DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2022)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione: a S. Pietro.

Semidoppio Dom. privil; di II cl. – Paramenti violacei.

Come le tre prime profezie del Sabato Santo con le loro preghiere sono consacrate ad Adamo, a Noè, ad Abramo, così il Breviario e il Messale, durante le tre settimane del Tempo della Settuagesima, trattano di questi Patriarchi che la Chiesa chiama rispettivamente il «padre del genere umano », il « padre della posterità » e il « padre dei credenti ». Adamo, Noè e Abramo sono le figure del Cristo nel mistero pasquale; lo abbiamo già dimostrato per i due primi, nelle due Domeniche della Settuagesima e della Sessagesima, ora lo mostreremo di Abramo. Nella liturgia ambrosiana la Domenica di Passione era chiamata « Domenica di Abramo » e si leggevano, nell’ufficiatura, i “responsori di Abramo”. Anche nella liturgia romana il Vangelo della Domenica di Passione è consacrato a questo Patriarca. «Abramo vostro Padre, – disse Gesù, – trasalì di gioia nel desiderio di vedere il mio giorno: lo vide e ne ha goduto. In verità, in verità vi dico io sono già prima che Abramo fosse ». – Dio aveva promesso ad Abramo che il Messia sarebbe nato da lui e questo Patriarca fu pervaso da una grande gioia, contemplando in anticipo, con la sua fede, l’avvento del Salvatore e allorché ne vide la realizzazione, contemplò con novella gioia l’avvenuto mistero dal limbo ove attendeva con i giusti dell’antico Testamento, che Gesù venisse a liberarli dopo la sua Passione. Quando al Tempo di Quaresima si aggiunsero le tre settimane del Tempo di Settuagesima, la Domenica consacrata ad Abramo divenne quella di Quinquagesima, infatti le lezioni e i responsori dell’Ufficio di questo giorno descrivono l’intera storia di questo Patriarca. Volendo formarsi un popolo suo, nel mezzo delle nazioni idolatre (Grad. e Tratto), Dio scelse Abramo come capo di questo popolo e lo chiamò Abramo, nome che significa padre di una moltitudine di nazioni. « E lo prese da Ur nella Caldea e lo protesse durante tutte le sue peregrinazioni » (Intr., Or.). « Per la fede, – dice S. Paolo – colui che è chiamato Abramo, ubbidì per andare al paese che doveva ricevere in retaggio e partì senza saper dove andasse. Egli con la fede conseguì la terra di Canaan nella quale visse più di 25 anni come straniero. È in virtù della sua fede che divenne, già vecchio, padre di Isacco e non esitò a sacrificarlo, in seguito ad ordine di Dio, sebbene fosse suo figlio unico, nel quale riponeva ogni speranza di vedere effettuate le promesse divine d’una posterità numerosa. (Agli Ebrei, XI. 8,17) – Isacco infatti rappresenta Cristo allorché fu scelto «per essere la gloriosa vittima del Padre » (VI Orazione del Sabato Santo.); allorché portò il fastello sul quale stava per essere immolato, come Gesù portò la Croce sulla quale meritò la gloria colla sua Passione; allorché fu rimpiazzato da un montone trattenuto per le corna dalle spine di un cespuglio, come Gesù, l’Agnello di Dio ebbe, dicono i Padri, la testa contornata dalle spine della sua corona; e specialmente allorché liberato miracolosamente dalla morte, fu reso alla vita per annunziare che Gesù dopo essere stato messo a morte, sarebbe risuscitato. Così con la sua fede, Abramo, che credeva senza esitare ciò che stava per avvenire, contemplò da lungi il trionfo di Gesù sulla Croce e ne gioì. Fu allora che Dio gli confermò le sue promesse: «Poiché tu non mi hai rifiutato il tuo unico figlio, io ti benedirò, ti darò una posterità numerosa come le stelle del cielo e l’arena del mare (VI orat. del Sabato santo). Queste promesse Gesù le realizzò con la sua Passione. « Il Cristo, dice S. Paolo, ci ha redenti pendendo dalla croce perché la benedizione, data ad Abramo fosse comunicata ai Gentili dal Cristo, e così noi ricevessimo mediante la fede la promessa dello Spirito », cioè lo Spirito di adozione che ci era stato promesso. « Fa’, o Dio, prega la Chiesa nel Sabato Santo, che tutti i popoli della terra divengano figli di Abramo, e, mediante l’adozione, moltiplica i figli della promessa» (3a settimana dopo l’Epifania, feria 2a – martedì) . Si comprende ora perché la Stazione oggi si fa a S. Pietro, essendo il Principe degli Apostoli che fu scelto da Gesù Cristo per essere il capo della sua Chiesa e, in una maniera assai più eccellente che Abramo stesso, « il padre di tutti i credenti ». – La fede in Gesù, morto e risuscitato, che meritò ad Abramo di essere il padre di tutte le nazioni e che permette a tutti noi di divenire suoi figli, è l’oggetto del Vangelo. Gesù Cristo vi annunzia la sua Passione ed il suo trionfo e rende la vista ad un cieco dicendogli: La tua fede ti ha salvato. Questo cieco, commenta S. Gregorio, recuperò la vista sotto gli occhi degli Apostoli, onde quelli che non potevano comprendere l’annunzio di un mistero celeste, fossero confermati nella fede dai miracoli divini. Infatti bisognava che vedendolo di poi morire nel modo come lo aveva predetto, non dubitassero che doveva anche risuscitare ». (4° e 5° Orazione). L’Epistola, a sua volta mette in pieno valore la fede di Abramo e ci insegna come deve essere la nostra. « La fede senza le opere, scrive S. Giacomo, è morta. La fede si mostra con le opere. Vuoi sapere che la fede senza le opere è morta? Abramo, nostro padre, non fu giustificato dalle opere, quando offri suo figlio Isacco su l’altare? Vedi come la fede cooperò alle sue opere e come per mezzo delle opere fu resa perfetta la fede. Così si compie la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Voi vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede solamente » (3° Notturno). L’uomo è salvato non per essere figlio di Abramo secondo la carne, ma per esserlo secondo una fede simile a quella di Abramo. « In Cristo Gesù, scrive S. Paolo, non ha valore l’essere circonciso (Giudei), o incirconciso (Gentili), ma vale la fede operante per mezzo dell’amore ». « Progredite nell’amore, dice ancora l’Apostolo, come Cristo ci ha amati e ha offerto se stesso per noi in oblazione a Dio e in ostia di odore soave » (Ad Gal. 5, 6). – In questa domenica e nei due giorni seguenti, ha luogo in moltissime chiese, una solenne adorazione del SS.mo Sacramento, in espiazione di tutte le colpe che si commettono in questi tre giorni. Questa preghiera di espiazione, conosciuta sotto il nome di « quarant’ore », fu istituita da S.Antonio Maria Zaccaria (5 luglio) nella Congregazione dei Barnabiti, e si generalizzò, venendo riferita particolarmente a questa circostanza, sotto il pontificato di Clemente XIII, il quale nel 1765, l’arricchì di numerose indulgenze.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. –

