LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (14)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (14)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO QUINTO

LA CONFORMITA’ A CRISTO (II)

5) Uno dei più mirabili effetti di questa divozione fu di immedesimare suor Elisabetta della Trinità con i sentimenti più intimi di Gesù verso il Padre suo. Ben lo sanno i teologi: un duplice movimento spirituale faceva vibrare senza posa l’anima di Gesù Cristo: la redenzione del mondo e la gloria del Padre. Per questo, Egli si è incarnato: per salvare gli uomini e, dopo averli purificati dai loro peccati nel suo sangue, farne gli adoratori della Trinità. E nei minimi atti di Gesù, nei minimi suoi gesti, chiaramente si manifesta come ciò che più di tutto e prima di tutto gli sta a cuore sia la gloria del Padre. Per il Padre è il suo primo pensiero, entrando nel mondo: « Tu non hai più voluto gli olocausti né i sacrifici degli uomini; eccomi, io vengo per immolarmi alla Tua gloria» (Salmo XXXIX-7). Di tutto il mistero dell’infanzia e della vita nascosta di Gesù, un solo episodio ci è noto: il suo indugio nel Tempio ove fu ritrovato e la sua risposta alla Madre: «Non sapevate che io devo attendere a ciò che riguarda il Padre mio? » (San Luca, II-49). Quest’unica parola di Lui che affiora dal vasto silenzio di trent’anni, illumina come folgore tutto il mistero di Gesù. Come Maria, bisogna che lo sappiamo noi pure che il Figlio è venuto prima di tutto per la gloria del Padre. Nella sua vita pubblica, Gesù lo dichiara in modo da non lasciarci alcuna incertezza in proposito. « Uguale » al Padre come Dio, (« Il Padre ed io, non siamo che Uno ») (San Giovanni, X, 20) tuttavia, nella sua umanità, Gli tributa sottomissione riverenza in tutti i suoi atti. « Faccio sempre -afferma — ciò che a Lui piace» (San Giovanni, VIII-29). – Analizziamo attentamente, per esempio, l’incontro con la Samaritana; e comprenderemo che il punto culminante di questo episodio che ha mutato la storia religiosa della umanità, consiste e si rivela nel desiderio più segreto del Cuore di Gesù: trovare « degli adoratori in spirito e verità, che tali sono appunto gli adoratori che il Padre domanda; Pater quærit » (San Giovanni, IV-23.). Tutto il Vangelo di san Giovanni bisognerebbe citare, e particolarmente la preghiera sacerdotale di Cristo, confidenza suprema del suo cuore, dove la Chiesa troverà, sino alla fine dei secoli, l’alimento per la sua vita contemplativa. Il Maestro divino dà uno sguardo alla propria vita, quindi la riassume in due sole parole: « Glorificavi Te, Padre, sulla terra, io ti ho glorificato » (S. Giov. XVII, 1). E le sue ultime parole di Crocifisso, Gesù morente le rivolge tutte al Padre (S. Luc. XXIII, 46). Appena risorto, parla ancora del « Padre che è Padre nostro, del Dio suo che è Dio nostro » (S. Giov. XX, 17). – Paolo ce lo mostra, nella sua vita di eternità, « sempre dinanzi al Volto del Padre, intercedendo in nostro favore » (Ebrei, VII-25.), in attesa del gesto supremo col quale, alla fine dei tempi, «consegnerà il regno al Padre suo. Allora, sarà la fine» (I Cor., XV, 24). – Suor Elisabetta della Trinità ebbe coscienza, in grado veramente raro, dell’assoluta preminenza che la gloria del Padre aveva su tutti i sentimenti più intimi dell’anima di Gesù, di Colui che fu « la più perfetta lode di gloria del Padre » e della Trinità. I testi che ci ha lasciato a questo riguardo sono poco numerosi ma espliciti, e si trovano inseriti nella linea del suo pensiero più maturo. « Nel sublime discorso dopo la Cena, che è come un ultimo canto di amore dell’anima di Gesù, Egli rivolge al Padre questa bella attestazione: « Ti ho glorificato, sulla terra; ho compiuto l’opera che Tu mi avevi affidata » (S. Giov. XVII, 4). Noi, consacrate a Lui, noi, sue spose, che dobbiamo quindi essergli perfettamente somiglianti, dovremmo potergli ripetere queste stesse parole, al tramonto di ogni nostra giornata. Mi domanderete: — Ma come Lo glorificheremo? — È semplicissimo; e Gesù stesso ce ne confida il segreto quando ci dice: « Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato » (Lettera alla signora A… 1906 -). E intanto, una misteriosa trasformazione veniva operandosi nell’anima di suor Elisabetta della Trinità, che