UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “CUM NUPER”

«Vi sono noti i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini … » Così il Santo Padre esordisce in questa lettera Enciclica, indirizzata ai Vescovi del Regno delle due Sicilie, in occasione dei violenti terremoti che interessarono quel Regno. Da questa premessa trae spunto per ricordare ai Prelati in oggetto i loro precisi ed attenti doveri nei confronti dei fedeli, in particolare dei giovani e della loro educazione cristiana, nonché dei Parroci e degli aspiranti sacerdoti, per il cui reclutamento si raccomanda un’attenta osservazione della loro vocazione, pietà, integerrima condotta morale, e robusto bagaglio dottrinale e teologico, tutte qualità alla base dell’opera salvifica nei confronti delle anime dei fedeli affidati alle cure di pastori pii ed integri per vita e dottrina. Veramente è di tutta evidenza la preoccupazione del Santo Padre interamente volta alla salvezza eterna dell’anima dei Cattolici, scopo di ogni attività ecclesiastica, massimamente del Sommo Pontefice.  Certo è palese la diversità di linguaggio di un vero Pontefice (e che Pontefice!) se paragonata a quella degli antipapi e falsi profeti usurpatori dell’antichiesa vaticana e delle conventicole scismatiche pseudotradizionaliste … d’altra parte il Signore Gesù li aveva giudicati già a suo tempo dicendo: dai frutti li riconoscerete, i lupi travestiti da agnelli e da angeli di luce, i ladri ed i briganti famelici che sbranano le anime di tanti incauti ingannati. Ma si consoli il pusillus grex cattolico, la fine per gli sciacalli è vicina, il Cuore Immacolato di Maria, dopo la grande tribolazione, trionferà mirabilmente schiacciando la testa del drago primordiale come profetizzato in Genesi III … et Ipsa conteret caput tuum. Usque tandem?…