[In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus.

Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

[“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla mi  giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”..]

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grande importanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro; intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita per salvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Il possedere uno solo di questi doni, il compiere una sola di queste azioni, basterebbe a formare la grandezza di un uomo. S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che son superati da un altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità, per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaro che uno distribuisce agli altri, non serbando nulla per sé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. – Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. – L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita. – Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

 Graduale:

Ps LXXVI: 15; LXXVI: 16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam.

[Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto:

Ps XCIX: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia,

V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus.

V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia.

V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio.

V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII: 31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

[In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.]

Omelia

VEDERE DIO NEL DOLORE

La primavera dell’anno 29 fioriva e fogliava su tutte le siepi, mentre Gesù passava nella valle del Giordano, diretto a Gerusalemme, dopo l’aspettavano quattro chiodi e una croce. Lo sapeva perfettamente. Eppure camminava deciso, davanti a tutti, come un giovane eroe che vada al trionfo; dietro a lui veniva il drappello dei dodici, sbigottiti, sospettando qualche cosa di grave. Dietro ai dodici, veniva un gruppo di persone formato da discepoli e da pellegrini incontrati lungo la strada, tutti con in cuore il triste presagio di tragici avvenimenti ormai maturi. Già più d’una volta Gesù aveva tentato di far capire agli Apostoli che Egli avrebbe redento il mondo, non con le armi e la ricchezza e i prodigi, ma con l’umiliazione e la sofferenza e l’amore che dona senza chiedere; invano. Ora che pochi giorni lo separavano dal sacrificio estremo, bisognava tagliar corto e parlar chiaro. «Ecco che noi andiamo a Gerusalemme. E là il Figlio dell’uomo sarà dato in mano dei suoi nemici che lo condanneranno a morte e poi lo consegneranno in potere dei Romani. Questi lo scherniranno, gli sputeranno sulla faccia, lo flagelleranno, infine lo faranno morire. Ma dopo tre giorni, egli risorgerà ». A queste parole tutti allibirono, come gente che s’accorga di un grande inganno che le sia stato fatto. « Addio, splendido e invidiato posto di ministri in un regno glorioso!… » sospiravano i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. – Di questa loro delusione forse si rese interprete la madre, che s’avvicinò a Gesù e gli disse: « Maestro, nel tuo regno non metter in disparte i miei figliuoli, ma li  farai sedere al primo posto, uno a destra e l’altro a sinistra del tuo trono ». Le rispose Gesù: « Povera donna, non sapete ciò che chiedete. È mio ministro chi beve il calice dell’amarezza che Io berrò, chi subisce il battesimo di sangue in cui Io mi battezzerò ». Anch’ella come i figli non poteva capire che al Regno di Dio si arriverà solo attraverso il dolore e la umiliazione. Anche Pietro non lo poteva capire. Protestava che simili soprusi non si possono né si devono permettere; che se non li impediva Gesù, gli bastava l’ardimento di impedirli da solo. Il più chiuso, l’irrimediabilmente chiuso a intendere il mistero della sofferenza era Giuda. La passione dell’avarizia teneva la signoria del suo cuore. Da tempo seguiva Gesù solo per la speranza d’arricchire; ma ora che il suo sogno di ricchezza veniva infranto dalle stesse parole del Maestro, che preannunciavano oltraggi, patimenti e morte, decise di prendersi la rivalsa sulla stessa persona di Gesù: l’avrebbe venduto per farne danaro. – Doveva essere molto triste per il Figlio di Dio andare incontro alla morte per tutte quelle persone che non capivano il suo amore. Tutti, anche i migliori, erano