UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “PROBE NOSCITIS”

Si nota con felice stupore, come pure in questa breve lettera Enciclica, inviata ai Vescovi spagnoli in occasione degli accordi della Santa Sede con i reali di quella gloriosa Nazione, a salvaguardia della libertà della santa Religione Cattolica, il Santo Padre S. S. Pio IX, riesca ad esprimere profondi concetti spirituali spronando con sapienza ispirata l’azione dei prelati in oggetto in particolare nel ripristino dei Concili provinciali e dei Sinodi diocesani « … e di consacrare costantemente tutte le Vostre cure, i Vostri pensieri, i Vostri impegni, le Vostre riflessioni a che coloro i quali si sono dedicati al ministero divino, memori della propria vocazione, indirizzino il proprio modo di vivere secondo la regola dei Sacri Canoni e della disciplina ecclesiastica, e si distinguano per la severità dei costumi, la santità della vita e il pregio della dottrina salvifica, e offrano al popolo cristiano esempi di ogni virtù, adempiano con diligenza, sapienza e pietà i doveri del proprio ministero, e si dedichino con il più grande zelo alla salvezza delle anime …». Ecco il ritornello costante in molte Lettere non solo di questo Vicario di Cristo, ma di tanti suoi predecessori e successori: lo zelo ardente per la salvezza delle anime, impegno essenziale e gravoso di ogni prelato e servo del Signore, senza il quale non c’è salvezza per nessuno, Gerarchia e fedeli laici ad essa affidati. È l’opposto degli antipapi che dal 1958 si sono succeduti truffaldinamente sulla Cattedra di Pietro, usurpandola indegnamente e propagando – con i loro pseudovescovi mai consacrati da formule invalide – errori dottrinali, liturgici, ambiguità pseudocristiane, il più spesso sottilmente gnostiche, falsi teologici, eresie e tesi già da tempo anatemizzate in Documenti ecclesiastici vari, il tutto volto alla perdizione delle anime proprie e dei sedicenti fedeli, colpevoli di ignoranza teologica la più elementare, rei di vincibilissima ignoranza con gravi ed irrisolti dubbi di coscienza trattati con noncuranza e superficialità, e perciò degni di mortale ed eterna condanna, secondo la dottrina morale approvata, di S. Alfonso M. dei Liguori. Questo zelo deve essere oggi appannaggio dei pochi prelati fedeli e dei residui laici Cattolici [il pusillus grex] in unione col Santo Padre felicemente regnante, benché impedito dalle forze del male, soprattutto – il falso profeta di apocalittica profetica memoria – da quelle insediate nel colle Vaticano e nelle sedi diocesane dell’orbe un tempo cattolico.

Pio IX
Probe noscitis

Conoscete bene, Venerabili Fratelli, quali e quante cure fin dall’inizio del Nostro Pontificato Noi ci siamo presi per ristabilire e ricomporre la situazione della Chiesa Cattolica in codesto nobilissimo Regno, e quale Accordo sia stato raggiunto, dopo lunga e faticosa trattativa, con la carissima Figlia Nostra in Cristo Maria Elisabetta, Regina Cattolica di Spagna. E non ignorate con quale interesse e intensità abbiamo voluto che, tra l’altro, fosse previsto e sancito nel suddetto Accordo soprattutto che la Chiesa potesse apertamente fruire di tutti i suoi diritti, dei quali gode per la sua divina istituzione e per la sanzione dei Sacri Canoni, e che Voi tutti, rimosso ogni impedimento, aveste intera e piena libertà nell’esercizio dei doveri del Vostro ministero episcopale. – Ma, sebbene non dubitiamo che Voi, per la singolare fedeltà alla Chiesa e per la Vostra pastorale sollecitudine, porrete ogni sforzo, ogni energia e diligenza nel difendere la libertà della Chiesa e nel tutelare i Vostri diritti episcopali, abbiamo tuttavia ritenuto opportuno incoraggiarvi a perseguire tale fine. Perciò con questa Nostra Lettera, con profondo affetto del Nostro cuore, Vi confortiamo, Venerabili Fratelli, e con insistenza stimoliamo la Vostra scrupolosità e virtù e vigilanza episcopale affinché, in considerazione dell’ufficio che occupate e della dignità della quale siete insigniti, Vi sforziate di esercitare e difendere con fermezza, costanza e prudenza tutti i punti che sono stati definiti nell’Accordo soprattutto per affermare la incolumità della Chiesa e la libertà del Vostro ministero episcopale. – E poiché, data la Vostra sapienza, sapete benissimo quanto giovi al bene della Chiesa la concordia sacerdotale e fedele degli animi, delle volontà e dei pensieri, con energia Vi esortiamo nel Signore e Vi scongiuriamo perché tutti unanimi e con identici sentimenti reciproci cerchiate di comune accordo di adottare un medesimo ed unico metodo di azione per propugnare la causa e i diritti della Chiesa stessa e per esercitare liberamente tutti gli aspetti del Vostro ufficio e del Vostro sacro ministero episcopale in conformità di ciò che nell’Accordo è stato stabilito e sancito. – Ma affinché con maggiore facilità e vantaggio si rafforzino ogni giorno di più questa tanto necessaria concordia spirituale e l’identico modo di azione, non tralasciate, Venerabili Fratelli, soprattutto in queste circostanze, di scambiarvi per lettera i Vostri giudizi specialmente sugli affari di maggiore importanza, in modo che coloro tra Voi che sono insigniti della dignità arcivescovile, dopo essersi anzitutto informati reciprocamente e consultati con cura sulle questioni, informino diligentemente i propri suffraganei sulle decisioni prese, in modo che Voi tutti, animati da quello zelo religioso per il quale eccellete, abbiate un unico e medesimo metodo, grazie al quale con energie unite e concertato impegno possiate promuovere la maggior gloria di Dio, conservare integri e inviolati i venerandi diritti della Chiesa, provvedere alla salvezza delle anime, salvaguardare intatto il libero esercizio del Vostro ministero episcopale. – E poiché, Venerabili Fratelli, sapete perfettamente e avete verificato quanto copiosi e salutari frutti il popolo cristiano riceva dalle sacre Assemblee dei Vescovi, suggerite con tanto vigore specialmente dal Sinodo Tridentino, non trascurate, dopo che Vi siate reciprocamente consultati per lettera sulle questioni più importanti, di ristabilire con ogni impegno la celebrazione dei Concilii Provinciali da tempo interrotta costì a causa delle avverse circostanze, affinché, esaminate con cura le necessità di ciascuna Provincia e assunto e fissato un medesimo metodo di azione, siate in grado, con l’aiuto di Dio, per la Vostra singolare virtù, di ricercare con prudenza, cura e sollecitudine pastorale ciò che nei popoli affidati alla Vostra vigilanza è andato perduto, di ripristinare ciò che è stato trascurato, di ricostruire ciò che è stato infranto, di consolidare ciò che si è indebolito e di adoperarvi in ogni modo perché la nostra divina religione e la sua dottrina di salvezza ogni giorno di più si rinvigoriscano, fioriscano e prevalgano in codeste regioni. – E non tralasciate di convocare anche i Sinodi Diocesani, secondo la prescrizione del medesimo Concilio Tridentino, e di consacrare costantemente tutte le Vostre cure, i Vostri pensieri, i Vostri impegni, le Vostre riflessioni a che coloro i quali si sono dedicati al ministero divino, memori della propria vocazione, indirizzino il proprio modo di vivere secondo la regola dei Sacri Canoni e della disciplina ecclesiastica, e si distinguano per la severità dei costumi, la santità della vita e il pregio della dottrina salvifica, e offrano al popolo cristiano esempi di ogni virtù, adempiano con diligenza, sapienza e pietà i doveri del proprio ministero, e si dedichino con il più grande zelo alla salvezza delle anime. I sacerdoti si adoperino a che i giovani chierici, fin dai più teneri anni, siano tempestivamente plasmati alla pietà, alla virtù e allo spirito ecclesiastico e siano con somma diligenza istruiti nelle lettere e specialmente nelle sacre discipline, lontano da ogni pericolo di errore; a che i fedeli a Voi affidati siano sempre più nutriti di parole di fede e confermati per mezzo dei carismi della grazia, crescano nella conoscenza di Dio e camminino nelle vie del Signore e non si lascino mai ingannare e indurre in errore da parte dei fabbricanti di menzogna e dei cultori di dottrine perverse. – E poiché, come ognuno di Voi intende benissimo, non vi è nulla che tanto influisca sulla integrità della società civile e di quella sacra, quanto la retta educazione della gioventù, non desistete mai dal vegliare con estrema sollecitudine perché in tutte codeste scuole, sia pubbliche, sia private, sia trasmessa la vera dottrina cattolica e perché la gioventù sia accuratamente educata ai precetti della nostra santissima religione. Certo non Ci sfugge affatto, Venerabili Fratelli, a quali e quanto gravi angustie e difficoltà sia soggetto il ministero episcopale, soprattutto in questa così grande iniquità dei tempi, e non ignoriamo che Voi dovete intensamente affaticarvi e vegliare nell’adempiere tutti gli obblighi di codesto onerosissimo ministero. Ma nessuna fatica, nessuna molestia Vi distolga mai dal dovere del Vostro ufficio; anzi, fiduciosi nell’aiuto divino, operate con coraggio per la gloria di Dio e la causa della sua santa Chiesa e per la salvezza eterna degli uomini, avendo davanti agli occhi quella immarcescibile corona di gloria che dall’eterno Principe dei Pastori e stata promessa a chi è perseverante. – Mentre Noi siamo assolutamente certi che Voi con grande generosità soddisferete a queste Nostre attese, senza alcun dubbio nutriamo fiducia che la Nostra carissima Figlia in Cristo Maria Elisabetta, per la sua avita pietà, e che i suoi Ministri, considerando quanto la nostra santissima Religione e la sua dottrina giovino alla prosperità e tranquillità dei popoli, Vi saranno di valido aiuto affinché possiate esercitare con successo e profitto tutti i doveri del Vostro ministero episcopale. – Frattanto non tralasciamo di rivolgere, nell’umiltà del Nostro cuore, fervide preghiere al Padre clementissimo delle misericordie e al Dio della piena consolazione, perché nell’abbondanza della sua divina grazia voglia sempre assistervi propizio e benedica le Vostre cure e fatiche pastorali, in modo che i fedeli affidati alla Vostra cura procedano degnamente graditi in tutto a Dio e producano frutti in ogni opera buona. – Come auspicio della protezione soprannaturale e pegno del Nostro ardente affetto verso di Voi, a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici e Laici fedeli affidati alla Vostra pietà con grande amore impartiamo di cuore la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 17 maggio 1852, nell’anno sesto del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2022)

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Paolo fuori le mura.

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Come l’ultima Domenica, e come le Domeniche seguenti, fino a quella della Passione, la Chiesa « ci insegna a celebrare il mistero pasquale, a traverso le pagine dell’uno e dell’altro Testamento ». Durante tutta questa settimana, il Breviario parla di Noè. Vedendo Iddio che la malizia degli uomini sulla terra era grande, gli disse: « Sterminerò l’uomo che ho creato… Costruisciti un’arca di legno resinoso. Farò alleanza con te e tu entrerai nell’arca ». E le acque si scatenarono allora sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. L’arca galleggiava sulle onde che si elevarono sopra le montagne, coprendole. Tutti gli uomini furono trasportati come festuche nel turbine dell’acqua » (Grad.). Non rimase che Noè e quelli che erano con lui nell’arca. Dio si ricordò di Noè e la pioggia cessò. Dopo qualche tempo Noè apri la finestra dell’arca e ne fece uscire una colomba che ritornò con un ramoscello freschissimo di ulivo. Noè comprese che le acque non coprivano più la terra. Dio gli disse: « Esci dall’arca e moltiplicati sulla terra ». Noè innalzò un altare e offri un sacrificio. E l’odore di questo sacrificio fu grato a Dio (Com.). L’arcobaleno apparve come un segno di riconciliazione fra Dio e gli uomini. – Questo racconto si riferisce al mistero pasquale poiché la Chiesa ne fa la lettura il Sabato Santo. Ecco come Essa l’applica, nella liturgia, a nostro Signore e alla sua Chiesa. « La giusta collera del Creatore sommerse il mondo colpevole nelle acque vendicatrici del diluvio, Noè solo fu salvo nell’arca; di poi l’ammirevole potenza dell’amore lavò l’universo nel sangue [Inno della festa del prezioso Sangue]. È il legno dell’arca che salvò il genere umano, e quello della croce, a sua volta, salvò il mondo. « Sola, dice la Chiesa, parlando della croce, sei stata trovata degna di essere l’arca che conduce al porto il mondo naufrago » [Inno della Passione]. La porta aperta nel fianco dell’arca, per la quale sarebbero entrati quelli che dovevano sfuggire al diluvio e che rappresentavano la Chiesa, è, come spiega la liturgia, una figura del mistero della redenzione, perché sulla croce Gesù ebbe il costato aperto e da questa porta di vita, uscirono i Sacramenti che donano la vera vita alle anime. Il sangue e l’acqua che ne uscirono sono i simboli dell’Eucaristia e del Battesimo » [7a lettura nella festa del prezioso Sangue].  « O Dio, che, lavando con le acque i delitti del mondo colpevole, facesti vedere nelle onde del diluvio una immagine della rigenerazione, affinché il mistero di un solo elemento fosse fine ai vizi e sorgente di virtù, volgi lo sguardo sulla tua Chiesa e moltiplica in essa i tuoi figli, aprendo su tutta la terra il fonte battesimale per rigenerarvi le nazioni » [Benedizione del fonte battesimale nel Sabato Santo]. Ai tempi di Noè dice S. Pietro, otto persone furono salvate dalle acque; a questa figura corrisponde il Battesimo che ci salva al presente » [Epistola del Venerdì di Pasqua]. — Quando il Vescovo benedice, nel Giovedì Santo, l’olio che si estrae dall’ulivo e che servirà per i Sacramenti, dice: « Allorché i delitti del mondo furono espiati mediante il diluvio, una colomba annunziò la pace alla terra per mezzo di un ramo di Ulivo che essa portava, simbolo dei favori che ci riservava l’avvenire. Questa figura si realizza oggi, quando, le acque del Battesimo avendo cancellati tutti i nostri peccati, l’unzione dell’olio dona alle nostre opere bellezza e serenità ». Il sangue di Gesù è « il sangue della nuova alleanza » che Dio concluse per mezzo del suo Figlio con gli uomini. «Tu hai voluto, dice la Chiesa, che una colomba annunziasse con un ramoscello di ulivo la pace alla terra ». Spesso nella Messa, che è il memoriale della Passione, si parla della pace: « Pax Domini sit semper vobiscum ». « Il sacramento pasquale, dirà l’orazione del Venerdì di Pasqua, suggella la riconciliazione degli uomini con Dio». Noè è in modo speciale il simbolo del Cristo a causa della missione affidatagli da Dio di essere « il padre di tutta la posterità » (Dom. di settuag., 6a lettura). Di fatti Noè fu il secondo padre del genere umano ed è il simbolo della vita rinascente. « I rami d’ulivo, dice la liturgia, figurano, per le loro fronde, la singolare fecondità da Dio accordata a Noè uscita dall’arca » (Benediz. Delle Palme). Per questo l’arca è stata chiamata da S. Ambrogio, nell’ufficio di questo giorno, « seminario » cioè il luogo che contiene il seme della vita che deve riempire il mondo. Ora, ancora più di Noè, Cristo fu il secondo Adamo che popolò il mondo di una generazione numerosa di anime credenti e fedeli a Dio. Ed è per questo che l’orazione dopo la 2a profezia, consacrata a Noè il Sabato Santo, domanda al Signore ch’Egli compia, nella pace, l’opera della salute dell’uomo decretata fin dall’eternità, in modo che il mondo intero esperimenti e veda rialzato tutto ciò che era stato abbattuto, rinnovato tutto ciò che era divenuto vecchio, e tutte le cose ristabilite nella loro primiera integrità per opera di colui dal quale prese principio ogni cosa, Gesù Cristo Signor nostro » Per i neofiti della Chiesa — dice la liturgia pasquale — (poiché è a Pasqua che si battezzava) la terra è rinnovellata e questa terra così rinnovellata germinat resurgentes, produce uomini risorti » (Lunedi di Pasqua. Mattutino monastico). In principio, è per mezzo del Verbo, cioè della sua parola, che Dio creò il mondo (ultimo Vangelo). Ed è con la predicazione del suo Vangelo che Gesù viene a rigenerare gli uomini. « Noi siamo stati rigenerati, dice S. Pietro, con un seme incorruttibile, con la parola di Dio che vive e rimane eternamente. E questa parola è quella per la quale ci è stata annunziata la buona novella (cioè il Vangelo) » (S. Pietro, I, 23). Questo ci spiega perché il Vangelo di questo giorno sia quello del Seminatore, ( « la semenza è la parola di Dio »). » Se ai tempi di Noè gli uomini perirono, ciò fu a causa della loro incredulità, dice S. Paolo, mentre mediante là sua fede Noè si fabbricò l’Arca, condannò il mondo e diventò erede della giustizia, che viene dalla fede» (Ebr. XI, 7). Così quelli che crederanno alla parola di Gesù saranno salvi. S. Paolo dimostra, nell’Epistola di questo giorno, tutto quello che ha fatto per predicare la fede alle nazioni. L’Apostolo delle genti è infatti il predicatore per eccellenza. Egli è il « ministro del Cristo » cioè colui che Dio scelse per annunziare a tutti i popoli la buona novella del Verbo Incarnato. « Chi mi concederà – dice S. Giovanni Crisostomo, – di andare presso la tomba di Paolo per baciare la polvere delle sue membra nelle quali l’Apostolo compì, con le sue sofferenze, la passione di Cristo, portò le stimmate del Salvatore, sparse dappertutto, come una semenza, la predicazione del Vangelo? » (Ottava dei SS. Apostoli Pietro e Paolo – 4 luglio). La Chiesa di Roma realizza questo desiderio per i suoi figli, celebrando, in questo giorno, la stazione nella Basilica di S. Paolo fuori le mura.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhæsit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos.

[Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto dimentico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis.

[O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

[“Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenti nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo”]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche,

Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

La lettura di questo lungo brano della seconda lettera di San Paolo ai Corinzi ci fa pensare alle orazioni più celebri del foro profano in difesa propria: Demostene, Cicerone. C’è tutto l’impeto di quei discorsi immortali. Nulla come un giusto amor di se stesso rende eloquente l’uomo. Ho detto giusto amor di sé, il che significa la fusione di due motivi della più singolare efficacia; l’egoismo, forza così pratica, e la giustizia, forza così ideale. Nella foga dell’autodifesa Paolo ricorda rapido, incisivo, travolgente i suoi martirii: « dall’abisso dei dolori di ogni genere che ho sofferto » si solleva ai doni celesti di che Dio lo ha letteralmente ricolmato. Quadro magnifico fatto di ombre e di luci ugualmente poderose. – Ma quando calmata la prima ammirazione che ci ha suggerito quel confronto con le pagine apologetiche anzi autoapologetiche più celebri della letteratura umana, ci si rifà a meditare il testo, si scopre una superiorità morale ineffabile dell’Apostolo sui profani oratori. Questi difendono, nelle loro arringhe fiammanti, ardenti i loro equi interessi. E l’equità toglie all’amor proprio ciò che da solo avrebbe di basso. Ma quando Paolo assume con un tono alto e sonoro, senza un’ombra di esitazione la sua difesa, egli difende una grande causa. Chiamato da Gesù Cristo a predicare il Vangelo nel mondo pagano, Paolo giudeo si gettò in questo apostolato a lui commesso con lo slancio della sua natura vulcanica; Paolo fu bersaglio immediato e poi via via crescente ai colpi di coloro che in quei giorni avrebbero voluto il Vangelo o tutto e solo o principalmente per i Giudei, e i Gentili o esclusi dal banchetto cristiano o ammessi ai secondi posti. Ire terribili come tutte le ire nazionali, che si scaldano per di più al fuoco delle religioni, roba incandescente. Per paralizzare un lavoro come quello di Paolo che essi credevano funesto, questi Cristiani rimasti più scribi e farisei che divenuti Cristiani veri, apponevano alla figura di Paolo, l’ultimo arrivato nel collegio apostolico, la figura veneranda dei veterani, dei compagni personali di Gesù Cristo, degli intemerati discepoli che non avevano come Paolo lordato mai di sangue le loro mani, sangue cristiano. Quelli erano apostoli, non costui; un aborto di apostolato. Colpivano l’uomo in apparenza; in realtà attentavano alla grande causa dell’apostolato cristiano, libero e universale. Un apostolato a scartamento ridotto essi volevano; un timido apostolato cristiano, schiavo del giudaismo, dal giudaismo tenuto alla catena. Non sentivano, né la vera grandezza della Sinagoga che era quella di mettersi tutta a servizio della Chiesa, né la vera grandezza della Chiesa ch’era quella di abbracciare il mondo. Tutto questo Paolo difende in realtà, difendendo, esaltando in apparenza se stesso. E perché tutto questo Egli difende, la sua apologia acquista un calore di eloquenza e una dignità di contenuto affatto nuovo. E perché d’orgoglio personale non rimanga neppure l’ombra, dopo che l’Apostolo ha parlato con un senso altissimo di dignità, rivendicando il suo giudaismo, dolori e glorie della sua attività apostolica, parla l’uomo. Un povero uomo egli è, e si sente, il grande Apostolo; pieno di miserie fisiche che si risolvono in umiliazioni morali. Quelle debolezze gli dicono ogni giorno ch’egli non è se non un debole strumento nelle mani del Forte, che lavora in lui per la santità interiore, per la sua apostolica propaganda, lavora la grazia di Gesù Cristo. Le sue maggiori glorie sono così le sue umiliazioni, documenti e prove del Cristo presente, « inhabitat in me virtus Christi».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram.

[Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam. Sana contritiónes ejus, quia mota est. Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc VIII: 4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres cœli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

[« In quel tempo radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo a lui da questa e da quella città, disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla, parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Parte cadde sopra le pietre; e nata che fu, seccò, perché non aveva umido. Parte cadde tra le spine; e le spine, che insieme nacquero, la soffocarono. Parte cadde in buona terra; e nacque, e fruttò cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchie da intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano, che parabola fosse questa. Ai quali egli disse: A voi è concesso d’intendere il mistero di Dio; ma a tutti gli altri (parlo) per via di parabole, perché vedendo non veggano, e udendo non intendano. La parabola adunque è questa. La semenza è la parola di Dio. Quelli che (sono) lungo la strada sono coloro che la ascoltano; e poi viene il diavolo, e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli poi che la semenza han ricevuta sopra la pietra, (sono) coloro i quali, udita la parola, la accolgono con allegrezza; ma questi non hanno radice, i quali credono per un tempo, e al tempo della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine, denota coloro i quali hanno ascoltato; ma dalle sollecitudini, e dalle ricchezze, e dai piaceri della vita a lungo andare restano soffocati, e non conducono il frutto a maturità. Quella che (cade) in buona terra, denota coloro i quali in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza »]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