Pio IX
Cum nuper

Era trascorsa da poco la solenne, festiva ricorrenza annuale che celebra il giorno in cui l’Unigenito Figlio di Dio, per il grandissimo trasporto con il quale Ci ha amati, scendendo dal cielo senza recedere dalla gloria del Padre, fattosi in tutto simile agli uomini, ha voluto nascere dall’immacolata e beatissima Vergine Maria, quando Noi abbiamo ricevuto la Vostra gentilissima lettera in cui Voi, Venerabili Fratelli, professando la Vostra particolare e profonda devozione, l’amore e l’obbedienza verso di Noi e verso questa Cattedra di Pietro, avete manifestato ancora una volta che niente Vi sta più a cuore che scongiurare con assidue e fervide preghiere il Dio Ottimo e Massimo affinché, con la sua onnipotente grazia, aiuti, confermi e rafforzi l’umile Nostra Persona, travagliata dalla gravissima sollecitudine per tutte le Chiese, e affinché la conservi salva e incolume ancora a lungo e la ricolmi di ogni prosperità per la maggior gloria del suo santo Nome e per la salvezza delle anime. – Gli egregi sentimenti della Vostra piissima devozione, sempre a Noi graditissimi, hanno, così commosso il Nostro animo paterno, che abbiamo voluto scrivere questa Lettera Enciclica a tutti Voi che esercitate il ministero pastorale in codesto Regno delle Due Sicilie, a testimonianza della particolarissima benevolenza Nostra verso di Voi e nello stesso tempo affinché comprendiate sempre meglio con quanta carità Vi amiamo nel Signore e quanto siamo solleciti delle Vostre persone e dei fedeli affidati alle Vostre cure. – Infatti, Venerabili Fratelli, non possiamo quasi esprimere a parole quell’acerbissimo dolore da cui siamo stati colpiti, allorché abbiamo avuto notizia che nello scorso mese di dicembre molte città di codesto Regno furono talmente sconquassate da grandi terremoti che molte persone, travolte dalle rovine di edifici cadenti, in modo miserando hanno perso la vita, con grande dolore del Nostro carissimo Figlio in Cristo il Re Ferdinando II che, per la sua grande carità cristiana e il suo affetto per le popolazioni a lui soggette, non risparmiandosi negli interventi e nelle spese, non cessò di apportare aiuti e soccorsi alle popolazioni di dette città per sollevare la loro deplorevole condizione. – Appena Ci giunsero le prime tristissime notizie di una così grande calamità, senza alcun indugio, nell’umiltà del Nostro cuore abbiamo levato i Nostri occhi al Signore, implorando e scongiurando la Sua divina misericordia per quelle misere popolazioni affinché risanasse le fratture della terra le cui fondamenta erano state scosse in modo così terribile. – Vi sono noti i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini. Noi, per il Nostro ufficio, sproniamo vivamente in Domino la Vostra episcopale sollecitudine, Venerabili Fratelli, affinché adempiate con ardore e attivamente ciò che fa parte del Vostro ministero, e abbiate subito in animo di allontanare dal vizio e dal peccato, con ogni sforzo e zelo, i fedeli affidati alle Vostre cure e di incamminarli per le vie della virtù, della giustizia e della religione. – E poiché, con Nostro e Vostro grande rammarico si trovano in codesto Regno anche degli ecclesiastici che, dimentichi della loro vocazione, con la loro riprovevole e malvagia condotta eccitano l’indignazione divina e diventano causa di morte spirituale del popolo cristiano, al quale dovrebbero essere guide per la vita, cercate di sradicare gli abusi e le corruzioni che si sono infiltrate nel costume del Clero, e difendete e favorite con la massima diligenza la disciplina ecclesiastica a norma dei sacri canoni. Non lasciate nulla d’intentato affinché i giovani Chierici fin dai teneri anni vengano educati opportunamente alla pietà, alla religiosità e allo spirito ecclesiastico, e vengano istruiti nelle migliori dottrine, nelle più severe discipline e specialmente nella conoscenza solida e sicura della scienza teologica e dei sacri Canoni. – E prima di tutto, avendo sempre davanti agli occhi il precetto dell’Apostolo, preoccupatevi in modo particolare di non aver fretta ad imporre le mani a chiunque, ma usate somma cura e precauzione nel conferimento degli Ordini sacri. – Venerabili Fratelli, non avvenga mai che in una scelta così importante vi sia alcuno di Voi che, indulgendo a interessi d’altri, propensioni, favori e ragioni umane, voglia aggregare al Clero e promuovere alle dignità ecclesiastiche e agli Ordini coloro che, non essendo dotati delle qualità prescritte dai sacri Canoni, sono invece da respingere dal sacro ministero. Infatti, ben sapete quale grave colpa commette, quanto danno reca alla Chiesa e quale tremendo e strettissimo conto dovrà rendere a Cristo Signore chi non ha paura di iniziare agli Ordini sacri persone indegne. Per questa ragione, Venerabili Fratelli, per la Vostra singolare pietà, abbiate cura di osservare scrupolosamente le sapientissime e prudentissime prescrizioni dei sacri Canoni nell’ammettere e promuovere ai sacri Ordini gli ecclesiastici; e dopo accurato accertamento ed esame vogliate conoscere e valutare