IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (5)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (5)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G. NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO QUINTO

ARGOMENTO

Lo spettacolo della natura soggiogó il Paganesimo, invece di rivelargliene l’Autore. Culto tribuito dal Paganesimo alle forze della natura; abbiettezza ridevole di quello. Cristo riordinò l’uomo verso la natura sensibile. Amore ed anche culto del Cristiano per questa. Esso ne domina le lusinghe, ne accetta i dolori, perché gl’intende, e vince la morte.

I. La singolare spensieratezza, onde noi mortali ci aggiriamo continuo in mezzo ad un mondo ricco di tante forze ed adorno di tante bellezze, senza talora degnarle, non che d’un’ammirazione, neppure d’uno sguardo, quella spensieratezza, io dico, non può ad altro attribuirsi, che alla lunga abitudine, la quale toglie alle cose eziandio più meravigliose la meraviglia. Ma io vado pensando tra me, che se un uomo sano ed adulto, col vigoroso esercizio di tutte le sue facoltà, sorgesse, come per incantesimo, di sotterra o piovesse dal cielo, tutt’un tratto, ed abbracciasse la prima volta d’un’occhiata il mondo; oh! questi davvero, al subito spettacolo di tanti portenti d’ordine, di vigore e di bellezza, sarebbe trasportato quasi fuori di sé in un’estasi di stupore. Vedere questa terra vestita di biade, adorna di fruttifere piante ed ammantata di fiori, sustentar tante vite, provvedere a tanti bisogni, fornirci tanti diletti e tante ricchezze, chiudersi in grembo di vaghissime pietre, di preziosi metalli e di gemme pellegrine. Osservare questa sterminata e svariatissima famiglia di bruti animali, e quali vigorosi e pazienti alla fatica per nostro servigio, quali sustanziosi e dilicati al gusto per nostro sustentamento, ed altri vaghissimi in vista e nel gorgheggiare canori, per nostro diletto. Mirare queste acque, dove raccolte in immensi fortunosi Oceani, non preterire i confini loro segnati dal dito di Dio; dove ristrette in maestosi fiumi favorire i commerzi di nazioni tra loro lontane; dove in limpidi ruscelli, dechinando da freschi e verdi poggi, fecondare innaffiando le sottostanti pianure: e queste acque medesime, assottigliate in vapori e librate nel liquido aere, ora condensarsi in piogge, ora indurarsi in grandine, ora spiumacciarsi in candidissime nevi. Ammirare questo cielo, che quasi padiglione maestoso ci si stende sul capo: bello quando versa a torrenti la vita, il calore e la luce nella chiarezza del giorno; ma più bello forse quando, nei sereni silenzii di tranquilla notte, muovono in loro danza i folgoranti astri, mentre veleggia solinga in quel suo mare d’azzurro l’argentea luna, e perle ruggiadose piovono dal manto stellato dell’antica notte. – Ora chi crederebbe che in mezzo di una natura così inestimabilmente splendida e feconda, l’uomo, creato ad esserne il re, abbandonato a sé stesso, lungi dal farsene conoscitore ed ammiratore intelligente, ne fu anzi stupido spettatore, timido schiavo e cultore superstizioso ed abbietto? E pure proprio questa fu la condizione lamentevole dell’uomo pagano, nelle sue attenenze coll’universo sensibile. Esso, separatosi da Dio e se stesso ignorando, non volle conoscere la sensata natura, la quale era stata appunto costituita, per essere come scala, o via mediana tra l’uomo e Dio: due termini a lui ugualmente oscuri ed ignoti. Pertanto la universalità delle cose esteriori, restando pel Paganesimo un libro chiuso, esso non vi lesse nulla di quello che il Creatore vi avea scritto; e sentendo la natura seducente, se ne lasciò sedurre; scorgendola inesplicabile, la disse fatale; sperimentandola prepotente, si abbassò ad adorarla, struggendo incensi ed offerendo sacrifizii a quegli obbietti ed a quelle forze naturali, da cui avrebbe dovuto essere servito come re e signore. Della quale mostruosa perversione credo io, che le medesime insensate creature vergognassero e gemessero e fremessero a loro modo; e così forse può intendersi quella profonda parola di Paolo ai Romani, laddove disse di sapere, che la creatura, fino ai tempi di Cristo, gemebonda dolorava, per partorire una volta quella cognizione del Creatore, alla quale produrre era stata ordinata. Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc (Rom. VIII, 22). E questo appunto ho divisato móstrarvi nell’odierno discorso: come cioè il Paganesimo si rendesse mancipio della natura; come Cristo ce ne restituisse in certa guisa il dominio, abilitandoci colla sua grazia a superarne le seduzioni, a portarne con rassegnata tranquillità le molestie, ed a trionfare perfino la stessa morte. Incomincio.