ciechi. E proprio in un cieco si imbatterono, giunti che furono alle porte di Gerico. Un certo figlio di Timeo, che era solito mendicare sull’orlo della strada, gridava: « Gesù, figlio di Dio, abbi pietà del povero cieco ». Gli fecero capire di smetterla che assordava tutti; ma l’infelice gridava più forte. Il maestro divino fermandosi lo chiamò: «Che cosa vuoi da me? ». « Fammi vedere! ». « Guarda! La tua fede ti dà la vista ». A quelle parole di Gesù, il cieco acquistò il lume degli occhi, e, glorificando Dio gli andò dietro. Ma era più facile aprire gli occhi del corpo alla luce di questo mondo, che non aprire gli occhi degli uomini alla luce della fede e far loro vedere l’amore di Dio in mezzo alle tribolazioni. Eppure Gesù compirà questo prodigio: e dopo la discesa dello Spirito Santo, gli Apostoli non chiesero più né onori né ricchezze, ma andarono incontro alla sofferenza e alla morte pieni di gioia perché vedevano d’andare incontro al Signore. E come gli Apostoli, innumerevoli anime in ogni tempo si sentirono predilette da Dio appunto perché flagellate dai dolori. Ma ora il mondo non vuol altro che godere. Ora c’è bisogno che il Signore ripassi sulle nostre strade e si prenda un’altra volta pietà degli innumerevoli ciechi che non sanno vedere Dio nel dolore. E ve ne sono molti anche tra quelli che si credono buoni Cristiani. Vogliono essere redenti dalla croce, ma non vogliono portare la croce. Beati quelli che piangono e sopportano per amore: coi loro occhi detersi dalle lagrime vedono la vera luce e non si troveranno ingannati. – QUELLI CHE NON VEDONO. Dopo che i Romani presero a ferro e a fuoco Gerusalemme e la distrussero, i luoghi santi della passione di Gesù furono ricoperti dalle rovine, e sulla cima del Calvario vennero poi costruiti dei templi pagani con le statue di Venere e Bacco. Ma giunse la regina Santa Elena, madre di Costantino il Grande, e fece abbattere i templi e le statue degli idoli immondi e fece scavare in cerca delle sante reliquie sepolte. Ed ecco apparire tre croci. Una delle tre, era, senza dubbio, quella del Salvatore. Ma quale? Presero un uomo infermo e consecutivamente l’adagiarono su ciascuna. Al contatto con la terza si alzò guarito. « Abbiamo trovato la croce della nostra salvezza! » si gridò allora. Ma già tutti in ginocchio l’adoravano. – Nel mondo moderno quante anime inferme e travagliate dal demonio. Esse potrebbero guarire e salvarsi, ma non vogliono il rimedio: adagiarsi sulla loro croce. Hanno orrore della corona di spine, delle piaghe, delle umiliazioni del sangue. Eppure solo nel sangue, cioè nel sacrificio, c’è redenzione. Essi però non vedono questo: sono ciechi. – Distinguiamo tre gruppi di ciechi. Il primo gruppo di quelli che assolutamente respingono Gesù. Al posto della croce nel loro cuore hanno innalzato il tempio a Venere, la dea del piacere impuro, e a Bacco il dio del vino e d’ogni intemperanza di gola. Essi gridano a Cristo: « Non vogliamo che tu regni su di noi, perché porti la croce e imponi la quaresima. Vogliamo Venere, vogliamo Bacco. Perché ci concedono ogni piacere e il godimento della settimana grassa ». Se in questi giorni raccoglieste i discorsi che si fanno in treno, nei caffè, nei ritrovi, se leggeste i manifesti della pubblicità sui giornali o affissi sui muri o sparsi per le vie, v’accorgereste che i novelli pagani invasi dal cieco furore del piacere sono una moltitudine. Da per tutto si parla di veglioni, di cene notturne, di danze, di spettacoli inverecondi… Ciechi, che bevono senza vederlo l’eterno veleno! Ciechi che non sanno d’esserlo! E se anche lo sapessero, non vorrebbero guarire! – Un altro gruppo è di quelli che seguono Gesù fin tanto che si tiene sulle proprie spalle la croce, ma se l’appoggia un momento alle loro l’abbandonano e fuggono. M’è capitato di udire sulla bocca di Cristiani espressioni simili a queste: «Io non mi confesserò più, non mi comunicherò più: Gesù m’ha fatto morire il figlio unico. Oppure: «In chiesa non ci vado più; m’ha lasciato cadere in miseria, in un fallimento ». O anche: « Gli avevo chiesto quell’impiego, quel posto, la vittoria in quel concorso: v’è riuscito un altro che è senza fede. Non pregherò più: è inutile pregare ». Questi pure sono ciechi. Non vedono di essere come i Giudei che credevano in un Messia che venisse non a togliere il peccato e a farci figli di Dio, ma a portarci il pane per il ventre, l’onore per l’orgoglio, il benessere materiale sulla terra. – Il