DOMENICA II. DI QUARESIMA (2022)

DOMENICA II DI QUARESIMA (2022)

Stazione a S. Maria in Domnica

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica, chiamata così perché i Cristiani si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum). Si dice che S. Lorenzo, distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri. Era una delle parrocchie romane del V secolo. Come nelle Domeniche di Settuagesima, di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina formano la trama delle Messe della 2a, 3a, e 4a Domenica di Quaresima. – Il Breviario parla in questo giorno del patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità. Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, il Dio di Giacobbe o d’Israele per mostrarlo come protettore. « Dio d’Israele, dice l’Introito, liberaci da ogni male ». La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono. Il versetto dell’Introito dice che « colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene ». L’Orazione ci fa domandare a Dio di guardarci interiormente ed esteriormente per essere preservati da ogni avversità ». Il Graduale e il Tratto supplicano il Signore di liberarci dalle nostre angosce e tribolazioni » e « che ci visiti per salvarci ». Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, « noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà » (4° Lez. Della 3° Domenica di Quaresima).  – Giacobbe fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè. Giacobbe significa infatti « soppiantatore »: egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne per sorpresa, la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù. Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse: « Le nazioni si prosternino dinanzi a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli ». Allorquando Giacobbe dovette fuggire per evitare la vendetta di Esaù, egli vide in sogno una scala che si innalzava fino al cielo e per essa gli Angeli salivano e discendevano. Sulla sommità vi era l’Eterno che gli disse: « Tutte le nazioni saranno benedette in Colui che nascerà da te. Io sarò il tuo protettore ovunque tu andrai, non ti abbandonerò senza aver compiuto quanto ti ho detto. Dopo 20 anni, Giacobbe ritornò e un Angelo lottò per l’intera notte contro di lui senza riuscire a vincerlo. Al mattino l’Angelo gli disse: « Tu non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele (il che significa forte con Dio), perché Dio è con te e nessuno ti vincerà » (Il sacramentario Gallicano (Bobbio) chiama Giacobbe « Maestro di potenza suprema »).Giacobbe acquistò infatti la confidenza di suo fratello e si riconciliò con lui.Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. – La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe — scrive S. Agostino — ha un significato simbolico perché le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri » (Mattutino). Quando il Vescovo mette i guanti nella Messa pontificale, dice infatti, che « Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato ». « Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli « non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno » cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perché sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità (3° Notturno). Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse: « Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo ». Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe, rivestito delle pelli di capretto. E questa benedizione data a Gesù, è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito. Così il Vescovo mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera « Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, cosi, anch’io, nell’offrirti con le mie mani la vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore ».Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo; Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo. « Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più. Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perché Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro » (Epist.). — In S. Giovanni (I, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, Egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi. « Come Esaù, dice S. Ippolito, medita la morte di suo fratello, il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa. Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa ». Alla fine dei tempi, questi due popoli si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe.La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare. Giacobbe vide il Dio della gloria, gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Orémus.

Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente.

[O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodíscici all’interno e all’esterno, affinché siamo líberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.

1 Thess IV: 1-7.

“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

[“Fratelli: Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore, che, avendo da noi appreso la norma, secondo la quale dovete condurvi per piacere a Dio, continuiate a seguire questa norma, progredendo sempre più. Poiché la volontà di Dio è questa: la vostra santificazione: che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà, e non seguendo l’impeto delle passioni, come fanno i pagani che non conoscono Dio; che nessuno su questo punto soverchi o raggiri il proprio fratello: che Dio fa vendetta di tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e dichiarato. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità: in Cristo Gesù Signor nostro”]

L’ONORE CRISTIANO.

C’è nell’epistola d’oggi una parola che colpisce: l’appello all’onore. Se ne fa tanto commercio, tanto uso ed abuso di questa parola nella letteratura e nella vita mondana. Il mondo considera un po’ l’onore come una sua scoperta, o, almeno, come un suo monopolio. L’onore è nel mondo, o si crede sia, il surrogato laico del dovere. Noi Cristiani, secondo questo modo assai diffuso di vedere, avremmo il dovere, la coscienza; il mondo avrebbe, lui, l’onore. Più trascendentale il primo, più concreto il secondo. E onore vuol dire un nobile senso della propria dignità, un cominciar noi ad avere per noi quel rispetto che pretendiamo dagli altri. – Ebbene San Paolo parla di onore come di un dovere ai primi Cristiani, ai Cristiani d’ogni generazione, come parla di santità. Dio ci vuol santi e noi dobbiamo diventarlo sempre di più come numero e come intensità. « Hæc et voluntas Dei sanctificatio vestra ». Di questa santità l’Apostolo specifica due elementi: purezza e carità, una carità assorbente e riassorbente in sé la giustizia. Purezza! e la purezza è il rispetto al proprio corpo, è la dignità della nostra condotta umana anche nel momento in apparenza più brutale della nostra vita. – C’è chi si lascia degradare nel suo corpo dalle ignobili passioni, dai miseri istinti di esso; ma c’è chi solleva e nobilita tutto questo: c’è chi possiede e domina nobilmente l’« io » inferiore e animale: trascinarlo in alto, umanizzarlo, divinizzarlo anche. È  una novità. I pagani non le pensano neppure queste belle, grandi cose, tanto sono lontani dal farle. Hanno evertito Dio, poveri pagani! È stata la prima forma di avvilimento e il principio funesto di tutte le altre. Mancò il punto a cui rifarsi, quasi sospendersi, e si rotolò in basso. San Paolo esprime lo schifo, il ribrezzo dei costumi pagani, corrotti e crudeli. Sono le due forme di bestialità su cui egli insiste e dalle quali scongiura i Cristiani di guardarsi, suggerendo le formule dell’onore: custodire onorato anche il proprio organismo, custodendolo santo. « Mori potius quam fœdari: » morire prima di disonorarsi, la cavalleresca formula ci torna alla memoria come una formula di sapore e di origine cristiana. L’onore non è più una convenzione, un quid di cui sono in qualche modo arbitri gli altri e che contro gli altri dobbiamo eventualmente difendere, è invece un quid di cui siamo arbitri noi stessi e che dobbiamo difendere contro gli istinti vergognosi degeneranti: difenderlo in nome e per l’onore stesso di Dio. Il mondo non farà che riprendere questa idea dell’onore per falsificarla strappandola al suo ambiente sacro, laicizzandola. Noi siamo i custodi vigili. Sdegnosi, colle opere più che con le parole, proclamiamo il programma: « mori potius quam fœdari ». Non tutto è perduto, nulla è perduto quando è salvo l’onore.

 Graduale

Ps XXIV: 17-18

Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,

[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]

Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.

[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]

Tractus Ps CV:1-4

Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus.

[Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]

Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?

[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]

Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.

[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]

Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo.

[Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt XVII: 1-9

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”

[In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, e Giacomo, e Giovanni, suo fratello, e li menò separatamente sopra un alto monte; e fu dinanzi ad essi trasfigurato. E il suo volto era luminoso come il sole, e le sue vesti bianche come la neve. E ad un tratto apparvero ad essi Mosè ed Elia, i quali discorrevano con lui. E Pietro prendendo la parola, disse a Gesù: Signore, buona cosa è per noi lo star qui: se a te piace, facciam qui tre padiglioni, uno per te, uno per Mosè, e uno per Elia. Prima che egli finisse di dire, ecco che una nuvola risplendente, li adombrò. Ed ecco dalla nuvola una voce che disse: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra, ed ebbero gran timore. Ma Gesù si accostò ad essi, e toccolli, e disse loro: Alzatevi, e non temete. E alzando gli occhi, non videro nessuno, fuori del solo Gesù. E nel calare dal monte, Gesù ordinò loro, dicendo: Non dite a chicchessia quel che avete veduto, prima che il Figliuol dell’uomo sia risuscitato da morte.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

CREDO LA VITA ETERNA

Quando Gesù per la prima volta disse ai suoi Apostoli che in un giorno non lontano l’avrebbero messo in croce, essi furono presi da una grande delusione e da un grande abbattimento. Che Figlio di Dio era, se si lasciava schiacciare dai suoi nemici? Dov’era dunque il suo Regno per il quale avevano abbandonato e casa e famiglia e tutto? – Il Maestro comprese ch’era necessario sollevarli di coraggio. Ne scelse tre: Pietro, perché era il capo; Giacomo, perché era il primo degli Apostoli che sarebbe stato ucciso; Giovanni perché, essendo l’amico del cuore, lo voleva vicino in ogni segreto. Con loro salì un’alta montagna, e arrivò sulla cima che già spuntavano le prime stelle della sera. Come suo costume, Gesù si pose a pregare: e i tre, rimasti a qualche passo di lontananza, vinti dal sonno, dormivano sull’erba. Quando si risvegliarono, si trovarono davanti agli occhi uno spettacolo meraviglioso: Gesù era trasfigurato. Il suo volto raggiava come il sole, le sue vesti scintillavano come il riverbero della neve; ai fianchi Mosè ed Elia discorrevano con Lui, in un momento in cui i tre personaggi fecero per andarsene, Pietro gridò: « Maestro, com’è bello star qui! Piantiamo tre tende, e non scendiamo più al basso ». Il suo desiderio non fu accolto. Parlava ancora che già una nuvola di luce abbagliante avvolgeva tutti, e da essa risuonò una voce che abbatté gli Apostoli con la faccia contro terra: « Questi è il mio Figlio diletto! ». I tre, che stavano ancora prostrati, sentirono una mano che li toccava sulla spalla. Era Gesù; ma solo, con la faccia d’ogni giorno, col suo povero mantello di lana. «Vi raccomando — diceva — di non dir niente a nessuno finché non sarò risuscitato da morte ». Sull’onda di gioia che li ricolmava, tornò a galla il triste pensiero della morte. Ma ora non si scandalizzarono più, benché ancora non comprendessero bene. I nemici potranno mettere in croce il Figlio dell’uomo, ma non potranno spegnere l’immensa luce ch’Egli nascondeva sotto le umane apparenze. Questa luce avrebbe saputo ridare la vita al corpo esanime del Crocifisso. – Giovanni si ricorderà del volto sfolgorante di Gesù nell’ora del Calvario quando lo vedrà sfigurato di sputi e di sangue: e crederà che quella faccia agonizzante è quella del Figlio di Dio. – Giacomo si ricorderà d’aver visto e d’aver udito Mosè ed Elia, vivi e gloriosi benché morti da secoli, e senza paura curverà la testa sotto la spada di Erode Agrippa (Atti, XII, 2). Anch’egli andava a vivere nella gloria di Mosè e di Elia ai fianchi di Cristo. Anzi (lo racconta Eusebio, Hist. eccl., II, 9) era tanta la certezza d’entrare nella vita eterna, che il volto gli raggiava come se fosse già un poco trasfigurato. Sicché, colui che l’aveva trascinato al tribunale, vedendolo, credette e confessò d’essere egli pure Cristiano. Entrambi furono menati al supplizio, e, strada facendo, colui pregò Giacomo a perdonargli. L’Apostolo rifletté un momento. « La pace sia con te » gli disse poi e l’abbracciò. Un medesimo colpo staccò insieme due teste. Il ricordo della trasfigurazione sul Tabor non si cancellò più neppure dalla mente di Pietro, che ai primi Cristiani scriveva: « Figliuoli, la vita eterna non è una favola. Ce l’ha rivelato nostro Signore Gesù Cristo, il quale è il Figlio di Dio. Io con questi occhi l’ho visto trasfigurato nella gloria del Padre, io con queste orecchie ho udito la voce che lo proclamava Figlio diletto; proprio io, una volta che mi trovavo con Lui sulla montagna » (II Petr., I, 16-18). Non è solo per i tre Apostoli che Gesù s’è trasfigurato sul Tabor; ma anche per tutti noi. Per dare anche a noi una testimonianza della sua gloria di Figlio di Dio, gloria che tiene preparata per tutti i buoni Cristiani dopo la morte; per dare anche a noi la forza di combattere e di soffrire per amor del Paradiso. Che cos’è la vita eterna? Che conto ne facciamo? – CHE COS’È LA VITA ETERNA. Vedere Dio proprio come è; amare Dio come sulla terra si può amare un padre e una madre; godere quel che gode Dio, infinitamente quindi, senza più dolori; vivere con la sua stessa vita, cioè per sempre, senza esaurimenti, malattie, o morte. Cose che si possono dire ma non capire: sono troppo più grandi di noi. Può un bambino in fasce capire com’è la vita e la gioia di suo padre? No. Tanto meno possiamo capire noi, povere formicuzze, com’è la vita e la gioia di nostro padre Iddio, di cui un giorno Egli ci farà partecipi. A S. Paolo il Signore concesse di gustare per un momento un poco di Paradiso, ma non trovò parola che bastasse ad esprimere quella beatitudine: « Nessun occhio d’uomo ha mai visto ciò che io vidi; nessun cuore d’uomo ha mai gustato ciò che io gustai. Ebbene, lo tiene preparato per tutti quelli che l’amano » (I