LE VIRTÙ CRISTIANE (21)

LE VIRTÙ CRISTIANE (21)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay MDCCCXCVIII

APPENDICE

DEL GODERE E DELLA FELICITÀ UMANA

I.

Tutti quanti siamo uomini, vecchi o giovani, dotti o ignoranti, nobili o popolani, ci punge vivamente un medesimo desiderio che è il desiderio di godere e anzi di molto godere. Questo desiderio è il maggiore e più possente ostacolo che incontriamo nell’operare il bene: ed esso stesso, quando l’uomo sia ajutato dalla grazia a camminare nelle vie di Dio, riesce stimolo efficacissimo alla nostra vita morale, e anche ai più nobili eroismi dei Santi. L’uomo malvagio pecca per godere disordinatamente delle creature; e il Santo si perfeziona di giorno in giorno, certo, per glorificare il suo Dio che ama, ma altresì per vivere in eterno con lui una vita d’ineffabile ed eterno godere. Intanto chi vede quale impetuoso torrente di mali gonfii e dilaghi nel mondo per il desiderio di godere, potrebbe esser quasi tentato a credere che esso stesso, questo desiderio del godere, sia un male. Ma il Cristianesimo per lo contrario c’insegna che è desiderio buono, e naturato in noi per opera di Dio creatore. La santa Bibbia di tratto in tratto ci parla con soave eloquenza di godimenti spirituali e materiali desiderabili, e desideratissimi, anche dagli ottimi tra i figliuoli del Signore. L’Iddio, nostro Padre infinitamente perfettissimo, secondo il concetto biblico è godimento eterno e incommensurabile a sé medesimo e in pari tempo riesce agli Angeli e agli uomini in Paradiso una fontana vivace di gioje e di allegrezze ineffabili e sempre nuove. Ancora, trasferiamoci un tratto con la mente a quel beato tempo, nel quale gli Angeli, astri mattutini della creazione, lodavano il Signore, che stava per plasmare l’uomo. Mosè divinamente ispirato racconta il fatto con quella sicurezza ed evidenza, che potrebbe avere chi vi si fosse trovato presente; onde la sua narrazione riesce egualmente semplice e sublime. Nel Capo I° del Genesi, ai versetti sei e sette, in poche parole ci dice come fu creato l’uomo; e tra le poche parole quelle, che elevano l’ uomo più in alto e lo effigiano meglio, sono dall’ispirato scrittore messe in bocca a Dio, il quale, quasi parlando tra sé medesimo, dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e abbia signoria su tutto”. — L’uomo è dunque un’immagine del suo Iddio, ed è signore di tutto, o che è il medesimo, è re dell’universo che gli sta sott’occhio. Sono poi anche ricche di significato e stupende queste altre parole, che si leggono nel Capo secondo del Genesi, al versetto settimo: “Il Signore Iddio dunque formò l’uomo dalla polvere della terra, e gli alitò in volto un SOFFIO DI VITA, e l’uomo fu fatto ANIMA VIVENTE. Qui si manifestano chiaramente le due sostanze, onde l’uomo è composto, cioè la materiale, tratta dalla polvere della terra, e la spirituale, la quale deriva dal soffio divino, e ci costituisce anime viventi. Or questa medesima distinzione delle due sostanze, corporea l’una, e spirituale l’altra, che è la radice di tutta la dottrina cattolica intorno all’uomo, dopo migliaja di anni ci fu di nuovo insegnata da Gesù Cristo in queste parole del Vangelo di san Matteo al Capo X: “Non temiate coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; ma temete piuttosto colui, che può far perire l’anima e il corpo nella geenna”. Narrato che ebbe Mosè, nel modo che ho detto, la creazione dell’uomo, parla del godimento, in cui Iddio lo pose, e dice: “Ora il Signore aveva piantato da principio un paradiso di delizie, dove collocò l’uomo, che aveva formato”. E poi dopo un’ammirabile e giocondissima descrizione di cotesto paradiso, egli aggiunge: “Iddio adunque prese l’uomo e lo collocò nel paradiso di delizie, affinché lo coltivasse e lo custodisse”. Qui dunque si esprimono due idee di gran momento: la prima che Iddio mise l’uomo in un luogo di delizie; e dunque volle che ei godesse: l’altra è, che questo godimento egli doveva custodirlo a sé, e per fare ciò, non doveva anneghittirsi nell’ozio, sì bene coltivare il giardino, e, com’è detto più generalmente appresso, operare. Or quel che più rileva al mio proposito in tutta questa ammirabile pittura della creazione dell’uomo, del luogo di delizie, dove Iddio, lo pose, e del godimento di lui, è che qui non si trova neanche accennata la cupa e malinconica parola, dolore. Laonde Adamo ed Eva, in quel primo breve periodo della loro vita innocente, non ebbero neanche ombra di dolore, e forse del dolore mancò ad essi sino l’idea. – Ora il bene dell’Eden, l’innocente umana radice, l’eterna primavera di quel luogo, il nettare, e insomma il godere espresso in tutte queste immagini finì presto per l’uomo; e chi è che non ne conosca il modo? Alla storia della creazione dell’uomo succede quella della disubbidienza e del peccato. Soltanto dopo questa seconda istoria tanto lagrimevole e misteriosa, Iddio in punizione del peccato profferisce la prima volta nel Genesi la parola dolore. Allora nascono nel linguaggio umano le parole affanno, fatica, triboli, spine, morte, le quali corrispondono tutte a idee, figliuole del dolore. Il maggiore di questi dolori è uno che li assomma tutti, intendo la morte, la quale anzi è tale dolore, che gli altri sono presagio o apparecchio o avviamento ad esso.

