DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.), lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi e il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in. aiuto dei bisognosi e si faccianoamici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovranno rendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — non è una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: « ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci solleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

Graduale

Ps LXX: 1

V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – 1957, Milano)

ABILITÀ NEGLI AFFARI

La più strana parabola del Vangelo è quella dell’astuto fattore. Doveva essere uno di quegli uomini incantatori, svelti a parlare e più svelti a fare: rubava senza scrupoli, e scialava senza rincrescimenti. Il padrone, quasi ipnotizzato da tanta e tale scaltrezza, gli aveva affidato la gestione di tutti i suoi beni, ciecamente. E ci vollero accuse, denunzie, prove prima di fargli aprire gli occhi. Finalmente si risvegliò come da un sonno, e chiamato il fattore, gli disse a bruciapelo: « Belle cose ascolto di te! Portami i conti, e vattene che sei licenziato ». La folgore si scaricò tanto inaspettata che lo scaltrissimo fattore si trovò smarrito. « E adesso che cosa farò io, che il padrone mi leva la fattoria? A zappare non son buono, a limosinare mi vergogno ». Fu un attimo di stordimento, poi ritrovò la sua tremenda presenza di spirito: e approfittò delle ultime ore di potere per farsi degli amici che lo aiutassero nell’imminente disavventura. E Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, con la disinvolture dell’uomo abituato a falsare le ricevute, disse al primo: « Quanto devi al padrone? » E quello rispose: « Cento barili d’olio ». « Prendi la tua fattura presto, siedi e scrivi cinquanta ». Poi disse ad un altro: «E tu quanto devi? ». E quello: « Cento staie di grano ». « Prendi la tua fattura e scrivi ottanta ». Il padrone, che ormai stava all’erta, scoprì tosto ogni cosa. Ma non potè trattenersi un’espressione di sbigottita ammirazione: « Che scaltrezza in quest’uomo, Che abilità negli affari! ». – A questo punto Gesù fece l’applicazione morale della parabola. « Perché i figli della luce non mettono nel bene quell’avvedutezza e quell’abilità che i figli delle tenebre mettono nel male? Perché mentre sanno che nella fattoria di questo mondo possono restare per poco tempo e poi saranno dalla morte scacciati fuori, non procurano di farsi degli amici che diano a loro ricetto nei tabernacoli eterni? ». Non è difficile, Cristiani, rispondere a queste domande. Ci sono degli uomini che negli affari e raggiri terreni hanno un occhio da lince, un coraggio da leone; ma negli affari celesti sono ciechi come talpe, timidi come conigli. Guardate quanto e qual progresso ha fatto il nostro secolo nell’arte distruggitrice della guerra, nella maniere corrompitrice del piacere e del godimento; e dov’è il progresso nell’arte di amare il Signore, di salvare l’anima? C’è dunque un’abilità sviata e un’abilita giusta negli affari. La prima è quella dei figli di questo secolo che, simili all’astuto fattore, nell’ingranaggio degli affari del mondo stritolano la coscienza e la giustizia e l’anima intera. L’altra è quella dei figli della luce, che soprattutto e prima di tutto, mettono la loro abilità negli affari eterni del regno di Dio e della salvezza dell’anima. – 1. L’ABILITÀ DEI FIGLI DI QUESTO SECOLO. Nessuno può negare audacia e abilità ai fratelli di Giuseppe. S’erano accorti che il loro fratello minore con l’ubbidienza aveva conquistato la preferenza del padre; inoltre, dei presagi misteriosi nel sonno predicevano loro che un dì avrebbero dovuto riconoscerlo come principe e dipendere da un suo cenno. Perciò, spogliatolo della tunica, dapprima lo nascosero in una cisterna: poi portarono la tunica al padre, non senza prima averla intrisa nel sangue d’una pecora svenata, e gli fecero credere che una belva avesse divorato il fanciullo; in realtà il fanciullo era stato da loro venduto a dei mercanti che lo portarono lontano lontano, in Egitto. Tutto era riuscito bene, e rimasero così dominatori della situazione familiare. Se non che una forza maggiore di loro, la carestia, li costrinse a recarsi in Egitto a prendere il grano per non morire di fame. Dovettero inginocchiarsi davanti al viceré, supplicarlo di un po’ di pane, giurare di mettersi a suo servizio. Quel viceré, lo riconobbero poscia, era il loro fratello Giuseppe. Lo avevano venduto per non sottomettersi a lui, e appunto per averlo venduto sono costretti a sottomettersi. L’abilità dei figli di questo secolo si squaglia alla fine e le frodi ordite si risolvono in loro danno. – Ricordiamo un altro esempio della Storia Sacra. Nabot possedeva una vigna non lontana dal palazzo del re di Samaria, e gli era molto cara perché era stata bagnata dal sudore dei suoi padri, i quali l’avevano lasciata a lui in eredità. Ma il re la voleva per farsene un giardino; e insieme alla regina Gezabele ordì questo astuto tranello. Furono subornati due perfidi uomini che accusarono Nabot in tribunale di aver bestemmiato contro Dio e contro il re; così l’infelice fu condannato alla lapidazione, ed il re guadagnò la vigna e se la godette. Non passò molto tempo e i cani leccavano il sangue del re ucciso in guerra, della regina gettata sulla strada da un balcone. Non si deve però credere che tutti quelli che con ingiustizia e scaltrezza si procurano una fortuna materiale abbiano sempre un castigo sensibile in questo mondo. Agli occhi di Dio i beni materiali hanno così poco valore, che sono sparsi sulle case dei buoni come su quelle dei peccatori. Ma il peccatore s’illude d’essere astuto; perché, mentre con frodi e abilità si fabbrica una prosperità materiale, perde i valori spirituali ed eterni, e va incontro all’inferno. Reca meraviglia pensare che anche tra quelli che si dicono Cristiani l’abilità iniqua dei figli del secolo trova dei seguaci. Alcuni raggiungono un posto desiderato sparlando, mormorando, calunniando quelli che prima l’occupavano o che erano rivali. Altri pensano di aumentare le rendite con maneggi illeciti, con l’infedele amministrazione dei beni altrui, con smoderati guadagni. Altri infine ricorrono all’adulazione, alla menzogna, all’inganno, alla corruzione di impiegati e amministratori con promesse di denaro. Gli uomini come sono ancora poco Cristiani! si credono astuti se, a scapito dei beni eterni, riescono ad ammassare beni materiali e caduchi. Chiamano sciocchi quelli che osservano i comandamenti di Dio con loro svantaggio, e non immaginano che da un momento all’altro può risuonare al loro orecchio l’annuncio spaventoso: Lo stolto sei tu! poiché stanotte morrai, e le sostanze che con tanta abilità hai radunate di chi saranno? a che ti gioveranno? » (Lc., XII, 20). – 2. L’ABILITÀ DEI FIGLI DELLA LUCE. I figli della luce, a base d’ogni loro abilità, pongono questa parola del Signore: Che giova all’uomo guadagnare anche il mondo intero, se poi la sua anima subisce una perdita? » (Mt., XVI, 26). I figli della luce fissano lo sguardo e il cuore nei beni immortali: l’amore di Dio, il Paradiso, la grazia, la pace dell’innocenza, il tesoro della virtù. E quando li abbassano a considerare le cose del mondo, gli onori umani e i piaceri della carne e le allegrie terrene, a loro sembrano vili come una spazzatura. Pertanto, sono convinti che il più grasso guadagno materiale non potrà mai compensare la più piccola perdita spirituale. – Uno splendido avvenire brillava davanti al giovane Saulo di Tarso. Possedeva tutte le invidiabili qualità per fare carriera ed in breve avrebbe raggiunto uno dei primi posti nella sua nazione e nella sua religione. Israelita puro sangue della tribù di Beniamino, apparteneva al movimento d’avanguardia come Fariseo, dirigeva le più audaci spedizioni punitive contro la nascente Chiesa. Quando gli sembrava dovesse raccogliere i primi frutti della sua ardimentosa vita, improvvisamente si ritirò nel deserto, e di là uscì mutato completamente. Fu deriso, compianto, calunniato, scacciato, perseguitato a sangue dagli stessi che prima l’ammiravano: ma niente lo poté smuovere. « Quelli che erano per me guadagni, io li stimai perdite, in confronto a Cristo. Credo proprio che tutte le cose siano una perdita di fronte all’eccellenza della cognizione di Cristo Gesù, mio Signore; per amor del quale mi sono privato di tutto, e tutto tengo in conto di spazzatura allo scopo di guadagnarmi Cristo » (Filipp., III, 7-8). Certo che agli occhi dei figli di questo secolo la prudenza e l’abilità dei figli della luce è giudicata una grulleria. Quella povera madre di famiglia che lavora tutto il giorno, perché balza dal letto per tempissimo e va in chiesa ogni mattina? È una sciocchezza inspiegabile sprecare le ore del riposo migliore. E quel giovane che passa la domenica in chiesa con la messa e con la dottrina, invece di recarsi alle passeggiate e ai divertimenti, non è forse un incapace di godere la vita? Quando i fratelli di S. Tommaso d’Aquino seppero ch’egli aveva deciso di farsi domenicano, lo credettero fuori di senno. Ricco, sano, bello, intelligente, abbandonare il castello natio e chiudersi nell’ombra melanconica di un chiostro?!