Cor., II, 9). Questo grido d’impotenza di San Paolo è la più commossa ed eloquente evocazione della vita eterna. – S. Caterina di Siena non sapeva scrivere. Un giorno ha una visione in cui le vien rivelato pallidamente un lembo di Paradiso. Un tale impeto di gioia la invade che prende una penna e d’improvviso scrive: lei, ignara d’alfabeto. Un’altra santa dello stesso nome, S. Caterina Vigri di Bologna, non sapeva musica né mai aveva preso tra le mani uno strumento. Essa è gravemente ammalata, è sul punto di morire. Dio le concede una primizia della vita eterna che l’aspetta. Le pare allora di trovarsi in un prato verde e fiorito, dov’era il trono del Re del Cielo, circondato da zone di santi, da aureole fiammanti d’Angeli. Accanto al trono vide la Vergine e dinanzi stava Davide in atto di cantare. Caterina sentì solamente queste parole del Salmo: « …et gloria eius in te videbitur ». Ritornata in sé, la santa moribonda afferra un piccolo liuto, e suona e canta miracolosamente, lei ignara d’ogni musica. Nel suo convento le monache conservano ancora quel liuto come reliquia. Se il fiume di gioia che letifica la città di Dio, spruzzando con una sola goccia l’anima nostra, la trasforma così miracolosamente, che sarà quando tutto il fiume, non appena una goccia, inonderà l’anima nostra? Quando avremo non questa carne pesante e incurvata al male, ma un corpo trasfigurato come quello di Cristo sul Tabor, adatto cioè a gustare quella gioia infinita? – CHE CONTO NE FACCIAMO. Nessuno può entrare nella vita eterna, se essa prima non entra in lui. E deve entrare in lui come luce nella sua mente, come forza nelle sue azioni. Che vale ripetere ogni giorno « credo nella vita eterna », se poi non se ne fa nessun conto nella maniera di pensare, nella maniera di agire? – Luce nella mente, perché il pensiero della vita eterna deve essere la stella a cui son volti i nostri pensieri. L’operaio che torna al sabato stanco dal lavoro, ma contento perché tiene in tasca la buona paga che ha meritato, deve pensare: « E in questa settimana che cosa ho guadagnato per la vita eterna? » – La madre di famiglia che si reca a riposo lieta perché ha provveduto all’educazione sana e intelligente dei suoi figliuoli, deve pensare: « E ho provveduto anche per la loro educazione alla vita eterna? Ho insegnato loro, mane e sera, a congiungere le mani, a pregare? ». L’uomo che va alla banca a deporre il frutto dei suoi risparmi, deve pensare: « E alla banca della vita eterna che cosa depongo? Che cosa ho dato in elemosina ai poveri e alle opere buone? » L’ammalato che soffre, che forse non potrà più riavere la salute o l’uso di qualche membro, pensa alla vita eterna e si consola. Anche il vecchio che sente ormai prossima la fine della vita, non si lascia prendere dalla cupa tristezza, ma pensa alla vita eterna e purifica la sua coscienza. « Ah tu non sai questa cosa atroce che ai vecchi avviene: uno specchio, e la  desolazione di vedersi ogni giorno più finiti!… » ha scritto in un suo lavoro un grande drammaturgo vecchio e senza fede. (Luigi Pirandello, in Quando si è Qualcuno). – Ma S. Paolo che credeva nella vita eterna e si sentiva quaggiù come un nomade in viaggio verso la città celeste, scrisse: « Abitiamo come sotto una tenda né ci deve rincrescere che si sfasci: Dio ci tiene preparata una dimora nei cieli, non costrutta da mano d’uomo né soggetta alla lima del tempo » (II Cor., V, 1). – Forza nelle azioni. Chi dava forza a S. Stefano di morire, così giovane e così tranquillo, sotto la crudele sassaiola? La vita eterna. « Io vedo i cieli aperti… » . S. Carpo vescovo d’una città d’Asia, vecchio e tremante, fu messo in croce: sorrideva tra gli spasimi. « Chi ti fa sorridere?» gli dicevano. Rispose. « Vedo la gloria di Dio e il cuore trasalisce di gioia ». Come facevano i Santi — domandano molti Cristiani — a vivere così puri, a digiunare così a lungo e così aspramente, se a noi riesce troppo difficile compiere un fioretto, astenerci dal grasso al venerdì, fuggire la sensualità del pensiero, della parola, della azione? La musica della vita eterna infondeva in loro meravigliose forze. – Sì legge di S. Nicola da Tolentino che mentre pregava di notte spesso udiva gli Angeli cantare. E tanta dolcezza gli inteneriva il cuore che sospirava: « Desidero di morire e stare con Gesù » (Brev. Ambr., 10 sett.). – Quando l’eco di questo concerto arrivava al beato Cafasso questi gridava: « O Paradiso! O Paradiso! chi pensa a te non conosce stanchezza ». Ora possiamo comprendere perché nelle cose della Religione siamo sempre stanchi e annoiati: perché non pensiamo abbastanza al Paradiso; perché non ci fermiamo mai ad ascoltare l’eco di quella divina musica.- Un poeta inglese (Wordsworth in The Excursion) racconta di un fanciullo in viaggio verso l’oceano che non ha mai visto, e da cui è misteriosamente attratto. Cammina lungo i fiumi, attraversa deserti e foreste. Quando la stanchezza lo prende o un pericolo lo spaventa o la solitudine lo scoraggia, allora mette al suo orecchio una conchiglia; tosto il suo viso si illumina di gioia, e novello ardimento gli corre in cuore. In quella conchiglia egli ode il lontano murmure del mare che lo chiama. Anche noi siamo fanciulli in viaggio verso l’oceano della vita eterna, che non abbiamo ancor visto ma da cui siamo misteriosamente attratti, perché creati per essa. – Camminiamo in mezzo ai pericoli e alle difficoltà di questa vita. Se talvolta le passioni o le tribolazioni staranno per stancarci, o per abbatterci, ricordiamoci allora di mettere al nostro orecchio, come conchiglia, qualcuna delle parole del Signore, dove c’è murmure della vita eterna che ci aspetta. Questa ad esempio: « Io vado a preparare un posto: per te ». (Giov. XIV, 2). Quest’altra: « Coraggio; che il tuo nome è scritto nel cielo » (Lc., X, 20). Sentiremo così gioia e ardire nel camminare sulla via diritta dei comandamenti e dell’amore fino alla meta suprema.