terzo gruppo è di quelli che al momento della prova tradiscono e vendono il Messia sofferente. E sono coloro che frequentano la Messa e magari i primi venerdì del mese; ma se a loro capita un guadagno illecito di denaro: un bacio a Cristo e un calcio al settimo comandamento. Se in loro insorge un desiderio fosco, un affetto proibito, o se capita a loro un incontro adescante, non vogliono imporsi il freno della mortificazione: un bacio a Cristo e un calcio al sesto comandamento. Anche questi son ciechi. Non vedono che per un pugno di soldi, per un’ora di stordimento folle, hanno venduto Gesù, il Figlio di Dio e loro Salvatore. Non vedono che non sono più Cristiani. – QUELLI CHE VEDONO. S. Teresa d’Avila in uno dei suoi viaggi, attraversando un fiume gonfio per un recente temporale, vide la sua barca rapita dalla corrente vorticosa sul punto di affondare. In quel momento, come in una visione, le apparve la sua vita, tutta la sua vita di sofferenze e d’angosce spese per servire Dio. E udì la voce di Gesù mormorarle in cuore: « Così io tratto i miei amici ». Ed ella, con la confidenza che usava col Signore anche nelle ore più trepide, rispose: « È appunto per questo che ne avete così pochi! ». Intanto la barca, superato il pericolo, s’agganciava alla riva. Questo fatto dapprima c’insegna che la vita del vero credente è austera. Quanti sacrifici gli sono domandati ogni giorno! Sacrifici di ambizioni personali, sacrifici e affezioni inebrianti, sacrifici forse d’un focolare sognato invano. Cristo è esigente: Egli porta la croce e l’ombra delle due aste tocca tutti quelli che salva. L’arguta risposta della santa c’insegna ancora che sono pochi i coraggiosi. Che sanno rispondere alle esigenze di Gesù. Ma a questi pochi generosi è data una nuova vista: essi vedono una nuova realtà, la più vera, la più profonda. Essi nel dolore vedono l’amore di Dio: infatti è un mezzo di espiazione, di preservazione, di santificazione. – Il dolore è espiazione per il peccatore. Per quanto gravi e numerosi siano stati i peccati della vita passata, l’accettazione fedele e docile delle sofferenze quotidiane sopportate in unione a quelle di Cristo ci otterrà amplissima misericordia. Né le tribolazioni parranno mai intollerabili; anzi dovremo sempre dire con riconoscenza amorosa: « Che cosa sono questi brevi patimenti in confronto dell’inferno che ho meritato? ». – Il dolore è preservazione al giusto. Nel tempo che Davide soffriva per la persecuzione del re Saul, e per salvarsi fuggiva di luogo in luogo, non cedette mai a desideri cattivi, non oltraggiò mai la donna d’altri, non nascose con l’omicidio il proprio peccato. Ma quando felice, ben pasciuto, ozioso si pose sulla terrazza della reggia, allora la tentazione lo travolse. Chissà quanti in cielo benediranno i giorni della malattia, della sventura, perché da quelle sofferenze furono preservati da fatali cadute! – Il dolore è santificazione per tutti. Ci stacca dalle gioie fallaci del mondo, e ci fa sentire che la vita non è che una notte da passarsi in un cattivo albergo. Ci rende sempre più Cristiani, cioè più simili al nostro Capo che fu schernito, flagellato, ucciso. Infine, ci rende capaci di un premio più grande in cielo. «Per un solo patimento tollerato con gioia ameremo per sempre di più il Signore » (Epistolario di S. Teresa del Bambino Gesù). – È risaputo il fatto di S. Venceslao. D’inverno, quando la città dormiva sepolta nel sonno, nella neve e nell’oscurità, il re usciva dalla reggia a piedi scalzi e faceva il giro delle chiese della sua capitale. Un solo servo gli veniva dietro; ma il rigore del gelo era tale che il povero scoraggiato si lamentava e piangeva. Venceslao si rivolse e con voce piena di affetto compassionevole gli disse: « Metti i tuoi piedi sulle orme dei miei passi ». L’altro ubbidì: e sentiva che le orme dei piedi del re comunicavano a lui un dolce tepore. Quasi non sentiva più freddo. Signore, ch’io veda! ch’io veda sul cammino oscuro e gelato del dolore l’orma dei tuoi piedi redentori! – Se Gesù darà agli occhi dell’anima nostra questa vista il dolore non ci farà più spavento. Metteremo i nostri piedi tremanti sulle orme insanguinate dei suoi piedi divini: un ardore e una forza sconosciuta alla natura penetrerà in noi. Non è questo forse quello che ha provato il cieco di Gerico? Appena ebbe la vista, dice il Vangelo che glorificando Dio seguì i passi di Gesù. Ma dove andavano i suoi passi? A Gerusalemme, a patire e a morire.

