LO SCUDO DELLA FEDE (200)

DIO GI LIBERI CHE SAPIENTI! CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (3)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878 – TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA San Pier d’Arena – Nizza Marittima.

§1

Il principio di tutta l’ignoranza è la superbia di non voler credere in Dio. (PANTEISMO).

Spez. Eh, come le. ho detto, ridono di noi, che abbiamo un po’ di fede; e ci van dicendo: « Oh… ma noi non siamo i bimbi più da farci credere, come vogliono; noi abbiamo gli occhi aperti; e prima di credere vogliam conoscere, Veder bene e ragionare. »

Par. E voi togliete loro di bocca la parola, e dite pure ad essi:« Signorini belli, voi dite di non voler credere più niente; e intanto per sapere una qualche cosa, cominciate a credere sempre; e poi da buoni buoni pensate di conoscere da voi ciò che in prima avete creduto ad altri. Aspettate che ve lo farò capire. Senza credere, voi non potreste pur conoscervi chi siete; Ed in fatto, sapete voi di essere i tali, figliuoli dei tali signori genitori vostri?… E com’è che lo sapete? Lo. sapete solo, perché lo credete a chi ve l’ebbe detto. Se voi vorreste credere a quello solamente che toccate e conoscete, le vostre cognizioni si estenderebbero ben pochi metri intorno a voi. E com’è che voi sapete che vi è Parigi, Londra e financo le Americhe; che forse non vedrete mai? E sapete poi quello che si è fatto in secoli passati, e quello che si va ora facendo da voi lontano? Voi lo sapete, perché ve l’hanno detto; o lo leggete voi; dunque lo credete. Sicché voi che dite avere gli occhi aperti, cominciaste a credere alle vostre buone mamme, pazienza a quelle buone! Ad occhi chiusi credete poi ai maestri, ai professori, e quali!… e vi lasciate imporre da loro che vi si vendono per uomini grandi, e non son talvolta che ribaldi onorati! Poi finalmente, quando vi credete liberi di pensare a vostro nodo e vi date vanto di non lasciarvi infinocchiare, finite a credere ai compagni che vi si serrano ai panni, e vi lasciate menar da loro. Così credete nei libri ai morti, credete ai vivi, credete fino ai più tristi cialtroni e più indegni… oh che disgrazia! Solamente non vorreste credere a chi vi vuole un bene della vita per amore di Dio! Per me vi dico chiaro: è perché vi non pensate. Se vi fermate a pensare un poco; così intelligenti come siete, dovete credere per forza. Udite un fatterello che vi farà piacere. Fu, non è gran tempo, a Parigi un buon dotto avvocato, il sig. Guillelmin, il quale disse di ad un avvocatino che faceva pratica nel suo studio: « Signor Lacordaire, credete voi in Dio ed alla sua santa Religione? » Il giovane, pigliato così all’improvviso, alzò la testa, e lisciandosi i baffi con quell’aria che si danno gl’increduli, risponde: « Signor avvocato principale, io? … ma credo niente io. » E di ripicco il signor Guillelmin: « Ah! Non dite così, signor avvocatino, che avete tanto ingegno. Ché se fosse vero che voi non credeste proprio niente, sareste simile al can di casa e al ciuco dell’ortolano, i quali credono proprio nulla. Ma voi crederete almeno che. Siete qui … » –  L’avvocatino: «Oh! Si che io credo, perché io mi sento. » — « Bravo, credete voi poi anche che siete nato dai vostri buoni genitori, e che il vostro signor padre non si sarà fatto: da se stesso col temperino, né la vostra signora madre colla forbice, quando ancor non erano. Dovettero dunque i primi’ genitori essere stati formati dal Creatore. » — L’avvocatino piegò la fronte sulla mano per un istante; e disse, almeno allora sincero col proprio cuore: « Si!… se v’è il mondo creato, vi è certo il Creatore! » Vi pensò sopra… vi pensò bene; Lacordaire, che con un gran talento aveva un gran buon senso, converti; si fece celebre predicatore per far pensare agli altri a convertirsi.. E noi, buoni amici miei, e noi se non crediamo a Dio?…

Spez. Oh buon signor parroco mio, il ciel mi guardi ch’io ricordi Dio a questi tali! Non vogliono neppur sentirlo a nominare!… E mi van dicendo con un fare altero: « E che bisogno v’è di credere Dio, mentre noi sappiamo come il mondo fu formato senza Lui!

Par. Ricordatevi, mio buon amico, che con chi è matto non si ragiona. Piuttosto rispondete sorridendo: Ma che grandi teste, voi che la sapete così lunga! Però io vi voglio raccontarne una fresca fresca. Questa mattina io mi trovava davanti alla Stazione. Ed ecco là venirmi innanzi la macchina a vapore che sbuffava come un gran superbo, e tronfia della sua potenza si tirava appresso sopra le rotaie un gran numero di carri, e veran sopra uomini e bestie e tante cose d’altro. Mentre io la contemplava come in un vero incanto, e diceva meco: quanto fu potente d’ingegno e di mano l’uomo che ha congegnato un così bell’ordigno che va tanto bene! Allora mi si balza innanzi un grullone di stordito, e senza complimenti dice: « Oh! se siete voi ancora bene di quei tempi!… che non sapete che quella macchina non è stata fatta da nessuno! Io sì che ho la testa fina, ed ho scoperto come si è fatto tutto. Tutte quelle cose che vi son là dentro, erano sparse per la terra e dentro le viscere de’ monti, ed aspettavano le circostanze, come dice un gran libro d’un sapiente che, oh! è cima di dotti, il dottor Buchner. Allora il rame colla propria forza. cominciò a saltar fuori, e corse a lui incontro anche lo stagno, e fecer lega, però senza pensarvi, per diventar più forti, e diventaron così bronzo bell’e fatto. Allora anche il ferro volle colar giù fuor dai duri macigni; e bronzo e ferro, l’uno diventar bei pezzi; e l’altro lunghe spranghe. Si assottigliarono quindi in varie guise e diventarono ruote e, mostrando fuori i denti corsero ad ingranarsi nelle scanalature. Avreste allor veduto in mezzo a loro congegnati insieme saltare una caldaia piena d’acqua, e il vivo fuoco dire « sono qui io » e sotto, a riscaldarla. E l’acqua via in furia tutta in vapore, e nello scappar fuori spinger lo stantuffo che incontra, in tal maniera tutte queste cose per caso si trovaron d’accordo e fanno andar là tutto così bene. — Ma che? To’ che voi, signori, non credete a me che vi possa esser stato tale un matto? Eppure non siete voi che mi avete detto che vi fu un signor tale, il quale con un suo libro in mano vi venne a dire in robon da professore, e proprio in una città che voi qui conoscete, con una serietà da far ridere le telline che la sua scienza non ammette più il Creatore, che formò quest’immenso universo; ch’egli è venuto a scoprir bene che il mondo si formò da sé. Poi egli dice con tutta l’autorità che si ha da sé pigliato « se voi volete esser scienziati, dovete credere a quel che diciam noi: cioè che tutto è solo materia, e che in prima erano atomi, granellini come l’aria, ma più fini ancora, e per parlar più chiaro, un gran polverio senza fine, che gira gira, e in lui suoi granelli in confusione, precipitando gli uni sopra gli altri seppero formar da loro le stelle, il sole e questa terra, e soprappiù le piante in esse e gli animali, e poi e poi… fino noi così grandi uomini che. siamo, creati bell’e fatti da quel polverio!;;. « Oh! oh! esclama qui Voltaire, che pur fu uno dei loro, lasciate quel meschino di pazzerello che disse che una macchina non è fatta da un macchinista, come un orologio si facesse da sé senza orologiaio; lasciatelo pur fuori del manicomio, e chiudete, sarebbe meglio, dentro questi pazzeroni da catena che si dicono sapienti!

Spez. DIO CI LIBERI ! CHE SAPIENTI!… CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA!

Ma io vorrei sapere loro chiaramente dimostrare che non è vero che vi sian sempre stati gli atomi di quel nebbione, cioè che la materia di cui son composte queste cose della terra tutta, (giacché dicono che tutto é materia,) non è vero che sia eterna.

Par. Voi potrete ‘dimostrarlo facilmente assai. Cominciate a dir loro che se tutto è materia, e la materia è sempre stata eternamente, sarà dunque eternamente quale eternamente fu; perché non vi fu prima un Creatore che nel crearla l’abbia fatta in quella forma, e né vi fu altri mai che la cambiasse in altra forma. Ma voi vedete che la materia è li come cosa morta, e si può dire indifferente a pigliare quella forma che alcuno voglia e possa darle. La creta, per esempio, è li ferma sotto i piedi, ed il vasaio se l’impasta a modo suo, poi la fa muovere sul torno, e diventa un vaso; la montagna di sasso è morta e ferma lì da quanti secoli, chi lo sa? ed uno la rompe dentro e piglia un pezzo, ne fa una ruota, e la fa girare sui perni; e la ruota gira, finché una forza non la fermi ancora. Voi poi saprete come chi forma una macchina per far muovere qualche cosa materiale, calcola ben per far la macchina la forza necessaria per far produrre il movimento. Vi è dunque il Creatore che creò la materia in quella forma, poi la compose in mille modi da formare tutte queste cose materiali, e colla forza sua fa tutto andare nel bell’ordine mondiale.

Spez. Eh!eh! Ma essi dicon subito che ogni granellino di materia ha la sua forza, e che non vi è materia che non abbia la sua forza unita; e che non v’è forza che non sia unita alla materia; la qual forza la fa muover sempre.

Par. Non lasciateli correr tanto colla lingua sguinzagliata; ma fermateli a farvi spiegare ciò che voglion dire colle parole loro. Se voi lor domandate: Ma che cosa è questa materia che voi vi date l’aria di conoscer così bene? Oh!… restan li a bocca aperta, e non vi sapranno dire mai che cosa sia la materia. Poi domandate loro similmente che cosa sia questa forza che fa mover la materia. Io ho letto tanti autori che ne parlano da sapienti e non san dirmi niente. Questo è certo che la materia e le forze sono cose ben diverse fra di loro; perocché la materia sta ferma, e la forza la fa muovere; la materia è pesante, e come sasso slanciata in aria cade e sta; ma la forza è senza peso, come quella che fe’ volare in aria il sasso; l’una è la cosa spinta, l’altra è quella che la spinge. Non è vero adunque che tutto sia solo materia! Ora dite ancora a loro: è poi vero, che le forze che fan muover le materiali cose, siano insieme colla materia sempre unite? No, per certo, perché io, per esempio, agito il braccio e faccio girare una ruota se si muove la ruota e il braccio mio che prima erano li quieti. Non era adunque in loro in prima la forza che li fa muovere adesso. No, per certo, non è vero che le cose materiali abbian sempre unita seco una forza: voi, per esempio, al giuoco. battete a colpo netto una palla di bigliardo contro un’altra, e la palla investita. E mossa dalla vostra forza colpisce l’altra; la prima sta, si muove l’altra: dunque la forza che faceva muovere la prima, passò via da lei, e fa muover la seconda, Conchiudete adunque che la forza è quella che fa cominciare un movimento: e fare un movimento vuol dire cominciar a muoversi da un luogo per andare ad un altro luogo: e se le stelle, il sole, la terra e tutto si muove, v’è dunque il Creatore che cominciò a dar la forza di far muovere tutto.

Spez. Ma li avreste da udire come dicono essi di sapere che gli atomi di quel lor nebbione erano là già preparati e stavano tutti ad aspettare le circostanze, per discendere a far ciascuno la sua parte.

Par. To’ che costoro la sanno proprio lunga! Ma giacché corsero indietro colla fantasia. a vedere in sul principio gli atomi in quel nebbione, pregateli di far un passo ancora più in su, per sapere poi dire a noi chi li avesse là preparati e lavorati così bene da farli andare d’accordo insieme, per poi formare tante belle cose, Abbiamo poco fa detto che era matto chi diceva che la bella macchina a vapore non fu fatta da un bravo macchinista; or dite loro che vi accompagnino col pensiero in un gran laboratorio, in cui si fabbricano le macchine. Oh se vedeste tutto là ben preparato; tante ruote e spranghe e molle e piuoli, e quei denti in quelle ruote e quelle incavature e tanti altri oggetti con bel lavorio così ben finiti, che pare aspettino li di esser congegnati insieme! Certo che fu il bravo macchinista che formò ogni minuta cosa pel fine a cui la destinava. Or domandate loro se gli atomi in quel loro gran polverio erano già così bene preparati, chi li ebbe così ben preparati da poter unirsi insieme e formare le stelle, il sole, la terra e far andar in ordine quest’ammiranda immensa macchina dell’universo?

Spez. Ma la materia e la forza vanno così. ben regolate da leggi con lor eterne, dicon essi.

Par. Guardate mo’ come sono bricconi gl’increduli! di soppiatto ti metton dentro tutti gli intingoli per fare dalla buona gente ingollare il mal boccone senza che si accorga del veleno!… Dopo di aver sognato a fantasia la materia e le forze che la fanno muovere; ti metton dentro una cosettina che vien bene a far passare il tutto. Essa è solo una parolina, aggiuntavi, le leggi; ed il mondo deve andar bello e creato, Ma voi da bravo, fermate sulle lor lingue la parola leggi: e prima di lasciarla metter dentro, domandate loro che cosa intendono per leggi. La legge è ordine dato da chi comanda per far fare da altri quel che egli vuole. Ora se vi son leggi che fanno andare la materia e la forza non unite insieme a fare tutto così bene, vi deve essere il Legislatore Iddio che fa loro eseguire quello che vuole Egli. Che se non è Dio, qual sarà il legislatore?

Spez. Oh vel dicon subito: è la natura; e che gli atomi sono tali per natura, che le forze sono unite loro. per natura, e che le leggi che le regolano sono leggi di natura.

Par. Quanto debbon esser costoro fortunati di conoscere essi questa gran natura. Eh eh, che deve avere una forza immensa per poter raccogliere e chi sa dove? Tutto quello sterminato polverio di atomi, e preparare tanto materiale da comporre. le stelle, il sole, così grandi che in paragone di loro questa nostra terra, la quale con tutti i monti e mari e tutte cose in essa è pur grossetta alquanto, pure nuota come perduta nel vano sconfinato del firmamento! Bisogna proprio dire che la natura è onnipotente… Eh che testa dovette avere questa lor natura! Figuratevi! Mentre tutti i chimici, macchinisti con tutti i loro filosofi, professori sapientissimi vanno disperati di non avere ancora potuto nonché formare un pelo di animaluzzo o  una fogliolina d’erba, neppur un granellino di sabbia; ed ecco da questa natura che seppe inventare le piante cui mente d’uomo non avrebbe mai potuto immaginare se non fossero; e seppe congegnare quei fili e costoline e quelle vene, e nelle foglie e nelle radici quelle piccolissime boccucce! da ‘assorbirsi gli alimenti, e colorir le foglie e fare brillanti i fiori così belli. Ma questa natura le sapeva tutte! Fino sa far gli organi dei sensi agli animali, e metter dentro loro cuore e cervello e nervi e tante’altre meraviglie che il sapiente studia, studia e non finisce mai di ammirare!… Ed essa, la natura, pensa a tutto nel far tutto. Figuriamoci quanto dovette pensare nella sua sapienza solo a formar l’occhio nostro. Ella dovette dire: « voglio dar questo strumento od organo della vista per vedere le cose in mezzo a cui uno si trova. Ebbene lo metterò in alto all’uomo. Egli ha da camminare; ed io gli metterò 1’occhio innanzi sulla fronte; egli ha da guardare tutto intorno; ed io glielo farò rotondo. Per vedere ha da ricevere la luce dentro; ed io glielo farò trasparente come il vetro; ma per far che l’uomo veda, ha da ricevere dentro le immaginette delle cose; ed io gli metterò le palpebre per tenere la pupilla lucida come uno specchio, e metterlo poi anco sotto un velo per farlo riposare; ma la luce potrebbe esser troppo viva di abbruciare la vista; ed io metterò i peli delle ciglia a respingerla se punge troppo: ma poi sempre in moto a guardare qua e là si dovrà pel calorico diventar infuocato; ma io gli metterò d’intorno un po’ di acqua con cui si possa tenere sempre fresco…» Oh uomo, oh uomo, e tu non dici mai neppur un grazie! or pensa che quel che si dice dell’occhio, si è da dire di tutte le più minute parti del corpo umano!… Ed avrà fatto tutto la natura?…. Oh se bisogna dire che questa che dicono natura è sapientissima davvero! Al veder poi come colle sue leggi fa andar tutto in ordine il dì, la notte, le stagioni, e fa dalle piante e dagli animali produrre sempre novelle piante è sempre altri animali, e così provvede a tutto, bisogna dire per poco di ragione che si abbia, che questa che dicono natura è provvidentissima natura… Ma che!… ma che!… Una natura che fu sempre onnipotente, sapientissima, provvidentissima !.. Ah bravi, bravi… Gli cambiano il nome, ma vogliono dire Iddio. Ve l’ho detto che per necessità bisogna creder in Dio. Anche quando strillano di non voler credere in Dio, e perfidiano in negare il suo Nome; pur confessano di crederlo in realtà.

Spez. Ma no, signore, essi non dicono mica che la natura sia una gran persona; ma dicono che tutta insieme questa gran faraggine di materia, di forze e di leggi che forman l’universo, è la natura stessa.

Par. Oh! come ragionano da sapienti questi vostri signori! Udite adunque ciò che vengono essi a dire. In prima: che la natura è quella che formò e fa andare in ordine tutte le cose insieme; poi dicono, che tutte le cose insieme formano la natura: dunque, secondo essi, la natura creò la natura stessa. Però noi non abbiam poi da perdere più tanto tempo per rispondere a loro che parlano; e sanno anch’essi di non credere a quel che dicono. Diremo tutto in breve chiaramente. Ascoltate: La questione tra noi e i signori della bottega in fine si riduce a questo: che noi crediamo che Dio Eterno, Onnipotente e Sapientissimo creò il mondo e lo sostiene in ordine colla sua Provvidenza; e quei signori di bottega voglion dire che il mondo fu formato in un gran nebbione dalla materia, dalle forze e dalle leggi che giravano alla cieca sempre intorno furibonde, come tre orbi che fanno a bastonate. Ma, almeno almeno, questi tre orbi avessero avuto un lumicino di ragione; ché allora essi avrebbero potuto aggiustarsi tra loro certi colpi per benino. Signori, no; tra quei tre orbi, dicono i grandi sapienti, di ragione non v’era un briciolo; ma andavano là, come van sempre ancora, senza saper dove vanno; in tentativi infiniti, senza tentare di fare mai niente. Così quei muti, ciechi e senza cognizione, senza volere mai far niente; han fatto e cielo e terra e tutte piante ed animali, fino noi medesimi. Ma si può dire una più matta cosa?…

Spez.. Ha, ragione, signor parroco; ma che vuole? Son tutti nella … foia di negare che vi sia Dio!… Ah! vorrei io un po’ sapere perché hanno quel fuoco addosso!

Par. Ah! veramente mi fa male il cuore a dire perché hanno, la smania di negare Dio! Se lo sapessero i vostri amici signori della conversazione, che poi in fondo sono ancor buoni, ne resterebbero spaventati! È un orrore a dirlo: vi son di uomini così perdutamente guasti, che vorrebbero che Dio non fosse. Il pensiero di Dio benedetto Creatore è come un grande spettro che mette loro paura; e smaniano per toglierselo dinanzi dalla mente. Per loro la sola propria persona è come il dio, a cui piace loro tutto sacrificare. Non sapete che si dicono risoluti, anzi già pronti ad ammazzar tutti che non han la voglia di farsi pecore per loro? E perché non si dica che noi li calunniamo, dirovvi che vi son di loro tali così orrendamente audaci che lo stamparono in faccia al sole de’ nostri di. Udite le parole di un di loro (Marr): « Distruggiamo la fede in Dio, facciam la guerra ad ogni idea di religione… l’individuo co’ suoi appetiti e colle sue passioni, ecco il vero Dio. E poi muoia il popolo, muoia l’Allemagna, muoian tutte le nazioni; sbarazzato da tutti i fantasmi (di religione) l’uomo ricuperi la sua indipendenza » (Revue des deux mondes, an. 1850, pag. 208).

Spez. Basta, basta ; mi fan venir il freddo addosso al solo udirli. Ma se costoro arrivassero proprio a far creder al mondo che non vi è Dio, che potrebbero fare allora gli uomini?

Par. Eh! Ammazzarsi gli uni cogli altri, quando credessero convenisse all’interesse loro. E non vel dico io, ma è un grand’empio della lor compagnia, Rousseau, il quale disse: « Io non vorrei aver un servo, il quale non credesse  in Dio: perché se gli facessero gola i miei danari, studiato modo di farla franca, una qualche notte — mi pianterebbe un coltello nel cuore tranquillamente; perché dagli uomini avrebbe ben pensato come mettersi al sicuro, a Dio poi non crede. » Così gli uomini che son creati per formare una famiglia di fratelli da aiutarsi l’un coll’altro, diverrebbero una società di tigri, di leoni e di iene! Ditelo per carità ai vostri amici: che si guardino da questi che si vantano sapienti e si dicono filantropi innamorati dei popoli.

DIO CI LIBERI!… CHE SAPIENTI! CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! CHE FILANTROPI! FAN L’AMORE AI POPOLI CO’ DENTI!…

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 12

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (12)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VIII.

Della mortificazione

II.

Secondo motivo della mortificazione

È dovere di giustizia crocifiggere la carne, — perché ha servito al peccato. Perché è nemica mortale di Dio.

Il secondo motivo che ci obbliga a mortificarci è il dovere di far penitenza. Come le nostre membra hanno servito all’iniquità, dice S. Paolo, così devono servire alla giustizia (Rom. VI, 19). Nostro Signore vuole troviamo il nostro castigo in quelle medesime cose per le quali abbiamo peccato. Bisogna dunque che le nostre membra, perché nell’offesa di Dio hanno cercato la propria soddisfazione, siano crocifisse e punite; bisogna siano mortificate e come hanno servito all’ingiustizia e all’iniquità, noi le facciamo servire alla giustizia. Ora noi le facciamo servire alla giustizia, non solamente nell’adoperarle negli esercizi di pietà ché sono opere di giustizia perché per mezzo di esse si adempiono i doveri verso Dio; ma le faremo servire alla giustizia di Dio, col far loro sentire giusti effetti della divina vendetta. Bisogna che Dio punisca in noi le nostre membra, e così queste servano alla giustizia: se Dio non lo fa, dobbiamo noi metterci al suo posto e animarci del suo zelo contro di nei; bisogna che diventiamo strumenti del suo Spirito per esercitare sopra di noi la sua giustizia; bisogna che rendiamo partito per Lui contro noi medesimi e che per conto suo facciamo guerra a noi stessi, poiché sappiamo che Egli non è contento di noi, eppure non si è preso soddisfazione e vendetta per le nostre offese. – Dobbiamo dunque con un santo zelo ed un generoso coraggio castigarci noi medesimi, alzando il braccio contro di noi come contro una persona estranea, perché, infatti, apparteniamo a Dio più che a noi stessi e dobbiamo curarci dell’interesse di Dio più che di ogni nostro interesse proprio. Dio è tutto per noi, e a confronto Lui noi non siamo nulla. Dobbiamo perciò dimenticare per così dire, abbandonare la nostra persona e battere sopra di noi come sopra un morto o sopra un estraneo. Così fa il vero penitente che esercita sopra di sé la mortificazione con ispirito di vera penitenza.

***

 Altro pensiero che ci impone la mortificazione è la considerazione della nostra carne quale trovasi in sé stessa, nella sua maledizione e nella sua ribellione contro Dio; in quanto è tale, noi dobbiamo mortificarla in tutto e in ogni modo, armandoci contro di essa come contro un mortale nemico di Dio. La carne in sé stessa è interamente contraria a Dio e, in tale qualità, va castigata; essa è come un forzato, uno schiavo ribelle che, malgrado il suo delitto, non lascia punto di rivoltarsi ogni era; così essa con la forza e la violenza va tenuta soggetta al suo padrone. Adamo, per dare l’esempio alla sua posterità, passò la sua vita nella penitenza: il Signore lo lasciò novecento anni sulla terra, appunto per insegnare a tutti i di lui figliuoli che ne continuano la vita, che essi pure, mentre vivono sulla terra esuli dal Cielo, devono incessantemente far penitenza come sempre fece Adamo finché stette sulla terra. I Cristiani, come figliuoli di Gesù Cristo, continuano la vita santa di Gesù per la virtù del suo Santo Spirito. Così i figliuoli di Adamo devono parimente continuare la vita penitente del loro primo Padre. I Cristiani sono l’espressione di Gesù Cristo e il prolungamento della sua vita; così i figli di Adamo devono ancor essi essere l’espressione di Adamo e la dilatazione della sua vita nello stato di penitenza. Sono dunque obbligati a castigare le prorie colpe come Adamo ha castigato la sua.

III.

Terzo motivo di mortificazione.

La religione esige il sacrificio.

Il terzo motivo nasce dalla religione la quale ci porta sempre al sacrificio di noi medesimi e quindi alla mortificazione. Quando desideriamo di prenderci qualche diletto secondo la carne, quando siamo tentati di dar gusto ai nostri sensi interni o esterni, oppure di accontentare qualcuna delle nostre facoltà anche spirituali, come sarebbe la nostra volontà con qualche vana soddisfazione o la nostra mente con qualche curiosità o qualche studio inutile, dobbiamo, in ispirito di religione e di sacrificio, mortificare tutti questi desideri dell’amor proprio, distruggerli e soffocarli. Questo si chiama propriamente sacrificare, perché così, per la gloria di Dio, sì distrugge, si immola, si uccide, si soffoca l’appetito naturale, il quale è pur cosa reale e vera, perché è cosa sensibile ed effettiva, tanto più sensibile quanto più realmente è in noi, essendo una parte di noi stessi. Nulla è più crudele e rigoroso della religione; essa immola tutto, uccide tutto e non risparmia nulla; essa ha in mano quella spada che il nostro Maestro Gesù è venuto ad apportare sulla terra: Non veni pacem mittere sed gladium. Non sono venuto ad apportare la pace, ma la spada: (Matth. X, 24). La mortificazione è raffigurata pure dalla spada di Ezechiele (Ez. V, 1) che quel santo Profeta ogni tanto passava tra i peli della sua barba, per indicare che bisogna mortificare i desideri superflui della carne che non sono altro che rifiuti e una corruzione della nostra natura. – I sacrifizi sanguinosi dell’antica legge erano un’altra figura della crudeltà che dobbiamo avere in fatto di religione; questa non deve risparmiare nulla, ma tutto sacrificare a Dio. Così fecero i Leviti, come si riferisce nell’Esodo (Es. XXXII, 27-29), che sacrificarono a Dio e immolarono i loro figliuoli, i loro fratelli e i loro amici per ispirito di religione e di grande riverenza verso Dio, davanti al quale consideravano ogni creatura come niente, né potevano soffrir nulla che a Lui procurasse dispiacere. Da tale spirito di religione devono essere animati i Cristiani; quindi distruggere e mortificare ogni corruzione della propria carne, tutto quanto hanno di proprio, tutto quanto vi è in essa di superfluo, in una parola, sacrificare tutto quanto non è rigenerato da Gesù Cristo.

IV.

Quarto motivo della mortificazione

La santità, cui tutti siamo chiamati, specialmente i Sacerdoti, esige distacco da ogni cosa creata, anche dalle tenerezze spirituali. — La comunione spirituale a Dio.

Quarto motivo che ci obbliga alla mortificazione, la santità con cui dobbiamo vivere nell’anima con Dio, nel distacco da ogni creatura. In Dio, la santità lo tiene applicato a Lui stesso e separato da tutto l’essere creato; lo stesso effetto essa suole operare in tutti i Cristiani, perché sono consacrati a Dio per il battesimo e perciò da S. Paolo chiamati col nome di Santi (1 Cor. I, 2; Efes., I, 1). Ché se tutti i Cristiani devono essere santi e distaccati da tutto, i sacerdoti ne hanno un obbligo più particolare, perché ad essi principalmente Dio rivolge queste parole: Siate santi perché io sono santo (Lev. XI, 44), siate distaccati da tutto perché io sono separato da tutto. – I sacerdoti, che offrono a Dio i pani e l’incenso, dovranno essere santi per il loro Dio (Lev. XXI, 6), vale a dire, saranno distaccati da tutto e dedicati a Dio solo. Egli merita questo omaggio, ma di più lo esige la sua grande santità; Dio, essendo la santità per essenza, non può sopportar nulla che non sia secondo la sua volontà. Egli vuole che i sacerdoti, perché lo avvicinano, siano consumati in Lui dal suo Spirito, affinché nulla che sia impuro si avvicini a Lui e che, in tal modo, anche quando è unito al sacerdote Egli rimanga sempre santo e separato da tutto. – La santità separa l’anima da ogni creatura; le impedisce di effondersi nella creatura e riporvi i suoi affetti; la obbliga a ritirarsi in Dio senza più cercar nulla fuori di Lui. La santità è così di una austerità eminente e di una severità oltremodo rigorosa perché non tollera la minima effusione dell’anima in ciò che non è Dio. La santità non tollera neppure che l’anima cerchi la sua soddisfazione in certe tenerezze verso Dio, perché questi sentimenti e questi gusti spirituali non sono Dio; e l’anima perdendosi in queste tenerezze si prenderebbe diletto e soddisfazione in ciò che non è Dio. Quando sia stabilita nella santità perfetta, l’anima rimane unita a Dio puramente con la fede; non si perde in nulla, né si ferma a nulla, non cerca altro che Dio e sì conserva distaccata persino dai doni di Dio, perché questi non sono Dio, il quale è puro, santo e separato da tutto. – Non già che non dobbiamo usare dei suoi doni per andare a Lui, ma essi non debbono essere che la via per giungere a Lui; non dobbiamo esservi menomamente attaccati; dobbiamo tendere unicamente al possesso di Dio solo. Se vi ci attacchiamo, tra Dio e noi v’è qualche cosa che gl’impedisce di unirsi interamente a noi. Ben poche sono le anime che non sì rivolgano alle creature per cercare in esse qualche soddisfazione (Omnes declinaverunt. Ps. XIII,3). Poche sono quelle che appena si accorgono di qualche attacco alle creature, hanno cura di ritirarsi nel loro interiore per entrare in Dio e rimanere perfettamente uniti a Lui. Eppure ci vuole grande fedeltà in questo punto, perché non bisogna mai soffrire che l’anima riponga le sue affezioni in nessuna creatura. Donde avviene che le persone sante, le quali sono puramente intente in Dio e interamente ritirate in Lui, non si compiacciono mai in soddisfazioni naturali, neppure nelle relazioni con le persone care; essendoché Dio, nel quale la loro anima è ritirata, non lo permette; e siccome esse hanno rinunciato ad ogni sentimento naturale e che il fondo della loro anima tutto occupato di Dio e a Lui intimamente unito, non si perdono nel cercare soddisfazioni fuori di Lui. – Ché se l’anima incomincia a distogliersi da tale distacco santo e divino, se incomincia ad effondersi nelle creature, essa tanto meno resta unita a Dio; inoltre perde la sua forza e il suo vigore, diventa vana e dissipata, effusa fuori di sé come l’acqua versata su la terra asciutta (Ps. XXI, 15). Quindi non bisogna soltanto aver cura di distaccare l’anima, come abbiamo detto, dalle cose sensuali e materiali, ma anche dalle cose spirituali; vale a dire dalle dolcezze, dalle consolazioni e dalle altre grazie sensibili alle quali l’anima facilmente si attacca. Essa ama questi doni, li cerca, quasi sempre li desidera, non avvertendo che questi doni non sono Dio più che le altre cose; vi si attacca e perde la sua santità in modo tanto reale, benché non così interamente, come se si attaccasse a cose più materiali. L’anima, per l’uso e il gusto di queste cose spirituali, diventa lorda e impura, debole, incostante e leggera; se non istà ben attenta, arriverà ad una intera opposizione con la santità di Dio. – Il disegno di Dio è di richiamare tutte queste cose all’unità; perciò, Egli vuole che tutte le creature, le quali in se stesse sono diffuse e moltiplicate, servano però all’uomo perché si unisca a Lui solo. Epperò Egli vuole che, se l’anima nostra e i nostri sensi vengano attirati da oggetti che ci piacciono, subito noi ce ne distogliamo per rivolgere a Lui il nostro cuore, dicendogli: voi siete il mio mondo, la mia gloria, il mio tesoro e il mio tutto. – Così nel Cielo, i Santi inabissati in Dio, in Lui trovano tutto, né più sono tentati dalle cose basse e spregevoli della terra. Siccome Dio contiene ogni cosa in eminenza ed Egli è tutto per essenza; siccome Dio in sé e nella sua somma perfezione include tutte le imperfette perfezioni disseminate e diffuse nelle creature, i Santi in Dio possiedono perfettamente intenti, senza che nulla di profano, né alcuna inclinazione terrena li renda impuri, o sia di impedimento alla loro santità. – Ciò che ci rende terreni e ci impedisce di essere santi, è l’amore e l’attacco alla creatura. Perciò, se vogliamo essere santi, dobbiamo aver cura, all’aspetto di qualsiasi creatura, di ritirarci in Dio, perché non ve n’è neppure una che non tenda a distaccarsi da Dio per attirarci a sé stessa. Perciò, sono convinto che è cosa importantissima proporci esercizi giornalieri, che nelle varie circostanze della vita ci servano a tenerci distaccati da Ogni cosa, per portarci a Dio, rifugiarci in Lui e così vivere in intima unione di amore con Lui: Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui (Qui manet in charitate, in Deo manet, ed Deus in eo. – Joan. IV, 16).