Domine, bonum est hic esse! Che cosa vedevano i suoi occhi, che cosa godeva la sua anima, quando Pietro gridò così: nemmeno lui avrebbe potuto poi dirlo, perché le gioie del Paradiso sono inesprimibili. Chissà però quante volte nella vita si sarà ricordato di quell’ora fugace! Nei momenti di tentazione, di tribolazione, di martirio, con la sua fantasia sarà ritornato sulla cima di questo monte, per ritrovare il coraggio di lottare e di sopportare fino alla fine. « Coraggio Pietro! — si sarà detto; — quello che hai gustato per un’ora, potrai gustarlo per un’eternità. Spera e avanti! ». Se anche noi avessimo una così viva speranza e ci potessimo dire: « Quello che San Pietro ha gustato per un’ora, io pure potrò gustare per l’eternità » non è vero che ci sentiremmo più forti nella tentazione e nella sofferenza? Gli è che al Paradiso ci crediamo scialbamente, e non lo desideriamo mai. E pensare che Dio, benché onnipotente e infinito nel suo amore, non poteva prepararci un dono più grande e più bello. – Che cos’è il Paradiso? È una gioia tanto grande e tanto bella, che quaggiù non riusciremo mai a capirla. Immaginate — scrive S. Gregorio Magno ne’ suoì Dialoghi — un bambino che sia nato e cresciuto in una sotterranea prigione: egli non ha mai visto un raggio di sole, non sa che siano le stelle, ignora la bellezza d’un paesaggio invaso dalla luce diurna, o tremante sotto il pallore lunare. Ebbene, la sua madre che sta nella prigione, accanto a lui, vuole istruirlo sulle bellezze del mondo. « Figlio mio, se tu sapessi come è raggiante di splendore il sole! È simile alla fiamma della nostra lampada, ma più grossa, grossa così che illumina da per tutto ». Poi gli mostra una foglia secca e marcia, rinvenuta in quel fondo a caso, gliela mostra dicendo: « Figlio mio, se tu sapessi quante foglie ci sono lassù! d’ogni colore, d’ogni forma, d’ogni profumo. Son vive, attaccate a rami con fiori e con frutti squisitissimi: se passa il vento fremono come una canzone, se scotta il sole danno frescura ed ombra ». Il fanciullo ascolta; sgrana gli occhi, sogna: ma non riesce ad immaginarsi nulla. « Così, conclude San Gregorio, è di noi: la nostra santa madre, la Chiesa, si sforza di insegnarci le gioie del cielo, ma noi che non abbiamo esperienza alcuna di esse, non possiamo comprendere. » Se quaggiù non possiamo comprendere il Paradiso, dobbiamo con desiderio sperarlo, e con tutte le energie conquistarlo. Mettiamoci davanti agli occhi l’eterno premio del cielo: nella tentazione sapremo lottare con forza. nella tribolazione sopportare con pace. – LOTTARE CON FORZA. Quando il prigioniero si ricorda della libertà perduta, morde con rabbia la sua catena e si sforza per romperla; quando l’ammalato, nell’arsura della febbre, nello strazio del delirio, si ricorda della sanità perduta, piange e chiama il medico che lo guarisca anche con la medicina amara e con il ferro tagliente; quando il navigante, in mezzo all’oceano burrascoso, si ricorda della sua patria lontana, del suo paese bello, della sua casa raccolta nel tepore della sua famigliola, sospira e giura di tornare presto e non partire più. Oh se il peccatore che da anni è prigioniero di satana, pensasse al Paradiso che ha perduto! Oh se il peccatore febbricitante di passione, straziato dai vizi si ricordasse dell’eterna felicità che s’è gettata dietro le spalle! Oh se l’uomo che naviga lontano dal Signore, per l’oceano dell’iniquità, pensasse al Cielo, la dolce patria eterna dove l’attendono i suoi genitori morti da un pezzo, ove si raccoglieranno i suoi figliuoli, ove si ricostruirà una famiglia nuova nel bacio di Dio! Tutti quelli che sperano il Paradiso, hanno in cuore una grande forza per lottare contro il demonio, per infrangere ogni legame, per tornare verso la libertà, la salvezza, la casa. – Un giovane da parecchi anni viveva di stenti e di umiliazioni amare: di padrone in padrone, era stato costretto a fare il guardiano di porci. Vestito di cenci, mal nutrito fino ad invidiare le ghiande de’ suoi animali, tutto il giorno era fra i grugniti e di notte dormiva sul giaciglio duro della stalla: povero figliuol prodigo! Ma ecco gli punge in cuore l’amore di suo padre, ecco gli passa davanti agli occhi la visione della sua casa lontana: quanto doveva star bene suo fratello, amato, accarezzato dal genitore; quanto dovevano essere felici in quel palazzo perfino i servi! Vesti decenti per tutti, vivande squisite a sazietà, scale di marmo e sale ariose, musica deliziante. A questo pensiero non sa più resistere e grida: « Surgam et ibo! ». Getta il bastone, lascia l’immondo gregge, e corre attraverso i campi e le siepi, verso suo padre, verso casa sua. – Ora potete comprendere perché tanti altri giovani si sdraiano nei peccati, fra il gregge immondo delle passioni impure, schiavi di un padrone che li umilia e li perseguita; essi non pensano mai all’amore di Dio Padre, alla casa celeste ove è abbondanza di ogni gioia. Infelici! hanno un tenerissimo Padre e vivono con l’aguzzino, hanno preparato una città di pietre preziose e vivono nel fango dei porci. – Quando il popolo d’Israele viveva nella schiavitù del Faraone d’Egitto e tutto il giorno lavorava a fabbricare e a trasportare mattoni e poi la sera veniva flagellato per paga, dove ha trovato la forza per ribellarsi a fuggire? « Popolo d’Israele – andavano ripetendo Mosè e Aronne, — Il Signore ci promette una terra buona assai, dove abitarono i nostri padri antichi dove gli alberi stillano miele e i fiumi scorrono come il latte ». Con questo desiderio nel cuore si sentirono capaci di fuggire, di traversare il mar Rosso, di percorrere il deserto. E come furono in cospetto della beata regione, per rincuorarli a combattere con forza e coraggio, vennero a loro mostrati alcuni frutti di quella terra: un grappolo d’uva che a portarlo occorsero due uomini con una stanga, e anche delle melagrane e dei fichi (Num.; XIII, 24-25). Ma io vorrei domandare schiettamente a ciascun di voi: « Quante volte in un mese, in un anno pensate al Paradiso?… ». Non c’è quindi da meravigliarsi, se nei momenti di tentazione, quando si tratta di scegliere fra una manciata di palanche mal guadagnate ed il Paradiso, si sacrifica il Paradiso; fra una creatura ed il Paradiso, si sacrifica il Paradiso; fra una passione di superbia o di lussuria, si sacrifica il Paradiso, – S. Filippo Neri quando gli offrirono la dignità cardinalizia, sentendo forse stimoli d’orgoglio in fondo al cuore, gettò in alto la berretta gridando: « Paradiso! Paradiso! ». E rinunciò ad ogni grandezza umana. – SOPPORTARE CON PACE. Udite un esempio che già raccontava fin da’ suoi tempi S. Leonardo da Porto Maurizio. Viveva in una cella oscura come una tomba un santo religioso, e spendeva la sua vita in opere di carità, in aspre discipline, in rigidi digiuni, in notturne preghiere. Andarono a fargli visita alcuni signori del mondo, e rimasero quasi spaventati di tanta austerità: « Come potete resistere anche un giorno solo voi qui? ». « Mettetevi alla finestra della mia cella », rispose l’uomo di Dio « e poi comprenderete ». Essi ubbidirono. « Ebbene! — aggiunse — che cosa vedete? ». « Nient’altro che una vecchia muraglia tagliata in quadro e attraverso il taglio un angolo di cielo largo come il palmo di una mano ». « È appunto questo piccolo angolo di cielo rispose il servo di Dio — che ha fatto tutta la mia pace e la mia consolazione. Ogni volta che la tristezza assale l’anima mia, io getto uno sguardo per la finestrella verso il cielo. Ah, Paradiso, Paradiso! nome caro al mio cuore ». E mentre diceva così, quei signori videro la sua faccia trasfigurarsi nell’estasi. O Cristiani angustiati da cupi pensieri, levate lo sguardo al cielo: le vostre rughe si spianeranno, i vostri crucci si dissolveranno. Voi madri, che dite di non aver più forza né pazienza a sopportare la croce, levate lo sguardo al cielo: tutto là è contato, anche il più lieve respiro; tutto là sarà ricompensato con infinita sovrabbondanza. – E gli ammalati, costretti nel letto da mesi, chiusi nelle corsie degli ospedali da anni, guardino attraverso la finestra l’azzurro che splende davanti ai loro occhi come una grandiosa promessa, nella loro anima ringiovaniranno e sentiranno nuova pace a sopportare, quasi fossero al primo giorno di sofferenza. – Mai come oggi ci sono al mondo tanti scoraggiati, tanti disperati, perché mai come oggi gli uomini hanno dimenticato il Paradiso. Si attaccano mani e piedi ai beni fugaci e falsi di quaggiù: poi viene la tribolazione, la calunnia, la miseria, la malattia e, sentendoseli sfuggire e svanire, piangono di rabbia, gridano d’imprecazione. In alto i cuori! Lassù è la vita eterna! Lassù è la mèta vera dei nostri desideri! – Contardo Ferrini, come confratello della Conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli, visitava un vecchio povero, solo, infermo. Nel ripartire il vecchio lo ringrazia e gli dice: « È un soffio questa vita! Possa almeno con questa guadagnarmi la vita eterna … » . Il santo professore fu commosso da tanta pace e rassegnazione e pensò che se a quel cuore non avesse sorriso la speranza del Paradiso, sarebbe stato il cuore d’un infelice (C. FERRINI, Pensieri e preghiere, pag. 12). – Giovane, sano, intelligente, ricchissimo, rinunciare al marchesato che gli spettava per diritto di successione!?… È inconcepibile, se non in un pazzo. Eppure San Luîgi questo ha fatto il 2 novembre 1585. E non era pazzo. A quelli che lo guardavano con occhi di incomprensione, con parole di compatimento, Luigi quasi ridendo rispondeva: «Io vi dico che voglio andare ad acquistarmi una corona in cielo… ».