II. Il dominare la natura sensibile o corporea non importa già, come alcuni maleavvisati potrebbero credere, il valersene ai proprii usi, alimentandoci del regno vegetale e dell’animale, respirando l’aria, rinfrescandoci dell’acqua, riscaldandoci col fuoco. A questa maniera se ne valgono eziandio i bruti animali, e non per questo si dice che essi dominano la natura corporea. Che se noi ne caviamo servigi ed emolumenti assai maggiori, che non fanno i bruti, perché nel valercene ci aiutiamo dell’intelletto; ciò significa che noi per natura siamo da più delle cose irragionevoli ed insensate, ma non ci conferisce alcuna perfezione morale o preminenza sopra di esse. Il trovarci dunque in questa natura sensata colla dignità propria dell’uomo e colla indipendenza da cose tanto minori di noi, suppone primamente l’intenderle per quello che sono; val quanto dire conoscerle come procedenti dall’Autore supremo dell’universo. Suppone secondamente il sapere perché sono, cioè a qual fine prossimo ed immediato furono ordinate, ed il saperlo non già di questa o quella cosa particolare, a che giunge spesso la scienza dei naturali; ma conoscerlo di tutto il complesso di questa gran macchina dell’universo. Il quale doppio conoscimento del che è, e del perché è, appartiene così propriamente alla nostra natura razionale ed intellettiva, che forse è il primo desiderio che si schiude nelle anime giovinette coi primi albori della ragione. E voi, o genitori, che assistete, senza avvedervene, a quel successivo svolgersi della ragione, che va a mano a mano aggiornando nelle care animucce dei vostri figliuoletti, voi avete potuto osservarlo le cento volte in quel richiedervi che essi vi fanno appunto di questo; ed in ogni tempo, in ogni luogo, qualunque cosa nuova si offra al loro occhio o qualunque nuova voce giunga loro all’orecchio, ed essi, afferrandovi pel braccio o tirandovi pel gherone, vi richieggono con molta istanza: babbo, mamma, che è egli codesto? e perché è codest’altro. Anzi se vi ponete mente, vi accorgerete che la domanda: perché è? viene alquanto più tardi dell’altra: che è? in quanto il concetto di causa, inchiuso nella prima, è posteriore al concetto dell’essere espresso nella seconda. Saputo poi che sono e perché sono le cose, cioè saputo che le sono creature di Dio, e sono state fatte ed ordinate da Lui a solo nostro servigio, noi acquistiamo tosto coscienza della nostra dignità, acquistiamo sentimento della nostra stragrande preminenza sopra tutta la natura corporea, della quale sentiamo di essere il fine immediato e lo scopo. O non sapete voi, più degno essere l’oggetto, per cui si fa alcuna cosa, che non la cosa che si fa? come più degno è il vostro figliuolo, che non la vesticciuola od il ninnolo, che gli comperaste in questi giorni per la Befana. Anzi le creature medesime irragionevoli ed insensate starei per dire, che sono, alla loro maniera, liete e gloriose di essere conosciute a questo modo; ché incapaci esse di conoscere Dio, in questo pongono ogni loro vanto, come acutamente osservò Agostino, nel rivelarlo a noi colle loro bellezze è nel farlo conoscere ed amare da noi: Cum noscere non possint, quasi innotescere velle videntur (August. Conf. XI). In questa economia poi tutte le forze della natura, non essendo che ministre di Dio, qualunque benefizio da esse ci venga, e dico ancora qualunque incomodo o danno, si guarda come venuto da Dio medesimo. Dirò più innanzi quanta dignità, quanta pace, quanta contentezza viene al Cristiano dal conoscere ed intendere la natura a questa maniera. Per ora mi è uopo venire all’antico Paganesimo, il quale dal non conoscere le creature a quel modo, trasse appunto gli effetti contrarii a quelli, che ne traggono i Cristiani. – In quel tempo di universale cecità l’uomo, considerandosi come balestrato guaggiù a caso, senza sapere da cui e perché, si vedea abbandonato alla balia della pazza fortuna o del cieco fato, che è tutto lo stesso. L’universale sensibile natura era per lui affatto mutola e diserta; le cose esteriori gli facéano solamente sentire il bisogno che esso ne avea, la dipendenza assoluta da loro, nella quale esso versava; e non trovando schermo che bastasse contro