* * *

L’unione di carità mette Dio in noi e noi in Dio. Come la Comunione sacramentale mette Gesù Cristo in noi e noi in Gesù Cristo, così la Comunione a Dio per amore, benché spirituale, è tuttavia reale; essa ci mette realmente in Dio e mette pure realmente Dio in noi; dimodoché diventiamo un medesimo spirito con Lui: Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue sta in me, ed io sto in lui (Joan. VI, 59). È  questo l’alimento continuo, il pane quotidiano di cui dobbiamo incessantemente nutrirci; è la mammella cui dobbiamo ricorrere senza posa per essere mantenuti nella vita divina. La Comunione spirituale a Dio e la Comunione sacramentale sono le due mammelle di cui dice la Scrittura che sono migliori del vino più delizioso (Cant. I, 1). – Dio, col suo divino Spirito che è una di quelle mammelle con cui nutre la sua Chiesa, fa come quelle nutrici, che talvolta gettano del latte sulle labbra del bambino perché si porti al seno dove troverà abbondante nutrimento. In tal modo, quel divino Spirito, ornando il mondo delle proprie bellezze (Spiritus ejus ornavit cælos – Job. XXVI, 18) presenta agli occhi nostri i beni e gli oggetti piacevoli di questa vita, perché ci ricordiamo della loro fonte che è in Lui e perché a questa fonte ricorriamo con amore per il nostro spirituale alimento: e questo si fa col legarci a Lui per amore, col ritirarci in Lui quando a noi si presentano le creature. Le cose di questo mondo non sono create perché in esse noi troviamo la nostra soddisfazione, ma per avvertirci che nello Spirito di Dio troveremo cose più sante e più pure, di cui potremo godere in Lui senza imperfezione.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 13

LA VITA INTERIORE (19)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (19)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

LA DEVOZIONE AL CUORE SS. DI GESÙ

MOTIVO DI CONFORTO.

Non sono molti anni che, al solo sentir parlare di devozione al Cuore SS. di Gesù, si vedeva qualche sorrisetto tra gli ascoltatori o, magari, rannuvolarsi qualche volto, a seconda dei casi. Per gli uni, la devozione al S. Cuore era… una leggerezza; per gli altri, almeno una divozione inutile, un duplicato, un surrogato, una pietistica dimostrazione di coscienze sviate. Ora, per grazia di Dio, non è più così. Gli è un grande conforto il vedere, specialmente nel pomeriggio precedente il primo venerdì d’ogni mese, i confessionali nelle chiese assiepati di anime generose e desiderose di potersi presentare al banchetto eucaristico, in omaggio ai desideri che il Cuore SS. di Gesù volle, ripetutamente, manifestare. Come per la pratica del primo venerdì, così per le altre pratiche desiderate e suggerite da Gesù, la devozione al Suo Cuore Sacratissimo prese un vasto, profondo, intenso svolgimento.

IL SIGNIFICATO DI QUESTA DEVOZIONE

«Il Cuore di Gesù — riferisce santa Margherita (Mons. Lfeon Gautey, Vie et oeuvres de la B. Marguerite Marie, Parigi, 1935) — mi fece comprendere che questa devozione era come un ultimo sforzo del suo amore, che voleva favorire gli uomini in questi ultimi secoli di questa redenzione amorosa, per sottrarli all’impero di Satana che Egli voleva rovinare e collocarci sotto la dolce libertà del suo amore, che desiderava stabilire nel cuore di tutti quelli che volessero abbracciare questa devozione ». « Mi sembra che il gran desiderio di Nostro Signore, che nel suo Sacro Cuore sia onorato con qualche omaggio particolare, abbia lo scopo di rinnovare nelle anime gli effetti della sua redenzione, facendo di questo Sacro Cuore come un secondo mediatore tra Dio e gli uomini, i peccati dei quali si sono talmente moltiplicati, che è necessaria tutta l’estensione del suo potere per ottenere loro misericordia ». – « La devozione del suo Sacro Cuore contiene tesori incomprensibili, che Egli vuole siano riversati su tutti i cuori di buona volontà, perché questo è un ultimo sforzo dell’amore del Signore verso i peccatori, per condurli a penitenza e dar loro abbondantemente le sue grazie efficaci e santificanti per ottenere la loro salvezza ». « Questo Cuore divino è il tesoro del cielo, che ci è stato dato… come l’ultima scoperta del suo amore». Mediante la devozione al suo Cuore, Egli vuole acquistarsi « un numero infinito di servi fedeli, perfetti amici e di figli interamente devoti ». « I tesori di benedizioni e di grazie che questo Sacro Cuore racchiude, sono infiniti; io non so se vi sia nella vita spirituale alcun altro esercizio di devozione, che sia più atto ad elevare in poco tempo un’anima alla più alta perfezione, e a farle gustare le vere dolcezze che si trovano nel servizio di Gesù Cristo. Sì, lo dico con tutta sicurezza; se si sapesse quanto sia gradita a Gesù Cristo questa devozione, non vi sarebbe alcun Cristiano, per quanto poco amasse questo amabile Salvatore, che non là porrebbe subito in pratica ». – « Le anime religiose ritrarranno da essa tanti aiuti, che non sarà necessario altro mezzo per ristabilire il fervore primitivo e la più esatta regolarità nelle Comunità meno osservanti, per condurre all’apice della perfezione quelle che vivono nella più grande osservanza). « Quanto alle persone secolari, esse troveranno, per mezzo di questa amabile devozione, tutti gli aiuti necessari al loro stato, cioè, la pace nelle loro famiglie, il sollievo nei loro travagli, le benedizioni del cielo su tutte le loro imprese, la consolazione nelle loro miserie; ed è proprio in questo Sacro Cuore che esse troveranno un luogo di rifugio durante tutta la loro vita e principalmente neil’ora de!la morte. Ah! Come è dolce morire dopo avere avuto una tenera e costante devozione al Sacro Cuore di Gesù Cristo! ».  – « Il mio divino Maestro mi ha fatto conoscere che quelli che lavorano per la salvezza delle anime, lavoreranno con successo, e conosceranno l’arte di commuovere i cuori più induriti, se avranno una tenera devozione al suo Sacro Cuore, e si sforzeranno d’ispirarla e stabilirla ovunque ». « Infine. è evidente sotto ogni aspetto che non v’ha persona al mondo, la quale non riceverebbe ogni sorta di aiuti celesti, se avesse per Gesù Cristo un amore veramente fedele, quale è quello che gli si manifesta con la devozione al Suo Sacro Cuore ».

ECCO QUEL CUORE! UNA NUOVA VIA.

Vero è che, fin dal 1281, Gesù affidò alla religiosa benedettina Geltrude la missione di far conoscere le meraviglie della bontà e della misericordia del suo Cuore per la gloria del Padre celeste e la salvezza delle anime. Ma fu solo nel 1675 che, dal campo mistico riserbato dov’era rimasto, eredità di pochissime anime d’eccezione, il tesoro rivelato a santa Geltrude venne, nuovamente e incondizionatamente, manifestato a tutti gli uomini, per mezzo di santa Margherita, come reazione al movimento pseudoriformistico protestante e al giansenismo glaciale e mortifero, che dilagavano, atrofizzando ogni più santa espressione di spirituale elevazione. È in quel tempo che Gesù fece sentire la sua dolorosa constatazione: Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e dai quali è stato così poco riamato. Fu allora che il Sacro Cuore suggerì una nuova via « la quale se ben si osserva, presenta queste tre note caratteristiche (Mons. F. OLGIATI, La pietà cristiana. Milano, 1935, pag. 135):

I. La conquista e l’universalità del suo Regno. « Contro l’impero di satana, Gesù vuol stabilire il suo regno d’amore». Non, adunque, una devozione tra le altre, ma una battaglia che deve estendersi a tutto il mondo per il trionfo del regno individuale e sociale di Cristo. La Madre Maria del Divin Cuore, nella sua lettera a Leone XIII, perché all’inizio del secolo vigesimo consacrasse al Cuore di Cristo tutto il mondo, dice: « Egli farà risplendere una nuova luce sul mondo intero…». Con lo splendore di questa luce i popoli e le nazioni saranno illuminati e col suo ardore riscaldati ». Ed ogni volta che si scorrono i documenti pontifici a proposito del Sacro Cuore, come ad es., la Miserentissimus Redemptor di Pio XI, rifioriscono sulle labbra, senza volerlo, — come giustamente scrive il P. Alcaniz — i passi numerosissimi in cui i Libri Sacri descrivono l’impero del Messia: « E dominerà da un mare all’altro, e dal fiume (Giordano o Eufrate) sino all’estremità della terra » (Salmo LXXI). « E si ricorderanno e si convertiranno al Signore tutti i confini della terra e si umilieranno avanti a Lui tutte le famiglie delle genti » (Salmo XXI).

2. La dedizione nostra. – Nelle grandi rivelazioni, l’attuazione del primo punto programmatico — la guerra a satana ed il trionfo di Cristo — è congiunta con la consacrazione dell’anima, che vuol seguire il vessillo del S. Cuore. Non per nulla, commenta ancora il P. Alcaniz, nella storia di tale devozione troviamo ad essa unita sempre l’idea di consacrazione: « Consacrazione del genere umano fatta da Leone XIII, e comandata si rinnovasse tutti gli anni da Pio XI; consacrazione di nazioni, provincie, municipii e consigli comunali; di diocesi e di parrocchie: di ordini religiosi, comunità, famiglie, officine; consacrazione frequentissima di individui ». Ed anche qui non materializziamo le iniziative dello spirito. La consacrazione non è solo una formula, una funzione, una festa: ma consiste nel mettere tutto a disposizione del Cuore di Gesù, le nostre energie, le nostre cose, le famiglie e i popoli; consiste, per dirla con santa Margherita Maria, nel « fare al suo Cuore un intero sacrificio di se stessi e di tutto ciò che da noi dipende », nell’affidare a Lui la nostra anima, la nostra libertà, il nostro corpo, le nostre attività, i nostri interessi, sicuri e fidenti nella sua parola: « Abbi tu cura del mio Cuore e delle mie cose; ed il mio Cuore avrà cura di te e delle tue ». Dire consacrazione è dire riparazione di chi non può restare freddo ed indifferente dinanzi al Dio del suo cuore, che viene oltraggiato, sputacchiato e crocifisso; è dire apostolato nelle sue varie forme: dall’apostolato della preghiera all’apostolato dell’azione; dall’apostolato che consiste nell’adempimento dei propri doveri, individuali, famigliari e sociali, e perciò del buon esempio, all’apostolato della sofferenza; dal lavoro per procurare al Sacro Cuore «tutta la gloria, l’amore, la lode che sarà in nostro potere », all’offerta di sè come vittime, desiderose «di sacrificarsi come un’ostia di immolazione al S. Cuore per il compimento dei suoi disegni ». Un unico ideale deve tormentare il nostro animo: non respirare — come del P. De La Colombière riferisce santa Margherita — se non per far amare, onorare, e glorificare il Cuore di Cristo e poter dire col santo gesuita: « Il mio cuore è insensibile a tutto, fuorché agli interessi di questo divin Cuore… ».

3. «Finalmente, all’idea dell’universalità del regno e della dedizione nostra alla battaglia conquistatrice, si unisce l’idea dell’amore. Cristo vuol vincere il mondo col suo Cuore. Egli sceglierà ad apostoli della devozione, due anime che sanno amare: l’una, Margherita Maria nel convento della Visitazione, la quale rappresenta l’amore che prega silenziosamente e si immola; l’altro, il P. De La Colombière, un figlio di una Compagnia che sa cos’è l’amore, che combatte e che con Ignazio di Loyola, ne’ suoi Esercizi, addita il Regno di Cristo ed invita alla contemplatio ad amorem. Non era amore il pecca fortifer et crede firmiter di Lutero; non cantava l’amore l’Augustinus di Giansenio; non conosceval’amore il gelido ed astratto intellettualismo razionalistico ed illuministico. La più grande forza del mondo — è stato detto — è il cuore. Sì, è vero: è il Cuore di un Dio umanato che ci spiega Betlemme, il Cenacolo ed il Golgota, e che ad una società dimentica degli abissi del suo Amore infinito si presenta col suo Cuore in mano,sussurrando con voce irresistibile: Ecco il Cuore che ha tanto amato gli uomini…”?.Ogni pratica, in onore del S. Cuore, ha questo speciale colorito dell’Amore. Se Gesù in un venerdì fisserà la festa del Suo Cuore, è perché il venerdì è il giorno dell’Amore,nel quale dal costato trafitto il Suo Cuore ha lanciato ai secoli il suo grido ineffabile;se chiederà Comunioni, specie nel primo venerdì del mese, è perché non si può scindere il Sacramento dell’Amore dal Cuore che l’ha istituito e che freme nascosto sotto i candidi veli; se la devozione al S. Cuore domanderà riparazioni, immolazioni,sacrifici, è perché l’Amore non è amato, e perché sia riconosciuto quel Cuore da cui viene la nostra salute. Agli individui,alle famiglie che a lui si consacrano, alle nazioni che a Lui si volgono, il S. Cuore non parla se non di Amore. Il mondo sarà vinto dall’Amore e solo mediante l’Amore. E le braccia stese in croce dal Re dell’amore stringeranno l’avvenire, che si avanza verso il suo Cuore» (Cfr. OLGIATI, 0. c., pag. 138-9).

IL FINE DELLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE: VIVERE CON GESÙ.

Il fine della devozione al Sacro Cuore, dopo quanto abbiamo detto, non può essere se non questo: attingere, da questo Cuore SS. la sacra influenza della grazia e dell’amore per vivere della stessa sua vita; sentire la gioia di riprodurre in noi i suoi sentimenti e le sue opere per raggiungere il frutto della salvezza eterna, in noi e nelle anime che avvicineremo; l’intima adesione del cuore nostro al Cuore di Gesù Amore, e per avere l’immedesimazione assoluta della nostra vita con la sua. Un dotto gesuita, il P. Giuseppe Petazzi, in un aureo opuscolo su l’apostolato della preghiera e la devozione al S. Cuore (Cavarzere, 1926. Cfr. OLGIATI, 0. c.), scrive: « Meditando attentamente gli scritti della discepola eletta del Cuore SS. Di Gesù, santa Margherita Maria, noi vediamo che il culto al Cuore SS. di Gesù tende tutto a far sì che noi ricopiamo in noi stessi l’interiore di Gesù. Ed è naturale: la devozione ad un Cuore non può propriamente risiedere se non nel cuore; la devozione ad un Cuore divino deve tendere a divinizzare per virtù d’amore i nostri cuori trasformandoli in quel Cuore divino. Dobbiamo far nostri i suoi sentimenti, far nostra la sua vita. In mille modi Nostro Signore manifestò alla Santa questo suo disegno: in mille modi la fedele discepola ce lo comunicò. Riassumendo e compendiando quei preziosi divini insegnamenti, ci sembra di poter dire che la devozione al Sacro Cuore, come fu da Gesù stesso insegnata, si riduce alla pratica della vita interiore, vita eminentemente e intensamente soprannaturale, vita di immolazione, vita di riparazione, vita di apostolato; col che non intendiamo propriamente di indicare cose diverse, ma piuttosto di segnare e sottolineare i caratteri propri di una vita trasformata, per virtù d’amore, nell’interiore vita di Gesù». La devozione al Cuore di Gesù così intesa, ci guida a comprendere la dottrina del Corpo mistico di Gesù ch’è luminosa, profonda, centrale nella vita cristiana. Intendere questa dottrina vuol dire capire tutto il Cristianesimo, tutta la sua multiforme attività che, pure, si esprime in una mirabile unità. La varietà dell’unità è, del resto, la legge fondamentale dell’universo, tanto che vi fu chi nello studio del nucleo cellulare ha ritrovato Dio e nell’immensamente piccolo ha adorato l’Infinito. – Così Gesù, nella conoscenza e bontà del suo Cuore, ci guida alla unione con Dio, alla pratica della vita interiore.

LA VITA INTERIORE (20)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 11

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (11)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VIII.

Della mortificazione

È verità certissima che, dopo il peccato, Adamo è stato maledetto tutto intero, vale a dire non solo nella sua persona ma anche in tutta la sua discendenza: dimodoché Dio riprova tutto quanto di Adamo v’è in noi; la sua santità non lo potrebbe sopportare. La condanna divina, non porta soltanto su la carne, ma ancora su le opere della carne; perciò, queste opere sono da S. Giovanni chiamate carne. Ciò che è nato dalla carne è carne: la carne non serve a nulla; e S. Paolo la chiama morte e carne di peccato, perché ci porta al peccato; è ripiena « di desiderii del peccato, non ha in sé che inclinazione propensione al peccato (Joann., III, 6; VI, 64- Rom. VIII. 6). Se persino in Nostro Signore la carne viene da S. Paolo chiamata peccato e maledizione, benché in Lui non vi fosse che la somiglianza col peccato, non avendone Egli preso che la figura e l’immagine (Rom. VII, 8): quanto più deve essere chiamata con tale nome in noi che, pur troppo, ne abbiamo la malizia, la dissolutezza ed i disordini?

***

Donde chiaramente appare che tutto quanto si opera per principio della carne, per la sua mozione, le sue inclinazioni, i suoi desideri, la sua impressione e la sua impetuosità, non serve di nulla per la vita eterna, ma, al contrario, viene senza posa riprovato da Dio; secondo questo fondo corrotto e questa parte maligna, con tutto ciò che da tale principio viene operato in noi, siamo per il Signore oggetto di avversione. Dovremmo vivere in una immensa confusione, con la faccia contro terra, per la vergogna di vederci così riprovati da Dio in una parte di noi stessi e per la malignità di quel fondo maledetto che abbiamo in noi. – Le opere, infatti, che provengono dalla mozione e dall’istinto della carne oppure dalla pradenza della carne, non sono che opere di morte (Rom. VII, 6), da Dio condannate come frutto della malignità del demonio, il quale ha corrotta la nostra carne e vi ha impresso quelle maligne inclinazioni che la portano ad allontanarsi da Dio e usurparne il posto, col cercare sé stessa in ogni cosa come suo ultimo fine (La scuola berulliana adotta, riguardo agli effetti del peccato originale in noi, l’opinione teologica più stretta. Perciò le espressioni di Giov. Olier contro la carne sono assai forti, ma sempre nei limiti della fede. Per altro, il linguaggio del Servo di Dio, in sostanza, è quello di S. Paolo nel capo VIII dell’Epistola ai Romani e dell’Imitazione di Cristo nei capitoli XIV e XV del libro III. Anche Nostro Signore disse che dobbiamo odiare l’anima nostra – Joan. XII, 25, ossia « quella parte di noi, come spiega G. Olier in altro luogo, che è unita alla carne ed è contraria a Dio con la carne »). Ecco il fondo e l’origine della nostra malignità intima e segreta, quella prepotente inclinazione a cercare incessantemente, in ogni nostra azione, null’altro che il nostro interesse, la nostra soddisfazione e il nostro onore, non mai Dio, non mai la sua volontà né il suo compiacimento. La carne non può mai cercare Dio perché, come dice S. Paolo, essa non è, né mai può essere soggetta alla legge di Dio (Rom. VIII, 7). – Perciò, Nostro Signore, venuto al mondo per farci intendere la nostra miseria e la necessità del soccorso di un principio interiore che ci faccia vivere divinamente, volendo renderci persasi dell’urgente bisogno che abbiamo di un altro spirito che quello della carne, vale a dire, dello Spirito Santo che ci attacchi a Dio, elevandoci al disopra della terra, diceva: Lo Spirito è quello che dà la vita (Joan. VI, 64). Lo Spirito Santo dà la vera vita, lo Spirito Santo santifica tutte le nostre opere, lo Spirito Santo ci fa operare in tutto come veri figli di Dio (Rom. VIII, 14). – I veri figli di Dio sono ben differenti la quelli di Adamo, perché sono diretti dallo Spirito Santo e condotti dalla luce della fede; ricevono la virtù di operare con l’intenzione di piacere a Dio e in un modo superiore alla propria natura. Ciò presupposto, possiamo notare vari motivi che ci obbligano alla mortificazione di noi stessi.

1

Primo motivo della mortificazione.

Siamo Cristiani, dobbiamo vivere secondo lo Spirito ricevuto nel Battesimo. In questa vita c’è sempre da combattere. – Grande vantaggio nella lotta contro la carne.

Il Cristiano non deve vivere secondo la carne, (Debitores sumus non carne, ut secundum carnem vivamus. – Rom., VIII, 12), ma secondo lo spirito, avendo nel battesimo ricevuto in sé lo Spirito Santo perché sia il principio delle sue opere e tolga alla carne la facoltà di trascinarlo. Questo ci obbliga a reprimere la carne e a mortificarla in ogni occasione, affinché lo Spirito Santo possa fare in noi ciò che Egli vuole e portarci a ciò che Egli desidera. Benché lo Spirito ci porti talora a certe cose che sono pure conformi ai desideri della carne, come sono il cibo, il riposo ed altre simili, non le dobbiamo tuttavia compiere per i motivi impuri ed i fini perversi della carne, né per un maledetto principio di amor proprio, ma per un principio divino, per un principio di santità che ci elevi a Dio nel distacco da noi stessi e dalle creature. Orbene, ecco il segno per conoscere la differenza che passa tra le opere alle quali ci portiamo per il principio della carne e quelle alle quali ci portiamo per il principio dello Spirito. Chi opera secondo il principio della carne, opera con precipitazione, con veemenza. per il proprio piacere, e senza essere mosso da nessuna intenzione rivolta a Dio. Quando invece siamo mossi dallo Spirito, questo ci ispira interiormente qualche motivo divino, quindi il nostro operare viene riferito a Dio, con l’intenzione di piacere a Lui e di renderci capaci di servirlo; noi allora, più dell’opera che facciamo e più della creatura di cui abbiamo bisogno, consideriamo Dio medesimo. – Inoltre, lo Spirito si fa sentire per la forza con cui ci eleva a Dio, per la dolcezza, la pace, la soavità della sua mozione; ci tiene distaccati da noi medesimi, e rimane in possesso della nostra volontà onde portarla, nelle sue mani, a tutto quanto Egli desidera da noi. È questo propriamente ciò che si chiama essere spirituali e in ogni cosa vivere secondo lo spirito; quando, cioè, lo Spirito Santo è in noi il principio di tutto, ci possiede interamente, ci tiene nelle sue braccia e ci porta dovunque gli piace. Benché in alcuni ciò avvenga in modo più sensibile che in altri, ciò si verifica in tutti quelli che vogliono mortificarsi, rinunciando in tutto alla propria carne e a sé medesimi. – Quando lasciamo il posto allo Spirito con piena libertà di disporre di noi, Egli non manca mai di esercitare in noi la sua azione e di dirigerci; non manca mai di prendere possesso delle nostre facoltà per elevarle alle opere che Dio desidera da noi, perché viene e abita in noi unicamente per promuovere, per mezzo nostro, la gloria di Dio. Egli sta in noi, per essere il principio della nostra vita nuova, di quella vita divina di cui dobbiamo vivere. Dopo il battesimo, infatti, nel quale abbiamo ricevuto lo Spirito di figlioli di Dio, noi dobbiamo vivere secondo la volontà di Dio, anzi vivere della vita medesima di Dio, perché il figlio deve vivere della vita del padre suo; il figlio proviene dal padre come un secondo vivente, deve quindi continuare, dilatare e propagare la vita medesima del padre, in una parola, aver col padre un medesimo principio di vita. Orbene, la vita di Dio in se stesso è Dio medesimo, ed Egli è il principio della propria vita. Così la vita in noi è Dio: Dio è il principio della nostra vita, principio che ci anima, ci muove ed è la nostra forza. Qui sta la differenza tra i battezzati e gli infedeli; i battezzati han ricevuto lo Spirito di Dio, che è Dio medesimo il quale abita in essi come nuovo principio di vita e di azione. Ma gli infedeli e tutti i figli di Adamo sono mossi dalla carne e dallo spirito maligno; vivono secondo i sentimenti, i movimenti e la vita della carne e dello spirito maligno. E così avviene pure dei Cristiani che cadono in peccato mortale; perché, rinunciando allo Spirito divino col quale erano una sola cosa, per unirsi ed aderire allo spirito maligno, diventano per ciò stesso una cosa sola con quest’ultimo. Il demonio ha gran potere sopra la carne, perciò dobbiamo stare in guardia per essere costanti nel rinunciare coraggiosamente ad essa; egli la spinge, la muove, l’anima a suo piacimento, perché non è ancora rigenerata né santificata come il nostro spirito è rigenerato e santificato dal battesimo. Nella presente vita, la nostra rinascita non è perfetta; essa è parziale, né sarà completa che nel giorno del giudizio e della universale rigenerazione; allora i nostri corpi saranno rinnovati e trasformati, le loro inclinazioni maligne e carnali saranno cambiate in quelle dello spirito; trasformazione che non viene operata dal battesimo in questa vita, Nel battesimo, lo spirito dell’uomo viene rigenerato, dimodoché riceve inclinazioni nuove, riceve cioè le inclinazioni di Gesù Cristo invece di quelle di Adamo delle quali era ripieno a motivo della relazione con la carne maledetta che proviene da Adamo e ne conserva le inclinazioni. L’anima non ha la sua origine da Adamo, ma da Dio che l’ha tratta dal proprio seno per metterla in quel corpo umano che proviene da Adamo. Perciò, Dio la considera come sua figlia, e si prende cura di purificarla, lavarla, separarla, santificarla mediante la grazia del Figlio suo e per l’aspersione del sangue di esso, per la presenza del suo proprio Spirito che la libera e la purifica dalle macchie contratte nella alleanza con la carne. Orbene, benché l’anima sia così purificata e rigenerata, il corpo, vero figlio di Adamo, conserva sempre le sue inclinazioni e le sue tendenze, rimane sempre per intero nei suoi primitivi e maledetti sentimenti, e tale rimarrà sino al giorno della rigenerazione universale per la quale nel dì del giudizio, i corpi saranno riformati da Gesù Cristo nostro Padre, che infonderà in essi i suoi propri sentimenti e li renderà partecipi della sua redenzione. Noi sospiriamo, dice S. Paolo, e gemiamo entro noi stessi, perché sentiamo ad ogni ora gli istinti della carne e la vita del nostro misero padre Adamo (Rom. VIII, 23). Sospiriamo perché, essendo già figli di Dio nello spirito, non lo siamo ancora nel corpo; perché la nostra carne non ha ancora ricevuto le inclinazioni del Padre nostro e non è ancora partecipe di quelle del nostro spirito. Gemiamo perché non siamo ancora figli che a metà (Initium aliquod creaturæ ejus. Jac., I, 18), mentre i nostri corpi non partecipano ancora alla nostra adozione, non hanno ancora ricevuto gli effetti della grazia di adozione e rimangono privi, a differenza della nostra anima, dei privilegi della redenzione operata da Gesù Cristo. – Ahimè, qual peso per il nostro spirito! Quale pericolo per noi, il nostro corpo! Esso è così lontano da Dio, così pesante e pende così fortemente verso la rovina, che facilmente trascina l’anima e lo spirito, se non resistono continuamente alle sue maledette inclinazioni. L’anima è costretta ad animare la carne e a servirsene, ma ne resta aggravata. La carne deprime lo spirito, ossia quella parte superiore ed eminente che lo Spirito Santo eleva alla partecipazione della sua divina luce. È dunque essenziale che il nostro spirito si mantenga continuamente fermo nella sua adesione allo Spirito Santo e si elevi continuamente a Lui; che ad ogni ora si dia e si abbandoni alla sua potenza, separandosi e allontanandosi dall’anima infetta dalla carne e dalle mozioni della carne e perciò attratta verso la terra e le creature. Se il nostro spirito non rimane fedele in tal modo allo Spirito Santo, diventa carne, perché da questa si lascia assorbire e ne riceve i sentimenti, a quel modo che prima era spirito, quando cioè aderiva allo Spirito Santo e gli era unito per l’amore e l’affezione. Tale è lo stato dell’uomo in questa vita, stato che lo pone nella necessità di rinunciare incessantemente a se stesso, di resistere alla propria carne, di mettersi risolutamente dalla parte dello spirito, di vivere continuamente nel timore a motivo della smania del corpo nel ricercare la propria soddisfazione. Perciò la via che dobbiamo seguire, via unica, sicura e certa, è di rinunciare alla carne, togliendo tutto quanto essa desidera e così aderire allo spirito e non essere che una sola cosa con lui. Allora si compirà quanto dice l’Apostolo: Chi aderisce a Dio, ossia sta unito a Dio, diventa con Lui un solo Spirito (1 Cor. VI, 17). Procuriamo dunque di darci per intero a quel divino Spirito, rinunciando a tutto quanto non è Lui. – O Spirito divino, rapiteci! Elevateci a tutto ciò che è di vostro gradimento! Fate che nulla ci trattenga più in questo mondo né ci attacchi alla terra! Fate che non ci occupiamo più di cose terrene: A Voi, a Voi solo il nostro cuore, le nostre affezioni e tutto ciò che siamo!

***

Ecco, dunque, il primo motivo che abbiamo di praticare la mortificazione; siamo Cristiani e quindi obbligati a vivere secondo lo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo e che ci fa aderire a Dio onde non vivere più secondo la carne. Benché una tal pratica sia la rinuncia ad ogni cosa creata, tuttavia non vi perdiamo nulla. Perché, in virtù di questa unione ammirabile di Dio con noi e di noi con Dio, noi, in quel Dio che possiede in se stesso ogni verace bene, troviamo attrattive così potenti, che l’anima nostra senza rincrescimento si priva di tutto quanto le viene proposto dalla carne. In Dio essa trova i beni veraci di cui gli altri beni non sono che apparenze: Dio ha voluto che questi beni apparenti fossero come immagini, figure, somiglianze di Lui; se l’anima prende queste figure per la realtà, sta nella menzogna, ma se ne giudica con rettitudine e ne ha una vera conoscenza, vi rinuncerà mille volte al giorno. Essa riconoscerà che il grande ed unico bene è Dio, il quale ora vuol essere posseduto in se stesso e non più nelle sue creature, come quando si dava all’anima sotto la figura delle creature, facendosi conoscere ed amare sotto i titoli e le qualità con cui in esse rappresentava sé medesimo; a questo fine si presentava, come luce nel sole, come calore nel fuoco, come fermezza sotto la figura della terra, come bellezza nei fiori; ma erano rappresentazioni sempre imperfettissime, perché si trattava di creature materiali, corruttibili e passeggere. Ora, invece, Egli non vuole più darsi al possesso dell’anima che in se stesso e in spirito; vuole che l’anima lo possegga immediatamente e si dà ad essa direttamente. Dio vuole che l’anima e lo spirito gli stiano interiormente uniti, dimodocé Egli li possegga, li animi, li diriga e li elevi in tal modo al di sopra della carne e della terra, che non abbiano più nessun altro desiderio che di essere totalmente da Dio, posseduti e in Lui consumati. In forza di che noi viviamo nell’avversione della carne e da essa separati, e la mortifichiamo in tutto nella nostra persona.

***

Ma è da notarsi che questa mortificazione deve essere non solo universale, ma anche continua, perché la minima mancanza di mortificazione abbassa l’anima ad aderire alla carne; e così a poco a poco il nostro spirito diventa carne, si distacca da Dio per abbandonarsi alla creatura. Il nostro spirito quanto più si ferma alla creatura tanto meno aderisce a Dio, perché ne riceve meno il soccorso. Quanto più è privo del grande aiuto di Dio cui prima aderiva e dal quale era sorretto, tanto più diventa pesante, inclinato alle cose terrene; così per non aver mortificato continuamente la propria carne, a poco a poco cadrà nella rovina. Se vivrete secondo la carne, dice S. Paolo, morrete; se invece, con lo spirito, darete morte alle azioni della carne, vivrete (Rom. VII, 131).Questa pratica della mortificazione èfacile per chi vive nello Spirito della graziaed è ben posseduto da Dio; perché loSpirito Santo che sta in noi, attira l’animanostra, trattiene il nostro spirito perchénon aderisca alle creature. Quando sigode in tal modo della unione perfetta epura con Dio, bisogna guardarsi bene daiprimi assalti delle creature; appena si sentequalche attrattiva verso di esse, bisognaresistervi, allontanarsene e separarsene totalmente. Se avviene, a cagione di esempio, esi presenti ai nostri occhi qualche oggettoattraente e che l’anima sia spinta a compiacersene, bisogna rinunciarvi e astenersi dal guardarlo. Questo si chiama mortificare i propri occhi; così bisogna dire degli altri sensi esterni ed interni, ed anche delle altre facoltà dell’anima nostra

LA VITA INTERIORE (18)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (18)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

LUCE DIFFUSA

LA DEVOZIONE A MARIA

LE ALTEZZE DI MARIA.

Ad Jesum per Mariam.

Tota ratio spei meæ, Maria!