II.

Il desiderio del godere che, come s’è veduto, è di per sé buono, ha questo di proprio, che in noi riesce più vivo e possente di ogni altro desiderio nostro: più possente certo del desiderio di conoscere e comprendere la verità o di quello di amare o di qualsiasi altro; perché li accompagna tutti, o piuttosto è parte e vita di ciascuno di essi. Ancora, il desiderio del godere è principalmente un desiderio della nostra volontà, la quale è propriamente la facoltà umana che desidera. Nonpertanto cotesto medesimo desiderio si riflette e si trasfonde in tutta l’anima, e altresì nel corpo dell’uomo; onde è giusto dire che il desiderio del godere appartenga a tutta la persona umana. In vero l’intelletto nostro è come uno specchio che, illuminato, illumina, e a poco a poco cercando la verità, la trova e la conosce. Esso però cerca e conosce, perché desidera un godimento suo proprio, nobile e sereno che è il diletto e l’appagamento di possedere il vero. La volontà libera dell’uomo comanda a sé stessa, e ha signoria del creato; ma comanda e signoreggia, perché nell’uno e nell’altro caso desidera di godere e gode. Il cuore ama; ma ama principalmente perché desidera un godimento suo proprio, che è il godimento di possedere più o meno completamente ciò che ama. E la memoria non richiama forse dai riposti suoi seni le cose care che furono un tempo, per desiderio di godere? E la fantasia non dà colore e leggiadria e vita a liete immagini per desiderio di godere? Infine, il corpo stesso non è forse avido di godimenti pieni di mistero, in quanto che, mentre sono del corpo derivano in gran parte dall’anima, e l’anima stessa li sente e se ne compiace? Perché mai l’occhio si allieta d’una bella campagna, e l’orecchio ascolta con diletto una soave armonia, se non perché l’anima umana desidera di godere per mezzo dell’occhio e dell’udito, a quel modo che desidera di godere per mezzo dell’intelletto, della volontà, del cuore, della memoria, della fantasia e di tutto se stesso? Non solo, dunque, l’uomo desidera di godere, ma non v’ha facoltà in lui o parte di lui, che non senta questo desiderio: o piuttosto egli desidera di godere in tutt’i modi possibili, per via dello spirito e dei sensi. Non basta: desidera anzi d’intrecciare e di armonizzare diversi godimenti insieme; onde, a modo d’esempio, una bellissima melodia che appaga l’udito, gli riesce più gradita se sia cantata, poniamo, da persona gentile, o se esprima affettuosi pensieri che appagano il cuore. – Se non che la considerazione più grave e di maggior momento intorno al desiderio del godere è questa, che l’uomo desidera di goder sempre e pienamente; ond’è che non gli basta di dire dentro di sé medesimo ad ogni istante “io voglio godere”, ma dice pur voglio goder sempre e con una pienezza intera, o che vale il medesimo: voglio esser felice. E come dice dentro di sé, così spesso dice anche fuori di sé ai fratelli, agli amici, a tutti. In vero, questa parola, felicità io l’ho udita tante volte profferire, particolarmente da coloro, che sono o nel primo sboccio o nel fiore della vita giovanile, che essi par proprio non abbiano altro pensiero che questo del viver felici. Ma per quanto ci è bello e giocondo il desiderare la felicità, altrettanto è arduo il conoscere dov’essa si trovi; perciocché nel mondo sono molte false immagini di felicità che ci dilettano, ci seducono, e poi talvolta finiscono in amarissimo pianto. – Or bene facciamo, o lettori, un altro passo avanti nella dilettosa via che percorriamo insieme, e passiamo dal sentimento del godere a quello dell’esser felici.