SEME E TERRENI: PAROLA DIVINA E CUORI

« Udite! Il seminatore uscì a seminare. Nell’ampio gesto della semina, una parte del grano cadde lungo la strada; gli uccelli lo beccarono. Un’altra parte cadde sopra un suolo roccioso appena ricoperto da un velo di terra: spuntò, ma non potendo metter radici, fu bruciato via dal sole. Una terza parte cadde tra le spine: e fu soffocato prima che mettesse spiga. Un’altra parte cadde in terreno buono: diede frutto, dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento per uno. Chi ha orecchio per udire, oda ». -. Di questa parabola abbiamo la spiegazione dello stesso Gesù che l’ha detta. Infatti i più diligenti, i più intimi de’ suoi discepoli, in un momento in cui era solo, gli chiesero il significato: « Come? voi non avete compreso questa parabola? Il seme è la parola divina, i terreni diversi sono i diversi cuori che l’ascoltano ». Approfondiamo devotamente la spiegazione del Signore. – IL SEME CIOÈ LA DIVINA PAROLA. In due modi Gesù Cristo ha voluto rimanere in mezzo a noi: primo, nella verità della sua carne con la santa Eucaristia; secondo, nella verità della sua parola con la santa predicazione. E come noi crediamo che sotto le apparenze del pane e del vino c’è veramente presente vivo e reale il Corpo di Cristo nato da Maria Vergine, così dobbiamo credere che sotto le apparenze della voce e del gesto del sacerdote che predica è ancora la parola di Cristo che risuona. – a) Bisogna rinnovare la fede nella parola di Dio. — Quando Paolo, minacciando strage contro i Cristiani, fu vicino a Damasco, Gesù stesso gli apparve per convertirlo, e dopo averlo atterrato e accecato gli disse: « Io sono Gesù che tu perseguiti ». Ed egli, tutto tremante e stupefatto, chiese: « Signore; che vuoi che faccia? ». « Levati, entra in città, ove ti sarà detto da Anania quello che devi fare ». (Atti, IX, 1-6). – Al Signore sarebbe costato nulla insegnare direttamente a Paolo tutte le verità, dal momento che l’aveva creduto degno di quel miracoloso prodigio. Ma Dio volle servirsi del ministero sacerdotale di Anania, perché tutti sapessero che anche il dottore delle genti ricevette la parola di Dio dalle labbra di un sacerdote. « Chi ascolta voi, ascolta me! », disse ai discepoli il Figlio di Dio. E Paolo ascoltò e credette ad Anania come avrebbe ascoltato e creduto allo stesso Gesù. È con questa fede che ascoltiamo la divina parola? Se dopo tante prediche non ci siamo convertiti, né abbiamo migliorato, segno che a noi manca la fede di Paolo e che ascoltiamo la parola di Dio come fosse quella di un uomo. – b) Bisogna sentirne la necessità. — La Santa Chiesa ha imposto sotto pena di peccato mortale di ascoltare la Messa ogni domenica; ma non ha imposto sotto pena di peccato mortale di ascoltare ogni domenica la predica. Eppure osserva audacemente S. Bernardino di Siena: « Se di queste due cose tu non ne potessi fare che una, o udire la Messa o udire la predica, per la tua anima è assai più pericoloso tralasciare la predica. Infatti, crederesti tu nel santo Sacramento dell’altare se non fosse stata la predicazione che hai udito? Tutta la tua fede vien dall’udito ». Il santo non ha torto. Oggi ci sono moltissimi che vengono tardi alla Messa per eludere in tutto o in parte la predica. Che gioverà a loro udire la Messa, se non la capiscono più? Che gioverà a loro confessarsi e comunicarsi qualche volta all’anno, se non sanno più confessarsi e comunicarsi bene? D’altra parte, nessuno si creda istruito abbastanza da fare a meno della parola di Dio. Talete, quel gran sapientone che conosceva tutte le parti del cielo ma non il cortile di casa sua, una volta contemplando le stelle cadde in una fossa. Egli è l’immagine di chi, vantando una grande scienza, ignora le cose più elementari e finisce col cadere in ruzzoloni morali e magari nel baratro dell’inferno. Che vale saper tante cose, se ignori quella di non romperti l’osso del collo, cioè di salvare l’anima? – I Terreni, CIOÈ I CUORI. La parola di Dio è un seme meraviglioso. Creò il mondo, diede la vista ai ciechi, la salute ai malati, risuscitò i morti, convertì i peccatori. Se questo seme non produce frutto, colpa è del terreno cioè del cuore che lo riceve. Gesù distinse in quattro gruppi diversi gli ascoltatori: – a) Il primo raffigurato nella strada è di quelli che offrono alla parola divina un cuore calpestato e duro, dove il Vangelo non riesce a penetrare. Viene satana come un uccello di malaugurio e becca via la semente rimasta inerte a fior di suolo. Son quei fedeli che ascoltano la predica con un orecchio e la lasciano uscire dall’altro. Non tengon giù niente. Ma un ammalato che non ritiene il cibo non farà mai l’uomo; e così costoro non sapranno mai fare i Cristiani. – Nella Storia Sacra si racconta che il Re di Babilonia Nabucodonosor aveva fatto un sogno che lo mise nella più alta costernazione e nella più inaspettata sorpresa. Quel sogno gli rivelava l’avvenire del suo regno. Ma appena svegliato la visione dileguò dalla sua memoria, e non poteva ricordarsi di nulla (Dan., II, 3). E la parola di Dio com’è ascoltata da certi uditori è simile a un tal sogno? Hanno udito grandi verità; venne posto davanti ai loro occhi la visione del loro eterno avvenire, ma: appena usciti di chiesa, essi non vi pensano più, non ricordano più nulla. – b) Il secondo gruppo, raffigurato nel suolo roccioso velato da un esile strato di terra, dove il seme può germogliare ma non metter radici, così che alla prima dardeggiata di sole vien secco, è di quegli ascoltatori che si lasciano convincere dalla parola di Dio, e promettono di praticarla, e la praticano con entusiasmo finché non costa nulla. Ma alla prima difficoltà, al primo sacrificio; alla prima occasione, al primo rispetto umano, abbandonano la parola di Dio, e vanno verso il loro comodo o il loro piacere. Il regno dei cieli patisce violenza: ma costoro non sanno sostenerla; e la loro casa spirituale come quella ch’è costruita sulla sabbia senza profondità di fondamenta è destinata a sfasciarsi alle prime alluvioni. – c) Il terzo gruppo raffigurato nel terreno invaso dalle spine, è di quelli che sentendo le prediche vorrebbero convertirsi, ma sono assorbiti dagli affari, hanno l’anima invasa o dalla seduzione della ricchezza o dalla corruzione della lussuria. Quando Paolo era prigioniero a Cesarea, fu presentato dal procuratore romano a Re Agrippa e alla sua regale sorella Berenice. La gran sala delle udienze era gremita di illustri personalità civili e militari. L’Apostolo cominciò a parlare con tanto ardore del Figlio di Dio morto per noi e risorto, della giustizia e della purità che Egli esige per condurci alla salvezza nel regno dei cieli, che il Re commosso esclamò: «Paolo, quasi tu mi persuadi a diventar Cristiano ». Paolo col cuore gonfio di speranza rispose: « Quasi o senza quasi, volesse Iddio che non solo tu, ma quanti oggi mi ascoltano diventassero Cristiani come son io ». Ma nessuno di quelli si convertì. Avevano tutti il cuore gravato dalle sollecitudini mondane, cominciando dal Re Agrippa che aveva nel cuore innominabili passioni. Perciò il seme della divina parola germogliava in loro, ma veniva soffocato prima di dar frutti. – d) Bisogna ricordare anche il quarto gruppo che è di quelli che la parola di Dio ascoltano, custodiscono in cuore, e fanno fruttificare. – In Listri trovavasi un uomo impotente nelle gambe, il quale non aveva mai saputo camminare. Ma stava a sentire i ragionamenti di Paolo con tanta fede e attenzione, che l’Apostolo miratolo negli occhi gli disse: « Alzati dritto sui tuoi piedi ». E saltò su e camminava. Se con quell’ardore di fede e di buona volontà sentissimo sempre la parola di Dio, anche noi salteremmo su dai nostri difetti e dalle peccaminose abitudini e cammineremmo dritti nella via del Signore. – Il Vangelo si ascolta in piedi. Così vuole la liturgia; ma dovete comprendere bene il significato di tale disposizione. Il Vangelo si ascolta in piedi: per mostrare con l’atteggiamento della nostra persona il rispetto e la fede nella parola di Dio. Il Vangelo si ascolta in piedi: per mostrarci nell’atteggiamento di chi, ascoltando ordini, è pronto a correre per eseguirli.

Questa del seminatore è la prima parabola raccontata da Gesù. Cristiani, ricavate subito una conclusione: la parola di Dio è sempre feconda e preziosa in sé; quando resta sterile, o non produce tutto quel frutto che dovrebbe, è colpa del cuore che ascolta, o perché duro come una strada, o perché ghiaioso, o perché rimboschito come una siepe. Dunque, ci sono cuori dove il seme resta seme, e cuori dove germoglia, ma non fa spiga. E cuori dove produce il suo frutto. – DOVE IL SEME RESTA SEMPRE SEME. C’era un figliuolo, — racconta Gesù nel Vangelo, — che a tutti gli ordini e gli avvisi di suo padre rispondeva di sì; ma poi non li eseguiva mai e faceva solo e sempre il suo talento. Purtroppo i discendenti di questo figliuolo si sono moltiplicati nella Chiesa. Sono gli innumerevoli Cristiani che accettano tutte le verità della loro fede, ascoltano le prediche, ma in pratica vivono come a loro piace. La parola di Dio, essi la leggono come la parola d’un romanzo, essi l’ascoltano come la parola d’una commedia: chiuso il libro, terminato lo spettacolo, ogni compito è esaurito. Sanno che nel Battesimo hanno ricevuto in sé una vita divina, soprannaturale: ma vivono come se fossero fatti solo di corpo e di anima, e non anche di Grazia. Sanno che c’è il paradiso, ma agiscono come se non dovessero mai morire, e il Cielo fosse l’isola immaginaria del tesoro. Sanno che c’è l’inferno: ma s’abbandonano alla lussuria e all’avarizia spassosamente quasi che non fossero i due binari della via di perdizione. A questo modo, il seme resta sterile seme; la parola, vana parola. Onde consegue un duplice male: Il male che fanno a se stessi, perché non s’avvedono di mettere insieme ciò che è inconciliabile: Dio e il mondo, le funzioni liturgiche e i divertimenti lussuriosi, i sacramenti e i vizi. Il male che fanno agli altri, perché, a cagione della loro condotta, la fede è screditata e derisa. Sono questi cattivi Cristiani che diffondono l’ateismo, impedendo a molti di vedere la luce di Dio. Garcia Moreno, nella sua giovinezza, amava la fede, ma lasciava alquanto a desiderare nella pratica. Trovandosi in esilio a Parigi, e passeggiando, con alcuni amici increduli, parlava loro con entusiasmo della Religione. Ma uno dei suoi ascoltatori l’interruppe bruscamente: « Ella parla molto bene. Ma la pratica corrisponde alla sua fede? Ma i fatti rispecchiano le parole? ». Garcia Moreno, incapace di fingere, abbassò gli occhi e tacque un momento. Poi riprese con voce sommessa ma risoluta: « Sono attaccato con un argomento personale che oggi può sembrare valido: domani, indubbiamente, non lo sarà più ». Appena a casa, si chiuse in camera a riflettere; pregò a lungo, e la sera uscì a cercare un confessore, Dal giorno dopo in poi, tutta la sua vita fu uno sforzo energico di lealtà, affinché la pratica coincidesse con la fede, i suoi atti corrispondessero alle sue parole. – Tutti noi abbiamo bisogno di raccoglierci un momento, di verificare le posizioni dell’anima nostra; tutti abbiamo bisogno di trovare la lealtà, il coraggio e la coerenza di Garcia Moreno. – DOVE IL SEME GERMOGLIA MA NON SI FA SPIGA. Un signore che possedeva molte ricchezze, ascoltando la parola di Gesù, si sentì commosso, e si mise alla sua sequela. Ad un tratto Gesù si voltò e gli disse: « Se vuoi essere perfetto, vendi quello che hai e distribuisci il ricavato ai poveri ». Quel giovane allora si fermò, si staccò dal gruppo dei discepoli, e se ne andò per un’altra strada tristemente. In lui sono raffigurati i Cristiani che accolgono e praticano la parola di Dio fin dove è possibile senza sacrifici e rinunce; che seguono Gesù fin dove la sua strada coincide con quella del loro interesse. Ma a questo modo, la parola divina che esige mortificazioni e distacchi non può far frutto nel cuore che glieli nega. Facciamo qualche caso concreto. Dice la parola di Dio: « Padre, sia fatta la tua volontà come in cielo, così in terra ». Bella e dolce parola, che il Cristiano sa ripetere fedelmente, fin quando insieme alla volontà del Padre può fare anche la propria: e intanto s’immagina di aver molta fede e molto amor di Dio. Niente di male fin qui. Ma giunge quel momento, in cui la volontà del Padre contrasta i suoi comodi. Ad esempio essa impone di prendere tutti i figli che crede mandare ed esige il rischio degli agi, della tranquillità, del vano decoro, forse anche della salute. Che avviene allora? Troppo spesso avviene che il Cristiano dica: « Padre, facciano gli Angeli in cielo la tua volontà, che io faccio il comodo mio ». – Dice la parola di Dio: « Con le ricchezze procuratevi degli amici che vi possano accogliere nelle case eterne quando la morte vi farà sloggiare da queste terrene » (Lc. XVI, 9). E non vuol già dire che sono obbligati a fare elemosina soltanto i ricchi, ma tutti, perché tutti, dovendo morire, hanno bisogno d’amici che li accolgano nelle dimore celesti. I ricchi e quelli che hanno in sovrabbondanza vi sono obbligati per i primi, ma i poveri non sono esentati, perché ci sono dei più poveri di loro a cui possono e devono portare aiuto e consolazione. Molti però non arrischiano mai, se non delle elemosine insignificanti; così credono di guadagnare il paradiso se c’è, e, d’altra parte, di non perderci molto, se non c’è. La loro fiducia nella parola divina è scarsa e irreale. Dice ancora la parola di Dio: « Beati quelli che piangono perché saranno consolati. Beati quelli che soffrono persecuzioni per causa della giustizia perché il regno dei cieli sarà per loro… ». È facile accogliere e ripetere questa parola quando gli occhi sono asciutti, c’è il sorriso sulle labbra, e la fortuna è prospera. Ma quando il cuore è oppresso davvero, e una dopo un’altra le sventure ci perseguitano, e forse siamo calunniati e conculcati innocentemente, allora molti sono quelli che si ribellano e negano la bontà e la giustizia di Dio, e invidiano coloro che se la godono a dispetto d’ogni comandamento del Signore, e invocano le consolazioni presenti e peccaminose del mondo. Cristiani, le consolazioni del mondo sono danaro falso e volgare, ma in contanti. La parola di Dio è un tesoro immenso e verace, ma in cambiali. Chi ha fede le accetta, e arrischia tutto per tutto! – DOVE PRODUCE CONSOLANTE FRUTTO. Dove produce consolante frutto la parola di Dio è proprio nel cuore che, fidando in essa, arrischia tutto per tutto. Ivi avvengono due mirabili effetti: i peccati spariscono, le virtù fioriscono. Racconta la leggenda che dovunque passava Gesù Bambino fuggendo verso l’Egitto, tutti gli idoli si frantumavano. Questa leggenda è una realtà per la parola di Dio. Dov’essa entra, ogni idolo si frantuma e dispare: l’idolo dell’orgoglio, dell’egoismo, della lussuria, dell’avarizia. Mano a mano che il cuore si libera da queste malvage schiavitù, la parola dì Dio vi accende un desiderio sempre più forte di conoscere intimamente il Signore, per amarlo più ardentemente e servirlo più fedelmente. Intanto anche la vita pratica si trasforma tutta, perché di ciascun vero Cristiano si può ripetere quello che fu scritto di S. Epifanio: « Illustrava coi suoi atti la parola di Dio che aveva letto o che aveva ascoltato ». Quelli poi che avvicinano uno di questi coerenti Cristiani, vedono un riflesso di luce divina, una trasparenza di Gesù Cristo. Pare a loro di entrare come in un tempio e di trovarsi alla presenza di Dio: sentono i pensieri sollevarsi a cose nobili, il cuore ardere di desideri puri, e tutto il loro essere sospira a diventar migliore. – S. Agostino asserisce di sua madre S. Monica che con la sua condotta faceva sentire Dio vicino: lo sentì per primo suo marito Patrizio, lo sentì poi il figlio che convertì e divenne santo, lo sentirono tutti quelli che la conobbero. In lei veramente la parola di Dio aveva trovato un cuore docile e produceva il cento per uno. – Quando i primi missionari di Roma arrivarono in Inghilterra a predicare la parola del Signore, il re d’una di quelle province, avendo ascoltato gli ardenti e convinti discorsi di Paulinus, sentì il desiderio di farsi Cristiano. Ma prima adunò l’assemblea dei notabili per prendere un consiglio. Uno di quei notabili si alzò in mezzo all’assemblea e prese a parlare con uno splendido paragone: « Immaginiamo, o re, di essere tutti raccolti nella tua sala per un banchetto. Fuori è una notte invernale: il vento urla tra le piante, e la neve mista a pioggia turbina e sbatte sulle finestre. Dentro è un dolce tepore e una bella luce: si mangia e si discorre allegramente. Ed ecco un uccello smarrito, entrato chi sa come da una finestra, attraversa la sala, sorvola la mensa e scompare per la finestra opposta. Uscito dal buio, di nuovo dal buio inghiottito: solo un momento di luce, un battito d’ali nel tepore. Così, ora è la vita dell’uomo, un attimo appare e poi dispare. Donde venga, dove vada, poi non sappiamo. Buio prima e buio dopo, noi sappiamo quell’attimo appena che la vita dura nella luce e nel calore del sole. Ora è arrivato al nostro paese uno che conosce con certezza il mistero, egli sa donde veniamo, dove andiamo, sa a che tende il nostro breve cammino sulla terra. La mia ragione mi dice che bisogna ascoltarlo e fare come ci insegna ». Cristiani, gli uomini, anche i più dotti, non hanno mai saputo spiegare il mistero della nostra vita. È venuto sulla terra Gesù Cristo a portarci la verità e la vita. Egli ha provato con miracoli e colla sua santità di essere Figlio di Dio, e ci ha rivelato infallibilmente donde veniamo e dove andiamo, e che cosa intanto dobbiamo fare. La sua parola divina risuonata due mila anni fa, non si è spenta, ma suona ancora di bocca, in bocca, sulle labbra dei sacerdoti, ci dice che bisogna ascoltare la parola di Dio, meditarla e praticarla.

Gesù terminò la parabola del seme e del seminatore con queste parole: « Chi vuol capire, capisca ». Ma anche quelli che erano più vicini, i discepoli, non avevano inteso il significato delle parole di Gesù e desideravano di capire. Per quanto cercassero di interpretarle tra di loro, non ci erano riusciti. Sapevano però che Gesù era tanto buono, sempre pronto a soddisfare il desiderio di verità e perciò gli si fecero attorno con tanta schiettezza a domandargli qualche spiegazione. Se i discepoli non l’avessero chiesto, Gesù non avrebbe spiegato nulla ed anch’essi sarebbero rimasti all’oscuro di cose tanto belle sul Regno di Dio. Ma perché dimostrarono il desiderio di imparare, Gesù parlò e capirono bene. Così dobbiamo fare anche noi. Se Gesù è il Maestro, noi dobbiamo essere i suoi alunni desiderosi di conoscere e di far conoscere la sua Verità. – CERCARE LA VERITÀ. Il Sabato Santo d’ogni anno, a Gerusalemme, il Vescovo scende nella cripta del Sepolcro di Cristo, ed ivi accende un fuoco benedetto. Allora la folla dei fedeli e dei pellegrini si affrettano ad accendere a quel fuoco le fiaccole, per portarle ciascun alle proprie case. Tutti quanti i Cristiani che sono a Gerusalemme, in quel giorno accorrono alla Basilica fin dalle prime ore per prendere il fuoco sacro. Cristiani, non a Gerusalemme soltanto, non nella sola Settimana Santa, ma oramai da secoli c’è una fiamma che arde nelle nostre Chiese e su tutti sparge la sua splendida luce. Non dico della S. Eucaristia in cui l’Amore infinito si è nascosto per stare sempre con noi, ma della luce della verità cristiana. – Gesù si è nascosto sotto le apparenze del pane e del vino per essere il cibo delle anime e si è nascosto anche sotto la parola del Sacerdote per essere il mistico nutrimento delle nostre intelligenze. – Prima di salire al cielo disse ai suoi: « Andate per tutto il mondo, ammaestrate tutte le genti. Quello che ho detto soltanto a voi, predicatelo ovunque, anche dall’alto dei tetti ». Ed i Vescovi, i Parroci, i Sacerdoti raccolgono questo divino comando e ripetono a noi quanto Cristo ha insegnato. – Non è dunque la parola dell’uomo che voi sentite in Chiesa, ma è proprio Gesù che sotto altre apparenze continua a predicare. È con questo pensiero, con questa persuasione che noi veniamo a sentir le prediche? Questa luce piena di amore è un uomo che a noi la trasmette, ma questo uomo, come il Vescovo di Gerusalemme, accende nel Sepolcro di Cristo, meglio ancora, la attinge dal Cuore stesso di Gesù. Domandiamoci allora qual sia mai la nostra frequenza alla dottrina Cristiana, alle sacre predicazioni. Si fanno tutti un obbligo di apprendere qualche mestiere onde procacciarsi il pane, di imparare a leggere, a scrivere, a fare dei conti e come mai tanta ignoranza anche dei primi elementi del sillabario del Cristiano? Si fa, e giustamente, tanta lotta contro l’analfabetismo, ma purtroppo, in fatto di Religione, gli analfabeti sono ancora molti. Eppure i misteri della nostra fede, la salvezza dell’anima, i doveri del nostro stato non sono cose meno necessarie di una professione che ci dia da vivere. C’è di mezzo Iddio e con Dio non si scherza. – DARE LA VERITÀ. Il rombo assordante dei cannoni, il fischiar delle palle era appena cessato: i soldati eran tornati alle loro trincee e le tenebre della notte, opprimenti come un manto funebre, coprivano quel teatro di tanto terrore. Qua e là, disseminati in disordine, cadaveri orribilmente deformi, membra staccate, armi in frantumi. Rompevano il silenzio i gemiti dei feriti, i rantoli dei morenti che chiamavano Dio e la mamma lontana. Ministro del Dio di pace, passava tra le miserie umane il Cappellano militare in cerca di anime, quando lo colpì un lamento lungo, che toccava il cuore. « Prete, aiutami a morire bene! » — S’affretta, accorre e trova un povero giovane, sfigurato, con sul volto il pallore della morte. « Prete! aiutami a morire bene; dammi Gesù! ». Il sacerdote, commosso, soffocato quasi dai singhiozzi lo confessa, gli dà il viatico, gli amministra l’olio santo. Il soldato era già in agonia ma ebbe ancora la forza di imprimere un bacio sulla mano del prete e dirgli: « Grazie! ». Fu l’ultima sua parola; poi le sue labbra si chiusero per sempre. – Mi pare che questa scena di guerra possa essere un simbolo di quanto avviene al mondo. La vita è una battaglia contro satana ed il suo regno. Ogni giorno si combatte non coi cannoni o le mitragliatrici ma colle tentazioni impure, coi pensieri di superbia, con l’attacco alla roba della terra. Ma benché tutti possano vincere e passare illesi tra il fuoco, purtroppo sono molti i feriti che nell’attacco perdono sangue e forse anche la vita. Sopra di questo campo di feriti e di morti cadono le tenebre dell’ignoranza che oscurano il sole e la luce di Dio. Ma tendete l’orecchio e sentirete da quei feriti sprigionarsi un grido di supplica che vi dice: « Dateci Gesù! insegnateci a morire bene! ». Così inconsciamente vi dicono tanti infelici che non hanno la pace del cuore perché nessuno ha saputo portar loro Gesù. Quel continuo non essere contenti, quel cercare sempre nuove forme di godere perché ci si sente presi da una indicibile noia non è forse una supplica muta, uno spasimo irrequieto verso il Dio della pace? Voi non siete cappellani di guerra, non siete sacerdoti ma, Cristiani, a tutti incombe il dovere di pensare anche all’anima dei nostri fratelli! Se non altro, almeno colla preghiera, tutti possono avere da noi quell’aiuto soprannaturale che è il solo di cui l’anima ha veramente bisogno. Se tutte le volte che recitiamo il Pater noster, dicessimo davvero col cuore le parole: Sanctificetur Nomen tuum, adveniat Regnum tuum, sarebbe già qualche cosa. Preghiamo e offriamo perché la verità sia conosciuta dai popoli ancora pagani: le Missioni e i Missionari sono dunque interessi nostri. Preghiamo e offriamo perché la verità non si oscuri in questa patria nostra, destinata da Dio a tenere alta nel mondo la fiaccola della vera civiltà: l’Università Cattolica del Sacro Cuore è pure interesse nostro. E poi ciascuno faccia tutto quello che può per dare al prossimo la Verità. Voi specialmente, o genitori, cui il Signore ha concesso dei figliuoli da educare, siate davvero i sacerdoti della vostra famiglia. Fate imparare le orazioni del mattino e della sera, anzi voi stessi recitatele insieme. Attenti se studiano il Catechismo, se imparano le verità della fede. La strada che per prima i figliuoli devono imparare, sia quella della chiesa dove si insegna a vivere bene. È Gesù che voi dovete dare. Avete tutto il dovere di allontanare dai vostri figliuoli l’influsso di satana. Accanto alla vostra casa, forse nello stesso cortile, allo stesso lavoro, avete ai fianchi persone che ignorano la fede o la mescolano malamente con mille superstizioni. Quando vediamo che una buona parola, un invito alla Chiesa può tornare opportuno, dopo di aver pregato, non lasciamo passare l’occasione di fare del bene. – Un Re ebbe, un giorno, desiderio di conoscere i suoi sudditi e di offrire a loro il dono del suo amore. Mandò il suo araldo a battere di porta in porta. Batté il primo portone che incontrò, e disse: « Ospite, è la parola del re ». Ma nessuno gli rispose. Batté a una seconda porta, e disse: « Aprite, è la parola del Re ». E gli fu risposto: Non voglio scomodarmi ad aprire, gridala, se vuoi, dal di fuori » L’araldo afflitto per la scortese accoglienza passò innanzi. E arrivò ad un’altra porta. Battè ancora: « Aprite, è la parola del Re ». Subito fu aperto e dal di dentro una voce supplicò: « Ch’io senta la benedetta parola del mio Re! ». Quest’uomo fu condotto alla reggia, ed ebbe lui solo il dono dell’eterno Amore del Re! – Cristiani, l’araldo che Iddio manda a noi, è il sacerdote che reca il messaggio della divina parola alla soglia del nostro cuore. Nessuno si è mai pentito d’avergli aperta la porta del cuore; nessuno si è mai pentito d’aver cercato la Verità del Vangelo, d’averla additata agli altri. – Chi apre il cuore alla parola di Dio, è chiamato alla reggia eterna del cielo a godere il dono dell’eterno Amore del Re.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVI: 5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam.

Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (193)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXIX)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

IV. — Il Purgatorio.

D. Che cosa è il purgatorio?

R. «Il purgatorio è un luogo di patimento, dove le anime in stato di grazia finiscono di espiare i loro peccati prima di entrare in cielo » (Il Catechismo della diocesi di Parigi).

D. Perché questa sosta prima del termine, per quelli che hanno felicemente percorsa la via?

R. Avendo fatto la strada, bisogna correggere gli errori del percorso.

D. Se queste anime sono in stato di grazia, è perché sono innocenti, oppure sì sono liberate dal male.

R. « Per pagare i propri debiti, non basta non contrarne più dei nuovi, ma bisogna soddisfare i vecchi » (S. GREGORIO).

D. Soddisfare come?

R. Chi è stato troppo indulgente verso se stesso, deve accettare un doloroso costringimento. Chi ha offeso l’ordine, deve in cambio subire l’urto dell’ordine, fino a un’esatta riparazione.

D. Qual è dunque la situazione di questi condannati provvisori?

R. Quella dei prigionieri in una cittadella esposti alla fame e ai lavori penosi, con la certezza d’una prossima e felice liberazione.

D. Questo paragone della prigione è classico?

R. È quello del Vangelo, e Gesù aggiunge: In verità, ti dico che non uscirai se non hai pagato fino all’ultimo spicciolo.

D. Queste anime detenute soffrono molto?

R. Esse soffrono, ed è possibile che le loro pene siano estreme.

D. Come concepisci la loro prova?

R. Qui come a proposito dell’inferno, bisogna guardarsi dalle immagini puerili. Gli antichi si rappresentarono a volte il purgatorio sotto la forma d’un fiume di fuoco che bisognava attraversare per andare in cielo, e che bruciava al passaggio le scorie dell’anima, non avendo nessun potere sopra le anime affatto pure. Questi non sono che simboli, ovvero, presso alcuni semplici, credenze presto superstiziose.

