LE VIRTÙ CRISTIANE (11)

LE VIRTÙ CRISTIANE (11)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO, Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIa

LE VIRTÙ CARDINALI

CAPO V.

LA VIRTÙ  DELLA GIUSTIZIA

Il nome di giustizia, che è uno dei più cari nomi della fede e della scienza cattolica, ha nel linguaggio cristiano due significati principali. A volte giustizia vale bontà soprannaturale o anche santità; e allora uomo giusto è colui che, avendo in sé il tesoro della grazia e della carità divina, vive secondo virtù. Così è detto nella Bibbia che giusti sono quelli, i quali camminano nelle vie del Signore; che il giusto vive di fede; e che Giuseppe sposo della Vergine Maria di Nazaret, era uomo giusto, o, che è il medesimo, uomo santo. I giusti in questo senso sono veri figliuoli di Dio, ai quali la Scrittura fa questa nobile e poetica esortazione : “Germogliate, o giusti, come un rosajo, piantato lungo la corrente dell’acqua; spandete soave odore, come l’albero dell’incenso; buttate fiori simili al giglio; spirate odori; gittate amene frondi: date cantici di laude, e benedite il Signore nelle opere sue.” (Eccli. XXXIX, 19)- Altre volte poi la parola giustizia esprime una particolare virtù dell’animo, e anzi una virtù cardinale, che, come mi accadde di dire, non fu ignota alla paganità, ma che i Cristiani elevarono a una nuova altezza, e perfezione, facendola derivare da Dio, ed esercitare per amore di Dio. Or di questa virtù particolare sarà il discorso che segue, il quale ha da servire a mostrarcene la bellezza; e a farcela bene intendere, e molto amare. – La virtù della giustizia governa tutte le nostre relazioni col prossimo, e da ciò trae la sua capitale importanza. Se non che, dopo ciò, che già fu da me detto intorno alla carità del prossimo, potrebbe quasi parere, a chi usa di vedere le cose superficialmente, che la giustizia fosse virtù superflua. Forse taluno dirà a sé medesimo: la carità, dataci da Gesù Cristo come comandamento suo particolare e vessillo della nostra Religione, perché mai non dovrebbe bastare essa sola a governare le nostre relazioni con i proprj fratelli? E non è la carità più ampia, più nobile e più calorosa della stessa giustizia? O la carità e la giustizia sarebbero mai due nomi, che, con diverso suono, esprimono quasi il medesimo? Chi esamini attentamente la cosa ha da dire che assolutamente altra è la carità, altra è la giustizia; che al Cristiano sono necessarie entrambe; e che le due virtù sono quasi due raggi ben distinti del medesimo sole, che è Iddio, eterno Amore ed eterna Giustizia. Però ciascuna delle due virtù amiche ha le sue qualità proprie, e si distingue dall’altra. Invero è certo che ciascun uomo avendo la sua personalità peculiare, ed essendo distinto da ogni altro uomo, ha una dignità e indipendenza propria, della quale s’ha da servire per raggiungere l’ultimo suo fine. Parimenti è altresì certo che i diversi uomini, per somiglianza di natura, per scambievole attraimento d’amore, per il bisogno che l’uno ha dell’altro, per la medesimezza dell’ultimo loro fine, e anche per benigno ordinamento di Provvidenza, debbono consociarsi e vivere tra loro congiuntamente. Ora dalla distinzione e indipendenza personale di ciascun Uomo da ogni altro, deriva il principio della giustizia: dalla debita unione tra le diverse persone procede il principio della carità. Per negare l’una delle due virtù, bisognerebbe o negare che gli uomini abbiano ciascuno una personalità distinta e indipendente, o affermare che tutti gli uomini non si sentano per innumerevoli legami congiunti in quell’unità di famiglia, onde il genere umano risulta uno. Da ciò si deduce anche che ogni cosa che separi troppo l’uomo dall’uomo, è contro la carità; e per lo contrario ogni cosa che diminuisca indebitamente la personalità di ciascuno è contro la giustizia. – Fermiamo dunque alquanto il pensiero nella virtù cardinale e cristiana della giustizia, che, insieme con le altre virtù della prudenza, della fortezza e della temperanza, costituisce uno dei cardini di quell’edifizio di virtù cristiane, che si eleva in alto verso il Cielo. I maestri in divinità definiscono la giustizia una virtù, la quale inchina l’animo a serbare illeso il dritto stretto di ciascuno. In questa definizione ci ha una parola