l’origine familiare di ciascuno, la sua formazione, l’indole, l’ingegno e la cultura. Occorre quindi decorare dei sacri Ordini e ammettere a trattare i divini misteri soltanto coloro che, dopo una prova accurata e diligente, sia per il possesso di tutte le virtù, sia per lodata e buona condotta, sia perché dotati di vero spirito ecclesiastico, possono servire le Vostre Diocesi ed esserne di ornamento. Astenendosi da tutte quelle azioni e dagli atteggiamenti che sono vietati ai Chierici e che loro sconvengono, essi siano d’esempio ai fedeli nella parola, nella conversazione, nella carità, nella fede e nella castità. Esigete particolarmente in coloro ai quali si devono affidare la cura e la guida delle anime, buoni costumi, probità, integrità, pietà, scienza e prudenza. E vegliate sempre affinché i Parroci, esercitando premurosamente il proprio ufficio con scienza e virtù, non tralascino mai di istruire il popolo cristiano loro affidato con l’annuncio della parola di Dio, con l’amministrazione dei Sacramenti, e col dispensare la multiforme grazia di Dio, ammaestrando specialmente i fanciulli e le persone ignoranti nei misteri santissimi della nostra divina Religione; insegnando diligentemente i Comandamenti, onde portarli tutti alla pietà e ad ogni virtù. Voi ben sapete come si corrompono i costumi, con grande danno della società sacra e civile, se si rilassa la disciplina cristiana e si distrugge il culto religioso, se i Parroci non sanno esercitare il loro ministero e compiere il loro dovere, o se lo trascurano. Dovendo inoltre vigilare con particolare attenzione che la gioventù d’ambo i sessi venga educata nel timor santo del Signore, nella Sua legge, e venga preparata all’onestà, dovete avere molto a cuore l’ispezione nelle scuole, sia pubbliche che private, e con particolare zelo procurare che la stessa gioventù, lontana da ogni pericolo, abbia un’istruzione sana e veramente cattolica. Dedicate pertanto tutte le forze della Vostra pastorale sollecitudine a quest’opera, poiché ben sapete che la prosperità della società civile dipende specialmente dalla retta educazione della gioventù, come pure ben conoscete le arti molteplici e nefaste con le quali, in questi tempi scellerati, i nemici di Dio e dell’umanità si sforzano di corrompere e pervertire l’incauta gioventù. – Non tralasciate di erudire ogni giorno con pari sollecitudine i fedeli a Voi affidati sulla dottrina cattolica, sia a voce, sia per iscritto, per difenderli dal contagio di tanti errori ora serpeggianti, ammonendoli a conservarsi stabili e fermi nella professione della nostra Fede e ad osservare diligentemente le leggi di Dio e della Santa Chiesa per non lasciarsi ingannare e trarre in errore dai propagatori di perverse dottrine. E poiché si pubblicano ovunque, emersi dalle tenebre, perniciosissimi libri per mezzo dei quali abilissimi fabbricatori di menzogne si sforzano di portare alla depravazione, con malvage opinioni di ogni genere, le menti e i cuori, confondendo ogni realtà umana e divina, onde far crollare le fondamenta stesse della cristiana e civile società, allora, Venerabili Fratelli, combattete coraggiosamente con tutto il Vostro zelo per tener lontana il più possibile dal Vostro gregge questa esiziale peste di libri. – E affinché possiate più facilmente e con maggior sicurezza difendere la sana dottrina e i buoni costumi e chiudere l’adito ad ogni errore e alla corruzione, non trascurate di esaminare accuratamente tutti i libri, specialmente quelli che trattano di materie teologiche e filosofiche e di cose sacre, oltre che di diritto canonico e civile. – Sapete inoltre che è Vostro compito episcopale e fa parte del Vostro ministero difendere e sostenere costantemente i diritti venerandi della Chiesa, difendere i suoi beni, provvedere alla loro retta amministrazione e specialmente aver cura che siano convenientemente conservati i pii legati di Messe e gli altri oneri, e siano tutti religiosamente soddisfatti, rimovendo qualsiasi frode o turpe lucro. Né ignorate con quale saggezza e con quale delicatezza dovete provvedere a che nelle Vostre singole Curie gli affari siano trattati con ogni giustizia ed equità. Pertanto, abbiate cura zelante che nelle Vostre Curie Vescovili siano presenti soltanto quegli uomini che, stimati da tutti per integrità di vita e per esperienza nel trattare gli affari, possano essere incaricati ad adempiere con competenza ed onestà tutti i compiti da Voi affidati. – Vi chiediamo inoltre insistentemente che approfondiate e con grande diligenza esaminiate le cause ecclesiastiche che spettano ai Vostri Tribunali, secondo le prescrizioni dei Sacri Canoni e in virtù della Convenzione; che le giudichiate e Vi adoperiate fortemente a che le sentenze abbiano la loro debita esecuzione; e a questo scopo, ogni qualvolta fosse necessario, chiedete l’aiuto e la forza dell’autorità civile. – E poiché i Sacerdoti Regolari sono dati ai Vescovi come aiuto nel coltivare la vigna del Signore, come ci ricorda il Nostro Predecessore di immortale memoria Benedetto XIV, per quanto