D. E allora?…

R. Mi sono spiegato nel precedente capitolo. Forse il caso è lo stesso; forse è differente, ma certo dello stesso ordine, e ciò non ha importanza pratica. Quello che, ai nostri sguardi, deve differenziare il purgatorio e l’inferno, non è la natura dei mali, ma la disposizione delle anime, così radicalmente diversa.

D. In che consiste questa differenza?

R, I dannati non sperano più; le anime del purgatorio invece hanno una ferma speranza. I dannati odiano Dio, il suo universo e se stessi; le anime del purgatorio invece ardono di un universale amore.

D. La speranza, l’amore procurano loro qualche felicità?

R. Una felicità attraversata da pena, Una felicità in riserva sicura, ma che non si potrebbe espandere.

D. Sono esse in rapporto spirituale con Dio?

R. Dante fa loro cantare il Pater sulla « prima cornice », là dove ci si purifica dei vani fumi di questo mondo, e il suo pensiero è conforme alle vedute della nostra Chiesa.

D. Le anime del purgatorio fanno parte della Chiesa?

R. Esse compongono quello che noi chiamiamo la Chiesa società, paziente, fanno parte della comunione dei santi, società attraverso i mondi, di tutti quei che vivono in Cristo, figli del suo Padre celeste e animati dal suo Spirito.

D. E credi tu che questi mondi comunichino?

R. Essi comunicano, e la preghiera ne attraversa le barriere.

D. Che possono dunque per noi queste anime? Hanno esse coscienza di ciò che avviene sopra la terra?

R. Certo esse non hanno alcuna conoscenza diretta di ciò che avviene quaggiù; ma il Dio che esse amano e da cui sono riamate, può loro ispirare pensieri fraterni, ed anche il loro cuore le inclina a pregare per noi.

D. Pregano esse specialmente per quei che esse amarono, per quei che amano loro?

R. Così vuole la Provvidenza che ha stabilito i nostri legami. Espiare non può essere un distaccarsi dalle convenienze divine e dai legami umani che hanno, come tutta la vita, conseguenze eterne.

D. E noi che cosa possiamo per loro?

R. Per questi amati delle sfere che non raggiungiamo, noi possiamo offrire a Dio le nostre preghiere, i nostri buoni desideri, le nostre opere meritorie, le nostre limosine, le nostre azioni sacramentali, e specialmente il santo sacrifizio della Messa.

D. La messa ha per te, a questo riguardo, una speciale efficacia?

R. Poiché essa dispone dei meriti infiniti, li può applicare, però con l’accettazione e secondo le vedute misteriose della Provvidenza.

D. Non sì è dunque mai sicuri?

R. Abbiamo già detto che i sacramenti non hanno nulla di comune con una macchina automatica. Elementi spirituali, essi agiscono secondo un ordine spirituale, e specialmente dove la libertà di Dio e la libertà del prossimo sono in causa, nulla si potrebbe garantire con certezza. Si crede volentieri che, a parità di condizioni, Dio soccorre più particolarmente, a nostra richiesta, quelli che durante la loro vita lo meritarono con la loro propria carità verso i morti.

D. Qual lezione ci può venire da questi esserì che penano e sono vicini alla gloria?

R. Dante la trae nel suo canto XI, quando così interpella le anime:

Mostrate da qual mano invér la scala/ Si va più corto: e se c’è più d’un varco,/ Quel ne insegnate che men erto cala…

(Purgatorio).

LE VIRTÙ CRISTIANE (12)

LE VIRTÙ CRISTIANE (12)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO, Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C. Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO I.

UN’OCCHIATA COMPRENSIVA ALLE OTTO BEATITUDINI.

Poiché il mio discorso, partendo dalla virtù della fede, di grado in grado è arrivato sino all’ ultima delle virtù cardinali,io mi trovo nelle condizioni d’un viandante che ha già percorso gran parte del cammino prefisso, e, per un verso se ne rallegra, ma per un altro teme ancora di non arrivare, o d’incontrare intoppi gravi per via. Intanto ci sarebbe tuttora da scriver molto: se il mio intendimento fosse d’intrattenermi minuziosamente in ciascuna delle virtù, che fioriscono nel bel giardino della Chiesa, per effetto della fede e della carità del Signore. Le virtù cristiane sono, di certo, assai numerose; ma parecchie di esse, nascendo da altre principali, rassomigliano, come figliuole, siffattamente alle madri loro, che appena un occhio acuto e riflessivo può discernere i tratti, onde si distinguono dalle prime. Se dunque io avessi in animo di tener parola di ciascuna delle virtù cattoliche, m’accadrebbe, io temo, di dover confondermi in sottili distinzioni o di ripetermi. Or l’una e l’altra cosa mi allontanerebbe da quella via, nella quale sin dal principio mi misi, con tanta speranza di fare un po’ di bene, E dunque, volendo solo trattare delle virtù principali che restano, e mostrare, come ho usato sin qui, la soave bellezza loro, m’è venuto nella mente il pensiero che io le potrei trovar tutte, e splendenti della lor luce più bella, nel mirabile e dolcissimo sermone di Gesù, detto il Sermone della montagna. Sono anzi tutte mirabilmente effigiate nella parte principale di quell’aureo sermone, la quale tratta delle beatitudini. – A voler parlare delle otto beatitudini evangeliche, il nostro pensiero si trasferisce nella Palestina, e si ferma particolarmente e con grande amore in uno dei momenti più solenni della vita di Gesù Cristo. Come è bello incontrare il divino Maestro insegnante nella Galilea, e propriamente il dì che, accompagnato dai suoi discepoli, salì sopra un monte sin oggi detto ancora il monte delle beatitudini! Questo monte si eleva presso Safet, tra Szaffard e il Tabor; e chi ne ascende la cima, scorge di lassù Safet, il grande Hermon e la valle spaziosa di Genesaret. Fermiamoci, un tratto solamente, su questa altura, ed eleviamo i pensieri e gli affetti in alto. Questa altura è il monte della nuova legge, il quale ha quindi attinenza col Sinai, dove fu promulgata la legge antica, simbolo e figura della nuova. Ma il monte delle beatitudini ha relazioni anche più intime con due altri monti celebri del nuovo Testamento; e sono il Calvario e il Thabor. La sapienza cristiana, il divino sacrifizio che ci ha redenti, e la gloria eterna: ciascuno di questi tre beni ha il suo monte proprio, perché ciascuno di questi tre beni viene dall’alto, e ci eleva con la mente e col cuore in alto i due primi beni rappresentano quanto vi ha di più nobile e grande nella nostra vita presente; l’altro rappresenta il premio, che un dì troveremo nel sommo, eterno e incommensurabile Bene. Sieno dunque mille volte benedetti il Monte delle Beatitudini, il Calvario e il Thabor! Quanti pensieri, quanti affetti santi, quante speranze aleggiano su quelle cime! – Il discorso, nel quale il Signore annunzia le otto beatitudini, che io prendo da san Matteo, riluce per gran chiarezza e semplicità; non ha ombre né sottigliezze, è sentenzioso, come s’addice a un supremo ammaestramento di Dio, ed è questo: “Beati i poveri di spirito, perciocché il regno dei cieli è loro. Beati i mansueti, perciocché essi erediteranno la terra. Beati coloro che piangono, perciocché saranno consolati. Beati coloro che sono affamati e assetati di giustizia, perciocché saranno saziati. Beati i misericordiosi; perciocché sarà lor fatta misericordia. Beati i puri di cuore, perciocché vedranno Iddio. Beati i pacifici, perciocché saranno chiamati figliuoli di Dio. Beati coloro che sono perseguitati per la giustizia, perciocché il regno dei cieli è loro.” – Coteste parole, mentre che letteralmente ed esternamente accennano ad otto beatitudini dell’animo, senza dubbio esprimono otto virtù, come si può chiaramente vedere dal compararle con altri testi evangelici, e anche dal leggere ciò che ne dicono universalmente tutt’i Padri della Chiesa. Le otto virtù indicate sono la povertà in ispirito e l’umiltà insieme, la mansuetudine, la pazienza nel dolore, il fervente amore della giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, la pace, l’amore del bene sino a godere delle persecuzioni, che esso ci attira. – Certo, a prima giunta, la mente umana prova qualche difficoltà a comprendere che tutte otto queste beatitudini, annunziate da Gesù Cristo, siano virtù vere, e molto più che ad esse s’abbia a dare il nome di beatitudini. Nondimeno, dopo che la luce del Cristianesimo ha penetrato addentro i nostri animi; i buoni Cattolici lo credono, e con un poco di riflessione lo comprendono altresì. Ma ai figliuoli della Città del mondo cotesto insegnamento, almeno in talune delle sue parti, ha, come direbbe Dante, savor di forte agrume. Spesso queste, che il Vangelo dice beatitudini, appariscono alla mente loro come paradossi. Anzi, io credo pure che i figliuoli del mondo debbano esser presi da grande stupore, vedendo che molti milioni di uomini si siano ostinati per secoli e si ostinino tuttora a crederle virtù e beatitudini. – In vero, se quasi tutti gli uomini han sete di ricchezze, e le ricchezze aprono la via a molti godimenti; in qual guisa dunque la povertà ci fa godere, e anche più ci fa beati? E la beatitudine, e la virtù di chi piange e di chi soffre persecuzione per la giustizia, come mai la dovrebbero intendere e accettare coloro che vivono soltanto di piaceri, e sono usi a preferire il piacere sensuale, sia pur breve, avvilitivo e turpe, ai nobili e santi piaceri del cuore e della mente? – Ma intorno a ciò accadrà di parlare meglio, e con maggiore ampiezza, allorché tratteremo partitamente di ciascuna delle otto beatitudini. Qui, per istruzione dei Cattolici, giova considerare, che le otto virtù, di cui si discorre, furono dette beatitudini per varie ragioni. Dapprima Gesù, nel dare questo nome alle virtù di cui parlava, tenne l’occhio alla beatitudine eterna, che esse ci meritano, e volle ancora che il Cristiano fosse virtuoso, non tanto per ragioni umane o meno alte, quanto per acquistare l’eterna sua beatitudine, che è un medesimo con la glorificazione di Dio. Inoltre poiché l’uomo è naturato così, che il maggior suo desiderio è il godere sempre; il divino Maestro volle anche toccare qui di quell’aura soave di godimento spirituale e santo, che nella vita presente tempera all’uomo buono gli ardori delle miserie e degli affanni, e talvolta gli allieta l’animo con misteriose dolcezze. Il dire che la virtù riesce in questo mondo compenso e premio bastevole a sé stessa, è una di quelle sentenze gonfie e vuote di vero contenuto, onde i figliuoli del mondo in alcune ore propizie della loro vita, si sforzano di cullar sé medesimi e gli altri. Ma la verità è che la virtù, nel cammino difficile della vita presente, è spesso circondata da tante spine di dolori: fisici e morali, che il suo premio essa l’ha da cercare altrove. Talora, anzi, i buoni e i giusti soffrono più dei malvagi. Quante: e quante volte non ci si stringe il cuore al vederli più poveri, più disprezzati, più vessati, più diffamati dei primi! E, benché sia certo che anche tra il gineprajo dei dolori fisici e morali l’uomo virtuoso trovi un cotal godimento nella serenità dell’animo e nella quiete della coscienza; pure, che questo così debole e scarso compenso, abbeverato da dolori e amarezze infinite, sia il solo che la giustizia e la bontà del Signore dànno all’uomo veramente buono; i Cattolici nol credono. Né lo credettero mai i migliori filosofi pagani, e nol credono neanche i barbari e i salvaggi di nessun luogo. Però ci è dolce riposare col cuore nell’insegnamento cristiano, il quale è questo: La beatitudine dell’uomo virtuoso su questa terra rassomiglia a un crepuscolo mattutino che ha luce scarsa e molto opaca, ma annunzia il vicino levare del sole. Il levare del sole sarà per noi quando, consumata la via del dolore con l’estremo e gravissimo dolore della morte, e usciti per sempre dalle miserie della vita presente, vedremo, faccia a faccia, l’eterno Sole di verità, di bellezza e di bontà che è Dio. – Le otto beatitudini meritano, pare a me, di esser dette in un modo particolare, virtù evangeliche, non perché nell’Evangelo, o piuttosto nel Cristianesimo, faccia difetto alcuna delle virtù, veramente degne del nome, ma per la ragione che ora dico. Tra le virtù, talune si riferiscono più specialmente all’uomo, considerato, secondo la natura primitiva, indipendentemente dalla sua caduta originale; e sono, per esempio, le virtù cardinali: altre poi hanno particolari attinenze con la natura peccatrice, e col dolore derivato dal peccato nel genere umano. Queste virtù richiedono una maggior luce d’intelletto, per la quale l’uomo conosca meglio, e più addentro sé medesimo; una luce, che o mancò interamente ai filosofi pagani, o almeno in qualche filosofo che l’ebbe, fu assai opaca. Di queste così nobili e pur così difficili virtù ci è particolarissimo maestro il Vangelo di Gesù Cristo; perciocché Gesù Cristo vestì la nostra carne, e visse trentatré anni con noi, soprattutto per redimerci dal peccato, e per rendere a noi strumento di salute il dolore e tutte le altre conseguenze del peccato. Che bisogno in vero ci sarebbe mai stato di pazienza, di rassegnazione, di penitenza, di misericordia, se l’uomo non avesse peccato, e non fosse soggetto a molto soffrire? Questa ultima considerazione, che ho fatta, può aprirci la mente per comprendere facilmente come accada che i figliuoli della Città del mondo, e anche i Cattolici tiepidamente credenti accettino in cuor loro più facilmente, poniamo, le virtù cardinali, che non le otto beatitudini. In vero essi prendono diletto (e in ciò l’orgoglio naturale ha pure la sua parte) e si adusano a considerare l’uomo piuttosto in astratto, o come sarebbe stato senza la corruzione, che proprio qual è con tutte quelle tenebre, e ignoranze e miserie e propensioni al male che lo circondano. Però il loro occhio intellettuale non arriva a vedere quanta luce di bellezza e di santità si celi nell’intimo e nel profondo di certe virtù, che hanno al di fuori una scorza ruvida, e talvolta pungono il nostro amor proprio, ma sono nondimeno le più utili ai miseri figliuoli di Adamo. Per esse soprattutto si vince in noi l’uomo vecchio e carnale, e si forma l’uomo nuovo, tutto giovaneggiante e bello per gioventù e bellezza di virtù cristiane. – Ma volgiamoci a un’ultima considerazione. Quel non so che di paradossale che, a prima giunta, si vede nelle otto beatitudini del Signore, ha forse potuto contribuire a farle giudicare da alcuni piuttosto consigli di evangelica perfezione, che non precetti, dati da Gesù Cristo a tutt’i suoi fedeli. Come mai tenere, dicono essi, quali precetti divini cose tanto dure e difficili e ripugnanti all’umana natura, quanto sono alcune delle otto beatitudini? Consigliare le otto beatitudini ai religiosi, che vivono nell’orto chiuso dei loro monasteri, e passano le lunghe ore del giorno o salmeggiando o pregando o adoperandosi nei ministeri ecclesiastici, sia pure! Ma per coloro che vivono nel gineprajo del mondo, tra le brighe e tempeste della vita così febbrilmente agitata dei nostri tempi, circondati da moglie e figliuoli, da bisogni sempre crescenti; a che mai potrebbero giovare i precetti delle beatitudini evangeliche? E potrebbero costoro metterli ad effetto? Io credo di sì, e che anzi tutti, e anch’essi, nel praticarli ne avrebbero conforto. Ma ciò si vedrà meglio più avanti. – Qui è necessario prima di tutto affermare che le beatitudini evangeliche sono a un tempo precetti e consigli: precetti, quando si considerano nella loro parte sustanziale: consigli, allorché il Cristiano, chiamato da Dio alla perfezione, ajutato da grazie particolari, e infiammato da grande amore di Dio, va più avanti di quel che a ciascun fedele è comandato. In qual modo ciò si compia o in tutte o almeno in alcune delle beatitudini evangeliche, accadrà di dirlo quando ci fermeremo con la mente su ciascuna di esse in particolare. Ora in conclusione m’ è dolce il pensare quanto siano piene di perfezioni e di armonie le opere del Signore, vuoi nell’ordine della natura, vuoi anche nell’ordine soprannaturale. A quel modo che nel mondo corporeo splendono, oltre innumerevoli stelle di comune grandezza, alcune di prima grandezza, e, tra i monti, ve ne ha alcuni altissimi, come quelli delle Cordigliere: e, pure a quel modo che tra gl’intelletti comuni, se ne incontra di quelli che, come aquile, si levano sopra gli altri; così nell’ordine soprannaturale, non basta che vi siano innumerevoli uomini buoni. Iddio vuole che vi sia anche un bel numero di Cristiani perfetti o tendenti alla perfezione, i quali riescono il vivajo dei Santi nostri. Or io spero che le cose, le quali qui appresso scriverò delle beatitudini evangeliche, giovino agli uni e agli altri, e principalmente giovino a me stesso.

LA VITA INTERIORE (3)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (3)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

L’ORAZIONE VOCALE

NECESSITÀ E DOVERE.

La preghiera è un bisogno del nostro cuore; è un dovere della nostra anima verso Dio. Narra l’evangelista san Luca: Avvenne poi che mentre Gesù stava in un luogo a pregare, com’ebbe finito uno dei suoi dipoli gli disse: — Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni insegnò ai suoi discepoli (XI, 1). – Allora, così Gesù rispose: Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il necessario nostro pane; e rimettici i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Così sia (Matt., VI, 9). E in altra occasione, ancora, Gesù disse agli Apostoli: Ed io vi dico: Domandate e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Poiché chiunque domanda, riceve; chi cerca trova; e a chi picchia sarà aperto. Qual è tra voi quel padre il quale, al figlio che gli domanda un pane, darà una pietra? (Luca, XI, 9-11); o se domanderà un pesce, gli darà un serpente? (MATT., XI, 10). Nel discorso-testamento dopo l’ultima Cena, Gesù così insiste: Qualunque cosa domanderete al Padre nel nome mio, Egli ve l’accorderà. Finora non avete domandato nulla in mio nome: domandate e riceverete affinché la vostra gioia sia completa (Giov. XVI, 23, 24). E altra volta: È necessario pregare sempre, e non interrompere mai (Luca, XVIII, 1). Nessuna meraviglia se, poggiato su queste parole, l’Apostolo Paolo ripeterà: sine intermissione orate (I Tess., V, 17), cioè: pregate senza interruzione.

IN CHE COSA CONSISTE

Ordinariamente si dice così: la preghiera è l’elevazione della nostra mente a Dio. E cioè: è il nostro contatto con la potenza di Dio, per mezzo della fede e dell’amore. Per meglio intendere questo contatto, ecco diverse e complete definizioni che ne danno i Santi e gli scrittori sacri: S. Agostino la chiama un affettuoso slancio verso Dio; S. Giovanni Damasceno una domanda a Dio di cose convenienti; San Gregorio Nisseno, una conversazione col Signore; e Santa Teresa un trattare amichevolmente, da solo a solo, con Colui che sappiamo che ci ama. Per me — diceva Santa Teresa del Bambino Gesù — la preghiera è un impeto del cuore, un semplice sguardo rivolto al Cielo, un grido di riconoscenza e di amore tanto in mezzo alla tribolazione, quanto in seno alla letizia. S. Giovanni Crisostomo lascia capire che: come nell’ordine fisiologico la respirazione è un atto continuo e necessario alla conservazione della vita, così la preghiera è la respirazione dell’anima nell’atmosfera divina.

LA PREGHIERA VOCALE.

In due maniere possiamo rivolgere ed elevare la nostra mente a Dio. La prima è una conversazione intima fatta di amore, di riflessione, d’intimità pura che non si esplica all’esterno, e dicesi preghiera mentale, o meditazione. La seconda si esprime con le parole, coi gesti e dicesi preghiera vocale. Noi, qui, vogliamo esplicitamente intrattenerci su la preghiera vocale, considerandola come uno dei mezzi più efficaci per aumentare per conservare, o riacquistare o alimentare in noi la grazia santificante che ci conduce all’unione con Dio. Infatti: chi prega davvero sente di voler compiere i doveri che ha verso Dio, e cioè: l’adorazione; il ringraziamento; la riparazione; la sottomissione; l’invocazione; la supplica; la domanda…; sente di dover vivere per Dio, d’intendere ed effettuare con una vita consacrata a Lui e col compiere ogni cosa nel nome di Dio, il suo invito dolce e pressante, cioè: è necessario pregare sempre. Così il dovere della preghiera si riduce al dovere dell’amore, come spesso ha ripetuto Santa Teresa, particolarmente nella sua autobiografia (cap. VII). – A questo proposito, molto bene argomenta l’Olgiati: «Se il centro dell’universo è, per noi, Dio, e non il piccolo nostro io o le misere cose umane, l’animo deve tendere a Lui, non solo quando pieghiamo le ginocchia per adorarlo e per supplicarlo, ma in tutto quanto lo svolgersi della nostra attività, poiché tutto — se amiamo Dio — dobbiamo riferire a Lui e compiere in funzione della sua volontà ».(Olgiati, La pietà cristiana, pag. 56. Milano, 1935).  È l’insegnamento di S. Benedetto, è la pratica di S. Giovanni Bosco che volle i suoi figli sempre sul campo del lavoro e sempre uniti con Dio nei sacrifici dell’apostolato offerti generosamente senza tregua, senza mai cercare se stessi. Lavoro santo, e perciò indulgenziato con particolare indulgenza plenaria quotidiana dal S. Padre Pio XI (1922).

EFFICACIA E CONDIZIONI DELLA PREGHIERA.

La preghiera è l’arma più affilata e più forte che Gesù abbia posto nelle nostre mani. Anche dopo l’ultima Cena Egli lo ricordò chiaramente agli Apostoli: Qualunque cosa chiederete al Padre, in mio Nome, l’otterrete. — Chiedete e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena (Giov., XVI, 24). Se non che, molte anime crederebbero di poter dare una smentita recisa alle insistenti e ripetute affermazioni del Maestro divino. Ci sembra di sentirli a protestare: se la preghiera promette tanto… perché molte volte chiediamo e non otteniamo? La risposta fu già data dall’apostolo san Giacomo: Voi chiedete e non ottenete, perché chiedete malamente (Giac., IV, 3). Gesù ha promesso di esaudire le preghiere ben fatte, non le preghiere comunque espresse. Vi sono, adunque, alcune condizioni necessarie alla preghiera perché sia gradita ed efficace. Eccole:

1° Ogni preghiera dev’essere indirizzata al Padre celeste «in nome di Gesù». In nomine meo, disse Gesù agli Apostoli. Cioè:per la sua mediazione, perché Gesù è l’unicoe vero mediatore presso il Padre, in virtù dei suoi meriti.

2° Chiedere le grazie in nome di Gesù, significa chiedere nella misura e nell’ordine da Lui insegnato. Egli disse, infatti, così: Chiedete anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il rimanente vi sarà dato in sopra più (MATTEO, IV, 33).

3° In terzo luogo, perché la preghiera sia accetta a Dio, dev’essere fatta digne, attente, ac devote, ossia: degnamente, attentamente, divotamente. Come, cioè, se dicessimo: con raccoglimento, con l’affetto di un cuore puro, col desiderio assoluto di piacere a Dio, per mezzo della mortificazione delle nostre inclinazioni che debbono rimanere sottomesse all’impero della nostra volontà la quale si conforma, anzi si uniforma, con quella di Dio. – Quando l’Amleto di Shakespeare passa sulla scena con un libro in mano, Polonio lo ferma e gli chiede: « Che cosa leggete, signore?» . «Parole, parole, parole» risponde Amleto. Ohimè! quante anime cristiane dovrebbero rispondere riguardo alle loro preghiere: parole, parole, parole… dando più che ragione al lamento di Gesù: questi Cristiani mi onorano con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me… Non riusciremo, quindi, a pregare bene, fino a quando non avremo messo in pratica il consiglio di S. Agostino: « Non andare fuori di te… noli foras ire…; entra in te stesso: in te ipsum redi… E dimentica te stesso: trascende te ipsum ». Tutto questo, s’intende, per quanto è compatibile con le nostre forze. Ma dobbiamo usarci violenza, cominciando dal tenere chiuse le porte dei sensi per i quali il nostro spirito sfugge così sovente e per i quali entrano, a sciami chiassosi le distrazioni di ogni genere: parole, spettacoli, pensieri, proiezioni del passato, ricordi e fantasmi.

4° Infine: la preghiera dev’essere umile, fiduciosa, perseverante.

a) Anzitutto: umile. Sta scritto: Oratio humiliantis se nubes penetrabit (Eccli., XXV, 21). Cioè: la preghiera degli umili attraversa le nubi e giunge al trono di Dio. La parabola del pubblicano e del fariseo al tempio ce ne dà ampia conferma (LUCA, XVIII, 13). – Dio resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili (Giac., IV, 6). L’orgoglio nella preghiera è una contraddizione psicologica.

b) Fiduciosa. Perché, pur avendo sempre coscienza della nostra totale incapacità, secondo l’affermazione di Gesù: voi senza di me non potete fare nulla, tuttavia domandiamo con piena fiducia nei meriti di Gesù e nella bontà del suo Cuore divino. Nullus speravit in Domino et confusus est: Nessuno sperò nel Signore e rimase confuso (Eccli., II;11). S. Francesco di Sales così ci consiglia: « Chi spera poco, ottiene poco; chi spera molto, ottiene molto ». – Ricordiamo la diligente, precisa e fiduciosa preghiera del lebbroso, subito corrisposta dal miracolo di Gesù, e, con essa, anche quella del cieco di Gerico e della donna malata che viene guarita appena è riuscita a toccare un lembo dell’abito di Gesù. Gesù stesso ci richiese questa fiducia. Dice S. Matteo: Secundum fidem vestram fiat vobis (IX, 28). E altrove: Habete fiduciam: ego sum, nolite temere (XIV, 27).

c) Perseverante. Lo sappiamo di certo, per esperienza. Talora, Gesù, vuole metterci alla prova. Chi non è stato provato, che cosa sa egli? dice lo Spirito Santo. La prova è la medicina prodigiosa di Gesù. Modello di perseveranza nella preghiera fu la donna Cananea di cui parla .il Vangelo di San Matteo (XV, 21-28). Era stata messa da Gesù a una dura prova: ma perseverò nella preghiera e fu esaudita. Quanti esempi abbiamo a questo riguardo nelle vite dei Santi! Molte furono le preghiere e le lagrime di Santa Monica. Ma quelle preghiere e quelle lagrime offerte a Dio, non andarono perdute e ottennero la conversione del suo figliuolo, il grande santo e dottore della Chiesa, Agostino.