… Pensarono di rinsavirlo imprigionandolo, e mandandogli un’impudica lusingatrice. Sappiamo con quale forza ed abilità vinse la tentazione della donna e dei fratelli. Prese un  tizzone acceso e sì scagliò contro la sciagurata, poi seppe fuggire dalla domestica reclusione. – Quando S. Filippo Neri umilmente nascondeva le sue virtù e la sua grande santità facendo il giullare davanti a uomini illustri che dall’estero arrivavano apposta a consultarlo, non venne forse giudicato uno sciocco? E quando S. Giovanni Bosco cominciò a manifestare il suo zelo per le anime, a creare tutto quel mirabile movimento di bene che ancora ammiriamo, non fu forse giudicato pazzo e come tale non si tentò di rinchiuderlo in un manicomio? – Ci fu un uomo che vendette quello che aveva, casa, roba, vestiti, tutto, per comprare un campicello spinoso e sassoso che molti non avrebbero preso neppur per regalo. Tutti lo consideravano come uno stolto. Ma poi si seppe che nascosto in quel campicello, sotto quei sassi e quei rovi, c’era un tesoro favoloso. Allora compresero che quell’uomo era stato il più furbo di tutti. Ebbene, i figli della luce sanno che sotto i rovi e i sassi della umiliazione e della mortificazione sta nascosto il tesoro della vita eterna. Essi, più furbi di tutti, rinunciano alle misere cose di quaggiù, per la conquista di quell’immenso bene. I figli delle tenebre son come gli Egiziani felici e superbi che a cavallo e in cocchio dorato corrono ad affogare nel mar Rosso; i figli della luce, nel nome del Signore, con la pazienza, con la carità, con le buone opere, vanno verso la terra promessa. Hi in curribus et hi in equis, nos autem în nomine Domini (Ps. XIX, 8). – Quando Gesù ebbe terminato di contare questa parabola, alzò la voce come per farsi udire non solo dai presenti, ma anche da quelli che sarebbero nati dopo, negli anni venturi, e conchiuse: « I figli di questo secolo sono, nel loro genere, molto più scaltriti dei figli della luce. Anche voi con le cose di quaggiù in terra fatevi degli amici lassù in cielo: così quando la morte vi scaccerà da questo mondo, essi vi faranno accoglienza nelle tende eterne ». Filii huius sæculi prudentiores! Questa parabola del divin Maestro per alcuni istanti noi mediteremo: essa contiene un rimprovero ed un lamento. Noi pure, Cristiani, siamo fattori, ma non forse astuti come quello della parabola. – 1. ANCHE NOI SIAMO FATTORI. È una verità tanto chiara, eppure troppo dimenticata. Ecco un uomo che vive lontano dalla Chiesa, senza preghiera, senza sacramenti, senza istruzione cristiana. La voce della coscienza in certe pause si leva e grida: « La tua anima è fuor di strada! ». Ma quegli scrolla le spalle e mormora: « Della mia anima faccio come voglio io ». Eh, no! tu sbagli di grosso: tu sei il fattore della tua anima, e devi fare come ti prescrive il padrone. Ecco una fanciulla di nessuna serietà che veste, senza modestia, le mode più provocanti al male. Qualche amica assennata l’avverte: « Guarda che dai scandalo ». Ma quella inviperita, stride: « Mi vesto come mi piace ». Eh no! qui c’è un equivoco: t’illudi di essere la padrona del tuo corpo, ma invece non sei che la custode e come tale sei tenuta alle prescrizioni del vero padrone. Ecco ancora un padre di famiglia. Io lo prendo in disparte e gli ragiono così: « Sentite. Voi mandate il vostro figliuolo a servire in quell’albergo, in quel ritrovo: perderà senza dubbio la fede e il buon costume. Voi mandate la vostra figliuola in quell’officina, in quella famiglia; la costringete, ogni giorno, a passare delle ore sui treni pigiati, lei quattordicenne appena. Voi, da due anni, fate soffrire la vostra maggiore negandole il permesso di ritirarsi in convento dove il Signore la vuole… « Quante storie! — mi risponde. — I figliuoli sono miei e ho diritto di sfruttarli meglio che posso ». Eh no, benedetto uomo! voi avete preso un qui pro quo: voi siete soltanto il responsabile dei vostri figli, il padrone è un altro! A chiarire quest’idea quanto opportuna non è mai la parabola del fattore: quella che or ora avete sentito! Il gran ricco è Dio, mentre ciascuno di noi è raffigurato nel fattore che deve custodire, fertilizzare, amministrare una fattoria più o meno vasta, più o meno preziosa. La fattoria della nostra anima: essa è prediletta dal gran Padrone, perché vi ha impresso la sua immagine, perché l’ha comperata col prezzo di un Suo Figliuolo, perché bagnata dal sangue divino di questo suo Figlio Unigenito morto in croce. Noi dobbiamo difenderla dal demonio che, come un porco, cerca di sforzare le siepi e gettarsi dentro ad insozzarla. Noi dobbiamo liberarla da ogni vizio che vi spunti come erba cattiva. Noi dobbiamo farla fruttificare con frutti di virtù e di buone opere. La fattoria del nostro corpo: ecco è il tempio dello Spirito Santo. Ricordate S. Paolo che nelle sue lettere frequentemente scrive: « Voi siete la casa in cui Dio abita. Il vostro corpo è come una chiesa ». Dobbiamo quindi avere un gran rispetto della nostra carne, circondarla di modestia, di temperanza. Soprattutto dobbiamo conservarla pura da ogni disonestà. – La fattoria della famiglia: chi ha un padre e una madre dovrà ubbidirli e aiutarli. Chi ha una moglie dovrà amarla come Cristo comanda. Chi ha figliuoli dovrà educarli secondo i comandamenti della Religione. Se prima di questa sera il gran Padrone ci chiamasse a palazzo e ci dicesse: « Qua i conti di tua famiglia » cosa potrebbe rispondere ciascuno di noi? « Che cosa ne hai fatto della tua consorte? Perché ne hai conculcato la virtù spingendola ai peccati nefandi e ai delitti? ». « Che cosa ne hai fatto dei tuoi figliuoli? Io non li vedo all’oratorio, non li vedo alla dottrina, non li sento chiamarmi né mattino né sera. E quella tua figliuola: tu la sopporti vestita così, leggera così? ». « Qua i conti, che per te è finita! Redde rationem villicationis tuœ ». – La fattoria del tempo. Chi tiene un prestito per due anni non avrà da rendere solo l’interesse di un anno. E chi abita una casa per dieci anni, non darà appena l’affitto di cinque. E perché allora, o Cristiani, non meditiamo che ogni anno che passa aumenta la nostra responsabilità di fattori? Perché tramandiamo indifferentemente, di giorno in giorno, di anno in anno, un’opera buona o anche la nostra stessa conversione? – Udite come fu ingenuo un contadino. Arrivato alla sponda di un fiumiciattolo, dovendo traghettare al di là, cominciò a sedersi sull’erba fresca. E come si ricordava che sarebbe  che sarebbe stato necessario oltrepassarlo, diceva: « Aspetterò che l’acqua sia trapassata tutta via, passerò sull’asciutto ». E aspetta e aspetta, venne la morte ed egli era ancora là. Proprio come quel contadino goffo siete ancora voi se, dimenticando che il tempo non è vostro e che l’avete in prestito, rimandate sempre l’ora delle buone azioni (HORATIUS, I Ep., II, 42: … vivendi qui recte prorogat horam. — Rusticus expectat dum defluit annis). – 2. MA NON FORSE ASTUTI . Come sa d’amara tristezza il lamento di Gesù: « Sì! sono più scaltri nei loro affari i figli del mondo ». Il mondo promette cose vili e fugaci e tutti gli corrono dietro con affannosa brama; Iddio promette cose eterne e sublimi e una torpida noia circonda i cuori degli uomini » (De Imit., lib., III, cap. 2). Confrontate gli avari con voi. L’avaro prima di spendere un soldo ci pensa una notte, e lo guarda e lo soppesa sulla mano, e lo accarezza, e nel cederlo gli par di cedere anche una fibra del cuore. Il Cristiano invece, non di un soldo appena, ma fa gettito di un immenso tesoro, — quale è la grazia di Dio, — in un momento, senza esitare, senza rimorsi pur di godere un piacere proibito. L’avaro come traffica! non perde tempo, non s’acquieta, sta in vedetta di ogni buona occasione e vende quello che vale di meno per quello che vale di più. Il Cristiano invece non s’interessa delle ricchezze spirituali e se gli capita la tentazione vende il Cielo per comprare la terra, vende il Paradiso per comprare l’inferno. L’avaro se talvolta è implicato in un fallimento, se talvolta un affare gli riesce in perdita, gli manca il fiato, gli manca l’appetito, gli manca il sonno: il Cristiano, se il demonio gli ha rapito l’innocenza, la grazia, ogni virtù, vive indifferentemente la vita di prima come se nulla di triste gli fosse capitato. L’avaro, e con lui ogni uomo previdente, si assicura sulla vita, sulla roba, sul lavoro, contro la grandine o contro l’incendio o contro il furto: il Cristiano non è previdente, non vuole esserlo. Non si assicura con le indulgenze dal fuoco del purgatorio, non si assicura dai furti del demonio con la mortificazione dei sensi. Et ego vobis dico: facite vobis amicos de mammona iniquitatis! (Lc., XVI, 9). Nessuno trascuri l’avviso del Signore: con le cose di questo mondo conquistiamo l’altro mondo. E giacché le parole del Vangelo mirano direttamente ad inculcarci l’elemosina, udite una leggenda dei libri ebraici. « Due uomini andavano un giorno nel vicino bosco a tagliar legna. Un astrologo, che non la sbagliava mai, vedendoli esclamò: « Questi due escono, ma non ritorneranno vivi ». Uscendo dalla città, i due incontrarono. un vecchio che diceva: « Fatemi la carità: da tre giorni patisco la fame ». Essi presero l’unica pagnotta che avevano portato con sé, e ne diedero metà al vecchio, che mangiandola fece questa preghiera: « Dio vi conservi oggi in vita, come oggi voi avete conservato me ». « Alla sera, prima che le stelle tornassero in cielo, i due uomini, con la legna in spalla, rientrarono in città. « Come! — dissero alcuni all’astrologo — non avevi assicurato che costoro sarebbero morti? ». « Rispose l’astrologo: « Strano davvero! ci voglio veder chiaro ». Esaminato il fascio della legna che riportavano, trovò nel carico dell’uno la metà di un serpente, l’altra metà nel carico dell’altro. Sorpreso domandò allora: « Che buona azione avete mai compiuta oggi? ». E quelli si fecero a raccontare la storia del vecchio. « Che cosa posso farci io — esclamò l’astrologo — se il Signore si lascia commuovere da una mezza pagnotta? » (Talmud, Ieruscialmì, Sciabbath 6). Quanti che avrebbero dovuto perire nell’inferno morsicati dal serpente antico e maligno, noi un giorno vedremo placidamente entrare nella città del paradiso! Come mai! — esclameremo. — Che buona azione hanno compiuto? ». E allora comprenderemo che la generosità verso il prossimo, verso le missioni, verso la parrocchia ha meritato loro la grazia di convertirsi prima di morire. — L’ASTUZIA DEI FIGLI DEL SECOLO. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — E questo lamento che sta nella parabola di Gesù, è vero anche per noi. Quanto interesse per le cose mondane e quanto disinteresse per le cose del cielo! Quanta astuzia nel fare il male e quanta trascuratezza nel fare il bene! Impariamo dai figli del secolo. – 1. FIGLI DEL SECOLO E I MISTERI DELLA NATURA. Quando Michele Montgolfier, con un pallone di carta gonfiato d’aria calda dimostrò a Parigi che l’uomo poteva volare nei cieli, un poeta esclamava: « O uomo! che più ti resta? tu hai saputo scoprire le origini del tuono; hai saputo imprigionare il lampo e disperderlo nelle voragini della terra; hai saputo descrivere l’orbita alle stelle e misurare la loro distanza; tutto hai saputo scoprire e domare: la terra, il fuoco, il mare, il cielo, le fiere ». E veramente l’uomo, « con brando e con fiaccola » ascende arditamente alla conquista del mondo anche sacrificando la propria vita. Plinio, soffocato dalle ceneri e dai lapilli ardenti, muore a Stabia per scrutare l’eruzione del Vesuvio. Colombo con tre caravelle si slancia nel mistero tenebroso dell’oceano. Galileo consuma la vista e la vita a scrutare le macchie del sole. Clemente Adler, uno dei primi aviatori, cade in un mattino umido, con le gambe sfracellate sotto l’apparecchio, ma con lo sguardo nei cieli che aveva tentato di violare. È una sete d’ignoto e di conquista che sospinge i figli del secolo. Si può dir così anche dei figli della luce? Anche per essi c’è un mondo da conoscere e da conquistare: il mondo dello spirito. S’incontrano talvolta dei Cristiani che confondono le tre Persone della Sacra Famiglia con le tre Persone della SS. Trinità; che confondono l’Immacolata Concezione con il virginale concepimento di Maria; che non sanno bene che cosa ricevono nella santa Comunione. Eppure, ogni festa, queste sublimi verità si spiegano nella Chiesa. Ma i figli della luce non vengono ad istruirsi, e non hanno vergogna della loro supina ignoranza, mentre arrossirebbero di non sapere certe nozioni d’elettricità. Quanta ammirazione nel mondo per l’uomo che slancia il suo veicolo ad una folle velocità, che in poche ore attraversa l’oceano, che con una forza bestiale di pugno atterra un suo simile. E per l’uomo che sa vincere l’astutissimo demonio, conservarsi nell’equilibrio del bene anche in mezzo a tanto male, volare nei cieli della santità, per l’uomo che in pochi anni, come S. Luigi, S. Stanislao, S. Teresa del Bambin Gesù, sa raggiungere la cima della perfezione cristiana, nulla o fors’anche un sorriso di compatimento. – 2 I FIGLI DEL SECOLO E GLI INTERESSI MATERIALI. È triste la partenza degli emigranti. Con gli occhi lacrimosi, col cuore martoriato da mille sentimenti, ascendono la nave e dalla tolda si rivoltano a salutare. Povera gente che varca i mari verso un destino ignoto! Lasciati i loro cari, la loro casa, il loro campicello, il paese dei loro giuochi e dei loro sogni, la patria, tutto; ma perché? Perché sperano di tornare un giorno ricchi, riabbracciare i loro vecchi e i loro figli cresciuti e passare con loro beatamente gli ultimi giorni. Anche i figli della luce devono pensare al loro avvenire: quando questo mondo finirà, ed entreranno nei regni eterni. Eppure, sono pochi quelli che sanno distaccarsi dai luoghi, dalle persone, dalle cose terrene per accumulare meriti per il cielo. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — Napoleone per conquistare un regno patì freddo e fame, stanchezza e sonno, e si espose più volte alla guerra. Eppure, il suo regno non fu che una meteora ed egli moriva, lacrimando, sulla scogliera brulla in mezzo al mare. Cesare, sospirando l’impero di Roma, combatté le difficili guerre coi Galli, e le più difficili con i suoi rivali; eppure egli raggiunse appena le soglie del sognato impero, che cadde, pugnalato, ai piedi della statua di Pompeo. Alessandro combatté con una forza di volontà non mai vista sopra la terra e quando ottenne la signoria del mondo lo raggiunse la morte, e con lui si sfasciò il suo impero. Ma se i figli del secolo sanno patire ineffabili tormenti, superare terribili difficoltà  per raggiungere il regno d’un giorno, perché i figli della luce non sapranno sopportare piccoli patimenti, combattere le passioni, respingere la lusinga del mondo per conquistarsi un regno eterno di felicità inimmaginabile? Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — LE RICCHEZZE E IL LORO USO. Il Signore è paziente e grande nella sua fortezza. Quegli che fa tremare i monti e disseccare gli oceani, un giorno disse a Nahum, suo profeta: «Va a Ninive ed annuncia i castighi di Javé ». Il messo di Dio accorse e predicò sulla piazza ad un popolo numeroso come l’arena del mare. « Voi avete fatto più gran numero d’affari che non sono le stelle del cielo. Ma ecco che il nemico famelico vi tiene d’occhio: e quando vi avrà visto ben pasciuti si getterà sopra di voi come una nube di cavallette sui campi biondi di spighe. Prenderanno l’argento, prenderanno l’oro e non vedranno la fine delle ricchezze nascoste nei vostri vasi. Le case saranno rovinate e le sostanze disperse: dissipata, et scissa et dilacerata » (Nah., II, 10). Quello che disse il Signore al suo profeta, lo dice Gesù a noi oggi nel Vangelo. Il padrone dové ammirare tanta scaltrezza. « Che canaglia, ma che furberia! »: furberia però dei figli delle tenebre, dei cattivi immersi negli affari materiali e nelle ricchezze del secolo. Ma c’è un’altra furberia, la vera che devono imparare i figli della luce, quelli che guardano in alto, nella regione del sole. Che debbono fare i figli della luce? I beni acquistati in eredità, accumulati col guadagno, ottenuti con mezzi forse non del tutto onesti, sono chiamati « mammona di iniquità »: occasione, frutto, mezzo di ingiustizia. Quelli che li hanno a disposizione sono semplici amministratori, come l’economo della parabola: bisogna ch’essi stiano attenti a non defraudare il Padrone che sta nei cieli, ma ad amministrarli bene, a prelevare qualche cosa per i poveri, per essere ricevuti in cielo assieme a loro, che sono gli amici di Dio. Altrimenti la loro furberia sarà quella dei figli del secolo, e se la scamperanno in vita, non la scamperanno in morte: e le sostanze loro saranno et dissipata et scissa et dilacerata. « Ed io vi dico: fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze materiali e dei beni di fortuna, affinché, quando veniate a morire, vi diano ricetto nelle tende eterne ». – 1. L’USO CATTIVO. Seneca, che fu un filosofo pagano, andava torturandosi un dì il cervello per sapere dov’è la vera sapienza. Gli accadde d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argilla, ma s’accorse che aveva in cuore tanta brama d’aver vasellame d’oro: concluse che quello non era un uomo saggio. Gli venne poi d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argento beveva in una coppa d’oro; lo interrogò e seppe che mangiava e viveva con tanta semplicità come se il vasellame fosse d’argilla; e concluse: questi è l’uomo saggio. Anche il Signore Gesù aveva detto chi erano i ricchi saggi ed i ricchi stolti, quando distinse due specie di poveri, quelli di spirito e quelli di mezzi. I poveri di spirito sono anche i ricchi, quando non sono attaccati ai beni della terra e non dimenticano quelli del cielo, e vivono in semplicità, con l’animo medesimo con cui vive anche il povero. Quando è così, buone sono le ricchezze, dice S. Agostino, perché sono usate come vuole Dio, per operare il bene. E la Scrittura chiama beato quel ricco « che si è elevato sino alla comprensione del povero e dell’indigente ». Ma quanto è difficile essere savi fra le ricchezze! Sentite ancora Gesù: «In verità vi dico: un ricco entrerà difficilmente nel regno dei cieli. E aggiunge: è più facile per un cammello passar per la cruna d’un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli »: e nel Vangelo di quest’oggi le ricchezze sono da lui chiamate mammona iniiquitatis, perché spesso sono frutto, occasione, mezzo di iniquità. La S. Scrittura chiama la cupidigia simulacrorum servitus; ah! quanto è vera l’espressione, quando l’idolo di cui s’è schiavi è la ricchezza! Per l’avidità di possedere, quanti mali acquisti fa l’uomo! speculatore, gioca sul danaro altrui con false notizie; capitalista, sfrutta il bisogno con un interesse da usuraio; industriale, non ripaga equamente l’operaio; commerciante, altera il peso, la misura, la merce; operaio, inganna il padrone. Così le ricchezze sono frutto di iniquità. Quando le ricchezze si hanno, divengono spesso mezzo di peccato: e si pongono nello scrigno avaramente o si spendono all’osteria, nelle sale, nei teatri, per i piaceri, per il fango; così come il ricco Epulone e come il Figliuol Prodigo. Ah, è troppo inumano che il denaro grondi sudore altrui o sprema sangue, ah! è troppo vergognoso che divenga mezzo di peccato. Domandate alle famiglie in dissidio la causa perché son divise, e vi risponderanno: il denaro; domandate alla società la causa dell’odio, delle inimicizie, delle lotte fra il ricco ed il povero, e vi risponderà: il denaro; domandate a quell’uomo perché ha perso la fede, l’onore e vi risponderà: per il denaro; domandate a quell’altro perchè ha dimenticato il suo dovere e vi risponderà: per il denaro. Denaro, sempre denaro; ah! è una ben triste occasione di peccato, il denaro! E se poteste domandare a tanti e a tanti perché sono nell’inferno, ancora con un gesto disperato e con un singulto orribile vi risponderebbero: per il denaro. Morì il ricco e fu sepolto nell’inferno ». La furberia dei figli del secolo non chiude quelle porte di fuoco. – 2. L’USO BUONO. Nell’Antico Testamento e vi erano due specie di sacrificio: un sacrificio che uccide la vita e un sacrificio che dona la vita. Noi conosciamo bene il primo: la giustizia divina, che fulmina e scuote e strappa i cedri del Libano, esigeva sacrifici di sangue che spruzzava di rosso l’altare, sacrifici di fuoco che consumava la vittima. Ma vi era l’altro sacrificio di cui parla l’Ecclesiastico: Qui facit misericordiam offert sacrificium. (Eccl., XXXV, 4). Se con sacrificio di sangue si onora la giustizia divina offesa, col sacrificio dell’elemosina si onora la bontà divina, dolce e amabile che vuole la vita del peccatore, che non ha pensieri di afflizione, ma pensieri di pace. « Beati questi misericordiosi, perché otterranno misericordia » disse Gesù nel Nuovo Testamento, e la otterranno più splendida nel dì finale. Nel dì finale il Re dirà a coloro che sono a destra: « Venite benedetti, perché  ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; sete e mi avete dato da bere; ero pellegrino e mi avete ricoverato; nudo e mi avete vestito; malato e mi avete curato, prigioniero e mi avete visitato ». « Quando, o Signore, abbiamo fatto questo? ». – «Ve lo dico in verità, tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me medesimo ». Ora le capite le parole del Vangelo: « Colle ricchezze fatevi amici che vi riceveranno in cielo »; quanti, dopo averle udite e dopo averle meditate, hanno distribuito ai poveri i loro averi, hanno riparato alla ingiustizia, hanno reso la merce defraudata: e si sono fatti amici in cielo. Ora le capite le parole della Sacra Scrittura: « La elemosina copre non solamente i peccati, ma la moltitudine dei peccati »; « come l’acqua estingue il fuoco, così l’elemosina estingue la colpa ». Ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che non si considera un padrone assoluto, ma nel tempo e secondo i limiti che il Padrone Assoluto Eterno ha stabilito: ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che, quando ha soddisfatto alla propria necessità, alla convenienza della sua posizione, alla esigenza della sua famiglia, il resto lo dà ai poveri. Ora capite che l’elemosina diviene frutto, mezzo, occasione di giustizia. Chi ha rubato e non trova l’antico padrone, chi ha danneggiato e non può riparare il danno, chi ha ereditato male e non può far più nulla; tutti costoro con l’elemosina convertono mammona iniquitatis in frutti di giustizia che raccoglieranno in cielo. Colui che penetra nel cuore e nell’anima del tapino per diffondere un po’ di luce fra tanto odio, per portare la pace e la grazia del Signore fra tanta miseria e fra tanta colpa, costui conquista anime e fa veramente amici in cielo: l’elemosina è occasione di tanto bene. « Chiudi la limosina nel seno del povero, e questa pregherà per te contro ogni male: essa è come sigillo dinanzi a Dio che segnerà il libro di vita, essa è come pupilla dell’occhio di Dio e irraggerà di luce in cielo » (Eccli., XXIX, 15). – V’è nella vita del B. de la Colombière questo piccolo episodio autentico. Un ricco gentiluomo di Francia era morto dopo aver vissuto la vita galante di società. Il primo marzo del 1680 un’umile e santa suora della Visitazione lo vede mentre prega in coro e ascolta le sue parole: « Ah! quanto è grande Iddio, e giusto e santo! Nulla è piccolo ai suoi occhi, tutto è pesato, punito, ricompensato ». « Avete ottenuto misericordia? » domanda la suora. « Sì, per le elemosine ai poveri ». E sparve. Costui ha trovato in cielo i poveri suoi amici: e fu salvo. Li troveremo anche noi, che ci spaventiamo, guardando ai nostri peccati e al giudizio di Dio?