assai significativa, diritto. Il quale dritto, mentre richiede di essere dichiarato e spiegato, ha una grandissima ampiezza; onde fu ed è tuttora cagione di dispute senza fine. Ma il diritto, guardato nella sua sustanza, è nel Cristianesimo ben determinato, e splende come luce e guida soprattutto di qualsiasi umano consorzio, ad incominciare dal consorzio maritale, sino a quello della società civile, e della Chiesa. – Il dritto, a ben considerarlo, sorge nell’umana famiglia da che Iddio fece tali le creature ragionevoli, che in esse vi ha il mio e il tuo. Da che io ho alcune cose, che sono indubbiamente e propriamente mie, come per esempio, la persona, lo spirito, la mano, l’occhio, il piede, e ciò sento intimamente, segue che io abbia il dritto di riferire a me queste cose, e di tenerle siffattamente unite a me stesso, che nell’uso di esse io debba preferire una cosa mia a ciascun’altra. Ne segue pure evidentemente, che nessuno, senza mio volere, possa invadere e far proprio ciò che è mio. Il riconoscimento adunque di ciò, che è proprio, e la naturale facoltà morale di respingere coloro, che intendono di violare questo proprio di ciascuno, esso è il dritto. La giustizia poi, intimissimamente legata col dritto, è posta in ciò, che l’uomo il quale sostiene e difende con ragione il dritto proprio, riconosca e riverisca il dritto altrui, e a ciascuno attribuisca quello che strettamente gli è dovuto. – Da questi primi chiarimenti intorno al dritto e alla giustizia, torna agevole il comprendere che la giustizia, fondandosi tutta nella indipendenza di ciascun uomo dall’altro, e nell’eguaglianza sustanziale di tutti gli uomini tra loro, non deve avere alcun riguardo alle diverse condizioni loro. Una e medesima è la giustizia, sia che si tratti del ricco o del povero, del nobile o dell’ignobile, del buono o del malvagio, del Cristiano o del miscredente. E però chi nell’idea di giustizia facesse entrare riguardi a qualità di persone o distinzioni di ordini civili, nobiliari, ecclesiastici, per ciò stesso adultererebbe bruttamente la giustizia medesima. Le qualità personali, con tutte le loro prerogative particolari e con tutti loro difetti, s’involano, e spariscono affatto, quando trattisi di giustizia. Restano invece il mio e il tuo, che costituiscono la natura individuale, la personalità, e l’indipendenza di ciascun uomo; doti, che furono indelebilmente impresse nel genere umano dal divino suo Creatore. Dunque quel freddo mio e tuo, che, disordinato dal peccato e dalla corruttela umana, genera l’egoismo con tutta la peste dei mali che ne derivano; questo stesso mio e tuo, rettamente inteso e adoperato, è il fondamento del dritto e della giustizia. Non è il mio e il tuo che siano cosa mala, ma la smodata corruzione di questo naturale fondamento che Dio e la natura han posto: Il male, (è utile qui ricordarlo) non è sustanza, come insegna sant’Agostino, ma è soltanto deviamento e corruzione di un bene particolare; perciocché dove non è bene alcuno, che cosa v’ha mai che possa corrompersi? (Confes., L. VII, c. 12). Poiché dunque questa virtù cardinale della giustizia si fonda tutta sul principio, che ciascun uomo ha molte cose sue proprie, è bene considerare che il proprio dell’uomo può essere di diverso genere. Certo, è proprio di ciascun uomo, oltre il corpo e la persona, l’intelletto, la volontà, la memoria; ma di tutte queste cose l’uomo ha proprietà e non dominio intero; perciocché il dominio è delle cose inferiori. Molto meno poi si può avere dominio pieno di quelle cose, che costituiscono esse stesse la essenza del proprietario. È dunque forse più esatto il dire che; di tutt’i nostri beni intimi, e che costituiscono la natura dell’uomo, noi abbiamo una proprietà; la quale, escludendo il dominio, si riduce all’uso che dobbiamo farne svolgendole ai loro fini particolari, e molto più all’ultimo fine, a cui Iddio ha misericordiosamente indirizzata la nostra vita. Nei beni poi esteriori all’umana natura, che non costituiscono la nostra persona individuale, la proprietà nostra diventa dominio; perché è giusto che noi siamo signori delle cose che ci sottostanno, e che ci diventano proprie, per effetto della nostra individuale attività. Di qui veramente sorge quello che propriamente e comunemente si chiama diritto di