OSTACOLI ALLA PREGHIERA.

Tra i diversi ostacoli ricordiamo qui, soltanto, le distrazioni. Distrazione viene da dis-trahere, cioè trarre in diverse parti. Lo sanno un po’, per esperienza, tutte le anime. Basta che noi ci mettiamo a pregare e ci proponiamo di pregare meglio che ci sia possibile, ed ecco, subito, una radio invisibile, inattesa, insospettata, ci frinisce nelle orecchie e… nello spirito. La fantasia, repentinamente mobilitata, viaggia a grandi giornate, colla velocità più rapida, senza… pagamento di biglietto ferroviario; la memoria, poi, non vuol essere da meno, e si affanna a proiettarci i ricordi del passato su lo schermo del presente. … Così, la preghiera minaccia naufragio. Come fare? Che cosa fare per impedire o allontanare codeste distrazioni? Premettiamo, senz’altro, la necessità della preparazione alla preghiera per mezzo del raccoglimento e del ricordo della presenza di Dio. La preghiera costa fatica; e si deve sostenere questa fatica con allegrezza perché essa è la porta della nostra conversazione con Dio. Ma fatto da parte nostra quanto è di dovere per prevenire o allontanare le distrazioni, specialmente col ricordo della presenza di Dio e la recita di giaculatorie, cerchiamo di stare calmi, tranquilli, sereni, perché il Signore non vuole trovarsi nell’agitazione. Le distrazioni scompaiono?… Deo gratias! Restano? Vi stiano pure; non dobbiamo più preoccuparcene. Non dovremo, di certo, pagare l’affitto pel posto che occupano in noi… Dopo la nostra preferenza per Gesù, abbandoniamoci tranquillamente in Lui e non pensiamo ad altro. – Le distrazioni possono, tuttavia, essere anche utili. L’abate Chapman nelle sue lettere spirituali (The spiritual Letters of Dom Fohn Chapman – Second Edition – Seed Ward-London) a una signora che si lamenta di soffrire distrazioni nella preghiera, osserva pacatamente: In generale la preghiera distratta è più umile di quella raccolta, perché dà maggior gloria a Dio e meno a noi; più tardi troveremo di averne ricavato un maggior bene. Risposta, questa, che può benissimo pacificare anche le anime che si lagnano perché le loro preghiere sono sempre afflitte dalle aridità e dalla mancanza del fervore sensibile, che, come tutti sanno, non è mai necessario. – Scrivendo a una religiosa sullo stesso argomento, il buon abate specifica meglio il suo pensiero: Le distrazioni sono di due specie: quelle che ci distolgono decisamente dalla meditazione, e quell’innocente vagabondaggio dell’immaginazione mentre l’intelletto (apparentemente) ozioso e vuoto, ma la nostra volontà rimane fissa in Dio… A chi gli parla, accorato, delle sue tentazioni contro la fede, risponde, serenamente pacificando: Vi consiglio di « ridere » delle vostre tentazioni contro la fede perché non sono altro che immaginazioni e non meritano attenzione alcuna, senonché, in quanto ci fanno soffrire, ringraziamone il Signore dicendoci pronti ad affrontarle per tutta la vita. E ancora alla stessa persona: Che cosa importa se vi pare di non possedere la fede? Sapete benissimo che avete la fede, ché se non l’aveste, non v’importerebbe affatto di non averla: non siete arrivata alla « semplicità ».

LA PREGHIERA È UNIONE CON DIO.

Concludiamo col santo Curato d’Ars: « La preghiera non è altra cosa che l’unione con Dio: chi ha il cuor puro e unito a Dio, sente in sé un balsamo, una dolcezza che inebria, una luce che abbaglia. In quest’intima unione, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera fusi insieme, non si può separarli. La è pur bella questa unione di Dio con la sua creatura! È la felicità che non si può tutta comprendere ». L’essenziale, nell’orazione, è il contatto dell’anima con Dio nella fede per l’amore. (C. MARMION).

LA VITA INTERIORE (4)

LE VIRTÙ CRISTIANE (11)

LE VIRTÙ CRISTIANE (11)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO, Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIa

LE VIRTÙ CARDINALI

CAPO V.

LA VIRTÙ  DELLA GIUSTIZIA

Il nome di giustizia, che è uno dei più cari nomi della fede e della scienza cattolica, ha nel linguaggio cristiano due significati principali. A volte giustizia vale bontà soprannaturale o anche santità; e allora uomo giusto è colui che, avendo in sé il tesoro della grazia e della carità divina, vive secondo virtù. Così è detto nella Bibbia che giusti sono quelli, i quali camminano nelle vie del Signore; che il giusto vive di fede; e che Giuseppe sposo della Vergine Maria di Nazaret, era uomo giusto, o, che è il medesimo, uomo santo. I giusti in questo senso sono veri figliuoli di Dio, ai quali la Scrittura fa questa nobile e poetica esortazione : “Germogliate, o giusti, come un rosajo, piantato lungo la corrente dell’acqua; spandete soave odore, come l’albero dell’incenso; buttate fiori simili al giglio; spirate odori; gittate amene frondi: date cantici di laude, e benedite il Signore nelle opere sue.” (Eccli. XXXIX, 19)- Altre volte poi la parola giustizia esprime una particolare virtù dell’animo, e anzi una virtù cardinale, che, come mi accadde di dire, non fu ignota alla paganità, ma che i Cristiani elevarono a una nuova altezza, e perfezione, facendola derivare da Dio, ed esercitare per amore di Dio. Or di questa virtù particolare sarà il discorso che segue, il quale ha da servire a mostrarcene la bellezza; e a farcela bene intendere, e molto amare. – La virtù della giustizia governa tutte le nostre relazioni col prossimo, e da ciò trae la sua capitale importanza. Se non che, dopo ciò, che già fu da me detto intorno alla carità del prossimo, potrebbe quasi parere, a chi usa di vedere le cose superficialmente, che la giustizia fosse virtù superflua. Forse taluno dirà a sé medesimo: la carità, dataci da Gesù Cristo come comandamento suo particolare e vessillo della nostra Religione, perché mai non dovrebbe bastare essa sola a governare le nostre relazioni con i proprj fratelli? E non è la carità più ampia, più nobile e più calorosa della stessa giustizia? O la carità e la giustizia sarebbero mai due nomi, che, con diverso suono, esprimono quasi il medesimo? Chi esamini attentamente la cosa ha da dire che assolutamente altra è la carità, altra è la giustizia; che al Cristiano sono necessarie entrambe; e che le due virtù sono quasi due raggi ben distinti del medesimo sole, che è Iddio, eterno Amore ed eterna Giustizia. Però ciascuna delle due virtù amiche ha le sue qualità proprie, e si distingue dall’altra. Invero è certo che ciascun uomo avendo la sua personalità peculiare, ed essendo distinto da ogni altro uomo, ha una dignità e indipendenza propria, della quale s’ha da servire per raggiungere l’ultimo suo fine. Parimenti è altresì certo che i diversi uomini, per somiglianza di natura, per scambievole attraimento d’amore, per il bisogno che l’uno ha dell’altro, per la medesimezza dell’ultimo loro fine, e anche per benigno ordinamento di Provvidenza, debbono consociarsi e vivere tra loro congiuntamente. Ora dalla distinzione e indipendenza personale di ciascun Uomo da ogni altro, deriva il principio della giustizia: dalla debita unione tra le diverse persone procede il principio della carità. Per negare l’una delle due virtù, bisognerebbe o negare che gli uomini abbiano ciascuno una personalità distinta e indipendente, o affermare che tutti gli uomini non si sentano per innumerevoli legami congiunti in quell’unità di famiglia, onde il genere umano risulta uno. Da ciò si deduce anche che ogni cosa che separi troppo l’uomo dall’uomo, è contro la carità; e per lo contrario ogni cosa che diminuisca indebitamente la personalità di ciascuno è contro la giustizia. – Fermiamo dunque alquanto il pensiero nella virtù cardinale e cristiana della giustizia, che, insieme con le altre virtù della prudenza, della fortezza e della temperanza, costituisce uno dei cardini di quell’edifizio di virtù cristiane, che si eleva in alto verso il Cielo. I maestri in divinità definiscono la giustizia una virtù, la quale inchina l’animo a serbare illeso il dritto stretto di ciascuno. In questa definizione ci ha una parola assai significativa, diritto. Il quale dritto, mentre richiede di essere dichiarato e spiegato, ha una grandissima ampiezza; onde fu ed è tuttora cagione di dispute senza fine. Ma il diritto, guardato nella sua sustanza, è nel Cristianesimo ben determinato, e splende come luce e guida soprattutto di qualsiasi umano consorzio, ad incominciare dal consorzio maritale, sino a quello della società civile, e della Chiesa. – Il dritto, a ben considerarlo, sorge nell’umana famiglia da che Iddio fece tali le creature ragionevoli, che in esse vi ha il mio e il tuo. Da che io ho alcune cose, che sono indubbiamente e propriamente mie, come per esempio, la persona, lo spirito, la mano, l’occhio, il piede, e ciò sento intimamente, segue che io abbia il dritto di riferire a me queste cose, e di tenerle siffattamente unite a me stesso, che nell’uso di esse io debba preferire una cosa mia a ciascun’altra. Ne segue pure evidentemente, che nessuno, senza mio volere, possa invadere e far proprio ciò che è mio. Il riconoscimento adunque di ciò, che è proprio, e la naturale facoltà morale di respingere coloro, che intendono di violare questo proprio di ciascuno, esso è il dritto. La giustizia poi, intimissimamente legata col dritto, è posta in ciò, che l’uomo il quale sostiene e difende con ragione il dritto proprio, riconosca e riverisca il dritto altrui, e a ciascuno attribuisca quello che strettamente gli è dovuto. – Da questi primi chiarimenti intorno al dritto e alla giustizia, torna agevole il comprendere che la giustizia, fondandosi tutta nella indipendenza di ciascun uomo dall’altro, e nell’eguaglianza sustanziale di tutti gli uomini tra loro, non deve avere alcun riguardo alle diverse condizioni loro. Una e medesima è la giustizia, sia che si tratti del ricco o del povero, del nobile o dell’ignobile, del buono o del malvagio, del Cristiano o del miscredente. E però chi nell’idea di giustizia facesse entrare riguardi a qualità di persone o distinzioni di ordini civili, nobiliari, ecclesiastici, per ciò stesso adultererebbe bruttamente la giustizia medesima. Le qualità personali, con tutte le loro prerogative particolari e con tutti loro difetti, s’involano, e spariscono affatto, quando trattisi di giustizia. Restano invece il mio e il tuo, che costituiscono la natura individuale, la personalità, e l’indipendenza di ciascun uomo; doti, che furono indelebilmente impresse nel genere umano dal divino suo Creatore. Dunque quel freddo mio e tuo, che, disordinato dal peccato e dalla corruttela umana, genera l’egoismo con tutta la peste dei mali che ne derivano; questo stesso mio e tuo, rettamente inteso e adoperato, è il fondamento del dritto e della giustizia. Non è il mio e il tuo che siano cosa mala, ma la smodata corruzione di questo naturale fondamento che Dio e la natura han posto: Il male, (è utile qui ricordarlo) non è sustanza, come insegna sant’Agostino, ma è soltanto deviamento e corruzione di un bene particolare; perciocché dove non è bene alcuno, che cosa v’ha mai che possa corrompersi? (Confes., L. VII, c. 12). Poiché dunque questa virtù cardinale della giustizia si fonda tutta sul principio, che ciascun uomo ha molte cose sue proprie, è bene considerare che il proprio dell’uomo può essere di diverso genere. Certo, è proprio di ciascun uomo, oltre il corpo e la persona, l’intelletto, la volontà, la memoria; ma di tutte queste cose l’uomo ha proprietà e non dominio intero; perciocché il dominio è delle cose inferiori. Molto meno poi si può avere dominio pieno di quelle cose, che costituiscono esse stesse la essenza del proprietario. È dunque forse più esatto il dire che; di tutt’i nostri beni intimi, e che costituiscono la natura dell’uomo, noi abbiamo una proprietà; la quale, escludendo il dominio, si riduce all’uso che dobbiamo farne svolgendole ai loro fini particolari, e molto più all’ultimo fine, a cui Iddio ha misericordiosamente indirizzata la nostra vita. Nei beni poi esteriori all’umana natura, che non costituiscono la nostra persona individuale, la proprietà nostra diventa dominio; perché è giusto che noi siamo signori delle cose che ci sottostanno, e che ci diventano proprie, per effetto della nostra individuale attività. Di qui veramente sorge quello che propriamente e comunemente si chiama diritto di proprietà, il quale è uno dei cardini, intorno a cui si aggira assai spesso tutta la macchina dell’umana giustizia. E, benché questo dritto oggidì alcuni con nuova audacia e petulanza si sforzino di negare; pure esso è così inerente alla natura umana, che non può farne senza. In vero se all’uomo appartenesse soltanto l’uso, e non la proprietà delle cose esteriori, a cui ha dritto, ei vivrebbe tra continue ambasce, e lo invaderebbero strazianti timori di perdere tutto ciò che possiede. Ma quel che rileva anche più, è che l’uomo, se non diventasse signore del frutto della propria attività, e nol potesse trasmettere ai figliuoli o ad altri; a lui mancherebbe il maggiore stimolo al lavoro: l’agricoltura, i mestieri, le arti belle, le industrie, i commerci sarebbero poco più che un’ombra. Tolti i maggiori stimoli dell’operare, tutte le umane attività, e facoltà operative rimarrebbero o svigorite o soffocate o spente; intanto che per un altro verso la mancanza della proprietà genererebbe dissidj, risse e guerre interminabili. (Vedi particolarmente la mirabile Enciclica De Condizione Opificum, 15 maggio 1891.) –  Del rimanente questa questione della proprietà l’ha già da gran tempo risoluta un fatto di per sé chiaro ed evidente, che si presenta agevolmente sotto gli occhi di tutti. Tra i barbari ci ha poco lavoro, o lavoro soltanto di schiavi; pochissimi sono proprietarj. Intanto tra essi dominano le forze brutali; vivono peggio che in una selva oscura e selvaggia, per molti rispetti somiglianti alle bestie. Nelle nazioni civili per lo contrario molto lavoro, molte proprietà: e tutto ciò lo vediamo congiunto col benefizio inestimabile della civiltà, e con tutte le sue dolcezze. Né  vale l’opporre che, tra le genti civili, abbondino i poveri, sia perché ciò deriva in gran parte dalle umane corruttele, sia infine perché anche i nostri poveri sono in condizioni assai migliori di quelle dei barbari. Neppure da queste cose s’ha da conchiudere che la barbarie derivi unicamente da che il principio di proprietà tra i barbari sia assai meno conosciuto che nelle nazioni civili. Noi affermiamo sempre, e con ottime ragioni che il principale fonte della civiltà nostra sia il Cristianesimo. Il quale però (è bene notarlo) ha sempre virilmente ed efficacemente difeso il principio di proprietà, non lasciandolo in balìa del capriccio di ciascuno, come tentano di fare oggidì i miscredenti, ricchi di danaro, e spesso poveri di cuore e d’intelletto: ma corredandolo di quel presidio fermo e irremovibile della giustizia, onde si nobilita la proprietà e si rende feconda d’innumerevoli beni. – La giustizia, come nota san Tommaso, va distinta principalmente in giustizia commutativa, e in giustizia distributiva. La prima si riferisce all’ordine tra una persona e un’altra; la seconda guarda all’ordine della comunità verso ciascun suo membro: quella, nel retribuire, mira all’eguaglianza tra ciò che si dà e ciò che si riceve: questa guarda alla proporzione dei meriti, al premio e alla pena. La giustizia commutativa è ben significata dalla bilancia che, avendo due coppe, misura esattamente ciò che si dà e ciò che si riceve. Se l’una delle coppe trabocca, la giustizia vien meno; onde l’uomo che vuol essere giustissimo si può dire che ei debba misurare tutte le cose, per quanto può, con la bilancia esattissima dell’orafo. Quanto poi alla giustizia distributiva, che è forse la più difficile e nondimeno la più necessaria, s’ha da por mente, che essa ha luogo in qualsiasi forma di comunità: di che non se ne può far di meno in una famiglia ben governata, o in una Comunità religiosa, o in una qualsivoglia associazione civile o commerciale. Richiede poi sempre rettitudine di giudizj, serenità di animo sgombro da passione, occhio perspicace nel giudicare gli uomini, e prudenza. Principalmente però la giustizia distributiva è il fondamento, sopra di cui si elevano gli Stati civili, i quali prosperano con essa, e decadono senza di essa, secondo l’insegnamento della Bibbia, ahi! purtroppo disgraziatamente dimenticato: “La giustizia fa grandi le nazioni, intanto che il peccato le ammiserisce” (Proverb. XIV, 34.). – In vero la giustizia è la vita di ogni Stato bene ordinato; e così lo intesero anche i migliori tra i filosofi pagani, tra i quali Cicerone, filosofo e oratore celebratissimo, lo affermò forse meglio d’ogni altro. La giustizia negli Stati informa le leggi, ispira e guida i magistrati00 nei giudizj, regola la distribuzione degli ufficj, i premj e le pene, entra e prende parte in qualsiasi appartenenza della vita civile. Certo, a governare bene e rettamente, si richiedono anche concetti veri e chiari di molte altre cose, e particolarmente dell’autorità, della libertà e dell’armonia, onde l’una deve essere unita all’altra. Ma né l’autorità né la libertà umana vivono di vita vera e prosperano, e fruttificano senza la giustizia. Che è mai l’autorità negli Stati, senza la giustizia? È tirannide. E che è mai negli Stati la libertà, senza giustizia? È licenza. I due concetti dell’autorità e della libertà, quando sieno scompagnate dalla giustizia, non che giovino a uno Stato bene ordinato, ne apparecchiano il dissolvimento, e sono cagione perenne d’irreparabili rovine. Or in proposito di cosiffatta verità, mi occorre alla memoria un breve Capitolo della Città di Dio di sant’Agostino; il quale mi s’impresse talmente nell’animo, quando lo lessi, che poi non l’ho più dimenticato. Esso è di questo tenore: “Che son mai gl’imperi, senza giustizia, se non una grande radunata di masnadieri? E d’altra parte: che è mai una radunata di masnadieri, se non un piccolo impero? Essi invero formano una cotale società, governata da un capo, legata da un contratto; nella quale la divisione delle prede di guerra si fa secondo alcune leggi convenute. Ponete il caso che questa società malvagia s’accresca di numero, raccogliendo altra gente perduta; che s’impadronisca di castelli e di città; che soggioghi questo o quel paese: ed ecco che prende il nome di regno, non perché abbia smesso la propria rea cupidità, ma perché ha saputo acquistare la propria impunità. Un pirata, venuto tra le mani di Alessandro il grande, affermò con gran verità e coraggio questo medesimo che io or dico. Avendogli chiesto il grande Imperatore, perché  mai turbava il mare con le sue rapine; il pirata rispose: per la medesima ragione, onde tu turbi la terra. Ma poiché io non ho che una piccola nave, mi chiamano pirata; e, poiché tu per lo contrario hai gran numero di navi e di soldati, tu prendi il nome di Conquistatore.’” (De Civit. Dei, L. IV. Cap. 4.). – Ed ora che spero di avere alquanto chiarita l’idea di giustizia, sarà bene di accostarla di nuovo, come fu fatto avanti, all’idea di carità, per vedere quanto l’una sia distinta dall’altra, e nondimeno quanto nobile e profonda armonia sia tra esse; un’armonia anzi, per la quale il suono dell’una senza dell’altra non è sempre gradevole a noi Cristiani, né basta a contentarci. Tutte due unite insieme ci dànno concenti bellissimi e veramente celestiali. – Chi ben consideri gli uomini con intelletto riflessivo; ed ei s’avvede di leggieri che il Signore gli uomini li fece in pari tempo uguali e disuguali fra loro: eguali nelle doti sostanziali e costitutive dell’uomo, disuguali, nelle accidentali, che non tolgono a ciascun uomo la sustanza dell’esser suo, ma rendono ciascun individuo differente dall’altro. Chi non vede che gli uomini sono eguali sustanzialmente, perché hanno tutti un’eguale personalità, tutti un intelletto illuminato e illuminante, tutti una volontà libera, tutti, i medesimi membri costitutivi del corpo umano, tutti la medesima tendenza al bene, la quale è amore? Questa verità è nota a ciascuno anche per solo lume di ragione, e per riflessioni intellettive. Che se ci volgiamo agli insegnamenti cristiani è certo che tutti gli uomini furono da Dio creati a sua immagine, e indirizzati a un medesimo fine altissimo; tutti altresì redenti da Cristo, e fatti capaci dei celesti tesori della vita soprannaturale. Intanto questi medesimi uomini sustanzialmente eguali, Iddio li fece altresì disuguali, e disuguali accidentalmente in quei medesimi doni, che sustanzialmente costituiscono la eguaglianza umana. Già questa legge dell’eguaglianza e della disuguaglianza nelle creature, anche d’un medesimo genere, è comune a tutto il creato, e si manifesta meno o più, secondo la minore o maggior perfezione delle creature stesse. Volgiamo, per esempio, lo sguardo ad un roseto. Tutte le piante sono di rose, e tutti i fiori son rose; ma quante varietà tra rosa e rosa. Alcune odorose, altre no; alcune negli steli con i pungiglioni disuguali e ricurvi, altre con i pungiglioni lisci; tutte varie nel colore o rosso incarnato o vermiglio o rosso pallido, o rosso acceso o di color bianco o giallo: quelle che hanno molte spine attorno, e queste poche; talune sboccianti e vigorose, tali altre flosce e appassite. – Molto più ciò avviene tra gli uomini. Tutti gli uomini invero siamo eguali per quel che riguarda la sustanza della personalità umana; ma quante disuguaglianze di ogni sorta tra persona e personal Tutti siamo eguali, perché dotati d’un intelletto illuminato e illuminante; ma quanti gradini in questa scala dell’umana intelligenza, che tiene alla base moltissimi intelletti tardi e pigri, cresce di grado in grado, e poi giunge ad avere alla cima degl’intelletti, come quelli di Platone, di sant’Agostino, di san Tommaso, di Dante e di Vico? Quanta disuguaglianza nelle volontà forti o fiacche, nobili o volgari! E poi chi vale a noverar le disuguaglianze delle fantasie, delle memorie, degli inchinamenti particolari di ciascuno, e altresì dei vari temperamenti, dei corpi sani o malati, forti o deboli, belli o brutti? Queste disuguaglianze poi s’accrescono a mille tanti nell’uomo estrinsecamente operante. Poiché l’operare umano è il frutto di molte forze disuguali, che s’intrecciano tra loro, or combattendo l’una con l’altra, ora intoppando l’una nell’altra, e spesso pure armonizzandosi tra loro: poiché ancora questo operare umano è governato dal libero arbitrio, che di ciascuna dote personale si può servire in mille modi; ne segue che le disuguaglianze interiori degli uomini si trasfondano nella vita esteriore di ciascuno, e accrescano le umane disuguaglianze. – Ora il Cristianesimo, con nobile e alta filosofia, ci dà due possenti virtù. Una procede dall’uguaglianza della natura e dei diritti, la tien salda e la rafferma: essa è la giustizia. L’altra corrisponde alle disuguaglianze, e mira a temperarle, ad attenuarle e ravvicinarle con l’affetto, a renderle meritorie e fruttuose di vita eterna : e questa è la carità. L’una e l’altra virtù sono necessarissime al Cristiano, ed è pure necessarissimo che sieno ben distinte tra loro; perciocché chi voglia confonderle, a volta le turba malamente, a volta le distrugge. La giustizia, confondendosi con la carità, perde, insieme con le sue proprie e severe sembianze, il suo vigore, la sua precisione, la sua immutabilità. ,La carità, confondendosi con la giustizia, perde invece le sue ineffabili dolcezze, la sua poesia, le sue grazie. La Chiesa ha ben determinati i confini tra la giustizia e la carità, i quali sorgono dalla diversa natura delle due virtù. La giustizia si deve a tutti egualmente e sempre; e però crea un dritto particolare e costante in ciascuno. La carità è un dovere imposto a tutti; ma che non crea dritto in alcun uomo in particolare. E da questo stesso, che a prima giunta può parere uno svantaggio della carità, scaturisce nell’anima del beneficante e del beneficato un tesoro di dolcezza, di nobiltà e di virtù. La carità, non importando dritto particolare in chi riceve, genera la gratitudine e l’affetto, onde si stringono dolcemente il beneficante e il beneficato. Se si trasformasse la carità in giustizia, come taluni vorrebbero fare ai nostri giorni, perciò stesso si spezzerebbe uno dei più nobili vincoli d’affetto e di merito, che si trovano tra gli uomini. Se il povero particolare da me beneficato ha dritto a quel benefizio; perché mai egli mi dovrebbe esser grato? Perché mai io dovrei accendere in me la fiamma del santo amore verso il beneficato? Oltre a ciò, quel non so che di aritmetico e di geometrico che, come insegna san Tommaso, va sempre congiunto con la giustizia, manca affatto alla carità. La quale appunto per una sua certa indeterminatezza nella quantità e anche nelle persone da beneficare, ha bisogno in chi benefica, del cuore largo, del profondo sentimento della compassione, e dell’amore del sacrifizio; tre leve possenti a fare il bene, e tre abbondanti fontane di virtù e di meriti alle anime cristiane. Oh, se queste cose le comprendessimo meglio tutti quanti siamo stati rallegrati dalla grazia del Battesimo, oh quanti mali di meno rattristerebbero la nostra vita! oh quanti timori si dileguerebbero nella società civile!