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine?

[Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (213)

LO SCUDO DELLA FEDE (213)

MEDITAZIONI AI POPOLI (I)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE I.

Una cosa sola importa, salvare l’anima nostra

Quale conforto per un ministro di Gesù Cristo! Egli, ogni volta che si presenta ad un popolo nelle chiese, trova sempre una famiglia di figliuoli tutti adunati nel bacio santo di carità intorno alla mensa del comun Padre, l’altare, e sopra l’altare il Crocifisso cogli occhi sopra noi, colle braccia levate al cielo, per dirci: « O figliuoli del Sangue mio, sto io qui con voi in Sacramento per menarvi al Padre nostro che vi aspetta in paradiso: » e appiè della croce trova pur sempre Maria Santissima da Gesù lasciataci per madre, la quale vuole noi suoi figli avere tutti beati in seno alla bontà di Dio! Ora mandato che io sono da Gesù Cristo a trattare con voi del più importante interesse vostro, di mettere in salvo le vostre anime e scamparvi dalla più orrenda disgrazia, la dannazione, io con tutta l’anima abbracciandomi a voi dico la prima parola che mi vien dal cuore: cari fratelli, non andiamoci a perdere in questa povera vita che ci vien meno tutti i momenti. Vedete, dice s. Basilio, noi siamo come un albero piantato sulla riva di un fiume, a cui la corrente mangia il terreno sotto. Viene un’ondata, e scava la voragine; e la pianta scherza colle radici nell’acqua: un’altra ondata, e il ciglione della riva si abbassa e la pianta si siede abbandonata sull’onda, che soavemente le lambisce le frondi. Intanto fiorisce a pompa, e si promette abbondanza di frutti: quando ecco la travolge un fiotto di piena…. Dov’ è l’albero allora? È scomparso per sempre. No; guardate alcuni passi lontano, e lo vedete rigettato alla riva tra i ributti delle acque nella melma, colle radici squallide come l’ossa di uno scheletro. Signori! anche noi su questo suolo mal fido del mondo, mentre il tempo ci porta via di sotto ai piedi la terra, siamo qui fiorenti in lieta vita: noi colle sempre di speranze ci promettiamo abbondanza di beni fino all’ultimo istante che ci trabocca nell’eternità. Ahi! intanto vediamo scomparire molti dei nostri: e che sarà di loro travolti non preparati in quell’orrido abisso?…. Io mi rivolgo a voi, per supplicarvi di provvedere in tempo per le anime vostre, affinché non vi troviate disperatamente perduti, e farò con voi quello che vorreste voi fare ad altri. Dite, ditelo voi: vedeste il vostro fratello costruire con tutto dispendio la casa colà, dove scoscende a falde il pendio del suolo, ben vorreste gridargli: fratello, non fare; perché a momenti l’edificio tuo rovina, e tu ti perdi con esso! Anche noi, vedendovi con tanto affanno edificare qui la vostra fortuna, vogliamo di qui avvisarvi che, dandovi a tutto uomo in affari di terra, fabbricate nel mondo sopra un’arena fluente, che vi scorre via di sotto: vogliamo gridarvi: ahi! che a momenti vi sprofondate nella tremenda eternità, in cui vi troverete o paradiso o inferno, che duran sempre! Noi qui di sotto alla croce, caldi del Sangue di Gesù che versò per salvare le anime nostre, vi stendiamo le braccia, per mettervi in sicuro in seno a Lui: anzi ci gettiamo ai piedi vostri pregandovi tremanti di spavento… Deh mettiamoci col cuore sul Cuore del Salvatore di tutti a ben meditare questo: che una cosa più di tutte l’importa, salvar cioè l’anima nostra, e che tutt’altri interessi paragonati a questo non sono che misere vanità: porro unum est necessarium (Luc. 10); perché scompare a nulla tutta la vita nostra presente quando si pensa, che va a finire in paradiso o nell’inferno per sempre. Grande verità che ben meditata, sì, ci farà risolvere di salvarci. – A questo fine noi ci presentiamo a voi in questa missione, questo solo veniamo a domandarvi, di questo vi scongiuriamo: salvate l’anima vostra! E se mai ci udirete a gridar alto, e tutta ardenza, anzi come fuor di noi nel fremito di un angoscioso terrore, ci perdoni la vostra pietà; e dite fra voi medesimi: povero padre! e’ vorrebbe salvare tutti: oh come stride per ispavento al sol pensare che di noi si possa perdere un solo. — Se noi non abbiamo meriti, che ci raccomandino, guardateci al cuore che non può amarvi di più, perché vi ama dell’amor di Gesù Cristo; e sian meriti nostri la vostra bontà. – Salvatore nostro benedetto, purgate prima di tutto queste nostre labbra di fango: e dateci quella parola che, se mortifica, vivifica; se spaventa, poi consola: ed essa saprà svellere, saprà piantare: saprà distruggere, ma meglio edificare; e mandateci dalle fiamme. del vostro Cuor di bontà tutta divina un raggio di quella luce, che fa vedere il nulla della vita del mondo del tempo presente dirimpetto al paradiso e all’inferno, che durano eternamente. O Maria santissima, benedetta Madre, che tutta aspersa del Sangue di Gesù Figliuol vostro divino, ci avete ricevuti per figli, Voi vi siete accordata con Lui del modo di salvare queste anime nostre, che tanto Sangue costarono al nostro Gesù, e costarono tanti dolori al vostro Cuore. A Voi consacriamo questa predicazion nostra: Voi otteneteci la grazia e il frutto di vita eterna colla vostra materna benedizione. Angeli e Santi, intercedeteci misericordia. ( Ave Maria. — Omnes Sancti et Sanctæ Dei, intercedite pro nobis). In questo solenne momento, nella presente quiete della chiesa, fuori delle agitazioni del mondo che passa, cerchiamo di ravvisarci davanti a Dio. Dove ci troviamo noi ora? Facciamo come quel beato san Francesco d’Assisi là sul monte d’Alvernia; con una mano sul cuore diciamo a noi stessi: anima mia, dove siamo in questo istante!… Santa fede! qui sollevato tra il cielo e la terra, sopra del capo mi sta aperto il paradiso, sotto i miei piedi mi è spalancato l’inferno: spinto senza posa verso l’uno e l’altro di questi termini, pendo attaccato ad una vita sottile come un filo di ragnatela: e dove cadrò a momenti? Non lusinghiamoci, noi corriamo rapidamente alla morte. Se guardiamo indietro, che spavento! una gran porzione della nostra vita è già passata; se guardiamo innanzi,… questo pensiero cupo ci piomba sul cuore: forse da qui a dieci anni, forse da qui a un anno, ahi! forse in questo mese la mia carriera è compiuta, io cado morto…. la mia sorte è gettata! e sono nel paradiso o nell’inferno per sempre. Signori! non conviene punto fare l’intrepido, ostentando di non avere paura!… Ci Sconvolge le idee questo pensiero: la mia Religione sicura a tutte prove, la Religione, che mai non ingannò nessuno, mi dà per certo, che ancor un poco, e poi o sarò beato in paradiso, o sarò nell’inferno dannato per Sempre. Saremo in paradiso?… Apriti, o cielo !… Là in paradiso vi è quel gran popolo di tribolati, che in miseria di ogni cosa di mondo strascinando le loro croci appresso al Salvatore Gesù, arrivarono all’eterno regno: là tante povere donnicciole, ricche di virtù solamente note a Dio: esse nascosero qui le loro lacrime disprezzate in seno al grande Amico degli afflitti; ora eccole là nella beata gloria di Dio. Ve? in paradiso quei Cattolici coraggiosi, i quali, mentre l’accozzaglia dei vili per rispetto umano era strascinata a far guerra alla Chiesa, frequentarono i Sacramenti in vita devota ed ora tutti i malnati in disperazione eterna; ed essi per sempre felici in paradiso. Là vi sono ricchi in carità, là servi fedeli entrati tutti a sommergersi nell’eterno gaudio del loro Signore. Là le schiere di quei Martiri, che resistettero a tanti tormenti. E che tormenti, mio Dio, e che tormenti!