« Non vi è certamente che un Dio solo e un solo Mediatore necessario, Gesù Cristo. » Ma piacque alla sapienza e alla Bontà divina di darci dei protettori, degli intercessori e dei modelli che siano o almeno sembrino più vicini a noi; e sono i Santi, i quali, avendo ricopiato in se stessi le perfezioni divine e le virtù di Nostro Signore, fanno parte del suo corpo mistico e si dànno pensiero di noi che siamo loro fratelli. Onorandoli, onoriamo Dio stesso e un riflesso delle sue perfezioni. » Tra di essi, soprattutto, c’è Maria, la Madre di Dio e Madre degli uomini » (TANQUEREY, Compendio di vita Ascetica, 103). Ed è più che giusto. Maria non è solo la piena di grazia; ma il tempio, il tabernacolo vivente dell’autore della grazia! È la Regina celeste che ha tutte le virtù! Nessun’anima, nessuna, anche se attinse alle più alte vette della santità, può esserle paragonata. Per la sua altezza, per la ricchezza immensurabile delle sue perfezioni, per la sua intimità con Dio, noi dobbiamo invocarla, pregarla, imitarla, certi che, per mezzo di Lei raggiungeremo l’unione con Dio, l’unificazione con Gesù, il termine delle nostre elevate aspirazioni. « Signore Gesù, ascolta quanto il cuore, sotto l’azione soave della tua di amore ci suggerisce! Il cuore della Madonna, quale verginale campo di fecondità divina! Tu scendesti, verso di Dio, in questo campo: celeste ed una fecondazione infinita riempi la terra di Paradiso! Ma dimmi, Signore: anche dopo che la Vergine ti generò al mondo, non rimanesti Tu, con la invisibile presenza della Tua Parola, a fecondare quella valle celeste e silenziosa? Il Cuore di Maria non resta ancora campo seminato di infiniti germi di vita divina, vero Paradiso di tripudio ove si appuntano le compiacenze celesti del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo? Al quale mirano con dolce emozione i serafini del cielo e della terra? Quale splendore di immacolatezza in questo Tabernacolo ove sono diffuse a profusione — prodigalità amorosa! — le perle che ornano la celeste Gerusalemme!» (Giov. Italica, ott. 1934 – S. La Pira).

MOTIVI DI CONFIDENZA.

Il santo don Giovanni Bosco, nel suo aureo libretto in onore di Maria (Il mese di maggio pel popolo.), dopo avere affermato che i motivi di confidenza in Lei sono innumerevoli, passa a indicarne i principali, che riduce a tre, e sono i seguenti:

1. Maria è più santa di tutte le creature;

2. Maria è Madre di Dio;

3. Maria è Madre nostra.

Questi motivi sono veramente chiarissimi, anzi, evidenti per se stessi. Se Maria SS. può tutto, certamente può e vuole il nostro più completo miglioramento, la nostra vicinanza, la nostra unione con Gesù. Così Ella ci viene ammaestrando coi suoi esempi, con la luce della sua vita mortale, con la forza del suo sacrificio; con la nobilissima rassegnazione nelle sofferenze fisiche e morali, con la sua più profonda umiltà. Ma « noi siamo in questo mondo come in un mare burrascoso, come in un esilio, in una valle di lacrime. Maria è la stella del mare, il conforto del nostro esilio, la luce che ci addita la via del cielo asciugandoci le lagrime…» (S. Giov. Bosco, o. c., pag. 177.). Ci terge le lagrime, ci viene in aiuto, ci favorisce la sua luce, ascoltando i nostri gemiti, esaudendo la nostra preghiera, difendendoci dal nemico dell’anima nostra.

UN SOGNO… DI DON BOSCO.

Il santo don Bosco, sempre tanto illuminato nel condurre le anime ai piedi della Vergine Santissima, narrò ai suoi alunni il seguente sogno: «Sognai di trovarmi con tutti i giovani a Castelnuovo d’Asti a casa di mio fratello. Mentre tutti facevano ricreazione, viene a me uno ch’io non sapeva chi fosse, e m’invita in un prato attiguo al cortile e là mi indicò fra l’erba un serpentaccio lungo sette od otto metri e di una grossezza straordinaria. Inorridii a tal vista e voleva fuggirmene: — No, no, mi disse quel tale, non fugga; venga qui e veda. — E come, risposi, vuoi che io osi avvicinarmi a quella bestiaccia?  — Non abbia paura; non le recherà alcun male; venga con me. — Prenda questa corda, la sospenderemo sopra il serpente. — E poi? — E poi gliela lasceremo cadere attraverso la schiena. — Ah! no per carità! Perché, guai se noi faremo questo. Il serpe salterà su indispettito e ci farà a pezzi. — No no; lasci fare da me. — Là, là! io non voglio prendermi questa soddisfazione che può costarmi la vita. — E già me ne voleva fuggire. Ma quel tale insistette di nuovo, mi assicuro che non avevo di che temere, che il serpe non mi avrebbe fatto alcun male, e tanto disse che io rimasi e acconsentii a far il suo volere. Egli intanto passò dall’altra parte del mostro, alzò la corda e poi con questa die una sferzata sulla schiena del serpe. Il serpente fece un salto volgendo la testa indietro per mordere ciò che l’aveva percosso, ma invece di mordere la corda, restò ad essa allacciato come in cappio scorsoio. Allora mi gridò quell’uomo: — Tenga stretto, tenga stretto e non lasci sfuggire la corda. Frattanto il serpente si dimenava, si dibatteva furiosamente e dava giù colpi in terra con la testa e colle immani sue spire, che laceravansi le sue carni e ne faceva saltare i pezzi a grande distanza. Così continuò finché ebbe vita; e, morto che fu, più non rimase di lui che il solo scheletro spolpato. Morto il serpente, quel medesimo uomo slegò la corda che aveva legato dall’albero alla finestra, la trasse a sé, la raccolse, ne formò come un gomitolo e poi mi disse: — Stia attento neh! — Così mise la corda in una cassetta che chiuse e poi dopo qualche istante aprì. I giovani erano accorsi attorno a me. Gettammo l’occhio dentro alla cassetta e fummo tutti stupiti. Quella corda si era disposta in modo che formava le parole « Ave Maria!» — Ma come va! Ho detto. Tu hai messa quella corda nella cassetta così alla rinfusa e ora è così ordinata. — Ecco, disse colui; il serpente figura il demonio, e la corda l’« Ave Maria » o piuttosto il Rosario che è una continuazione di «Ave Maria», colla quale e colle quali si possono battere, vincere, distruggere tutti i demoni dell’inferno» (Vedi LEMOYNE, Memorie biografiche di don Bosco, vol. VII).

MARIA ESEMPIO E MAESTRA D’UNIONE CON GESÙ.

Ma tra tutti gli aiuti che Maria può e vuole dare alle nostre anime, il primo e principale per noi, il più caro per Lei, è quello di insegnarci ad acquistare la vita d’unione con Gesù. Il suo ammaestramento, anche in questo, ci è dato dalla sua vita. Infatti « Nessuna creatura umana fu più di Lei unita a Dio mediante la grazia di Gesù Cristo. Non miracoli o manifestazioni rumorose noi troviamo nella Madonna, ma tutta la sua grandezza ed i suoi privilegi, fonte della sua gloria, si riducono a quell’unione. Ella è l’Immacolata, e come tutti sanno, l’immacolato concepimento non è altro se non la esclusione della colpa originale, ossia il fatto che mai l’anima di Maria fu priva della grazia e dell’unione con Dio. » Ella è la Vergine e della verginità ci offre il vero e profondo significato, la dedizione completa della creatura al Creatore e sua unione con Lui; Ella è la Madre, che mediante l’unione con Dio nell’incarnazione, unisce gli uomini tutti, — tutti i suoi figli — al Padre. E se anche dovessimo dare uno sguardo alla Corredentrice, altro non coglieremmo se non l’unione con Gesù nei suoi misteri; l’Assunzione non è altro che l’unione perfetta con Dio in cielo; il culto per la Vergine nei secoli, ha per oggetto e per finalità l’unione con Dio e la grazia. Insomma, in questa musica una sola nota, divinamente bella, squilla ed echeggia; e senza le nozioni del soprannaturale, sarebbe vano voler, sia pure pallidamente comprendere colei che santa Geltrude invocava così: O giglio bianco della Trinità splendente » (Olgiati, Il sillabario del Cristianesimo, pagina 245-6.). Ma ancora e sempre: Ad Jesum per Mariam! O Gesù dolce, Gesù Amore, ascoltaci: nel cuore di Maria, tutte le tue bellezze, tutti i raggi della tua gloria, tutti i sorrisi della tua inebriante bontà, tutta la dolce e ricca e piena e amorosa cura del tuo Amore per il nostro dolore, della tua luce per le nostre tenebre, della tua ricchezza per la nostra miseria, del tuo tutto pel nostro nulla.

(Ora l’amore che aveva per il Figlio, Maria lo riversa su noi che siamo i membri viventi di questo Figlio divino, la sua estensione e il suo complemento.)

A. TANQUEREY.

SECONDA FESTA DI PASQUA

SECONDA FESTA DI PASQUA

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo Saggio di OMELIE III ed., Vol. II – Marietti ed. Torino, 1899]

Omelia XIII.

“Pietro disse: Fratelli, con tutta certezza io ho compreso, che Dio non è accettatore di persona; che anzi chiunque lo teme ed opera la giustizia, a qualunque nazione egli  appartenga, gli è accetto. Iddio mandò la parola ai figli d’Israele, annunziando la pace per Gesù Cristo (è questi il Signore di tutti); voi conoscete ciò che è avvenuto per tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; come Iddio unse Gesù di Nazaret di Spirito Santo e di potenza, il quale andò attorno facendo beneficii e liberando quanti erano posseduti dal demonio, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutto ciò ch’egli fece nel paese dei Giudei e in Gerusalemme. Essi, i Giudei, lo uccisero, sospendendolo ad un legno. Dio lo ha risuscitato il terzo giorno ed ha fatto che fosse conosciuto, non già a tutto il popolo, ma a testimoni preparati da Dio, cioè a noi che abbiamo mangiato e bevuto con Lui, dopo ché fu risorto dai morti. Ed Egli ci comandò di predicare al popolo e di attestare, ch’esso è costituito da Dio giudice dei vivi e dei morti. A lui rendono testimonianza tutti i profeti, che nel suo nome si riceve la remissione dei peccati da quanti credono in Lui „ (Atti apost, X, 34-43).

Nulla di più conveniente quanto il ricordare ai fedeli il grande mistero della risurrezione di Gesù Cristo anche in questa seconda festa della santa Pasqua. E perciò la Chiesa ci fa leggere nell’Epistola della Messa odierna il compendio di un bellissimo discorso, nel quale S. Pietro annunzia il miracolo della risurrezione ad alcuni Gentili. E perché conosciate la ragione di questo discorso di S. Pietro, compendiato da S. Luca, è necessario fare un po’ di storia. – I profeti in modo chiarissimo avevano annunziato che il futuro Messia avrebbe chiamato al conoscimento della verità anche i Gentili: Cristo più e più volte l’aveva insegnato agli Apostoli, anzi fatto loro un comando formale di predicare il Vangelo dovunque e battezzare tutte le genti. Gli Apostoli, pertanto, sapevano benissimo che anche i Gentili dovevano essere chiamati alla fede ed alla Chiesa di Gesù Cristo; ma trovavano una fiera opposizione, non solo nei Giudei avversi al Vangelo, ma ciò che era peggio, anche nei Giudei già divenuti cristiani. Questi, ancorché credenti in Gesù Cristo, non sapevano persuadersi, che i Gentili dovessero essere pareggiati a loro, figliuoli di Abramo: non potevano tollerare che ricevessero il battesimo come loro, se prima non professavano il mosaismo e non si sottomettevano alla circoncisione. Gli Apostoli, ancorché conoscessero perfettamente la volontà di Cristo, erano sospesi quanto al modo e al tempo di procedere in cosa sì grave e sì delicata per non offendere troppo apertamente questi Giudei cristiani, sì deboli nella fede. Aspettavano che la Provvidenza aprisse loro la via, e l’aperse col fatto narrato da San Luca nei versetti precedenti a quelli, che vi ho recitati. A Cesarea viveva un centurione romano, della coorte detta Italica; era gentile, ma religioso, pio, caritatevole, pregava Dio, che lo illuminasse: e come lui era tutta la sua famiglia. Un giorno gli apparve un Angelo e gli impose di chiamare Pietro, che si trovava a Joppe, l’odierna Giaffa. Vi mandò due suoi domestici e un soldato fedele, e Pietro, a cui Iddio con una mirabile visione aveva fatto conoscere, che l’ora di chiamare alla fede anche i Gentili era venuta, andò con loro a Cesarea, entrò nella casa di Cornelio, dov’erano raccolti molti altri Gentili: vi fu ricevuto come un Angelo del cielo. A questo gruppo di Gentili, che cercavano la verità con tanto amore, che vivevano piamente, Pietro rivolge il discorso, del quale lo scrittore degli Atti apostolici ci ha conservato un brevissimo sunto. – Ora commentiamolo. S. Pietro parlava ad una piccola radunanza di Gentili, che l’avevano chiamato affinché li istruisse: due miracoli erano avvenuti, l’apparizione dell’angelo a Cornelio ela visione manifestata a Pietro, ed entrambi i miracoli erano evidentemente volti a provare, che anche i Gentili dovevano essere ricevuti nella Chiesa. Ciò posto, nulla di più naturale di queste prime parole di S. Pietro: “Con tutta certezza ho compreso, che Dio non è accettatore di persona. „ Comprendo, dice l’apostolo, Il che ora è venuto il tempo della salute anche |per i Gentili: la volontà di Dio ora è manifesta: “Egli non è accettatore di persona. „ E una espressione ripetuta più volte nei Libri del nuovo Testamento, e significa che nella distribuzione dei suoi doni il Signore non guarda alle qualità personali di nazione o di patria, d’ingegno, di dottrina, di ricchezza o povertà, od altre doti, come sogliono fare gli uomini. Iddio non è tenuto di dare le sue grazie a chicchessia appunto perché sono grazie. Nondimeno per sua bontà e perché l’ha promesso, le grazie necessarie a salute, mediatamente o immediatamente, le dà a tutti. – Ciò non toglie ch’Egli poi sia più largo con gli checon gli altri, secondochè a Lui piace secondo i consigli della sua sovrana sapienza, che a noi non è dato di scrutare. – Credevano i Giudei d’avere essi soli diritto alla fede, perché figli di Abramo, e ne volevano esclusi i Gentili, perché Gentili. No, dice S. Pietro, Dio non guarda se siano Giudei o Gentili, non distingue gli uni dagli altri, ed offre a tutti la sua grazia, perché tutti sono opera delle sue mani e per tutti Gesù Cristo è morto. Una cosa sola Dio esige, ed è “che lo si tema e si operi la giustizia: chi fa questo, a qualunque nazione e gli appartenga, è accetto a Dio. „ Qui si affaccia una difficoltà: noi sappiamo per fede, che nessun uomo può fare cosa alcuna che lo renda accetto a Dio, se prima non riceve la sua grazia, e qui il Principe degli Apostoli afferma ch’egli, Dio, ha per accetto, ossia dà la grazia a chi lo teme e opera la giustizia: sembra dunque che le opere buone dell’uomo debbano precedere la grazia, che è errore manifesto ed eresia. Come, dunque, si ha da intendere? Ecco, o carissimi. Le grazie di Dio sono come una catena, nella quale un anello tira con sé l’altro. Dio comincia e dà la prima grazia ai poveri Gentili, giacché in questo luogo si parla a Gentili: li muove a pregare, a fare limosine, a cercare la verità; se essi corrispondono a questa grazia prima, per una cotale convenienza e per la bontà e promessa di Dio si rendono in qualche modo meritevoli d’altre grazie maggiori, finché si compia l’opera della loro conversione e santificazione. Il timore adunque di Dio e l’opera della giustizia, di cui parla San Pietro, e che a Dio rendono accetto l’uomo, suppongono sempre la grazia precedente, senza della quale l’uomo non può né cominciare, né proseguire opera buona alcuna. Voi – il paragone è di S. Francesco di Sales – voi, viaggiando verso la patria, stanchi vi addormentate all’ombra d’un albero. Il sole, continuando il suo cammino, drizza i suoi raggi sul vostro volto e vi costringe ad aprire gli occhi: voi allora vi accorgete che l’ora è tarda, che bisogna ripigliare il cammino: vi alzate alla luce del sole proseguite la via. Fu il sole che vi destò, il sole che vi mostrò la via da percorrere, e alla luce del sole camminaste. Così fa la grazia di Dio col peccatore, col Gentile: comincia a fargli conoscere la verità, lo eccita a fare alcune opere, che lo preparano alla conversione, e finalmente lo converte, rinnova il suo cuore, lo rende figlio di Dio, e cominciando con la grazia attuale, finisce con la abituale e santificante. – Ma ascoltiamo S. Pietro. Dio dà la a tutti senza far distinzione tra Giudeo e Gentile, ed io, dice l’Apostolo, son venuto ad annunziarvela. Sappiate adunque che Dio mandò la parola ai figliuoli d’Israele, „ cioè fece loro conoscere la verità per mezzo della parola o della predicazione di Gesù Cristo, predicazione annunziatrice della pace, che deve stabilirsi tra Dio e gli uomini, riconciliando questi con quello; predicazione di Gesù Cristo, che è, sappiatelo bene, il Signore di tutti, perciò Signore degli Ebrei non mene che dei Gentili, e dispensatore egualmente a tutti delle sue grazie. – E qui S. Pietro in poche parole accenna alla predicazione di Gesù Cristo, che ebbe principio nella Galilea, dopo il battesimo ricevuto da Giovanni, e poi si sparse ampiamente per tutta la Giudea. Voi conoscete, prosegue S. Pietro, come Iddio unse Gesù da Nazaret di Spirito Santo e potenza. I Gentili, ai quali parlava S. Pietro, senza dubbio dovevano, almeno per fama, conoscere Gesù Cristo e le opere che aveva compiuto, giacché il fatto qui narrato avvenne cinque o sei anni circa dopo la sua morte, e grande era il rumore che si era levato in tutta la Palestina e cresceva ogni giorno mercé la predicazione degli Apostoli. E che unzione è questa, della quale parla il sacro testo? Un’unzione qualunque suppone chi la dà e chi la riceve, e naturalmente significa non solo una applicazione esterna del liquido, che si adopera, ma una penetrazione intima del medesimo, a talché la parte unta ne rimane, a così dire, tutta imbevuta. Che cosa raffigura questa unzione? Senza dubbio la grazia divina, che a guisa d’olio o di balsamo tutta penetra e imbeve l’anima, risanandola, nutrendola, rafforzandola e trasformandola. Chi è colui, che dà questa unzione, che sparge questo balsamo divino? È Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo, con un solo e medesimo atto. E perché poi qui si attribuisce al solo Spirito Santo? Non sono esclusi il Padre ed il Figlio, ma si nomina il solo Spirito santo, perché questa unzione o grazia è dono di Dio, è atto di amore, e lo Spirito Santo è l’Amore sostanziale del Padre e del Figlio, e però dice un rapporto particolare allo Spirito santo. E chi è colui che riceve questa unzione dello Spirito Santo? È Gesù Cristo in quanto uomo. Nell’atto istesso, in cui l’anima sua fu creata e congiunta al corpo, e anima e corpo congiunti alla Persona del Verbo di Dio in guisa che Egli poté dire: Io sono Dio, ed io sono Uomo; in quell’istante istesso dalla Persona del Verbo si riversò nell’umanità assunta tutta la pienezza della grazia quanta ve ne capiva: l’umanità assunta, anima e corpo, fu come una massa d’oro posta in mezzo ad un fuoco immenso, che tutta la investe; la penetra, la trasforma, senza mutare la sua natura di oro. È questa l’unzione che Gesù in quanto uomo ricevette, e in quell’istante divenne Re e Sacerdote e Mediatore dell’umanità tutta. S. Pietro poi dice che questa unzione fu anche unzione di potenza, accennando al potere stabile e proprio di operare miracoli, che Gesù ebbe nell’atto stesso, in cui si compì l’unione ipostatica. E questa potenza sovraumana e divina, che Gesù Cristo ebbe per l’unione personale, la esercitò a benefìcio degli uomini: Pertransiit benefaciendo: liberando i corpi e le anime dalla tirannica signoria del peccato e del demonio. In queste parole S. Pietro annunziò a quei buoni Gentili la divinità di Gesù Cristo, e le prove della sua divinità, che furono i miracoli onde fu ripiena la sua vita pubblica. Ecco, grida S. Pietro, ecco le prove della divinità di Gesù Cristo, della sua missione e della nostra, i miracoli; e di questi miracoli, continua il Principe degli Apostoli coll’accento della più profonda convinzione, che gli sgorga dall’anima, noi, noi stessi siamo testimoni. Noi l’abbiamo seguito in Giudea, a Gerusalemme: noi l’abbiamo visto darsi nelle mani dei suoi nemici, i Giudei: noi l’abbiamo visto appeso ad un legno e messo a morte: noi, noi, al terzo dì l’abbiamo veduto risorto, come aveva promesso: Egli apparve a noi, così Pietro prosegue come rapito da un sacro entusiasmo; no, non si mostrò a tutti, ma a quelli che erano stati alla sua scuola e preparati all’ufficio di annunziare la sua dottrina; si mostrò a noi in guisa che non ci fu, né ci è possibile ingannarci: noi 1’abbiamo veduto, noi abbiamo mangiato, noi abbiamo bevuto con Lui. Come, dunque, potevamo dubitare della sua risurrezione, e perciò della verità delle dottrine per lui insegnate? Voi vedete, o cari, come il Principe degli Apostoli dopo aver esposta la vita di Cristo e accennati i suoi miracoli, collochi la prova massima e irrecusabile della divinità di Gesù Cristo e del dovere di credere alla sua dottrina sul fatto, sul miracolo splendidissimo fra tutti della sua risurrezione. E veramente questo è la corona ed il suggello di tutti gli altri; la risurrezione è per se stessa il sommo dei miracoli, perché il ridare la vita a chi non l’ha domanda una potenza al tutto divina: Dio solo è padrone della vita; perché qui è un morto, anzi uno ucciso dai suoi nemici, che si è dato in loro mano vivo e morto, che risuscita se stesso; perché predisse la sua morte e il modo della morte, e predisse la risurrezione e ne determinò il tempo, e perché volle che gli stessi suoi nemici ne fossero testimoni. – In tutta la sua vita appellò costantemente a questo miracolo della risurrezione e a questo miracolo, per così dire, ridusse tutte lo prove della sua missione, onde questo miracolo è come la conferma degli altri, e tutti li lega insieme e formano tal fascio di prove, che schiacciano la ragione più esigente e più ribelle. S. Pietro dice che Gesù-Cristo si mostrò risorto “non a tutto il popolo, ma sì a testimoni preordinati o preparati da Dio. „ Perché ciò? Non sarebbe stato meglio che Gesù risuscitato si fosse dato a vedere, non ai soli Apostoli e discepoli, ma a tutti, anche ai suoi nemici, e a questi sopra tutto? In tal guisa non li avrebbe umiliati e conquisi e chiusa la bocca della incredulità? Senza dubbio Dio così poteva fare, ma se non lo fece, è forza conchiudere che non era questa la via che meglio conveniva ai disegni della sua sapienza. Era troppo giusto che le sue apparizioni dopo la risurrezione fossero riserbate ai suoi cari discepoli, quasi premio della loro fedeltà e conforto ai patimenti sofferti e argomento fortissimo, che li doveva sostenere nella missione loro affidata di annunziare da per tutto il Vangelo del Maestro. Né punto era scemata la certezza della risurrezione di Gesù Cristo, poiché gli Apostoli, i discepoli e i testimoni della medesima pel numero, per la qualità, per la varietà delle apparizioni erano tanti e tali da togliere qualunque ombra di dubbio e da generare la più assoluta certezza del miracolo. Che si poteva volere di più? Oltrediché è da por mente che Iddio dà e deve dare gli argomenti e le prove, che mettano al di sopra d’ogni dubbio la verità della fede, ma lascia e sta bene che lasci sempre libero l’assenso dell’uomo, affinché non gli sia tolto il merito della fede istessa ed abbia modo di rendere omaggio alla autorità divina, che gli dice: Credi. Ponete che Gesù Cristo si fosse mostrato solennemente a tutti, ai suoi nemici e crocifissori: che ne sarebbe avvenuto? O avrebbe quasi a forza estorto il loro assenso, o questi, perfidiando, avrebbero negato l’apparizione istessa, spiegandola coi sofismi sempre pronti a servigio delle passioni: quelli che negarono tanti miracoli di Gesù Cristo, e specialmente l’ultimo della risurrezione di Lazzaro, avrebbero trovato modo di revocare in dubbio anche la solenne apparizione di Cristo, se loro fosse stata concessa. – Iddio dispone ogni cosa con ordine e soavità; Egli rispetta la libertà dell’uomo, e porge alla sua ragione prove sufficienti della verità, ma rifiuta di appagare la sua curiosità e secondare la sua pervicacia e i suoi capricci. – S. Pietro chiude il suo discorso con queste due sentenze: “Gesù ci comandò di predicare al popolo e di attestare ch’egli è costituito giudice da Dio dei vivi e dei morti. A Lui rendono testimonianza i profeti, che si riceve nel suo nome la remissione dei peccati da quanti credono in Lui. „ Gesù Cristo si dice costituito Giudice dei vivi e dei morti, che è quanto dire, Egli ha potere sovrano su tutti gli uomini, buoni e cattivi, viventi e già morti, e renderà a suo tempo a ciascuno secondo le opere sue. Verità fondamentale, con cui si termina ogni simbolo, che deve scuotere ogni uomo, il quale pensi al suo avvenire, e che S. Pietro non poteva tacere a quei Gentili, che l’avevano chiamato e volevano udire la novella dottrina. Il giudizio divino, che sarà fatto alla fine dei secoli, ci attende tutti. Guai a coloro, che si troveranno innanzi a Lui schiavi del peccato! Bisogna liberarci dai peccati ottenerne il perdono prima di quel giorno; e chi ce lo darà questo perdono dei peccati? Lui stesso, che deve essere il nostro giudice, Gesù Cristo. Tutti i Profeti, annunziando la sua venuta, ci attestano che la remissione dei peccati non ci può venire che da Gesù Cristo, il quale ha dato il prezzo del nostro riscatto, ha versato per noi il suo sangue ed è divenuto la nostra riconciliazione, la nostra redenzione e santificazione, come scrive san Paolo. E come otterremo noi questa remissione dei nostri peccati? “Credendo in Lui. „ Non già che per ottenerla basti la sola fede, come dissero alcuni eretici; ma credendo in Lui e facendo ciò che Egli insegna. La fede sola senza le opere a nulla giova; essa ci segna la via che dobbiamo battere, ci dice ciò che dobbiamo fare per salvare le anime nostre, e in questo senso le Scritture sante affermano che la fede ci salva; così diciamo assai volte: Il medico mi ha salvato, il maestro mi ha appreso la verità, l’amico mi ha messo sulla buona via, in quanto che m’hanno suggerito il rimedio efficace, m’hanno insegnato ciò che dovevo fare per apprendere la verità, mi hanno consigliato di tenere la retta via; ma certamente questi beni non sono opera esclusivamente del medico, del maestro o dell’amico. È sempre la stessa fondamentale verità, che si ribadisce: la fede è il principio e la radice della giustificazione: è il seme, che germoglia la spiga e l’albero. Se voi non aveste il seme non potreste mai avere la spiga e l’albero: ma potreste avere il seme senza avere la spiga e l’albero quando lo spegneste, oppure non fosse debitamente coltivato, irrigato dall’acqua e riscaldato dal sole. Senza la fede è impossibile la vita cristiana: ma perché la fede ci salvi e produca i suoi frutti si domanda l’opera nostra, dirò meglio, la nostra cooperazione. Conservate adunque con somma cura il seme della fede e con l’opera vostra rendetela feconda e fruttuosa. Se noi riandiamo al discorso di S. Pietro, troviamo che è come l’epilogo del Catechismo, il compendio del Simbolo. Ci insegna che Dio offre a tutti la sua grazia, Giudei e Gentili, purché facciano quanto per loro è possibile; che Iddio mandò il Figliuol suo Gesù Cristo; annunziò la verità e la confermò coi miracoli; ch’Egli patì e morì in croce e risuscitò da morte; che la sua risurrezione, il massimo dei miracoli, è indubitata, perché gli Apostoli e i discepoli tutti lo videro; che Gesù Cristo è il giudice supremo dei vivi e dei morti, che per Lui solo si può avere la remissione dei peccati, facendo ciò ch’Egli con la fede ci insegna. Eccovi in queste poche parole compendiato il Simbolo.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII “QUOD AUCTORITATE”

Il santo Padre Leone XIII, con questa lettera indice un anno giubilare straordinario per i popoli minacciati da tempi oscuri per lo scatenarsi delle forze del male, onde sollecitare la pace dal Signore Iddio e l’intercessione della Madre di Dio, la Beata Vergine Maria. In tempi di difficoltà la Chiesa soleva invocare, per intervento del Vicario di Cristo, la misericordia e la pace che solo Dio può concedere a chi a Lui intende tornare o perseverare nella sua grazia. Come sono lontani quei tempi, seppure già per tanti versi funesti, dai nostri, in cui si invocano forze politiche, sociali, sovranazionali, scientifiche, più spesso esoteriche o legate a culti demoniaci (le sette massoniche varie e di magia nera), per risolvere i problemi che esse stesse hanno determinato, e non si invoca il Signore Iddio, Padrone del creato e di ogni creatura vivente, o il Re dei popoli, il Signore Nostro Gesù Cristo che, lungi dall’essere proclamato tale, viene disprezzato, allontanato dalle pubbliche imprese, rifiutato in tutti i suoi comandi e nel portare il suo giogo dolce e lieve, con i risultati che tutti possiamo costatare in ogni luogo del pianeta, mali che si acuiranno sempre più fino alla completa rovina di Nazioni e di interi continenti, un  tempo sostenuti dall’amore e dalla pace che solo Dio può donare. Ed oggi in sovrappiù, non abbiamo nessuno che difenda i valori dell’integrità cristiana, anzi quella finta chiesa-zombi, infestata da demoni virtuali (Pachamama docet) o in carne ed ossa (gli antipapi usurpanti attuali, con i loro invalidi vescovi e prelati, larve senza contenuto dottrinale né di ordine e di giurisdizione) conducono ignari fedeli con inaudita ferocia di lupi travestiti, nello stagno eterno e alla dannazione eterna.  