le prepotenti forze di quelle, se ne vedeva spesso vittima e zimbello, senza aver modo, non che di attenuarne gli effetti, neppure d’intenderne il perché. Noi nati alla Fede, noi allevati e cresciuti nel Cristianesimo non possiamo mai interamente svestire i concetti bevuti col latte; e però mal ci potremmo formare un’idea di quello, che dovea essere un uomo ed una società aggirantesi tra quelle tenebre. Generazioni incalzate da tanti dolori privati e pubblici, oppresse da tante sventure naturali ed artificiale, con innanzi agli occhi una morte indeclinabile, di cui s’ignorava al tutto che fosse o a che menasse; e frattanto senza un lenimento al mondo, senza una consolazione, senza una speranza, senza neppure una spiegazione che valesse, proprio come quelli, qui spem non habent (1 Thessal. IV, 12). Quando io vi penso, mi sento compreso e vinto da tanta pietà, che non so quale sia maggiore la mia, o la compassione per tanti milioni di creature umane passate per la vita cosi sconsolate ed afflitte, o la riconoscenza a Cristo Redentore che, per sola sua grazia, a quella misera e svilente condizione ci ha tolti. Ed aggiunsi a vero studio alla qualificazione di misera quella altresì di svilente. Perciocchè qual cosa più vergognosa per un essere intelligente, che il divenire giuoco e ludibrio di creature vilissime, di forze cieche, di un inesorabile fato? Il quale sembra per dileggio detto fato, dall’antico for faris, parlare o dire, perché addirittura il fato non parlava mai e non diceva mai nulla. Ma l’avvilimento del genere umano toccò il suo colmo, quando esso, abusando l’idea di Divinità, che pure ritenea confusamente, l’attribuì, per somma empietà, a quelle creature medesime, che erano state ordinate a servirlo, e se ne fece altrettanti dei, atterrandosi innanzi ad esse con maggiore riverenza , che molti Cristiani non farebbero al presente innanzi alla Croce, od alla medesima santissima Eucaristia. E pure questa fu la più compatibile delle idolatrie, la quale dichiarava dio tutto ciò di cui avesse bisogno o paura, come disse Minucio Felice: Sacra facta sunt, quae fuerant assumpta solatia (OCTAVIUS, cap. XX). E così in Apollo si adorò il Sole, perché fonte di luce e di calore; in Cerere si venerarono le biade, in Vulcano il fuoco, in Eolo il vento, in Bacco avea culto il vino, e così di altri innumerevoli. Anzi non pure le forze cieche della natura e gli oggetti necessarii o minacciosi alla vita erano, senza più, dichiarati divinità ed aveano templi, are e sacrifizii; ma erano divinizzate le azioni .più volgari della vita, da farsene una falange di numi, che si contavano a migliaia, con una stranezza e bizzarria di nomenclature, da imbrogliarvisi dentro i più consummati antiquarii. Certo da Varrone, che ne sapea a menadito, ricorda Arnobio, che una lupa, immemore dei proprii nati, diè nome a Luperca ed ai Lupercali; quod, abiectis infantibus, pepercit Lupa non mitis, Luperca est auctore appellata Varrone; e poscia ricorda di Præstana da præstare, di Pandica o Panda da pandere, di Pellona da pellere; e fino vi avea il genio o dio Lateranus, che presiedeva al focolare, perché questo era costrutto di mattoni, latinamente lateres. Che dirò poi della pavida e ridevole superstizione, onde dipendeano così ciecamente dagli augurii e dagli aruspici, dei quali riderebbero i nostri putti tant’alti, e che erano nondimeno la quintessenza della sapienza sacra di quei grandi uomini dell’antichità pagana. Signori si! io non conto favole! I Fabii ed i Camilli, i Cincinnati e gli Scipioni, anzi i Duci, i Consoli, il Senato, l’esercito ed il popolo allibivano dalla paura e soprassedevano le deliberazioni e le battaglie, se un uccello fosse volato di sbieco, se un maiale avesse grugnito in mal punto, se nelle interiora di un pollo si fosse scoperta una benché lieve magagna, la quale non impedirebbe il vostro cuoco dall’apprestarvene un intingolo alla mensa. Tant’è! la cosa è qui! a tale codarda abbiettezza, a tale vergognosa sommissione alla natura insensata era dechinato il Paganesimo, che un suo sapiente avrebbe temuto più la dea Tosse o la deessa Febbre di quello, che i più vili mancipii non temano la verga del loro padrone.