proprietà, il quale è uno dei cardini, intorno a cui si aggira assai spesso tutta la macchina dell’umana giustizia. E, benché questo dritto oggidì alcuni con nuova audacia e petulanza si sforzino di negare; pure esso è così inerente alla natura umana, che non può farne senza. In vero se all’uomo appartenesse soltanto l’uso, e non la proprietà delle cose esteriori, a cui ha dritto, ei vivrebbe tra continue ambasce, e lo invaderebbero strazianti timori di perdere tutto ciò che possiede. Ma quel che rileva anche più, è che l’uomo, se non diventasse signore del frutto della propria attività, e nol potesse trasmettere ai figliuoli o ad altri; a lui mancherebbe il maggiore stimolo al lavoro: l’agricoltura, i mestieri, le arti belle, le industrie, i commerci sarebbero poco più che un’ombra. Tolti i maggiori stimoli dell’operare, tutte le umane attività, e facoltà operative rimarrebbero o svigorite o soffocate o spente; intanto che per un altro verso la mancanza della proprietà genererebbe dissidj, risse e guerre interminabili. (Vedi particolarmente la mirabile Enciclica De Condizione Opificum, 15 maggio 1891.) –  Del rimanente questa questione della proprietà l’ha già da gran tempo risoluta un fatto di per sé chiaro ed evidente, che si presenta agevolmente sotto gli occhi di tutti. Tra i barbari ci ha poco lavoro, o lavoro soltanto di schiavi; pochissimi sono proprietarj. Intanto tra essi dominano le forze brutali; vivono peggio che in una selva oscura e selvaggia, per molti rispetti somiglianti alle bestie. Nelle nazioni civili per lo contrario molto lavoro, molte proprietà: e tutto ciò lo vediamo congiunto col benefizio inestimabile della civiltà, e con tutte le sue dolcezze. Né  vale l’opporre che, tra le genti civili, abbondino i poveri, sia perché ciò deriva in gran parte dalle umane corruttele, sia infine perché anche i nostri poveri sono in condizioni assai migliori di quelle dei barbari. Neppure da queste cose s’ha da conchiudere che la barbarie derivi unicamente da che il principio di proprietà tra i barbari sia assai meno conosciuto che nelle nazioni civili. Noi affermiamo sempre, e con ottime ragioni che il principale fonte della civiltà nostra sia il Cristianesimo. Il quale però (è bene notarlo) ha sempre virilmente ed efficacemente difeso il principio di proprietà, non lasciandolo in balìa del capriccio di ciascuno, come tentano di fare oggidì i miscredenti, ricchi di danaro, e spesso poveri di cuore e d’intelletto: ma corredandolo di quel presidio fermo e irremovibile della giustizia, onde si nobilita la proprietà e si rende feconda d’innumerevoli beni. – La giustizia, come nota san Tommaso, va distinta principalmente in giustizia commutativa, e in giustizia distributiva. La prima si riferisce all’ordine tra una persona e un’altra; la seconda guarda all’ordine della comunità verso ciascun suo membro: quella, nel retribuire, mira all’eguaglianza tra ciò che si dà e ciò che si riceve: questa guarda alla proporzione dei meriti, al premio e alla pena. La giustizia commutativa è ben significata dalla bilancia che, avendo due coppe, misura esattamente ciò che si dà e ciò che si riceve. Se l’una delle coppe trabocca, la giustizia vien meno; onde l’uomo che vuol essere giustissimo si può dire che ei debba misurare tutte le cose, per quanto può, con la bilancia esattissima dell’orafo. Quanto poi alla giustizia distributiva, che è forse la più difficile e nondimeno la più necessaria, s’ha da por mente, che essa ha luogo in qualsiasi forma di comunità: di che non se ne può far di meno in una famiglia ben governata, o in una Comunità religiosa, o in una qualsivoglia associazione civile o commerciale. Richiede poi sempre rettitudine di giudizj, serenità di animo sgombro da passione, occhio perspicace nel giudicare gli uomini, e prudenza. Principalmente però la giustizia distributiva è il fondamento, sopra di cui si elevano gli Stati civili, i quali prosperano con essa, e decadono senza di essa, secondo l’insegnamento della Bibbia, ahi! purtroppo disgraziatamente dimenticato: “La giustizia fa grandi le nazioni, intanto che il peccato le ammiserisce” (Proverb. XIV, 34.). – In vero la giustizia è la vita di ogni Stato bene ordinato; e così lo intesero anche i migliori tra i filosofi pagani, tra i quali Cicerone, filosofo e