Leone XIII
Quod auctoritate

Lettera Enciclica

Quello che con Apostolica autorità già una volta e poi nuovamente decretammo, cioè che un anno sacro straordinario – aperti al pubblico vantaggio i tesori dei doni celesti che abbiamo il potere di dispensare – si celebrasse in tutto l’orbe cristiano, vogliamo ora stabilire, col favore di Dio, per il prossimo anno. – L’utilità dell’iniziativa non può sfuggire a Voi, Venerabili Fratelli, consapevoli come siete dei tempi e dei costumi; ma una certa singolare ragione fa sì che in questa Nostra decisione appaia maggiore opportunità che non forse nelle altre occasioni. – Invero, avendo Noi, con la precedente Nostra lettera Enciclica sul governo degli Stati, indicato quanto sia importante per essi accostarsi sempre più alla verità e all’ordinamento cristiano, già si può comprendere quanto sia consentaneo a questo Nostro proposito operare con tutti i mezzi possibili per eccitare e per richiamare gli uomini alle cristiane virtù. – Infatti lo Stato è tale quale lo fanno i costumi dei popoli; e come l’eccellenza delle navi e degli edifici dipende dalla bontà e dalla giusta collocazione delle singole parti, allo stesso modo il corso della cosa pubblica non può essere né giusto né senza danno se i cittadini non camminano nel retto sentiero della vita. La stessa disciplina civile, e tutte le cose che costituiscono l’azione della vita pubblica, soltanto per opera degli uomini nascono e periscono; e perciò gli uomini sogliono dare alle cose l’esatta immagine delle proprie opinioni e dei propri costumi. Affinché dunque penetrino nei loro animi quei precetti Nostri e, quel che più conta, sia ispirata ad essi la vita quotidiana di ciascuno, si deve fare ogni sforzo perché i singoli inducano l’animo a cristianamente sentire e ad operare cristianamente, non meno in pubblico che in privato. – In tale impresa è tanto più necessario impegnarsi quanto maggiori sono i pericoli incombenti da ogni parte. Infatti le grandi virtù dei padri nostri si dileguarono in non piccola parte: e le cupidigie, che di per sé hanno grandissima forza, una maggiore ne chiesero ai fini di licenza; l’insania delle opinioni, contenuta da nessuno o da freni poco adatti, ogni giorno più si diffonde: fra quegli stessi che sentono rettamente, molti, trattenuti da un certo falso pudore, non osano professare liberamente ciò che sentono e molto meno ancora operare in tal senso; la forza dei perniciosi esempi a poco a poco va penetrando nei costumi popolari; disoneste società di uomini, le quali già altra volta da Noi stessi furono indicate, espertissime in colpevoli inganni, si studiano d’imporsi al popolo e, in quanto possono, distoglierlo e strapparlo da Dio, dalla santità dei doveri, dalla fede cristiana. – Quindi, nell’incalzare di tanti mali, resi sempre maggiori dalla loro durata, nulla che arrechi con sé qualche speranza di alleviamento deve essere da Noi tralasciato. Con questo intento e con questa speranza annunzieremo il sacro Giubileo ammonendo ed esortando tutti coloro cui sta a cuore la loro salvezza di raccogliersi un poco in se stessi, e d’innalzare i pensieri immersi nelle cose terrene a cose migliori. Il che non solo riuscirà salutare per i privati, ma per tutta la cosa pubblica, in quanto il vantaggio che ciascuno trarrà a perfezione del proprio animo, d’altrettanto gioverà per onestà e virtù alla vita e ai pubblici costumi. – Ma il desiderato esito dell’impresa, ben vedete, Venerabili Fratelli, è riposto per gran parte nella vostra opera e nella vostra diligenza, essendo necessario preparare il popolo a conseguire adeguatamente i frutti che sono proposti. Sarà dunque cura della carità e della sapienza vostra affidare questa impresa a scelti sacerdoti che, con ragionamenti adeguati all’intelligenza del popolo, istruiscano la moltitudine e principalmente la esortino alla penitenza, che secondo Agostino è “sofferenza quotidiana dei buoni ed umili fedeli; in essa ci battiamo il petto dicendo: rimetti a noi i nostri debiti”. Non senza motivo rammentiamo in primo luogo la penitenza, e quella parte di essa che consiste nella volontaria mortificazione del corpo. Infatti, conoscete il costume del secolo: ai più piace vivere con mollezza, e non fare alcunché virilmente e con grandezza d’animo. Taluni, mentre cadono in molte altre miserie, spesso presentano falsi pretesti per non obbedire alle leggi salutari della Chiesa, giudicando troppo grave e intollerabile peso o l’obbligo imposto loro di astenersi da certo genere di cibi, o l’osservare il digiuno in pochi giorni dell’anno. Snervati da questa abitudine, non fa meraviglia se a poco a poco si danno totalmente alle cupidigie che esigono sempre di più. Pertanto è conveniente richiamare a temperanza gli animi rilassati o proclivi a mollezza; per la qual cosa coloro che parleranno al popolo insegnino diligentemente e chiaramente ciò che è prescritto non solo dalla legge Evangelica, ma anche dalla ragione naturale: è necessario che ognuno comandi a se stesso e domini le proprie passioni; non si può espiare le colpe se non con la penitenza. Ed affinché questa virtù di cui parliamo si mantenga perenne, non sarebbe cosa errata se la si affidasse stabilmente alla custodia ed alla tutela di una istituzione. Voi facilmente comprendete, Venerabili Fratelli, quanto ciò sia importante: che ciascuno di Voi nella vostra Diocesi perseveri a tutelare e ad amplificare il Terzo Ordine dei fratelli Francescani, che si chiama secolare. Certamente, per conservare e per alimentare nella moltitudine cristiana lo spirito di penitenza, sono validissimi gli esempi e la grazia del padre Francesco d’Assisi, che alla somma innocenza della vita congiunse tanto zelo da mortificare se stesso, da sembrare di avere in sé l’immagine di Gesù Cristo crocifisso, non meno per la vita e per i costumi, quanto per le stigmate divinamente impressegli. Le leggi del suo Ordine, che opportunamente mitigammo, sono assai lievi da sopportare: ma non hanno poca importanza riguardo alla virtù cristiana. Poiché, in tante necessità private e pubbliche, ogni speranza di salute consiste nel patrocinio e nella tutela del Padre celeste, vorremmo ardentemente che rivivesse lo zelo costante della preghiera congiunto alla fiducia. In ogni importante tempo della repubblica cristiana, tutte le volte che la Chiesa venne minacciata da pericoli esterni o da difficoltà intestine, con preclaro esempio i nostri maggiori, alzati supplichevolmente gli occhi al cielo, insegnarono con quale mezzo e donde si dovessero chiedere la luce dell’animo, la forza della virtù e gli aiuti adatti ai tempi. Infatti, stavano impressi nelle menti quei precetti di Cristo: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt VII, 7); “È necessario pregare sempre e non stancarsi” (Lc XVIII, 1). A tali precetti fa eco la parola degli Apostoli: “Pregate incessantemente” (1Ts V, 17); “Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini” (1Tm II,1). Su ciò, non meno acutamente che conforme a verità, a guisa di paragone, Giovanni Crisostomo lasciò scritto: Come all’uomo, che nasce nudo e bisognoso di tutto, la natura diede le mani affinché con l’aiuto di esse si procacciasse le cose occorrenti alla vita, così per le necessità soprannaturali egli – nulla potendo da solo – fu dotato da Dio della facoltà di pregare, affinché, servendosi saggiamente di essa, potesse facilmente ottenere le cose che si richiedono per la salvezza. Perciò, Venerabili Fratelli, ciascuno di Voi giudichi quanto da Noi sia gradito ed approvato il vostro zelo speso, soprattutto in questi ultimi anni, per Nostro incitamento nel promuovere la pia pratica del santissimo Rosario. Né è da passare sotto silenzio la pietà popolare che, a questo proposito, si vede particolarmente attuata in quasi tutti i luoghi; ma è da curare con grande attenzione che si accenda maggiormente e si mantenga con perseveranza. Nessuno di Voi si stupirà se insistiamo su ciò, come più volte facemmo, giacché comprendete quanta importanza abbia il fiorire presso i Cristiani della consuetudine del Rosario Mariano, e appieno conoscete che nel genere di preghiere di cui parliamo, essa è parte e forma bellissima, conveniente ai tempi, di uso facile e fecondissima per utilità. – E poiché il primo e massimo frutto del Giubileo deve essere quello che più sopra abbiamo indicato, cioè un’emendazione della vita, un avvicinarsi alla virtù, crediamo necessario specificatamente fuggire da quel male che con la Nostra precedente Enciclica non tralasciammo di segnalare. Intendiamo accennare ad alcuni nostri dissidi interni e quasi domestici: dissidi che appena si può dire con quanto danno delle anime sciolgono, o certamente rallentano, il vincolo della carità. La qual cosa perciò ora di nuovo vi rammentiamo, Venerabili Fratelli custodi della disciplina ecclesiastica e della mutua carità, perché vogliamo che la vostra vigilanza e la vostra autorità siano sempre rivolte a scongiurare così grave inconveniente. – Ammonendo, esortando e rampognando, fate in modo che tutti “siano solleciti nel conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace”, e gli autori dei dissidi ritornino al dovere, meditando per tutta la vita che l’Unigenito Figlio di Dio, nello stesso approssimarsi degli estremi dolori, nulla chiese al Padre più insistentemente se non che tra loro si amassero quelli che credevano o avrebbero creduto in Lui, “affinché tutti siano una sola cosa; come Tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv XVII, 21). Pertanto, fiduciosi nella misericordia dell’onnipotente Iddio e nell’autorità dei beati Apostoli Pietro e Paolo, per quella potestà di legare e di sciogliere che a Noi, quantunque indegni trasmise il Signore, concediamo a tutti e singoli i Cristiani fedeli dell’uno e dell’altro sesso pienissima indulgenza di tutti i peccati, a modo di generale Giubileo, però con la condizione e con l’obbligo che nel termine del prossimo anno 1886 compiano le cose che prescriviamo. – Quanti sono a Roma, cittadini od ospiti, visitino due volte la Basilica Lateranense, la Vaticana e la Liberiana ed ivi per parecchio tempo innalzino pie preghiere a Dio per la prosperità e l’esaltazione della Chiesa Cattolica e di questa Sede Apostolica, per l’estirpazione delle eresie, per la conversione di tutti gli erranti, per la concordia dei Principi cristiani, e per la pace e l’unione di tutto il popolo fedele, secondo la Nostra intenzione. Gli stessi digiunino per due giorni usando cibi magri, oltre i giorni non compresi nell’indulto quaresimale, o altri consacrati a simile digiuno per precetti della Chiesa; oltre a ciò, dopo avere bene confessate le proprie colpe, ricevano il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia, e facciano qualche elemosina, secondo le proprie forze, udito il consiglio del Confessore, in favore di qualche pia opera che riguardi la propagazione e l’incremento della fede cattolica. È concesso a ciascuno scegliere quella di tali opere che più gli piaccia: però crediamo di doverne nominare due per le quali la beneficenza sarà ottimamente impiegata, l’una e l’altra operanti in molti luoghi, bisognose di soccorso e di tutela, l’una e l’altra utili non meno alla popolazione che alla Chiesa: cioè le scuole private dei fanciulli, e i Seminari dei Chierici. – Tutti gli altri, che dimorano fuori della città e in qualunque altro luogo, visiteranno nel detto spazio di tempo per due volte tre Chiese designate da Voi, Venerabili Fratelli, o dai vostri Vicari o Delegati, o per vostro o per loro mandato da coloro che hanno cura d’anime; oppure se due sole saranno le Chiese, per tre volte; ovvero se il tempio sarà uno solo, sei volte; e del pari faranno tutte le altre opere che sono accennate più sopra. – Vogliamo che questa indulgenza si possa applicare, a titolo di suffragio, anche alle anime che uscirono da questa vita congiunte nella carità con Dio. Inoltre, vi diamo facoltà di potere ridurre le stesse visite ad un numero minore, secondo il vostro prudente giudizio, per i capitoli e per le Congregazioni, tanto secolari quanto regolari, per i sodalizi, per le confraternite, per le associazioni, per i collegi che visiteranno processionalmente le menzionate Chiese. – Concediamo che i naviganti e i viaggiatori possano conseguire la stessa indulgenza quando, ritornati al loro domicilio o altrove in una stabile dimora, abbiano visitato sei volte il tempio principale, o la Chiesa parrocchiale, e compiute tutte le opere sopra prescritte. Ai regolari d’ambo i sessi, anche chiusi in perpetuo nei chiostri, e a tutti gli altri, tanto laici quanto ecclesiastici, i quali o perché in carcere, o per infermità, o per qualunque altra causa siano impediti dal fare le opere suddette o ne compiano alcune, concediamo che il Confessore possa commutarle in altre opere di pietà, con il potere altresì di dispensare dalla Comunione i fanciulli che ancora non sono stati ammessi alla prima Comunione. – Oltre a ciò concediamo a tutti e singoli i Cristiani, tanto laici quanto ecclesiastici, secolari e regolari d’ogni Ordine ed Istituto, anche se da nominarsi specificatamente, la facoltà di potere scegliersi a questo effetto qualsivoglia sacerdote Confessore approvato, tanto secolare quanto regolare: di tale facoltà possono anche fruire le Monache, le Novizie e le altre donne dimoranti nei chiostri, purché il Confessore sia approvato per le religiose. – Ai Confessori poi, in questa occasione e soltanto per il tempo di questo Giubileo, elargiamo tutte quelle stesse facoltà che largimmo con la Nostra lettera Apostolica Pontifices maximi del 15 febbraio 1879, ad eccezione tuttavia di tutte quelle che sono eccettuate nella stessa lettera. Per il resto, si adoperino tutti zelantemente in detto periodo per invocare la Gran Madre di Dio. Infatti, vogliamo consacrato questo Giubileo al patrocinio della Santissima Vergine del Rosario; confidiamo che con l’aiuto di Lei non pochi saranno coloro la cui anima, cancellata ogni macchia di peccato, si purifichi, e per la fede e per la pietà e per la giustizia non solo rinasca a speranza di sempiterna salute, ma anche come augurio di tempi migliori. – Auspice di tali celesti benefìci e a testimonianza della Nostra benevolenza, a Voi, al Clero e a tutto il popolo affidato alla vostra fede e alla vostra vigilanza, impartiamo amatissimamente nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 dicembre 1885, anno ottavo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI PASQUA (2022)

DOMENICA DELLA RISURREZIONE.


Solennità delle Solennità.
Stazione a Santa Maria Maggiore
Doppio di I cl. con ottava privilegiata. – Paramenti bianchi.
Come a Natale, così a Pasqua, la più grande festa dell’anno,
la Stazione si tiene a S. Maria Maggiore.

Il Cristo risuscitato rivolge anzitutto al divin Padre l’omaggio della sua riconoscenza (Intr.). La Chiesa a sua volta ringrazia Iddio di averci, con la vittoria del Figlio Suo, riaperto la via del Cielo e lo prega di aiutarci a raggiungere questo bene supremo (Oraz.) Come gli Ebrei mangiavano l’Agnello pasquale con pane non lievitato, dice S. Paolo, così noi pure dobbiamo mangiare l’Agnello di Dio con gli azzimi di una vita pura e santa (Ep., Com.) cioè, esente dal fermento del peccato. Il Vangelo e l’Offertorio ci mostrano la venuta delle Marie che vogliono imbalsamare il Signore. Esse trovano una tomba vuota, ma un Angelo annunzia loro il grande Mistero della Risurrezione. Celebriamo con gioia questo giorno nel quale Cristo, risuscitando, ci ha reso la vita (Pref. di Pasqua) ed affermiamo con la Chiesa, che « il Signore è veramente risuscitato » (Inv.); secondo il suo esempio, operiamo la nostra Pasqua, o passaggio, vivendo in modo da poter dimostrare che noi siamo risuscitati con Lui.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXXXVIII: 18; CXXXVIII: 5-6.

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuisti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. 

[Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Ps CXXXVIII: 1-2.

Dómine, probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam. 

[O Signore, tu mi provi e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio sòrgere.]

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja.

[Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Oratio

Deus, qui hodiérna die per Unigénitum tuum æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra, quæ præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere. 

[O Dio, che in questo giorno, per mezzo del tuo Figlio Unigénito, vinta la morte, riapristi a noi le porte dell’eternità, accompagna i nostri voti aiutàndoci, Tu che li ispiri prevenendoli.] 

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 1 Cor V: 7-8

“Fratres: Expurgáte vetus ferméntum, ut sitis nova conspérsio, sicut estis ázymi. Etenim Pascha nostrum immolátus est Christus. Itaque epulémur: non in ferménto véteri, neque in ferménto malítiae et nequitiæ: sed in ázymis sinceritátis et veritátis.” 

[“Fratelli: Togliete via il vecchio fermento, affinché siate una pasta nuova, voi che siete già senza lievito. Poiché Cristo, che è la nostra pasqua, è stato immolato. Pertanto celebriamo la festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e delle perversità, ma con gli azimi della purità e della verità”.] .

Fratelli: Togliete via il vecchio fermento.

Comunque si vogliano intendere queste parole, che l’Apostolo indirizza ai Corinti, è certo che li esorta a vivere santamente, lontani da ogni peccato, tanto più che si avvicinava la solennità di Pasqua. « Non c’è uomo che non pecchi », dice Salomone (3 Re, VIII, 46). E si pecca non solo venialmente: da molti si pecca mortalmente con la più grande indifferenza. Forse cesserà il peccato di essere un gran male, perché è tanto comune? Una malattia non cessa di essere un gran male, perché molto diffusa; e il peccato non cessa di essere il gran male che è, perché commesso da molti. Dio, autorità suprema, ci dice: «Osservate la mia legge e i miei comandamenti» (Lev. XVIII, 5). E noi non ci curiamo della sua legge e dei suoi comandamenti, che mettiamo sotto i piedi. Quale guadagno abbiamo fatto col peccato, e qual vantaggio riceviamo dal non liberarcene? Se non hai badato al peccato prima di commetterlo; consideralo almeno ora che l’hai commesso. Col peccato avrai acquistato beni, ma hai perduto Dio. Avrai avuto la soddisfazione della vendetta; ma ti sei meritato un condegno castigo; perché « quello che facesti per gli altri sarà fatto per te: sulla tua testa Dio farà cadere la tua mercede » (Abdia, 15). Se non aggraverà su te la sua mano in questa vita, l’aggraverà nella futura. Avrai provato godimenti terreni, ma hai perduto il diritto ai godimenti celesti. Ti sei attaccato a ciò che è momentaneo, ma hai perduto ciò che è eterno. Ti sarai acquistata la facile estimazione degli uomini, ma hai perduto l’amicizia di Dio. Hai abusato un momento della libertà; ma sei caduto nella schiavitù del peccato. « Che cosa hai perduto, che cosa hai acquistato?… Quello che hai perduto è più di quello che hai acquistato » (S. Agostino Enarr. in Ps. CXXIII, 9). – Il peccatore, però, da questo stato di perdita può uscire, rompendo le catene del peccato. Egli lo deve fare. Dio stesso ve lo incoraggia: « Togliti dai tuoi peccati e ritorna al Signore » (Eccli. XVII, 21), dice egli. « Io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via, e viva… E l’empietà dell’empio non nuocerà a lui, ogni qual volta egli si converta dalla sua empietà » (Ezechiele XXXIII, 11…. 12). Non si è alieni dal ritornare a Dio; ma non si vuole far subito. Si vuole aspettare in punto di morte. Ma la morte ha teso le reti a tutti i varchi, e frequenti sono le sue sorprese. Può coglierci da sani, quando nessuno ci pensa; può coglierci da ammalati; quando non si crede tanto vicina, o si crede di averla già allontanata. Non sono pochi quelli che muoiono senza Sacramenti, perché si illudono che la malattia non sia mortale, o che il pericolo sia stato superato. E poi, non è da insensati trattare gli affari della più grande importanza, quando non si possono trattare che a metà, con la mente preoccupata in altre cose? E nessuno affare può essere importante quanto la salvezza dell’anima nostra; ed è imprudenza che supera ogni altra imprudenza volerlo trattare quando il tempo ci verrà a mancare, quando non avremo più la lucidità della mente. – Nessuno che è condannato a portare un peso, aspetterebbe a levarselo di dosso domani, se potesse levarselo quest’oggi. Nessuno che ha trovato una medicina che può guarire una malattia recente, si decide a prenderla quando la malattia sarà inveterata. Nel nostro interno c’è la malattia del peccato; non lasciamola progredire. Un medico infallibile, Gesù Cristo, ci ha dato una medicina per la nostra guarigione spirituale, la confessione; non trascuriamola.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

Alleluja 

Alleluia, alleluia Ps. CXVII:24; CXVII:1 Hæc dies, quam fecit Dóminus: exsultémus et lætémur in ea. 

[Questo è il giorno che fece il Signore: esultiamo e rallegriàmoci in esso.] 

V. Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. Allelúja, allelúja. 

[Lodate il Signore, poiché è buono: eterna è la sua misericòrdia. Allelúia, allelúia.] 

1 Cor V:7 V. Pascha nostrum immolátus est Christus. 

[Il Cristo, Pasqua nostra, è stato immolato.]

Sequentia

“Víctimæ pascháli laudes ímmolent Christiáni. Agnus rédemit oves: Christus ínnocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitæ mórtuus regnat vivus. Dic nobis, María, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus, spes mea: præcédet vos in Galilaeam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére. Amen. Allelúja.” 

[Alla Vittima pasquale, lodi offrano i Cristiani. – L’Agnello ha redento le pecore: Cristo innocente, al Padre ha riconciliato i peccatori. – La morte e la vita si scontrarono in mirabile duello: il Duce della vita, già morto, regna vivo. – Dicci, o Maria, che vedesti per via? – Vidi il sepolcro del Cristo vivente: e la gloria del Risorgente. – I testimonii angelici, il sudario e i lini. – È risorto il Cristo, mia speranza: vi precede in Galilea. Noi sappiamo che il Cristo è veramente risorto da morte: o Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Allelúia.]

Evangelium 

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Marcum. 

 Marc. XVI:1-7.

“In illo témpore: María Magdaléne et María Jacóbi et Salóme emérunt arómata, ut veniéntes úngerent Jesum. Et valde mane una sabbatórum, veniunt ad monuméntum, orto jam sole. Et dicébant ad ínvicem: Quis revólvet nobis lápidem ab óstio monuménti? Et respiciéntes vidérunt revolútum lápidem. Erat quippe magnus valde. Et introëúntes in monuméntum vidérunt júvenem sedéntem in dextris, coopértum stola cándida, et obstupuérunt. Qui dicit illis: Nolíte expavéscere: Jesum quǽritis Nazarénum, crucifíxum: surréxit, non est hic, ecce locus, ubi posuérunt eum. Sed ite, dícite discípulis ejus et Petro, quia præcédit vos in Galilǽam: ibi eum vidébitis, sicut dixit vobis.” 

[In quel tempo: Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salòme, comperarono degli aromi per andare ad úngere Gesú. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sàbato, arrivarono al sepolcro, che il sole era già sorto. Ora, dicevano tra loro: Chi mai ci sposterà la pietra dall’ingresso del sepolcro? E guardando, videro che la pietra era stata spostata: ed era molto grande. Entrate nel sepolcro, vídero un giovane seduto sul lato destro, rivestito di càndida veste, e sbalordirono. Egli disse loro: Non vi spaventate, voi cercate Gesú Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui: ecco il luogo dove lo avevano posto. Ma andate, e dite ai suoi discepoli, e a Pietro, che egli vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi disse.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LE CARATTERISTICHE DELLA RESURREZIONE DI CRISTO

Prima che l’aurora sorgesse di là dal crinale dei monti, una silenziosa comitiva di donne ascendeva verso il sepolcro. Andando, qualcuna ruppe il silenzio e disse: « Chi ci smuoverà la pietra enorme che ostruisce la bocca della sepoltura? ». Ed ecco da lontano apparire il sepolcro: era aperto. Si scorgeva, rovesciata sull’erba del giardino, la bianca pietra dischiusa. Maria Maddalena impallidì, non seppe proseguire, tornando sui propri passi, corse a Pietro e a Giovanni, e come li vide scoppiò in un grido dolorose, « hanno involato il Signore, e non sappiamo dove l’abbiano messo ». Intanto le altre donne che s’erano fatte coraggio a proseguire entrarono nel sepolcro: due Angeli, uno a destra e l’altro a sinistra, vegliavano in attesa. Erano bianchi e risplendevano come il sole. « Chi cercate? » chiese un Angelo. « Gesù di Nazareth, che fu crocifisso tre giorni fa » risposero le donne. « È risuscitato: non è qui! ». Le donne, tremando di paura e di gioia, uscirono dalla grotta e ruppero in un grido di trionfo. E come fu la resurrezione di Cristo? Anzi tutto fu vera: Surrexit vere (Lc. XXIV, 34). Poi non conobbe più morte, ma continuò e continuerà eternamente nella gloria e nella luce. Jam non moritur: mors illi ultra non dominabitur (Rom., VI, 9). Verità e costanza: ecco i due caratteri della resurrezione di Cristo, i quali debbono pure essere i caratteri della nostra risurrezione. – RESURREZIONE VERA. Quando pecchiamo mortalmente, in una maniera spirituale noi moriamo. Ecco perché la Chiesa in questo tempo impone a tutti i fedeli di accostarsi ai santi Sacramenti: essa non può sopportare che il giorno della resurrezione del Salvatore sia celebrato da cuori morti. O Cristiani, siete tutti risorti? Avete tutti fatta la Pasqua? Chi non l’ha fatta, ancora non è risorto: le tenebre del peccato ancora involgono e soffocano la sua anima. – E a quelli che già hanno adempito il precetto io domando: siete risorti veramente? Non tutti quei che sembrano resuscitati, lo sono. Un grande scrittore, sentendosi ammalato gravemente, chiamò un sacerdote per confessarsi. Il prete gli impone di bruciare un’opera abbastanza licenziosa che stava componendo. Egli si fa pregare lungamente, ma poi a malincuore s’arrende. Il confessore se ne va. Un amico arriva e comincia a rimproverare l’artista  del suo sacrificio. « Come? e tu hai rinunziato a quel libro che ti doveva rendere famoso? … e tu, con le tue mani, hai avuto il coraggio di gettare nelle fiamme la tua gloria più bella? ». Lo scrittore abbozzò un lievissimo e furbesco sorriso e aggiunse a bassa voce: Taci. In fondo al cassetto, nascosta, ne ho conservata una copia ». Il Signore tolga che qualche Cristiano abbia imitato quell’artista! Accostandosi al sacramento della Confessione, costretto dal confessore, promise di bruciare nel fuoco dell’amor di Dio quell’impura relazione; di finirla con quei guadagni illeciti, di abbandonare i rancori e i desideri di vendetta; di riparare gli scandali. Ma poi gli si è avvicinato il demonio e gli ha detto: « Come? vuoi privarti dei piaceri più belli? ridurti a vivere la vita insipida dei frati? ». E l’infelice, nascosto in fondo al cuore, ha conservato un idolo, una passione, l’affetto ad un peccato. S’illude d’essere risorto ma non lo è: il demonio con sottile catena lo tiene ancora nel sepolcro. – Resurrexit vere. Gesù ha dimostrato d’essere veramente risorto: col mangiare frequentemente cogli Apostoli, coll’apparire a molti luminoso e impassibile, col mostrare all’incredulo Tommaso le sue mani piagate. Così anche il Cristiano deve dimostrare che la sua resurrezione è vera: col mangiare frequentemente il Pane Eucaristico, coll’apparire mutato in famiglia e fuori, col mostrare le proprie opere buone. – Resurrexit vere. Iddio aveva detto al suo popolo schiavo in Egitto di istituire la festa di Pasqua: prendessero il sangue d’un agnello ucciso e ne aspergessero lo stipite e l’architrave della casa, Erit autem sanguis vobis in signum (Es., XII, 13-19). A mezzanotte passò l’Angelo sterminatore in tutte le case non asperse di sangue ed uccise tutti i primogeniti, da quelli di Faraone che sedeva sul trono a quelli della schiava che era in carcere. Questo che una volta avvenne in figura, oggi avviene in realtà. L’agnello ucciso è Cristo. E Dio comanda che ad ogni Pasqua ogni Cristiano deterga la propria anima col sangue dell’Agnello che nel sacramento della Penitenza perdona i peccati. – Quelle anime che non portano l’aspersione del Sangue di Cristo, quando la morte scenderà intorno a noi come una notte scura, saranno percosse dalla vendetta di Dio. – RESURREZIONE COSTANTE. Gesù Cristo risorgendo da morte più non muore, dice S. Paolo, e la morte non lo dominerà più. Donde viene allora che la nostra resurrezione pasquale dalla morte del peccato alla vita della grazia è così poco costante? La ragione principale è perché si trascurano le precauzioni dovute: la vita di preghiera e di penitenza; la fuga delle persone e dei luoghi e delle letture funeste all’innocenza. L’anima che ritorna a Dio dopo i traviamenti del mondo, io la somiglio a un convalescente, tremante e pallido: basta un colpo d’aria, un boccone mal digerito per farlo ricadere e miseramente perire. È necessario quindi un riguardo estremo a tutto ciò che anche lontanamente può offendere la salute. Così anche per l’anima: Gesù Cristo ce lo insegna. Risorto a vita impassibile non aveva più nulla da temere da tutti i suoi nemici, tuttavia Egli non si espone in mezzo a Gerusalemme, sulle pubbliche piazze; ma compare soltanto a’ suoi più intimi, quasi che ancora fosse soggetto alla morte. È temerario esporsi alle occasioni del male e pretendere che la grazia di Dio ci sostenga. « Che cosa dirà il mondo, — pensano alcuni — s’io d’un colpo cambio il tenore di vita? Si mormorerà alle mie spalle, si riderà… ». Lasciate dire; pensate che il mondo mormorerà e riderà di voi anche se continuerete sulla via del male. « Ma io ho degli impegni, dei legami d’amicizia, dei doveri indispensabili e non posso lasciare quella persona, quel luogo… ». Ricordatevi però che il vostro primo impegno è quello d’arrivare in Paradiso; il dovere vostro più indispensabile è quello di salvare l’anima; l’amicizia a cui doveste tenere di più è quella di Dio. « Ma io dovrei rovinare i miei affari, rompere i miei commerci, diminuire il mio guadagno… ». Si perda tutto, ma non si perda Dio. Se i vostri affari sono poco puliti, se i vostri commerci sono ingiusti, se il vostro guadagno è un furto, bisogna troncarla. E del resto se non la troncate voi liberamente, verrà poi la morte a farvela finire e sarà peggio. « Ritornerò ancora in quei luoghi, con quelle persone — pensano alcuni; — ma non farò nulla di male, anzi attirerò al bene gli altri… ». Ecco l’angelo delle tenebre che si trasforma in Angelo di luce, Chi vi ha costituiti guida e pastore dei vostri fratelli? Non lasciatevi ingannare dalla vostra. insipienza. Deus, tu scis insipientiam meam et confusionem meam! (Ps., LXVIII, 6). Soltanto con la fuga di tutte le occasioni che la passata esperienza vi ha insegnato come pericolose, soltanto con la via di penitenza e di preghiera renderete costante la vostra resurrezione. – Una tradizione racconta che una donna di Naim, — forse la vedova a cui Gesù aveva resuscitato il figlio unico, — informata troppo tardi dell’arresto del Maestro, arrivò a Gerusalemme ch’era domenica mattina. Ancora nessuno c’era nelle vie per domandargli dove l’avessero trascinato, e nemmeno immaginava che l’avessero crocifisso, tanto le doveva sembrare enorme. Rimase dubbiosa nel lume nuovo del giorno che sorgeva, ferma davanti al pretorio di Ponzio Pilato. Quando, abbassando gli occhi, le parve di vedere macchie di sangue sulle pietre della strada. « Il sangue! Il Maestro dunque è passato di qui ». Seguì quella striscia rossa e, a poco a poco, si trovò fuori dell’abitato dove la strada saliva a un’altura detta Calvario: quando fu quasi alla cima, le parve a un tratto che il sole sorgesse a due passi da lei, e nel globo ardente del sole ella vide una figura candida: Gesù. Subito spaventata si gettò a terra, e si coprì la faccia. Ma il Maestro la rialzò dolcemente e le disse: « Non temere: sono risorto per non più morire ». – V’è una striscia rossa nella vita che conduce l’anima a Gesù: la mortificazione il dolore, il rinnegamento delle proprie passioni cattive. Non scoraggiamoci: come quella donna di Naim, seguiamo passo passo le sanguinose impronte di Gesù. E al sommo della vita, il Maestro apparirà anche a noi raggiante di gloria e di gioia come un sole, e ci dirà: « Non temere! io sono risorto per non più morire. Tu pure, risorgerai, né morirai più ».

Alleluia! Cristo è risorto: la morte fu vinta; fu vinto il peccato; fu vinto l’inferno. Alleluia! squillano le campane nel cielo di primavera, in ogni angolo del mondo sotto ogni latitudine. Alleluia! oggi risuona sui monti silenziosi, oggi, sulle pianure tumultuanti. Alleluia! Oggi si ripete tra gli ardori della zona equatoriale come fra le capanne incavate nel ghiaccio dagli esquimesi; accanto alla pagoda di Brahama, presso la moschea di Maometto: dovunque un missionario cattolico ha levato una croce, ha innalzato un altare. È Pasqua: è il giorno sospirato, il principio d’ogni nostra letizia, il fine d’ogni dolore. Cristo non è più lacero, non è più crocifisso, non è più morto; ma integro, glorioso, trionfante. Alleluia! Dal giorno della Resurrezione tutto è diventato gioia per i veri discepoli di Gesù Cristo: gioia è vivere; gioia è morire; gioia è risorgere nella propria carne. – GIOIA È VIVERE. Vi sembrerà strano udire che gioia sia per noi la vita quando continuamente sperimentiamo d’essere in una valle di lacrime, ove non passa giorno senza una pena.  Eppure è così: noi abbiamo il mezzo per trasformare la nostra vita di sofferenza in una vita di santa letizia. Ce lo insegna S. Paolo: Ut quomodo Christus resurrexit a mortuis, ita et nos in novitate vitæ ambulemus. Come Cristo risuscitò da morti, così ancor noi dobbiamo risorgere dal peccato e camminare per una via nuova. Sopra questa strada nuova del bene, dell’onestà, della fede noi troveremo la gioia di vivere. Guardate il popolo di Israele fuggitivo dal servaggio brutale degli Egizi: Faraone col ferro alla mano; coi carri, con un esercito d’armati li rincorre, li incalza, li raggiunge, ormai è sopra a loro; gli Israeliti ansanti sono stretti tra il mare che mugghia davanti, e le lance che trafiggono alle spalle. Terribile agonia. Alza Mosè la verga e tocca le onde: ecco, e i flutti si calmano e il mare si divide dal mare ed una strada si apre sul fondo e tutto il popolo del Signore si precipita per quella. Il sentiero riesce così delizioso che invece d’arena e di ghiaia è lastricato di fiori. Campus — così lo descrive la Storia Sacra — germinans flores de profundis aquarum. Questa è un’immagine delle anime devote che fanno veramente Pasqua: voltano le spalle all’Egitto dei mondani piaceri e dei peccati e camminano dietro a Gesù risorto. Voltiamo anche noi le spalle alla nostra vita passata lontano dalla legge di Dio,  dai santi Sacramenti, e proveremo nel nostro cuore una gioia ed un pace non gustata fin qui. Davide esclama: « Il Signore non lascia mancar nulla a quelli che camminano nell’innocenza ». Non dico che non ci saranno più dolori; ma anche i dolori toccati dalla croce di Gesù, come da una verga miracolosa, diverranno gioie essi pure. « Ogni pena mi è diletto » canta S. Francesco. E santa Teresa di Lisieux meravigliata, diceva: « Come va, Signore, che anche in mezzo ai dispiaceri non posso più patire? ». GIOIA È MORIRE. La cosa più paurosa che v’è sulla terra è la morte. Sentirsi male in tutto il corpo, non trovar sollievo un istante per giorni e veder il mondo sfumar in una nebbia densa, non sentir più nulla, scendere sotterra nell’oscurità, tra le zolle grevi e fredde del camposanto… Oh è terribile! Ma Gesù Cristo, risorgendo per propria virtù, ha reso lieta la morte e piena di beate speranze. Per il navigante che ha traversato gli oceani in burrasca è forse spaventoso entrare un bel mattino nelle acque placide del porto? Per il soldato che è vissuto mesi e mesi nel fango d’una trincea, tra l’ululo dei proiettili; e gli scoppi terribili delle bombarde è forse spaventoso il giorno in cui potrà ritornare al suo paesello, nella sua casa, rivedere suo padre che l’attende sulla soglia, con le braccia spalancate per comprimerlo in estasi sul suo cuore? Per l’operaio che ha lavorato duramente per tutta la settimana, e s’è logorato sulla fatica, è forse spaventoso il sopraggiungere della sera del sabato, quando lo chiamerà il padrone, per donargli una generosissima ricompensa? Così è la morte per i veri Cristiani. « Per me — scriveva s. Paolo — morire è un guadagno (Philip., I, 21). io desidero la morte, perché mi unirà a Cristo (Philip., I, 23). Ma quando, finalmente, sarò liberato da questo corpo mortale? » (Rom., VII, 24). Il vecchio Vescovo Ignazio d’Antiochia, pochi giorni prima del martirio così scriveva ai Romani: « Quando godrò la felicità di essere dilaniato dalle belve feroci? « Ah, si affrettino a farmi morire e a tormentarmi; di grazia, non si risparmino. Se le belve non verranno da me, le obbligherò io a sbranarmi ». – « Perdonatemi, figliuoli, questi trasporti! so quello ch’è bene per me. Che mi si faccia soffrire il fuoco, le croci, le zanne delle bestie feroci; sono pronto a tutto purché possa godere Gesù Cristo ». Ecco che cos’è la morte: il principio dell’eterno godimento. I primi Cristiani chiamavano il giorno della morte dies natalis, giorno di nascita perché chi ha vissuto cristianamente, morendo nasce alla vera vita, quella del Paradiso. Santa Teresa esclamava: « Io muoio di non poter morire ». E quando in Roma scoppiò la peste, S. Luigi Gonzaga con le lacrime scongiurò i superiori suoi di lasciarlo andare negli ospedali ad assistere gli appestati. « Ma non sai che la peste ti può colpire, e tu sei tanto giovane? ». Il Santo desiderava la morte. Ed una sera tornò a casa dopo aver assistito i moribondi, dopo aver baciato le loro piaghe violacee, tornò giulivo, ma con il male nel sangue. — Padre, — diceva al suo confessore prima di morire — mi permette che mi flagelli. « Non vedi che neppure ne hai la forza? ». — Mi farò battere, da capo a piedi, da un compagno. « Non parlare così… ». Lieta è la morte per i Cristiani perché dietro la morte c’è la vita. C’è il Paradiso. C’è Gesù risorto, là, ad aspettarli nella sua gioia eterna. – GIOIA È LA RESURREZIONE DELLA CARNE. Una madre, a cui da poco tempo eran morti due figlioli, udì parlare del giudizio finale e della resurrezione della carne. « Dunque, — diceva estasiata — i miei due figliuoli li vedrò ancora, ancora potrò accarezzarli? Vedrò il loro viso buono, li bacerò ancora, ma non più piangendo come li baciai, freddi freddi, prima di ricomporli nella bara. Ma quando sarà? ». « Quando le trombe degli Angeli squilleranno l’ora del giudizio finale ». E quella madre, quasi impaziente di rivedere i suoi figli: « E perché — disse — quel giorno non è domani? ». Chi non piange qualche caro parente defunto? forse la madre, forse un fratello, forse lo sposo? Quante volte non ci assale un violento desiderio di rivederne le fattezze, di riguardare nei loro occhi mesti; di riudire la loro voce quale l’udimmo in ore beate? Ebbene, il mistero della Pasqua ci dona una grande consolazione. Noi li rivedremo: non solo rivedremo i loro spiriti, ma anche i loro corpi gloriosi, li rivedremo così come li abbiamo conosciuti e amati sopra la terra. La resurrezione di Gesù Cristo è garanzia della nostra resurrezione. I membri di un corpo devono essere conformi alla testa. Ora, Cristo nostro capo è risorto con la sua carne da morte e non muore più. Per conseguenza gli uomini che sono le membra di Cristo risorgeranno essi pure coi loro corpi e non morranno più. Ma, allora, il terribile giorno dell’ira di Dio — dies iræ — per i Cristiani sarà un giorno di gioia, il giorno della gioia completa. Alleluia! È passato l’inverno della maledizione, è venuta la primavera dell’amore; è passata la schiavitù del demonio, comincia il dolce regno di Dio. Alleluia! gioia è la vita; gioia è la morte; gioia il risorgere. Ma chi ci rese così lieta l’esistenza? Gesù Cristo. Fu Lui, con la sua incarnazione, con la passione, con la resurrezione. Se dopo tutto questo c’è ancora qualcuno che non ama nostro Signor Gesù Cristo, sia scomunicato (S. PAOLO).