III . Come Cristo Redentore, colla pietosissima sua venuta e colla celeste sua dottrina, cangiasse in tutt’altra questa scena obbrobriosa e lagrimevole, sottraendo il genere umano alla servitù professata per gli elementi del mondo, e ricollocandolo sopra di quelli, voi potreste intenderlo con niente altro, che col volgere lo sguardo alla società cristiana; anzi con solo consultare i vostri pensieri ed i vostri affetti. Ma badate! io dissi la società cristiana, quale la fece la Chiesa, non quale la vorrebbero rifatta i nostri ammodernatori umanitari, ed in gran parte vi sono riusciti: io intendo i vostri pensieri ed i vostri affetti, quali ve li formò una madre pietosa, e ve li educò un pio maestro od una famiglia cristiana, non quali avete potuto voi storpiarlivi con conversazioni da scredenti o con letture mezzo atee. Se dunque voi in quella società cristiana guardate ed in voi medesimi, vedrete immensa distanza, smisurata differenza che dispaia l’uomo gentile dal Cristiano, nelle sue relazioni colle forze cieche della natura sensata e corporea. Questa pel Cristiano è una vasta orma della Bontà divina; è un raggio quasi sfolgorato fuori da quell’Oceano lucidissimo della ineffabile sua bellezza; e le forze e le operazioni della natura non gli appariscono altrimenti, che come altrettanti benefizii venutigli da un Padre affettuoso, che lo ama e lo provvede non pure del necessario e dell’utile, ma eziandio del dilettevole. Così la rivelazione, nel domma della creazione, non solamente ci ha svelata la verità fondamentale, che chiarisce, purifica, feconda e coordina in una immensa sintesi tutto il caos delle umane conoscenze; ma essa ci ha dischiusa nella medesima natura corporea una sorgente inesauribile di bellezze e di letizie, le quali, nel mondo del tirocinio, sono il saggio e l’apparecchio delle letizie e delle bellezze celestiali della patria. – Sapete pertanto perché noi Cristiani, e noi solamente intendiamo bene la creatura? Perché noi crediamo nel Creatore; e la inestimabile svariatezza degli oggetti che ne circondano, sotto quella luce riflessa della Fede, si abbellano, s’ingemmano, si avvivano in certa guisa e ci parlano in loro favella le glorie del loro Fattore. E i pesci che guizzano silenziosi nelle limpide onde, e i cari augelletti che dei loro canti rallegrano le foreste, e i fiori variopinti, e le erbe odorate, e le placide marine vestite di azzurro espresso dal cielo, e l’aurora inghirlandata di rose, e i dorati zaffiri di un sereno tramonto, e le tremolanti stelle mattutine, e l’iride che coi sette suoi colori s’accorda sì bene coi sette toni della musica; tutto in somma che è venusto, che è bello in questo mondo, lungi dallo sviarci da Dio e farcene dimenticare le ineffabili bellezze, ce ne è anzi testimonio eloquente, e ci conduce soavemente ad ammirarle, a sapergliene grado: dall’ammirazione poi e dalla riconoscenza è piccolo il varco all’amore. Che più? fino questo vuoto aere che ne circonda per tutto e che respiriamo, al nostro occhio cristiano si avviva quasi, si anima, si popola d’intelligenze separate o di spiriti angelici, che vogliamo dirli, mandati da Dio a nostro servigio ed a nostra custodia: concetto sì caro alle moltitudini credenti, che l’arte cristiana non seppe quasi mai istoriare un quadro, senza camparvi per aria alquanti angeletti, od anche solo delle testine alate, simbolo espressivo di esseri, tutta la cui vita è l’intendere, e che vincono di celerità gli stessi venti. Di qui voi vedete che pel Cristiano l’amore, e se volete, ditelo pure senza sospetto, il culto della natura è amore e culto di Dio; stante che, riguardata la natura come immagine del suo Autore, lo stesso alto, che si porta all’immagine, uopo è che si porti e si termini aļl’immaginato, come notò il Filosofo: eodem actu fertur intellectus in imaginem  el in id cuius est imago (Aristot. Phys. VIII). Appunto come voi   mirando con tanto affetto il ritratto del figlio, della sposa o dell’amico lontano, nel ritratto amate propriamente gli originali. Di questo santo e castissimo amore diligevano la natura un Filippo Neri, un Francesco di Sales, un Ignazio di Loiola, e soprattutto quel Serafino di Francesco d’Assisi, che, in tempi di feroci ire e di fraterne stragi, fu mandato dal cielo per ischiudere al mondo tesori di tenerezza e di amore: tesori che, dopo sei secoli, sono ricchi ancora. Per quell’anima innamorata suo caro fratello era il Sole, suora sua diletta gli era la Luna; e fratelli gli erano i fiori ed i passerini, sorelle le semplicette colombe e le modeste viole. Oh! che? non erano forse tutti figli dello stesso Padre? Ed era una delizia a sentirlo inneggiare a Dio dallo spettacolo della natura! udirlo conversare alla dimestica cogli astri lucenti, colle tranquille rugiade, colle rose vermiglie, coi candidi gelsomini e colle innocenti agnellette! Ti parea di essere trasportato, quasi per miracolo, nel giardino di Eden ad ammirarvi l’uomo, quale lo avea fatto e nobilitato Iddio, non quale esso si era ridotto per propria colpa. E vi è più oltre. L’uomo in questa guisa, rigenerato e rimesso quasi sull’antico suo seggio per la grazia del Salvatore, ci mostra qualche cosa di più stupendo, che non fosse lo stesso Adamo innocente. Perciocchè in Adamo innocente quello stato era in piena armonia colla natura; laddove nell’uomo rigenerato è proprio la natura estenuata e guasta, la quale così, trionfata dalla grazia, trionfa.