era tutta applicata a studiare e ricopiare in sé i movimenti dell’anima di Cristo. Il motto di san Paolo: « Mihi vivere Christus est » (Filippesi, I-21), realizzandosi in lei, le dettava una formula che traduce benissimo il carattere tutto proprio della sua devozione al Figlio di Dio: « Esprimere il Cristo allo sguardo del Padre », formula che racchiude il più alto ideale del Cristiano. « Stimo perdita tutte le cose, rispetto alla superiorità trascendente della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per amore di Lui, ho perduto tutto…, e tutte le cose stimo come immondizia, per conquistare Cristo, e per potere essere trovato in Lui non avente una giustizia mia, ma la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Ciò che io voglio, è conoscere Lui, è la partecipazione alle sue sofferenze, la conformità alla sua morte… Continuo la mia corsa, studiandomi di arrivare là dove Cristo mi ha destinato chiamandomi. Mi preoccupo di una cosa sola: dimenticando tutto ciò che lascio indietro, e slanciandomi costantemente verso ciò che mi sta dinanzi, correre diritto alla mèta, al premio della superna vocazione alla quale Dio mi ha chiamato in Cristo Gesù» (Fil. III, 8, 14). Di tale vocazione, l’Apostolo ha spesso rilevato la grandezza. « Dio – egli dice – ci ha eletti in Lui prima della creazione, nell’amore » (Efes. I, 4). « Siamo stati predestinati per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della Sua volontà, affinché siamo la lode della Sua gloria » (id. I, 11- 12) Ma come rispondere alla dignità di questa vocazione? Ecco il segreto: « Mihi vivere Christus est… Vivo enim, jam non ego, vivit vero in me Christus » (Gal. II, 20). Bisognaessere trasformati in Gesù Cristo, m’insegna san Paolo:« Coloro che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li haanche predestinati ad essere conformi all’immagine delFiglio suo » (Rom. VIII, 29).È necessario dunque che io studi questo divino Modelloper imitarlo e divenire così conforme a Lui, dapotere esprimerlo allo sguardo del Padre. E prima di tutto, che cosa dice Egli entrando nelmondo? « Eccomi, vengo, o mio Dio, per fare la tua volontà » (Ebr. X, 9). Questa preghiera mi pare che dovrebbe essere il palpito del cuore della sposa. Il Maestro divino fu così verace in questa prima oblazione! e tutto il resto della sua vita non ne fu, per così dire, che la conseguenza: « Mio cibo — si compiaceva di ripetere — è fare la volontà di Colui che mi ha mandato » (S. Giov. IV, 36). E cibo dovrebbe essere anche per la sposa la volontà di Dio, pur essendo al tempo stesso spada che la immola. « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice; ma si faccia la tua volontà e non la mia » (S. Matt. XXVI, 39). E in pace, con gioia, va incontro ad ogni immolazione insieme al suo Maestro, rallegrandosi di « essere stata conosciuta » dal Padre, dal momento che la crocifigge insieme al Figlio suo. – «Ho preso le tue leggi per mia eredità in eterno, perché esse sono la delizia del mio cuore » (Ps. CXVIII, 111). Ecco il canto dell’anima del mio Maestro, canto che deve avere una larga eco in quella della sposa; con la sua fedeltà di ogni momento a queste leggi esterne ed interne, essa renderà testimonianza alla verità e potrà dire: « Colui che mi ha mandata non mi ha lasciata sola; Egli è sempre con me, perché io faccio sempre ciò che a Lui piace » (S. Giov. VIII, 29). Non lasciandolo mai, mettendosi intensamente a contatto con Lui, ella potrà irradiare quella virtù segreta che salva e redime le anime. Spoglia, libera di se stessa e di tutte le cose, potrà seguire il Maestro sul monte, per elevare dalla sua anima, con Lui, un’orazione a Dio. Poi, sempre per mezzo del divino Adorante, di Colui che fu la grande lode di gloria del Padre, « offrirà ininterrottamente a Dio un’ostia di lode, cioè il frutto delle labbra che rendono gloria al Suo Nome. E Lo loderà nella espansione della sua potenza, secondo l’immensità della sua grandezza » (Ps. CI, 1-2). Quando giungerà l’ora dell’umiliazione, dell’annientamento, ricorderà questa breve parola: « Jesus autem tacebat » (Matt. XXVI, 63), e tacerà, serbando tutta la sua forza per il Signore, quella forza che si attinge dal silenzio. – Quando verrà l’abbandono, la desolazione, l’angoscia che strapparono a