LA VITA INTERIORE (2)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (2)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna – Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4a edizione, Riveduta.

Nihil Obstat quominus imprimatur: Sac. Don Luigi Carnino

Imprimatur Di Curia Arch.Taurin 11 oct.1937; Mons. Lorenzo Coccolo Vic. Gen.

Visto per la Congregazione Salesiana – TORINO, 4 VOV. 1937 Sacerdote Giovanni Zolin

TORINO – SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE – 1943

I.

NECESSITÀ DELLA VITA INTERIORE

LA VITA INTERIORE È NECESSARIA

VITA MOVIMENTATA.

Per poco che ciascuno di noi vi abbia prestato attenzione, di leggieri s’è accorto che (parliamo così, per modo di dire, soltanto degli ultimi tempi) la vita, tanto in Italia che all’estero, è stata, ed è, molto movimentata. Settimane sociali, settimane di studio, settimane di poesia, congressi eucaristici, congressi di filosofia, congressi scientifici, convegni d’ogni genere, inaugurazioni di mostre, di prodotti nazionali, pellegrinaggi per ogni dove; e, aggiungete voi, viaggi per mille direzioni coi treni popolari. Tutto questo con un movimento accelerato, febbrile vorrei dire, nella vita italiana e in quella non italiana. Perché? Molti i motivi. Il principale di essi è dato dalla caratteristica spiccata di questa prima parte del nostro secolo: la vita energetica, la vita movimentata, la vita d’azione. Per se stessa, la caratteristica è buona. Ciò che in questa vita non è buono, è l’eredità del secolo che accompagna questa caratteristica, cioè l’irreligiosità, l’indifferenza, la spiccata presunzione all’autonomia e alla vita godereccia. In breve: tendenza al movimento e all’azione con la soppressione del valore morale e religioso. Questa tendenza poi s’è infiltrata, e continua a infiltrarsi, anche fra i buoni, cioè fra i veri Cattolici, che dànno sé stessi al compimento dell’apostolato secondo le loro categorie sociali.

UN GRAVE ERRORE.

Sappiamo che è apostolo colui che dona se stesso, con le sue forze, al bene altrui. Ma chi non ha, non può dare; per avere, bisogna chiedere e domandare solo a Dio. Avviene così che tanti, troppi, si gettano nell’azione generosamente… Ma, ahimè! Alle prime difficoltà, è uno sbandamento da far paura. Ecco la causa di molte defezioni, che possono meravigliare, ma che sono spiegabilissime. Oggi, nonostante molte e consolanti eccezioni, si vive in un mondo paganeggiante. È con sdegno e con ripugnanza che si devono constatare, ogni giorno, certe superstizioni, così sorpassate e pur ancora così radicate, in troppi individui, il cui numero e la cui condizione sociale fa rabbrividire. – Effetti dolorosi di cause ancor più dolorose. Ma ritorniamo a noi. Perché le azioni, perché il lavoro nostro sia efficace, perché le nostre opere possano diventare, abbiano anzi a diventare preghiera, è necessario ch’esse siano permeate di un fermento divino. Questo fermento divino è dato solo da chi può darlo, cioè da Gesù Cristo, fonte di grazia, unica guida eccitatrice di cuori e di coscienze. Il Padre E. Hoornaert dice a questo proposito: « Ch’Egli (cioè l’apostolo) si muova meno! Si raccolga più! Che sia meno febbrile, più unito con Dio! Ch’egli ami un po’ meno la città, un po’ più il deserto. Il deserto! Come ne abbiamo tutti bisogno, soprattutto alla nostra epoca! Un reale danno è di non più badare che alle opere ».

È CONDIZIONE ESSENZIALE PER L’APOSTOLATO

FRUTTO DI ESPERIENZA.

L’esperienza insegna che l’apostolato è assai superiore alla vita, sia pure buona, come suol dirsi, delle anime cristiane. È eccedenza di grazia, per così dire. Ma non è possibile esercitare nessun genere di apostolato senza vita interiore, senza vita ricca di grazia abbondante. Perciò, possiamo ben dire che il presupposto d’ogni forma di apostolato è la vita interiore data dalla grazia, data dall’intimità con Dio. L’azione è buona, afferma in una sua recente pubblicazione, Domenico Giuliotti, la contemplazione è migliore. Il Cristiano che semina è buono, ma il Cristiano che, prima di seminare, prega, è ottimo: perché l’azione è feconda solamente se è preceduta dalla contemplazione. Buona cosa, dunque, la volontà e lo sforzo nel fare il bene. Ma l’uno e l’altra debbono essere sostenuti dalla grazia di Dio, da questa forza intima e segreta, da questo lievito superiore che eleva, spiritualizza e sostiene nel combattimento santo per la gloria di Dio.

NOSTRO PROPOSITO INDEROGABILE.

Se per esercitare l’apostolato e trasfondere nei cuori e nelle anime la grazia di Dio, dobbiamo essere preventivamente sovrabbondanti della stessa grazia nelle intimità di Cristo Gesù, è, pure, nostro obbligo di accostarci frequentemente con letizia santa alla fonte d’acqua viva per dissetare le nostre anime. Gesù ce ne fa caldo invito: Se qualcuno ha sete, venga da Me e beva. Dissetàti a questa fonte, ci raccoglieremo nella vita nascosta secondo il consiglio dell’Apostolo: La vostra vita sia nascosta con Cristo Gesù… – Cristo sia la vostra vita. Per questo gioverà molto il silenzio e la prudenza intorno al nostro modo di ricercare il Signore. Non sempre incontriamo anime amiche, o anche solo ben disposte a comprenderci. Non sempre e non dovunque. possiamo risvegliare delle simpatie. Però, possiamo ben dire anche noi che coloro i quali non simpatizzano con noi, lo fanno forse a fin di bene. Cooperano, certo, anche queste anime facendoci avveduti e prudenti. Attendiamoci, però, solo e sempre, tutto da Dio solo. – È con questa vita di raccoglimento che ci sentiremo vigoreggiare, ogni giorno più, nella via del bene, nel cammino della perfezione, nel raggiungimento della santità. Il fine è uno: divenire dei santi per essere degli apostoli: morire al mondo per rinascere Cristo. E anche il mezzo è unico: vivere una vita interiore; vivere una vita interiore, che significa vivere una vita eucaristica. – Nella vita eucaristica v’è la potenza unica per la completa trasformazione. Lodare, adorare il Padre; procedere nella luce del Figlio; ardere nel fuoco dello Spirito Santo. Dunque: dissetarci alla fonte di Gesù; nutrirci di Gesù… Ricevere, avere, conservare… per donare.

GESÙ VUOLE VIVERE IN NOI.

Nel più grande discorso di Gesù, quello, cioè, che tenne agli Apostoli dopo l’ultima cena, mirabilmente prezioso in ogni sua parola, per affermare chiaramente la stretta unione esistente fra Lui e gli Apostoli, fra Lui e le anime, così disse: Io sono la vite e voi siete i tralci… colui che si tiene a me, ed Io in lui, porta molto frutto, perché senza di me — cioè: separàti da me — voi non potete far nulla. – Bene quindi l’Apostolo: Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo? (I Cor., VI, 15). Come il corpo è uno, ed ha molte membra, e tutte le membra del corpo essendo molte, tuttavia sono un solo corpo, così anche Cristo (Ibid., XII, 12). Ancora: Cristo è il nostro capo. Da lui tutto il corpo compaginato e connesso per via di tutte le giunture di comunicazione, secondo un’operazione proporzionata a ciascun membro, prende l’aumento proprio del corpo per la sua edificazione nella carità (Eph., IV, 16). – Il principio della vita sovrannaturale in noi è, adunque, dato dall’unione che esiste fra noi e Gesù. Questa vita sovrannaturale trovasi in Gesù come nel suo principio, nella sua sorgente — sorgente inesauribile — e da Lui trabocca, per divina disposizione, nelle nostre anime. Per cui, con gioia, ripetiamo: De plenitudine eius omnes nos accepimus: Dalla pienezza di lui noi tutti abbiamo ricevuto (Giov., I, 16). Ricevuta da Gesù questa vita sovrannaturale, abbiamo in noi quel principio fondamentale capace di unificare, sintetizzare, governare. tutte le manifestazioni della vita: un pensiero unico, cioè, dominante, che segue, abbraccia, dirige la nostra mente e le nostre azioni, che evita una dannosa dispersione delle nostre energie e rende salda e forte la loro unità. Solo così, noi irradieremo luce di verità e di bene; trasformeremo il finito nell’infinito, il mortale nell’immortalee l’effimero nell’eterno.

COME E PERCHÈ GESÙ VUOLE VIVERE IN NOI.

Si potrebbe rispondere brevemente così: Gesù vive in noi per mezzo della sua grazia; e desidera vivere unito con noi per l’amore stesso che nutre verso di noi. Sappiamo benissimo che i meriti di Gesù sono infiniti, e che, per l’appunto, con questi meriti Egli ha riscattato tutta l’umanità, poiché, proprio per questo fine della redenzione umana, Egli lasciò il cielo per la terra, la gioia per il dolore, per l’abbiezione, per la povertà. Ora, i meriti di Gesù sono la fonte della sua grazia; la grazia, poi, è l’origine di tutte le grazie. Certamente è Dio stesso che versa la grazia nelle anime; ma Dio si serve, per modo di dire, della santa Umanità di Cristo Gesù come di uno strumento che gli è di aiuto. – « Lo strumento, dice S. Tommaso, può essere distintissimo da chi lo usa, come il bastone è distinto da colui che percuote; ma la mano è uno strumento strettamente unito all’agente. Così Dio versa la grazia, e ne è la causa produttrice, ma l’Umanità di Cristo è il suo strumento congenito, e i sacramenti sono suoi strumenti distinti ». – Seguendo questo insegnamento di S. Tommaso e di quasi tutti i Teologi, possiamo concludere: perché nei cuori e nelle anime nostre scendano copiose e la grazia santificante e la grazia attuale ché vengono, pure, elargite ai peccatori, è sempre necessaria un’azione, una concessione di Gesù. Ma ognuna delle azioni presuppone presenza, contatto, continuità: anche per questo possiamo con certezza affermare che v’è unione fra Gesù e gli uomini. « Questa unione, dice un pio autore, è d’un ordine sì elevato e sì intimo che il linguaggio umano è impotente a spiegare: essa resta un mistero fino a che noi restiamo nelle ombre della fede: vediamo bensì che i legami i quali ci uniscono a Cristo sono legami stretti, ma non ne afferriamo che imperfettamente la natura ».

NOSTRO DOVERE DI RESTARE UNITI A GESÙ!

Questo dovere ci è ripetutamente, insistentemente, caldamente raccomandato dal grande Apostolo. Ecco alcune delle sue principali esortazioni: « Induimini Jesum Christum: Indossate Gesù Cristo » (Rom., XIII, 14); «Induimini novum hominem: Indossate l’uomo nuovo », cioè: Gesù Cristo (Ephes., IV, 24); « Hoc sentite in vobis quod et in Christo Jesu: Abbiate in voi lo stesso sentimento ch’è in Cristo Gesù » (Phil. II, 5). –  Pensieri, parole e consigli così bene commentati dal Santo Eudes: « Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, non essendo solo il nostro Dio, il nostro Salvatore e il nostro sovrano Signore, ma anche il nostro Capo, ed essendo noi le sue membra e il suo corpo, come parla San Paolo: « osso delle sue ossa e carne della sua carne » (Ephes., V, 30) e per conseguenza essendo con Lui uniti nella più intima unione che sia possibile com’è quella delle membra col loro capo, con Lui uniti spiritualmente per la fede e per la grazia che ci diede nel santo Battesimo, con lui uniti corporalmente per l’unione del suo santissimo Corpo col nostro nella santa Eucaristia, ne segue necessariamente che, come le membra sono animate dallo spirito del loro corpo e viventi della sua vita, cosi noi dobbiamo essere animati dallo spirito di Gesù, vivere della sua vita, camminare sulle sue tracce, essere rivestiti de’ suoi sentimenti e delle sue inclinazioni, far tutte le nostre azioni colle disposizioni e intenzioni ond’Egli faceva le sue: in una parola, continuare a compiere la vita, la religione e la devozione ch’Egli esercitò sovra la terra ».

LA GRANDE NOSTRA DIGNITÀ.

Gesù ci ha chiamati alla gioia dell’unione più intima con Lui; le sue parole sono traboccanti di letizia e di serenità; fiduciosi in Lui, non dobbiamo limitare la nostra adesione, la nostra corrispondenza, la dedizione, l’abbandono in Lui completo e definitivo, qualunque sia stata la nostra vita passata, qualunque essa sia, nella vita presente, e in qualsivoglia condizione — volontariamente o no — noi ci troviamo in questo istante. Eleviamo la preghiera del nostro cuore al Signore, e diciamogli, per sempre, il desiderio nostro: vivere, Gesù, in te e per te: Ad te levavi animam meam; Deus meus, in te confido, non erubescam.

LE VIRTÙ CRISTIANE (10)

LE VIRTÙ CRISTIANE (10)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO, Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIa

LE VIRTÙ CARDINALI

CAPO IV

LA TEMPERANZA

La temperanza, che nell’ordine da me seguìto, è la terza delle virtù cardinali, si può considerare in due modi, come già mi accadde di dire della fortezza. Il nome di temperanza, preso nella sua significazione più larga e generica, lo si dà a qualsiasi virtù, che temperi l’affetto, allontanandolo da ciò, che lo alletta contro le norme della ragione. Intesa così, la temperanza abbraccia direi quasi tutto l’uomo morale; onde si estende anche ai quei beni spirituali, i quali han ragione di mezzi, conducenti al Bene eterno e supremo. In modo più stretto poi è la temperanza quella virtù particolare, che tempera e infrena l’appetito, nelle cose, che massimamente ci dilettano, cioè nei piaceri del gusto e del senso. Di qui si vede la somiglianza, e pur la differenza, che corre tra la fortezza e la temperanza. Mentre che la fortezza ci fa vincere le cose, le quali specialmente ci ritraggono dall’operare il bene; la temperanza ci fa vincere quelle cose, che massimamente ci allettano, e con i loro attraimenti ci tirano in basso ad operare il male. Sono dunque due virtù sorelle, le quali si dànno la mano, e tanto più facilmente, in quanto che le due battaglie, che l’uomo combatte contro gli ostacoli, e contro gli allettamenti, il più delle volte, sono così unite tra loro, che appena si distinguono. Come quando in un incendio soffia forte il vento, una fiamma ne eccita un’altra, e questa rinfiamma la prima; così l’esser noi fiacchi contro certi ostacoli del bene, c’infiamma ad ogni sorta d’intemperanza nelle tentatrici dilettazioni del gusto e del senso; e così pure viceversa. – Le sacre Scritture, che ci commendano tanto di frequente le altre tre virtù cardinali, di questa della temperanza non hanno il nome; ma, se manca il nome, non manca certo la cosa. Anzi, il pensiero in essa contenuto, un pensiero pieno di luce e di bellezza, il quale si armonizza mirabilmente con tutta l’etica cristiana, si trova espresso e lodato in molti luoghi della Bibbia, e particolarmente in quelli, nei quali si comandano o l’astinenza o la mortificazione o la castità. Il nome di temperanza, come fu detto avanti, ci viene dalla filosofia pagana, la quale, quando seguì la buona via, fu anch’essa amore di sapienza, e però amore di Dio che è sapienza sustanziale. La Chiesa poi e i Padri accettarono di buon grado questo nome, poiché esso esprime un concetto buono in sé e cristiano. E non solo accettarono il nome, ma, come fecero delle altre virtù cardinali, nobilitarono e elevarono la temperanza alle regioni soprannaturali e celesti. Laonde, in quella guisa che il Cristiano non si tien pago di esser prudente e forte nell’operare secondo ragione, ma adopera la prudenza e la fortezza dell’animo soprattutto per glorificare Iddio, obbedendogli, e per conseguire il possesso dell’Infinito ed eterno Bene; così per questi medesimi fini egli vuol essere ed è temperante. Appena io valgo a dire quanto grande sia il bisogno, che il Cristiano ha di questa virtù; seme fecondo di tante e tante altre. Basta del rimanente che l’uomo miri un po’ attentamente se stesso per persuadersene. – La temperanza, essendo ordinata a infrenare gli appetiti inferiori, i quali con le possenti dilettazioni loro ci tirano in fondo e ci spingono al male; ciascuno interroghi sé medesimo e dica a sé : sento io o no cotesti appetiti? e sono o no in me disgraziatamente vivi, petulanti e talvolta tiranni? I diletti loro mi commuovono, mi trascinano e mi pajono molto desiderabili, o è forse vero il contrario? L’Apostolo san Paolo, parlando di sé medesimo, ci scolpisce così bene lo stato battagliero della nostra natura, per effetto dei disordinati e dilettosi appetiti suoi, che meglio non si potrebbe fare. Ciascuno in vero trova se stesso nelle parole dell’Apostolo; e, se taluno, per grande perfezione di virtù, arrivasse a non trovarcisi, beato lui! “Io dunque, dice san Paolo, mi trovo sotto questa legge, che, volendo fare il bene, il male mi sta dappresso. Perciocché io mi diletto nella legge di Dio, secondo l’uomo interiore; ma veggo un’altra legge nelle mie membra, la quale combatte contro alla legge della mente, e mi fa schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Misero me uomo! Chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor Nostro.” Così scriveva di sé medesimo un grandissimo Santo, il Vaso d’elezione, destinato a portare il nome di Cristo a tutte le genti. Che si dovrà poi dire di coloro, che nudi di ogni temperanza, si lasciano andare a tutti gli appetiti e a tutt’i moti delle passioni? Al di fuora talvolta appariscono gai, sorridenti e contenti di sé stessi; ma dentro, l’animo loro agitato da mille venti, freme come un mare in burrasca. Mi par proprio che in quella guisa che vediamo talvolta sul mare già grosso soffiare un vento impetuoso, e le ondate accavallarsi le une sulle altre, e le acque frangersi su gli scogli e spumare e rovesciare le barche; così accade nell’animo allorché forti passioni lo levano in tempesta. Che se grande è il bisogno di questa virtù della temperanza, grandissima poi è la difficoltà nel conseguirla: di che è avvenuto, che i filosofi pagani l’hanno sì conosciuta con la mente, e magnificata con le parole, ma assai di rado messa ad effetto con le opere. Il Cristiano, per lo contrario, quando non sia soltanto tale di nome, è temperante, per effetto della grazia divina, pel continuo fervore, onde prega da Dio gli ajuti celestiali, per lo studio che mette nel tenersi lontano da tutte quelle cose che, eccitando vivamente gli appetiti interiori del senso, li rendono poi ribelli e tiranni. E nondimeno, anche quando ei, per lungo uso di temperanza, pare al tutto signore di sé medesimo, non cessa però di sentire dentro di sé quella legge del male che è frutto di peccato, ma che Iddio ci ha lasciata, anche dopo la redenzione, come strumento di virtù e cagione di aumento di meriti. Sino gli stessi Santi, d’ordinario, non furono liberati dagli appetiti ribelli e dilettevoli della natura corrotta. Infatti chi potrebbe leggere senza grande stupore ciò, che san Paolo scrive di sé medesimo in questo proposito? “Affinché, egli dice, l’eccellenza delle mie rivelazioni non mi levi in altura (di compiacenza e di vanità) m’è stato dato uno stimolo nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. Sopra di che tre volte pregai il Signore che mi fosse tolto: ed ei dissemi, basti a te la mia grazia; imperocché la potenza mia arriva al suo fine, per mezzo della debolezza. Volentieri adunque mi glorierò nella infermità, affinché aliti in me la potenza di Cristo.” (2 Cor. XII, 7 e segg.). Quanta luce di misteriosa verità è in queste parole! Quanto mai è diventata nobile e grande in Cristo la stessa nostra debolezza! Tutte le virtù, come m’accadde di dire altra volta, splendono di una smagliante luce di bellezza. Nonpertanto è degno di nota che l’Angelico san Tommaso attribuisce alla temperanza il pregio d’una beltà tutta sua propria e particolare. Il fatto proviene da buone ragioni. Primamente, secondo il comune giudizio, dalla temperanza deriva in noi una certa moderata e conveniente armonia tra tutte le parti, che costituiscono l’uomo morale. Chi è temperante, non si lascia mai sopraffare dal diletto degli appetiti sensuali: di che egli non pencola di qua e di là, ma si tiene in equilibrio, come quei corpi che, sebbene siano sollecitati al moto da più forze contrarie, durano in riposo. Ora, in quel modo che la bellezza fisica si ha per l’armonia delle parti diverse, e per lo splendore che ne deriva; così la bellezza morale è l’armonia di tutte le parti, onde si compone l’uomo morale e lo splendore che ne proviene. L’altra ragione, onde la temperanza ha dote particolare di bellezza, deriva da che gli appetiti, i quali vengono tenuti in freno dalla temperanza, sono gl’infimi appetiti dell’uomo, e comuni anche agli animali. Però giustamente si attribuisce una grandissima bellezza alla temperanza, che modera e governa questi appetiti, elevando così tutto l’uomo, quasi direi anche il corpo, alla nobile bellezza delle cose spirituali e delle creature angeliche. Intanto qual è mai la regola suprema di questa virtù della temperanza? In quali cose mai la temperanza giustamente infrena gli appetiti del senso; i quali ancorché siano dilettevoli, debbono nondimeno essere contenuti nei giusti limiti? L’unica regola, che mentre governa le cose dilettevoli del senso, ci è comandata dalla temperanza è la necessità. Necessità dica di ciò, che serve all’essere, e necessità altresì di ciò, che serve all’essere, secondo la convenienza sua. Per siffatta guida l’uomo temperante si serve moderatamente del diletto del cibo per mantenere la vita e la sanità, e se ne serve altresì, senza colpa, quando moderatamente usa del cibo, secondo le abitudini oneste, e, secondo le convenienze del luogo, del tempo e delle persone, con le quali vive. La temperanza dunque come insegna san Tommaso, allorché si riferisce alle necessità di convenienza, mira non solo alle convenienze del proprio corpo, ma anche alle convenienze delle cose esteriori, come sono le ricchezze o lo stato di ciascuno. Sempre però la temperanza bene intesa mette innanzitutto il debito di seguire ciò che è onesto e secondo ragione. Di che sant’Agostino racchiude tutta la regola della temperanza cristiana in queste parole: “L’uomo temperante guarda alla necessità della propria vita, e altresì alla necessità del proprio stato.!” (De Moribus Ecclesiae, citato da san Tommaso, 2, 2; q. 141, artic. 6). – E ora diamo un’occhiata a una di quelle virtù, che sono seme e frutto di temperanza, e che, nel comune uso di parlare talvolta è detta essa stessa temperanza. Intendo accennare a quella mortificazione, che il Cristiano usa nei cibi o col digiuno o con astenersi da alcuni cibi particolari, sia per libero volere di mortificarsi, sia per comandamento della Chiesa. – Dalle cose dette sin qui si potrebbe vedere di leggieri con quanta nobile e alta sapienza nel Cristianesimo sieno o comandati o pur consigliati i digiuni e le astinenze. Ma non sarà forse inutile di approfondire alquanto l’argomento; perciocché ai nostri dì è tanto grande il dispregio e la disistima di questi precetti ecclesiastici, frutti di temperanza, che taluni arrossiscono dal praticarli, e altri li tengono per piccinerie e grettezze da pinzocchere e da fanciulli. E pure, incredibile a dire, i digiuni e le astinenze furono virtù non ignote ai pagani. Come poi noi porteremo mai degnamente il nome di Cristiani, se non terremo in istima e non ameremo le virtù lodate e praticate da Cristo per darci esempio? La qualità e la quantità dei cibi, come insegna san Tommaso, appartiene principalmente all’arte, e ora si direbbe, alla scienza della medicina. Ma, anche che il cibo lo si consideri secondo questo rispetto, mi pare utile ricordare alcune belle parole di san Giovanni Crisostomo. “Nessuna cosa, egli dice, riesce così gioconda, come un cibo ben digerito e ben assimilato; e nessuna cosa, poi conferisce quanto un cibo moderato, alla salute del corpo, all’acume dei sensi, e a rimuovere da noi le malattie. La sufficienza del cibo, insieme col nutrimento e con la sanità, procura onesto diletto. Per lo contrario la sovrabbondanza del mangiare genera morbi, malattie e infiacchimento di salute. Quel medesimo, che fa la fame, fa la soverchia pienezza del cibo; anzi qui il troppo fa peggio del poco. La fame in vero in pochi dì uccide l’uomo, e lo libera da questa vita di pene; ma l’eccesso del cibo consuma e putrefà il corpo umano, e lo macera con lunghe malattie, insino a che esso non resti disfatto da morte crudele.” (Chrys. Sup. Ep. ad Heb. Sermo 29). – Dall astinenza dunque moderata provengono molti beni naturali all’uomo; e i Maestri e Pastori della Chiesa, come san Giovanni Crisostomo, i quali sono veramente padri dei fedeli, anche di questi beni naturali dei loro figliuoli, di quando in quando, si mostrano amorevolmente solleciti. – Nondimeno importa assai più il considerare come una temperata astinenza nel cibo, sia germe di morali virtù: dico temperata astinenza; perché, anche nella materia del cibo, vi può essere il troppo, o il troppo poco: l’uno e l’altro peccaminoso, in quanto che si oppongono egualmente alla finalità del mangiare che è il sostentamento della vita e della sanità. Sant’Agostino in vari luoghi ha insegnamenti assai istruttivi e direi anche blandi intorno a questa virtù. “È bene, egli dice, cibarsi, rendendo grazie a Dio, di tutto ciò che Dio ci ha largito per uso di cibo. L’astenersi poi da alcuni cibi, non quasi sieno di per sé cosa mala, ma come non necessari, è anche bene….. Non importa punto alla verità e alla virtù il vedere quale o quanto cibo ciascuno prenda per sé; purché ciò sia fatto, secondo la convenienza della propria persona e delle persone con cui si vive, e pur secondo il bisogno della propria sanità. Ciò, che importa veramente in questa materia del cibo, è il vedere con quanta facilità e serenità di animo ciascuno si conduca quando sia necessario o utile che alcuni cibi gli manchino…. Usino.i ricchi di cibi eletti, secondo la consuetudine della loro debolezza, ma non se ne compiacciano: si dolgano anzi di non poter fare altrimenti: e oh quanto e oh sarebbe meglio se potessero fare altrimenti. Pertanto, se non è giusto, che il povero si levi in superbia per la sua povertà; perché. mai tuti vorresti insuperbire per effetto di questa che è una tua debolezza? Usa pure dei cibi eletti e di pregio; perché tale è la tua consuetudine, e non sapresti fare altrimenti. Se il mutare la consuetudine ti potrebbe nuocere alla salute, ti sia concesso di fare come ti aggrada. Ma se tu dunque usi le cose superflue, dà almeno anche ai poveri il superfluo: nutrisciti pure dei cibi di pregio; ma almeno dà ai poveri il cibo comune. — Quanto alla mia persona, oh come mai mi è riuscito d’un tratto soave l’astenermi dai cibi soavi! Oh di quanto gaudio mi torna l’avere abbandonato quelle cose, che un tempo tanto temevo di perdere! (Agos.: De definit. rette fidei: De quæst. Evangel.: de verbo Domini). Ma quali mai sono le finalità, a cui volge il Cristiano la sua temperanza nei cibi, e anche l’astinenza di essi? — Sono ben molte; ed eccone qui dette alcune che di leggieri ci faranno comprendere anche le altre. A noi l’astinenza ci è cara, perché conferisce molto a renderci al tutto signori del corpo nostro, e però ad elevarlo sempre più ai beni spirituali. Quel poter dire a se stesso: io sono sempre e in ogni modo assolutamente padrone di rinunziare, secondo il mio volere, alle dilettazioni degli appetiti sensuali, è la forza e la gloria del Cristiano. Misero colui che non lo intende, e che preferisce di servire ai propri appetiti anzi che di comandare ad essi! – Ma per evitare in ciò gli eccessi, s’ha da attendere a questa dottrina, che tolgo principalmente da san Tommaso. Nella vita umana diversamente s’ha da giudicare del fine e dei mezzi che conducono al fine. Nei beni, che noi rettamente cerchiamo come fine ultimo, non ci ha misura alcuna; nei beni che adoperiamo come mezzi, abbiam debito di adoperare la misura in proporzione del fine. A quel modo, che il medico per raggiungere la propria finalità, cioè la guarigione dell’infermo, fa quanto è in poter suo; e d’altra parte nell’adoperare le medele, tanta quantità ne adopera, quanto giova alla guarigione; così ha da far l’uomo nella sua vita morale. Nella vita morale l’amore di Dio è il fine, la temperanza nei cibi, e le astinenze non sono fini, perciocché san Paolo insegna ai Romani : “Né il cibare, né il bere costituiscono il regno di Dio.” Sono invece mezzi per domare i sensi, secondo ciò che dice di sé il medesimo Apostolo ai Corinti: “Castigo il mio corpo, e lo riduco in servitù.” Però questi mezzi si vogliono adoperare con una sapiente e prudente misura. Per un verso debbono reprimere i nostri appetiti disordinati; ma per un altro verso non debbono né distruggere né troppo notevolmente infiacchire la natura. Infatti l’Apostolo medesimo vuole che “il nostro ossequio a Dio sia ragionevole, e che noi offriamo a Lui i nostri corpi, come ostia santa, cose ostia vivente.” (Rationabile obsequium vestrum Exhibeatis corpora vestra hostiam viventem. Ad Rom. XII). E ora in conclusione volgiamo un ultimo sguardo alla virtù della temperanza, che è quella che ci condusse a parlare alquanto dell’astinenza. Alla temperanza fanno corteggio parecchie altre virtù, che le stanno vicino e le fanno corona, come belle e buone figliuole, anzi fanciulle che si nutriscono del latte materno. La temperanza, come è detto, c’infrena i moti del senso: ed ecco che nasce da lei quasi buona figliuola la virtù della modestia, la qual è la grazia e la bellezza del portamento esteriore delle donne e degli uomini casti. La temperanza quieta i moti dell’ira: ed ecco che da lei derivano, e prendono alimento la mansuetudine e la clemenza; quella, che, secondo il bisogno, o modera o annienta l’ira eccitata da possenti cagioni, questa, che mitiga e diminuisce le giuste punizioni dovute ai malvagi. Infine la temperanza, largamente presa, infrena anche quanto talora ci ha di soverchio nei nobili sentimenti dell’animo; di che talvolta mitiga la stima che abbiamo di noi stessi, e però genera l’umiltà: tal’altra ordina e mitiga il troppo desiderio che abbiamo del conoscere o del sapere o dell’amare o del desiderare; e in tutti questi casi, anche senza darle un nome particolare, s’ha a dire che essa sia la temperanza dell’uomo spirituale. Il quale, dopo il peccato, anch’egli ha bisogno a volte di essere infrenato, e a volte di essere eccitato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO:; S. S. PIO XI – “AD CATHOLICI Sacerdotii” (2)