dipende da Voi non trascurate di ammonire ed esortare questi uomini, affinché, seguendo le vestigia dei loro Padri ed emulandone l’esempio, si sforzino di ricambiare quello che hanno promesso a Dio, e vivano una vita santa secondo le regole del loro Istituto, e cerchino di dare a Voi e al Vostro gregge un utile aiuto, sia con le parole, che con l’esempio e la preghiera. – In modo particolare datevi cura, con la Vostra pastorale sollecitudine e carità, delle Vergini consacrate a Dio; esse sono la parte eletta del gregge, i fiori dei germogli della Chiesa, decoro e ornamento della grazia dello Spirito Santo. Offrite loro, pertanto, tutto l’aiuto e la Vostra opera, affinché, memori della santa vocazione con la quale Dio le chiamò, distolgano gli occhi dalle realtà umane per rivolgerli sempre ai beni celesti e ogni giorno, progredendo di virtù in virtù, cerchino di diffondere ovunque il buon profumo di Cristo. E chiediamo insistentemente alla Vostra religiosa pietà che abbiate sempre davanti agli occhi e prendiate in seria considerazione e poi eseguiate ciò che lo stesso Nostro Predecessore Benedetto XIV provvidamente raccomanda e sapientemente stabilisce nella sua Costituzione Pastoralis Curae del 5 agosto 1748 sulla designazione di Confessori straordinari per le Monache. – Infine, Venerabili Fratelli, affinché possiate provvedere sempre meglio al bene della nostra santissima Religione e alla salvezza delle pecorelle, Vi esortiamo caldamente a celebrare i Sinodi Provinciali secondo le prescrizioni dei Sacri Canoni. Voi ben sapete, infatti, che soltanto in questo modo, esaminando tutte le realtà fra di Voi, potete più facilmente e ponderatamente porre rimedio opportuno ai mali, provvedere alla spirituale prosperità delle vostre Diocesi e ordinare successivamente i Sinodi Diocesani che dovete convocare secondo le Norme Canoniche. E siccome in codesto Regno molti Arcivescovi mancano di Vescovi suffraganei e alcuni Vescovi non hanno il loro Vescovo Metropolitano, e quindi non sono in grado di celebrare un Sinodo Provinciale, è affidato alla prudenza degli stessi sacri Prelati il compito di ponderare diligentemente tutte le circostanze di luogo, di cose e di tempo perché possano giungere ad avere anch’essi un Sinodo assieme a coloro con i quali hanno maggior consuetudine nel Signore, senza nessuna modifica al rango delle Chiese e senza alcun detrimento per i diritti e i privilegi dei quali i predetti Vescovi legittimamente godono e sono in possesso. – Avete davanti agli occhi, Venerabili Fratelli, tutto quello che abbiamo stimato opportuno esporvi per la particolare benevolenza che abbiamo verso di Voi e verso i fedeli affidati alle Vostre cure. Non dubitiamo che vorrete soddisfare sollecitamente e ancor più volonterosamente a tutti questi desideri e ammonimenti paterni, anche perché il carissimo Figlio Nostro in Cristo Ferdinando II, illustre Re delle Due Sicilie, Vi porge la mano ausiliatrice e – come Noi confidiamo – per la sua grande pietà farà sì che, secondo i Nostri desideri, nel suo Regno la Chiesa goda della piena libertà ed eserciti tutti quei diritti che le convengono e di cui deve usufruire per volontà di Dio e secondo i Sacri Canoni. – Frattanto umilmente preghiamo e supplichiamo Dio, ricco di misericordia, perché effonda su di Voi sempre più copiosi tutti i doni della sua bontà e benedica le Vostre fatiche pastorali, le Vostre preoccupazioni e le Vostre iniziative affinché i fedeli che Vi sono stati affidati, ogni giorno sempre più forti nella fede, rigettino il male e facciano il bene e, crescendo nella scienza di Dio e nella conoscenza del Signor Nostro Gesù Cristo, camminino degnamente nella via di Dio, piacendo in tutto e operando proficuamente in ogni buona iniziativa. – Come auspicio di tutto quanto esposto e come pegno certissimo della Nostra particolarissima benevolenza verso di Voi, ricevete l’Apostolica Benedizione che impartiamo dall’intimo del cuore a Voi, Venerabili Fratelli, e con grande amore ai Chierici delle Vostre Chiese e ai fedeli Laici.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 gennaio 1858, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re dei Giudei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso ai Giudei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e dei Giudei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando i Giudei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio i Giudei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie . dice S. Agostino – e Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – « Questa immagine, che è l’anima nostra – dice ancora Bossuet – passerà un giorno di nuovo per le mani e davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto Giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele» (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo. « Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo, poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la preghiera della Chiesa, sua sposa, che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste).

Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolo domanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono sempre stati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche e che egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro carità dunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento di Gesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio.

« Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà » (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, et enim defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

AUGURI CRISTIANI DI UN APOSTOLO.

Che cosa dobbiamo noi Cristiani desiderare ed augurare a noi stessi e agli altri? dico così: a noi e agli altri, perché dovendo noi amare il prossimo come noi stessi, s’ha da desiderare agli altri ed augurare né più, né meno di quello che desideriamo ed auguriamo a noi. È un problema molto pratico, se si consideri il gran numero d’auguri che per consuetudine antica, si cambiano in mille circostanze diverse, anche fra noi Cristiani. I quali spesso, troppo spesso, ci auguriamo, quello stesso che si augurano fra di loro i pagani, come se il Cristianesimo non esistesse, come se nelle fatti specie non avesse un bel nulla da insegnarci. Opportunissima è al proposito l’Epistola paolina di questa domenica, nella quale San Paolo lascia libero sfogo al suo grande cuore. E dice ai suoi figli, ai Cristiani da lui convertiti, da lui rigenerati al fonte battesimale, quale sia l’oggetto precipuo e costante delle sue preghiere per loro. La preghiera, giova ricordarlo tra parentesi, è la forma cristiana dell’augurio. Il pagano augura, il Cristiano prega. Ordunque che cosa augura e prega il grande Apostolo ai suoi cari? Una carità in un aumento costantemente progressivo. «Chiedo a Dio che la vostra carità abbondi più e più». Che cosa auguriamo noi istintivamente a quelli che amiamo? Lo si sa: salute e felicità. E dicendo salute, quando parliamo il linguaggio comune, fondato sulla comune psicologia, intendiamo la salute del corpo, e la felicità del tempo. Ebbene: noi Cristiani sappiamo che c’è una salute più preziosa della corporea: è la salute dell’anima; c’è una felicità più vera della comunemente intesa, è la felicità spirituale ed eterna. Tutto questo è nella carità. La carità cristiana, amore fervido di Dio e dei fratelli, unico moto con due poli ed estremità, la carità; l’ardore di essa è la vita dell’anima. Si vive di carità; senza essa si muore, muore la parte più vera, più intima, più umana di noi: «qui non diligîit, manet in morte. » E questo amore divino, divino sempre, divino ancora quando sembra diventare umano, è la gioia più profonda ed indistruttibile. L’amore profano con le sue gioie è un abbozzo della gioia che porta nell’anima l’amore celeste. Desiderare la carità agli altri (e a noi) significa desiderare (e chiedere, per conseguenza), la vita, la salute più vera e la felicità più completa. Lo sentiamo noi questo? ne siamo noi veramente convinti? Ecco, se mai, una buona occasione per ridestare in noi questa convinzione, per rettificare nella nostra anima, come dicono oggi, la scala dei valori. In cima a questa benedetta scala, che regola poi in pratica i moti, i voli della nostra anima; in cima la carità. Nella quale non si progredisce mai abbastanza e bisogna progredire sempre. Quando si è convinti della preziosità di una cosa qualsiasi, non se ne ha, non si crede mai di averne abbastanza, se ne desidera sempre di più. La carità è il nostro tesoro per eccellenza, il vero tesoro cristiano. Paolo la desidera, la prega ai fedeli sempre maggiore, in aumento continuo e indefinito. E sempre meglio. Fiamma più ardente e fiamma più pura. Progresso in quantità e in qualità. In che cosa l’Apostolo faccia consistere il miglioramento qualitativo, non è chiarissimo. Ma tra le interpretazioni in cui s’indugiano i critici, gli esegeti, la migliore mi par questa: la nostra carità S. Paolo desidera e prega diventi sempre più conscia (questo significa quello che il testo chiama progresso in scientia), alimentata cioè da una conoscenza sempre più chiara, esatta, profonda di Dio, Signor Nostro. – Meglio si vede una cosa o persona bella e più acceso ne ferve in noi il desiderio, nell’ordine naturale. Lo stesso nell’ordine soprannaturale: più, meglio, si conosce Dio e più e meglio lo si ama. E anche il prossimo nostro lo amiamo tanto più quanto più lo guardiamo, e vediamo in una luce divina colta, afferrata bene dal nostro occhio interiore. Ma lì nel prossimo ci vuol giudizio. San Paolo dice proprio: la carità divina verso Dio sempre più conscia; la carità verso il prossimo sempre più giudiziosa. Non si potrebbe dire di meglio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla restituzione.