Cristo quel grande grido: « Perché mi hai abbandonato? » (S. Matt. XXVII-46) si ricorderà di questa preghiera: « Siano essi ripieni del mio gaudio » (S. Giov. XVII, 13); e, bevendo fino in fondo il calice preparatole dal Padre, saprà trovare in quella stessa amarezza una soavità divina. E infine, dopo aver ripetuto tante volte: « Ho sete », sete di possederti nella gloria, spirerà dicendo: « Tutto è consumato… ! Nelle Tue mani raccomando l’anima mia». E il Padre verrà a prenderla, per trasferirla nella sua eredità dove « nella luce vedrà la Sua luce » (Ps. XXXV, 10). « Sappiate — cantava Davide,  – che Dio ha glorificato meravigliosamente il suo Santo ». Sì, il Santo di Dio sarà stato glorificato in quest’anima, perché avrà distrutto ogni cosa per rivestirla di Sé, e perché essa avrà praticamente vissuto la parola del Precursore: « Bisogna che Egli cresca e che io diminuisca » (Giov, III, 20 – Ultimo ritiro, XIV.). « Io ripongo la gioia dell’anima mia, (quanto alla volontà, e non alla sensibilità), in tutto quello che può immolarmi, umiliarmi, annientarmi, perché voglio far posto al mio divino Maestro. « Non son più io che vivo; è Lui che vive in me ». Non voglio più vivere della mia propria vita ma essere trasformata in Gesù Cristo, affinché la mia vita sia più divina che umana, e il Padre, chinandosi su di me, possa riconoscere, l’immagine del Figlio suo diletto, nel quale ha riposto tutte le sue compiacenze » (« Il paradiso sulla terra » 5° orazione). « Siamo « Lui » e andiamo al Padre nel movimento della sua anima divina » (Lettera 29 settembre 1902.).

6) Un altro anelito faceva vibrare giorno e notte l’anima di Cristo: il desiderio della nostra redenzione. Mentre passava, solitario e pensoso, per le vie della Palestina, o mentre le folle di Gerusalemme, lo premevano d’ogni parte, Gesù, sempre in solitudine col Padre suo, trattava l’affare della nostra salvezza. Ci guardava sempre. Neppure un istante si è distolto da ciascuno di noi quel suo sguardo divino che tutto abbracciava: il cielo, l’inferno, i destini della Chiesa e di ciascuna delle nostre anime, fino ai minimi particolari; la sua visione del mondo uguagliava, non per intensità di luce, ma in estensione, quella della Trinità. Nulla gli rimase celato, del passato, del presente, dell’avvenire; e questa scienza di Gesù era rivolta tutta alla nostra salvezza. Uguale al Padre per la natura divina, Cristo-Uomo era pur nostro, interamente nostro. « Uno » col Padre, « Uno » coi suoi fratelli: ecco tutto il mistero di Gesù. Cristo si compie in noi. Il pensiero cristiano si è indugiato amorosamente ad analizzare questo aspetto « di Cristo in noi », di cui parla san Paolo, il Dottore per eccellenza del Corpo mistico di Gesù. Vi si manifesta una duplice corrente. La speculazione dei Padri greci di oriente si è compiaciuta nella contemplazione di questa misteriosa unità che lega i Cristiani fra loro e con Cristo e trova il suo modello supremo nell’unità della Trinità. Il pensiero occidentale, invece, ha rivolto la sua considerazione meno alla Trinità che alle membra  offerenti del Salvatore. Sant’Agostino, eco di san Paolo, ce ne ha lasciato la esposizione in pagine rimaste classiche e inarrivabili. E appunto a quest’ultima corrente di pensiero si ricollega la formula, ormai così celebre, con la quale suor Elisabetta della Trinità ha concepito in maniera tutta personale, ed ha espresso la parte che le è assegnata nel corpo mistico: « Essere per Cristo un prolungamento di umanità, una umanità superaddita (« Superaddita » mi pare che renderebbe pienamente e con molta aderenza l’espressione di suor Elisabetta « humanité de surcroit ». (N. d. T) nella quale Egli possa rinnovare tutto il suo mistero ». Due giorni dopo la composizione della preghiera donde è tolta questa formula, essa stessa spiegava il suo pensiero: « Vivo, iam non ego; vivit vero in me Christus »: è il mio ideale di Carmelitana e credo sia pure quello della vostra anima sacerdotale; e, soprattutto, quello di Cristo, ed io Lo prego di volerlo realizzare pienamente nelle anime nostre. Siamo per Lui, in qualche modo, un prolungamento di umanità, dove Egli può rinnovare tutto il Suo mistero. Io Gli ho chiesto di stabilirsi in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. E non