IV. Né è ch’io non vegga ciò che voi potreste opporre. Voi potreste dire, che anche i Cristiani dopo il Vangelo sono lusingati dalle bellezze seducenti della natura; si veggono tribolati e spesso ancora stritolati dalle prepotenti sue forze, né più né meno di quel che fossero i Pagani; ed in ogni caso vi è la morte, colla quale il mondo cristiano non ha potuto venire a patti più di quello, che potesse già il gentilesco. Voi dite verissimo, signori miei, ed io non potrei certo recare in forse le vostre asserzioni. È indubitato: un oggetto lascivo, un cumulo d’oro, un rinomo glorioso esercitano, per quello che materialmente è in loro, lo stesso fascino sopra un’anima cristiana, che già facesse sopra una pagana: ed i nostri credenti ed i nostri Santi patiscono fame e sete, caldo e freddo, dolori, agonie e morte proprio come le patirono i ciechi ed empi Gentili: questo è certissimo. Ma che perciò? Pretendo io forse che la Redenzione abbia cangiata la natura? Neppure per ombra! La natura è restata la stessa, e lo stomaco digiuno latra, e le folgori incendiano, e le stagioni si stemperano, e i dolori affliggono, e la morte uccide ora, siccome prima, e forse, da che la medicina ha fatto tanti progressi, più presto di prima. Quello che sostengo io è, che per la Redenzione si sono cangiate le relazioni dell’uomo verso la natura corporea; sicché la dipendenza si è fatta libertà, ed il servaggio si è fatto dominio, e le privazioni violente si sono fatte volenterosa rassegnazione, ed il patimento si è mutato in gaudio, e la morte medesima si è cangiata in ferma speranza di eterna vita. Ora vi pare egli poco tatto cotesto? E che è finalmente la schiavitudine, che è il servaggio, se non il perdere la padronanza di sé medesimo, ed essere la persona da forza estrinseca costretta a fare quello che non vorrebbe, od impedita dal fare quello che vorrebbe? Pertanto se un obbietto sensibile mi lusinga a quello, che il mio intelletto ripudia, che la mia coscienza condanna e che la mia ragionevole volontà non vorrebbe; ed io nondimeno mi ci piego, è manifesto che io non fo quel che voglio, ma fo piuttosto quello che non vorrei, e che sento di non dover volere. È proprio la parola di san Paolo, il quale, in persona dell’uomo debilitato per la colpa, dice appunto: Non quod volo bonum hoc facio, sed quod nolo malum hoc ago (Rom . VII , 15 .). Avete notato? Non fo quello che vorrei; ma fo quello che non vorrei. Ora questo appunto è la schiavitudine: fare ciò che l’uomo non vorrebbe fare: ed è schiavitudine tanto più abbietta, quanto è più abbietta la cosa che così ci domina. Il Paganesimo per questa parte, io già vel mostrai, era un popolo di schiavi, perchè tutti a questa maniera servivano agli oggetti sensibili, e non sospettàvano neppure la possibilità del dominarli. Questo fu dono prezioso di Cristo e dell’Evangelio; in quanto che noi, illuminati dalla Fede e confortati dalla grazia, facciamo propriamente quello che vogliamo colla parte migliore di noi, senza che vi abbia, non che cosa terrena, ma potenza creata, che valga ad imporci quello che non vogliamo od a rivolgerci da quello che vogliamo. Eh! questa sì! che è vera signoria di sè, vera libertà ed indipendenza vera! Ma quando noi dalle prescrizioni di Cristo ci dipartiamo, per attaccarci a qualche oggetto illecito, che ci captiva, allora, in quell’atto almeno, diventiamo dipendenti e schiavi di quell’obbietto stesso.- Ed oh! miei cari! fossero meno frequenti quegli atti! ma troppo spesso veggiamo persone anche gravi, anche addottrinate ed autorevoli servire ed obbedire, non dirò ad un paio d’occhi cerulei, o ad una bocchina rosata, ma all’odore di un pollo arrosto in venerdì. Quasi mi vergogno, che siami sfuggita di bocca una così vulgare parola: e ve ne chieggo scusa; ma la sconvenienza che forse vi è stata nel dirlo, vi ammonisca della sconvenienza tanto maggiore che vi sarebbe nel farlo. Ed il peggio si è, che i poveretti si credono di esercitare proprio allora il loro libero arbitrio, quando proprio allora la fanno da schiavi, di cui meno dovrebbero; e se interrogano bene la propria coscienza, si accorgeranno di servire ancora a cui meno vorrebbero. Per converso il Cristiano allora propriamente si fa padrone di tutti gli oggetti sensibili ed allora li domina tutti, quando quelli accetta che vuole, quelli rifiuta che non vuole, e, secondo la bella parola di Minucio Felice, allora propriamente li possiede tutti, quando contro i dettami della ragione e della Fede non ne agogna nessuno. Quæ omnia, si non concupiscimus, possidemus (OCTAVIUS ,. cap . XXXVI).