Reddito ergo quæ sunt Cæsaris, Cæsari: et quæ sunt Dei, Deo.

(MATTH. XXII, 21).

Dare a Dio quello ch’è di Dio, ed al prossimo quello che gli è dovuto; niente di più giusto, niente di più ragionevole. Se tutti i Cristiani seguissero questa via, l’inferno non avrebbe più alcun abitatore, ed il cielo sarebbe popolato. Ah! volesse Iddio, ci dice il gran S. Ilario, che gli uomini non perdessero mai di vista questo precetto! Ma, ahimè! quanti si illudono! Essi passano la loro vita rubando all’uno, ed ingannando l’altro. Si, F. M., non vi è cosa più comune delle ingiustizie, non vi è cosa più rara delle restituzioni. Il profeta Osea aveva ben ragione di dire che le ingiustizie ed i latrocini coprivano la faccia della terra, e che assomigliavano al diluvio che aveva distrutto l’universo  (Os. IV, 2). E disgraziatamente quanti sono i colpevoli altrettanti sono quelli che non vogliono riconoscersi tali. Mio Dio! quanti ladri farà scoprire la morte! Per convincervene, F. M., vi mostrerò:

1° che i beni di mal acquisto non portano fortuna;

in quanti modi si reca danno al prossimo;

3° come ed a chi dovete restituire ciò che non vi appartiene.