… Strascinati negli anfiteatri (lo accennammo nelle Conferenze), si aizzavano contro a quei santi cristiani i leoni, le iene, le tigri. E il lione dava dentro nel petto nudo al giovanetto che l’aspettava fermo; quindi versando le viscere per terra veniva divorato col grido sulle labbra: viva Gesù!… oh paradiso!… e saliva allora in paradiso. E la madre cristiana colla figliuola esposta alle fiere, quando la iena le si slanciava alla gola, la trascinava con tremendo ruggito pel Circo col collo tra le zanne gridando: coraggio o figliuola, viva Gesù!… al paradiso!.. moriva strozzata: e da quel punto ell’è beata in paradiso! E quando la, tigre fremente acceffava nel petto la verginella (e lungo il circo mandavano un urlo fino quei crudi !), di là quell’angelo divorato in terra volava cogli Angioli in paradiso! Racconterovvi tra mille un sol fatto. Santa Potamiena verginetta, fior di bellezza nei sedici anni fu dal sozzo padrone, che la solleticava a vitupero, accusata come ella era cristiana. Il giudice, perché restava pura e a Dio fedele, la condannò ad essere calata viva in una caldaia di pece bollente. Attaccano la caldaia gli sgherri, e soffiano sotto nei carboni ardenti quelle faccie di fuoco. Gorgoglia la pece, e si travolge nei vortici spumanti. I crudeli depongono coi piedi nudi nella caldaia ardente la verginella, che si serra le vesticine alla vita. Ahi!.. stride la pece, si copre di fumo e salta via spruzzando, quasi inorridita di cuocere tanta innocenza; e Potamiena in quella atrocità esclama: oh Gesù!.. ancor un momento! Viene calata giù sino alla vita; e Potamiena vedesi intorno le carni ricotte e il sangue grommato galleggiar tra le bolle della pece avvampante. Oh Gesù mio… ancor un momento!.. e vien calcata giù fino alla gola. Potamiena non ne potendo più, lascia cadere la bionda testolina dentro la pece, con l’ultimo gemito: Gesù, Gesù mio… O paradiso!… Miei fratelli, sono mille e cinquecento anni ormai che quell’angioletto in quel gaudio eterno… esclama beato: che brevi momenti son questi secoli di paradiso! Intanto il gentame degli spensierati del mondo di quei tempi, come nel povero mondo nostro presente, sdraiati su per gli scaglioni del Circo gridavano agl’imperatori: dateci pane e giuochi; e vadano pur a morte i Cristiani matti dietro alla vana speranza di una sognata vita futura!… Signori, dove sono ora quei godenti?… Verità di Dio!… Spalancati, o inferno… e in quel truce fuoco, che la fede rivela, vedeteli arrovellati in quel mare di disperati dolori. Cercano la morte, ma trovano una vita che la tremenda parola di Dio chiama la morte eterna! Ancor vi domando, se quei beati godano un paradiso migliore di quello che siete destinati a godere voi, o fratelli, e se quell’inferno è più orrendo di quello, in cui precipiteremo noi (ce lo minaccia l’immancabile parola di Dio) ove non pensiamo a salvare l’anima nostra?… Ah che sopra la terra, tra il cielo e l’inferno, tuona tremendamente vera la gran parola del Salvator nostro: quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? Che giova all’uomo, guadagnasse pur tutto il mondo, se va dell’anima dannato per tutta l’eternità? Da questo tuono balena un lampo di luce dell’eterno vero, che spalanca la terribile eternità davanti a noi, e manda a nulla codesto mondo che dura un’ora! A noi adesso qui confinati in basso pare certo la gran cosa la vita, cui c’immaginiamo bella dell’incanto della fantasia in un avvenire a mille colori storiato, e senza confini. Eh posso vivere, diciamo nei nostri calcoli, ancora vent’anni; poi anche trenta. Si, bene immaginatevi anche gli ottanta! Più in là no, ché a ottant’anni anche i bambini qui che non hanno messo ancor vita, saranno già tutti morti: e godiamo pure coll’inganno della speranza di tutti quegli anni, senza pensare mai di doverci trovare già in faccia alla morte. Quasi la morte debbaci fuggire sempre dinanzi, come fa l’arco dell’orizzonte, il quale, più cammini, più ti sfugge lungi egualmente. Così avviene a noi, come a chi misura, figuratevi, una gran torre, collo sguardarla dai piedi alla vetta. Essa pare di un’altezza che spaventa. Ma fate, ch’egli s’innalzi sulla vicina montagna, e di là guardi. Dov’è la torre tant’alta! Oh!.. la vede in fondo alla valle che spunta appena tra le chiome degli alberi. Signori! innalzatevi da questi pochi anni di vita col pensiero alla eternità. Se da qui a mille e mill’anni ci troveremo in Paradiso, ovvero (deh! che la misericordia di Dio ci scampi) ci trovassimo mai nell’inferno… ah tutti gli anni della vita nostra ci appariranno come un breve momento, come un lampo di visione confusa! Sì veramente da quest’altezza dell’eternità è da vedere il nulla della vita umana! Di là, osserva s. Giovanni Grisostomo, questi grandi faccendieri che si disputano un palmo di terra, che si fan ricchi sulle altrui miserie, questi grandi politici, che scavalcano gli emuli nella presente palestra del mondo; sì, di là appaiono come quei fanciulletti, i quali nei giocarelli incoronano un compagno con una corona di carta dorata, e battono le manine a lui d’intorno; finché un altro più arditello strappagli via la corona di carta. Di loro chi ride e chi piange; ebbene ei fanno il giuoco di noi: chi ride e chi piange, chi in fortuna e chi nella sventura; e ridenti e piangenti, e fortunati e disgraziati roviniamo tutti confusamente nel sepolcro: e il sepolcro è la porta della tremenda eternità. Di qui intendete che, se pei mondani la vita è una festa, la è una festa che dura un’ora; che l’ambizione è vapore che stordisce, gli onori sono nebbia che passa, i piaceri frutti, che san di lazzo; e le ricchezze polvere, che si scuote via correndo nell’eternità: e che in verità poi il tempo del viver nostro non è che un passaggio al paradiso o all’inferno che duran sempre. Noi, nel vedervi andare tanto sicuri in questo bivio tremendo, faremo con voi come racconta san Leonardo da Porto Maurizio aver fatto un buon uomo. State attenti. Un giovane signore camminava un di entro una gola di monti, quasi grande affare l’urgesse. Era d’inverno » l’aere nebbioso, ghiacciato il sentiero dopo caduto il nevaio; ed egli non conoscendo bene il suo viaggio, tirava avanti alteramente a casaccio. Quando un buon uomo gli grida dall’alto di un monticello: indietro, signore! indietro da quel sentiero. Ma quegli, come indegnato di quell’audacia, tirava avanti con un fare impettito. Il buon uomo sì gli stride appresso più forte: indietro vi dico! Ma colui in dispetto: e che v’importa, se io vado per dove mi piace? — Che m’importa? risponde l’altro gridando più forte, m’importa salvarvi! Voi camminate sopra una crosta di ghiaccio: un tetro lago vi si sprofonda sotto… ancora un passo, si rompe il ghiaccio e… Ma date indietro per carità! L’ardito giovane ristà….; e si rivolge indietro, e guata quel pericolo, in cui alcuni animali andavano sbandati. Oh!… Si ruppe il ghiaccio! e sprofondarono nel lago. Anche noi qui sollevati dai piedi del Crocifisso nel vedere gittarsi a perdere i nostri cari gridiamo col cuore che fa sangue: indietro da quella via di peccato! Che? Continuate ancora?…. Guardate innanzi. Quegli era pure un giovane più baldo di voi: calpestava ogni fior di virtù, e voi sentite ancor il rumore de’ suoi scandali. Veniva questa notte dall’osteria ubriaco, veniva dalla tana di… Abbiamo sentito un colpo! cadde morto!.. Si è rotto il ghiaccio: oh!