Continua la lettura di questo stupendo documento magisteriale di S. S. Pio XI riguardante l’ufficio sacerdotale, la sua missione, la sua insostituibile importanza, le sue responsabilità ed i suoi oneri al cospetto di DIO e di Cristo che li chiama ad essere alter Christus nella sua Chiesa. Questa lettera da sola ci mostra le autentiche caratteristiche del vero Sacerdote cattolico, caratteristiche che l’antipapa “Illuminato” Montini ha totalmente distrutto con il suo pontificale falso ed ingannevole, mediante il quale ha resa invalida la formula di consacrazione dei Vescovi – fissata irreformabilmente da Pio XII circa venti anni prima in Sacramentum ordinis– e quindi di tutti i sacerdoti (per questo finto-)cattolici, dal 18 giugno del 1968. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: società scristianizzata in toto, pseudosacerdoti che ignorano le più elementari norne canoniche ecclesiastiche, la dottrina cattolica di sempre, sono moralmente anticristiani, elargitori di sacrileghi sacramenti che, lungi dall’apportare la grazia santificante, o un aumento di essa, sono forieri di disgrazia terrena e dannazione dell’anima. Non vogliamo affondare il coltello nella piaga putrida della falsa chiesa del Novus ordo e del c. d. Vaticano II degli antipapi, veri eretici vicari dell’anticristo, il castigo più grande che il buon Dio, offeso e vilipeso da quasi tutta l’umanità – compresa quella che si professa cristiana – abbia mai inferto al genere umano, castigo che sta mietendo innumerevoli vittime di Cristiani di facciata, ma di vita pagana, precipitate nel fuoco eterno, grazie soprattutto a questi falsi preti mai ordinati validamente e quindi privi del sigillo sacerdotale e della grazia divina utile alla loro missione, che li avrebbe dovuto portare a conquistare la salvezza eterna per sé e per il gregge delle anime loro affidate. In attesa di N. S. Gesù Cristo che verrà per bruciare con il soffio della sua bocca l’uomo della perdizione con i suoi adepti, e del trionfo del Cuore Immacolato della Vergine Maria, e quindi del ripristino nella gloria della vera Chiesa Cattolica, oggi eclissata, leggiamo la seconda parte di questa Lettera piena, per il Pusillus grex cattolico apostolico romano, di speranza e di gioia per un nuovo splendido sacerdozio cattolico, per una Chiesa di Cristo rinnovata, santa e santificante, guidata dal vero Pontefice Romano, finalmente libero dalle catacombe massoniche e pagane … et IPSA conteret caput tuum..

LETTERA ENCICLICA
AD CATHOLICI SACERDOTII
(II)


PIO PP. XI

III. La preparazione

Il Seminario

Se così alta è la dignità del sacerdozio e così eccelse le doti che richiede, ne segue, Venerabili Fratelli, l’imprescindibile necessità di dare ai candidati del santuario una formazione proporzionata. La Chiesa, conscia di questa necessità, per nessun’altra cosa forse, lungo i secoli, ha mostrato tanto tenera sollecitudine e materna premura come per la formazione de’ suoi sacerdoti. Essa non ignora che, se le condizioni religiose e morali dei popoli dipendono in gran parte dal sacerdozio, l’avvenire stesso del sacerdote dipende dalla formazione ch’egli avrà ricevuto, essendo anche per lui verissimo il detto dello Spirito Santo: “Il giovinetto secondo la via che ha presa, anche quando sarà invecchiato non se ne scosterà”. Perciò la Chiesa, mossa dallo Spirito Santo, ha voluto che dappertutto si erigessero Seminari dove si allevino e si educhino con singolare cura i candidati al sacerdozio.

La cura dei Seminari

Il Seminario dunque è e deve essere la pupilla degli occhi vostri, o Venerabili Fratelli, quanti dividete con Noi il formidabile peso del governo della Chiesa, è e deve essere l’oggetto precipuo delle vostre sollecitudini. Accurata soprattutto deve essere la scelta dei Superiori, dei Maestri e in modo particolare del Direttore spirituale, che ha una parte sì delicata e sì importante nella formazione dell’anima sacerdotale. Date ai vostri Seminari i migliori sacerdoti, né temiate di sottrarli anche a cariche apparentemente più rilevanti, ma che in realtà non possono venire a confronto con quest’opera capitale e insurrogabile; cercateli anche altrove, dovunque ne troviate di veramente atti a sì nobile scopo; siano tali che insegnino, prima con l’esempio che con la parola, le virtù sacerdotali e sappiano infondere con la dottrina uno spirito sodo, virile, apostolico; facciano fiorire nel Seminario la pietà, la purezza, la disciplina, lo studio, premunendo prudentemente gli animi giovanili, non solo contro le tentazioni presenti, ma anche contro i pericoli ben più gravi a cui si troveranno poi esposti nel mondo, in mezzo al quale dovranno vivere ” per far tutti salvi “.

E affinché i futuri sacerdoti possano avere quella scienza che i nostri tempi esigono, come sopra abbiamo esposto, è di somma importanza che, dopo una soda formazione negli studi classici, siano bene istituiti ed esercitati nella filosofia scolastica “secondo il metodo, la dottrina e i principii del Dottore Angelico”. Questa “philosophia perennis”, come la chiamava il Nostro grande Predecessore Leone XIII, non solo è loro necessaria per approfondire il dogma, ma li premunisce efficacemente contro gli errori moderni, quali che essi siano, rendendo la loro mente atta a distinguere nettamente il vero dal falso, e in ogni questione di qualunque genere o in altri studi che dovranno fare, darà loro una chiarezza di vista intellettuale che supererà di molto quella di altri, privi di questa formazione filosofica, anche se dotati d’una più vasta erudizione. Che se, come avviene specialmente in alcune regioni, la poca estensione delle Diocesi o la dolorosa scarsità degli alunni o la mancanza di mezzi e di uomini adatti non permettesse a ciascuna Diocesi di avere un proprio Seminario ben ordinato secondo tutte le leggi contenute nel Codice di Diritto Canonico e secondo le altre prescrizioni ecclesiastiche, sommamente conviene che i Vescovi della regione fraternamente si aiutino ed uniscano le loro forze concentrandole in un Seminario comune, che risponda interamente all’alto suo scopo. I grandi vantaggi di tale concentrazione compensano largamente i sacrifici sostenuti per conseguirli; anche il sacrificio, talvolta doloroso al cuore paterno del Vescovo, di vedere temporaneamente allontanati i suoi chierici dal Pastore, che vorrebbe trasfondere egli stesso il suo spirito apostolico nei suoi futuri collaboratori, e dal territorio che dovrà essere il campo del loro ministero, sarà poi ripagato dal riceverli meglio formati e più forniti di quello spirituale patrimonio che profonderanno in maggior copia e con maggior frutto a beneficio della loro Diocesi. E perciò Noi non abbiamo mai tralasciato di incoraggiare e promuovere e favorire tali iniziative, spesso anzi le abbiamo suggerite e raccomandate; dal canto Nostro poi, dove l’abbiamo creduto necessario, abbiamo Noi stessi eretto o migliorato o ampliato parecchi di tali Seminari Regionali, come a tutti è noto, non senza grandi spese e gravi cure, e continueremo, con l’aiuto di Dio, ad adoperarCi con tutto lo zelo anche per l’avvenire per un’opera che riputiamo tra le più giovevoli al bene della Chiesa.

La scelta dei candidati

Ma tutto questo magnifico sforzo per l’educazione degli alunni del santuario poco gioverebbe se non fosse accurata la scelta dei candidati stessi, per i quali sono eretti e amministrati i Seminari. A tale scelta tutti devono concorrere, quanti sono preposti alla formazione del clero: i Superiori, i Direttori spirituali, i Confessori, ciascuno nel modo e nei limiti propri del suo ufficio, come devono con ogni impegno coltivare la vocazione divina e corroborarla, così con non minore zelo devono distogliere ed allontanare per tempo da una via, che non è la loro, quei giovani che si scorgono sprovvisti della necessaria idoneità e si prevedono quindi non atti a sostenere degnamente e decorosamente il ministero sacerdotale. E quantunque sia molto meglio che questa eliminazione si faccia fin dal principio, perché in queste cose l’attendere ed aspettare è insieme un grave errore e un grave danno, tuttavia qualunque sia stata la causa del ritardo, si deve correggere l’errore quando lo si avverte, senza umani riguardi, senza quella falsa misericordia che diventerebbe una vera crudeltà, non solo verso la Chiesa, a cui si darebbe un ministro o inetto o indegno, ma anche verso il giovane stesso che, sospinto così sopra una falsa via, si troverebbe esposto ad essere pietra d’inciampo a sé e agli altri, con pericolo di eterna rovina. – Né sarà difficile all’occhio vigile ed esperto di chi presiede al Seminario, di chi segue e studia amorosamente ad uno ad uno i giovani a sé affidati e le loro inclinazioni, non sarà difficile, diciamo, accertarsi se uno abbia o no una vera vocazione sacerdotale. Questa, come ben sapete, Venerabili Fratelli, più che in un sentimento del cuore o in una sensibile attrattiva, che talvolta può mancare o venir meno, si rivela nella retta intenzione di chi aspira al sacerdozio, unita a quel complesso di doti fisiche, intellettuali e morali che lo rendono idoneo per tale stato. Chi tende al sacerdozio unicamente per il nobile motivo di consacrarsi al servizio di Dio e alla salute delle anime, e insieme ha o almeno seriamente attende ad acquistare una soda pietà, una purezza di vita a tutta prova, una scienza sufficiente nel senso da Noi sopra esposto, questi mostra di essere chiamato da Dio allo stato sacerdotale. Chi invece, spintovi forse da malconsigliati genitori, volesse abbracciare questo stato per la prospettiva di vantaggi temporali e terreni, intravveduti e sperati nel sacerdozio, come avveniva più frequentemente in passato; chi è abitualmente refrattario alla soggezione e alla disciplina, poco inclinato alla pietà, poco amante del lavoro e poco zelante delle anime; chi specialmente è proclive alla sensualità e con diuturna esperienza non ha provato di saperla vincere; chi non ha attitudine allo studio, in modo che si preveda non poter seguire con sufficiente soddisfazione i corsi prescritti; tutti costoro non sono fatti per il sacerdozio, e il lasciarli progredire, fin quasi alla soglia del santuario, rende loro sempre più difficile il ritrarsene, e forse li spingerà a varcarla, per umano rispetto, senza vocazione e senza spirito sacerdotale. Pensino i Superiori dei Seminari, pensino i Direttori spirituali e Confessori, quale gravissima responsabilità si assumono davanti a Dio, davanti alla Chiesa, davanti ai giovani stessi, se dal canto loro non fanno il possibile per impedire un passo sbagliato. Diciamo che anche i Confessori e Direttori spirituali potrebbero essere responsabili di un sì grave errore, non già perché essi possano in niun modo agire esternamente, il che è loro severamente vietato dal loro stesso delicatissimo ufficio e spesso anche dall’inviolabile sigillo sacramentale, ma perché essi molto possono influire sull’animo dei singoli alunni e con paterna fermezza devono guidare ciascuno, secondo che richiede il suo bene spirituale; essi quindi, specialmente se per qualunque ragione non agissero i Superiori o si mostrassero deboli, devono intimare, senza umani riguardi, agli inetti o agli indegni l’obbligo di ritirarsi finché ne sono ancora in tempo, attenendosi in ciò alla sentenza più sicura, la quale in tal caso è anche la più favorevole a quel penitente perché lo preserva da un passo che potrebbe essere per lui eternamente fatale. – Che se anche non vedessero talvolta così chiara l’obbligazione da imporre, usino almeno tutta l’autorità che viene loro dall’ufficio e dall’affetto paterno che hanno verso i loro figli spirituali, per indurre quelli, che non hanno le dovute disposizioni, a ritrarsi spontaneamente. Si ricordino i confessori quello che in un argomento simile dice Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: “Generalmente parlando… (in questi casi) il confessore quanto maggior rigore userà co’ penitenti, tanto più gioverà alla loro salute; e all’incontro tanto più sarà crudele quanto sarà con essi più benigno. San Tommaso da Villanova chiamava tali confessori troppo benigni empiamente pii, impie pios. Una tal carità è contro la carità”.

Il dovere dei Vescovi

Ma la responsabilità principale rimane pur sempre quella del Vescovo, il quale, secondo la gravissima legge della Chiesa, ” non deve conferire gli ordini sacri a veruno, se non sia moralmente certo, per argomenti positivi, della idoneità canonica di lui; altrimenti non solo commette un gravissimo peccato, ma si espone anche al pericolo di partecipare ai peccati altrui”. Nel qual canone risuona ben chiara l’eco dell’ammonimento dell’Apostolo a Timoteo: “Non imporre le mani a nessuno con troppa fretta, e non prender parte ai peccati altrui”. “E che cos’è poi questo imporre con troppa fretta le mani – come spiega il Nostro predecessore San Leone Magno — se non conferire la dignità sacerdotale a soggetti non provati, prima di un’età matura, prima di averli bene esaminati, prima del merito dell’obbedienza, e prima di averne esperimentata la disciplina? E prender parte ai peccati altrui, che cosa vuol dire, se non che tale si fa l’ordinante quale è quegli che non meritava di venir ordinato?”. Perché, come dice San Giovanni Crisostomo rivolgendo la parola al Vescovo, “per i peccati di lui passati e futuri anche tu dovrai scontare la pena perché gli hai dato quella dignità”.

Severe parole, Venerabili Fratelli, ma ancor più tremenda è la responsabilità che esse designano, la quale faceva dire al grande Vescovo di Milano San Carlo Borromeo: “In questa materia, una negligenza anche leggera può rendermi reo di gravissima colpa”. Attenetevi dunque al consiglio del già citato Crisostomo: “Non dopo la prima prova né dopo la seconda o la terza, ma dopo che avrai ben riguardato e tutto accuratamente esaminato, allora soltanto imponi pure le mani”. Il che vale soprattutto della bontà della vita dei candidati al sacerdozio: “Non basta – dice il Santo Vescovo e Dottore Alfonso Maria de’ Liquori — che il Vescovo non conosca alcunché di male nell’ordinando, ma deve rendersi certo della sua positiva probità”. Perciò non temete di sembrare troppo severi, se, valendovi del vostro diritto e compiendo il vostro dovere, esigete in antecedenza tali prove positive e, nel caso di dubbio, rimandate ad altro tempo l’ordinazione di qualcuno; poiché — come bellamente insegna San Gregorio Magno – “si tagliano bensì dalla selva i legni adatti agli edifici, ma non vi si mette sopra il peso dell’edificio se non dopo che l’attesa di molti giorni li abbia disseccati e resi atti allo scopo; che se si trascuri tale precauzione, ben presto si spezzeranno sotto il peso”; ossia, per usare le brevi e chiare parole dell’Angelico Dottore, “gli ordini sacri esigono in antecedenza la santità… e perciò il peso degli ordini deve sovrapporsi a pareti che per la santità siano già disseccate dall’umore dei vizi”. – Del resto, se saranno diligentemente osservate tutte le prescrizioni canoniche, se tutti si atterranno alle prudenti norme che or sono pochi anni abbiamo fatto promulgare dalla Sacra Congregazione dei Sacramenti su questo argomento, si eviteranno molte lagrime alla Chiesa e molti scandali ai fedeli. E siccome analoghe norme abbiamo voluto che fossero date per i Religiosi, mentre ne inculchiamo a chi spetta la fedele osservanza, ricordiamo a tutti i supremi Moderatori degli Istituti Religiosi i quali hanno giovani destinati al sacerdozio, che riguardino come detto anche a sé tutto quello che abbiamo finora raccomandato intorno alla formazione del clero, poiché essi presentano i loro alunni all’ordinazione e il Vescovo generalmente si rimette al loro giudizio. – Né si lascino rimuovere, sia i Vescovi che i Superiori religiosi, da questa necessaria severità, per il timore che venga a diminuire il numero dei sacerdoti della Diocesi o dell’Istituto. L’Angelico Dottore San Tommaso si è già proposta questa difficoltà e così vi risponde con la sua consueta lucidità e sapienza: “Iddio non abbandona mai la sua Chiesa, così che non si trovino (sacerdoti) idonei in numero sufficiente alla necessità del popolo, se si promovessero i degni e si respingessero gli indegni”. Del resto, come bene osserva lo stesso Dottore riportando alla lettera le gravi parole del Concilio Ecumenico Lateranense IV, “se non si potessero trovare tanti Ministri quanti sono al presente, sarebbe meglio avere pochi Ministri buoni che molti cattivi”. Ed è quello stesso che Noi abbiamo rammentato in una solenne circostanza, quando in occasione del pellegrinaggio internazionale dei Seminaristi, durante l’anno del Nostro giubileo sacerdotale, parlando all’imponente gruppo degli Arcivescovi e Vescovi d’Italia, abbiamo detto che vale meglio un sacerdote ben formato, che molti poco o nulla preparati, sui quali la Chiesa non può contare, anche se non ha piuttosto da gemere. Quale terribile conto, Venerabili Fratelli, dovremo rendere al Principe dei Pastori, al Supremo Vescovo delle anime, se avremo consegnate queste anime a guide inette e a condottieri incapaci! Ma, quantunque debba sempre tenersi ben ferma la verità che il numero da sé non deve essere la principale preoccupazione di chi lavora per la formazione del clero, tutti però devono sforzarsi che si moltiplichino i validi e strenui operai della vigna del Signore, tanto più che i bisogni morali della società anziché diminuire vanno crescendo. E tra tutti i mezzi per sì nobile scopo, il più facile insieme e il più efficace è anche il più universalmente accessibile a tutti e quindi tutti devono assiduamente usarlo, cioè la preghiera, secondo il comando di Gesù Cristo stesso: “La messe è veramente copiosa, ma gli operai sono pochi; pregate adunque il Padrone della messe, che mandi operai alla sua messe”. E quale preghiera può essere più gradita al Cuore Santissimo del Redentore? Quale preghiera può sperare d’essere esaudita più prontamente e più abbondantemente di questa, che è sì conforme alle ardenti aspirazioni di quel Cuore divino? “Chiedete, e vi sarà dato”; chiedete dei buoni e santi sacerdoti e il Signore non li negherà alla sua Chiesa, come sempre ne ha concessi attraverso i secoli, anche in tempi che meno sembravano propizi al fiorire di vocazioni sacerdotali, anzi proprio allora in maggior copia, come attesta anche solo l’agiografia cattolica del secolo XIX, così ricca di nomi gloriosi dell’uno e dell’altro clero; fra i quali brillano come astri di prima grandezza quei tre veri giganti di santità, esercitata in tre campi così diversi, che Noi stessi avemmo la consolazione di cingere dell’aureola dei Santi: San Giovanni Maria Vianney, San Giuseppe Benedetto Cottolengo e San Giovanni Bosco.

La cooperazione dell’Azione Cattolica

Non bisogna però trascurare le diligenze umane, onde coltivare il prezioso seme della vocazione che Dio largamente sparge nei cuori generosi di tanti giovani; e quindi lodiamo e benediciamo e raccomandiamo con tutto l’animo Nostro quelle opere salutari che, in mille forme e con mille sante industrie suggerite dallo Spirito Santo, mirano a custodire, a promuovere, ad aiutare le vocazioni sacedotali. “Per quanto possiamo pensarvi – afferma l’amabile Santo della carità, Vincenzo de’ Paoli – troveremo sempre che non avremmo potuto contribuire a niente di più grandioso che a fare dei buoni sacerdoti”. Nulla infatti vi è di più accetto a Dio, di più onorifico alla Chiesa, di più proficuo alle anime, che il dono prezioso di un santo sacerdote. E quindi, se chi offre un bicchier d’acqua a uno de’ più piccoli tra i discepoli di Cristo “non perderà la sua ricompensa”, quale mercede non avrà colui che mette per così dire nelle mani pure di un giovane levita il sacro calice in cui rosseggia il Sangue della Redenzione, e lo aiuta a sollevarlo al cielo arra di pacificazione e di benedizione per l’umanità? – E qui il Nostro grato pensiero corre di nuovo a quell’Azione Cattolica, da Noi così costantemente voluta, promossa, difesa, la quale, come partecipazione del laicato all’apostolato gerarchico della Chiesa, non può disinteressarsi di questo vitale problema delle vocazioni sacerdotali. E difatti, con Nostra intima consolazione, la vediamo in ogni luogo distinguersi, come in ogni altro campo di cristiana attività, così in modo speciale in questo; e certamente il più ricco premio di tale operosità è appunto la copia veramente mirabile di vocazioni sacerdotali e religiose, che vanno fiorendo in seno alle sue organizzazioni giovanili, mostrando con ciò di essere non solo un terreno fecondo di bene, ma anche una ben custodita e ben coltivata aiuola, dove i fiori più belli e più delicati possono svilupparsi senza pericolo. Sentano tutti gli ascritti all’Azione Cattolica l’onore che con ciò ricade sulla loro associazione e si persuadano che il laicato cattolico, in nessun’altra maniera meglio che col collaborare a questo accrescimento delle file del clero secolare e regolare, parteciperà davvero all’alta dignità di “regale sacerdozio” che il Principe degli Apostoli attribuisce a tutto il popolo dei redenti.