– Il mistero della trasfigurazione di Gesù è simbolo della nostra trasfigurazione. Ogni umana creatura ha in sé l’immagine divina del nostro Creatore, come un blocco di marmo contiene già la figura artistica che la mano di un Michelangelo estrarrà in statua perfetta. È questa l’immagine in cui noi dobbiamo trasformarci. « Diventate perfetti come è perfetto il Padre mio che sta in cielo » dice Gesù nel Vangelo; e S. Paolo scrive: « Rivestitevi di Cristo » Induimini Christum. Come il volto di Cristo e le sue vesti erano luminose, così anche i nostri pensieri e le nostre parole e le nostre azioni devono risplendere di luce davanti agli uomini, per dar gloria a Dio Padre. Chi non comincia questa trasfigurazione qui in terra, non arriverà mai alla completa trasfigurazione del Paradiso, quando la nostra faccia sarà davvero fulgida come il sole e il nostro manto candido come la neve, quando ci sarà dato d’innalzare per noi una tenda eterna, ove godremo tutta la gioia senza confine. « Come devo fare per trasfigurarmi? » domanderà qualcuno. Non è cosa complessa, risponderò. Occorrono soltanto due cose: la preghiera e la fatica. Non vi siete accorti che Gesù si è trasfigurato mentre pregava? E non avete badato che prima di trasfigurarsi Gesù ha scalato le rocce scabre del monte, ed anche in alto parlava di patimento? La preghiera e la fatica sono le nostre armi, e tutta la nostra vita; la preghiera e la fatica sono anche i due pensieri che vi voglio dire ora. – LA PREGHIERA E LA TRASFORMAZIONE. Più d’una volta mentre pregava, S. Filippo Neri fu visto raggiare dalla persona una soavissima luce, e staccarsi da terra e rimanere sollevato, come se il suo corpo più non pesasse. Questa meravigliosa trasfigurazione che la preghiera compie talvolta nel corpo dei Santi, sempre la compie nelle anime nostre quando preghiamo fervorosamente con fede e con umiltà. 1) Essa riempie di luce la nostra mente. — Mosè scendendo dal Sinai, poiché aveva parlato con Dio, aveva la mente così piena di splendore che due raggi gli uscivano dal capo simile a due fulgidissimi corni. Anche noi, quando preghiamo veramente e non soltanto pronunciamo macchinalmente le parole come grammofoni, ascendiamo ad un colloquio con Dio. È il Creatore che ascolta la nostra umile voce, che accoglie i sospiri dolenti del nostro cuore, che accetta i nostri desideri. Gli uomini del mondo se riescono a parlare con il Re, si fanno fotografare e poi lo annunciano su tutti i giornali: ma noi abbiamo la fortuna di parlare con Dio, il Re dei re, ad ogni momento, sempre che lo vogliamo. Come è stato buono il Signore a darci la preghiera! Come siamo ignoranti e distratti a farci rincrescere di pregare! – S. Tommaso quando aveva qualche difficoltà, pregava e subito nella sua mente si faceva luce. Così facciamo anche noi: quando abbiamo dei fastidi per la testa preghiamo ed avremo la calma; quando abbiamo tentazioni tormentose, preghiamo ed otterremo la vittoria; quando abbiamo dei dubbi sulla religione preghiamo ed otterremo la fede. 2) Essa riempie di luce le nostre azioni. — Una novizia bussa alla porta ed entra nella cella di S. Teresa del Bambino Gesù. Nel vano della finestra, ella sta cucendo un lavoro assai lestamente, quasi le urgesse di finirlo: ma la squallida stanzetta è inondata d’un tepore e d’un profumo primaverile, ma nel suo volto trema una gran gioia diffusa. La novizia rimane meravigliata come davanti a una visione: « A che pensa? » osò domandare. « Medito il Pater » rispose « È così dolce chiamare Dio Padre nostro… » e nei suoi occhi brillavano le lacrime. –  3) Essa riempie di luce il mondo intero. — S. Antonio, nato nel 251 a Coma da famiglia ricca, visse 70 anni nel deserto. Dormiva sopra una stuoia rozza, o addirittura in terra; campava d’acqua e di pane soltanto, e digiunava anche fin quattro giorni di seguito. Una volta andò a trovarlo un sapiente e gli domandò come potesse sopportare quella solitudine senza libri. Rispose: «Il mio libro è la natura delle cose create da Dio. Esse da sole, quando prego, mi schiudono i libri divini ». – Cristiani, quando pregate non è vero che tutto il mondo vi pare più bello e incita a pregare di più? Gli uccelli col loro gorgheggio, i fiumi coi loro mormorii, le stelle lucenti e pellegrine nel cielo, i monti verdi vicino e azzurri lontano, i fiori dei campi e dei giardini, tutto in una parola ci solleva e ci consola. Ecco perché tutte le cose S. Francesco chiamava fratelli e sorelle. – LA FATICA E LA TRASFIGURAZIONE. Buio ancora, fece passare tutta la sua gente al di là del torrente, gonfio e sonante; al di qua delle acque rimase egli solo: Giacobbe. Ma ecco staccarsi dalle ombre del bosco un uomo e venire minaccioso contro di lui: il torrente gli proibiva la fuga. Allora cominciò una lotta, corpo a corpo, terribile. Già il primo lume del mattino rideva sulla punta degli alberi e Giacobbe, non vinto, restituiva colpo a colpo, con forza rinnovellata. Lo straniero, stanco ormai, gli disse: « Lasciami andare: che già viene l’aurora ». Gli rispose il valido ebreo: « Non ti lascerò senza che tu mi benedica ». « Per benedirti, qual è il tuo nome? ». « Giacobbe ». – « Non soltanto Giacobbe ti chiamerai, ma anche Israele, ossia colui che ha saputo combattere la lotta con Dio ». Così detto, sparve come una nuvola leggera che si dissolve sopra la guazza mattutina. Era un Angelo (Gen., XXXII, 21-31). – Riconoscete l’Angelo di Dio che viene a lottare con noi: se vogliamo trasfigurarci, non dobbiamo vigliaccamente ricusare la fatica. Prendiamo il Crocifisso, e baciandolo, come cavalieri antichi baciavano la loro spada, diciamo così: « Gesù mio, avete lavorato e pianto abbastanza durante trentatré anni passati su questa terra. Oggi riposatevi. Tocca a me a combattere e a soffrire ». Tocca a me a combattere ed a soffrire, dovete ripetere anche nelle fatiche spirituali, quando non riuscite a domare il vostro carattere, quando vi pare impossibile strappare dal cuore quell’affetto impuro, quando siete scoraggiati nel perseguitare una passione. Senza lotta non c’è trasfigurazione. Quando sopra le punte degli anni vissuti brillerà l’aurora della vita eterna, se non avrete faticato rimarrà la vostra faccia nell’oscurità e le vostre vesti nelle tenebre infernali.