I. — Noi siamo sì ciechi, che passiamo tutta la vita nel cercare di ammassare beni che poi, nostro malgrado, perderemo, e trascuriamo quelli che potremo conservare per tutta l’eternità. Le ricchezze di questo mondo per un Cristiano sono degne soltanto di disprezzo, e noi invece corriamo precisamente dietro ad esse. L’uomo è dunque un insensato, perché agisce in un modo tutto contrario al fine per cui Dio l’ha messo al mondo. Non voglio parlarvi, F. M., di coloro che prestano ad usura, al sette, otto, nove e dieci per cento; lasciamoli da una parte. Bisognerebbe, per far sentir loro tutta l’enormità della loro ingiustizia e crudeltà, che uno di quei vecchi usurai, che da tre o quattro mila anni bruciano nell’inferno, venisse a raccontar loro i tormenti che soffre a causa delle sue innumerevoli ingiustizie. No, non è questo il mio assunto. Costoro sanno che fanno male e che Dio non perdonerà loro mai, se non restituiscono a quelli che hanno danneggiato. Tutto ciò che potrei dire servirebbe soltanto a renderli più colpevoli. Entriamo invece in certi particolari che riguardano la maggior parte dei Cristiani. – Dico anzitutto che i beni acquistati ingiustamente non arricchiscono mai chi li possiede. Al contrario saranno una sorgente di maledizioni per tutta la sua famiglia. Mio Dio! quanto è cieco l’uomo! Egli è perfettamente convinto che viene in questo mondo per brevissimo tempo; ad ogni istante ne vede partir uomini più giovani e più robusti di lui; non importa; ciò non gli fa aprire gli occhi. Può ben dirgli lo Spirito Santo, per bocca di Giobbe, che egli è venuto nel mondo sprovvisto di tutto e che se ne andrà nella stessa condizione (Job I, 21); che tutti questi beni dietro ai quali egli corre, lo abbandoneranno quando meno vi penserà; tutto questo non vale a trattenerlo. S. Paolo afferma che chi vuol diventar ricco per vie ingiuste, non tarderà a cadere in grandi traviamenti; e di più non vedrà mai la faccia di Dio (I Tim. VI, 9). E questo è così vero, che un avaro, od anche, se volete, una persona arricchita per frode o con male arti, senza un miracolo della grazia non si convertirà quasi mai, tanto questo peccato acceca chi lo commette. Ascoltate come san Agostino parla a quelli che ritengono beni altrui (Ep CLIII ad Macedonium, c. VI, 22). Potrete ben confessarvi, dice, far penitenze e piangere i vostri peccati, se non restituite, quando potete, Iddio non vi perdonerà mai. Tutte le vostre confessioni e comunioni non saranno che sacrilegi l’un sopra l’altro. O rendete quello che non è vostro, o risolvetevi di andar a bruciare nell’inferno. Lo Spirito Santo non ci proibisce solo di prendere e desiderare i beni del prossimo, manon vuole nemmeno che li guardiamo nel timore che questa vista vi ci faccia mettere sopra le mani. Il profeta Zaccaria ci dice che la maledizione di Dio resterà sulla casa di chi ruba, fino a che essa non sarà distrutta (Zach. V, 3,4). Ed io aggiungo, che non solo i beni acquistati con frode o con male arti non vi daranno alcun profitto, ma saranno la causa che abbiate da quelli legittimamente acquistati, e che si abbrevino i vostri giorni. Se ne dubitato, ascoltatemi un momento e ne sarete persuasi. Leggiamo nella sacra Scrittura, che il re Acabbo volendo allargare il suo giardino, andò da un uomo chiamato Naboth, per domandargli di vendergli la sua vigna. “No, gli disse Naboth, è l’eredità dei miei padri, e voglio conservarla.„ Il re fu così indispettito per questo rifiuto, che ne ammalò. Non poteva né bere, né mangiare, e si mise a letto. La regina venne, e gli domandò la causa della sua malattia. Le rispose il re che voleva allargare il giardino, e che Naboth erasi rifiutato di vendergli la sua vigna. « Ecchè! disse la regina, dov’è dunque la vostra autorità? Non inquietatevi tanto; io ve la farò avere. E s’affrettò a cercare qualcuno che, corrotto con denaro, testimoniasse che Naboth aveva bestemmiato contro Dio e contro Mosè. Il povero uomo poté ben difendersi, affermando che era innocente del delitto di cui lo si accusava, invano; non gli si volle credere: fu trascinato dalla folla e lapidato. La regina vistolo immerso nel proprio sangue, corse dal re annunciandogli di impossessarsi pure della vigna, poiché colui che aveva ardito rifiutargliela era morto. A questa notizia il re guarì, e corse come un pazzo ad impossessarsi della vigna. Lo sciagurato non pensava che qui appunto l’aspettasse Iddio per punirlo. Il Signore chiamò il suo profeta Elia, e gli ordinò d’andare dal re a dirgli da parte sua che, nel luogo stesso dove i cani avevano leccato il sangue di Naboth, leccherebbero anche il suo, e che nessuno dei suoi figli regnerebbe dopo di lui. Lo mandò poi dalla regina Gezabele per annunziarle che, in punizione del suo delitto, i cani la mangerebbero. Come il profeta aveva predetto, così avvenne. Il re fu ucciso in un combattimento, ed i cani leccarono il suo sangue. Il nuovo re chiamato Jehu, entrando nella città, vide una donna affacciata ad una finestra. Ella s’era vestita come una dea, sperando affascinare il cuore del nuovo re. Questi domandò chi fosse. Gli fu risposto che era la regina Gezabele. Subito comandò di gettarla dalla finestra; e uomini e cavalli la calpestarono sotto i loro piedi. Alla sera, quando si volle darle sepoltura, non si trovò di lei che qualche misero avanzo: i cani avevano mangiato il resto. “Ah! esclamò Jehu, ecco adempiuta la parola del profeta.„ (IV, Reg. IX). Il re Acabbo lasciava settanta figli, tutti principi; il nuovo re ordinò che a tutti fosse mozzata la testa, e che le teste fossero raccolte in panieri alle porte della città, per mostrare con uno spettacolo così orrendo quali disgrazie attirino sui figli le ingiustizie dei genitori (IV, Reg. X, 7). S. Vittore ci racconta un esempio che non è meno sorprendente. Un uomo, egli dice, era entrato nel granaio del suo vicino per rubargli del grano. Nel momento in cui s’impadroniva del sacco, il demonio s’impadronì di lui, e lo trascinò davanti a tutti come se lo portasse all’inferno (Vedere nel RIBADENEIRA, al 26 Febbraio la vita di san Vittore d’Arcis-sur-Aube.). Dio mio, come è cieco l’uomo, che vuol dannarsi per sì poca cosa. – La seconda ragione che ci deve far temere d’impossessarci dei beni altrui, è che questa colpa ci trascina all’inferno. Il profeta Zaccaria dice che, in una visione, Iddio gli fece vedere un libro, dove era scritto che mai i rapitori dei beni altrui vedranno Dio, e che essi saranno gettati nelle fiamme. Eppure, F. M., vi sono alcuni talmente ciechi che preferirebbero morire e dannarsi, anziché restituire le ricchezze mal acquistate, anche se la morte fosse sul punto di strapparle loro dalle mani. Un uomo aveva passato la sua vita rubando e saccheggiando… Aveva appena trent’anni, quando fu preso da una malattia, della quale poi morì. Uno dei suoi amici, vedendo ch’egli non domandava il sacerdote, andò egli stesso a cercarne uno. “Amico, gli dice il prete, mi sembrate molto aggravato. Non pensavate dunque a chiamarmi? Volete confessarvi? — Ah! Reverendo, rispose l’ammalato smarrito, mi credete dunque già spacciato? — Ma, amico, più conoscenza avrete, e meglio riceverete i Sacramenti. — Non me ne parlate; in questo momento sono stanco; quando starò meglio verrò io stesso in chiesa. — No, amico, se aveste a morire senza Sacramenti, ne sarei troppo addolorato. Siccome sono qui, non me ne andrò finché non vi siate confessato.„ Vedendovisi costretto, acconsente; ma come lo fa? come una persona che avendo dei beni altrui non vuol restituirli. Non ne dice nulla… – “Se peggiorerete verrò a portarvi il Viatico.„ Infatti l’ammalato si avvicina alla morte: si corre ad avvertire il prete che il suo penitente sta per spirare, ed egli si affretta ad accorrere. Quando l’ammalato sentì il campanello, domandò che cos’era, e sapendo che il signor Parroco gli portava il Viatico: “Ecché! esclamò, non vi avevo detto, che non volevo riceverlo? Ditegli pure che non venga avanti.„ Frattanto entrò il sacerdote, ed accostandosi al letto di lui, gli dice: “Voi non volete dunque ricevere il buon Dio, che vi consolerebbe, e che vi aiuterebbe a sopportare le vostre pene? — No, no, ho già fatto troppo male. — Ma scandalizzerete tutta la parrocchia. — Eh! che m’importa che tutti sappiano ch’io mi son dannato? — Se non volete ricevere i Sacramenti, non potrete essere sepolto cristianamente. — Un dannato merita forse di essere sepolto tra i santi? Quando il demonio si sarà impossessato della mia maledetta anima, gettate il mio corpo ai lupi, come quello d’un animale… „ E vedendo sua moglie piangente: “Tu piangi? consolati; se mi hai accompagnato per andare di notte a rubare ai vicini, non tarderai a raggiungermi nell’inferno. „ E gridava disperato: “Ah! orrori dell’inferno, aprite i vostri abissi, venite a strapparmi da questo mondo; io non posso più reggere. „ E muore con segni visibili di riprovazione. — Ma, mi direte, egli aveva certo commesso grandi peccati. — Ahimè! amico, se osassi, vi direi ch’egli faceva quello che fate quasi tutti; ora rubava un fascio di legna, ora una bracciata di fieno, ovvero un covone di grano.