oratore celebratissimo, lo affermò forse meglio d’ogni altro. La giustizia negli Stati informa le leggi, ispira e guida i magistrati00 nei giudizj, regola la distribuzione degli ufficj, i premj e le pene, entra e prende parte in qualsiasi appartenenza della vita civile. Certo, a governare bene e rettamente, si richiedono anche concetti veri e chiari di molte altre cose, e particolarmente dell’autorità, della libertà e dell’armonia, onde l’una deve essere unita all’altra. Ma né l’autorità né la libertà umana vivono di vita vera e prosperano, e fruttificano senza la giustizia. Che è mai l’autorità negli Stati, senza la giustizia? È tirannide. E che è mai negli Stati la libertà, senza giustizia? È licenza. I due concetti dell’autorità e della libertà, quando sieno scompagnate dalla giustizia, non che giovino a uno Stato bene ordinato, ne apparecchiano il dissolvimento, e sono cagione perenne d’irreparabili rovine. Or in proposito di cosiffatta verità, mi occorre alla memoria un breve Capitolo della Città di Dio di sant’Agostino; il quale mi s’impresse talmente nell’animo, quando lo lessi, che poi non l’ho più dimenticato. Esso è di questo tenore: “Che son mai gl’imperi, senza giustizia, se non una grande radunata di masnadieri? E d’altra parte: che è mai una radunata di masnadieri, se non un piccolo impero? Essi invero formano una cotale società, governata da un capo, legata da un contratto; nella quale la divisione delle prede di guerra si fa secondo alcune leggi convenute. Ponete il caso che questa società malvagia s’accresca di numero, raccogliendo altra gente perduta; che s’impadronisca di castelli e di città; che soggioghi questo o quel paese: ed ecco che prende il nome di regno, non perché abbia smesso la propria rea cupidità, ma perché ha saputo acquistare la propria impunità. Un pirata, venuto tra le mani di Alessandro il grande, affermò con gran verità e coraggio questo medesimo che io or dico. Avendogli chiesto il grande Imperatore, perché  mai turbava il mare con le sue rapine; il pirata rispose: per la medesima ragione, onde tu turbi la terra. Ma poiché io non ho che una piccola nave, mi chiamano pirata; e, poiché tu per lo contrario hai gran numero di navi e di soldati, tu prendi il nome di Conquistatore.’” (De Civit. Dei, L. IV. Cap. 4.). – Ed ora che spero di avere alquanto chiarita l’idea di giustizia, sarà bene di accostarla di nuovo, come fu fatto avanti, all’idea di carità, per vedere quanto l’una sia distinta dall’altra, e nondimeno quanto nobile e profonda armonia sia tra esse; un’armonia anzi, per la quale il suono dell’una senza dell’altra non è sempre gradevole a noi Cristiani, né basta a contentarci. Tutte due unite insieme ci dànno concenti bellissimi e veramente celestiali. – Chi ben consideri gli uomini con intelletto riflessivo; ed ei s’avvede di leggieri che il Signore gli uomini li fece in pari tempo uguali e disuguali fra loro: eguali nelle doti sostanziali e costitutive dell’uomo, disuguali, nelle accidentali, che non tolgono a ciascun uomo la sustanza dell’esser suo, ma rendono ciascun individuo differente dall’altro. Chi non vede che gli uomini sono eguali sustanzialmente, perché hanno tutti un’eguale personalità, tutti un intelletto illuminato e illuminante, tutti una volontà libera, tutti, i medesimi membri costitutivi del corpo umano, tutti la medesima tendenza al bene, la quale è amore? Questa verità è nota a ciascuno anche per solo lume di ragione, e per riflessioni intellettive. Che se ci volgiamo agli insegnamenti cristiani è certo che tutti gli uomini furono da Dio creati a sua immagine, e indirizzati a un medesimo fine altissimo; tutti altresì redenti da Cristo, e fatti capaci dei celesti tesori della vita soprannaturale. Intanto questi medesimi uomini sustanzialmente eguali, Iddio li fece altresì disuguali, e disuguali accidentalmente in quei medesimi doni, che sustanzialmente costituiscono la eguaglianza umana. Già questa legge dell’eguaglianza e della disuguaglianza nelle creature, anche d’un medesimo genere, è comune a tutto il creato, e si manifesta meno o più, secondo la minore o maggior perfezione delle creature stesse. Volgiamo, per esempio, lo sguardo ad un roseto. Tutte le piante sono di rose, e tutti i fiori son rose; ma quante varietà tra rosa e rosa. Alcune