– Nella Storia Sacra si racconta di una città dove le acque erano diventate melmose e imbevibili. Gli abitanti ricorsero al profeta Eliseo, il quale fattosi portare un vaso colmo di sale, lo versò nelle fonti inquinate. Da quel momento le acque rifluirono limpide e potabili (IV Re, II, 19-21). Nel tempo del carnevale le acque del mondo davvero si fanno melmose ed esalano miasmi pestiferi di corruzione. I buoni Cristiani costretti a viverci in mezzo sono in un grave pericolo di contagio, se non ricorrono alla disinfezione. Ed ecco la santa Chiesa imitare il gesto del profeta Eliseo, e con materna preoccupazione versare nelle anime il sale che purifica, preserva. Questo sale è la memoria della Passione di nostro Signore. – Essa infatti, proprio in questa domenica, ci fa meditare quelle righe di Vangelo in cui Gesù predice agli Apostoli la sua crocifissione imminente. – Di queste misteriose e dolorose previsioni, gli Apostoli non capivano nulla; se qualcosa ne capivano, non volevano crederci, tanto pareva loro orribile. Erano ciechi nell’anima come lo era nel corpo l’infelice che incontrarono nelle vicinanze di Gerico, a cui Gesù diede la vista con un miracolo. Anche agli Apostoli si sarebbero poi aperti gli occhi a intendere il mistero della croce. Anche i nostri occhi sono stati aperti alla luce della fede. Perciò, in questa domenica che il mondo chiama « grassa » per i piaceri sensuali e le folli allegrie a cui molti s’abbandonano, ripensando alle parole del Signore sulla sua passione dobbiamo sentirci commossi. Ci deve sgorgare dal cuore la preghiera di S. Agostino: « Signore, fammi sentire tutto il tuo dolore e tutto l’amore che provasti nella tua passione: tutto il dolore per accettare ogni mio dolore quaggiù; tutto l’amore per rifiutare ogni amore mondano ». – SENTIRE IL DOLORE DELLA PASSIONE DI GESÙ PER ACCETTARE OGNI NOSTRO DOLORE. – a) Sei forse povero? È duro arrabattarsi da mane a sera nella miseria; sempre con l’acqua dei debiti alla gola; assillati dall’affitto da pagare, dalle vesti e dal cibo da provvedere: tremanti per la paura di possibili umiliazioni. Più duro ancora quando tu, o povero, volgendo intorno gli occhi offuscati da tante preoccupazioni, e privazioni, vedi che in una notte sola si può sperperare e che a te assicurerebbe un anno di pigione e di riscaldamento: in una veste da ballo da maschera si può impiegare ciò che a te basterebbe per ricoprire decentemente il corpo intirizzito di tutti i tuoi figliuoli; in liquori, dolci e profumi si può irritare uno stomaco già sazio, mentre tu non hai neppure il sufficiente per te e per i tuoi. Ebbene, bisogna che tu, o povero, sappia oltrepassare l’ingiuriosa baldoria del carnevale, e senta di là da essa la sofferenza di Gesù. Il Figlio di Dio, pur essendo padrone dell’universo, ha voluto vivere quaggiù nella povertà: nacque in una stalla; visse lavorando manualmente per trent’anni; durante la vita pubblica, più povero dell’uccello che ha un nido, più povero della volpe che ha una tana, Egli non aveva dove posare la testa stanca; sulla croce patì perfino la sete. Col suo esempio volle insegnarti che il valore dell’uomo non è nelle cose che possiede, ma nelle virtù dell’anima; ed in mezzo alla povertà è più facile all’uomo essere ricco di virtù che non in mezzo alle ricchezze. – b) Sei forse malato? o è malato qualcuno dei tuoi cari? È penoso trascinare una vita tra letto e lettuccio, penoso anche aver qualche persona cara malata in casa, o all’ospedale, o al sanatorio. Più penoso però si fa questo dolore quando nel carnevale risuonano intorno le risa, i canti, i suoni dei gaudenti. Questi hanno salute da sprecare, nei peccati; altri, dopo tante preghiere non ottengono neppure quel minimo d’energie che è necessario per non essere di peso al prossimo e a sé nella vita. Ebbene, bisogna che gli ammalati o i loro parenti sappiano oltrepassare la disfrenata allegria carnevalesca, e sentano di là da essa la sofferenza di Gesù. Il Figlio di Dio, pure essendo innocente, ha voluto subire nella sua carne atroci tormenti: i tormenti della flagellazione, della coronazione di spine, della crocifissione. Non