– Gesù è in mezzo a noi ma, ancora come una volta, è velato da una nube, essa è l’apparenza del pane, è la figura del suo sacerdote, la parola del Vangelo, Ma, benché velato così, non cessa di essere il Figlio diletto di Dio: e noi ascoltiamolo. « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». – UNA NUBE VELA GESÙ, PRESENTE NELL’EUCARISTIA. Un giorno, cupo e con una inquietudine che non sapeva placare, passeggia per Roma l’eretico Edoardo Manning. Gli archi, le rovine, i palazzi e tutta la gloria d’un mondo passato e d’un mondo che passerà, non gli avevano lasciato in cuore che amarezza e vuoto. Finalmente stanco, entrò nella chiesa di S. Luigi de’ Francesi: in mezzo a tremanti fiamme, in alto, nel silenzio, era esposta la piccola ostia bianca. Curvo giù nella chiesa qualche uomo adorava, qualche povera donna piangeva la sua pena. Edoardo che non credeva all’Eucaristia, alza gli occhi e rimane estatico: ma poi comincia a tremare e cade in ginocchio, e piange, egli ricco e sapiente, vicino alla povera donna ignorante. « Quanta pace, o Signore » esclama « essere davanti a te! Le parole di Pietro sul Thabor. – Che cos’era accaduto? Certo nel suo cuore travagliato da tante passioni, davanti a Gesù velato nella S. Eucaristia s’era fatta sentire la voce del cielo: « È il mio Figlio diletto: ascoltatelo ». E pochi giorni dopo, da anglicano si faceva cattolico e divenne il celebre Cardinale Manning. – E non è vero che la medesima voce, Dio la fa sentire a noi pure davanti al Tabernacolo? E perché allora, o Cristiani, tante scompostezze nella Chiesa? Perché tanta freddezza nelle Comunioni, perché troppa dimenticanza? Dei mesi, degli anni senza cibarsi di questo Pane quotidiano soprasostanziale? Perché tanto rispetto umano nell’inginocchiarci fino a terra, se lo incontriamo per via? « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». Ma se ora non lo vogliamo riconoscere, perché nascosto dietro la nube eucaristica, Egli non ci riconoscerà quando disvelato nella sua gloria, ci sarà davanti a giudicarci. – UNA NUBE VELA GESÙ PRESENTE NEL SUO SACERDOTE. Nel secolo scorso, secolo di ateismo e di corruzione, la Francia ha visto uno spettacolo strano. Erano uomini sapienti, che dopo aver consumata la vita sui libri, cercavano la verità in un povero paesello, ad uomo ignorante; erano uomini scoraggiati e afflitti che invano avevano cercato altrove la parola del conforto; gente, forse precipitata di burrone in burrone fino in fondo dell’abisso e della depravazione, che chiedeva una mano che la risollevasse; erano principi, erano prelati della Chiesa; erano ricchi; erano poveri; erano studiosi; erano ignoranti; era una folla che ogni giorno cercava il parroco d’Ars. Chi era quest’uomo che affascinava il cuore? Il sacerdote: l’umile, il povero, il più oscuro sacerdote di Cristo: ma dalle sue carni diafane dal digiuno e dalla penitenza, traspariva, come attraverso a una nube candida, la figura di Gesù, Sacerdos est alter Christus. « Rimarrò con voi fino alla fine dei secoli » disse Gesù, e rimase nella persona del sacerdoti. « Questo è il mio corpo… » dice il sacerdote consacrando, perché egli è Gesù. « Io ti assolvo… » ci dice nella confessione: ma chi può assolvere se non Gesù? E allora ecco il divin Padre davanti al Sacerdote dice: « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». Quanti non ascoltano il sacerdote! quanti lo disprezzano e lo perseguitano!… infelici: perseguitano Gesù. – UNA NUBE VELA GESÙ PRESENTE NEL SUO VANGELO. È il Vangelo che ci dipinge davanti agli occhi la divina figura del Salvatore: tutta la vita di Gesù, tutta la sua passione nel Vangelo è come rifatta sotto ai nostri sguardi. Nel Vangelo ci sono le parole più belle di Gesù, e la sua voce divina attraverso alle parole palpita ancora, discende nei cuori, e noi la riconosciamo. Perciò, additando il Vangelo, il divin Padre dice: « É il mio Figlio diletto che parla: ascoltatelo ». « Ipsum audite ». E lo ascoltò Francesco d’Assisi, quando giovanetto ancora s’era addormentato sulla bianca strada della Puglia, sognando le imprese guerresche, e qualche gesta onorevole: « Francesco, diceva Gesù con la parola del Vangelo, è da più il servo o il padrone? ». «Il Padrone» rispose Francesco e balzò in piedi per correre dietro il Padrone. – E lo ascoltò Francesco Saverio quando elegante, nobile, ricco, intelligente, sognava una vita piena di lusinghevoli onori e di gioie. « Che cosa importa all’uomo, gli diceva Gesù con la parabola del Vangelo, se guadagnasse anche il mondo intero e poi perdesse l’anima? » Si scuote il nobile Saverio, e s’imbarca verso terre avvolte da mistero per salvare la sua anima e quella di molti altri. E lo ascoltarono i Santi, Gesù parlante nel Vangelo. « Va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri ». E la Calcide e la Tebaide si popolò di anacoreti. « Ipsum audite ». Ascoltate Gesù, quando dal Vangelo v’impone il suo dolce giogo, quando vi svela il valore che hanno tutte le cose mondane in confronto alle celesti. Eppure, per moltissimi Cristiani d’oggi, nessuna noia è paragonabile a quella d’un quarto d’ora di spiegazione del Santo Vangelo. – Dice la leggenda che S. Alessio, dopo tanti anni, ritornò a Roma, a casa sua, scalzo, con la tunica consumata, col bastone da pellegrino, sofferente, febbricitante appare sulla soglia: nessuno lo conosce, neppure la mamma. Ed egli gemendo chiede da mangiare e da dormire. – La madre, credendolo uno dei soliti accattoni, fece per scacciarlo, ma poi gli buttò una crosta di pane duro da mangiare e gli lasciò il sottoscala per dormire. Una notte il pellegrino morì: e la luce circonfuse il suo corpo patito e le campane da sole squillarono su tutta la città. Accorsero; e la madre riconobbe il figliuolo, ma era morto. E nello spasimo urlava: « O figlio mio morto, che non ti ho riconosciuto sotto le spoglie di un pellegrino!… ». Così diranno alcuni Cristiani in punto di morte: sotto il velo di poco pane era il mio Dio e non l’ho riconosciuto! Tra le parole del santo Vangelo parlava il mio Dio, e la sua voce non l’ho riconosciuta!…

