e, una volta che tutti questi ostacoli vengano più o meno interamente rimossi, la virtù soprannaturale si porta con sempre maggiore facilità ad operazioni che, in principio, richiedevano forse grandi lotte e molti sforzi. – Non dimenticate, inoltre, che bisogna tenere un gran conto anche delle grazie attuali, delle luci, delle attrazioni interiori, degli impulsi e delle consolazioni celesti, con cui piace a Dio, nostro Padre, premiare la fedeltà dei suoi figli. Tutto ciò riunito, spiega come i maestri della vita spirituale possano e debbano esortare ad acquisire le virtù, senza che sia necessario supporle assenti per un solo momento da un cuore dove la grazia abbia fatto il suo ingresso. Acquisire le virtù, per un uomo giustificato, è acquisire in sé le virtù, perché un uomo giustificato le sviluppa in se stesso per merito delle sue opere; è acquisire la beata abitudine di farle più spesso e più perfettamente; è, a forza di vittorie su se stessi, abbattere gli ostacoli che si oppongono alla loro libera e facile espansione; è, infine, inclinare la liberalità divina a riversare su di noi queste ampiezze della grazia; è inclinare infine la liberalità divina a versare su di noi quelle generosità di grazia che rifiuta o misura alle anime meno fedeli e meno generose.

LA GRAZIA E LA GLORIA (16)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.