aveva membro che non fosse una piaga. Egli scontava per noi i nostri peccati di sensualità. Noi invece abbiamo sempre qualche cosa di nostro da scontare; e poi sollevando lo sguardo a Lui, sentiamo che ogni nostro dolore non solo ci purifica, ma ci rende più simili a Lui, e quindi partecipi in maniera più grande del suo merito e del suo premio. – Qualunque pena sia la nostra, nella passione del Signore trova il suo perché e la sua consolazione. – c) Siamo decaduti dalla nostra dignità, dalla nostra condizione sociale? È veramente doloroso; ma pensiamo a Lui disceso dalle altezze del cielo su questa bassa terra piena d’affanni. – d) Gli uomini ci deridono, ci calunniano, ci perseguitano ingiustamente? È dolorosissimo; ma pensiamo a Lui accusato d’aver in corpo il demonio, di aver sobillato il popolo alla rivolta, d’aver bestemmiato. – e) Ci troviamo soli al mondo, ingannati dagli amici, abbandonati dai parenti, incompresi da tutti? Pensiamo a Lui tradito con un bacio da Giuda, lasciato solo dagli Apostoli che nell’ora della prova, prima dormirono poi, fuggirono, a Lui che gemendo disse questa misteriosa invocazione: « Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». – SENTIRE NELLA PASSIONE L’AMORE DI GESÙ PER RIFIUTARE OGNI AMORE MONDANO. Quando S. Agnese fu richiesta in nozze dal figlio del governatore di Roma, si trovò nella drammatica alternativa di rinunciare all’amor di Gesù Cristo o di rinunziare alla vita. Ed ella a tutto rinunziò, anche alla vita, ma non all’amore di Gesù. «Sono già stata promessa — rispose — ad un altro amante ben più eccellente di te. La sua generosità è incomparabile, la sua potenza non conosce limiti, il suo amore non teme sacrifici. Suo Padre è Dio, sua Madre è una Vergine; i suoi servi sono gli Angeli; il sole e la luna sono gli ornamenti della sua casa; il suo profumo risuscita i morti, il suo contatto guarisce i malati. A Lui solo io conservo la fede. E tu vattene, o sorgente di peccato, o lusinga di morte ». – Se l’anima nostra comprendesse di che amore immenso è stata prevenuta, e quale testimonianza le fu data dal Signore nella sua passione, dovrebbe ripetere le risolute parole di S. Agnese ad ogni profferta peccaminosa di qualsiasi creatura. Nessuna creatura è grande e dolce come Gesù. Nessuno ci può far felici come Gesù. Nessuno ci amò fino alla morte, e alla morte di croce, come Gesù. Perciò quando il mondo coi suoi affetti sensibili, coll’attacco al denaro e alla roba, con i barbagli dell’onore, vorrà affascinarci, noi gli risponderemo con S. Agostino: « Perché tante lusinghe? ciò che io amo è più dolce di ciò che prometti. Mi prometti piaceri? è più piacevole Dio. Mi prometti onori e innalzamenti? è più alto il regno di Dio. Mi prometti inutili e dannose curiosità? solo Dio è verità. Mi prometti amore e felicità? solo Gesù è morto per mio amore ». Vattene dunque, o sorgente di peccato, o lusinga di morte. – Come è possibile amar Dio, che non si vede? se lo si vedesse!… C’è forse bisogno di veder Dio con gli occhi del corpo per poterlo amare? Non basta sapere che Egli esiste, che siamo visti da Lui che non vediamo, che ci è vicino, ci sente, ci ama infinitamente? L’esule relegato in una isola remota in mezzo all’oceano pensa alla sua famiglia lontana, lavora, ed ama. Il pellegrino lontano dalla sua patria, dalla sua casa, cammina ed ama. Il prigioniero, nell’oscuro carcere, non vede i suoi cari, eppure ad ogni istante sospira ed ama. Anche noi, pur essendo esuli relegati su questa terra, pellegrini in mezzo alle fugaci illusioni del mondo, prigionieri nel carcere delle cose sensibili, possiamo e dobbiamo amare Dio che adesso non vediamo, che un giorno vedremo a faccia a faccia. Il nostro cuore sia dunque un santuario: arda sempre in esso la lampada del divino amore. – All’inizio della vita pubblica Gesù entrò nella sinagoga del suo paese, e, salito sull’ambone, aprì a caso il libro dei profeti e lesse: « Lo spirito del Signore è sopra di me. Io son venuto a rendere la vista ai ciechi ». – Visum cæcis di Gesù è scritto nelle profezie; ma non è appena la vista materiale degli occhi del corpo che Egli ha