III.

La felicità, secondo il Cristianesimo, per nessun modo si può raggiungere nella vita presente; ed è anche assai probabile, che chi mi legge, di questa verità sia convinto per propria esperienza. Nonpertanto il fatto è che molti, particolarmente se giovani, si ostinano di cercare qui in terra questa desideratissima felicità, e hanno in conto di piagnucoloso e malinconico chi tenta dissuaderli da siffatto proposito. Io li compatisco di gran cuore. È tanto prepotente, soprattutto nel fiore degli anni, il desiderio di godere! Ciò però non toglie che questa affannosa e continua ricerca della felicità terrena sia un errore pieno di pericoli, non solo perché  correndo dietro al fantasma della felicità, l’uomo consuma inutilmente le migliori sue forze; ma soprattutto perché nella foga del correr dietro alle false immagini della felicità, gli animi s’ infiacchiscono, si corrompono e si rendono miserabili. Se non che per qual cagione, dunque, questo desiderio di esser felici lo abbiamo in noi? Perché l’abbiamo, e come lo si possa pienamente e anzi sovrabbondantemente soddisfare lo vedremo appresso, e nel vederlo ci farà luce il Cristianesimo. Per ora quel che ci preme soprattutto è di studiare prima con matura riflessione in che consista mai questa felicità che tutti desideriamo, senza saper bene ciò che essa sia, e poi d’investigare se la si possa mai per avventura trovare in qualcuno dei beni desiderabili e tanto desiderati che sono qui in terra. – Che è mai dunque la felicità? È il possesso continuo di tutto ciò che si desidera. Ancorché della felicità si trovino parecchie altre definizioni, questa mi pare da preferire; perciocché essa è semplice, e si può agevolmente dichiarare e comprendere da ciascuno che vi rifletta su, in vero, se la cosa posseduta non è di per sé desiderabile e da noi desiderata, vien meno il fondamento stesso della felicità: e se, insieme con essa, noi ne desiderano altre che non possediamo, neanche siamo felici. D’altra parte è chiaro che per esser felici il bene desiderato s’ha da possedere; perciocché, ove manchi il possesso, il solo desiderio ci produce piuttosto dolore che gaudio, o almeno dolore insieme con gaudio. – Che il possesso del bene desiderato debba esser continuo è evidente di per sé, e si conferma dal fatto, che anche l’ombra di un dubbio intorno all’’interruzione del possesso del bene che godiamo, ci turba, ci angoscia, e avvelena nella sua sorgente ogni nostro diletto. Dite alla madre ch’ella dovrà perdere il figliuolo diletto, o all’amante consorte che perderà l’amata sua moglie; e vedrete se è necessario per esser felici che il possesso del bene non distrugga in noi né scemi il desiderio del bene posseduto. Dunque, teniamolo bene a mente, per esser felici dobbiamo possedere tutto ciò che desideriamo, e possederlo sempre in modo che, mentre lo possediamo, il desiderio suo continui ad esser vivo e possente come prima. Raccoglietevi un tratto in voi stessi, e la vostra coscienza vi dirà chiaramente questo stesso che v’ho detto io. – La santa Scrittura e i Padri della Chiesa insegnano apertamente la medesima dottrina, e spiegano a questo modo la felicità. Secondo gl’insegnamenti cristiani, la felicità l’uomo non può trovarla che in Dio: perché  solo Iddio è un Bene infinito, nel quale si trovano tutt’i beni desiderati e desiderabili; e altresì perché solo questo sommo Bene è tale, che il desiderio del possederlo non iscema mai, e anzi è sempre egualmente vivo e possente. La Sapienza infinita che è il Verbo di Dio, Dio esso stesso, dice di sé nella Bibbia: “Chi beve di me, ha sempre sete di me.” E san Pietro nella sua 1a Lettera insegna che gli Angeli in cielo desiderano sempre di vedere lo stesso Spirito Santo che vedono (I Piet. I, 12). Oltre a ciò i Padri della Chiesa, che specchiano in sé con gran luce e perfezione i divini insegnamenti, chiariscono la medesima idea. In san Gregorio è detto: “Affinché l’abbondanza non generi noja nell’anima beata, la loro ardenza dura sempre: sono satollati senza alcun disgusto, perché la stessa sazietà eccita in essi il continuo desiderio di ciò che godono”. Sant’Agostino afferma la stessa cosa precisamente scrivendo: “I Santi ti veggono sempre, o Signore, e pure sempre desiderano di vederti”. — Di che san Tommaso, paragona, il desiderio della felicità alla fame del cibo, dicendo. Le anime beate sempre hanno fame e sempre si satollano…… ; e ancora, dove l’amore è più grande, ivi è più forte il desiderio del bene amato”. – Da tutto ciò si conchiude che la felicità, essendo insieme possedimento e desiderio, riesce naturalmente quiete e attività; o piuttosto essa è una quiete operosissima. Il possesso del bene desiderato, appagando, quieta l’anima: il continuo desiderio di esso dà vita e moto a tutte le facoltà dell’anima stessa. Se mai il possedimento non riempisse tutta intera l’anima nostra, il godimento della quiete non sarebbe pieno; e d’altra parte, se qualcuna delle facoltà dell’anima non si sentisse viva, e non si movesse e non operasse, desiderando sempre ciò stesso che possiede, all’anima umana mancherebbe il godimento dell’operosità e del moto, e però non sarebbe felice.