La collaborazione della famiglia

Ma il primo e più naturale giardino, dove devono quasi spontaneamente germinare e sbocciare i fiori del santuario, è sempre la famiglia veramente e profondamente cristiana. La maggior parte dei Santi Vescovi e Sacerdoti, “le cui lodi celebra la Chiesa”, devono l’inizio della loro vocazione e della loro santità agli esempi ed insegnamenti di un padre pieno di fede e di maschia virtù, di una madre casta e pia, di una famiglia in cui regnava sovrana con la purezza dei costumi la carità di Dio e del prossimo. – Le eccezioni a questa regola di ordinaria provvidenza sono rare e non fanno che confermare la regola stessa. Quando in una famiglia i genitori, ad esempio di Tobia e di Sara, domandano a Dio una numerosa posterità “nella quale venga benedetto in eterno il Nome del Signore”, e la ricevono con gratitudine come dono celeste e come prezioso deposito, e si sforzano di instillare ai figli fin dai primi anni il santo timor di Dio, la cristiana pietà, una tenera devozione a Gesù Sacramentato e alla Vergine Immacolata, il rispetto e la venerazione per i luoghi e le persone sacre; quando il figli vedono nei genitori il modello di una vita onesta, laboriosa e pia; quando li vedono amarsi santamente nel Signore, li scorgono spesso accostarsi ai Santi Sacramenti, obbedire non solo alle leggi della Chiesa circa l’astinenza e il digiuno, ma anche allo spirito della cristiana mortificazione volontaria; quando li vedono pregare anche in casa, riunendo intorno a sé tutta la famiglia perché la comune prece s’innalzi più gradita al cielo; quando li sanno compassionevoli alle miserie altrui e li vedono dividere coi poveri il molto o il poco che posseggono, è ben difficile che, mentre tutti cercheranno di emulare gli esempi paterni, qualcuno almeno di tali figli non senta nell’animo suo l’invito del divino Maestro: “Vieni dietro a me” e “Io ti farò diventare pescatore di uomini”. Fortunati quei genitori cristiani, i quali, anche se di queste divine visite, di queste divine chiamate rivolte ai loro figli, non fanno l’oggetto delle loro più fervide preghiere, come più spesso di oggi avveniva in tempi di maggior fede, almeno non ne hanno paura, e sanno scorgere in esse un insigne onore, una grazia di predilezione e di elezione del Signore per la loro famiglia! – Si deve invece purtroppo confessare che spesso, troppo spesso, i genitori, anche quelli che si gloriano di essere sinceramente Cristiani e Cattolici, specialmente nelle classi più elevate e più colte della società, sembra che non sappiano rassegnarsi alla vocazione sacerdotale e religiosa dei loro figli, e non si fanno scrupolo di combattere la divina chiamata con ogni sorta di argomenti, anche con mezzi che possono mettere a repentaglio non la sola vocazione ad uno stato più perfetto, ma la coscienza stessa e l’eterna salute di quelle anime che pur dovrebbero essere loro così care. Il qual deplorevole abuso, come quello già malamente invalso nei secoli passati di costringere invece i figli allo stato ecclesiastico anche senza alcuna vocazione né idoneità, non torna certo ad onore di quelle stesse classi sociali più alte, che ora sono così poco rappresentate, generalmente parlando, nelle file del clero: poiché, se le dissipazioni della vita moderna, le seduzioni che, specie nelle grandi città, eccitano precocemente le passioni giovanili, le scuole, in molte regioni così poco favorevoli allo sviluppo di simili vocazioni, sono in molta parte causa e triste spiegazione della scarsità di esse in tali famiglie agiate e signorili, non si può negare che ciò arguisce anche una lacrimevole diminuzione di fede nelle famiglie stesse. Difatti, se si guardassero le cose al lume della fede, quale più alta dignità potrebbero i genitori cristiani desiderare per i loro figli, quale ministero più nobile di quello che, come abbiamo detto, è degno della venerazione degli uomini e degli Angeli? Una lunga e dolorosa esperienza poi insegna che una vocazione tradita (non si creda troppo severa la parola) è fonte di lagrime non solo per i figli, ma anche per gli sconsigliati genitori; e Dio non voglia che tali lagrime siano troppo tardive, da diventare lagrime eterne.

IV. Esortazione

La pratica di santificarsi

Ed ora a voi, diletti Figli, rivolgiamo direttamente la Nostra paterna parola, quanti siete sacerdoti dell’Altissimo, dell’uno e dell’altro clero, sparsi per tutto l’orbe cattolico; a voi “gloria Nostra e Nostro gaudio”, che portate con tanta generosità il ” peso e l’ardore della giornata ” e così validamente aiutate Noi e i Nostri Fratelli nell’episcopato, nell’adempimento del dovere di pascere il gregge di Cristo, giunga il Nostro paterno ringraziamento e il Nostro fervido incoraggiamento insieme con l’accorato appello che, pur conoscendo ed apprezzando il vostro encomiabile zelo, vi rivolgiamo nei bisogni dell’ora presente. Quanto più questi si vanno aggravando, tanto più deve crescere ed intensificarsi l’opera vostra redentrice; poiché “voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo”. Ma perché l’opera vostra sia davvero benedetta da Dio e copiosi ne siano i frutti, è necessario ch’essa sia fondata nella santità della vita. Questa è, come abbiamo dichiarato di sopra, la prima e più importante dote del sacerdote cattolico: senza questa, le altre doti poco valgono; con questa, anche se le altre doti non sono in grado eminente, si possono compiere meraviglie, come avvenne (per citare solo qualche esempio) in San Giuseppe da Copertino, e, in tempi a noi più vicini, in quell’umile Curato d’Ars, San Giovanni Maria Vianney, già ricordato, che Noi volemmo assegnare a tutti i Parroci come modello e celeste Patrono. Pertanto, “considerate – vi diremo con l’Apostolo delle Genti – considerate la vostra vocazione”; e questa considerazione non potrà non farvi apprezzare sempre più quella grazia, che vi fu data nella sacra ordinazione, e non spronarvi “a diportarvi in modo degno della chiamata che vi fu fatta”.

Raccoglimento e preghiera

A ciò vi gioverà immensamente quel mezzo, che il Nostro predecessore di santa memoria Pio X nella sua così pia e così affettuosa Exhortatio ad Clerum catholicum, la cui assidua lettura caldamente vi raccomandiamo, pone in primo luogo tra i più validi aiuti per custodire ed accrescere la grazia sacerdotale; quel mezzo che Noi stessi più volte, e soprattutto con la Nostra Lettera Enciclica Mens Nostra, abbiamo paternamente e solennemente inculcato a tutti i Nostri figli, ma più specialmente ai sacerdoti; cioè l’uso frequente degli Esercizi spirituali. E come al chiudersi del Nostro giubileo sacerdotale non abbiamo creduto di poter dare ai Nostri figli un migliore e più salutare ricordo di quella fausta ricorrenza, che con l’invitarli per mezzo della ricordata Lettera ad attingere più largamente l’acqua viva che sale alla vita eterna, a questa fonte perenne aperta da Dio provvidenzialmente nella sua Chiesa, così ora a voi, diletti figli, che più ci siete cari, perché più direttamente lavorate con Noi all’avvento del Regno di Cristo sulla terra, non crediamo di poter meglio mostrare il Nostro paterno affetto che con l’esortarvi vivamente a valervi di questo stesso mezzo di santificazione, nel miglior modo possibile, secondo i principi e le norme da Noi esposte nella memorata Enciclica, chiudendovi nel sacro ritiro degli Esercizi spirituali, non solo nei tempi e nella misura strettamente prescritta dalle leggi ecclesiastiche, ma anche più spesso e più a lungo che vi sarà concesso, prendendovi poi ogni mese un giorno per consacrarlo ad una più fervida orazione, ad un maggior raccoglimento, come hanno sempre usato i più zelanti sacerdoti. – Nel ritiro e nel raccoglimento potrà pure “ravvivare la grazia di Dio” chi mai fosse entrato “nell’eredità del Signore” non per la via diritta della vera vocazione, ma per fini terreni o meno nobili; poiché, essendo anch’esso ormai indissolubilmente legato a Dio e alla Chiesa, non gli rimane che di seguire il consiglio di San Bernardo: “Procura d’ora in avanti di rendere buone le tue vie e i tuoi affetti, e santo il tuo ministero; e così se la santità della vita non è preceduta, che almeno essa segua”. La grazia di Dio, e segnatamente quella che è propria del sacramento dell’Ordine, non mancherà di aiutarlo, se sinceramente lo desidera, a correggere quello che allora vi fu di difettoso nelle disposizioni personali, e a compiere tutti i doveri del proprio stato, comunque ci sia entrato. – Tutti poi dal raccoglimento e dalla preghiera uscirete rinfrancati contro le insidie del mondo, pieni di santo zelo per la salute delle anime, tutti infiammati d’amore in Dio, quali devono essere i sacerdoti, più che mai in questi tempi, nei quali, accanto a tanta corruzione e diabolica perversità, si sente in tutte le parti del mondo, un potente risveglio religioso nelle anime, un soffio dello Spirito Santo che pervade il mondo per santificarlo e per rinnovare con la sua forza creatrice la faccia della terra. Pieni di questo Spirito Santo, comunicherete questo amor di Dio come sacro incendio a quanti vi si accosteranno, diventando davvero portatori di Cristo in mezzo alla società così sconvolta, la quale solo da Gesù Cristo può sperare salvezza perché egli solo e sempre è “veramente il Salvatore del mondo”. E prima di terminare, a voi, o giovani chierici, che vi educate al sacerdozio, rivolgiamo con una tenerezza tutta particolare il Nostro pensiero e la Nostra parola, e dall’intimo del cuore vi raccomandiamo di prepararvi con ogni impegno alla grande missione, a cui Dio vi chiama. Voi siete le speranze della Chiesa e dei popoli, che molto, tutto anzi aspettano da voi, perché da voi aspettano quella attiva e vivificante cognizione di Dio e di Gesù Cristo, in cui consiste la vita eterna. Cercate dunque nella pietà, nella purezza, nell’umiltà, nell’obbedienza, nella disciplina e nello studio, di formarvi sacerdoti davvero secondo il Cuore di Dio; persuadetevi che la diligenza, con cui attenderete a questa vostra solida formazione, per quanto accurata e solerte, non sarà mai eccessiva, perché da essa in gran parte dipende tutta la vostra futura attività apostolica. Fate che la Chiesa, nel giorno della vostra sacerdotale ordinazione, possa trovarvi davvero quali vi vuole, che cioè ” una sapienza celeste, costumi illibati e una diuturna osservanza della giustizia vi renda commendevoli”, affinché poi “il profumo della vostra vita sia di consolazione alla Chiesa di Cristo, perché con la predicazione e con l’esempio abbiate ad edificare la casa, cioè la famiglia di Dio”. Solo così potrete continuare le gloriose tradizioni del sacerdozio cattolico e affrettare l’ora auspicatissima in cui sarà dato all’umanità di godere i frutti della Pace di Cristo nel Regno di Cristo.

Nuova messa votiva

Ed ora, terminando questa Nostra Lettera, a voi, Venerabili Fratelli Nostri nell’Episcopato, e per mezzo vostro a tutti i Nostri diletti Figli dell’uno e dell’altro Clero, siamo lieti di annunziare che a solenne testimonianza del Nostro grato animo per quella santa cooperazione con cui essi, dietro la guida e l’esempio vostro, hanno reso così largamente fruttuoso alle anime questo Anno Santo della Redenzione, e più ancora perché sia perenne il pio ricordo e la glorificazione di quel sacerdozio, del quale il Nostro e il vostro, Venerabili Fratelli, e di quanti sono sacerdoti di Cristo, è la partecipata continuazione, abbiamo creduto opportuno, dopo udito il consiglio della Sacra Congregazione dei Riti, di preparare una propria Messa votiva “de summo et aeterno Iesu Christi Sacerdotio“; Messa, che abbiamo il piacere e la consolazione di pubblicare insieme a questa Nostra Lettera Enciclica, e che potrà celebrarsi nelle ferie quinte, secondo le prescrizioni liturgiche. – Non Ci resta, Venerabili Fratelli, che impartire a tutti quell’Apostolica e paterna Benedizione che tutti aspettano e desiderano dal comun Padre; e sia benedizione di ringraziamento per tutti i benefici largiti dalla divina Bontà in questi Anni Santi straordinari della Redenzione, sia benedizione augurale per il nuovo anno che sta per cominciare.

Dato a Roma presso San Pietro, il 20 dicembre 1935, nel LVI anniversario del Nostro sacerdozio, del Nostro Pontificato l’anno decimoquarto.

PIUS PP. XI

DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2022)

DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2022)

 [Stazione a S. Lorenzo fuori le mura].

Semidoppio. – Dom. Privil. di 2a cl. – Paramenti violacei.

Per comprendere pienamente il senso dei testi della Messa di questo giorno, bisogna, studiarli in corrispondenza delle lezioni del Breviario, perché, nel pensiero della Chiesa, la Messa e l’Ufficio sono una cosa sola. Le lezioni e i responsori dell’Ufficio della notte durante tutta questa settimana sono tratti dal libro della Genesi e narrano la creazione del mondo e quella dell’uomo; la caduta dei nostri primi genitori e la promessa di un Redentore; di più l’uccisione di Abele e le generazioni di Adamo fino a Noè. — « In principio, – dice il Libro Santo, – Dio creò il cielo e la terra e formò l’uomo su la terra e lo pose in un giardino di delizie perché Lo coltivasse» (3° e 4° resp.). Tutto ciò è una figura. – Il regno dei Cieli – spiega S. Gerolamo – è detto simile ad un padre di famiglia che prende degli operai per coltivare la sua vigna. Ora, chi più opportunamente può essere rappresentato nel padre di famiglia se non il nostro Creatore, il quale regge con la sua provvidenza ciò che ha creato e che governa i suoi eletti in questo mondo, così come il padrone ha i servi in sua casa? E la vigna che Egli possiede è la Chiesa Universale, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto che nascerà alla fine del mondo. E tutti quelli che, con fede retta si sono applicati e hanno esortato a fare il bene, sono gli operai di questa vigna. Quelli della prima ora, come quelli della terza, della sesta e della nona, designano l’antico popolo di Israele, il quale, dopo l’inizio del mondo, sforzandosi nella persona dei suoi santi, di servire Dio con fede sincera, non hanno cessato, per così dire, di lavorare nella coltivazione della vigna. Ma all’undecima ora sono chiamati i Gentili e a loro sono Indirizzate queste parole: « Perché state qui tutto il giorno senza far nulla? » (3° Notturno). Dunque, tutti gli uomini sono chiamati a lavorare nella vigna del Signore, cioè a santificarsi e a santificare il prossimo glorificando con questo mezzo Dio, poiché la santificazione consiste a non cercare il nostro bene supremo che in Lui. Ma Adamo venne meno al suo compito. « Poiché tu hai mangiato il frutto che io ti avevo proibito di mangiare, – gli disse il Signore – la terrà sarà maledetta e ne trarrai il nutrimento con gran fatica. Essa non produrrà che spine e rovi. Tu mangerai il tuo pane, prodotto dal sudore della tua fronte fino a che non sarai tornato alla terra donde fosti tratto». «Esiliato dall’Eden dopo la sua colpa – spiega S. Agostino – Il primo uomo trascinò alla pena di morte e alla riprovazione tutti i suoi discendenti, guasti nella sua persona come nella loro sorgente. Tutta la massa del genere umano condannato cadde in disgrazia, o piuttosto si vide trascinata e precipitata di male in male (2° Notturno). « I dolori della morte m’hanno circondato, dice l’Introito; e la Stazione ha luogo nella Basilica di S. Lorenzo fuori le mura, contigua al Cimitero di Roma. « È assai giusto, aggiunge l’Orazione, che noi siamo afflitti per i nostri peccati ». Cosi la vita cristiana è rappresentata da S. Paolo nell’Epistola come una arena dove bisogna lottare per riportare la corona. La mercede della vita eterna, dice anche il Vangelo, viene concessa solo a quelli che lavorano nella vigna di Dio e, dopo il peccato, questo lavoro è penoso e duro. « O Dio, domanda la Chiesa, accorda ai tuoi popoli che sono designati da te sotto il nome di vigne e di messi, che dopo aver sradicato i rovi e le spine, sono atti a produrre frutti in abbondanza, con l’aiuto del nostro Signore » (or. del Sabato Santo – Or. Dopo l’8° profezia). « Nella sua sapienza – dice S. Agostino – Dio preferì ricavar il bene dal male anziché permettere che non accadesse nessun male » (6° lezione). Dio ebbe difatti pietà degli uomini e promise loro un secondo Adamo che ristabilisse l’ordine turbato dal primo. Grazie a questo novello Adamo essi potranno riconquistare il cielo sul quale Adamo aveva perduto ogni diritto essendo stato cacciato dall’Eden, che era l’ombra d’una vita (migliore) » (4° lezione). « Tu sei, Signore, il nostro soccorso nel tempo del bisogno e dell’afflizione » (Graduale); « presso di te è la misericordia » (Tratto); « fa che risplenda la tua faccia sopra il tuo servo e salvami nella tua misericordia » (Com.). Infatti, « Dio che creò l’uomo in una maniera meravigliosa, lo redense in modo più meraviglioso ancora (Oraz. dopo la 1° prof. del Sab. Santo), poiché l’atto della creazione del mondo al principio non sorpassa in eccellenza l’immolazione del Cristo, nostra Pasqua, nella pienezza dei Tempi ». Questa Messa, studiata in relazione alla caduta di Adamo, ci mette nella disposizione voluta per cominciare il tempo di Settuagesima e per farci comprendere la grandezza del mistero pasquale al quale questo Tempo ha per scopo di preparare le anime nostre. – Per corrispondere all’appello del Maestro che viene a cercarci fin nell’abisso dove ci ha sprofondati il peccato del nostro primo padre (Tratto), andiamo a lavorare nella vigna del Signore, scendiamo nell’arena e incominciamo con coraggio la lotta la quale si intensificherà sempre più nel tempo della Quaresima.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  

[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]


Ps XVII: 2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.

[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]

Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.

[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]

Oratio

Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX: 24-27; X: 1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

[“Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio? Correte anche voi così da riportarlo. Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenza in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile; noi, invece, una incorruttibile. Io corro, appunto, così, non già come a caso; così lotto, non come uno che batte l’aria; ma maltratto il mio corpo e la riduco in servitù: perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato. Non voglio, infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, e tutti passarono a traverso il mare, e tutti furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono dello stessa cibo spirituale; e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale; (bevevano infatti della pietra spirituale che li seguiva; e quella pietra era Cristo): pure della maggior parte di loro Dio non fu contento”].

Quando si tratta di vivere secondo la legge del Vangelo, tutto spaventa, tutto ripugna, tutto scoraggisce. Dio ci promette invano una gloria pura e durevole; invano ci offre una corona preziosa che non appassisce mai, una felicità piena, sovrabbondante, perfetta; e tutto ciò per qualche giorno, per qualche ora, per qualche momento di mortificazione. Vi sono scuse per tutte le età; non si ha mai salute abbastanza, siamo giovani troppo, troppo occupati, troppo delicati; ovvero siamo in età troppo avanzata; l’astinenza, il digiuno, sono al di sopra delle nostre forze. Ma pensiamoci bene, la corona che ci è preparata nel cielo non sarà ella al di sopra dei nostri meriti, e non l’avremo forse per sempre? Eleviamo dunque lo spirito nostro e il cuore verso Dio, chiedendogli quella rettitudine d’intenzione, quel distaccamento da ogni creatura, quella sobrietà di cui parla l’Apostolo, per la quale si usa dei beni di questo mondo come non facendone uso. O felice digiuno, ove l’anima tiene tutti i sensi privi del superfluo! O santa astinenza, ove l’anima saziata della volontà di Dio, non si nutrisce più della propria! Essa ha, come il suo divino Maestro, un altro pane col quale si nutrisce: pane che è al di sopra d’ogn’altra sostanza; che estingue tutti gli altri desiderj; vera manna che scende dal cielo, e ci fa pregustare l’eterne delizie. Prepariamoci a riceverla coll’astenerci, secondo il nostro potere, dal pane ordinario e comune, che è il nutrimento del nostro corpo.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps IX: 10-11; IX: 19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine.

[Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo.

[Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus

Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. O

[Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui.

[Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit?

[Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine.

[Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

[Matt XX: 1-16]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

PRETESTI DI RIFIUTARE L’INVITO DI DIO

Si era alle soglie della primavera, e sui colli palestinesi i lavori delle vigne erano incominciati. Il Signore prese lo spunto dal lavoro della stagione e imbastì la sua parabola. Il padrone d’una vigna uscì ad ingaggiare operai a giornata. Era costumanza d’allora che i disoccupati desiderosi d’impiego si raggruppassero alla porta della città. Quivi, prima del sole, arrivò il nostro padrone. Prese quanti uomini poté trovare, e contrattò con loro il prezzo che venne fissato a un danaro. Buona paga per quei tempi, tanto che tutti accettarono volentieri. – I lavori dovevano essere arretrati e la stagione precoce: già le gemme si muovevano e c’era da sarchiare, da potare, da legare i tralci. Occorreva mano d’opera. Perciò il padrone uscì una seconda volta tre ore dopo, verso le nove del mattino, trovò altri operai e prese anche quelli. Eppure non bastavano ancora; uscì una terza volta a mezzo giorno, ed una quarta volta alle tre pomeridiane, e a quanti incontrava diceva: « Andate anche voi nella mia vigna, vi darò una paga conveniente ». Gli urgeva di finire in quel giorno. Ed uscì una quinta volta, che mancava soltanto un’ora al tramonto. Vide un crocchio di sfaccendati a godersi l’ultimo tepore di quel sole primaverile. « Perché state qui a sciupar tempo? ». – « Perché nessuno ci ha preso a giornata ». – « Ma andate nella mia vigna: c’è da fare anche per voi ». E fu sera. Ogni lavoro cessò. Il padrone ordinò al fattore di pagare gli operai, cominciando dagli ultimi venuti. Essi ricevettero un danaro. Allora alcuni, ma specialmente quelli che avevano lavorato tutto il giorno, cominciarono a borbottare. « Questi ultimi prendono come noi che abbiamo sopportato il peso e il caldo d’una giornata intera!… Non c’è giustizia! ». – Ma il padrone li udì, e affrontato il capoccia dei malcontenti: « Amico — gli disse — non ti fo torto: a te dò né più né meno del contratto. Prendi e vattene. Se agli altri voglio dar del mio, tu che ci perdi? Qui c’è giustizia; e c’è anche amore ». – La parabola racchiude molti punti da meditare, ma noi fermiamoci ora su uno solo, questo: il padrone della vigna chiama a lavorare tutti quelli che incontra, chiunque siano, in qualunque momento della giornata. Il padrone è Dio; la vigna è la Santa Chiesa di cui a ciascuno è affidata una porzione, cioè quella della propria anima; le varie ore della giornata sono le diverse età della vita. Ma purtroppo sono molti quelli che agli inviti ripetuti del Signore a provvedere al lavoro della propria santificazione, si esimono adducendo qualche pretesto. I pretesti più comuni sono due: le proprie condizioni sociali che impediscono di Pensare all’anima; il proprio carattere che non si riesce a modificare. PRIMO PRETESTO: IL PROPRIO STATO – Il proprio stato è determinato dal mestiere o dalla professione, dalla famiglia, e dall’ambiente sociale. Non è raro sentire così: « Non posso vivere la vita cristiana nelle condizioni in cui mi trovo: col mio mestiere, con la famiglia che ho, nell’ambiente in cui vivo, mi è impossibile ». Vi mostrerò che tutti sono pretesti che presso Dio non ci scusano, e sotto i quali sta mascherato il demonio o la nostra pigrizia. – a) Il pretesto del mestiere o della professione. — Il ricco crede che le ricchezze gli siano un’insuperabile ostacolo alla vita cristiana, perché impongono esigenze e abitudini contrarie al Vangelo e di cui non può fare a meno. Il povero invece sospira dietro i ricchi perché possono andare in automobile anche in paradiso: loro hanno danaro per far elemosine e per far dir Messe; loro hanno tutto il tempo e tutti i comodi per andare in chiesa. L’esercente dà colpa al mestiere se manca al precetto festivo, se è costretto ad arrangiarsi torcendo un tantino il collo alla giustizia. L’operaio accusa il lavoro di impedirgli di pregare; accusa le strettezze familiari se vive da anni in peccato mortale: « Bel dire i preti! si trovassero al nostro posto! ». – La madre di famiglia s’illude che soltanto nel convento sia facile salvarsi. Il professionista incolpa la professione che lo assorbe giorno e notte e che lo mette in un groviglio di cose donde la coscienza esce compromessa. Eppure S. Giovanni ebbe una visione che dimostra come in ogni mestiere o professione sia possibile salvarsi. Rapito in estasi un giorno vide la moltitudine degli eletti in paradiso, segnati sulla fronte col glorioso sigillo della redenzione. Della tribù di Levi, che era nel popolo giudeo la tribù dei sacerdoti, vide ben dodicimila salvati. Quanti ne vide egli poi della tribù di Giuda, ch’era quella dei principi e della stirpe reale? ancora dodicimila. Ed altrettanti ne vide della tribù d’Efraim, ch’era quella dei commercianti, è degli artigiani… (Apoc., VII, 2-8). Dunque sia dalla tribù regale, come dal ceto popolare, come dalla casta sacerdotale i salvati erano moltissimi. Nel regno dei cieli accanto ad Abramo, che possedeva immense ricchezze, c’è il mendico Lazzaro, che non aveva neppure le briciole; accanto a Samuele giudice e governatore, c’è Abele pastore e coltivatore dei campi. – b) Il pretesto dell’ambiente familiare. — Si racconta di un giovane monaco c’era molto suscettibile, e bastava la minima disattenzione d’un compagno nel parlare o nel fare, perché tosto s’accendesse di rabbia, e uscisse in parole più che scortesi, e poi perdesse il raccoglimento e la voglia di pregare. Onde disse a se medesimo: «Voglio andare nel deserto dove non c’è persona che mi possa turbare: là in un momento diventerò santo ». E così fece. Ma tornando un dì alla sua grotta con una scodella piena d’acqua, avendola posta in terra, o fosse stato il vento o fosse stato il demonio, la trovò rovesciata. Subito gli montò il sangue alla testa, si precipitò sulla scodella come fosse una cosa viva, e la percosse col piede. Passato quel momento di furia, rinsavì, e guardando mestamente i cocci disse: « Ecco, anche nel deserto mi prendono le arrabbiature: il male non era dunque nell’ambiente, ma in me. Non era il convento da abbandonare ma il difetto… ». E ritornò a vivere dov’era prima, imparando a sopportare i diversi caratteri dei monaci, e facendo violenza contro la sua orgogliosa passione predominante. Di modo che, coll’aiuto di Dio e coll’andar del tempo, divenne un santo monaco, e visse in gran pace di cuore (S. ANTONINO; Opera a ben vivere, Firenze, Fiorentina, 1923, p. 47). La storia di questo monaco dovrebbe insegnar molto a tanti genitori che dan la colpa dei loro peccati ai figli, di tante donne che si scusano di non potersi santificare a motivo di loro marito, o viceversa. Sono pretesti. « Se non avessi quel figliuolo, se non ci fosse quella cognata, e mio marito avesse un altro carattere, se non ci fosse quella malattia, quella miseria… » e così sognando una condizione familiare che non avranno mai, tralasciano di santificarsi a quella condizione dove realmente vivono, e dove soltanto possono salvare l’anima. Occorre fare come quel giovane monaco: abbandonare il deserto delle fantasie, ritornare per sé e per gli altri, pregare… S. Rita da Cascia divenne santa con un marito ubriacone. – c) Il pretesto dell’ambiente sociale. — Bisognerebbe — pensano alcuni per scusarsi — che il mondo fosse diverso: che non ci fossero quei luoghi di divertimento, se non incontrassi quegli amici, che non lavorassi in quell’ufficio, in quell’officina, se non servissi in quella casa… bisognerebbe che tutti agissero onestamente. Forse che i primi Cristiani, quelli che seppero dare anche il sangue per la fede, vissero in un mondo migliore del nostro? Forse che i santi fiorirono appena nei chiostri, non anche alla corte dei re (S. Elisabetta regina d’Ungheria, S. Luigi re di Francia, S. Enrico imperatore tedesco, S. Edoardo re d’Inghilterra), non anche sotto le armi (S. Sebastiano, S. Martino, S. Giovanna d’Arco)? Forse che non sono uomini del nostro tempo i professori Contardo Ferrini e Giulio Salvadori, i dottori Necchi e Moscati?… – Non è l’ambiente sociale da incolpare, ma la fiacca nostra volontà, la paura dei sacrifici. – SECONDO PRETESTO: IL PROPRIO TEMPERAMENTO. « Bisognerebbe essere fatti come i santi — dicono molti. — Non sentire quello se sento io, tutto il giorno; non avere un sangue infiammabile come il mio ». a) Ebbene, i santi erano proprio fatti come noi; sentivano gli stessi stimoli perversi, ma non si lasciavano travolgere; avevano lo stesso sangue infiammabile ma non si lasciarono incendiare. – Che cosa sperimentava S. Paolo se non le stesse nostre passioni, quando scriveva: «C’è una forza nella mia carne che fa guerra alla legge di Dio e vorrebbe farmi schiavo del peccato: ah, chi mi libererà da questa tortura? » (Rom. VII, 23-24). Ed era forse per divertimento che S. Bernardo si buttò nudo sulla neve, e San Francesco sulle spine della siepe? – S. Teresa del Bambino Gesù, quando a quindici anni si trovò nella rude clausura del Carmelo di Lisieux, ella che veniva da una ricca famiglia nido d’ogni squisita dolcezza, fu presa da un irresistibile bisogno d’essere amata, d’essere accarezzata. E se passava davanti alla cella della Madre Superiora, la prendeva una folle tentazione d’entrare; di avere da lei almeno una dolce parola, almeno uno sguardo affettuoso, un palpito muto di compatimento. Il suo cuore di fanciulla espansiva si ribellava alla gelida austerità di quella vita: le sarebbe tanto piaciuto diventare la beniamina di qualche suora, e ritrovare sotto le altre forme quell’amore umano a cui aveva rinunziato. « Ah; è per questo che sei venuta al Carmelo?…» diceva allora a se stessa in tono di rimprovero; e si afferrava alle sbarre della scala, perché il vento della tentazione non la trasportasse là dove non voleva. Se avesse ceduto, la Chiesa avrebbe una grande santa di meno.  – Anche a lei dunque la virtù costava, come costa a tanti giovani e a tante figliuole quando vorrebbero uscir di casa; cercare un incontro, un colloquio, uno sguardo come costa a tutti quelli che vogliono tenere il proprio cuore sotto la custodia della legge santa di Dio. b) Forse qualcuno penserà che i santi avevano grazie speciali, per cui la vittoria spirituale era, se non facile, sicura: È vero, senza dubbio, che essi ebbero grazie particolarissime. Ma non è meno vero che le grazie non mancano neppure a noi « Padre! — disse una volta a S. Antonino arcivescovo di Firenze una buona mamma raccomandandogli il figlio un po’ sviato. — Pregate Dio che gli tenga la sua santa mano in testa ». «Sì — rispose il santo — Ma voi pregate il vostro figliuolo che tenga la testa ferma sotto quella santa mano ». La mano in testa, Dio la tiene sempre anche su noi; ma purtroppo non sempre noi ci teniamo sotto la testa. La parola evangelica racchiude un conforto e un monito. Un conforto, perché qualunque sia la nostra età e il nostro passato, Dio c’invita. Un monito, perché nessuno sa, se rifiutando il presente invito, Dio tornerà a chiamarci in un’altr’ora. E se la sera della vita ci sorprendesse ancora oziosi?… – Un re di Persia chiamò i tre più famosi sapienti del suo regno e chiese qual cosa al mondo stimassero più orribile. Il primo rispose: « La più orribil cosa è cadere ammalati ». Il secondo rispose: « La più orribil cosa è diventar vecchi ». Il terzo pensò a lungo, e disse: « La più orribil cosa è trovarsi davanti la morte ed accorgersi che tutta la vita fu sciupata in futilità ». Questo, Cristiani, è orribile davvero. Lavoriamo alacremente nella vigna dell’anima nostra, perché non ci capiti di sperimentarlo. – Togliamo il velo della parabola degli operai chiamati alla diversa ora. Il padre di famiglia, già l’avete indovinato, è lo stesso Cristo; la vigna da lavorare è l’anima da salvare con l’esercizio quotidiano delle virtù e delle buone opere; gli operai siamo tutti noi, grandi e piccini, ricchi e poveri, invitati fin dalla tenera puerizia, chiamati in ogni età, sollecitati fin nella tarda vecchiezza. – Nella parabola tutti quelli a cui fu rivolto l’invito, l’accettarono. Nella vita, purtroppo, avviene ben diversamente, e molti sono quelli che non si mettono a lavorare. Consideriamo le risposte più consuete ch’essi dànno al Signore, e mettiamo a nudo lo specioso pretesto ivi nascosto: Non vengo: ora è troppo presto. Non vengo: ormai è troppo tardi. Non vengo: fan tutti così. ORA È TROPPO PRESTO. Questa scusa è specialmente dei giovani, ma è anche di molti che già sono in là con gli anni. Ad ogni modo, la si dica in qualsiasi età, essa è sempre stoltissima. E per due motivi: primo, perché non è mai troppo presto mettersi a salvar l’anima; poi, perché non si sa mai quanto manca a sera. – a) Non è mai troppo presto mettersi a salvar l’anima. San Giovanni Crisostomo non riusciva a capire come si potesse pensare il contrario, e moltiplicava i paragoni, per rendere a tutti evidente l’inescusabile sciocchezza di ritardare la propria conversione. – Diceva: Se un uomo: s’ammala, subito chiama il medico, e lo paga senza farsi rincrescere, e gli obbedisce con scrupolosa esattezza, sottoponendosi a cure fastidiose, lunghe, dolorose anche. Invece per l’anima, che da anni è inferma, è ferita, aspetta. Che cosa si aspetta? che sia incancrenita irrimediabilmente? Diceva ancora: Se un improvviso incendio s’appicca alla nostra casa, subito si grida, si corre, si implora aiuto, si porta acqua da tutte le parti, si trepida finché il fuoco non sia del tutto spento. Invece per l’anima invasa dalle fiamme dell’ira, dell’odio, della lussuria, non si grida aiuto nella preghiera, non si corre tosto alle fonti del Salvatore, cioè ai Sacramenti; ma si aspetta. Che cosa si aspetta? Che sia bruciata irrimediabilmente? E ancora diceva: — Se casca un bambino nel torrente, suo padre o sua madre, adendo il suo grido, si precipitano rapidi come il vento. Invece d’un bambino, è caduta l’anima nostra nel torrente dei peccati, nell’abisso della rovina: voi udite la sua straziante implorazione; e rispondete: « adesso è troppo presto ». Che cosa si aspetta? che sia affogata irrimediabilmente? – Se una compagnia di navigazione trasportasse un carico prezioso su di una nave che fa acqua, con massima solerzia e fatica i marinai attenderebbero notte e giorno a riparare le falle, a manovrare le pompe, a difendere i motori, per guadagnare il porto. Ma non vedete che l’anima vostra è una nave che fa acqua d’ogni parte? E voi dite: « Adesso è troppo presto ». Che cosa aspettate? che sia sprofondata irrimediabilmente. – b) Un altro motivo rende ancora più deprecabile la stoltezza, la cecità degli uomini che differiscono il lavoro per la salvezza della loro anima: l’incertezza dell’ora della sera. Pensiamo che nella vita la sera non ha un’ora fissa come nella giornata, ma può prescindere bruscamente a mezzo la puerizia, o la fanciullezza, o la virilità. Quando meno l’aspettiamo, quell’ora discende. Che sarà di noi se c’incoglie senza aver lavorato intorno alla vigna dell’anima nostra? Resteremo privi della mercede promessa, cioè della beata vita eterna, e saremo condannati a un tormento senza fine. Scuotiamoci dunque dall’ozio spirituale, mettiamoci a lavorare; perché non ci venga meno quella mercede che solo importa. Chi deve accostarsi ai sacramenti, s’accosti subito; chi ha una restituzione da fare,  restituisca; chi ha una passione da vincere, la vinca; chi ha un’occasione da abbandonare, l’abbandoni. Ognuno adempia i doveri del proprio stato; santifichi le feste del Signore, rispetti le leggi della Chiesa; faccia secondo le sue possibilità l’elemosina. – ORMAI È TROPPO TARDI. Quest’astuto perditore di anime che è il demonio, dopo averle rovinate coll’indurle a procrastinare, tenta di perderle gettandole nella disperazione. « Ormai è troppo tardi ». Quest’amara parola può essere pronunciata con un triplice senso di scoraggiamento: o per mancanza di tempo, o per mancanza di forze, o per mancanza di fiducia in Dio. – Per mancanza di tempo. Se un uomo, in un momento di lucidità interiore, contemplando la sua vita tutta immersa nell’iniquità, persuaso che occorrerebbero molti anni di penitenza e di pianto per riparare a tanti scandali, cancellare tanti peccati, mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non c’è più tempo », io gli risponderei con la parabola d’oggi: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! Alla sera della vita saremo giudicati dall’amore con cui avremo lavorato. In pochissimo tempo si può lavorare con tanta generosità e intensità d’amore da raggiungere la misura d’una lunga serie d’anni ». – Per mancanza di forze. Se un altro uomo, dopo aver dissipato tutti i sentimenti del suo cuore versandoli nel fango, dopo aver impresso una rigida piega nel male a tutte le sue energie, ormai si sentisse incapace di raddrizzarle nel bene, e rimpiangendo l’antica innocenza disperasse di poterla riacquistare e mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non ho più forze per essere buono », io gli risponderei con la parabola d’oggi: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! La grazia di Dio può fare ciò che è impossibile alla natura. Se le forze sono illanguidite, essa può rinvigorirle; se sono esaurite, essa può ricrearle al bene. La grazia rinvergina il cuore, purgandolo dai maligni fermenti, ridona il candore dell’innocenza, il profumo della bontà ». – Per mancanza di fiducia in Dio. Se, infine, un altro uomo ancora, aprendo di colpo gli occhi sulla moltitudine dei suoi peccati, sulla gravità delle sue ribellioni, più non osasse sollevare lo sguardo al cielo, e mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non c’è più perdono », io gli risponderei: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! Nessuno può diventare cattivo quanto Dio è buono. L’iniquità di tutti gli uomini insieme è una goccia in confronto all’oceano senza rive della misericordia divina ». – Insomma, sotto qualsiasi forma d’abbattimento il demonio vi possa tentare, Cristiani, ricordatevi sempre degli operai dell’undecima ora. È uno dei punti più commoventi e incoraggianti di tutto il Vangelo. Il giorno se ne andava di già, eppure furono ancora chiamati; si misero al lavoro, quando gli altri riunivano gli arnesi; avevano appena dimostrata la loro volontà che furono chiamati alla ricompensa. E la ricompensa fu grande, fu piena come se avessero lavorato una giornata intera. Non è mai troppo tardi per lavorare alla nostra salvezza. Finché c’è un fiato di vita, l’ora undecima non è finita. – FAN TUTTI COSÌ. C’è una terza risposta che molti dànno a Cristo per esimersi dal lavoro spirituale a cui li invita: « Fan tutti così! ». Il Signore dice a quel padre di famiglia, a quell’impiegato, o a quell’operaio: «Tu approfitti di una forma di guadagno che non è lecita: smettila, e pensa all’anima tua che deperisce ». Egli sente una irrequietudine nella coscienza, capisce che nei suoi atti c’è qualcosa di torbido, ma risponde: « Fan tutti così! Soltanto io devo fare lo scrupoloso, l’ingenuo, lo sciocco, e trascurare il mio interesse?… ». Anche ai tempi di Noè, caro Cristiano, tutti ridevano, ballavano, mangiavano, ed egli solo, il buon patriarca, s’affannava a costruire un arnese strano che sembrava una pazzia; ma poi venne il diluvio. Buon per Noè che non fece come avevano fatto tutti. – Il Signore dice a certi sposi: « La vostra maniera d’intendere la vita coniugale è gravemente peccaminosa… Oltraggiate Dio, infangate la vostra dignità umana e cristiana, dissacrate e contaminate la famiglia ». Essi sentono nel cuore, ad intervalli almeno, una strana malinconia, un malessere di non sentirsi a posto, un timore di sventura, ma rispondono: « Fan tutti così. Ci canzonerebbero come insipidi cretini se ci mettessimo ad osservare la legge di Dio. Il medico, la levatrice, gli amici, i conoscenti, tutti ci segnerebbero a dito, quasi fossimo incapaci di prendere la vita come va ». Anche ai tempi di Loth, cari Cristiani, tutta una città corrotta e depravata rideva malignamente di lui e della sua famiglia, perché viveva secondo il giusto e l’onesto: ma poi piovve il fuoco su Gomorra. Buon per Loth che non fece come avevano fatto tutti. Ricordiamo la sentenza con cui termina la parabola d’oggi, i chiamati sono molti, ma gli eletti pochi. Quale conseguenza dovremo tirare da siffatto proverbio? Questa: Viviamo coi pochi per salvarci coi pochi. Che cosa fanno i molti? – Voi lo vedete: pensano a guadagnare denari e roba, pensano a divertirsi sfogando tutte le passioni, pensano a godere più che possono in questo mondo. Il loro paradiso è quaggiù. – Che cosa fanno i pochi? Voi lo sapete: temono e amano il Signore; mortificano le disordinate passioni, abbondano in opere buone; vivono da pellegrini sulla terra, perciò, pur usando secondo il bisogno delle cose di questo mondo, si guardano bere dall’attaccarvi il cuore; sanno che la loro patria è il cielo, perciò sopportano volentieri i sacrifici quotidiani, e stanno sempre preparati alla morte. La quale, del resto, a loro non fa tanta paura. Seguiamo i pochi. – Molti secoli fa, un Papa (Papa Formoso del sec. IX) aveva fatto eseguire bellissime pitture nella basilica di S. Pietro. Poi vennero giorni di crudele prepotenza, i suoi avversari lo presero e lo gettarono nel Tevere in piena. Passò molto tempo, e i monaci scopersero sulla riva del fiume, quasi alla foce, il cadavere del Pontefice. Lo ricomposero degnamente, e in processione lo trasportarono pregando, a Roma. Quando il feretro entrò in S. Pietro, si racconta che le immagini dei Santi da lui fatte dipingere, sorrisero e s’inchinarono all’arrivo del suo cadavere. – Cristiani, ogni opera buona, ogni lavoro che facciamo intorno all’anima nostra, sono pitture eseguite per la basilica eterna del cielo. Quando, trasportati dagli Angeli, dopo la morte, vi entreremo, esse ci sorrideranno, si inchineranno al nostro arrivo. Saranno la nostra consolazione, e l’omaggio che presenteremo a Dio per ricevere da Lui la ricompensa.

Seduto ad un tavolo, davanti a dei mucchietti di danari, l’amministratore chiamava gli operai, cominciando dagli ultimi venuti. Questi che avevano lavorato appena un’ora, e per di più quando il calore e il sudore non fastidiva, ricevettero un danaro. Allora coloro che avevano sarchiato fin dal mattino cominciarono a sperare più del convenuto: e invece anch’essi ricevettero un danaro. Perciò, postisi a mormorare, senza riguardo alcuno, dicevano: « È una ingiustizia bell’e buona! Sgobbare tutta la santa giornata, lasciarci bruciare il cervello sotto il sole, e poi… e poi essere trattati come avessimo lavorato un’ora appena! ». Alzarono talmente la loro voce villana che il padrone, venuto ad assistere la paga, udì. Non fece complimenti: acciuffò il più impertinente e gli disse: « Camerata, che c’è da borbottare? Se voglio regalare il mio danaro a chi più mi piace, sarai tu a proibirmelo? Se hai l’occhio cattivo, io non cesso d’essere buono; e se anche a quest’ultimo voglio dare come a te, non ti faccio ingiustizia ». E tagliò corto; levando la voce così che tutti l’udirono, disse: « Prenditi ciò che ti spetta e vattene! ». Com’è vera ancora questa parabola del Signore! Come punge in pieno anche la nostra coscienza! Egli è buono, Egli è generoso, Egli è giusto: ma il nostro occhio è cattivo: Oculus tuus nequam est. Da qui hanno origine tutte le mormorazioni e le invidie, mormorazioni ed invidie che son la ruggine consumatrice della nostra vita. MORMORAZIONI. Quando l’itterizia colpisce un uomo, a questi la vista s’intorbida: un velo giallo si stende davanti al suo sguardo, su tutte le cose. Giallo egli trova il prato, giallo il lago, giallo il cielo, gialli i fiori, sempre e da per tutto quell’antipatico giallo… Vi è anche un’itterizia spirituale, e chi ne è sgraziatamente colpito vede male in tutti: anche le persone più integerrime per lui son macchiate, anche le azioni più diritte da lui sono male interpretate. Non contento di scovare i difetti altrui sente nella lingua il prurito di manifestarli ed è inquieto se non ha trovato modo di sfogare il suo veleno: ed ecco le innumerevoli mormorazioni. Ma chi mormora ha l’occhio cattivo: 1) perché tra molte virtù vede soltanto il difetto; 2) perché il difetto veduto esagera ed estende fino a farlo diventare un’abitudine; 3) perché vede solo le apparenze esterne e non la realtà interna. – a) Ecco una nuora che mormora della suocera: «Se sapeste, che donna incontentabile! ». Sarà anche vero; ma perché non ha visto come è donna precisa, laboriosa, paziente, pia?… Ecco un uomo che mormora d’un suo compagno»: « Se sapeste, come è goloso! ». Sarà vero anche; ma perché non ha visto come è laborioso, caritatevole, sincero?… Oculus tuus nequam. – b) Un tale fu visto una volta a rubare qualcosa e subito c’è chi prova gusto a mormorare di lui dicendo: «È un ladro ». Un altro una sera tornò a casa alticcio, e subito c’è chi si compiace a mormorare di lui, dicendo: «È un ubriacone» Una rondine non fa primavera, e perché deve bastare un atto o due per giudicare un uomo? Anche il sole si è fermato una volta per favorire la vittoria di Giosuè, ed un’altra volta s’è oscurato per piangere la morte del Salvatore: nessuno per questo dirà che il sole appaia immobile o sia scuro. Anche Noè e Loth una volta bevvero troppo: nessuno però oserà chiamarli alcoolizzati. Anche Pietro una volta tagliò l’orecchio a un servo, e spergiurò il vero: nessuno lo giudicherà un sanguinario o uno spergiuro. – c) E poi, benché un uomo sia stato vizioso per lungo tempo, non dobbiamo giammai osare di giudicarlo tale: chi può vedere nel suo interno? chi può dire che non sia convertito? È appunto quel che capitò a Simone il lebbroso quando disse a Gesù: « Vedi quella donna? è una peccatrice ». Si trattava della Maddalena. Ma l’imprudente mormoratore si udì rispondere: « Simone lebbroso: io ti dico che questa donna è più santa di te ». – Quanto sono sagge le parole di S. Francesco di Sales nella Vita Divota: « Poiché la misericordia di Dio è così grande che un sol momento basta per impetrare e ricevere la sua grazia, qual certezza possiamo avere se un uomo che ieri era peccatore lo sia anche oggi? Il giorno passato non deve pregiudicare il giorno presente: non c’è che l’ultimo giorno il quale può giudicare tutti gli altri ». – Davanti a queste fini considerazioni dei Santi, noi, così spregiudicati e grossolani ci sentiamo una vampa di rossore salire in volto, e ci sentiamo in cuore il pungolo di troppi rimorsi. « Ohimè! — diciamo col profeta Isaia — sono un uomo dalle labbra immonde e abito in mezzo ad un popolo dalle labbra immonde ». Anche a noi, o Signore, manda il tuo Serafino con in mano un carbone acceso per purificarci la bocca da ogni mormorazione (Isaia, VI; 55). – INVIDIA. Chi ha l’occhio cattivo tutto il corpo ha cattivo e torbido.E l’occhio cattivo l’hanno non solo i mormoratori, ma anche gli invidiosi il cui sguardo è pieno di malvagità come quello del demonio quando scorgeva Adamo beato nel terrestre paradiso. Ogni bene del prossimo li rattrista, come fosse cosa di loro spettanza ed a loro rapita. Ogni sventura del prossimo li rallegra, come fosse per loro un guadagno. Oculus nequam: occhio malvagio che tutto il corpo rende malvagio: mente, cuore, mani. La mente non sa più pensare in bene. Colui che prima ci pareva meritevole di lode, appena sorge l’invidia ci par tutto diverso da quel che era. Ciò che prima era devozione in lui, diventa ora per noi ipocrisia: quel che era generosità è ora audacia; quel che era forza ora è prepotenza. E non è ch’egli sia cambiato, è il nostro occhio che è cattivo. Il cuore non sa più avere pace. Se ascoltiamo le lodi della persona invidiata, subito una lama gelida taglia la nostra anima, come se quegli encomi fossero rimproveri per noi. Se riacquista salute dopo una malattia, ci sentiamo oppressi noi dalla febbre e dai deliri che l’hanno lasciato. Se il suo campo, la sua bottega, i suoi affari prosperano non possiamo dormire in pace, come se una forza maligna minacciasse la fortuna del nostro campo, della nostra bottega, dei nostri affari. – Il cuore dell’invidioso è il carnefice di se stesso e non solo deve soffrire per i propri dolori, ma anche per le gioie degli altri. – Le mani dell’invidioso sono capaci di tutto: di prendere un ferro e cacciarlo nel petto del proprio fratello, come fece Caino; di spingere l’innocente in una cisterna, come fecero i fratelli di Giuseppe; di rapire la vigna di un povero come fece Acab; di avvelenare l’acqua del pozzo come han fatto certi invidiosi per il selvaggio gusto di privare i Giudei d’un bene invidiato. – Udite! da tutti i villaggi, da tutte le città risuonano liete canzoni di vittoria. Il Filisteo è stato sconfitto e le fanciulle intonano un canto che ha questo ritornello: «Ne uccise Saul mille e David dieci mila ». Saul il re ascolta: ha invidia. Da quel giorno — dice la Scrittura — non poté più vedere Davide se non con occhi malvagi. Non rectis oculis Saul aspiciebat David a die illa. E l’occhio malvagio rese malvagio tutto il corpo. Malvagia la mente: «Come? — andava rimuginando in sé quell’invidioso —Ne hanno assegnato dieci mila a Davide e a me non ne dan che mille. Chi è? un fanciullo imberbe, il figlio di un mio servo di Betlem, un custode di mandre ». E non ricordava più che David era il vittorioso uccisore del gigante.Malvagio il cuore, che si era gonfiato d’odio implacabile: anzi, la Storia lo dice, uno spirito maligno era venuto in quel cuore invidioso ad abitare. Exagitabat cum spiritus nequam. Malvagia la mano che un giorno afferrò una lancia e la scagliò con la bramosia d’inchiodar Davide sul muro. Ma Davide per due volte sfuggì. –  Il vecchio Tobia era divenuto cieco: ma il suo figliuolo guidato da un Angelo portò a casa un pesce pescato nel Tigri; col fiele di quel pesce spalmò le spente pupille del padre dalle quali caddero subitamente delle squame biancastre. E il cieco riebbe la vista. Anche noi abbiamo gli occhi malati. Ed il Signore, oggi, per mezzo del suo Angelo che è il sacerdote, ci manda la parabola pescata nel suo Vangelo. Possa essa guarire la nostra vista. Ci faccia vedere come tutti siamo fratelli e membri di un corpo unico, il mistico Corpo di Cristo. Ci tolga ogni squama malvagia che c’induce a mormorare e a portare invidia al nostro prossimo.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime.

[È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta

Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi.

[O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XXX: 17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te.

[Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant.

[I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/