posso dirvi quale pace ineffabile dona all’anima mia il pensiero che Egli supplisce alle mie impotenze e che, se cado ad ogni istante, è lì sempre, per rialzarmi e farmi penetrare ancora più intimamente in Lui, nel fondo di quella divina Essenza che già abitiamo mediante la grazia; ma io vorrei seppellirmici, a profondità tali, che nulla possa farmene uscire » (Lettera al sacerdote Don Ch… – 23 novembre 1904.). Come lontano ci porta, suor Elisabetta, con questa dottrina del Corpo mistico di cui essa vive, dagli orizzonti ristretti e dai meschini punti di vista fra cui si trascinano talvolta le anime religiose nella loro piccola vita di comunità! I grandi orizzonti della vita della Chiesa divengono per lei familiari. « Come forte si sente il bisogno di sacrificarsi, di dimenticarsi, per essere interamente dedicati agli interessi della Chiesa! Povera Francia! Io la copro col sangue « del Giusto », di Colui che è vivo sempre, per intercedere e implorare misericordia. La missione della Carmelitana è veramente sublime: essa deve farsi mediatrice con Gesù Cristo, deve essere per Lui quasi una umanità sovra-aggiunta, nella quale Egli possa perpetuare la Sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione » ((Lettera al Canonico A… – Gennaio 1906). Chi non ammirerebbe la fecondità apostolica di una anima che sa elevarsi così fino all’abituale visione del Cristo totale? « Chiunque vive nella carità — insegna san Tommaso — partecipa a tutto il bene che si fa nel mondo » (In Symbolum Apostolorum: Sanctorum communionem.). E i veri contemplativi, lo comprendono. Santa Teresa di Gesù Bambino sognava di lavorare per il bene spirituale della Chiesa, sino alla fine del mondo, e suor Elisabetta della Trinità ambiva di « rivelare a tutte le anime » il segreto di gioia e di santità che portano celato nell’intimo, mediante il mistero della divina inabitazione. Una vera Carmelitana, dopo essersi data tutto il giorno alla salvezza delle anime con la preghiera e l’immolazione silenziosa, venuta l’ora del necessario riposo, si rifugia nell’onnipotente intercessione universale della Vergine Corredentrice, supplicandola di continuare per lei, mentre ella dorme, l’opera sua di mediazione in favore dei poveri peccatori, proseguendo così efficacemente l’azione distruggitrice del male nel mondo. – Così faceva suor Elisabetta della Trinità dimenticando i suoi dolori e superando se stessa, nell’unico desiderio di « consumarsi » in amore per Cristo, di « distillare il proprio sangue, goccia a goccia » per « il Corpo di Lui che è la Chiesa » (Colossesi, I-24.). Tutto questo voleva significare con la espressione: « Essere per Cristo umanità sovra-aggiunta ».

7) Essere un altro Cristo, ma sulla croce: fu il sogno supremo di suor Elisabetta della Trinità. « Per lungo tempo, il Crocifisso accentrò tutta la sua orazione », scriveva il Padre Vallée che la conosceva intimamente. In seguito, dopo le grandi grazie dell’inabitazione della Trinità, ritornò al Crocifisso, non più soltanto come contemplativa, ma come imitatrice della sua Morte. « Configuratus morti Eius » (Filippesi, III-10.): ecco il pensiero che non mi abbandona mai,che mi dà forza nel dolore. Se sapeste quale azione demolitricesento in tutto il mio essere! È la via del Calvarioche si è aperta per me, e sono tanto contenta di camminarvi come una sposa a fianco del divino Crocifisso » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1906). Alla mamma, il cui cuore è già straziato al pensiero di perderla, rivolge qualche parola di consolazione, ricordandole il valore della sua sofferenza redentrice. « È il Signore, sai, che si compiace di immolare la sua piccola ostia; ma questa Messa che Egli celebra con me, in cui il sacerdote è l’Amore, può durare molto ancora. Eppure la piccola vittima non trova che sia lungo il tempo, nella mano di Colui che la sacrifica; e può assicurarti che, se passa per il sentiero del dolore, cammina molto più spesso nell’ampia via della gioia, della verità, di Colui che nulla potrebbe rapirle. « Io gioisco — diceva san Paolo — perché do compimento nella mia carne a quello che manca alle sofferenze di Cristo per il Corpo di Lui che è la Chiesa » (Colossesi, I-24,). Anche il tuo cuore, mamma, dovrebbe divinamente esultare pensando che il