… è sprofondato nell’eternità! … Finalmente, diceva ieri una giovine sposa, sono giunta al sospirato matrimonio: ed ebbe un bel gridare il prete contro il mio continuare all’amore: io intanto in questa casa sono fortunata per sempre. Che è? sentite le strida in quella famiglia?… La poverina ha cessato di vivere !… Si è rotto il ghiaccio oh!… è sprofondata nell’eternità! A me poi, dice quel ricco, va tutto bene: quest’anno la raccolta mi si promette abbondante, farò allargare i granai…. — Stolto! questa notte è chiamato al giudizio di Dio! Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te. Si è rotto il ghiaccio: oh… meschino! era là che faceva i suoi conti e cadde morto colla faccia sulle carte dei conti! Morirono questi in mezzo ai disordini di una povera vita. E noi, al vedere tante splendide scene del mondo terminare nel buio della tremenda eternità spaventati tratteremo con voi, come s. Paolo trattò in Atene coì più gran dotti dell’universo. Corsa voce ch’era venuto fra loro questo Giudeo portatore di una nuova sapienza, si avevano essi dato il convegno nell’Areopago, e stavano con quel loro gran fare sui loro stalli per dar giudizio della nuova dottrina, disprezzando con sogghigno velato, già prima di averlo udito, quell’omiciattolo da nulla, che appariva s. Paolo. Ma egli: Signori filosofi, voi aspettate ciò che io vi abbia a dire di più importante. Ebbene! v’è un Dio sommo che voi poi non ignorate del tutto, il quale vi aspetta al suo giudizio. Si muore, signori, e dopo la morte si risorge a vita pel paradiso o per l’inferno per sempre! Quei dotti restarono come da tuono percossi all’intronar di quella parola piena d’eternità. Ma riavutisi tosto, e sforzatisi d’ostentar dello Spirito, ammiccaron tra loro cogli occhi: e Straniero, gli dissero, non hai tu nient’altro che dirci? E s. Paolo: Niente altro per ora: ma a nome di Dio per cui siete vivi quì vi avverto che si muore, e che dopo la morte, vi è la risurrezione all’eternità!… Allora queglino a lui: Venditore di ciance! va: che ti ascolteremo un’altra volta! Restarono superbamente increduli molti; alcuni però vi pensarono ben bene sopra, corsero appresso a s. Paolo, e trovata vera la sua dottrina, si convertirono. Questi morirono santi: morirono anche quei peccatori. Ma sono già mille ottocento anni che quei convertiti stanno in paradiso e che quei morti in peccato sono nell’inferno. . Sì veramente! dice Platone, il filosofo antico più dotto, la morte mostra da qual parte stanno i prudenti, e da qual parte stanno gli stolti. Ora anche noi colla potenza dell’eterna verità veniamo a mettervi dinanzi il nulla del mondo in faccia al paradiso e all’inferno, in cui saremo forse a momenti. Perocché, dice lo Spirito Santo, voi siete come gli alberi, che il padrone getta a terra quando gli piace. Se tu meni la scure a piè di un albero, da qual parte egli cadrà? a destra o a sinistra? Certo dalla parte verso cui pende, e quivi starà. Ora mano alla coscienza: se il colpo del taglio m’incoglie in questo istante, da qual parte io pendo?… Ho più meriti pel paradiso, o più peccati per lo inferno!… Gran Dio!… credere che abbiamo l’inferno spalancato sotto i piedi; sentire il peso dei peccati che ci trabocca già dentro, e restare sopra il baratro nella più stupida indifferenza. Eh! la ragione umana non può fare così. « Parleremo noi col linguaggio della nostra madre la Chiesa, e bisogna, pur confessarlo (dice, e non un santo padre, ma il filosofo Pascal), che qui vi è la mano di un essere fuor di natura che ci chiude gli occhi: è la mano del nemico delle anime che tiene saldi i peccatori colla costanza di demonio, perché non tremino sopra l’abisso d’inferno! » Intanto come quegli sciagurati (l’avete udito voi l’altro d’) che nelle delizie dei dintorni di Napoli, allorquando si sentiva il cupo rombare del tuono nelle viscere della terra, e dal suolo in sussulto già sbuffavano le fiamme, e già il furente Vesuvio eruttava una fiumana di fuoco, e il buon popolo era in processioni di penitenza!.. essi pigliando tutto a divertimento, pur tra le ceneri ed i lapilli che tempestavano, correvano incontro a goder dello spettacolo… Ahi, pur troppo! ducento e più venivano travolti in quel fuoco furente, immagine d’inferno. Così anche i poveri nostri fratelli in peccato, nelle delizie della vita presente, tra i gemiti di tanti che ci muoiono d’intorno, corrono a gettarsi in perdizione in gola alla morte. Su, su salviamoci noi dall’inferno che minaccia d’ingoiarci! O fratelli, immaginatevi che accada qui uno spaventoso cataclisma (come avvenne già tante volte, può avvenire ancora nei nostri paesi) in quest’ora. Oh se voi vedeste!.. che è mai? Ahi si abbassa la terra sotto dei nostri piedi! Ve’! ve’! che si sprofonda il suolo, gorgogliano fuori le acque dappertutto, diventano laghi i cortili, i giardini, sono già un mare le campagne. Ahi si sommergono le case: fuggiamo, fuggiamo sulle alture. Ma s’inabissano fin le montagne. Tutto sparisce… Oh Dio! i nostri annegano tutti! le acque raggiungono la vetta! Ci sono già alla vita… poveri noi che affoghiamo! mettiamo orride strida!… Ma si vede un naviglio che voga verso noi per tentare salvamento…. Salviamoci, salviamoci!… Anche i più timidi si slanciano a combattere coi fiotti, per giungere a bordo del naviglio salvatore. Ah fratelli miei, che noi siamo proprio nel pauroso frangente! Sentite che ci manca sotto la vita! noi caliamo senza posa giù; abbiamo l’eternità alla gola; già c’ingoia l’inferno!… Spingetevi fuori da quell’occasione, o questa notte forse vi restate sommersi!… fuggite via da quella casa, in cui ormai restate sepolti in peccato!… Gettate quel peso dalla coscienza, che vi tira giù nell’inferno!… scappate fuori da quel mal abito, che vi affoga nel baratro della disperazione. Ecco, ecco Gesù Salvatore sulla nave: gridiamogli incontro con le braccia stese: Signore, salvateci, che noi andiamo a dannarci: « Domine, salva nos, perimus! » – Scuotiamoci; risolviamo! E perché restate ancor incantati alla vista del mondo? Via, imparate da questo fatto come dovete trattarlo. Tommaso Moro, gran cancelliere, dal sozzo eretico re d’Inghilterra Enrico, egualmente tiranno che assassino dell’anime, perché restava fedele al Papa, veniva condannato a morire. Imprigionato in sotterranea secreta, vestito a sacco, sopra un po’ di paglia in ginocchio e’ si preparava alla morte, fermo, come chi sa di combattere per Dio. Quando sente sbarrarsi la porta del carcere. Tommaso crede venga il carnefice, fa il segno di croce, e si volta imperterrito ad aspettare il colpo. Ah vede, chi?…. la sua giovine sposa, sparsi i capelli, squarciata sul seno la veste a lutto, colle braccia a lui stese si getta abbasso in quell’antro gridando: o mio Tommaso!… Tommaso balza in piedi; e la sposa.. si slancia sul petto a lui in uno scoppio di pianto. O consorte mio, cedete al re; vi porto la sua grazia: rinunziate al Papa!… Ma la pena del duolo le strozza la voce in gola… In quest’affanno sollevati colla mano i capelli… con due occhi in volto pieni di dolore infinito, singhiozza: salvatevi, Tommaso mio, salvatevi! In quella corron giù stridenti i suoi bambini; e stringergli le ginocchia, e baciargli le mani: Padre! gridando, no, padre non muori! Scappa via con noi! Tommaso trema tutto fremendo un istante. Poi: sposa mia!.. dimmi, se io cedo all’eretico re, quanto tempo potrò godere insieme con te de’ suoi favori? La sposa: Ah, principe mio, voi siete in buona età, sincero di complessione, robusto di forze: voi potete vivere ancora vent’anni… Lasciatelo dire all’amore della vostra sposa, anche trent’anni. Vent’anni!