IV.

La felicità intera, nel modo che s’è detto, non si trova nella vita presente; ma il desiderio suo è così vivo e possente nell’uomo, ch’egli la cerca affannosamente sempre, come la cerva sitibonda va in traccia dell’acqua viva che la disseti. E la ragione è che anche qui in terra sono molti beni, immagini del Bene sommo, e molti godimenti immagini anch’essi dell’eterna felicità. Il sapere che moltissimi altri uomini, prima di lui, cercandola, non l’hanno trovata, non lo fa cader d’animo. Ciascuno vuol fare da sé la sua prova; e coloro, che muovono continue querimonie su la infinita vanità del tutto e la terribile realtà del dolore; questi stessi moltiplicano, più degli altri, gli esperimenti, e mutano i piaceri e i diletti propri, sperando di trovarne taluno che li appaghi e li renda felici. Ma il fatto è che i beni di questo mondo, intanto che sono fonti di godimenti veri, e giustamente desiderabili e desiderati anche dai migliori, non bastano a renderci felici; perciocché, notatelo bene, altro è godere, altro è avere quel pieno appagamento dell’animo, che diciamo felicità. – I beni desiderabili e desiderati dall’uomo, tutti possono assommarsi in questi: le ricchezze : i piaceri dei sensi : la scienza : l’amore : l’amicizia : la gloria. Ora ancorché ciascuno di questi beni ci faccia assaggiare godimenti o diletti, nessuno di essi ci rende pienamente felici. La ragione di ciò, dopo quello che s’è detto intorno alla natura della felicità, si può scorgere dal nostro occhio intellettuale a prima giunta. Questi varj beni o l’uomo non li possiede; o, quando li possiede, il desiderio di essi scema o vien meno. Sia nel primo, sia nel secondo caso, la felicità si dilegua come ombra. – Le ricchezze non possono mai render l’uomo felice; e anzi mi pare strano che lo si sia potuto pensare mai. Esse in vero non sono di per sé un godimento, ma soltanto un mezzo, onde si procacciano alcuni godimenti; sono beni materiali, inerti, insensibili, agghiacciati, che non hanno somiglianza di sorta con l’anima umana, la quale è di sua natura sensibile, spirituale, viva, ricca di calore, di speranza, di affetti. Il possesso delle ricchezze dunque non è interiore, e non appaga pienamente: il desiderio poi di esse col possesso ordinariamente si smorza o almeno si infiacchisce. Che se talvolta nell’avaro né si smorza né s’infiacchisce, ciò deriva da una vana ombra che oscura l’anima di lui. Egli immagina, che, col moltiplicarsi delle ricchezze, si moltiplicherebbero i godimenti, la qual cosa è evidentemente falsa. Quando fosse vera, chi traricchisce, per molti milioni, dovrebbe essere infinitamente più lieto, di chi ha quanto basta a una vita modesta. Or ciò non solo non è vero, ma incontra assai spesso, che chi s’è fatto poverello per amor di Dio, e il contadino agiato e rallegrato solo dal suo campo, dalle sue messi e dalla sua famiglia, lo si vede più lieto e sorridente di chi è ricco, ed ebbro di piaceri. – Forse parrà più secondo ragione l’affermare che i piaceri dei sensi ci possano agevolmente satollare del cibo desideratissimo della felicità; ma anche qui vi ha errore e inganno manifesto. I piaceri dei sensi, o piuttosto quelli che l’anima sente, per mezzo dei sensi, possono esser varj, secondo che sia diverso il senso il quale conferisce a produrlo. Quali, tra questi piaceri, siano i più desiderati, e spesso i più peccaminosi è inutile dirlo. Ma sia a questi desideratissimi, sia a tutti gli altri piaceri dei sensi fanno difetto due condizioni, per produrre la felicità. Essendo piaceri del senso, l’anima li possiede assai imperfettamente: nel fatto poi riescono tali, che nel possederli il desiderio di essi a poco a poco scema e vien meno. Consideriamo il diletto che ci produce un’armonia gradita e soave; una di quelle armonie, che scendono al cuore dolcissimamente, lo commuovono ora alla gioja, ora al pianto, e spesso ci traggono quasi fuori dei sensi? Ebbene chi non ha provato in sé medesimo che questa armonia ascoltandola per lungo tempo, il desiderio di ascoltarla sminuisce di grado in grado, e talvolta arriva sino a mutarsi in noja? E la vivanda la più squisita e desiderata prima, se si volesse continuarla a mangiare, dopo che ci ha sfamato, non finirebbe per diventare o sgradita, o almeno priva di diletto? Come dunque noi si potrebbe esser felici, per via dei piaceri sensuali, se nella felicità debbono durar sempre il possesso e il desiderio della cosa goduta; e i piaceri sensuali, per lo contrario non dànno che qualche ora, e talvolta qualche istante d’un possesso imperfetto e di un desiderio, il quale incomincia a scemare nel momento stesso, in cui la cosa desiderata si possiede?