odorose, altre no; alcune negli steli con i pungiglioni disuguali e ricurvi, altre con i pungiglioni lisci; tutte varie nel colore o rosso incarnato o vermiglio o rosso pallido, o rosso acceso o di color bianco o giallo: quelle che hanno molte spine attorno, e queste poche; talune sboccianti e vigorose, tali altre flosce e appassite. – Molto più ciò avviene tra gli uomini. Tutti gli uomini invero siamo eguali per quel che riguarda la sustanza della personalità umana; ma quante disuguaglianze di ogni sorta tra persona e personal Tutti siamo eguali, perché dotati d’un intelletto illuminato e illuminante; ma quanti gradini in questa scala dell’umana intelligenza, che tiene alla base moltissimi intelletti tardi e pigri, cresce di grado in grado, e poi giunge ad avere alla cima degl’intelletti, come quelli di Platone, di sant’Agostino, di san Tommaso, di Dante e di Vico? Quanta disuguaglianza nelle volontà forti o fiacche, nobili o volgari! E poi chi vale a noverar le disuguaglianze delle fantasie, delle memorie, degli inchinamenti particolari di ciascuno, e altresì dei vari temperamenti, dei corpi sani o malati, forti o deboli, belli o brutti? Queste disuguaglianze poi s’accrescono a mille tanti nell’uomo estrinsecamente operante. Poiché l’operare umano è il frutto di molte forze disuguali, che s’intrecciano tra loro, or combattendo l’una con l’altra, ora intoppando l’una nell’altra, e spesso pure armonizzandosi tra loro: poiché ancora questo operare umano è governato dal libero arbitrio, che di ciascuna dote personale si può servire in mille modi; ne segue che le disuguaglianze interiori degli uomini si trasfondano nella vita esteriore di ciascuno, e accrescano le umane disuguaglianze. – Ora il Cristianesimo, con nobile e alta filosofia, ci dà due possenti virtù. Una procede dall’uguaglianza della natura e dei diritti, la tien salda e la rafferma: essa è la giustizia. L’altra corrisponde alle disuguaglianze, e mira a temperarle, ad attenuarle e ravvicinarle con l’affetto, a renderle meritorie e fruttuose di vita eterna : e questa è la carità. L’una e l’altra virtù sono necessarissime al Cristiano, ed è pure necessarissimo che sieno ben distinte tra loro; perciocché chi voglia confonderle, a volta le turba malamente, a volta le distrugge. La giustizia, confondendosi con la carità, perde, insieme con le sue proprie e severe sembianze, il suo vigore, la sua precisione, la sua immutabilità. ,La carità, confondendosi con la giustizia, perde invece le sue ineffabili dolcezze, la sua poesia, le sue grazie. La Chiesa ha ben determinati i confini tra la giustizia e la carità, i quali sorgono dalla diversa natura delle due virtù. La giustizia si deve a tutti egualmente e sempre; e però crea un dritto particolare e costante in ciascuno. La carità è un dovere imposto a tutti; ma che non crea dritto in alcun uomo in particolare. E da questo stesso, che a prima giunta può parere uno svantaggio della carità, scaturisce nell’anima del beneficante e del beneficato un tesoro di dolcezza, di nobiltà e di virtù. La carità, non importando dritto particolare in chi riceve, genera la gratitudine e l’affetto, onde si stringono dolcemente il beneficante e il beneficato. Se si trasformasse la carità in giustizia, come taluni vorrebbero fare ai nostri giorni, perciò stesso si spezzerebbe uno dei più nobili vincoli d’affetto e di merito, che si trovano tra gli uomini. Se il povero particolare da me beneficato ha dritto a quel benefizio; perché mai egli mi dovrebbe esser grato? Perché mai io dovrei accendere in me la fiamma del santo amore verso il beneficato? Oltre a ciò, quel non so che di aritmetico e di geometrico che, come insegna san Tommaso, va sempre congiunto con la giustizia, manca affatto alla carità. La quale appunto per una sua certa indeterminatezza nella quantità e anche nelle persone da beneficare, ha bisogno in chi benefica, del cuore largo, del profondo sentimento della compassione, e dell’amore del sacrifizio; tre leve possenti a fare il bene, e tre abbondanti fontane di virtù e di meriti alle anime cristiane. Oh, se queste cose le comprendessimo meglio tutti quanti siamo stati rallegrati dalla grazia del Battesimo, oh quanti mali di meno rattristerebbero la nostra vita! oh quanti timori si dileguerebbero nella società civile!