Alleluia! La resurrezione spirituale che ogni Cristiano deve compiere, è il principio della gloriosa resurrezione dei nostri corpi. Omnes quidem resurgemus (I Cor, XV, 51). – LA NOSTRA SPIRITUALE RESURREZIONE. Un granello di frumento un giorno cadde dalle mani del seminatore nel solco violetto d’un campo smosso di recente: e sparì nella terra.  Il granello sentendosi oppresso mormorò « Io muoio ». Caddero le piogge autunnali a macerare il terreno ed una grande umidità penetrò fino a lui. Il povero granello sentendosi tutto rammollito mormorò con un fil di voce: « Io muoio ». Non  più calore, non più luce, non più sole. Il granello, sentendosi fradicio, sospirò senza voce: « È finita! ». No, no, piccolo granello, non è finita! Ed eccolo mandar fuori impercettibili radici, e poi uno stelo esile come un ago, che passò nella terra e giunse nel sole, poi crebbe fino a dare una spiga stupenda. Ecco simboleggiato quello che ogni Cristiano deve compiere in se stesso dopo che Cristo è morto e risorto per noi. Dobbiamo cominciare una vita nuova: ma prima però è necessario distruggere la vecchia vita: quella in cui il peccato ci ha induriti e chiusi come un seme. Bisogna quindi lasciarci cadere nel solco sotto la terra: ossia ritirarci nel silenzio della chiesa e nella preghiera, e decidere quello che bisogna fare per la salute nostra eterna. Decidere con fermezza e con coraggio, se vogliamo veramente risorgere. Non importa se bisognerà lasciare certe abitudini che ci sono care o comode; non importa se saremo costretti sotto al duro giogo della mortificazione nei nostri sensi, e se ci sembrerà di morire come il piccolo granello di frumento. Via, dunque, dal nostro cuore affetti o relazioni impure: basta con quei luoghi, con quelle amicizie, con quei divertimenti; basta con gli odi, con le gelosie, con l’avidità del denaro, della roba altrui. Bisogna risorgere! Non spaventatevi se questa resurrezione dello spirito vuol dire prima sacrificio e rinnegamento: Iddio saprà infondere a queste lotte intime e dure tanta gioia che voi stessi ne sarete meravigliati. Ernesto Psicari, il convertito nipote di Renan, esclamava: « Mio Dio! Non avrei mai creduto che fosse così facile e così soave l’amarti! ». – LA NOSTRA CORPORALE RESURREZIONE. S. Monaco scita, gran servo di Dio, morendo, atteggiò le labbra a un sorriso. I circostanti, piangendo, gli chiesero perché sorridesse ed egli rispose semplicemente: Ho sorriso perché voi avete paura della morte, mentre essa è così amabile! ». Ed aveva ragione. Ma cos’è la morte, dopo che Cristo l’ha vinta, risorgendo? Non è più l’inesorabile dea che con la falce spinge nelle tenebre i poveri uomini, ma essa per il Cristiano non è che una breve partenza dell’anima dal corpo. È l’anima che saluta il suo corpo: « A rivederci, fratello! abbiamo combattuto insieme la battaglia del Signore, abbiamo servito il nostro padrone, gioendo e patendo insieme. Ora sei stanco e ti lascio riposare: ma dopo il tuo breve sonno, allo squillar della tromba angelica, ritornerò a riprenderti, ma per godere, sempre, senza stancarti più! ». – Ecco perché S. Francesco cantava: « Lodato sia il mio Signore, per la sorella morte corporale! ». Resurrexit: non est hic. O morte, dov’è la tua vittoria? Se Cristo, primizia dei dormienti, è risorto, anche noi tutti dobbiamo risorgere nella nostra carne. Omnes quidem resurgemus: è dogma di fede. Cristo è il nostro capo: noi siamo le sue membra: e tutti con Lui formiamo un corpo unico. Ma ogni membro segue le sorte del capo: e s’Egli muore, tutte le membra morranno; ma s’Egli risorge tutte le membra risorgeranno. Cristo è passato — avanti a noi — con la sua voce; e vuole che tutti lo seguano, portando la croce. Ma Cristo è gloriosamente risorto: e perché tutti quelli che l’avranno seguito nel patimento, non lo dovranno seguire nella gloria? La morte è pena del peccato: ma il peccato fu asterso da Cristo: anche la morte, dunque, dovrà essere infranta. Resurgemus! È questo il grido di Giobbe: «So che il mio Redentore vive. Ma so anche che, nell’ultimo giorno, io pure risorgerò a vederlo con questi occhi miei ». È il grido dei Maccabei morenti: « Tu, o tiranno, potrai disperdere le nostre povere ossa, ma il Re immortale le farà risorgere ». È la parola chiara e infallibile di Dio: « Io sono resurrezione e vita » E allora: dove è, o morte, la tua vittoria se discendiamo nella fossa solo per aspettare la resurrezione? Et exspecto resurrectionem! – Prepariamoci alla gloriosa resurrezione dei corpi, con la resurrezione dal peccato e dalla tiepidezza. Filippo II di Spagna vegliò una notte intera per scrivere una lettera di somma importanza al Papa. Quand’ebbe finito, distratto dalla fatica e dal sonno, invece di versarvi la sabbia per asciugare, vi rovesciò l’inchiostro. Filippo impallidì: ma poi raccogliendo il suo coraggio, disse: « Cominciamo da capo ». Oh! se nella nostra vita ci sono stati dei momenti di sonno e di distrazione, in cui abbiamo rovesciato l’inchiostro dei peccati sull’anima nostra, oggi — che è Pasqua — è proprio il momento opportuno di dire: « Cominciamo da capo ».

 IL CREDO

Offertorium 

Orémus 

Ps. LXXV: 9-10.

Terra trémuit, et quiévit, dum resúrgeret in judício Deus, allelúja. 

[La terra tremò e ristette, quando sorse Dio a fare giustizia, allelúia.]

Secreta

Súscipe, quaesumus, Dómine, preces pópuli tui cum oblatiónibus hostiárum: ut, Paschálibus initiáta mystériis, ad æternitátis nobis medélam, te operánte, profíciant. 

[O Signore, Ti supplichiamo, accogli le preghiere del pòpolo tuo, in uno con l’offerta di questi doni, affinché i medesimi, consacrati dai misteri pasquali, ci servano, per opera tua, di rimedio per l’eternità.] –

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio 

1 Cor V: 7-8

Pascha nostrum immolátus est Christus, allelúja: itaque epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis, allelúja, allelúja, allelúja.

[Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, allelúia: banchettiamo dunque con gli àzzimi della purezza e della verità, allelúia, allelúia, allelúia.]

Postcommunio 

 Orémus.

Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde: ut, quos sacraméntis paschálibus satiásti, tua fácias pietáte concordes. 

[Infondi in noi, o Signore, lo Spirito della tua carità: affinché coloro che saziasti coi sacramenti pasquali, li renda unanimi con la tua pietà.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

UFFICIO DELLE TENEBRE DEL TRIDUO

UFFICIO DELLE TENEBRE DEL TRIDUO

Gli Uffici notturni dei tre giorni del triduo pasquale possono costituire un momento di intensa preghiera e di meditazione della Passione di Cristo anche fuori dal tempo pasquale, nei momenti di prova e nelle difficoltà della vita, in particolare in questi tempi spiritualmente tenebrosi.

L’UFFICIO DELLE TENEBRE.

(p. Pio Parsch)

Chi ama la liturgia impiegherà ogni momento libero per prepararsi bene alle funzioni della Settimana santa. Nelle parrocchie la preparazione è certamente incominciata da molto tempo. I parroci dovettero già, durante la Quaresima, spiegare ai loro parrocchiani il contenuto spirituale della Settimana santa. Ma in questi due giorni è assolumente necessario e urgente portare a termine la preparazione. Oggi consideriamo in modo particolare il Mattutino dei tre ultimi giorni, l’Ufficio delle tenebre. Che cosa è il Mattutino? È una parte della preghiera liturgica del Breviario e precisamente la preghiera notturna della Chiesa, che considera nel Mattutino la festa del giorno seguente. La Chiesa raccoglie in essa i pensieri e i sentimenti di tutta la giornata liturgica. E  poiché i tre ultimi giorni della settimana racchiudono per noi Cristiani gli avvenimenti più importanti dell’anno, è logico che al Mattutino relativo si debba avere una speciale ricchezza di contenuto. In realtà vi è quanto di più bello e commovente può avere la Chiesa nel tesoro delle sue preghiere. I tre Mattutini rappresentano le tre parti del dramma della Passione. La prima parte è il Mattutino del Giovedì santo; imponente introduzione al dramma grandioso, il pensiero centrale è la Passione intima del Signore, la Passione nelle sue cause. Le scene dominanti sono: l’agonia nell’orto degli ulivi; il tradimento di Giuda e l’istituzione della SS. Eucarestia. – La seconda parte è il Mattutino del Venerdì santo, il quale ci fa considerare il momento culminante del dramma della croce. L’azione si svolge sul Golgota. Questo Mattutino è anche il più impressionante e il più triste di tutti. – La terza parte ci infonde già un senso di sollievo. Dal Mattutino del Sabato santo traspira la pace dopo la tempesta; ci sentiamo trasportati a poco a poco verso le speranze della resurrezione, malgrado abbia ancora espressioni di dolore allorché considera le ferite sanguinose del grande Sacrificato! Fermiamoci, solo un momento, a considerare le Lamentazioni e i Responsori.

Le lamentazioni sono canti nei quali il profeta Geremia ha trasfuso il più amaro cordoglio per la distruzione di Gerusalemme e la prigionia del popolo giudeo. Nel Mattutino sentiamo le voci di dolore della umanità penitente, la sposa infedele, per la quale lo sposo soffre e muore. Nelle Lamentazioni, la Chiesa vuole metterci davanti la nostra anima nella quale, come in uno specchio, possiamo riconoscere la miseria spaventosa del peccato. Perciò ogni canto si chiude col grido impressionante: « Gerusalemme, Gerusalemme, convertiti al Signore Dio tuo! ». Le Lamentazioni si cantano su di una melodia piena di mestizia, la cui eco si perde nella lontananza dei tempi, forse nell’antico evo giudaico. Si ripercuotono nella nostra stessa anima le note lente e severe ripetute sempre alla stessa maniera senza mai cessare, quelle note che hanno toccato e commosso migliaia di cuori ed hanno suscitato l’estatica ammirazione dei più famosi artisti: « perché siede così abbandonata la città che fu un tempo sì popolosa? / La regina dei popoli è diventata una vedova, / la regina delle nazioni è diventata suddita… / o voi tutti, che passate per la via, guardate / se c’è un dolore simile al mio dolore… / A chi posso paragonarti, a chi dirti simile, figlia di Gerusalemme? / Chi posso mettere al tuo fianco per confortarti, vergine figlia di Sion?/ Poiché il tuo dolore è grande come il mare… ». Anche i Responsori vengono cantati solennemente dopo le Lamentazioni. Che cosa sono i Responsori? Dopo ogni lezione la Chiesa ha cura di non passare immediatamente alla lezione successiva, ma fra l’una e l’altra intercala un canto che è al tempo stesso un’eco della lezione. Anche nella Messa, dopo l’Epistola segue un Responsorio: il Graduale. I Responsori nel Mattutino della Settima santa sono tra i passi più belli. Vi sentiamo accenti di dolore che escono, ora dalla bocca stessa del Salvatore sofferente, ora da quella della Chiesa. Sono canti sempre alternati, ora semplici, ora lirici, ora altamente drammatici.

Gli esempi seguenti ci danno un’idea di questi canti. Al Giovedì santo la Chiesa dice di Giuda: « Giuda, anima miserabile, venale, / tradì il Signore con un bacio. / Il Signore, come Agnello innocente, / non ricusò il bacio di Giuda. / Per pochi denari lo consegnò ai giudei. / Meglio sarebbe stato per lui che non fosse nato ». –

Al Venerdì santo la Chiesa ricorda la morte di Cristo: / « Si fece notte, / allorché i giudei crocifissero Gesù; / e verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: / Mio Dio, perché mi hai abbandonato? / E, chinato il capo, rese lo spirito. / Gesù gridò con gran voce: / Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito ».

Il Mattutino del Sabato santo è il lamento della Chiesa alla tomba del suo sposo:

« Gerusalemme sorgi, deponi gli abiti da festa, / copriti con la cenere e col cilicio, / perché in te è stato ucciso il Salvatore d’Israele».

Quando comincia il Mattutino si mette davanti all’altare un candelabro con quindici candele, quattordici gialle e una bianca. Queste candele si spengono una per una, dopo il canto di ciascun salmo (nove nel Mattutino e cinque nelle Lodi). La candela bianca resta accesa, ma alla fine essa viene portata dietro l’altare e poi di nuovo ripresa dopo che il coro ha fatto del rumore. – Originariamente questa cerimonia aveva uno scopo pratico. Nel Medio Evo il Mattutino si recitava nella notte perciò si chiama anche Tenebræ. Allorchè si spegneva una candela, i fedeli capivano che era finito un salmo. Più tardi a quest’uso fu dato un significato simbolico: le candele gialle indicano i di quali uno dopo l’altro se ne andarono; la candela bianca, Gesù, la cui luce fu bensì oscurata per breve tempo dalla morte, ma poi riapparve luminosa nella resurrezione. Il rumore deve significare il terremoto al momento della sua Resurrezione. È specialmente commovente la chiusa dell’Ufficio delle tenebre. Allorché tutte le candele anche quelle sull’altare sono spente e la Chiesa si trova avvolta nella completa oscurità, tutti genuflettono. Allora si canta il versetto: « Cristo si è fatto per noi obbediente fino alla morte » (al Venerdì santo si aggiunge : « fino alla morte di Croce »: al Sabato si fa una nuova aggiunta: Perciò Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è superiore a tutti gli altri nomi »). Poi si recita o si canta il salmo di penitenza, il Miserere, davanti all’immagine del Crocifisso. Tutti si alzano ed escono uno dopo l’altro, in profondo silenzio. ….

3. Dal MATTUTINO DEL GIOVEDI’ SANTO .

Verso sera cantiamo il primo Ufficio delle tenebre. Il Mattutino del Giovedì santo è il primo della trilogia, il prologo del grande dramma. Il pensiero fondamentale è questo: La intera passione di Cristo nelle sue cause e nei suoi effetti: a) Presso i Giudei la morte di Cristo è ormai decretata; b) Giuda tradisce il suo Maestro: e di lui appunto oggi si parla diffusamente: c) l’agonia nell’orto e l’intera passione di Gesù nella sua anima e nella sua volontà; d) L’istituzione della SS. Eucarestia, è viva rappresentazione della Passione di Cristo. L’azione si svolge la sera del primo Giovedì santo: essa non prosegue secondo l’ordine cronologico come in un dramma, no: i pensieri partono di qui e sempre vi ritornano; alludono a scene della passione anche dei giorni seguenti: è come un mosaico di preghiera la cui unità è costituita dalla Passione di Cristo in generale, con speciale riferimento agli avvenimenti odierni.

I SALMI – Di solito nel Mattutino delle feste come nel Mattutino dei due giorni seguenti, i salmi sono propri, cioè dal tesoro dei 150 salmi si cercano quelli che nei pensieri e nei sentimenti s’adattano meglio alla ricorrenza. Ma oggi non è così: si recitano i salmi dal LXVIII fino al LXXVI. In una serie ininterrotta, quantunque non tutti si riferiscano alla passione (l’antico Mattutino feriale del mercoledì finiva col salmo LXVII, e perciò quello del giovedì cominciava col salmo LXVIII). – Forse si sono scelti appositamente questi salmi che non si riferiscono al pensiero della passione perché servano d’introduzione alla trilogia. – Abbiamo già parlato delle Lamentazioni. Sotto l’allegoria di Gerusalemme abbiamo sentito la sposa infedele, il lamento dell’umanità e dell’anima peccatrice che gemono sopra la propria indegnità e sul castigo meritato. Nelle preghiere dell’ufficio ascoltiamo il Signore che soffre; nelle Letture, l’umanità si batte il petto esclamando: « È per me che egli ha patito tanto! ».

I Responsori. – Nulla eguaglia la bellezza e la poesia dei Responsori dell’Ufficio delle tenebre, pur così semplici. Essi conferiscono drammaticità al Mattutino e ne mantengono l’unità d’azione. Già nel primo Mattutino si da un certo ordine e una gradazione. Nel primo Notturno si parla dell’agonia di Cristo nell’orto degli ulivi; nel secondo di Giuda; nel terzo dei discepoli addormentati e del piano di morte tramato dai. Giudei. L’ultimo Responsorio di tutti e tre i Mattutini ci dà il quadro della situazione nel momento in cui l’azione arriva al parossismo. – Durante i tre giorni Geremia ha la parola nel primo Notturno; S. Agostino nel secondo; S. Paolo nel terzo. C’è anche in questo una ragione? Geremia rappresenta il Salvatore sofferente; Agostino e Paolo hanno sperimentato in loro stessi, al massimo grado, l’effetto della Passione di Cristo nella grazia della conversione. – Se consideriamo i Mattutini nel loro complesso, riscontriamo una bella unità d’azione.

Nocturn I.


Ant.
Zelus domus tuæ * comédit me, et oppróbria exprobrántium tibi cecidérunt super me.
Psalmus 68 [1]
68:2 Salvum me fac, Deus: * quóniam intravérunt aquæ usque ad ánimam meam.
68:3 Infíxus sum in limo profúndi: * et non est substántia.
68:3 Veni in altitúdinem maris: * et tempéstas demérsit me.
68:4 Laborávi clamans, raucæ factæ sunt fauces meæ: * defecérunt óculi mei, dum spero in Deum meum.
68:5 Multiplicáti sunt super capíllos cápitis mei, * qui odérunt me gratis.
68:5 Confortáti sunt qui persecúti sunt me inimíci mei injúste: * quæ non rápui, tunc exsolvébam.
68:6 Deus, tu scis insipiéntiam meam: * et delícta mea a te non sunt abscóndita.
68:7 Non erubéscant in me qui exspéctant te, Dómine, * Dómine virtútum.
68:7 Non confundántur super me * qui quǽrunt te, Deus Israël.
68:8 Quóniam propter te sustínui oppróbrium: * opéruit confúsio fáciem meam.
68:9 Extráneus factus sum frátribus meis, * et peregrínus fíliis matris meæ.
68:10 Quóniam zelus domus tuæ comédit me: * et oppróbria exprobrántium tibi cecidérunt super me.
68:11 Et opérui in jejúnio ánimam meam: * et factum est in oppróbrium mihi.
68:12 Et pósui vestiméntum meum cilícium: * et factus sum illis in parábolam.
68:13 Advérsum me loquebántur, qui sedébant in porta: * et in me psallébant qui bibébant vinum.
68:13 Ego vero oratiónem meam ad te, Dómine: * tempus benepláciti, Deus.
68:14 In multitúdine misericórdiæ tuæ exáudi me, * in veritáte salútis tuæ:
68:15 Éripe me de luto, ut non infígar: * líbera me ab iis, qui odérunt me, et de profúndis aquárum.
68:16 Non me demérgat tempéstas aquæ, neque absórbeat me profúndum: * neque úrgeat super me púteus os suum.
68:17 Exáudi me, Dómine, quóniam benígna est misericórdia tua: * secúndum multitúdinem miseratiónum tuárum réspice in me.
68:18 Et ne avértas fáciem tuam a púero tuo: * quóniam tríbulor, velóciter exáudi me.
68:19 Inténde ánimæ meæ, et líbera eam: * propter inimícos meos éripe me.
68:20 Tu scis impropérium meum, et confusiónem meam, * et reveréntiam meam.
68:21 In conspéctu tuo sunt omnes qui tríbulant me: * impropérium exspectávit cor meum, et misériam.
68:21 Et sustínui qui simul contristarétur, et non fuit: * et qui consolarétur, et non invéni.
68:22 Et dedérunt in escam meam fel: * et in siti mea potavérunt me acéto.
68:23 Fiat mensa eórum coram ipsis in láqueum, * et in retributiónes, et in scándalum.
68:24 Obscuréntur óculi eórum ne vídeant: * et dorsum eórum semper incúrva.
68:25 Effúnde super eos iram tuam: * et furor iræ tuæ comprehéndat eos.
68:26 Fiat habitátio eórum desérta: * et in tabernáculis eórum non sit qui inhábitet.
68:27 Quóniam quem tu percussísti, persecúti sunt: * et super dolórem vúlnerum meórum addidérunt.
68:28 Appóne iniquitátem super iniquitátem eórum: * et non intrent in justítiam tuam.
68:29 Deleántur de libro vivéntium: * et cum justis non scribántur.
68:30 Ego sum pauper et dolens: * salus tua, Deus, suscépit me.
68:31 Laudábo nomen Dei cum cántico: * et magnificábo eum in laude:
68:32 Et placébit Deo super vítulum novéllum: * córnua producéntem et úngulas.
68:33 Vídeant páuperes et læténtur: * quǽrite Deum, et vivet ánima vestra.
68:34 Quóniam exaudívit páuperes Dóminus: * et vinctos suos non despéxit.
68:35 Laudent illum cæli et terra, * mare et ómnia reptília in eis.
68:36 Quóniam Deus salvam fáciet Sion: * et ædificabúntur civitátes Juda.
68:36 Et inhabitábunt ibi, * et hereditáte acquírent eam.
68:37 Et semen servórum ejus possidébit eam: * et qui díligunt nomen ejus, habitábunt in ea.

Ant. Zelus domus tuæ comédit me, et oppróbria exprobrántium tibi cecidérunt super me.

Ant. Avertántur retrórsum, * et erubéscant, qui cógitant mihi mala.

Psalmus 69 [2]


69:2 Deus, in adjutórium meum inténde: * Dómine, ad adjuvándum me festína.
69:3 Confundántur et revereántur, * qui quǽrunt ánimam meam.
69:4 Avertántur retrórsum, et erubéscant, * qui volunt mihi mala.
69:4 Avertántur statim erubescéntes, * qui dicunt mihi: Euge, euge.
69:5 Exsúltent et læténtur in te omnes qui quǽrunt te, * et dicant semper: Magnificétur Dóminus: qui díligunt salutáre tuum.
69:6 Ego vero egénus, et pauper sum: * Deus, ádjuva me.
69:6 Adjútor meus, et liberátor meus es tu: * Dómine, ne moréris.
Gloria omittitur

Ant. Avertántur retrórsum, et erubéscant, qui cógitant mihi mala.

Ant. Deus meus, * éripe me de manu peccatóris.

Psalmus 70 [3]
70:1 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: * in justítia tua líbera me, et éripe me.
70:2 Inclína ad me aurem tuam, * et salva me.
70:3 Esto mihi in Deum protectórem, et in locum munítum: * ut salvum me fácias,
70:3 Quóniam firmaméntum meum, * et refúgium meum es tu.
70:4 Deus meus, éripe me de manu peccatóris, * et de manu contra legem agéntis et iníqui:
70:5 Quóniam tu es patiéntia mea, Dómine: * Dómine, spes mea a juventúte mea.
70:6 In te confirmátus sum ex útero: * de ventre matris meæ tu es protéctor meus.
70:7 In te cantátio mea semper: * tamquam prodígium factus sum multis: et tu adjútor fortis.
70:8 Repleátur os meum laude, ut cantem glóriam tuam: * tota die magnitúdinem tuam.
70:9 Ne proícias me in témpore senectútis: * cum defécerit virtus mea, ne derelínquas me.
70:10 Quia dixérunt inimíci mei mihi: * et qui custodiébant ánimam meam, consílium fecérunt in unum.
70:11 Dicéntes: Deus derelíquit eum, persequímini, et comprehéndite eum: * quia non est qui erípiat.
70:12 Deus, ne elongéris a me: * Deus meus, in auxílium meum réspice.
70:13 Confundántur, et defíciant detrahéntes ánimæ meæ: * operiántur confusióne, et pudóre qui quǽrunt mala mihi.
70:14 Ego autem semper sperábo: * et adíciam super omnem laudem tuam.
70:15 Os meum annuntiábit justítiam tuam: * tota die salutáre tuum.
70:16 Quóniam non cognóvi litteratúram, introíbo in poténtias Dómini: * Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus.
70:17 Deus, docuísti me a juventúte mea: * et usque nunc pronuntiábo mirabília tua.
70:18 Et usque in senéctam et sénium: * Deus, ne derelínquas me,
70:18 Donec annúntiem brácchium tuum * generatióni omni, quæ ventúra est:
70:19 Poténtiam tuam, et justítiam tuam, Deus, usque in altíssima, quæ fecísti magnália: * Deus, quis símilis tibi?
70:20 Quantas ostendísti mihi tribulatiónes multas et malas: et convérsus vivificásti me: * et de abýssis terræ íterum reduxísti me:
70:21 Multiplicásti magnificéntiam tuam: * et convérsus consolátus es me.
70:22 Nam et ego confitébor tibi in vasis psalmi veritátem tuam: * Deus, psallam tibi in cíthara, Sanctus Israël.
70:23 Exsultábunt lábia mea cum cantávero tibi: * et ánima mea, quam redemísti.
70:24 Sed et lingua mea tota die meditábitur justítiam tuam: * cum confúsi et revériti fúerint, qui quærunt mala mihi.

Ant. Deus meus, éripe me de manu peccatóris.

Lectio 1
Incipit Lamentátio Jeremíæ Prophétæ
Lam 1:1-5
1 Aleph. Quómodo sedet sola cívitas plena pópulo: facta est quasi vídua dómina géntium: princeps provinciárum facta est sub tribúto.
2 Beth. Plorans plorávit in nocte, et lácrimæ ejus in maxíllis ejus: non est qui consolétur eam ex ómnibus caris ejus: omnes amíci ejus sprevérunt eam, et facti sunt ei inimíci.
3 Ghimel. Migrávit Judas propter afflictiónem, et multitúdinem servitútis: habitávit inter gentes, nec invénit réquiem: omnes persecutóres ejus apprehendérunt eam inter angústias.
4 Daleth. Viæ Sion lugent eo quod non sint qui véniant ad solemnitátem: omnes portæ ejus destrúctæ: sacerdótes ejus geméntes: vírgines ejus squálidæ, et ipsa oppréssa amaritúdine.
5 He. Facti sunt hostes ejus in cápite, inimíci ejus locupletáti sunt: quia Dóminus locútus est super eam propter multitúdinem iniquitátum ejus: párvuli ejus ducti sunt in captivitátem, ante fáciem tribulántis.
Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. In monte Olivéti orávit ad Patrem: Pater, si fíeri potest, tránseat a me calix iste:
* Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma.
V. Vigiláte, et oráte, ut non intrétis in tentatiónem.
R. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma.

Lectio 2
Lam 1:6-9
6 Vau. Et egréssus est a fília Sion omnis decor ejus: facti sunt príncipes ejus velut aríetes non inveniéntes páscua: et abiérunt absque fortitúdine ante fáciem subsequéntis.
7 Zain. Recordáta est Jerúsalem diérum afflictiónis suæ, et prævaricatiónis ómnium desiderabílium suórum, quæ habúerat a diébus antíquis, cum cáderet pópulus ejus in manu hostíli, et non esset auxiliátor: vidérunt eam hostes, et derisérunt sábbata ejus.
8 Heth. Peccátum peccávit Jerúsalem, proptérea instábilis facta est: omnes, qui glorificábant eam, sprevérunt illam, quia vidérunt ignomíniam ejus: ipsa autem gemens convérsa est retrórsum.
9 Teth. Sordes ejus in pédibus ejus, nec recordáta est finis sui: depósita est veheménter, non habens consolatórem: vide, Dómine, afflictiónem meam, quóniam eréctus est inimícus.
Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigiláte mecum: nunc vidébitis turbam, quæ circúmdabit me:
* Vos fugam capiétis, et ego vadam immolári pro vobis.
V. Ecce appropínquat hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum.
R. Vos fugam capiétis, et ego vadam immolári pro vobis.

Lectio 3
Lam 1:10-14
10 Jod. Manum suam misit hostis ad ómnia desiderabília ejus: quia vidit gentes ingréssas sanctuárium suum, de quibus præcéperas ne intrárent in ecclésiam tuam.
11 Caph. Omnis pópulus ejus gemens, et quærens panem: dedérunt pretiósa quæque pro cibo ad refocillándam ánimam. Vide, Dómine, et consídera, quóniam facta sum vilis.
12 Lamed. O vos omnes, qui transítis per viam, atténdite, et vidéte, si est dolor sicut dolor meus: quóniam vindemiávit me, ut locútus est Dóminus in die iræ furóris sui.
13 Mem. De excélso misit ignem in óssibus meis, et erudívit me: expándit rete pédibus meis, convértit me retrórsum: pósuit me desolátam, tota die mæróre conféctam.
14 Nun. Vigilávit jugum iniquitátum meárum: in manu ejus convolútæ sunt, et impósitæ collo meo: infirmáta est virtus mea: dedit me Dóminus in manu, de qua non pótero súrgere.


Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. Ecce vídimus eum non habéntem spéciem, neque decórem: aspéctus ejus in eo non est: hic peccáta nostra portávit, et pro nobis dolet: ipse autem vulnerátus est propter iniquitátes nostras:
* Cujus livóre sanáti sumus.
V. Vere languóres nostros ipse tulit, et dolóres nostros ipse portávit.
R. Cujus livóre sanáti sumus.
R. Ecce vídimus eum non habéntem spéciem, neque decórem: aspéctus ejus in eo non est: hic peccáta nostra portávit, et pro nobis dolet: ipse autem vulnerátus est propter iniquitátes nostras: * Cujus livóre sanáti sumus

Nocturn II.


Ant.
Liberávit Dóminus * páuperem a poténte, et ínopem, cui non erat adjútor.