V.

Assai più nobili sono senza dubbio i diletti della scienza, come quelli che nascono dalle attrattive, che il nostro intelletto, creato a immagine di Dio, sente vive e possenti per la verità, bene realissimo e nobilissimo. Ma, neanche questi intellettuali diletti bastano a renderci felici, quantunque ci avvicinino alla felicità (poco rileva che i mondani non lo credano) meglio che non le ricchezze e i piaceri sensuali. Il conoscere il vero ci fa fare un passo più lungo verso la felicità, sì perché il conoscere è il primo bisogno della nostra vita di creature intelligenti e libere, sì perché ogni conoscenza nuova procura all’anima un diletto nuovo, sì infine perché in ogni atto del nostro conoscere vi ha più realtà, più intensità e più moto, che non si trova in qualsiasi atto derivante dai sensi. Ma, senza parlare della vivacità del desiderio, la quale, anche nella scienza posseduta, si affievolisce col possederla; il possesso che noi abbiamo della verità, benché assai nobile, riesce sempre imperfettissimo e assolutamente sproporzionato ai nostri desiderj. Infatti, le verità che noi conosciamo in questo mondo o per luce di scienza, o per luce di fede, o per le due luci armonizzate insieme, mancano di estensione, di profondità e di chiarezza. E intanto il nostro intelletto lo punge vivamente il desiderio di conoscer tutto, di conoscere profondamente e di conoscere chiaramente. Sì, certo, desideriamo di conoscer tutto; e nondimeno, anche che la mente nostra sia eletta, e l’ingegno acuto; anche che taluno, incominciando sin dal fiore degli anni, sudi tutta la vita su i libri; quanto poche sono le verità da lui conosciute in confronto delle ignorate! Anche che taluno sia dottissimo, le verità ch’ei possiede, rassomigliano a un gruzzolo di monete d’oro, che sono poca e povera cosa in paragone di tutto l’oro, che o gira pel mondo, o si nasconde tuttora nelle terre e nei monti auriferi. Tutti ci punge il desiderio di conoscere profondamente la verità e non pertanto, anche che avessimo l’intelletto e la scienza di Platone, di sant’Agostino, di san Tommaso, e vari altri, chi potrebbe affermare di sé che la profondità onde egli sa talune cose eguagli il desiderio suo del sapere, sino alle ultime midolle, le cose che sa? Infatti anche oggidì che è tanto possente il desiderio del sapere, che sappiamo noi della natura intima delle cose? E qual uomo, sia pure dottissimo, se vuole intessere nella sua mente la stretta catena dei perché e delle rispettive risposte, non arriva presto a un perché, a cui vorrebbe e non può dare risposta di sorta? Infine, desideriamo di conoscere chiaramente: e invece quanti dubbj, quante nebbie, quante tenebre! Raggiungiamo, dopo molti stenti, una verità; ed ecco che le germogliano accanto uno o più dubbj, i quali eccitano vivamente il desiderio del sapere, senza che lo appaghino mai al tutto. – Insomma, tutte le verità quelle divine della fede, se siamo credenti, le conosciamo con certezza, ma non le conosciamo chiaramente, sì bene come in ispecchio, e spesso velate di mistero, perché superiori al nostro intelletto: quelle della scienza, anche se le vediamo con maggior chiarezza, perché