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 47; CXVIII: 48

Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi.

[Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]

Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps V: 2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine.

[Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (196)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXXI)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

VII. — I nuovi cieli e la nuova terra.

D. Hai parlato di nuovi cieli e di nuova terra, che devono servire di dominio alla tua umanità risuscitata: che intendi con ciò?

R. Osserva anzitutto che agli eletti basta che siano rinnovati i loro occhi, perché sia rinnovato il mondo. Quale abbagliamento, se tutt’a un tratto ci apparisse, fosse pure in un lampo la danza degli astri e degli atomi! L’universo ha una realtà interiore che noi non percepiamo, e la cui scienza totale, attinta in Dio, sarà per le anime elette l’equivalente di una vera creazione.

D. Tuttavia non sarà questo un cambiamento per il mondo stesso.

R. Riguardo al mondo stesso, diciamo altamente che non può essere questione che di congetture. Queste parole bibliche: I nuovi cieli, la nuova terra, non sono commentate nel libro santo. È dunque libera la loro interpretazione. Dirò quello che mi sembra concordare meglio con l’insieme della dottrina.

D. Io non chiedo altro.

R. I nuovi cieli e la nuova terra, qualsivoglia concetto particolare se ne faccia, si offrono alla mente come una necessità ineluttabile, essendo ammesso il corpo risuscitato. Si penserà anzi che a tutta prima s’impongano; perché un corpo non è che un frammento di universo, un microcosmo ad immagine del grande, poiché offre la stessa costituzione fondamentale, senza di che gli scambi dall’uno all’altro non sarebbero possibili.

D. Tu dici però che î corpi risorti non assimilano, e che nel senso fisiologico della parola essi non vivono: non vi si ha dunque da prevedere scambi vitali tra loro e l’ambiente in cui dimorano.

R. Ciò è esatto nel campo sostanziale. Non deperendo il corpo immortale, non ha da ricostituirsi per scambio; ma esso funziona, agisce, riceve dal suo ambiente e gli dà, sotto forme del resto indefinibili per noi. Vi deve dunque essere omogeneità tra esso e quest’ambiente, e a un corpo spirituale, un ambiente spirituale è indispensabile.

D. Che cosa è un ambiente spirituale?

R. Non t’ingannare sul valore di queste parole; noi ne abbiamo spiegato il senso affatto relativo. Si tratta bensì di materia, ma d’una materia dotata di un’altra organizzazione, atta a entrare in sintesi col corpo trasformato, o piuttosto, come dicevo, prestante a questa trasformazione le sue possibilità stesse.

D. Non sei tu per il primo stupito di tali asserzioni?

R. Sarei stupito solamente di stupori troppo facili. L’essenza della materia è adesso intraveduta sotto tali forme, pare offrire una tale plasticità, si sottrae così interamente, nei suoi ultimi recessi, a ogni combinazione stabilmente invariabile, a ogni grossolano empirismo, che veramente un universo tutto diverso da questo e quasi spirituale per rapporto ad esso non ha nulla che sconcerti. Al posto del conflitto delle forze e degli scompigli che esso provoca, si concepisce benissimo un ordine, un equilibrio armonico, un adattamento spontaneo ai gesti dello spirito, e che permetterebbe a questo, come prevedeva Renan, di « prendere il governo del mondo ». Quello che non era altro che un sogno arbitrario nel pensatore, può diventare presso il credente una sistemazione legittima. Nulla si può precisare; ogni teoria diventerebbe presto derisoria; ma la direzione generale s’intravede, e ciò basta per chiudere la controversia. Invero nessuno, a nome della scienza o altrimenti, ha il diritto di accusare di falso queste magnifiche parole dell’Apostolo: La creazione stessa attende con un ardente desiderio la manifestazione dei figliuoli di Dio… nella speranza che anch’essa sarà affrancata dalla servitù della corruzione, per aver parte alla libertà gloriosa dei figliuoli di Dio.

D. Qual è secondo te, nel mondo attuale, il fenomeno più opposto a questa concezione e che il nuovo ordine di cose dovrebbe abolire?

R. Non si può rispondere che sorridendo della propria impertinenza; ma arrischiandosi si direbbe: È la degradazione dell’energia. Se è vero, come suppongono le nostre teorie termodinamiche, che un universo abbandonato a se stesso perde di giorno in giorno la sua energia utilizzabile, di modo che, restando la stessa la somma di energia, esso tende nondimeno sempre più verso una specie di nulla di attività, per l’adeguamento, il livellamento di tutti i suoi valori attivi; se questo avviene, nulla può allontanare maggiormente questo universo dalla sua « intenzione di gloria » (PAOLO CLAUDEL), vale a dire da un servizio dello spirito, e da uno spirito rilegato all’Energia suprema.

D. Bisognerebbe dunque?…

R. Che l’ambiente nuovo rappresentasse una specie di felice equilibrio dotato d’una plasticità, d’una elasticità di movimento sufficienti, ma non secondo una tendenza determinata e fatale, simile a quella che minaccia il caos al nostro universo

D. L’universo, già uscito dal caos, non deve ritornarci?

R. Noi non pensiamo che il nostro universo sia uscito dal caos. Con Renouvier, noi amiamo pensare che esso era prima ordine e adattamento allo spirito, del resto a uno spirito all’inizio della sua evoluzione, e incaricato di compiere il proprio destino aiutando il suo universo, col lavoro civilizzatore, a compiere il proprio. Checché ne sia, il fine dev’essere un ordine e un adattamento perfetto; l’universo si deve compiere in valore come tutto ciò che ha percorso normalmente il suo ciclo. Esso deve quadrare coi fini creatori relativi agli eletti, ragione d’essere delle cose. Che esso sia «pieno di anima », secondo la bella espressione di Aristotile, in grazia del suo servizio dell’anima e del suo legame sinergico con l’anima, è ciò che si profetizza legittimamente in suo favore, quando si pensa a’ suoi ultimi fini.