Psalmus 71 [4]
71:2 Deus, judícium tuum regi da: * et justítiam tuam fílio regis:
71:2 Judicáre pópulum tuum in justítia, * et páuperes tuos in judício.
71:3 Suscípiant montes pacem pópulo: * et colles justítiam.
71:4 Judicábit páuperes pópuli, et salvos fáciet fílios páuperum: * et humiliábit calumniatórem.
71:5 Et permanébit cum sole, et ante lunam, * in generatióne et generatiónem.
71:6 Descéndet sicut plúvia in vellus: * et sicut stillicídia stillántia super terram.
71:7 Oriétur in diébus ejus justítia, et abundántia pacis: * donec auferátur luna.
71:8 Et dominábitur a mari usque ad mare: * et a flúmine usque ad términos orbis terrárum.
71:9 Coram illo prócident Æthíopes: * et inimíci ejus terram lingent.
71:10 Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: * reges Árabum et Saba dona addúcent.
71:11 Et adorábunt eum omnes reges terræ: * omnes gentes sérvient ei:
71:12 Quia liberábit páuperem a poténte: * et páuperem, cui non erat adjútor.
71:13 Parcet páuperi et ínopi: * et ánimas páuperum salvas fáciet.
71:14 Ex usúris et iniquitáte rédimet ánimas eórum: * et honorábile nomen eórum coram illo.
71:15 Et vivet, et dábitur ei de auro Arábiæ, et adorábunt de ipso semper: * tota die benedícent ei.
71:16 Et erit firmaméntum in terra in summis móntium, superextollétur super Líbanum fructus ejus: * et florébunt de civitáte sicut fænum terræ.
71:17 Sit nomen ejus benedíctum in sǽcula: * ante solem pérmanet nomen ejus.
71:17 Et benedicéntur in ipso omnes tribus terræ: * omnes gentes magnificábunt eum.
71:18 Benedíctus Dóminus, Deus Israël, * qui facit mirabília solus:
71:19 Et benedíctum nomen majestátis ejus in ætérnum: * et replébitur majestáte ejus omnis terra: fiat, fiat.

Ant. Liberávit Dóminus páuperem a poténte, et ínopem, cui non erat adjútor.

Ant. Cogitavérunt ímpii, * et locúti sunt nequítiam: iniquitátem in excélso locúti sunt.
Psalmus 72 [5]
72:1 Quam bonus Israël Deus, * his, qui recto sunt corde!
72:2 Mei autem pæne moti sunt pedes: * pæne effúsi sunt gressus mei.
72:3 Quia zelávi super iníquos, * pacem peccatórum videns.
72:4 Quia non est respéctus morti eórum: * et firmaméntum in plaga eórum.
72:5 In labóre hóminum non sunt, * et cum homínibus non flagellabúntur:
72:6 Ídeo ténuit eos supérbia, * opérti sunt iniquitáte et impietáte sua.
72:7 Pródiit quasi ex ádipe iníquitas eórum: * transiérunt in afféctum cordis.
72:8 Cogitavérunt, et locúti sunt nequítiam: * iniquitátem in excélso locúti sunt.
72:9 Posuérunt in cælum os suum: * et lingua eórum transívit in terra.
72:10 Ídeo convertétur pópulus meus hic: * et dies pleni inveniéntur in eis.
72:11 Et dixérunt: Quómodo scit Deus, * et si est sciéntia in excélso?
72:12 Ecce, ipsi peccatóres, et abundántes in sǽculo, * obtinuérunt divítias.
72:13 Et dixi: Ergo sine causa justificávi cor meum, * et lavi inter innocéntes manus meas:
72:14 Et fui flagellátus tota die, * et castigátio mea in matutínis.
72:15 Si dicébam: Narrábo sic: * ecce, natiónem filiórum tuórum reprobávi.
72:16 Existimábam ut cognóscerem hoc, * labor est ante me:
72:17 Donec intrem in Sanctuárium Dei: * et intéllegam in novíssimis eórum.
72:18 Verúmtamen propter dolos posuísti eis: * dejecísti eos dum allevaréntur.
72:19 Quómodo facti sunt in desolatiónem, súbito defecérunt: * periérunt propter iniquitátem suam.
72:20 Velut sómnium surgéntium, Dómine, * in civitáte tua imáginem ipsórum ad níhilum rédiges.
72:21 Quia inflammátum est cor meum, et renes mei commutáti sunt: * et ego ad níhilum redáctus sum, et nescívi.
72:23 Ut juméntum factus sum apud te: * et ego semper tecum.
72:24 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me, * et cum glória suscepísti me.
72:25 Quid enim mihi est in cælo? * et a te quid vólui super terram?
72:26 Defécit caro mea, et cor meum: * Deus cordis mei, et pars mea Deus in ætérnum.
72:27 Quia ecce, qui elóngant se a te, períbunt: * perdidísti omnes, qui fornicántur abs te.
72:28 Mihi autem adhærére Deo bonum est: * pónere in Dómino Deo spem meam:
72:28 Ut annúntiem omnes prædicatiónes tuas, * in portis fíliæ Sion.
Gloria omittitur

Ant. Cogitavérunt ímpii, et locúti sunt nequítiam: iniquitátem in excélso locúti sunt.

Ant. Exsúrge, Dómine, * et júdica causam meam.
Psalmus 73 [6]
73:1 Ut quid, Deus, repulísti in finem: * irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?
73:2 Memor esto congregatiónis tuæ, * quam possedísti ab inítio.
73:2 Redemísti virgam hereditátis tuæ: * mons Sion, in quo habitásti in eo.
73:3 Leva manus tuas in supérbias eórum in finem: * quanta malignátus est inimícus in sancto!
73:4 Et gloriáti sunt qui odérunt te: * in médio solemnitátis tuæ.
73:5 Posuérunt signa sua, signa: * et non cognovérunt sicut in éxitu super summum.
73:6 Quasi in silva lignórum secúribus excidérunt jánuas ejus in idípsum: * in secúri et áscia dejecérunt eam.
73:7 Incendérunt igni Sanctuárium tuum: * in terra polluérunt tabernáculum nóminis tui.
73:8 Dixérunt in corde suo cognátio eórum simul: * Quiéscere faciámus omnes dies festos Dei a terra.
73:9 Signa nostra non vídimus, jam non est prophéta: * et nos non cognóscet ámplius.
73:10 Úsquequo, Deus, improperábit inimícus: * irrítat adversárius nomen tuum in finem?
73:11 Ut quid avértis manum tuam, et déxteram tuam, * de médio sinu tuo in finem?
73:12 Deus autem Rex noster ante sǽcula: * operátus est salútem in médio terræ.
73:13 Tu confirmásti in virtúte tua mare: * contribulásti cápita dracónum in aquis.
73:14 Tu confregísti cápita dracónis: * dedísti eum escam pópulis Æthíopum.
73:15 Tu dirupísti fontes, et torréntes: * tu siccásti flúvios Ethan.
73:16 Tuus est dies, et tua est nox: * tu fabricátus es auróram et solem.
73:17 Tu fecísti omnes términos terræ: * æstátem et ver tu plasmásti ea.
73:18 Memor esto hujus, inimícus improperávit Dómino: * et pópulus insípiens incitávit nomen tuum.
73:19 Ne tradas béstiis ánimas confiténtes tibi, * et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
73:20 Réspice in testaméntum tuum: * quia repléti sunt, qui obscuráti sunt terræ dómibus iniquitátum.
73:21 Ne avertátur húmilis factus confúsus: * pauper et inops laudábunt nomen tuum.
73:22 Exsúrge, Deus, júdica causam tuam: * memor esto improperiórum tuórum, eórum quæ ab insipiénte sunt tota die.
73:23 Ne obliviscáris voces inimicórum tuórum: * supérbia eórum, qui te odérunt, ascéndit semper.
Gloria omittitur

Ant. Exsúrge, Dómine, et júdica causam meam.

Pater noster

Lectio 4

Ex tractátu sancti Augustíni Epíscopi super Psalmos
In Psalmum 54 ad 1 versum
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi, et exáudi me. Satagéntis, sollíciti, in tribulatióne pósiti, verba sunt ista. Orat multa pátiens, de malo liberári desíderans. Súperest ut videámus in quo malo sit: et cum dícere cœ́perit, agnoscámus ibi nos esse: ut communicáta tribulatióne, conjungámus oratiónem. Contristátus sum, inquit, in exercitatióne mea, et conturbátus sum. Ubi contristátus? ubi conturbátus? In exercitatióne mea, inquit. Hómines malos, quos pátitur, commemorátus est: eandémque passiónem malórum hóminum exercitatiónem suam dixit. Ne putétis gratis esse malos in hoc mundo, et nihil boni de illis ágere Deum. Omnis malus aut ídeo vivit, ut corrigátur; aut ídeo vivit, ut per illum bonus exerceátur.

R. Amicus meus ósculi me trádidit signo: Quem osculátus fúero, ipse est, tenéte eum: hoc malum fecit signum, qui per ósculum adimplévit homicídium.
* Infélix prætermísit prétium sánguinis, et in fine láqueo se suspéndit.
V. Bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille.
R. Infélix prætermísit prétium sánguinis, et in fine láqueo se suspéndit.

Lectio 5

Utinam ergo qui nos modo exércent, convertántur, et nobíscum exerceántur: tamen quámdiu ita sunt ut exérceant, non eos odérimus: quia in eo quod malus est quis eórum, utrum usque in finem perseveratúrus sit, ignorámus. Et plerúmque cum tibi vidéris odísse inimícum, fratrem odísti, et nescis. Diábolus, et ángeli ejus in Scriptúris sanctis manifestáti sunt nobis, quod ad ignem ætérnum sint destináti. Ipsórum tantum desperánda est corréctio, contra quos habémus occúltam luctam: ad quam luctam nos armat Apóstolus, dicens: Non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: id est, non advérsus hómines, quos vidétis, sed advérsus príncipes, et potestátes, et rectóres mundi, tenebrárum harum. Ne forte cum dixísset, mundi, intellégeres dǽmones esse rectóres cæli et terræ. Mundi dixit, tenebrárum harum: mundi dixit, amatórum mundi: mundi dixit, impiórum et iniquórum: mundi dixit, de quo dicit Evangélium: Et mundus eum non cognóvit.

R. Judas mercátor péssimus ósculo pétiit Dóminum: ille ut agnus ínnocens non negávit Judæ ósculum:
* Denariórum número Christum Judǽis trádidit.
V. Mélius illi erat, si natus non fuísset.
R. Denariórum número Christum Judǽis trádidit.

Lectio 6

Quóniam vidi iniquitátem, et contradictiónem in civitáte. Atténde glóriam crucis ipsíus. Jam in fronte regum crux illa fixa est, cui inimíci insultavérunt. Efféctus probávit virtútem: dómuit orbem non ferro, sed ligno. Lignum crucis contuméliis dignum visum est inimícis, et ante ipsum lignum stantes caput agitábant, et dicébant: Si Fílius Dei est, descéndat de cruce. Extendébat ille manus suas ad pópulum non credéntem, et contradicéntem. Si enim justus est, qui ex fide vivit; iníquus est, qui non habet fidem. Quod ergo hic ait, iniquitátem: perfídiam intéllege. Vidébat ergo Dóminus in civitáte iniquitátem et contradictiónem, et extendébat manus suas ad pópulum non credéntem et contradicéntem: et tamen et ipsos exspéctans dicébat: Pater, ignósce illis, quia nésciunt quid fáciunt.

R. Unus ex discípulis meis tradet me hódie: Væ illi per quem tradar ego:
* Mélius illi erat, si natus non fuísset.
V. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me traditúrus est in manus peccatórum.
R. Mélius illi erat, si natus non fuísset.
Gloria omittitur
R. Unus ex discípulis meis tradet me hódie: Væ illi per quem tradar ego: * Mélius illi erat, si natus non fuísset.

Nocturn III.


Ant. Dixi iníquis: * Nolíte loqui advérsus Deum iniquitátem.
Psalmus 74 [7]
74:2 Confitébimur tibi, Deus: * confitébimur, et invocábimus nomen tuum.
74:3 Narrábimus mirabília tua: * cum accépero tempus, ego justítias judicábo.
74:4 Liquefácta est terra, et omnes qui hábitant in ea: * ego confirmávi colúmnas ejus.
74:5 Dixi iníquis: Nolíte iníque ágere: * et delinquéntibus: Nolíte exaltáre cornu:
74:6 Nolíte extóllere in altum cornu vestrum: * nolíte loqui advérsus Deum iniquitátem.
74:7 Quia neque ab Oriénte, neque ab Occidénte, neque a desértis móntibus: * quóniam Deus judex est.
74:8 Hunc humíliat, et hunc exáltat: * quia calix in manu Dómini vini meri plenus misto.
74:9 Et inclinávit ex hoc in hoc: verúmtamen fæx ejus non est exinaníta: * bibent omnes peccatóres terræ.
74:10 Ego autem annuntiábo in sǽculum: * cantábo Deo Jacob.
74:11 Et ómnia córnua peccatórum confríngam: * et exaltabúntur córnua justi.
Gloria omittitur

Ant. Dixi iníquis: Nolíte loqui advérsus Deum iniquitátem.

Ant. Terra trémuit * et quiévit, dum exsúrgeret in judício Deus.

Psalmus 75 [8]

75:2 Notus in Judǽa Deus: * in Israël magnum nomen ejus.
75:3 Et factus est in pace locus ejus: * et habitátio ejus in Sion.
75:4 Ibi confrégit poténtias árcuum, * scutum, gládium, et bellum.
75:5 Illúminans tu mirabíliter a móntibus ætérnis: * turbáti sunt omnes insipiéntes corde.
75:6 Dormiérunt somnum suum: * et nihil invenérunt omnes viri divitiárum in mánibus suis.
75:7 Ab increpatióne tua, Deus Jacob, * dormitavérunt qui ascendérunt equos.
75:8 Tu terríbilis es, et quis resístet tibi? * ex tunc ira tua.
75:9 De cælo audítum fecísti judícium: * terra trémuit et quiévit,
75:10 Cum exsúrgeret in judícium Deus, * ut salvos fáceret omnes mansuétos terræ.
75:11 Quóniam cogitátio hóminis confitébitur tibi: * et relíquiæ cogitatiónis diem festum agent tibi.
75:12 Vovéte, et réddite Dómino, Deo vestro: * omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera.
75:13 Terríbili et ei qui aufert spíritum príncipum, * terríbili apud reges terræ.
Gloria omittitur

Ant. Terra trémuit et quiévit, dum exsúrgeret in judício Deus.

Ant. In die tribulatiónis * meæ Deum exquisívi mánibus meis.

Psalmus 76 [9]

76:2 Voce mea ad Dóminum clamávi: * voce mea ad Deum, et inténdit mihi.
76:3 In die tribulatiónis meæ Deum exquisívi, mánibus meis nocte contra eum: * et non sum decéptus.
76:4 Rénuit consolári ánima mea, * memor fui Dei, et delectátus sum, et exercitátus sum: et defécit spíritus meus.
76:5 Anticipavérunt vigílias óculi mei: * turbátus sum, et non sum locútus.
76:6 Cogitávi dies antíquos: * et annos ætérnos in mente hábui.
76:7 Et meditátus sum nocte cum corde meo, * et exercitábar, et scopébam spíritum meum.
76:8 Numquid in ætérnum proíciet Deus: * aut non appónet ut complacítior sit adhuc?
76:9 Aut in finem misericórdiam suam abscíndet, * a generatióne in generatiónem?
76:10 Aut obliviscétur miseréri Deus? * aut continébit in ira sua misericórdias suas?
76:11 Et dixi: Nunc cœpi: * hæc mutátio déxteræ Excélsi.
76:12 Memor fui óperum Dómini: * quia memor ero ab inítio mirabílium tuórum.
76:13 Et meditábor in ómnibus opéribus tuis: * et in adinventiónibus tuis exercébor.
76:14 Deus, in sancto via tua: quis Deus magnus sicut Deus noster? * tu es Deus qui facis mirabília.
76:15 Notam fecísti in pópulis virtútem tuam: * redemísti in brácchio tuo pópulum tuum, fílios Jacob et Joseph.
76:17 Vidérunt te aquæ, Deus, vidérunt te aquæ: * et timuérunt, et turbátæ sunt abýssi.
76:18 Multitúdo sónitus aquárum: * vocem dedérunt nubes.
76:18 Étenim sagíttæ tuæ tránseunt: * vox tonítrui tui in rota.
76:19 Illuxérunt coruscatiónes tuæ orbi terræ: * commóta est, et contrémuit terra.
76:20 In mari via tua, et sémitæ tuæ in aquis multis: * et vestígia tua non cognoscéntur.
76:21 Deduxísti sicut oves pópulum tuum, * in manu Móysi et Aaron.
Gloria omittitur

Ant. In die tribulatiónis meæ Deum exquisívi mánibus meis.

V. Exsúrge, Dómine.
R. Et júdica causam meam.

Pater noster

Lectio 7
De Epístola prima beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios
1 Cor 11:17-22
17 Hoc autem præcípio: non laudans quod non in mélius, sed in detérius convenítis.
18 Primum quidem conveniéntibus vobis in Ecclésiam, áudio scissúras esse inter vos, et ex parte credo.
19 Nam opórtet et hǽreses esse, ut et qui probáti sunt, manifésti fiant in vobis.
20 Conveniéntibus ergo vobis in unum, jam non est Domínicam cenam manducáre.
21 Unusquísque enim suam cenam præsúmit ad manducándum. Et álius quidem ésurit, álius autem ébrius est.
22 Numquid domos non habétis ad manducándum et bibéndum? aut Ecclésiam Dei contémnitis, et confúnditis eos, qui non habent? Quid dicam vobis? Laudo vos? In hoc non laudo.

R. Eram quasi agnus ínnocens: ductus sum ad immolándum, et nesciébam: consílium fecérunt inimíci mei advérsum me, dicéntes:
* Veníte, mittámus lignum in panem ejus, et eradámus eum de terra vivéntium.
V. Omnes inimíci mei advérsum me cogitábant mala mihi: verbum iníquum mandavérunt advérsum me, dicéntes.
R. Veníte, mittámus lignum in panem ejus, et eradámus eum de terra vivéntium.

Lectio 8

1 Cor XI: 23-26
23 Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Jesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem,
24 Et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem.
25 Simíliter et cálicem, postquam cœnávit, dicens: Hic calix novum testaméntum est in meo sánguine: hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem.
26 Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc, et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis donec véniat.

R. Una hora non potuístis vigiláre mecum, qui exhortabámini mori pro me?
* Vel Judam non vidétis, quómodo non dormit, sed festínat trádere me Judǽis.
V. Quid dormítis? súrgite, et oráte, ne intrétis in tentatiónem.
R. Vel Judam non vidétis, quómodo non dormit, sed festínat trádere me Judǽis.

Lectio 9

1 Cor XI: 27-34
27 Itaque quicúmque manducáverit panem hunc, vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini.
28 Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo edat, et de cálice bibat.
29 Qui enim mandúcat et bibit indígne, judícium sibi mandúcat et bibit, non dijúdicans corpus Dómini.
30 Ideo inter vos multi infírmi et imbecílles, et dórmiunt multi.
31 Quod, si nosmetípsos dijudicarémus, non útique judicarémur.
32 Dum judicámur autem, a Dómino corrípimur, ut non cum hoc mundo damnémur.
33 Itaque, fratres mei, cum convenítis ad manducándum, ínvicem exspectáte.
34 Si quis ésurit, domi mandúcet: ut non in judícium conveniátis. Cétera autem, cum vénero, dispónam.

R. Senióres pópuli consílium fecérunt,
* Ut Jesum dolo tenérent, et occíderent: cum gládiis et fústibus exiérunt tamquam ad latrónem.
V. Collegérunt pontífices et pharisǽi concílium.
R. Ut Jesum dolo tenérent, et occíderent: cum gládiis et fústibus exiérunt tamquam ad latrónem.
Gloria omittitur
R. Senióres pópuli consílium fecérunt, * Ut Jesum dolo tenérent, et occíderent: cum gládiis et fústibus exiérunt tamquam ad latrónem.

Oratio
Réspice, quǽsumus, Dómine, super hanc famíliam tuam, pro qua Dóminus noster Jesus Christus non dubitávit mánibus tradi nocéntium, et crucis subíre torméntum:

6. DAL MATTUTINO DEL VENERDI’ SANTO. –

La seconda parte della trilogia e il punto culminante di essa, è il Mattutino del venerdì santo. Potremmo chiamarlo: la morte di Cristo sulla croce. Quantunque l’azione non si svolga in ordine cronologico, possiamo stabilire come scena centrale Gesù pendente dalla croce e considerare le altre scene di questo giorno come figure e ricordi che passano davanti allo sguardo del Salvatore crocifisso. I sentimenti espressi nel Mattutino scelti tra i salmi più cupi e desolati del Salterio sono profondamente tristi; le Lamentazioni sembrano voler accrescere il dolore; altrettanto tristi, quanto belli, sono i Responsori.

Rappresentiamoci il Signore in croce e ascoltiamo le espressioni del suo affetto e del suo dolore: ora è l’abbandono senza conforto; ora il lamento desolato; pensiamo alle scene dei giorni trascorsi o della sera precedente che Egli rievoca.

Rileviamo i passi più belli del Mattutino:

Al primo Notturno comincia il combattimento dei Giudei e dei Gentili contro Dio e il suo Cristo (salmo Il). Poi vediamo la divina vittima sulla croce: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? ». Cantiamo il salmo messianico XXI: « Si sono divise le mie vesti tra loro e tirarono a sorte la mia tunica ». Questo canto è uno dei passi più importanti del Mattutino. Segue un salmo di calma fiducia, il quale esprime i sentimenti dell’anima del Signore in mezzo all’angoscia mortale: « Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di che temerò? ». – Nelle letture vediamo la sposa disonorata: « A chi ti paragonerò, a qual cosa ti somiglierò, o figlia di Gerusalemme?… poiché grande come il mare è il tuo dolore ».  La liturgia spiega di nuovo una scena del Golgota: « il velo del Tempio si squarciò, e tutta la terra tremò; gridò il ladrone dalla croce: ricordati di me, o Signore, quando sarai giunto nel tuo regno. Le rupi si spezzarono e si aprirono i sepolcri, molti corpi di santi, che erano addormentati, risorsero ». Nella terza lettura ecco l’Uomo dei dolori, Cristo: « Io sono l’Uomo che conosce la miseria sotto la verga dell’ira. Mi ha trascinato e condotto nelle tenebre e non nella luce ».

Nel secondo Notturno recitiamo il salmo della flagellazione XXXVII: « Non c’è parte sana nella mia carne a cagione dell’ira tua; non hanno pace le mie ossa a causa dei mici peccati ». Nulla è così commovente come la preghiera di Cristo sulla croce (salmo XXXIX). –

Nelle lezioni ascoltiamo nuovamente S. Agostino che applica il salmo LXIII alla Passione di Cristo. Il quinto Responsorio, a metà del Mattutino, descrive la morte del

Signore. – Nel terzo Notturno il salmo LXXXVII, profondamente triste, ci mette davanti al punto culminante del dramma: « La mia anima è piena di dolori e presso al sepolcro è la mia vita ». – Le lezioni portano un pensiero affatto nuovo: Cristo è il nostro eterno Pontefice che sull’altare della croce compì il suo Sacrificio unico, il sacrificio perfetto perché ad un tempo Egli fu sacerdote e vittima. – L’ultimo Responsorio mostra il quadro finale: Cristo all’estremo dei suoi dolori:

« Si sono offuscati i miei occhi nel pianto, poiché s’è allontanato da me colui che mi consolava. Mirate, o popoli tutti, se vi è dolore simile al mio dolore ».

Nocturn I.

Ant. Astitérunt reges terræ, * et príncipes convenérunt in unum, advérsus Dóminum, et advérsus Christum ejus.

Psalmus 2 [1]

2:1 Quare fremuérunt gentes: * et pópuli meditáti sunt inánia?
2:2 Astitérunt reges terræ, et príncipes convenérunt in unum * advérsus Dóminum, et advérsus Christum ejus.
2:3 Dirumpámus víncula eórum: * et proiciámus a nobis jugum ipsórum.
2:4 Qui hábitat in cælis, irridébit eos: * et Dóminus subsannábit eos.
2:5 Tunc loquétur ad eos in ira sua, * et in furóre suo conturbábit eos.
2:6 Ego autem constitútus sum Rex ab eo super Sion montem sanctum ejus, * prǽdicans præcéptum ejus.
2:7 Dóminus dixit ad me: * Fílius meus es tu, ego hódie génui te.
2:8 Póstula a me, et dabo tibi gentes hereditátem tuam, * et possessiónem tuam términos terræ.
2:9 Reges eos in virga férrea, * et tamquam vas fíguli confrínges eos.
2:10 Et nunc, reges, intellégite: * erudímini, qui judicátis terram.
2:11 Servíte Dómino in timóre: * et exsultáte ei cum tremóre.
2:12 Apprehéndite disciplínam, nequándo irascátur Dóminus, * et pereátis de via justa.
2:13 Cum exárserit in brevi ira ejus: * beáti omnes qui confídunt in eo.
Gloria omittitur

Ant. Astitérunt reges terræ, et príncipes convenérunt in unum, advérsus Dóminum, et advérsus Christum ejus.

Ant. Divisérunt sibi * vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem.

Psalmus 21 [2]

21:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? * longe a salúte mea verba delictórum meórum.
21:3 Deus meus, clamábo per diem, et non exáudies: * et nocte, et non ad insipiéntiam mihi.
21:4 Tu autem in sancto hábitas, * laus Israël.
21:5 In te speravérunt patres nostri: * speravérunt, et liberásti eos.
21:6 Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: * in te speravérunt, et non sunt confúsi.
21:7 Ego autem sum vermis, et non homo: * oppróbrium hóminum, et abjéctio plebis.
21:8 Omnes vidéntes me, derisérunt me: * locúti sunt lábiis, et movérunt caput.
21:9 Sperávit in Dómino, erípiat eum: * salvum fáciat eum, quóniam vult eum.
21:10 Quóniam tu es, qui extraxísti me de ventre: * spes mea ab ubéribus matris meæ. In te projéctus sum ex útero:
21:11 De ventre matris meæ Deus meus es tu, * ne discésseris a me:
21:12 Quóniam tribulátio próxima est: * quóniam non est qui ádjuvet.
21:13 Circumdedérunt me vítuli multi: * tauri pingues obsedérunt me.
21:14 Aperuérunt super me os suum, * sicut leo rápiens et rúgiens.
21:15 Sicut aqua effúsus sum: * et dispérsa sunt ómnia ossa mea.
21:15 Factum est cor meum tamquam cera liquéscens * in médio ventris mei.
21:16 Áruit tamquam testa virtus mea, et lingua mea adhǽsit fáucibus meis: * et in púlverem mortis deduxísti me.
21:17 Quóniam circumdedérunt me canes multi: * concílium malignántium obsédit me.
21:17 Fodérunt manus meas et pedes meos: * dinumeravérunt ómnia ossa mea.
21:18 Ipsi vero consideravérunt et inspexérunt me: * divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem.
21:20 Tu autem, Dómine, ne elongáveris auxílium tuum a me: * ad defensiónem meam cónspice.
21:21 Érue a frámea, Deus, ánimam meam: * et de manu canis únicam meam:
21:22 Salva me ex ore leónis: * et a córnibus unicórnium humilitátem meam.
21:23 Narrábo nomen tuum frátribus meis: * in médio ecclésiæ laudábo te.
21:24 Qui timétis Dóminum, laudáte eum: * univérsum semen Jacob, glorificáte eum.
21:25 Tímeat eum omne semen Israël: * quóniam non sprevit, neque despéxit deprecatiónem páuperis:
21:25 Nec avértit fáciem suam a me: * et cum clamárem ad eum, exaudívit me.
21:26 Apud te laus mea in ecclésia magna: * vota mea reddam in conspéctu timéntium eum.
21:27 Edent páuperes, et saturabúntur: et laudábunt Dóminum qui requírunt eum: * vivent corda eórum in sǽculum sǽculi.
21:28 Reminiscéntur et converténtur ad Dóminum * univérsi fines terræ:
21:28 Et adorábunt in conspéctu ejus * univérsæ famíliæ géntium.
21:29 Quóniam Dómini est regnum: * et ipse dominábitur géntium.
21:30 Manducavérunt et adoravérunt omnes pingues terræ: * in conspéctu ejus cadent omnes qui descéndunt in terram.
21:31 Et ánima mea illi vivet: * et semen meum sérviet ipsi.
21:32 Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: * et annuntiábunt cæli justítiam ejus pópulo qui nascétur, quem fecit Dóminus.

Ant. Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem.

Ant. Insurrexérunt in me * testes iníqui, et mentíta est iníquitas sibi.

Psalmus 26 [3]

26:1 Dóminus illuminátio mea, et salus mea, * quem timébo?
26:1 Dóminus protéctor vitæ meæ, * a quo trepidábo?
26:2 Dum apprópiant super me nocéntes, * ut edant carnes meas:
26:2 Qui tríbulant me inimíci mei, * ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt.
26:3 Si consístant advérsum me castra, * non timébit cor meum.
26:3 Si exsúrgat advérsum me prǽlium, * in hoc ego sperábo.
26:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram, * ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ:
26:4 Ut vídeam voluptátem Dómini, * et vísitem templum ejus.
26:5 Quóniam abscóndit me in tabernáculo suo: * in die malórum protéxit me in abscóndito tabernáculi sui.
26:6 In petra exaltávit me: * et nunc exaltávit caput meum super inimícos meos.
26:6 Circuívi, et immolávi in tabernáculo ejus hóstiam vociferatiónis: * cantábo, et psalmum dicam Dómino.
26:7 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: * miserére mei, et exáudi me.
26:8 Tibi dixit cor meum, exquisívit te fácies mea: * fáciem tuam, Dómine, requíram.
26:9 Ne avértas fáciem tuam a me: * ne declínes in ira a servo tuo.
26:9 Adjútor meus esto: * ne derelínquas me, neque despícias me, Deus, salutáris meus.
26:10 Quóniam pater meus, et mater mea dereliquérunt me: * Dóminus autem assúmpsit me.
26:11 Legem pone mihi, Dómine, in via tua: * et dírige me in sémitam rectam propter inimícos meos.
26:12 Ne tradíderis me in ánimas tribulántium me: * quóniam insurrexérunt in me testes iníqui, et mentíta est iníquitas sibi.
26:13 Credo vidére bona Dómini * in terra vivéntium.
26:14 Exspécta Dóminum, viríliter age: * et confortétur cor tuum, et sústine Dóminum.

Ant. Insurrexérunt in me testes iníqui, et mentíta est iníquitas sibi.

V. Divisérunt sibi vestiménta mea.
R. Et super vestem meam misérunt sortem.

Pater noster

Lectio 1
De Lamentatióne Jeremíæ Prophétæ
Lam 2:8-11
8 Heth. Cogitávit Dóminus dissipáre murum fíliæ Sion: teténdit funículum suum, et non avértit manum suam a perditióne: luxítque antemurále, et murus páriter dissipátus est.
9 Teth. Defíxæ sunt in terra portæ ejus: pérdidit, et contrívit vectes ejus: regem ejus et príncipes ejus in géntibus: non est lex, et prophétæ ejus non invenérunt visiónem a Dómino.
10 Jod. Sedérunt in terra, conticuérunt senes fíliæ Sion: conspersérunt cínere cápita sua, accíncti sunt cilíciis, abjecérunt in terram cápita sua vírgines Jerúsalem.
11 Caph. Defecérunt præ lácrimis óculi mei, conturbáta sunt víscera mea: effúsum est in terra jecur meum super contritióne fíliæ pópuli mei, cum defíceret párvulus et lactens in platéis óppidi.
Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. Omnes amíci mei dereliquérunt me, et prævaluérunt insidiántes mihi: trádidit me quem diligébam:
* Et terribílibus óculis plaga crudéli percutiéntes, acéto potábant me.
V. Inter iníquos projecérunt me, et non pepercérunt ánimæ meæ.
R. Et terribílibus óculis plaga crudéli percutiéntes, acéto potábant me.

Lectio 2
Lam 2:12-15
12 Lamed. Mátribus suis dixérunt: Ubi est tríticum et vinum? cum defícerent quasi vulneráti in platéis civitátis: cum exhalárent ánimas suas in sinu matrum suárum.
13 Mem. Cui comparábo te? vel cui assimilábo te, fília Jerúsalem? cui exæquábo te, et consolábor te, virgo fília Sion? Magna est enim velut mare contrítio tua: quis medébitur tui?
14 Nun. Prophétæ tui vidérunt tibi falsa et stulta, nec aperiébant iniquitátem tuam, ut te ad pœniténtiam provocárent: vidérunt autem tibi assumptiónes falsas, et ejectiónes.
15 Samech. Plausérunt super te mánibus omnes transeúntes per viam: sibilavérunt, et movérunt caput suum super fíliam Jerúsalem: Hǽccine est urbs, dicéntes, perfécti decóris, gáudium univérsæ terræ?
Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. Velum templi scissum est,
* Et omnis terra trémuit: latro de cruce clamábat, dicens: Meménto mei, Dómine, dum véneris in regnum tuum.
V. Petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt, et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt.
R. Et omnis terra trémuit: latro de cruce clamábat, dicens: Meménto mei, Dómine, dum véneris in regnum tuum.

Lectio 3

Lam 3:1-9
1 Aleph. Ego vir videns paupertátem meam in virga indignatiónis ejus.
2 Aleph. Me minávit, et addúxit in ténebras, et non in lucem.
3 Aleph. Tantum in me vertit, et convértit manum suam tota die.
4 Beth. Vetústam fecit pellem meam, et carnem meam, contrívit ossa mea.
5 Beth. Ædificávit in gyro meo, et circúmdedit me felle et labóre.
6 Beth. In tenebrósis collocávit me, quasi mórtuos sempitérnos.
7 Ghimel. Circumædificávit advérsum me, ut non egrédiar: aggravávit cómpedem meum.
8 Ghimel. Sed et, cum clamávero et rogávero, exclúsit oratiónem meam.
9 Ghimel. Conclúsit vias meas lapídibus quadris, sémitas meas subvértit.
Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. Vínea mea elécta, ego te plantávi:
* Quómodo convérsa es in amaritúdinem, ut me crucifígeres et Barábbam dimítteres?
V. Sepívi te, et lápides elégi ex te, et ædificávi turrim.
R. Quómodo convérsa es in amaritúdinem, ut me crucifígeres et Barábbam dimítteres?
Gloria omittitur
R. Vínea mea elécta, ego te plantávi: * Quómodo convérsa es in amaritúdinem, ut me crucifígeres et Barábbam dimítteres?