V. Che se tanta è la differenza dell’uomo pagano dal Cristiano, quanto alle lusinghe della natura, non credeste che sia minore, quanto alle forze della natura stessa, ed agli scomodi, ed ai dolori, ed alle distruzioni che ce ne derivano, compresavi ancora la suprema. Perciocché credete voi che sia piccolo il divario tra il soffrire alcun travaglio coll’assenso della volontà, o colla ripugnanza di essa? Io anzi vi so dire che questo è il tutto; stante che il patire dell’uomo non dimora tanto nella fisica reazione ad esteriori impressioni sgradevoli, quanto nella violenta opposizione della volontà, che a quelle ripugna. Ove questa ripugnanza si togliesse, ove in suo luogo vi succedesse la conformità della volontà stessa, non solo sarebbe tolto ciò che ci ha di più cocente nel patire, ma questo si convertirebbe in rassegnazione e quasi che non dissi in soddisfazione ed in gusto. Oh! che? non sapete con quanta soddisfazione una madre affettuosa si priva del sonno, si priva del cibo, non cura i divertimenti, per assistere le lunghe notti un figliuoletto infermuccio? E quella soddisfazione non si volgerebbe in vera contentezza, in verissimo gaudio, quando essa fosse certa che, con quei suoi disagi, giungerà ad assicurare la vita e la sanità a quel caro sofferente? Ditemi ora voi: Forse che il digiuno, le lunghe vigilie, la solitudine, l’aere putido e graveolente che empie la stanza e circonda il letto di un infermo, non sono incomodi? non sono disag ? Sono, qual dubbio c’è? ma se la volontà, non che accettarli, li desidera, se ne compiace, se ne dice beata; che cosa vorreste più innanzi, perché tutta la persona se ne debba tenere contenta? Supposto dunque che gl’incomodi ed i mali, originati dalle forze necessarie della natura, siano indeclinabili, il vero segreto di attenuarli consisterebbe nel trovar modo, che la volontà non vi ripugnasse, ne fosse anzi non solo rassegnata, ma soddisfatta. – Ora di questo modo il Paganesimo non conobbe, non sospettò un’acca; e chi ne avesse parlato saria stato tenuto poco meno che mentecatto: chi avesse professato di desiderare e di cercare il patimento, saria stato accolto colle fischiate, come sarebbe a’ dì nostri, esempligrazia , un Cappuccino nelle vie di Londra. Come! vi avrebbono detto: accettare, amare, procurare fino il dolore! ma cotesto ripugna al senso comune! come se altri dicesse, che si odii il bene e si ami il male. Ne potea altro essere in una società, la quale appena conosceva altro bene ed altro male che il fisico, e ristretto all’individuo, di cui era bene o male. So che vi avea una setta nominata degli Stoici, che faceano professione di non turbarsi ai mali della vita; e ciò per la sola ragione, che il turbarsene non valeva a medicarli. Ma io non basto ad intendere che razza di conforto dovea essere questo! La impossibilità di schivarlo, lungi dall’attenuare il dolore, spesso lo aggrava; e quella stupida ed orgogliosa insensataggine se vietava i femminili lamenti a sfogo dell’ambascia, traboccava l’uomo nei cupi dispetti e nella sterile rabbia dell’impotenza! Tutto al contrario il Cristianesimo! Esso, rivelandoci da cui ci vengono i mali fisici, i fini perché ci vengono, i frutti di necessaria espiazione e di virtù preziose, che se ne possono cogliere in questa vita, ed i guiderdoni immortali, che ne possiamo sperare nell’altra, ci ha spiegato il dolore, lo ha lenito, lo ha confortato, lo ha reso, non che accettabile, desiderevole. Né ciò il Cristianesimo ha fatto colla sola dottrina (che pure sarebbe molto); ma di questa dottrina ci tiene perpetuamente sotto degli occhi l’attuazione parlante, prima in Cristo, per antonomasia « l’Uomo dei dolori »: Vir dolorum (Isai. LIII , 3), poscia in tutta l’agiografia e nella vivente santità, soprattutto nei claustri religiosi; in quanto quella e questa, esemplando in loro il divino modello, appena sono altro, che la professione delle privazioni e delle sofferenze. Che se l’abbracciarle volontariamente è di pochi, il rassegnarvisi con molta pace può e deve essere di tutti; ed è in fatto di moltissimi, fino a parerci divenuta la cosa tanto comune, che più non vi si bada. E chi è che badi alla risposta dell’infermo o del comunque altro tribolato, che richiesto del come stia, vi risponde: Come Dio vuole? Ed