Maestro si è degnato scegliere la figliola tua, il frutto del tuo seno, per associarla alla grande opera della redenzione e per soffrire in lei quasi un prolungamento della Sua passione. La sposa è. tutta dello sposo. Lo sposo mio mi ha presa; vuole che io gli sia quasi un prolungamento di umanità dove Egli possa soffrire per la gloria del Padre, per i bisogni della Sua Chiesa » (Lettera alla mamma – 10 settembre 1906.). « Come sarei felice se il mio Maestro mi chiedesse anche di versare il sangue per Lui! Ma ciò che bramo soprattutto è il martirio d’amore che ha consumato la mia Madre santa Teresa, colei che la Chiesa proclama « vittima di carità ». E poiché il Verbo di Verità ha detto che la più grande prova di amore è dare la vita per chi si ama, io Gli do la mia, perché ne faccia ciò che vuole; se non sono martire di sangue, voglio esser martire di amore » (Lettera alla mamma – Luglio 1906.). « Rallegrati pensando che, fin dall’eternità, noi siamo stati conosciuti dal Padre, come dice san Paolo, e che Egli vuol ritrovare in noi l’immagine del Figlio suo cro cifisso. Se tu sapessi come è necessario il dolore, perché l’opera di Dio si compia nell’anima! Egli brama di arricchirci delle sue grazie; ma siamo noi che limitiamo il suo dono, che ne determiniamo la misura, in proporzione della generosità con cui ci lasciamo immolare da Lui; ma immolare nella gioia, nell’azione di grazie, come Gesù, dicendo con Lui: «Non berrò io, dunque, il calice preparatomi dal Padre mio?» (S. Giov. XVIII, 2). Il Maestro chiamava l’ora della passione « la sua ora », quella per la quale Egli era venuto, quella che tutti i suoi desideri affrettavano, Quando una grande sofferenza, o anche un sacrificio piccolissimo ci si presenta, pensiamo subito che quella è « l’ora nostra », l’ora in cui possiamo dar prova del nostro amore a Colui che ci ha « troppo amati », secondo l’espressione di san Paolo » (Lettera alla mamma – Settembre 1906.). Come tutti i santi, suor Elisabetta della Trinità capiva il valore della sofferenza e sapeva che l’unione con Dio non si compie e non si perfeziona che sulla croce; quindi la loda e la esalta, questa sofferenza santa, crocifiggente, che imprime nell’anima sua e nel suo corpo l’effigie del Crocifisso. « Il dolore è un dono così grande, così divino! Mi pare che, se i beati in cielo potessero invidiare qualche cosa, ci invidierebbero proprio questo tesoro. Ha un’influenza così potente sul cuore di Dio! E poi, non trovate voi pure che è tanto bello poter donare a chi si ama? La croce è l’eredità del Carmelo. Il grido della nostra Madre santa Teresa, era: « O soffrire o morire », e san Giovanni della Croce, quando nostro Signore gli apparve chiedendogli che cosa desiderasse in premio di tante pene sopportate per Lui, rispose: « Signore, soffrire ed essere disprezzato per Tuo amore» (Lettera alla signora A… – Agosto 1904). Non crediamo però che il dolore la trovasse insensibile; tutt’altro. Ma sapeva attingere la forza di soffrire nel ricordo del suo Maestro Crocifisso. Lei stessa ci confida il suo segreto: «Vi dirò come faccio quando mi si presenta qualche cosa di penoso: guardo il Crocifisso e, vedendo fino a che punto Egli si è dato per me, sento che non potrei fare di meno per Lui che donarmi, consumarmi, per rendergli un poco di tutto quello che mi ha dato. La mattina, durante la santa Messa, assimiliamoci il Suo spirito di sacrificio; siamo sue spose, dobbiamo. dunque essergli simili. Se siamo fedeli a vivere della sua vita, se ci immedesimiamo con l’anima del Crocifisso in tutti i suoi movimenti, non dovremo più temere le nostre debolezze, perché sarà Lui la nostra forza; e da Lui, chi potrà separarci? » (Lettera alla signora A. febbraio 1903). Gli otto ultimi mesi della sua vita furono un vero martirio; ma essa si immergeva con avidità nel dolore; e alle sue lettere o biglietti, apponeva la dicitura: « Dal palazzo del dolore e della beatitudine ». E scriveva: « Esperimento, gusto, gioie ineffabili: la gioia della sofferenza. Sogno di essere trasformata, prima di morire, in Gesù Crocifisso » (Lettera a G. de G. … Fine di ottobre 1906). Così, l’ultimo suo canto è un inno al dolore: una vera « lode di gloria » è un’anima crocifissa.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (15)