D. L’universo sarebbe dunque alla fine organizzato dall’anima?

R. Sì, forse, dall’anima unita a Dio col Cristo come intermediario. Si può concepire il mondo nuovo come un prolungamento dello spirito, meno sofferente, per conseguenza, di quella degradazione di valore, di quel carattere residuale in cui noi, con S. Tommaso e Bergson, abbiamo veduto l’essenza della materia. Il rialzamento terminale sarebbe allora riguardato come una specie di taumaturgia, di cui Dio sarebbe la sorgente prima, e di cui il Cristo eterno, formato di tutte le anime reincarnate solidali di Gesù e formanti con lui un solo « corpo », sarebbe l’agente immediato. L’universo sarebbe una parte dello splendore delle anime stese, splendore di Cristo che è splendore di Dio (Epistola agli Ebrei). Ciò sarebbe la redenzione compiuta, e non solo nella sua sostanza, come adesso, ma in tutte le sue espansioni. Il mondo sarebbe reso alla sua essenza celeste; i vincoli della sua materialità si scioglierebbero, per dire così, sotto l’irradiamento dello spirito, e l’ordine totale, come lo esprime S. Paolo, sarebbe istituito: Tutto sottomesso agli eletti, e gli eletti a Cristo, e Cristo a Dio.

D. È questo veramente il senso di S. Paolo?

R. Il senso di S. Paolo è soprattutto morale; ma non è illegittimo trasporlo sul piano fisico e cosmologico, e oggigiorno questa trasposizione non può sorprendere,

D. Quale attualità ti sembra che essa rivesta?

R. È la tendenza generale delle filosofie moderne di assorbire più o meno la materia nello spirito, e se spessissimo vi è eccesso, come nelle varie forme del soggettivismo, resta questo che, nel piano generale del mondo, la materia è come una dipendenza dello spirito, dipendenza immanente e congiunta nel caso del nostro corpo, dipendenza disgiunta ma strettamente coniugata nel caso dell’ambiente, che sotto certi aspetti è ancora del nostro essere. Trasporta questo nel perfetto, in cui il regno dello spirito si deve affermare molto di più, e diventa naturale il pensare che i nuovi cieli e la nuova terra di cui parla la Bibbia, saranno il risultato di una taumaturgia permanente, beatificante per l’universo, se così si può parlare, come l’intuizione di Dio sarà tale per le anime e, mediante le anime, per i corpi. La corrente non avrà più interruzione, né risucchio. Lo slancio vitale, come direbbe Bergson, ristabilirà la sua bella corrente da un’estremità all’altra, da Dio agli ultimi elementi ripresi dall’anima e a lei subordinati per riallacciarsi a Dio.

D. La tua tradizione è favorevole a queste tesi apocalittiche?

R. I Padri della Chiesa e i teologi sono soliti di presentare la gloria corporale e le sue ripercussioni come un effetto spontaneo della gloria essenziale, che è la visione di Dio. Ecco il primo termine della nostra ipotesi. S. Agostino lo esprime in questo bel testo a Dioscoro: « Dio fece l’anima di una natura così potente, che dalla sua beatitudine risulta, nella natura inferiore, il vigore dell’immortalità ». In questo testo si vede ben affermata la trasformazione effettiva del corpo mediante l’anima, quando l’anima è al contatto intimo del suo Dio. È vero che quando parlano poi dell’ambiente esterno, i dottori sembrano attribuirne l’organizzazione unicamente e immediatamente alla potenza divina. Ma non è un contradirli, bensì, credo, un completarli nella loro propria linea d’idee l’inserire l’anima tra questa divina potenza e i suoi ultimi effetti.

D. Che cosa è che, secondo te, richiede questo complemento di dottrina?

R. È che la gloria del corpo e quella dell’universo non sembrano poter procedere da causalità diverse, atteso il legame di dipendenza che abbiamo ora rilevato tra loro, e se è vero, come abbiamo pensato, che la trasformazione dell’ambiente è preliminare, essendo già necessaria a quella del corpo. Se dunque è l’anima che beatifica il suo corpo, ben inteso come strumento di Dio, per mezzo di Cristo: come non sarebbe essa che sotto le medesime condizioni, beatificherebbe il suo universo? Si possono certo vedere così le cose.

D. Non dici che l’universo attuale finirà con una catastrofe?

R. Ogni cambiamento subitaneo nell’orientamento delle forze è una catastrofe, si tratta di una salita all’ordine. Avviene come di quelle cristallizzazioni che si producono in una soluzione satura, al semplice getto di un cristallo.

D. Quale sarà qui il getto di cristallo?

R. Sarà la «seconda venuta di Cristo », cioè il segnale che Egli darà del compimento supremo.

D. Tu ricordi la tromba del giudizio?

R. Metafora evidentemente! E metafora altresì la venuta di Cristo sopra le nubi del cielo, ciò che significa che la sua potenza splenderà come la folgore nelle nubi, e sarà manifesta come un fenomeno del cielo (S. Tommaso D’Aqino). Allora appunto questa potenza, strumento della Potenza suprema, trasformerà il nostro universo dall’intimo, e, se l’interpretazione data qui sopra è esatta, farà per questo dei suoi eletti i compartecipi della sua azione.

D. Non mi hai dato la tua interpretazione della tromba.

R. Quello che ridesta i morti e riorganizza il mondo è la voce di Dio in tutto. Dico così perché io apprezzo il nobile pensiero di Mozart, che nel Requiem fa del Tuba mirum spargens sonum non uno strepito terrificante, ma una lunga melodia spirituale.

D. È veramente l’uomo Cristo che così tu fui, in unione co’ suoi, l’organizzatore del mondo?

R. Sì, come abbiamo fatto di Lui l’organizzatore dell’umanità religiosa nella Chiesa e dell’incivilimento per mezzo della Chiesa. Di lui allora e di lui alla fine, noi diciamo: « gli ereditava un mondo già fatto, eppure stava per rifarlo tutto intero » (C. Péguy).

D. E che qualificazione morale attribuisci tu a questa vita dell’universo trasformato?

R. È finalmente la vera vita, poiché è il pensiero creatore realizzato, la forma degli esseri acquistata, la fine del desiderio ottenuto, la gerarchia di tutti i valori fondata, l’attività universale lanciata nella sua via definitiva, che non è più una ricerca, un brancolamento, un tentativo così spesso combattuto, un’impresa così spesso opposta a se stessa, ma l’esercizio armonico dei poteri pienamente raggiunti, riguardo a oggetti integri essi stessi e che non si rifiutano più.

D. Tuttavia quello che noi vediamo ora è appunto l’abbozzo di questo avvenire.

R. La polvere astrale che naviga nel firmamento è come il suo seme, come il polline lucente. Fino ad ora, dice S. Paolo, la creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. Ma siccome la polvere dei morti deve lasciare il posto a creature eternamente viventi; siccome l’umanità dispersa nell’universo e le età si devono raccogliere in una sola famiglia di eletti: così alla dispersione dei mondi nell’etere succederà indubbiamente una sublime unità, creata sotto il segno dello spirito, per spiriti, ed eternamente rivelante per gli occhi aperti di tutti gli esseri le segrete armonie che il tempo ci dissimula.