portato dal cielo: sarebbe stata poca cosa, giacché dopo qualche anno gli occhi del corpo ritornano a spegnersi nell’oscurità della morte. È soprattutto la vista dell’anima, la fede che Gesù ci dona! – Per vedere gli oggetti esterni abbiamo bisogno degli occhi del corpo: ma vi sono attorno a noi cose spirituali, che rimangono invisibili a questi occhi: Iddio, l’anima, Gesù Eucaristico, le verità eterne. Per questo occorrono le pupille della fede. Ma come vi sono i ciechi del corpo, così vi sono i ciechi dell’anima. E sono numerosissimi. Guardate il mondo in questa settimana ultima di carnevale, e credo che non farete fatica a comprendere che è un gran cieco; che non ha la luce di verità che Gesù Cristo diede agli uomini col suo Vangelo. Guardate il mondo e poi riflettete se anche voi non siate, come lui, ciechi, o se rischiate di diventarlo. – IL MONDO È CIECO. Un sapiente, che aveva consumato la sua vita nello studio delle cose e degli uomini, udì che v’era una città ove tutti gli abitanti erano stolti: ciechi nell’anima. Vi volle andare. Ed ecco vicino alle mura si incontra con due ambasciatori che s’allontanavano dalla città spronando terribilmente i cavalli. « Fermi, fermi, dove andate?» chiese a loro il sapiente. « Noi non lo sappiamo; per ora non ci interessa; al nostro ritorno ce ne informeremo ». « Sono stolti davvero » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma nel mondo, quanti più stolti e più ciechi di loro! Vivono quaranta, cinquant’anni e non si chiedono mai donde vengono, dove vanno. Da chi furono creati, e per qual fine. Essi, come la pecora nel prato, mangiano, bevono, si divertono e altro non sanno. Non sanno quello che c’è sul piccolo catechismo e che ogni bambino sa; non sanno quello che Gesù da venti secoli va insegnando a tutti. Hanno gli occhi, ma non vedono la luce della fede. – Entra per la porta della città. Nella prima via incontra un giovanetto esile e pallido con sulle spalle magre un fascio enorme di legna: a lato gli cammina un cavallo muscoloso, senza né briglia, né freno. « Ma perché »; domandò il sapiente, « ti spezzi la schiena, mentre non getti in groppa al tuo cavallo il fastello, che per esso sarebbe leggero? ». Il giovane rispose: « Non vorrei affaticarlo con troppo peso ». « Stolto davvero! » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma nel mondo, quanti più stolti di lui! Temono di castigare il corpo che è il cavallo dell’anima, e non gli impongono il peso di un’astinenza benché leggera, non gli negano neppure il più bizzarro capriccio. E intanto sovraccaricano l’anima con un fascio di peccati; e non pensano che per risparmiare il corpo, perderanno anche l’anima, perché il fascio dei peccati deprimerà e anima e corpo all’inferno. Più avanti, in una piazza, trovò un uomo alto e robusto che da una stecchita donnicciuola con un filo di seta veniva trascinato a un pozzo per esservi gettato dentro. « Con l’unghia del dito mignolo, con un soffio di fiato, rompi quel filo! Liberati dalla morte! » gli gridava il sapiente. Ma quello con un’aria stupida rispondeva: « Non posso ».  « Davvero che è stolto » concluse in cuor suo il sapiente. Ma quanti nel mondo son più stolti e più ciechi di lui! Prigionieri di una passione impura si lasciano imprigionare col filo dell’abitudine viziosa. E lentamente vanno al precipizio infernale, e, ciechi, non se ne accorgono. Avvisati più volte da qualche amico, da qualche sacerdote, dai rimorsi, rispondono che non possono rompere quel filo. – Entrò finalmente in un’osteria. Era allagata dal vino: sotto i tavoli, sotto le sedie, sotto il banco, tutto era intriso di vino. E le botti aperte continuamente ne lasciavano fluire. « Oste, oste! tu perdi tutto il vino! ». Ma l’oste, che vicino a una finestra con le caviglie nel liquido prezioso faceva un gioco solitario con le carte, rispose: « Prima, voglio finire questo ». «Davvero che è stolto » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma quanti nel mondo più stolti e più ciechi di lui! Lasciano fluire, per giornate, per mesi, per anni un nobilissimo e prezioso tempo senza far nulla per la vita eterna, e solo si