ha ragione! sta come Dio vuole; e stando così, qual cosa più facile, che il conchiuderne di stare ottimamente? E se tutte le forze della natura sono ministre di Dio; se questo Dio è mio Padre amoroso, che vuole la mia eterna felicità più di quello che non possa desiderarla io medesimo; deh! quale calamità privata o pubblica, qual mio infortunio, o dolore, o scomodo, o traversia mi dovrà parere soverchia? lo penso di essere un infermo, e volentieri accetto dal medico i tagli benché dolorosi, i farmaci benché amari, perché so che quei tagli e quei farmaci saranno la mia salute. Io sono un figlio, e lungi dal gravarmene, mi rallegro, quando mi veggo corretto e castigato dal Padre affettuoso, che con ciò mi dà nuovo pegno del suo amore. Dove è dunque la ripugnanza ai mali, se io anzi li accetto, li amo, me ne rallegro? E se io non ripugno, non io servo ad essi, ma essi servono a me per la mia eterna salute; e così io domino, io signoreggio quei mali, perché in sostanza il dominare, il signoreggiare alcuna cosa non è altro, che il potersene valere liberamente a proprio profitto. – E benché questa non sia cosa, che si attenga necessariamente al nostro discorso, non voglio nondimeno preterire di osservare, come questo può applicarsi eziandio a quei mali che ci vengono, non dalle forze della natura irragionevole, ma dalla malizia degli uomini. Alla quale ragione di mali, appunto per quell’ intervento della rea altrui volontà, noi ci sogliamo porgere più impazienti assai e più restii, che non ai naturali. E pure se vi è cosa esploratissima nelle Scritture, nei Padri e nei Dottori, ella è questa; che cioè la malizia stessa degli uomini, in maniera più assai arcana, ma nulla meno vera, è strumento nelle mani di Dio altrettanto docile, che le forze cieche della natura. E benché del morale disordine, che è nella colpa, Iddio non abbia altra volontà che permissiva, cioè quella di lasciare operare le cause seconde alla loro maniera; l’effetto nondimeno, che procede dalla colpa a detrimento degli eletti di Dio , è voluto positivamente da Lui a loro correggimento, a loro santificazione ed ammaestrevole disciplina: proprio come vuole, all’intento medesimo, le mortalità, le grandini ed i tremuoti. Così noi possiamo benissimo in questo modo patire ingiustizie, come purtroppo ne patiamo; ma per noi Cristiani non è mai vero, che ci debba parere ingiusto il patire quelle ingiustizie, secondo la bella parola del Crisostomo: iniusta patimur, sed non iniuste (Homil . XVII ad populum Antiochenum); essendovi una mano segreta e giustissima, la quale, a nostro verace vantaggio, adopera, come le forze cieche della natura, così la de liberata malizia degli uomini e le sapienti loro nequizie.

VI. Ma sopratutto la morte! come non ha cangiato aspetto nel mondo cristiano la morte! E che è finalmente questo spauracchio della povera nostra natura? che è esso mai divenuto, dopo che Cristo è nato, è morto ed è risorto per noi? Niente altro che un riposare, requiescit; niente altro che una migrazione, obitus; niente altro che un sonno, dormitio: ecco come la chiamiamo noi Cristiani; ed i sepolcri sono appunto dormitorii, come suona la greca voce κοιμητήριον [=koimeterion). Talmente che, quando voi vi trovate in uno di questi, dovete fare ragione di trovarvi come, di ferma notte, in un gran corridoio di Religiosi, che dormono quinci e quindi, ciascuno nella sua cella, ed aspettano la sveglia del domani. Oh! sì! anche i nostri trapassati, riposando in questo gran dormitorio che è il cimitero, aspettano una sveglia, che fia più sicura di quella, che desterà i Religiosi. Anzi qualche cosa meno del sonno è la morte, come notò il Crisostomo; in quanto nel dormente sono impedite le migliori facoltà dell’uomo: nel trapassato queste sono speditissime, e solo le minori e le infime restano sospese. – Ora non è questo un averci liberati dalla schiavitudine della morte, la quale pesò già così inesorabile e ferrea sul mondo pagano? Ed oh! che conforto pel passaggio nostro e dei nostri cari! E che hanno gli uomini scredenti del nostro tempo, per confortarsi in questa tremenda necessità della natura? Infelici! essi colla Fede hanno ripudiato ogni dignità, ogni blandimento, ogni consolazione, di che essa si fa madre e ministra! Hanno un bel multiplicare