più proporzionate al nostro intelletto, non perciò ne vediamo la profondità e la sostanza con una chiarezza che eguagli il desiderio nostro. La felicità dunque per le tre ragioni dette, invano la cercheremmo nella scienza. Del rimanente sono assai pochi coloro, che per raggiungere la felicità, si mettono in questa via piena d’intoppi e di malagevolezze. I più, massimamente nel fiore della giovinezza, pensano che essa s’abbia a trovare nell’amore. Ma anche qui, m’accora il dirlo, si confondono i fantasmi e le parvenze della felicità con la felicità stessa. Consideriamo l’amore, nella sua forma più nobile e pura, e fissiamo con compiacimento lo sguardo sopra due conjugi che amandosi focosamente, si giurarono fede immutabile a’ piedi dell’altare di Cristo, e nobilitarono e santificarono il loro amore conjugale, con l’alito benefico della Religione e della grazia celeste. L’amore di costoro trova un alimento efficace nella perpetuità e unità del matrimonio cristiano. Inoltre, il loro amore è abbellito e accresciuto dalla speranza che esso durerà eterno, anche nel regno, dove chiunque morì nel bacio del Signore, vivrà con gli Angeli nella visione e nell’amore di quel Dio, che esso è l’eterno, l’infinito e il primo Amore. Cotesti sposi, dunque, a cui par che tutto, e cielo e terra rida intorno, si amano e forse si dicono felici. Sta bene. Ma per quanto tempo lo diranno? Poniamo che lo dicano sempre; sono essi pienamente felici, come dicono; sicché posseggano tutto ciò che desiderano, e desiderano sempre con desiderio vivo e nuovo ciò che posseggono? Certo no; perciocché né il possesso tra loro è così pieno, come l’anima lo desidera, né il desiderio è tale in essi, che col possesso non si affievolisca, e talvolta non si dilegui, quasi ombra. E la ragione principale, onde anche in siffatto amore manca la felicità, è questa. Chi ama, desidera soprattutto di possedere l’anima della persona amata, e di esser posseduta da essa, In fatti il voler bene, il pensare alla persona amata, il dilettarsi della intelligenza, dell’affetto, del sacrifizio di esso; e d’altra parte il desiderare caldamente che la persona amata nutrisca essa stessa questi medesimi sentimenti per l’amante, provano con evidenza che il principale possesso desiderato nell’amore è il possesso scambievole di due anime intelligenti e libere. La vita intima e i legami anche estrinseci dei conjugi possono agevolare siffatto possesso delle anime, ma nol rendono mai tanto pieno e completo quanto si vorrebbe. Le inquietudini, le dubbiezze, i desiderj non soddisfatti, i timori anche dei conjugi che più si amano, e anzi più frequenti in questi, che in altri, dimostrano evidentemente ciò che dico. Si possiede solo in parte e in un cotal modo ciò, che si vuole intero. Il desiderio poi di possedere ciò che già si possiede, anche quando gli sposi continuino ad amarsi vivamente, a poco a poco, quando non si smorzi, si scolora e s’infievolisce, come avviene in una lampada accesa da molto tempo. E ciò avviene se non fosse per altro, perché la natura di tutti beni umani è immancabilmente questa, che col possederli, il desiderio di possederli, almeno scema.