Nocturn II.

Ant. Vim faciébant, * qui quærébant ánimam meam.
Psalmus 37 [4]
37:2 Dómine, ne in furóre tuo árguas me, * neque in ira tua corrípias me.
37:3 Quóniam sagíttæ tuæ infíxæ sunt mihi: * et confirmásti super me manum tuam.
37:4 Non est sánitas in carne mea a fácie iræ tuæ: * non est pax óssibus meis a fácie peccatórum meórum.
37:5 Quóniam iniquitátes meæ supergréssæ sunt caput meum: * et sicut onus grave gravátæ sunt super me.
37:6 Putruérunt et corrúptæ sunt cicatríces meæ, * a fácie insipiéntiæ meæ.
37:7 Miser factus sum, et curvátus sum usque in finem: * tota die contristátus ingrediébar.
37:8 Quóniam lumbi mei impléti sunt illusiónibus: * et non est sánitas in carne mea.
37:9 Afflíctus sum, et humiliátus sum nimis: * rugiébam a gémitu cordis mei.
37:10 Dómine, ante te omne desidérium meum: * et gémitus meus a te non est abscónditus.
37:11 Cor meum conturbátum est, derelíquit me virtus mea: * et lumen oculórum meórum, et ipsum non est mecum.
37:12 Amíci mei, et próximi mei * advérsum me appropinquavérunt, et stetérunt.
37:12 Et qui juxta me erant, de longe stetérunt: * et vim faciébant qui quærébant ánimam meam.
37:13 Et qui inquirébant mala mihi, locúti sunt vanitátes: * et dolos tota die meditabántur.
37:14 Ego autem tamquam surdus non audiébam: * et sicut mutus non apériens os suum.
37:15 Et factus sum sicut homo non áudiens: * et non habens in ore suo redargutiónes.
37:16 Quóniam in te, Dómine, sperávi: * tu exáudies me, Dómine, Deus meus.
37:17 Quia dixi: Nequándo supergáudeant mihi inimíci mei: * et dum commovéntur pedes mei, super me magna locúti sunt.
37:18 Quóniam ego in flagélla parátus sum: * et dolor meus in conspéctu meo semper.
37:19 Quóniam iniquitátem meam annuntiábo: * et cogitábo pro peccáto meo.
37:20 Inimíci autem mei vivunt, et confirmáti sunt super me: * et multiplicáti sunt qui odérunt me iníque.
37:21 Qui retríbuunt mala pro bonis, detrahébant mihi: * quóniam sequébar bonitátem.
37:22 Ne derelínquas me, Dómine, Deus meus: * ne discésseris a me.
37:23 Inténde in adjutórium meum, * Dómine, Deus, salútis meæ.
Gloria omittitur

Ant. Vim faciébant, qui quærébant ánimam meam.

Ant. Confundántur * et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam.

Psalmus 39 [5]

39:2 Exspéctans exspectávi Dóminum, * et inténdit mihi.
39:3 Et exaudívit preces meas: * et edúxit me de lacu misériæ, et de luto fæcis.
39:3 Et státuit super petram pedes meos: * et diréxit gressus meos.
39:4 Et immísit in os meum cánticum novum, * carmen Deo nostro.
39:4 Vidébunt multi, et timébunt: * et sperábunt in Dómino.
39:5 Beátus vir, cujus est nomen Dómini spes ejus: * et non respéxit in vanitátes et insánias falsas.
39:6 Multa fecísti tu, Dómine, Deus meus, mirabília tua: * et cogitatiónibus tuis non est qui símilis sit tibi.
39:6 Annuntiávi et locútus sum: * multiplicáti sunt super númerum.
39:7 Sacrifícium et oblatiónem noluísti: * aures autem perfecísti mihi.
39:7 Holocáustum et pro peccáto non postulásti: * tunc dixi: Ecce, vénio.
39:8 In cápite libri scriptum est de me ut fácerem voluntátem tuam: * Deus meus, vólui, et legem tuam in médio cordis mei.
39:10 Annuntiávi justítiam tuam in ecclésia magna, * ecce, lábia mea non prohibébo: Dómine, tu scisti.
39:11 Justítiam tuam non abscóndi in corde meo: * veritátem tuam et salutáre tuum dixi.
39:11 Non abscóndi misericórdiam tuam et veritátem tuam * a concílio multo.
39:12 Tu autem, Dómine, ne longe fácias miseratiónes tuas a me: * misericórdia tua et véritas tua semper suscepérunt me.
39:13 Quóniam circumdedérunt me mala, quorum non est númerus: * comprehendérunt me iniquitátes meæ, et non pótui ut vidérem.
39:13 Multiplicátæ sunt super capíllos cápitis mei: * et cor meum derelíquit me.
39:14 Compláceat tibi, Dómine, ut éruas me: * Dómine, ad adjuvándum me réspice.
39:15 Confundántur et revereántur simul, qui quærunt ánimam meam, * ut áuferant eam.
39:15 Convertántur retrórsum, et revereántur, * qui volunt mihi mala.
39:16 Ferant conféstim confusiónem suam, * qui dicunt mihi: Euge, euge.
39:17 Exsúltent et læténtur super te omnes quæréntes te: * et dicant semper: Magnificétur Dóminus: qui díligunt salutáre tuum.
39:18 Ego autem mendícus sum, et pauper: * Dóminus sollícitus est mei.
39:18 Adjútor meus, et protéctor meus tu es: * Deus meus, ne tardáveris.
Gloria omittitur

Ant. Confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam.

Ant. Aliéni * insurrexérunt in me, et fortes quæsiérunt ánimam meam.

Psalmus 53 [6]

53:3 Deus, in nómine tuo salvum me fac: * et in virtúte tua júdica me.
53:4 Deus, exáudi oratiónem meam: * áuribus pércipe verba oris mei.
53:5 Quóniam aliéni insurrexérunt advérsum me, et fortes quæsiérunt ánimam meam: * et non proposuérunt Deum ante conspéctum suum.
53:6 Ecce enim, Deus ádjuvat me: * et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ.
53:7 Avérte mala inimícis meis: * et in veritáte tua dispérde illos.
53:8 Voluntárie sacrificábo tibi, * et confitébor nómini tuo, Dómine: quóniam bonum est:
53:9 Quóniam ex omni tribulatióne eripuísti me: * et super inimícos meos despéxit óculus meus.

Ant. Aliéni insurrexérunt in me, et fortes quæsiérunt ánimam meam.

Pater noster

Lectio 4

Ex tractátu sancti Augustíni Epíscopi super Psalmos
In Psalm LXIII ad versum 2
Protexísti me, Deus, a convéntu malignántium, a multitúdine operántium iniquitátem. Jam ipsum caput nostrum intueámur. Multi Mártyres tália passi sunt, sed nihil sic elúcet, quómodo caput Mártyrum: ibi mélius intuémur, quod illi expérti sunt. Protéctus est a multitúdine malignántium, protegénte se Deo, protegénte carnem suam ipso Fílio, et hómine, quem gerébat: quia fílius hóminis est, et Fílius Dei est. Fílius Dei, propter formam Dei: fílius hóminis, propter formam servi, habens in potestáte pónere ánimam suam, et recípere eam. Quid ei potuérunt fácere inimíci? Occidérunt corpus, ánimam non occidérunt. Inténdite. Parum ergo erat, Dóminum hortári Mártyres verbo, nisi firmáret exémplo.

R. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me:
* Cotídie apud vos eram in templo docens, et non me tenuístis: et ecce flagellátum dúcitis ad crucifigéndum.
V. Cumque injecíssent manus in Jesum, et tenuíssent eum, dixit ad eos.
R. Cotídie apud vos eram in templo docens, et non me tenuístis: et ecce flagellátum dúcitis ad crucifigéndum.

Lectio 5
Nostis qui convéntus erat malignántium Judæórum, et quæ multitúdo erat operántium iniquitátem. Quam iniquitátem? Quia voluérunt occídere Dóminum Jesum Christum. Tanta ópera bona, inquit, osténdi vobis: propter quod horum me vultis occídere? Pértulit omnes infírmos eórum, curávit omnes lánguidos eórum, prædicávit regnum cælórum, non tácuit vítia eórum, ut ipsa pótius eis displicérent, non médicus, a quo sanabántur. His ómnibus curatiónibus ejus ingráti, tamquam multa febre phrenétici, insaniéntes in médicum, qui vénerat curáre eos, excogitavérunt consílium perdéndi eum: tamquam ibi voléntes probáre, utrum vere homo sit, qui mori possit, an áliquid super hómines sit, et mori se non permíttat. Verbum ipsórum agnóscimus in Sapiéntia Salomónis: Morte turpíssima, ínquiunt, condemnémus eum. Interrogémus eum: erit enim respéctus in sermónibus illíus. Si enim vere Fílius Dei est, líberet eum.

R. Ténebræ factæ sunt, dum crucifixíssent Jesum Judǽi: et circa horam nonam exclamávit Jesus voce magna: Deus meus, ut quid me dereliquísti?
* Et inclináto cápite, emísit spíritum.
V. Exclámans Jesus voce magna, ait: Pater, in manus tuas comméndo spíritum meum.
R. Et inclináto cápite, emísit spíritum.


Lectio 6
Exacuérunt tamquam gládium linguas suas. Non dicant Judǽi: Non occídimus Christum. Etenim proptérea eum dedérunt júdici Piláto, ut quasi ipsi a morte ejus videréntur immúnes. Nam cum dixísset eis Pilátus: Vos eum occídite: respondérunt, Nobis non licet occídere quemquam. Iniquitátem facínoris sui in júdicem hóminem refúndere volébant: sed numquid Deum júdicem fallébant? Quod fecit Pilátus, in eo ipso quod fecit, aliquántum párticeps fuit: sed in comparatióne illórum multo ipse innocéntior. Institit enim quantum pótuit, ut illum ex eórum mánibus liberáret: nam proptérea flagellátum prodúxit ad eos. Non persequéndo Dóminum flagellávit, sed eórum furóri satisfácere volens: ut vel sic jam mitéscerent, et desínerent velle occídere, cum flagellátum vidérent. Fecit et hoc. At ubi perseveravérunt, nostis illum lavísse manus, et dixísse, quod ipse non fecísset, mundum se esse a morte illíus. Fecit tamen. Sed si reus, quia fecit vel invítus: illi innocéntes, qui coëgérunt ut fáceret? Nullo modo. Sed ille dixit in eum senténtiam, et jussit eum crucifígi, et quasi ipse occídit: et vos, o Judǽi, occidístis. Unde occidístis? Gládio linguæ: acuístis enim linguas vestras. Et quando percussístis, nisi quando clamástis: Crucifíge, crucifíge?

R. Animam meam diléctam trádidi in manus iniquórum, et facta est mihi heréditas mea sicut leo in silva: dedit contra me voces adversárius, dicens: Congregámini, et properáte ad devorándum illum: posuérunt me in desérto solitúdinis, et luxit super me omnis terra:
* Quia non est invéntus qui me agnósceret, et fáceret bene.
V. Insurrexérunt in me viri absque misericórdia, et non pepercérunt ánimæ meæ.
R. Quia non est invéntus qui me agnósceret, et fáceret bene.
R. Animam meam diléctam trádidi in manus iniquórum, et facta est mihi heréditas mea sicut leo in silva: dedit contra me voces adversárius, dicens: Congregámini, et properáte ad devorándum illum: posuérunt me in desérto solitúdinis, et luxit super me omnis terra: * Quia non est invéntus qui me agnósceret, et fáceret bene.

Nocturn III.

Ant. Ab insurgéntibus in me * líbera me, Dómine, quia occupavérunt ánimam meam.

Psalmus 58 [7]

58:2 Éripe me de inimícis meis, Deus meus: * et ab insurgéntibus in me líbera me.
58:3 Éripe me de operántibus iniquitátem: * et de viris sánguinum salva me.
58:4 Quia ecce cepérunt ánimam meam: * irruérunt in me fortes.
58:5 Neque iníquitas mea, neque peccátum meum, Dómine: * sine iniquitáte cucúrri, et diréxi.
58:6 Exsúrge in occúrsum meum, et vide: * et tu, Dómine, Deus virtútum, Deus Israël,
58:6 Inténde ad visitándas omnes gentes: * non misereáris ómnibus, qui operántur iniquitátem.
58:7 Converténtur ad vésperam: et famem patiéntur ut canes, * et circuíbunt civitátem.
58:8 Ecce, loquéntur in ore suo, et gládius in lábiis eórum: * quóniam quis audívit?
58:9 Et tu, Dómine, deridébis eos: * ad níhilum dedúces omnes gentes.
58:10 Fortitúdinem meam ad te custódiam, quia, Deus, suscéptor meus es: * Deus meus, misericórdia ejus prævéniet me.
58:12 Deus osténdet mihi super inimícos meos, ne occídas eos: * nequándo obliviscántur pópuli mei.
58:12 Dispérge illos in virtúte tua: * et depóne eos, protéctor meus, Dómine:
58:13 Delíctum oris eórum, sermónem labiórum ipsórum: * et comprehendántur in supérbia sua.
58:13 Et de exsecratióne et mendácio annuntiabúntur in consummatióne: * in ira consummatiónis, et non erunt.
58:14 Et scient quia Deus dominábitur Jacob: * et fínium terræ.
58:15 Converténtur ad vésperam: et famem patiéntur ut canes, * et circuíbunt civitátem.
58:16 Ipsi dispergéntur ad manducándum: * si vero non fúerint saturáti, et murmurábunt.
58:17 Ego autem cantábo fortitúdinem tuam: * et exsultábo mane misericórdiam tuam.
58:17 Quia factus es suscéptor meus, * et refúgium meum, in die tribulatiónis meæ.
58:18 Adjútor meus, tibi psallam, quia, Deus, suscéptor meus es: * Deus meus, misericórdia mea.

Ant. Ab insurgéntibus in me líbera me, Dómine, quia occupavérunt ánimam meam.

Ant. Longe fecísti * notos meos a me: tráditus sum, et non egrediébar.

Psalmus 87 [8]

87:2 Dómine, Deus salútis meæ: * in die clamávi, et nocte coram te.
87:3 Intret in conspéctu tuo orátio mea: * inclína aurem tuam ad precem meam:
87:4 Quia repléta est malis ánima mea: * et vita mea inférno appropinquávit.
87:5 Æstimátus sum cum descendéntibus in lacum: * factus sum sicut homo sine adjutório, inter mórtuos liber.
87:6 Sicut vulneráti dormiéntes in sepúlcris, quorum non es memor ámplius: * et ipsi de manu tua repúlsi sunt.
87:7 Posuérunt me in lacu inferióri: * in tenebrósis, et in umbra mortis.
87:8 Super me confirmátus est furor tuus: * et omnes fluctus tuos induxísti super me.
87:9 Longe fecísti notos meos a me: * posuérunt me abominatiónem sibi.
87:9 Tráditus sum, et non egrediébar: * óculi mei languérunt præ inópia.
87:10 Clamávi ad te, Dómine, tota die: * expándi ad te manus meas.
87:11 Numquid mórtuis fácies mirabília: * aut médici suscitábunt, et confitebúntur tibi?
87:12 Numquid narrábit áliquis in sepúlcro misericórdiam tuam, * et veritátem tuam in perditióne?
87:13 Numquid cognoscéntur in ténebris mirabília tua, * et justítia tua in terra obliviónis?
87:14 Et ego ad te, Dómine, clamávi: * et mane orátio mea prævéniet te.
87:15 Ut quid, Dómine, repéllis oratiónem meam: * avértis fáciem tuam a me?
87:16 Pauper sum ego, et in labóribus a juventúte mea: * exaltátus autem, humiliátus sum et conturbátus.
87:17 In me transiérunt iræ tuæ: * et terróres tui conturbavérunt me.
87:18 Circumdedérunt me sicut aqua tota die: * circumdedérunt me simul.
87:19 Elongásti a me amícum et próximum: * et notos meos a miséria.

Ant. Longe fecísti notos meos a me: tráditus sum, et non egrediébar.

Ant. Captábunt * in ánimam justi, et sánguinem innocéntem condemnábunt.

Psalmus 93 [9]

93:1 Deus ultiónum Dóminus: * Deus ultiónum líbere egit.
93:2 Exaltáre, qui júdicas terram: * redde retributiónem supérbis.
93:3 Úsquequo peccatóres, Dómine, * úsquequo peccatóres gloriabúntur:
93:4 Effabúntur, et loquéntur iniquitátem: * loquéntur omnes, qui operántur injustítiam?
93:5 Pópulum tuum, Dómine, humiliavérunt: * et hereditátem tuam vexavérunt.
93:6 Víduam, et ádvenam interfecérunt: * et pupíllos occidérunt.
93:7 Et dixérunt: Non vidébit Dóminus, * nec intélleget Deus Jacob.
93:8 Intellégite, insipiéntes in pópulo: * et stulti, aliquándo sápite.
93:9 Qui plantávit aurem, non áudiet? * aut qui finxit óculum, non consíderat?
93:10 Qui córripit gentes, non árguet: * qui docet hóminem sciéntiam?
93:11 Dóminus scit cogitatiónes hóminum, * quóniam vanæ sunt.
93:12 Beátus homo, quem tu erudíeris, Dómine: * et de lege tua docúeris eum,
93:13 Ut mítiges ei a diébus malis: * donec fodiátur peccatóri fóvea.
93:14 Quia non repéllet Dóminus plebem suam: * et hereditátem suam non derelínquet.
93:15 Quoadúsque justítia convertátur in judícium: * et qui juxta illam omnes qui recto sunt corde.
93:16 Quis consúrget mihi advérsus malignántes? * aut quis stabit mecum advérsus operántes iniquitátem?
93:17 Nisi quia Dóminus adjúvit me: * paulo minus habitásset in inférno ánima mea.
93:18 Si dicébam: Motus est pes meus: * misericórdia tua, Dómine, adjuvábat me.
93:19 Secúndum multitúdinem dolórum meórum in corde meo: * consolatiónes tuæ lætificavérunt ánimam meam.
93:20 Numquid adhǽret tibi sedes iniquitátis: * qui fingis labórem in præcépto?
93:21 Captábunt in ánimam justi: * et sánguinem innocéntem condemnábunt.
93:22 Et factus est mihi Dóminus in refúgium: * et Deus meus in adjutórium spei meæ.
93:23 Et reddet illis iniquitátem ipsórum: et in malítia eórum dispérdet eos: * dispérdet illos Dóminus, Deus noster.

Ant. Captábunt in ánimam justi, et sánguinem innocéntem condemnábunt.

  Locúti sunt advérsum me lingua dolósa.
R. Et sermónibus ódii circumdedérunt me, et expugnavérunt me gratis.

Pater noster

Lectio 7


De Epístola beáti Pauli Apóstoli ad Hebrǽos
Heb 4: 11-15
11 Festinémus íngredi in illam réquiem: ut ne in idípsum quis íncidat incredulitátis exémplum.
12 Vivus est enim sermo Dei, et éfficax et penetrabílior omni gládio ancípiti: et pertíngens usque ad divisiónem ánimæ ac spíritus, compágum quoque ac medullárum, et discrétor cogitatiónum et intentiónum cordis.
13 Et non est ulla creatúra invisíbilis in conspéctu ejus: ómnia autem nuda et apérta sunt óculis ejus, ad quem nobis sermo.
14 Habéntes ergo Pontíficem magnum, qui penetrávit cælos, Jesum Fílium Dei: teneámus confessiónem.
15 Non enim habémus Pontíficem, qui non possit cómpati infirmitátibus nostris: tentátum autem per ómnia pro similitúdine absque peccáto.

R. Tradidérunt me in manus impiórum, et inter iníquos projecérunt me, et non pepercérunt ánimæ meæ: congregáti sunt advérsum me fortes:
* Et sicut gigántes stetérunt contra me.
V. Aliéni insurrexérunt advérsum me, et fortes quæsiérunt ánimam meam.
R. Et sicut gigántes stetérunt contra me.

Lectio 8

Heb 4:16; 5:1-3
16 Adeámus ergo cum fidúcia ad thronum grátiæ: ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.
1 Omnis namque Póntifex ex homínibus assúmptus, pro homínibus constitúitur in iis, quæ sunt ad Deum, ut ófferat dona, et sacrifícia pro peccátis:
2 Qui condolére possit iis, qui ignórant et errant: quóniam et ipse circúmdatus est infirmitáte:
3 Et proptérea debet quemádmodum pro pópulo, ita étiam pro semetípso offérre pro peccátis.

R. Jesum trádidit ímpius summis princípibus sacerdótum, et senióribus pópuli:
* Petrus autem sequebátur eum a longe, ut vidéret finem.
V. Adduxérunt autem eum ad Cáipham príncipem sacerdótum, ubi scribæ et pharisǽi convénerant.
R. Petrus autem sequebátur eum a longe, ut vidéret finem.


Lectio 9

Heb 5:4-10
4 Nec quisquam sumit sibi honórem, sed qui vocátur a Deo, tamquam Aaron.
5 Sic et Christus non semetípsum clarificávit ut Póntifex fíeret, sed qui locútus est ad eum: Fílius meus es tu, ego hódie génui te.
6 Quemádmodum et in álio loco dicit: Tu es sacérdos in ætérnum, secúndum órdinem Melchísedech.
7 Qui in diébus carnis suæ preces, supplicationésque ad eum, qui possit illum salvum fácere a morte, cum clamóre válido et lácrimis ófferens, exaudítus est pro sua reveréntia.
8 Et quidem cum esset Fílius Dei, dídicit ex iis, quæ passus est, obediéntiam:
9 Et consummátus, factus est ómnibus obtemperántibus sibi causa salútis ætérnæ,
10 Appellátus a Deo Póntifex juxta órdinem Melchísedech.

R. Caligavérunt óculi mei a fletu meo: quia elongátus est a me, qui consolabátur me: Vidéte omnes pópuli,
* Si est dolor símilis sicut dolor meus.
V. O vos omnes, qui transítis per viam, atténdite et vidéte.
R. Si est dolor símilis sicut dolor meus.
R. Caligavérunt óculi mei a fletu meo: quia elongátus est a me, qui consolabátur me: Vidéte omnes pópuli, * Si est dolor símilis sicut dolor meus.

Oratio
Réspice, quǽsumus, Dómine, super hanc famíliam tuam, pro qua Dóminus noster Jesus Christus non dubitávit mánibus tradi nocéntium, et crucis subíre torméntum:
Et sub silentio concluditur
Qui tecum…

DAL MATTUTINO DEL SABATO SANTO.

È la terza parte della grandiosa trilogia: Cristo giace nella tomba e la Chiesa, seduta accanto al suo sepolcro, fa sentire i suoi lamenti. Dopo l’aspro combattimento, Cristo riposa in pace, e noi vediamo sul suo corpo le tracce dei suoi indicibili dolori. Mentre ieri i Responsori erano i lamenti che uscivano dalla bocca stessa di Cristo, oggi essi sono di solito l’espressione del cordoglio della Chiesa. Dalle lamentazioni, però, traspare la speranza: oggi l’orizzonte è più tranquillo e più rischiarato, solo verso la fine il Mattutino torna alle note di dolore e ciò non ci deve destar meraviglia, poiché il Mattutino deve rappresentare la Chiesa che piange, perché le fu portata via lo sposo divino. Ancora si vedono le ferite sanguinanti; esse invocano continuamente il castigo sopra l’infedele Israele; i nemici si accaniscono con Gesù e con menzogne e calunnie cercano di cancellare perfino la memoria del Maestro; Maria e i discepoli sono nel più profondo cordoglio; e la Chiesa deve constatare con immenso strazio che molti dei suoi figli scendono dal Golgota nella freddezza e nell’indifferenza. – La differenza che troviamo in questo Mattutino in confronto con gli altri sta in un progressivo svolgimento dell’azione; e questo specialmente si nota nelle antifone « Il mio corpo riposa nella speranza » (salmi). – Si potrebbe dividere il dramma sacro in sei parti: mentre la Chiesa sta presso il sepolcro, passano davanti al suo spirito sei scene:

1.  La pace del Sepolcro (I Notturno): « In pace dormirò e mi riposerò ». « Egli riposerà sul monte santo ». « Il mio corpo riposa nella speranza » (salmi).

2. L’ingresso dell’anima di Gesù nel Limbo (II Notturno): «Alzatevi, o porte eterne, che entrerà il Re della gloria » (salmo XXIII).

3. La speranza della resurrezione: « Credo che vedrò il Signore nella terra dei viventi ». « Tu traesti fuor dall’inferno l’anima mia » (Salmi XXVI e XXIX).

4. Il sigillo apposto alla tomba (lettura del II Notturno).

5. Gesù vincitore dei suoi nemici (III Notturno, salmi LII e LXXV).

6. Riassunto delle impressioni: Profondo cordoglio e lamentazioni: « Come uomo senza soccorso, inviato tra i morti » (salmo LXXXVII). Inoltre i Responsori: I, II, III. IV, V. VI, VII; l’ultimo ci dà la scena di chiusa del Sabato Santo: Gesù nella tomba e i soldati chefanno la guardia. –  Osserviamo ancora la parte importante, assegnata inquesto Mattutino alle Antifone. Certi salmi non sonostati scelti per il loro contenuto completo, ma anche per un solo versetto (p. es.: salmi IV, XIV, XXIII).L’azione prosegue fino alla soglia della resurrezione pasquale. Ma poi d’un tratto mentre attendiamo il lietoAlleluia, torna il pianto accorato sul Morto, quasi adirci: Fermati! Vedi, il Signore è ancor nella tomba.

Il Mattutino ha un fascino speciale, che si può comprendere solo con una sentita compartecipazione alla passione del Signore. E forse il suo fascino sta proprio nei vari sentimenti che esso suscita nel cuore: di dolore, di speranza, di trepida gioia.

Nocturn I.


Ant. In pace * in idípsum, dórmiam et requiéscam.

Psalmus 4 [1]

4:2 Cum invocárem exaudívit me Deus justítiæ meæ: * in tribulatióne dilatásti mihi.
4:2 Miserére mei, * et exáudi oratiónem meam.
4:3 Fílii hóminum, úsquequo gravi corde? * ut quid dilígitis vanitátem, et quǽritis mendácium?
4:4 Et scitóte quóniam mirificávit Dóminus sanctum suum: * Dóminus exáudiet me cum clamávero ad eum.
4:5 Irascímini, et nolíte peccáre: * quæ dícitis in córdibus vestris, in cubílibus vestris compungímini.
4:6 Sacrificáte sacrifícium justítiæ, et speráte in Dómino. * Multi dicunt: Quis osténdit nobis bona?
4:7 Signátum est super nos lumen vultus tui, Dómine: * dedísti lætítiam in corde meo.
4:8 A fructu fruménti, vini, et ólei sui * multiplicáti sunt.
4:9 In pace in idípsum * dórmiam, et requiéscam;
4:10 Quóniam tu, Dómine, singuláriter in spe * constituísti me.
Gloria omittitur

Ant. In pace in idípsum, dórmiam et requiéscam.

Ant. Habitábit * in tabernáculo tuo, requiéscet in monte sancto tuo.

Psalmus 14 [2]

14:1 Dómine, quis habitábit in tabernáculo tuo? * aut quis requiéscet in monte sancto tuo?
14:2 Qui ingréditur sine mácula, * et operátur justítiam:
14:3 Qui lóquitur veritátem in corde suo, * qui non egit dolum in lingua sua:
14:3 Nec fecit próximo suo malum, * et oppróbrium non accépit advérsus próximos suos.
14:4 Ad níhilum dedúctus est in conspéctu ejus malígnus: * timéntes autem Dóminum gloríficat:
14:5 Qui jurat próximo suo, et non décipit, * qui pecúniam suam non dedit ad usúram, et múnera super innocéntem non accépit.
14:5 Qui facit hæc: * non movébitur in ætérnum.
Gloria omittitur

Ant. Habitábit in tabernáculo tuo, requiéscet in monte sancto tuo.

Ant. Caro mea * requiéscet in spe.

Psalmus 15 [3]

15:1 Consérva me, Dómine, quóniam sperávi in te. * Dixi Dómino: Deus meus es tu, quóniam bonórum meórum non eges.
15:3 Sanctis, qui sunt in terra ejus, * mirificávit omnes voluntátes meas in eis.
15:4 Multiplicátæ sunt infirmitátes eórum: * póstea acceleravérunt.
15:4 Non congregábo conventícula eórum de sanguínibus, * nec memor ero nóminum eórum per lábia mea.
15:5 Dóminus pars hereditátis meæ, et cálicis mei: * tu es, qui restítues hereditátem meam mihi.
15:6 Funes cecidérunt mihi in præcláris: * étenim heréditas mea præclára est mihi.
15:7 Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: * ínsuper et usque ad noctem increpuérunt me renes mei.
15:8 Providébam Dóminum in conspéctu meo semper: * quóniam a dextris est mihi, ne commóvear.
15:9 Propter hoc lætátum est cor meum, et exsultávit lingua mea: * ínsuper et caro mea requiéscet in spe.
15:10 Quóniam non derelínques ánimam meam in inférno: * nec dabis sanctum tuum vidére corruptiónem.
15:10 Notas mihi fecísti vias vitæ, adimplébis me lætítia cum vultu tuo: * delectatiónes in déxtera tua usque in finem.
Gloria omittitur

Ant. Caro mea requiéscet in spe.

V. In pace in idípsum.
R. Dórmiam et requiéscam.

Pater noster

Lectio 1
De Lamentatióne Jeremíæ Prophétæ
Lam III: 22-30
22 Heth. Misericórdiæ Dómini quia non sumus consúmpti: quia non defecérunt miseratiónes ejus.
23 Heth. Novi dilúculo, multa est fides tua.
24 Heth. Pars mea Dóminus, dixit ánima mea: proptérea exspectábo eum.
25 Teth. Bonus est Dóminus sperántibus in eum, ánimæ quærénti illum.
26 Teth. Bonum est præstolári cum siléntio salutáre Dei.
27 Teth. Bonum est viro cum portáverit jugum ab adulescéntia sua.
28 Jod. Sedébit solitárius, et tacébit: quia levávit super se.
29 Jod. Ponet in púlvere os suum, si forte sit spes.
30 Jod. Dabit percutiénti se maxíllam, saturábitur oppróbriis.
Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. Sicut ovis ad occisiónem ductus est, et dum male tractarétur, non apéruit os suum: tráditus est ad mortem,
* Ut vivificáret pópulum suum.
V. Trádidit in mortem ánimam suam, et inter scelerátos reputátus est.
R. Ut vivificáret pópulum suum.

Lectio 2

Lam IV:1-6
1 Aleph. Quómodo obscurátum est aurum, mutátus est color óptimus, dispérsi sunt lápides sanctuárii in cápite ómnium plateárum?
2 Beth. Fílii Sion íncliti, et amícti auro primo: quómodo reputáti sunt in vasa téstea, opus mánuum fíguli?
3 Ghimel. Sed et lámiæ nudavérunt mammam, lactavérunt cátulos suos: fília pópuli mei crudélis, quasi strúthio in desérto.
4 Daleth. Adhǽsit lingua lacténtis ad palátum ejus in siti: párvuli petiérunt panem, et non erat qui frángeret eis.
5 He. Qui vescebántur voluptuóse, interiérunt in viis: qui nutriebántur in cróceis, amplexáti sunt stércora.
6 Vau. Et major effécta est iníquitas fíliæ pópuli mei peccáto Sodomórum, quæ subvérsa est in moménto, et non cepérunt in ea manus.
Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. Jerúsalem, surge, et éxue te véstibus jucunditátis: indúere cínere et cilício,
* Quia in te occísus est Salvátor Israël.
V. Deduc quasi torréntem lácrimas per diem et noctem, et non táceat pupílla óculi tui.
R. Quia in te occísus est Salvátor Israël.


Lectio 3
Incipit Orátio Jeremíæ Prophétæ
Lam V: 1-11
1 Recordáre, Dómine, quid accíderit nobis: intuére, et réspice oppróbrium nostrum.
2 Heréditas nostra versa est ad aliénos: domus nostræ ad extráneos.
3 Pupílli facti sumus absque patre, matres nostræ quasi víduæ.
4 Aquam nostram pecúnia bíbimus: ligna nostra prétio comparávimus.
5 Cervícibus nostris minabámur, lassis non dabátur réquies.
6 Ægýpto dédimus manum, et Assýriis, ut saturarémur pane.
7 Patres nostri peccavérunt, et non sunt: et nos iniquitátes eórum portávimus.
8 Servi domináti sunt nostri: non fuit qui redímeret de manu eórum.
9 In animábus nostris afferebámus panem nobis, a fácie gládii in desérto.
10 Pellis nostra quasi clíbanus exústa est a fácie tempestátum famis.
11 Mulíeres in Sion humiliavérunt, et vírgines in civitátibus Juda.
Jerúsalem, Jerúsalem, convértere ad Dóminum Deum tuum.

R. Plange quasi virgo, plebs mea: ululáte, pastóres, in cínere et cilício:
* Quia venit dies Dómini magna, et amára valde.
V. Accíngite vos, sacerdótes, et plángite, minístri altáris, aspérgite vos cínere.
R. Quia venit dies Dómini magna, et amára valde.
Gloria omittitur
R. Plange quasi virgo, plebs mea: ululáte, pastóres, in cínere et cilício: * Quia venit dies Dómini magna, et amára valde.