…. dice Tommaso, trent’anni… che tu non mi puoi assicurare!… Eh vuoi che io li cambi coll’eternità del paradiso, che mi assicura l’immancabile parola di Dio?.. Brutto cambio che mi proponi?… Va, va, che sei una mercantessa ben stolta! recede a me, stulta mercatrix! Così dicendo si slega dalle braccia della sposa, colla mano sul petto la respinge indietro, e muore martire. Signori, ci tradisce il mondo, il quale, nulla curandosi di noi, se andiamo dannati, ci promette beni; e non ce li assicura un sol dì; mentre la parola di Dio ci assicura il paradiso per sempre. Deh! coll’inferno aperto sotto dei piedi, col paradiso innanzi da conquistare, tutti gli altri affari del mondo non sono che misere vanità. Tutto adunque è vanità, dice la Sapienza divina, fuorché amare e servir Dio, e così salvare le anime nostre. Porro unum est necessarium: questo, questo solo è necessario, dice il Salvatore nostro, che vuole non si perda nessuno. O figliuoli degli uomini, e fino a quando amerete le vanità, e spenderete tutta la vita in un lavorio che dura un istante? Grandi faccendieri in questi affari da niente, voi siete simili, dice s. Giovanni Grisostomo, a quell’insettuccio, che ragno è detto comunemente. A vederlo girare tra le cortine ed i festoni della sala, sembra che mulini anch’esso un gran disegno, e specoli il campo, dove poterlo eseguire. Allunga una zampetta, assaggia il terreno; non è da ciò: stende l’altra, e la ritira; poi si slancia ardito dall’alto in mezzo al vano della finestra e pende dal filo che gli esce di bocca, e gli consuma la vita; e là in aria in quel vano già si dà vanto il superbetto del suo grand’ardimento. Aspetta un buon alito di vento, e si getta con esso ad attaccare il filo in una imposta; e dice in se stesso: va bene la mia fortuna. Ad un nuovo soffio di vento di buona ventura attacca il filo dall’altra, poi torna a bomba in mezzo: gira e rigira, e fa quei cerchietti concentrici, ognora più stendendo le fila del suo dominio. Li ferma a nodi, a mo’ di raggi, e pone nel centro la sua casetta, o il suo gran palagio, ché tale debbe sembrare alla sua testolina… Di là adocchia, se un moscherino s’impigli nella sua ragna, e gli salta alla vita, gli succhia il sangue, e porta gli avanzi nella sua casa. Allora egli come un piccolo re si mette in mezzo al suo possesso, pendente sui fili in aria col ventre al sole in goderie, e par che dica, sono il padrone del mondo. Ma entra il padrone nella sala: vede quella schifezza, chiama stizzito la fante, e, buttala via, dice, quella bruttura. La donna alza la scopa, dà un colpo… e di tutto quel grande lavorio del gran re, e del suo bel mondo che mai vi resta? Una macchia schifosa, dove rimane l’insettuzzo schiacciato sotto del piede. Signori! fanno così gli uomini del mondo, massime nel nostro tempo. Si slanciano arditi ad ogni cimento, attraversano i mari, legan le fila dei grandi commerci, portan l’oro d’America, specolano alle borse, tiran partito delle altrui disgrazie; comprano, comprano: poi in mezzo ai grandi acquisti fatti, ricchi già tanto, da non curarsi più della Chiesa e ridere dei Sacramenti, adoratori pur solamente dell’idolo borsa, lasciano alla povera gente di essere buoni Cristiani e di salvare le loro animette. Essi sono grandi!….. E chi è mai Dio per costoro?… Chi è Dio?!… È il gran padrone dell’universo, il quale guarda quel ributto orgoglioso della creazione, fa un cenno alla sua serva, e la morte dà un colpo!… Dove è il superbo del mondo?.. Non vi resta di lui che una lurida macchia dove rimane schiacciato sotto il piede della morte nel fango del cimitero. Ah che questi affari della terra, quando ci disputano tutta la vita, se sono più che vanità, sono tremendi inganni! Dice sant’Eucherio che e’ sono come tanti anelli di una gran catena, la quale pende dall’alto, in cui uno va dentro e si lega nell’altro: e chi colle mani s’abbandona lungh’essi, dall’ultimo anello é lasciato cadere in rovina. Gli affari sono come i fiotti del mare, che passan l’un sopra l’altro; e la vita è la navicella che volge ad ostro od a ponente a seconda delle soffiate di vento di buona o cattiva fortuna; finché viene l’ultimo colpo del maroso che la sprofonda a naufragio. Ma intanto noi corriamo alla morte!… La vita umana adunque, dice s. Basilio, è somigliante ad un cammino, che va a terminare in un gran precipizio. Ben noi siamo avvertiti, che la legge è pubblicata, che bisogna spingerci innanzi sempre; eppure ci lusinghiam di fermarci. Ma una voce tuona continuo: avanti, avanti! Entriamo nella gioventù, e noi come in mezzo a prati fiorenti, noi vogliam folleggiare; ma una voce ci grida avanti, avanti! ed una mano ci tira innanzi… Passiamo nell’età virile, ivi a noi pare di trovarci tra campi pieni di biade e di frutta; e qui affannarci a fare raccolta, e vogliam fermarci a goderne; ma una voce ci grida: avanti, avanti! e una mano ci tira innanzi… Andiamo innanzi: oh i prati sono più pallidi, i fiori meno ridenti, meno chiare le acque, la campagna diventa più squallida: cioè sono già bianchi i capelli, s’incurva il dorso, le bellezze sì fanno sparute, monotona diventa la vita, proviamo un tristo sentore del precipizio che non può essere lontano! Vorremmo restarci; ma una voce ci grida: avanti, avanti! ed una mano ci tira innanzi… Ahi che squallore d’intorno! dirupato il sentiero, tentenniamo nei passi. Abbiamo varcato i sessant’anni, presto i settanta….. E i compagni di viaggio con cui scherzavamo fanciulli? Scomparvero tutti; tutti caduti nei precipizi lungo la via!…. Buon Dio, ci vien meno la vita! Vorremmo fare posata un istante; ma una voce tuona più forte avanti, avanti! ed una mano ci strascina innanzi… Ve?!… siam giunti soll’orlo dell’abisso; ci gettiamo per terra, gridiamo atterriti: deh un po’ di tempo ancora! ma rintuona la voce: avanti, avanti! ed una mano ci urta innanzi… Ahimè! l’orrore ci turba i sensi, ci gira il capo, si offuscano gli occhi; freddo sudor alla vita, e noi nelle ansie dell’agonia diam l’ultimo passo…. precipitiamo nell’eternità, sepolti nell’abisso del sempre, ch’è o paradiso o inferno! … Dietro di noi orrendo fragore: è il tempo che con tutte le cose rovina nel nulla; e l’eternità sempre rintuona: Porro unum est necessarium: questo solo importa, salvare l’anima nostra in paradiso…. – Deh! prima che io discenda, sì io ancora col Crocifisso innalzato qui tra il paradiso e l’inferno!… Guardate Egli Dio!… Ei venne di cielo, e lasciossi coronare la testa di spine per salvare le anime vostre…. E voi non volete darvi un pensiero? Ve? ve’ che lasciossi squarciare le mani per portarvi via d’inferno!… E voi non vorrete muover una mano per mettervi in salvo? Ah ah! come lasciossi lacerare questi piedi, per menarvi seco in paradiso!… e voi non vorreste far un passo neppur per confessarvi e da Lui lasciarvi menar in cielo? Dio, dirovvi colla eloquente parola di san Giovanni Grisostomo, Dio stesso ha paura… perché Egli sa ciò che vuol dire paradiso ed inferno: sì Dio ha paura…. che noi andiamo dannati!… E noi cì ridiamo della sua paura?…. Miserabili, miserabili troppo!… Oh nostro buon Gesù! Voi qui con noi col Cuor che fa Sangue aperto; nel Sacramento … là là…. noi vi giuriamo sul vostro Cuore che ci vogliamo salvare.