VI

Se non che, trà gli amori umani, ce ne ha uno d’ ordinario più tranquillo e sereno di quello della vita conjugale; ed è l’amore, onde si amano, per esempio, la madre e il figliuolo, i fratelli e le sorelle, e gli amici più teneri fra loro. Questa forma d’amore, a cui conviene il nome di amicizia, può anch’essa, e forse essa soprattutto, dare all’uomo diletti ineffabili. Ma nella sostanza l’amore di amicizia è poco differente dall’amor conjugale, guardato nella sua parte più nobile; e però neanche esso può renderci felici. Con l’amicizia tra due persone, le due anime si posseggono, quasi sempre, meno perfettamente che con l’amore; perché l’intimità è minore, e mancano alcuni dei mezzi, che rendono più agevole l’armonia e il connubio di due spiriti. D’altra parte però il desiderio del possesso tra gli amici, appunto perché il possesso è minore, e può essere di varie persone, più difficilmente si dilegua, e d’ordinario o non s’affievolisce o si affievolisce meno col tempo; sempre che l’amicizia sia tra gente di cuore, e sorga da motivi di per sé nobili e puri. Da ciò procede che i gaudj dell’amicizia vera e profonda riescono più sereni, più puri, più spirituali e più durevoli di quelli dell’amore; ma anche questi gaudj dell’amicizia, per le ragioni già dette, non bastano a rendere l’uomo felice. – Che dire poi del desiderio della gloria e anche di quello dell’onore, il quale è alquanto più ristretto di quello della gloria, ma sostanzialmente non differisce da esso? Il desiderio della gloria, da che mai dipende in noi? Molti, che lo sentono vivacissimo, forse nol saprebbero dire a sé medesimi. Il desiderio della gloria è frutto del desiderio di essere amati; ed è tanto universale, quanto quello. In vero, come insegna san Tommaso, a quel modo che noi amiamo non solo i beni particolari, ond’è ricco il mondo, ma altresì il bene universale; così parimenti desideriamo di essere amati da alcuni in modo particolare, e da tutti in un modo generico. Al primo desiderio corrispondono l’amore e l’amicizia; al secondo quell amore iniziale e punto profondo, ch’è l’amore di stima, di ammirazione e di lode, al quale è dato il nome di gloria. Cotesto desiderio della gloria, come tutt’i desiderj umani, può agevolmente pervertirsi e diventare malvagio; ma, essendo una forma onesta di amare e di essere amato, non è di per sé reo. Ben è vero che la gloria da noi desiderata, a volte si fonda sopra ragioni mendaci, ed è vanagloria, a volte sopra ragioni frivole, ed è vanità, a volte chiede per sé ciò che appartiene a Dio, ed è orgoglio; ma quando si contenga (ed è difficile) nei giusti limiti, in essa non si trova motivo di biasimo. Or siffatta gloria ben può essere cagione di diletto, ma neanche essa ha capacità di renderci felici. Il possesso, che con l’amore universale si ha del bene, è di sua natura imperfettissimo; e ancora, per quanto ciascun uomo sia amato e venerato, non raggiunge mai quel grado di stima, di ammirazione, che l’animo desidera. A ciò si aggiunge che anche questo desiderio della gloria scema di molto col possesso; sicché quel piccolo onore o quel piccolo applauso di pochi, che pur ci bastava al principio, anche che dopo sia raddoppiato o triplicato non ci basta più. Vale dunque anche per questo bene della gloria il medesimo che si è detto di tutti gli altri precedenti. Anzi questo bene della gloria è tra tutti il meno capace di renderci felici per una ragione sua propria. Chi ama, chi desidera beni temporali o scienza o altro, può ben mostrare il desiderio suo; ma, quanto alla gloria, chi mostra di desiderarla, per ciò stesso la perde. Laonde è verissimo e profondamente filosofica la sentenza di quella Teresa di Cepeda, che non fu soltanto una gran Santa, ma una vergine capace di meditare speculativamente le più alte dottrine: La gloria si perde col desiderarla. In vero gli uomini siam fatti così, che stimiamo e ammiriamo coloro, che meno ci mostrano il desiderio dell’ammirazione e della stima, cioè della gloria. Però ci par bella la virtù semplice e modesta, e poco o punto ci piace la virtù che fa mostra di sé, e che quasi sempre per ciò stesso ci pare mendace. Sino la dote del sapere, tanto più la crediamo vera e ci piace, quanto meno domanda di essere glorificata. Come mai dunque la gloria ci renderebbe felici, se per la felicità si richiede un desiderio ardente e continuo del bene voluto; e la gloria umana è di tal natura, che appena trasparisca un’ombra del desiderio nostro, essa o scema o vien meno?

VII.