occupano di chiacchiere, di mormorazioni, di guadagni, di mode, di divertimenti. – Cieco è il mondo sempre, ma specialmente nei giorni del Carnevale. Da per tutto si organizzano festini danzanti, veglioni, commedie, mascherate: ma intanto non si vede che tristamente Gesù ritorna a Gerusalemme per essere tradito, flagellato, crocifisso con tre ore d’agonia. Cieco è il mondo, e non s’accorge che per un pugno d’orzo vende di nuovo Cristo e per un pezzo di carne marcita uccide le anime immortali (Ezech., XIII, 19). – SIAMO CIECHI FORSE ANCHE NOI? Curioso è quello che capitò a Seneca, filosofo pagano. Sua moglie, che si chiamava Arpante, dormendo era diventata improvvisamente cieca. Svegliatasi, e non vedendo filo di luce, fece aprire la finestra della stanza. Invano: non scorgendo ancora nulla, disse che era notte oscura. Ma quella notte non aveva alba; allora disse che la stanza era divenuta oscura. Si fece condurre in un’altra che trovò egualmente nera; passò in una terza e poi in tutte quelle del palazzo: ma in tutte era tenebra fittissima e dovette rassegnarsi a tornare nella prima. Seneca, raccontando questo fatto disse: « Cosa incredibile ma vera: mia moglie era cieca e non volle crederlo: credette piuttosto che dal mondo era scomparsa la luce e vi erano sottentrate le tenebre ». – Il caso eccezionale di questa donna è purtroppo comune a non pochi ciechi spirituali, che sono veramente ciechi e non lo sanno: non sanno, non credono, non vedono ciò che dovrebbero sapere in fatto di Religione. Per guarire da un male, la prima cosa è sapere di essere ammalati per potersene convenientemente curare. Ora io vorrei dirvi alcuni segni che vi possono indicare se avete la disgrazia della cecità spirituale. Tra i figli, è cieco colui che non vede come la felicità sta nell’aiutare, nell’obbedire, nel rispettare i propri genitori. – Tra i padri, cieco è colui che non vede come il bene della famiglia deriva dagli esempi che egli dà, sia colle parole, sia colle azioni. – Tra le madri, cieca è quella che non vede lo strettissimo obbligo di non permettere alle figlie conversazioni e divertimenti pericolosi. – Tra i coniugi, cieco è quello che non vede quale orribile delitto sia la infedeltà.  – Tra i celibi, cieco è colui che non sa di dover vivere castamente coi pensieri, cogli affetti, con le parole, con le opere, Tra i ricchi e tra i poveri, cieco è colui che non sa che il furto è peccato che non si perdona senza restituzione. Oh, se qualcuno comprende d’aver gli occhi dell’anima malati o spenti, oggi imiti l’esempio di Bartimeo. Deponga il mantello cencioso delle vecchie abitudini e d’un balzo corra a Gesù che passa e dica: « Ut videam! ». Che io veda la vanità di tutte le cose mondane; che io veda la bruttezza del peccato, il quale mi si presenta con iridescenti colori; veda i pericoli dell’anima immortale; ch’io veda la bellezza della vita eterna. All’ombra di una vecchia e scrostata muraglia era là buttato un povero cieco che ad ogni rumor di passi levava un rantolo e chiedeva almeno un quattrino. Un gruppetto di monelli lo volle burlare: ad uno ad uno passandogli davanti gli mettevano in mano una moneta falsa: e di quelle si rallegrava l’infelice, come di un grande guadagno. Ma venuta la sera, quando il cieco tentò di comprarsi un po’ di cibo per la sua molta fame, gli gettarono indietro le sue false monete, rimbrottandolo: « Cosa credete? Che siamo ciechi anche noi? Via di qua! ». – Quanti Cristiani ciechi nell’anima si lasciano ingannare dalle false monete del mondo, del demonio e delle passioni mondane: gli onori mondani, un contratto lucroso, un abito elegante, i trilli e le capriole d’una ballerina, una morbosa corrispondenza. Venuta la sera della vita, compariranno alle porte dell’eternità con in mano le loro opere. Ma gli Angeli della giustizia di Dio li condanneranno: « Monete false sono le vostre. Foste ciechi. Via di qua ».

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui.

[Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo.

[Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem …

[Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.