Nocturn II.

Ant. Elevámini, * portæ æternáles, et introíbit Rex glóriæ.

Psalmus 23 [4]

23:1 Dómini est terra, et plenitúdo ejus: * orbis terrárum, et univérsi qui hábitant in eo.
23:2 Quia ipse super mária fundávit eum: * et super flúmina præparávit eum.
23:3 Quis ascéndet in montem Dómini? * aut quis stabit in loco sancto ejus?
23:4 Ínnocens mánibus et mundo corde, * qui non accépit in vano ánimam suam, nec jurávit in dolo próximo suo.
23:5 Hic accípiet benedictiónem a Dómino: * et misericórdiam a Deo, salutári suo.
23:6 Hæc est generátio quæréntium eum, * quæréntium fáciem Dei Jacob.
23:7 Attóllite portas, príncipes, vestras, et elevámini, portæ æternáles: * et introíbit Rex glóriæ.
23:8 Quis est iste Rex glóriæ? * Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
23:9 Attóllite portas, príncipes, vestras, et elevámini, portæ æternáles: * et introíbit Rex glóriæ.
23:10 Quis est iste Rex glóriæ? * Dóminus virtútum ipse est Rex glóriæ.
Gloria omittitur

Ant. Elevámini, portæ æternáles, et introíbit Rex glóri

Ant. Credo vidére * bona Dómini in terra vivéntium.

Psalmus 26 [5]

26:1 Dóminus illuminátio mea, et salus mea, * quem timébo?
26:1 Dóminus protéctor vitæ meæ, * a quo trepidábo?
26:2 Dum apprópiant super me nocéntes, * ut edant carnes meas:
26:2 Qui tríbulant me inimíci mei, * ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt.
26:3 Si consístant advérsum me castra, * non timébit cor meum.
26:3 Si exsúrgat advérsum me prǽlium, * in hoc ego sperábo.
26:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram, * ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ:
26:4 Ut vídeam voluptátem Dómini, * et vísitem templum ejus.
26:5 Quóniam abscóndit me in tabernáculo suo: * in die malórum protéxit me in abscóndito tabernáculi sui.
26:6 In petra exaltávit me: * et nunc exaltávit caput meum super inimícos meos.
26:6 Circuívi, et immolávi in tabernáculo ejus hóstiam vociferatiónis: * cantábo, et psalmum dicam Dómino.
26:7 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: * miserére mei, et exáudi me.
26:8 Tibi dixit cor meum, exquisívit te fácies mea: * fáciem tuam, Dómine, requíram.
26:9 Ne avértas fáciem tuam a me: * ne declínes in ira a servo tuo.
26:9 Adjútor meus esto: * ne derelínquas me, neque despícias me, Deus, salutáris meus.
26:10 Quóniam pater meus, et mater mea dereliquérunt me: * Dóminus autem assúmpsit me.
26:11 Legem pone mihi, Dómine, in via tua: * et dírige me in sémitam rectam propter inimícos meos.
26:12 Ne tradíderis me in ánimas tribulántium me: * quóniam insurrexérunt in me testes iníqui, et mentíta est iníquitas sibi.
26:13 Credo vidére bona Dómini * in terra vivéntium.
26:14 Exspécta Dóminum, viríliter age: * et confortétur cor tuum, et sústine Dóminum.

Ant. Credo vidére bona Dómini in terra vivéntium.

Ant. Dómine, * abstraxísti ab ínferis ánimam meam.

Psalmus 29 [6]

29:2 Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me: * nec delectásti inimícos meos super me.
29:3 Dómine, Deus meus, clamávi ad te, * et sanásti me.
29:4 Dómine, eduxísti ab inférno ánimam meam: * salvásti me a descendéntibus in lacum.
29:5 Psállite Dómino, sancti ejus: * et confitémini memóriæ sanctitátis ejus.
29:6 Quóniam ira in indignatióne ejus: * et vita in voluntáte ejus.
29:6 Ad vésperum demorábitur fletus: * et ad matutínum lætítia.
29:7 Ego autem dixi in abundántia mea: * Non movébor in ætérnum.
29:8 Dómine, in voluntáte tua, * præstitísti decóri meo virtútem.
29:8 Avertísti fáciem tuam a me, * et factus sum conturbátus.
29:9 Ad te, Dómine, clamábo: * et ad Deum meum deprecábor.
29:10 Quæ utílitas in sánguine meo, * dum descéndo in corruptiónem?
29:10 Numquid confitébitur tibi pulvis, * aut annuntiábit veritátem tuam?
29:11 Audívit Dóminus, et misértus est mei: * Dóminus factus est adjútor meus.
29:12 Convertísti planctum meum in gáudium mihi: * conscidísti saccum meum, et circumdedísti me lætítia:
29:13 Ut cantet tibi glória mea, et non compúngar: * Dómine, Deus meus, in ætérnum confitébor tibi.
Gloria omittitur

Ant. Dómine, abstraxísti ab ínferis ánimam meam.

V. Tu autem, Dómine, miserére mei.
R. Et resúscita me, et retríbuam eis.

Pater noster

Lectio 4
Ex Tractátu sancti Augustíni Epíscopi super Psalmos
In Psalmum 63 versum 7
Accédet homo ad cor altum, et exaltábitur Deus. Illi dixérunt: Quis nos vidébit? Defecérunt scrutántes scrutatiónes, consília mala. Accéssit homo ad ipsa consília, passus est se tenéri ut homo. Non enim tenerétur nisi homo, aut viderétur nisi homo, aut cæderétur nisi homo, aut crucifigerétur, aut morerétur nisi homo. Accéssit ergo homo ad illas omnes passiónes, quæ in illo nihil valérent, nisi esset homo. Sed si ille non esset homo, non liberarétur homo. Accéssit homo ad cor altum, id est, cor secrétum, obíciens aspéctibus humánis hóminem, servans intus Deum: celans formam Dei, in qua æquális est Patri, et ófferens formam servi, qua minor est Patre.

R. Recéssit pastor noster, fons aquæ vivæ, ad cujus tránsitum sol obscurátus est:
* Nam et ille captus est, qui captívum tenébat primum hóminem: hódie portas mortis et seras páriter Salvátor noster disrúpit.
V. Destrúxit quidem claustra inférni, et subvértit poténtias diáboli.
R. Nam et ille captus est, qui captívum tenébat primum hóminem: hódie portas mortis et seras páriter Salvátor noster disrúpit.

Lectio 5
Quo perduxérunt illas scrutatiónes suas, quas perscrutántes defecérunt, ut étiam mórtuo Dómino et sepúlto, custódes pónerent ad sepúlcrum? Dixérunt enim Piláto: Sedúctor ille: hoc appellabátur nómine Dóminus Jesus Christus, ad solátium servórum suórum, quando dicúntur seductóres: ergo illi Piláto: Sedúctor ille, ínquiunt, dixit adhuc vivens: Post tres dies resúrgam. Jube ítaque custodíri sepúlcrum usque in diem tértium, ne forte véniant discípuli ejus, et furéntur eum, et dicant plebi: Surréxit a mórtuis: et erit novíssimus error pejor prióre. Ait illis Pilátus: Habétis custódiam, ite, custodíte sicut scitis. Illi autem abeúntes, muniérunt sepúlcrum, signántes lápidem cum custódibus.

R. O vos omnes, qui transítis per viam, atténdite, et vidéte,
* Si est dolor símilis sicut dolor meus.
V. Atténdite, univérsi pópuli, et vidéte dolórem meum.
R. Si est dolor símilis sicut dolor meus.

Lectio 6
Posuérunt custódes mílites ad sepúlcrum. Concússa terra Dóminus resurréxit: mirácula facta sunt tália circa sepúlcrum, ut et ipsi mílites, qui custódes advénerant, testes fíerent, si vellent vera nuntiáre. Sed avarítia illa, quæ captivávit discípulum cómitem Christi, captivávit et mílitem custódem sepúlcri. Damus, ínquiunt, vobis pecúniam: et dícite, quia vobis dormiéntibus venérunt discípuli ejus, et abstulérunt eum. Vere defecérunt scrutántes scrutatiónes. Quid est quod dixísti, o infélix astútia? Tantúmne déseris lucem consílii pietátis, et in profúnda versútiæ demérgeris, ut hoc dicas: Dícite quia vobis dormiéntibus venérunt discípuli ejus, et abstulérunt eum? Dormiéntes testes ádhibes: vere tu ipse obdormísti, qui scrutándo tália defecísti.

R. Ecce quómodo móritur justus, et nemo pércipit corde: et viri justi tollúntur, et nemo consíderat: a fácie iniquitátis sublátus est justus:
* Et erit in pace memória ejus.
V. Tamquam agnus coram tondénte se obmútuit, et non apéruit os suum: de angústia et de judício sublátus est.
R. Et erit in pace memória ejus.
Gloria omittitur
R. Ecce quómodo móritur justus, et nemo pércipit corde: et viri justi tollúntur, et nemo consíderat: a fácie iniquitátis sublátus est justus: * Et erit in pace memória ejus.

Nocturn III.

Ant. Deus ádjuvat me, * et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ.
Psalmus 53 [7]
53:3 Deus, in nómine tuo salvum me fac: * et in virtúte tua júdica me.
53:4 Deus, exáudi oratiónem meam: * áuribus pércipe verba oris mei.
53:5 Quóniam aliéni insurrexérunt advérsum me, et fortes quæsiérunt ánimam meam: * et non proposuérunt Deum ante conspéctum suum.
53:6 Ecce enim, Deus ádjuvat me: * et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ.
53:7 Avérte mala inimícis meis: * et in veritáte tua dispérde illos.
53:8 Voluntárie sacrificábo tibi, * et confitébor nómini tuo, Dómine: quóniam bonum est:
53:9 Quóniam ex omni tribulatióne eripuísti me: * et super inimícos meos despéxit óculus meus.

Ant. Deus ádjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ.

Ant. In pace * factus est locus ejus, et in Sion habitátio ejus.

Psalmus 75 [8]

75:2 Notus in Judǽa Deus: * in Israël magnum nomen ejus.
75:3 Et factus est in pace locus ejus: * et habitátio ejus in Sion.
75:4 Ibi confrégit poténtias árcuum, * scutum, gládium, et bellum.
75:5 Illúminans tu mirabíliter a móntibus ætérnis: * turbáti sunt omnes insipiéntes corde.
75:6 Dormiérunt somnum suum: * et nihil invenérunt omnes viri divitiárum in mánibus suis.
75:7 Ab increpatióne tua, Deus Jacob, * dormitavérunt qui ascendérunt equos.
75:8 Tu terríbilis es, et quis resístet tibi? * ex tunc ira tua.
75:9 De cælo audítum fecísti judícium: * terra trémuit et quiévit,
75:10 Cum exsúrgeret in judícium Deus, * ut salvos fáceret omnes mansuétos terræ.
75:11 Quóniam cogitátio hóminis confitébitur tibi: * et relíquiæ cogitatiónis diem festum agent tibi.
75:12 Vovéte, et réddite Dómino, Deo vestro: * omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera.
75:13 Terríbili et ei qui aufert spíritum príncipum, * terríbili apud reges terræ.
Gloria omittitur

Ant. In pace factus est locus ejus, et in Sion habitátio ejus.

Ant. Factus sum * sicut homo sine adjutório, inter mórtuos liber.

Psalmus 87 [9]

87:2 Dómine, Deus salútis meæ: * in die clamávi, et nocte coram te.
87:3 Intret in conspéctu tuo orátio mea: * inclína aurem tuam ad precem meam:
87:4 Quia repléta est malis ánima mea: * et vita mea inférno appropinquávit.
87:5 Æstimátus sum cum descendéntibus in lacum: * factus sum sicut homo sine adjutório, inter mórtuos liber.
87:6 Sicut vulneráti dormiéntes in sepúlcris, quorum non es memor ámplius: * et ipsi de manu tua repúlsi sunt.
87:7 Posuérunt me in lacu inferióri: * in tenebrósis, et in umbra mortis.
87:8 Super me confirmátus est furor tuus: * et omnes fluctus tuos induxísti super me.
87:9 Longe fecísti notos meos a me: * posuérunt me abominatiónem sibi.
87:9 Tráditus sum, et non egrediébar: * óculi mei languérunt præ inópia.
87:10 Clamávi ad te, Dómine, tota die: * expándi ad te manus meas.
87:11 Numquid mórtuis fácies mirabília: * aut médici suscitábunt, et confitebúntur tibi?
87:12 Numquid narrábit áliquis in sepúlcro misericórdiam tuam, * et veritátem tuam in perditióne?
87:13 Numquid cognoscéntur in ténebris mirabília tua, * et justítia tua in terra obliviónis?
87:14 Et ego ad te, Dómine, clamávi: * et mane orátio mea prævéniet te.
87:15 Ut quid, Dómine, repéllis oratiónem meam: * avértis fáciem tuam a me?
87:16 Pauper sum ego, et in labóribus a juventúte mea: * exaltátus autem, humiliátus sum et conturbátus.
87:17 In me transiérunt iræ tuæ: * et terróres tui conturbavérunt me.
87:18 Circumdedérunt me sicut aqua tota die: * circumdedérunt me simul.
87:19 Elongásti a me amícum et próximum: * et notos meos a miséria.
Gloria omittitur

Ant. Factus sum sicut homo sine adjutório, inter mórtuos liber.

V. In pace factus est locus ejus.
R. Et in Sion habitátio ejus.

Pater noster

Lectio 7
De Epístola beáti Pauli Apóstoli ad Hebrǽos
Heb IX: 11-14
11 Christus assístens Póntifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis:
12 Neque per sánguinem hircórum, aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta.
13 Si enim sanguis hircórum, et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis:
14 Quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti?

R. Astitérunt reges terræ, et príncipes convenérunt in unum,
* Advérsus Dóminum, et advérsus Christum ejus.
V. Quare fremuérunt gentes, et pópuli meditáti sunt inánia?
R. Advérsus Dóminum, et advérsus Christum ejus.


Lectio 8

Heb IX: 15-18
15 Et ídeo novi testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis.
16 Ubi enim testaméntum est: mors necésse est intercédat testatóris.
17 Testaméntum enim in mórtuis confirmátum est: alióquin nondum valet, dum vivit qui testátus est.
18 Unde nec primum quidem sine sánguine dedicátum est.

R. Æstimátus sum cum descendéntibus in lacum:
* Factus sum sicut homo sine adjutório, inter mórtuos liber.
V. Posuérunt me in lacu inferióri, in tenebrósis, et in umbra mortis.
R. Factus sum sicut homo sine adjutório, inter mórtuos liber.


Lectio 9


Heb 9:19-22
19 Lecto enim omni mandáto legis a Móyse univérso pópulo: accípiens sánguinem vitulórum, et hircórum cum aqua et lana coccínea, et hyssópo: ipsum quoque librum, et omnem pópulum aspérsit,
20 Dicens: Hic sanguis testaménti, quod mandávit ad vos Deus.
21 Etiam tabernáculum, et ómnia vasa ministérii sánguine simíliter aspérsit:
22 Et ómnia pene in sánguine secúndum legem mundántur: et sine sánguinis effusióne non fit remíssio.

R. Sepúlto Dómino, signátum est monuméntum, volvéntes lápidem ad óstium monuménti:
* Ponéntes mílites, qui custodírent illum.
V. Accedéntes príncipes sacerdótum ad Pilátum, petiérunt illum.
R. Ponéntes mílites, qui custodírent illum.
Gloria omittitur
R. Sepúlto Dómino, signátum est monuméntum, volvéntes lápidem ad óstium monuménti: * Ponéntes mílites, qui custodírent illum.

Oratio 
Réspice, quǽsumus, Dómine, super hanc famíliam tuam, pro qua Dóminus noster Jesus Christus non dubitávit mánibus tradi nocéntium, et crucis subíre torméntum:
Et sub silentio concluditur
Qui tecum…

EXSULTET

Exsúltet jam Angélica turba cœlórum: exsúltent divína mystéria: et pro tanti Regis victória tuba ínsonet salutáris.

Gáudeat et tellus tantis irradiáta fulgóribus: et ætérni Regis splendóre illustráta, totíus orbis se séntiat amisísse calíginem.

Lætétur et mater Ecclésia, tanti lúminis adornáta fulgóribus: et magnis populórum vócibus hæc aula resúltet.

Quaprópter astántes vos, fratres caríssimi, ad tam miram hujus sancti lúminis claritátem, una mecum, quæso, Dei omnipoténtis misericórdiam invocáte.

Ut, qui me non meis méritis intra Levitárum númerum dignatus est aggregáre: lúminis sui claritátem infúndens, Cérei huius laudem implére perfíciat.

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Fílium suum: qui cum eo vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus: Per omnia sǽcula sæculórum.

IL SACRO TRIDUO (3) IL SABATO SANTO 2022

IL SACRO TRIDUO (3)

SABATO SANTO

( P. PIO PARSCH O.S.A.: L’ANNO LITURGICO – VOL. III – IV Ed. Soc. Ed. VITA E PENSIERO, MILANO, 1949)

Stazione a S. Giovanni in Laterano

(doppio di I classe)

1. VIGILIA DI PASQUA

– Il Sabato Santo è il gran giorno del riposo del Signore; lo si potrebbe dire il secondo sabato dopo la creazione. La Chiesa lo chiama Sabato Santo. Questo giorno è, e dovrebbe essere, il giorno più silenzioso dell’anno liturgico; fino al Medio Evo non si celebrava la Messa. Le funzioni che si fanno nella mattina di oggi, sono le funzioni che si celebravano, una volta, nella notte della vigilia, dal sabato alla domenica; in realtà la liturgia del Sabato Santo è ormai liturgia di Pasqua. Un grande compito di rinnovamento liturgico sarebbe quello di ridare al mondo cattolico la sua seconda notte santa (come quella del Natale): la notte di Pasqua, la « madre di tutte le vigilie », come dice S. Agostino, che l’assenza dello spirito e del sentimento liturgico negli ultimi quattro secoli, ha soppresso. Celebriamo la liturgia del Sabato Santo trasportandoci spiritualmente nella notte come fossimo catecumeni. Assistiamo al drammatico svolgersi della Resurrezione del Signore, alla vittoria della luce sopra le tenebre. È anche la festa di resurrezione della nostra anima: in ognuno di noi Cristo risorge! La descrizione che segue si riferisce ad una celebrazione notturna.

a) Il cereo pasquale. Durante la giornata la chiesa rimane vuota e silenziosa: l’altare spoglio, la costernazione dell’anima non consentiva né parole, né cerimonie. Il giorno trascorse così nel dolore intimo e raccolto. Siamo alla seconda sera dacché il Signore giace nella tomba. – La casa di Dio è immersa nelle tenebre. I fedeli si raccolgono nella chiesa senza luce. Il clero sosta davanti alla porta della chiesa dove dalla pietra si cava fuoco, che viene benedetto. Questa cerimonia (Lucernarium) con la processione relativa si faceva un tempo prima di ogni funzione notturna, poiché la Chiesa voleva usare per il culto solamente il fuoco benedetto. Nella casa di Dio ogni luce è senta: è finito l’Antico Testamento. Ora spunterà la vera luce del mondo: Cristo. Il fuoco che esce dalla pietra in un modo, per così dire, verginale, è simbolo di Cristo che uscì dal seno della Vergine; in questa notte di Pasqua. Egli esce dalla tomba chiusa in tutta la sua gloria. Non è veramente maestra la Chiesa nella scelta dei suoi simboli?

Comincia la festa della Resurrezione. –

Dopo aver benedetto il fuoco, si procede alla benedizione dei cinque grani d’incenso che vengono poi fissati al cereo pasquale. Essi rappresentano le cinque piaghe gloriose del Signore. Si accende quindi una candela al fuoco benedetto e con essa il clero entra nella chiesa ancora immersa nell’oscurità. Il diacono si presenta in dalmatica bianca, segno di gioia: egli è l’araldo della Pasqua. Il corteo muove lentamente attraverso la chiesa; il diacono porta una canna con candelabro a tre braccia, chiamato arundine e accende una alla volta le tre candele cantando: « Lumen Christi ». Il canto si eleva per tre volte di tono e la chiesa si fa sempre più chiara: simbolismo pieno d’arte e di espressione della luce che s’avanza! Il corteo ha raggiunto l’altare e il diacono si prepara ad annunziare solennemente la Risurrezione del Signore per mezzo del famoso canto del prœconium paschale: « Exultet » e benedice ìl cereo pasquale. L’« Exultet » è uno dei canti liturgici più importanti tanto per la poesia quanto per la musica. La dignità e il mistero di questa santa notte e nello stesso tempo la grandezza della redenzione di Cristo vengono magnificamente ed illustrate dal testo pieno d’alta poesia: « O amore, che superi ogni amore! Per riscattare il servo hai dato il tuo stesso Figlio!… O felice colpa, che ci meritò un tale Salvatore! ».

Il cereo pasquale, simbolo del Salvatore risorto, che lasciò la sua tomba nel fulgore della sua maestà, si accenderà durante le sacre funzioni da oggi fino alla festa dell’Ascensione. Mentre il diacono fissa i grani d’incenso e accende il cereo pasquale, vengono pure accese tutte le luci della chiesa: l’annunzio solenne della Resurrezione!

b) Benedizione del fonte.

Dopo questo solenne invitatorio pasquale si va al fonte battesimale. Dapprima vengono lette dodici profezie, che rappresentano, in un grandioso insieme, gli effetti del Battesimo e la grandezza della vita cristiana. Lo scopo è di ricordare ancora una volta ai catecumeni l’importanza della grazia che ad essi viene concessa con l’amministrazione del santo Battesimo. – Si procede alla benedizione del fonte battesimale. Ed eccoci arrivati al punto culminante della funzione: il Battesimo dei Catecumeni che di solito non s’impartisce al sabato santo. Presenziamo alla sacra funzione coi sentimenti dei catecumeni e rinnoviamo le nostre promesse battesimali. – I sacerdoti, processionalmente, si recano al fonte battesimale, insieme ai catecumeni, preceduti dal cereo pasquale. Durante il tragitto si canta: « Come il cervo desidera la sorgente, così l’anima mia anela a te, mio Dio. La mia anima ha sete del Dio vivente. Quando verrò e mirerò la faccia di Dio? Sono le mie lacrime mio pane giorno e notte, mentre continuamente mi si dice: Dove è il tuo Dio? ». – Questo canto ci fa sentire l’ardente aspirazione dei catecumeni alla grazia del Battesimo, la benedizione del fonte battesimale si canta nel tono del Prefazio. Nelle preghiere c’è la storia dell’acqua benedetta: « O Dio, il cui spirito al principio del mondo si librava sopra le acque… Con l’acqua hai lavato i delitti del mondo e nelle acque del diluvio hai raffigurato la nostra rigenerazione, affinché nel mistero del medesimo elemento avessero fine i vizi e origine la grazia ». Il sacerdote si rivolge all’acqua: « Iddio ti ha fatta scaturire ha ordinato di bagnare con quattro fiumi tutta la terra.. – Ti benedico anche nel nome di Gesù Cristo… il quale, in Cana di Galilea, con un miracolo della sua potenza ti ha cambiata in vino; che coi suoi piedi camminò sopra di te, e che da Giovanni in te fu battezzato nel Giordano; che ti ha fatta dal fonte del Paradiso e ti ha fatto uscire dal suo costato insieme al sangue; che ha comandato ai suoi discepoli che i credenti fossero con te battezzati ». – Il sacerdote immerge nell’acqua il cereo acceso « Discenda nella pienezza di questo fonte la virtù dello Spirito Santo ». Il sacerdote alita sull’acqua in forma di PSI greco (Ψ) il segno dello Spirito Santo: versa nell’acqua l’olio dei catecumeni e il sacro crisma, perché veramente vi abiti la pienezza delle benedizioni della Chiesa.

c) Il Battesimo.

Siamo arrivati al punto saliente della cerimonia, il Battesimo dei catecumeni. Raffiguriamoci l’impressione profonda che deve aver fatto in antico ai fedeli quando la schiera dei battezzandi già adulti — uomini arrivati alla Fede attraverso la lotta, vergini che forse avevano dovuto rinunciare ad un ricco matrimonio, che erano state diseredate dai loro genitori — venivano ad essere rigenerati a nuova vita nelle acque battesimali. Purtroppo, oggi avviene raramente che si amministri un Battesimo in questo momento, malgrado il desiderio della Chiesa che nelle sue prescrizioni dice: « Se ci sono battezzandi vengano ora battezzati ». Ad ogni modo è questo il momento in cui i fedeli devono rinnovare le promesse battesimali e rivivere così la grande grazia del loro Battesimo. Dopo il Battesimo, i neo-battezzati ricevono la veste candida e la lampada accesa; la veste battesimale è, in un certo senso, una veste sacerdotale; poiché essi hanno ricevuto il potere sacerdotale inteso nel senso largo del comune sacerdozio; da questo momento sono autorizzati a partecipare al sacrificio incruento e a prender parte al celeste Banchetto. Come dev’esser stato commovente il vedere la schiera dei catecumeni venire processionalmente, con le lampade accese, dal battistero di S. Giovanni in Laterano per entrare nella casa di Dio! era davvero un Introito solenne alla Messa di Pasqua. Durante la processione si cantavano e si cantano anche oggi, le litanie dei santi. Esse sono una preghiera di intercessione per i nuovi battezzati, l’espressione della nostra coscienza religiosa collettiva; e ci ricordano la comunione dei santi.

d) La Messa della notte di Pasqua.

Dalle litanie si passa subito alla Messa alla quale i sacerdoti si presentano in paramenti bianchi. È la Messa della vigilia di Pasqua, simile alla prima Messa di Natale e, come questa, dovrebbe essere celebrata a mezzanotte. Il giubilo pasquale si manifesterà, pieno, domani alla Messa solenne di Pasqua. Questa della notte pasquale è la Messa del Battesimo. È la primizia del sacrificio dei nuovi figli della Chiesa, che ora sono invitati per la prima volta alla mensa dell’Agnello. Possa essere anche per noi una Messa di Battesimo nella quale rinnoviamo le promesse battesimali. Questa Messa ha alcune particolarità: vi mancano : l’Introito, il Kyrie, l’Offertorio, l’Agnus Dei; essa rappresenta l’antica forma della Messa, nella quale questi canti non erano ancora stati introdotti. Funge da Introito il canto delle Litanie dei Santi che nelle celebrazioni stazionali, precedeva sempre la Messa; esso termina col Kyrie. Appena si intona il Gloria si suonano tutte le campane, e la gioia, la grande gioia pasquale, si diffonde nel mondo! Il Gloria, riservato una volta alla sola Messa di Pasqua, è il vero canto pasquale. La Colletta allude alla resurrezione avvenuta ed è una supplica per i nuovi battezzati perché possano pienamente conservare in loro lo spirito cristiano. L’Epistola (Col. III, 1-4) è un insegnamento: « Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù ». Ed eccoci di nuovo ad un momento particolarmente commovente. Per tre volte risuona l’Alleluia, il vero canto pasquale. Esso taceva dalla Settuagesima, ma ora ci accompagnerà fedelmente durante tutto l’anno. Il Vangelo (Matth. XXVIII,1-7) è il primo messaggio pasquale. Non a caso fu scelto questo passo: « Ma alla sera del sabato, mentre si schiariva già il primo giorno della settimana… ». Celebriamo la Messa all’albeggiare e veniamo con Maria Maddalena a visitare la tomba e apprendiamo la buona novella. – Oggi, dopo la Comunione del Sacerdote, (anche i fedeli possono ricevere la Comunione) si canta un bellissimo inno di ringraziamento: il Magnificat, l’inno di ringraziamento che proruppe dal cuore e dalle labbra di Maria per la sua dignità di Madre di Dio. Esso costituisce il Vespro del giorno. Ancora una volta sentiamo il solenne Alleluia, dopo l’Ite Missa est e ci troviamo nel pieno giubilo della Pasqua: Cristo è risorto nei nuovi battezzati (e in noi). – La notte è trascorsa; e spunta l’aurora che ha visto la Resurrezione.

2. LE DODICI PROFEZIE.

– Le letture del Sabato santo sono state per lo più tenute in poco conto fino ad oggi, poiché considerate come un prolungamento inopportuno della sacra funzione. In esse noi vediamo in primo luogo un’antica forma di vigilia o di Mattutino; i salmi erano piuttosto Responsori o l’eco delle letture; i tre Notturni sono ancora accennati poiché noi abbiamo tre gruppi di quattro letture ciascuno.

Il primo Notturno (Prof. I-IV) è tolto dal libro di Mosè e mostra ai catecumeni quattro simboli del regno di Dio. Sono simboli cari all’antica Chiesa, e che poi spesso incontriamo nelle catacombe: Profezia l*. La creazione è simbolo della nuova creazione : redenzione e Grazia battesimale. Nei primi tempi la lettura si estendeva anche alla caduta dei primi uomini. Profezia II°. L’Arca è simbolo della Chiesa. Noè rappresenta Cristo: la rinnovazione del mondo fatta da Cristo. Profezia III°. Il sacrificio di Isacco raffigura il sacrificio della croce: Abramo è padre di tutti i fedeli. Profezia IV°. Il passaggio del Mar Rosso è il simbolo del Battesimo. – In queste quattro figure è simboleggiato il regno di Cristo nei suoi punti più salienti. I quattro grandi Patriarchi, Adamo, Noè, Abramo e Mosè sono i principali annunziatori della rivelazione e nello stesso tempo sono figure di Cristo. Li conosciamo dalle tre domeniche del Tempo di Settuagesima e dalla quarta domenica di Quaresima. – Osserviamo l’Orazione che segue sempre alle letture, è per lo più un commento alle stesse. Così il primo gruppo ha una magnifica fusione; esso si chiude col canto di lode di Mosè, che rappresenta la preghiera di ringraziamento dei Catecumeni e della Chiesa per la grazia della redenzione.

Nel secondo Notturno (Prof. V-VIII) ci parlano i Profeti (dunque Mosè e i Profeti rendono testimonianza di Cristo). Questo secondo gruppo non ha l’unità del primo. Forse la quarta Orazione ci dà il filo per intenderlo. Tutti i privilegi e le direttive del popolo di Israele si realizzano per la Chiesa nel senso più alto della Profezia V.. Il Profeta Isaia ci descrive i tesori del regno di Dio: l’acqua del Battesimo, il vino e il miele dell’Eucaristia; la guida di Cristo, la misericordia di Dio nella remissione dei peccati. Profezia VI. La vera sapienza abita nella Chiesa; i battezzandi hanno gustato il sale della sapienza; ora vedranno la stessa sapienza incarnata, Cristo. Profezia VII. Il profeta Ezechiele vede un campo seminato di morti che al soffio di Dio riprendono la vita. Magnifico quadro della missione redentiva di Cristo. Nuova vita dell’anima nel santo Battesimo; e la resurrezione dei corpi, da Lui che esce dalla tomba come il primo nato tra i morti. Profezia VIII. Isaia predice al popolo eletto una grande felicità dopo il tempo della miseria e del peccato. Questa felicità trova il compimento nel Nuovo Testamento. Oggi sorge la nuova razza eletta del Signore. Ogni Cristiano è « santo » e viene iscritto nel libro della celeste Gerusalemme. La nube e la colonna di fuoco ci richiamano alla vera presenza di Cristo nella Chiesa. Il canto che chiude il secondo gruppo, ne riassume i pensieri; il nuovo Israele, la vera vigna di Dio è la Chiesa.

Terzo notturno (Prof. IX-XII). Queste Profezie offrono numerose narrazioni e figure. Profezia IX. Il simbolo dell’agnello pasquale che ci fu proposto il Venerdì santo si applica alla SS. Eucaristia. Profezia X: Giona è figura di Cristo; i Niniviti penitenti rappresentano i catecumeni. Profezia XI: Il discorso di congedo di Mosè suona come un ammonimento materno della Chiesa a perseverare nel bene. A questa penultima profezia segue un canto che esalta la fedeltà del Signore. È la lieta adesione dei catecumeni e dei fedeli all’invito della Chiesa. L’ultima profezia è chiusa della vigilia e ormai già canto dell’aurora. I fanciulli nella fornace sono figure predilette della Chiesa primitiva che non mancavano mai negli Uffici notturni; la loro storia preparava la celebrazione eucaristica del mattino. Essi erano nella antica Chiesa simbolo di resurrezione e incoraggiamento al martirio. La breve scorsa data alle Profezie ci dice quanto meritino di essere prese in considerazione. Forse potrebbero essere lette e spiegate nella Quaresima, oppure nel Tempo pasquale.

IL PRIMO ALLELUIA.

– In questa magnifica melodia,  (ammesso che essa sia data nella forma autentica e cantata bene) c’è qualche cosa di indicibilmente bello. Dapprima, quasi timida ricerca, il canto si eleva con un intervallo di terza di terza, si culla poi ripetutamente sulla finale (sol), quasi volesse allenarsi allo slancio, e finalmente si innalza, con un salto di quarta trionfante. Questo canto di giubilo,  ripetuto tre volte, è come il primo grido che lo Spirito Santo fa erompere dal cuore dei nuovi Cristiani; è come il primo palpito della vita divina creata in loro dalla SS. Trinità. E come è bello questo alternarsi del celebrante che intona e del coro che risponde! – La santa Chiesa insegna ai suoi figli a pronunciare il primo Alleluia, che poi risuonerà per sempre nelle vie della Gerusalemme celeste. E anche noi, già da tempo battezzati, impariamo ogni anno di nuovo, dalla bocca della madre Chiesa, il nostro cantico nuovo (canticum novum).