E ora, che abbiam veduto, come né le ricchezze, né i piaceri del senso, né la scienza, né l’amore, né l’amicizia, né la gloria hanno potere di renderci felici, volgiamo un’occhiata alla vita intera dell’uomo, il qualesi aggira affannosamente tra tutti questi beni, e mai o quasi mai non desiste dal cercarli, dal perderli e dal ricercarli di nuovo. La felicità richiede il possesso tranquillo e continuo di tutt’i beni desiderabili. Ora quando, e dove mai si trovò l’uomo che possiede almeno un solo di questi beni umani, senza difficoltà, senza stenti, senza travagli dell’anima e soprattutto senza interrompimenti? E allora, dove s’incontra mai una vita felice? Oltre a ciò tutt’i beni, da me accennati, poiché finiti, son tali di lor natura, che il possesso dell’uno non esclude il desiderio dell’altro. Chi è ricco, vuole anche amare; chi ha scienza, vuole anche piaceri e gloria. Or si trova mai nel mondo l’uomo che li possegga tutti questi diversi generi di beni? E se glie ne manca un solo, e questo solo ei lo desidera, certo ei non possiede il tesoro della felicità. Che dire poi di quel terribile dilaceramento della mente, del cuore, delle membra, il quale si chiama dolore, e ci strazia con la sua presenza, con la sua memoria e col suo timore? Un solo dolore basterebbe a spezzare l’aurea tela della nostra felicità. E intanto i dolori della vita sono moltissimi, si mescolano a ogni nostro gaudio, e quasi sempre sono ahimè! frutti che raccogliamo dallo stesso albero del godere, allorché il godimento nostro è o contradetto o guasto o dimezzato o bruscamente interrotto. Questo è il mistero della nostra vita terrena, che non ci sia un solo bene umano, che non ci riesca, ora fonte di gaudio ora fonte di dolori. Resta dunque che se i singoli beni non ci possono render felici, la vita umana, nella quale questi beni né si conseguono tutti, né si hanno mai senza la mescolanza di molti dolori, non riesce mai al porto della desiderata felicità. – Se non che, di tutte le cose, dette fin qui intorno alla felicità umana, ci ha una ragione suprema. Essa è che tra i desiderj nostri, e i beni che si trovano qui in terra, non avvi alcuna convenienza di misura e di grandezza. Tra gli uni e gli altri corre una grande sproporzione che si vede tanto più chiaramente, allorché l’uomo serenamente si ripieghi sopra di sé medesimo, e pensi e rifletta con gravità di proposito ai desiderj propri, e al valore dei beni desiderati e desiderabili. Or cosiffatta sproporzione tra il desiderabile, e l’anima umana desiderante, nessuno, che io sappia, la conobbe e la espresse meglio di quell’elettissimo ingegno di Sant’Agostino, allorché, volgendosi come era uso a Dio, gli dice così: “Tu, o Signore, facesti grande la creatura razionale, al cui riposo e alla cui felicità non basta nulla affatto tutto ciò che è meno di Te, e però neanche essa creatura razionale basta a sé stessa. Questo solo, io so che, non pure fuori di me, ma anche in me stesso, (tranne che in Te) mi trovo a disagio, e che ogni dovizia che non sia il mio Dio, è per me miseria”. (Confess. XIII. 3. – Ma ciò, che importa soprattutto alla creatura ragionevole e libera, è il sapere: per conseguire questa eterna e immancabile ricchezza che è il nostro Dio; per arrivare a questa Luce beatissima, la quale ci renderà impossibile il desiderare altro bene, vi ha qualche mezzo al mondo? E se vi ha, lo conosciamo noi? E se lo conosciamo, perché mai siamo pigri e tardi ad accettarlo? Non desideriamo noi forse ardentemente la felicità? Non abbiamo già sperimentato molte volte come sia vana la speranza di ritrovarla in qualche bene della terra? – Oh che gran mistero è mai l’uomo a se stesso! Pretendere che le creature umane ci diano quel che non possono mai dare, e poi dolersi, irritatsi, e talvolta disperarsi che non ce lo diano! Ritentare la stessa prova cento volte, e dopo cento disinganni avere in essa la medesima fiducia di prima! Volere per la via del molto godere arrivare alla felicità, e non accorgersi che nella vita presente in ogni godimento, anche onesto, si nasconde un germe di dolore; sicché quante più rose vogliamo cogliere, tanto maggiori punture abbiamo dalle spine che le circondano! Aggirarsi ognora nel labirinto dei piaceri del mondo, correndo tante vie oblique e storte, e allontanarsi pur sempre dalla via maestra e retta che mena, tra parecchi intoppi sì, ma mena indubbiamente alla cima del Monte santo dov’è Iddio: ecco la vita di molti e molti Cattolici. E sino a quando? Faccia Iddio che chi mi legge ascolti la voce, onde Gesù parla spesso amorosamente al cuore dell’uomo, e come Padre amantissimo lo mira con uno sguardo d’ineffabile dolcezza e gli dice: Vieni e mi segui (Matth. XIX, 21).

LAUS DEO