di fiori, di poesie, di necrologie e di bugiarde iscrizioni! Hanno un bello innalzare di monumenti più bugiardi delle iscrizioni, i quali la giusta posterità coprirà di fango, se non si vorrà pigliare il fastidio di ridurli in polvere! Ad essi, Pagani redivivi, la tomba non ha altra risposta a dare, che la già data agli antichi: o un dubbio desolante se sono scettici, od uno stupido nulla se sono materialisti. E per converso quante cose non dice a noi la tomba di un nostro diletto estinto, che dormì nel bacio del Signore! Quanto non ci conforta la fiducia, che esso sappia di noi, preghi per noi, e che noi possiamo stendergli la mano soccorrevole e pietosa, fino in quella regione di pene espiatrici e di speranze! E se morte vi ghermì un fantolino, come fiore appena sbocciato sullo stelo e reciso, deh! qual balsamo alla piaga del vostro cuore non è il dolce pensiero, che esso sia al presente un angioletto di più nel Paradiso! Oh! che? non lo vedete da quei seggi inzaffirati e splendenti invitarvi festoso e farvi cenno, coi cari occhietti e colle innocenti manine, d’andarlo a raggiungere, nella patria comune, in seno a Dio? Riposiamo.

VII. A renderci preziosa la chiamata, che di noi fece il Redentore dalla cecità gentilesca alla luce dell’Evangelio, quand’anche non vi fosse altro, che il ragionatovene quest’oggi, mi pare che noi dovremmo stare continuo colla fronte nella polvere, a professare la nostra gratitudine a tanta rivelata salute. E questa chiamata, come sapete, s’iniziò nel Mistero della Epifania. Dio immortale! qual grazia, qual favore, qual dignità acquistata all’uomo per quella chiamata! Di servi abbietti delle più vili creature, quasi tornati ad essere re e signori della universa natura sensata, intendendone per Fede e ragione lo scopo, dominandone regalmente le seduzioni, sostenendone con rassegnata tranquillità le punture, usufruttuandole a vita eterna, e guardando sicuri in viso la stessa morte; la quale in fin dei conti non potrà fare, che tramutarci da una vita tenebrosa e caduca, ad una infinitamente splendida ed immortale. Talmente che la Chiesa, rammemorando nel Martirologio il giorno della morte dei suoi Santi, lo chiama loro giorno natale o natalizio. Ma ad acquistare tanta dignità, non fanno nulla, miei amatissimi, i ricchi patrimonii, i titoli pomposi, la scienza profana, la potenza del comando, e quanti sono mai altri fallaci beni, di che la umana superbia si gonfia e l’umana cupidità si abbevera. Tutti questi obbietti riescono anzi a difficultarci gravemente quella eccelsa dignità; e quasi sempre signoreggiano essi ed opprimono di vera tirannide gli sciagurati, che troppo li agognano quando non li hanno, o li amano troppo quando, per loro sventura, li ottennero. Quello che ci acquista una tanta dignità è la semplicità del cuore, l’umile sentire di noi medesimi, la partecipazione alla povertà,ai dolori, agli obbrobrii del Redentore. Or queste doti non si trovano comunemente, che nei poveri, nei pusilli, negli spregiati dal mondo, i quali sono per questo appunto i prediletti di Dio e la sua più cara porzione. La quale predilezione Cristo dichiarò fino dal suo nascere, come notò il Magno Gregorio, in quanto che egli prima si manifestò a semplici e poveri pastori, che non ai ricchi ed ai saputi Principi di Oriente. Il mondo avrebbe fatto tutto a rovescio: prima i grandi e poscia i piccoli; ma Cristo sapea bene quel che si fare. Dove siete adunque, o diseredati dalla fortuna, oppressi dagli uomini, perseguitati dalla ingiustizia, schiacciati dalla prepotenza, e che vi divorate, nel segreto del vostro cuore straziato, tante privazioni, tante, lagrime, tanti dolori? oh! dove siete? Venite qua! ché io vi voglio mettere in capo stasera quella corona, che vi compete sopra tutto il creato. Se voi siete fedeli a Dio, non vi è lusinga che vi seduca, non vi è male che vi sgomenti, non dolore che vi vinca, non forza che sopra di voi prevalga. Voi avete tutto quel che volete, perché altro non volete avere da quello che Dio vuole; e se Dio vuole in voi passeggero abbassamento e sofferenze passeggere, vorrà (statene certi!) e molto presto gaudii ineffabili e gloria sempiterna.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (6)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.