II. — Se volessi, F. M., esaminare la condotta di quelli che sono qui presenti, forse non troverei altro che ladri. Vi stupisce questo? Ascoltatemi un momento e converrete con me che ciò è vero. S’io comincio coll’esaminare la condotta dei servitori, li trovo colpevoli verso i padroni e verso i poveri. I servi sono colpevoli verso i padroni e, per conseguenza obbligati a restituire, tutto il tempo di più dell’occorrente che hanno impiegato per riposarsi o che hanno sciupato nelle osterie; se hanno lasciato andar in rovina e rubare i beni dei loro padroni, e se potendo impedirlo non l’abbiano fatto. Parimente, se, un servo offrendo l’opera sua ha assicurato che era capace di far certi lavori, sapendo benissimo ch’egli non li conosceva o padrone della perdita che deriva dalla sua ignoranza o dalla sua debolezza. Di più, ruba ai poveri tutte le volte che spende il denaro nel giuoco, all’osteria, o in altre cose inutili. — Ma, mi direte, questo denaro è mio, è il mio guadagno. — Vi risponderò: Voi avete lavorato per guadagnarlo, è vero; eppure siete colpevoli. Ascoltatemi e capitemi bene. Forse i vostri genitori sono tanto poveri da essere obbligati a ricorrere alla carità pubblica; se voi aveste conservato il vostro guadagno, potreste sollevarli; siete nell’impossibilità di farlo; non è rubare ai poveri? Una serva od un domestico hanno sprecato tutto il loro denaro, l’una nel comperare oggetti di vanità, l’altro nelle osterie e nei giuochi; se il buon Dio manda loro qualche malattia od infermità, sono obbligati di andar all’ospedale a mangiare il pane dei poveri; oppure aspetteranno che una persona caritatevole tenda loro la mano, dando ad essi quello che verrà a mancare ad altri che sono più disgraziati. Se contraggono matrimonio, eccoli ridotti in miseria insieme coi loro figliuoli. Perché tutto questo? Perché da giovani non hanno saputo metter nulla da parte. Non è vero, sorella mia, che se si riflettesse un po’, la vanità non andrebbe tant’alto? E il più desolante si è, che voi non solo sprecate un bene che poi vi mancherà, ma perdete la vostra anima. – Ma ecco un peccato tanto più deplorevole quanto è più comune: quello dei fanciulli e dei servitori che rubano ai loro genitori padroni. I fanciulli non devono mai nulla prendere ai genitori col pretesto che non è abbastanza. Quando i vostri genitori vi hanno nutriti, vestiti ed istruiti, non vi devono più nulla. Del resto quando un ragazzo ruba ai suoi genitori, lo si considera capace di tutto. Tutti lo fuggono e lo disprezzano. Un servo mi dirà: “Non vengo pagato delle mie fatiche, bisogna dunque che mi ricompensi. — Se non siete pagato delle vostre fatiche, amico mio, perché restate presso questi padroni? Quando vi siete presentato, sapevate quale era il vostro guadagno, e quanto potevate meritare; dovevate indirizzarvi dove avreste potuto guadagnare di più. E quelli che ricevono in custodia quanto i servi rubano ai loro padroni od i figli ai genitori, stiano bene attenti! Quando pure quegli oggetti fossero stati presso di loro solo cinque minuti: e quand’anche non ne conoscessero il valore, questi nasconditori sono obbligati a restituirli, sotto pena di dannarsi, se i colpevoli non li restituiscono essi stessi. Alcuni, compreranno qualche oggetto da un figlio di famiglia o da un domestico; ora, quando pure lo pagassero più di quello che vale, sono obbligati di restituire al padrone l’oggetto od il suo valore; altrimenti saranno gettati nell’inferno. Se avete consigliato ad una persona di rubare, quand’anche voi non ne aveste ricavato alcun profitto, se il ladro non restituisce, tocca a voi di farlo; altrimenti è inutile sperare il cielo. I furti più comuni si fanno nelle vendite e nelle compere. Entriamo nei particolari, affinché conosciate il male che avete fatto, e, nel medesimo tempo possiate correggervene. Quando portate a vendere le vostre derrate, vi si domanderà se le vostre uova ed il vostro burro sono freschi, e vi affretterete di rispondere: Sì; mentre sapete benissimo che è vero il contrario. Perché lo dite, se non per rubare due o tre soldi ad una povera madre di famiglia che, forse li ebbe in prestito per preparare il pranzo? Un’altra volta sarà vendendo il cotone. Voi avrete la precauzione di nascondere in mezzo il più piccolo ed il più brutto. Forse direte: Se non facessi così non ne venderei tanto. — Cioè se vi diportaste da buon Cristiano non rubereste come fate. Un’altra volta, vi siete accorto che nel conto vi fu dato più di quanto vi si doveva, ma non avete detto nulla. — Tanto peggio per quella persona; non è mio sbaglio. — Ah! amico mio, verrà un giorno in cui vi si dirà forse con più ragione: Tanto peggio per te!… Il tale vuol comperare da voi del grano, del vino o delle bestie, e vi domanderà se quel grano è buono. Senza esitare l’assicurate di sì. Il vino lo mescolate con dell’altro cattivo e lo vendete come se fosse buono. Se non siete creduto, giurate; e non una, ma anche venti volte date la vostra anima al demonio. Ah amico mio, non fa bisogno che ti affatichi tanto per darti a lui; già da molto tempo gli appartieni! Questa bestia, vi si chiederà, ha qualche difetto? Non dovete ingannarmi; ho preso in prestito questo denaro, e se mi ingannate sono in miseria. — No, no, rispondete, questa bestia è sanissima. Se la vendo, non lo faccio senza rincrescimento; se potessi altrimenti certo non la venderei. Ed infatti la vendete solo perché non val nulla, e non può più servirvi. — Io faccio come fanno tutti; peggio per chi resta ingannato. Sono stato ingannato e cerco d’ingannare, altrimenti perderei troppo. — Ma, amico, gli altri si dannano e bisogna che vi danniate anche voi? gli altri vanno all’inferno, e dovete proprio andarvi insieme? Voi preferite avere qualche soldo di più e andar a bruciare nell’inferno per tutta l’eternità? Ebbene! vi dico che se avete venduto una bestia con dei difetti nascosti, siete obbligati a ricompensare il compratore della perdita che quei difetti possono avergli recato; altrimenti vi dannerete. — Ah! se voi foste al nostro posto, fareste come noi. — Sì, senza dubbio, farei come voi se, come voi, volessi dannarmi; ma, volendo salvarmi, farei tutto il contrario di quello che voi fate. Altri passando per un prato, per un campo di rape, per un orto non si faranno scrupolo di riempire i loro grembiuli di erbe o di rape e di portar via i panieri e le tasche piene di frutta. I genitori vedranno ritornare i figli colle mani piene di cose rubate e li rimprovereranno ridendo: — Ehei! è troppo, sai! — F. M, se rubate ora un soldo, ora due, ben presto avrete accumulato la materia d’un peccato mortale. D’altra parte, potete commettere peccato mortale anche prendendo un centesimo, se avete intenzione di rubare tre lire. Che debbono dunque fare i genitori quando vedono i figli con qualche oggetto rubato? ecco. Debbono obbligarli ad andare essi stessi a restituirli a quelli cui li hanno rubati. Una o due volte basteranno per correggerli. Un esempio mostrerà come dovete essere fedeli in questo. Si racconta che un fanciullo dai nove ai dieci anni cominciava a commettere piccoli furti, come di frutta o d’altre cose di lieve valore. E andò sempre aumentando i suoi furti fino a che più tardi lasciò la vita sul patibolo. Prima di morire, domandò ai giudici, che si facessero venire i suoi genitori; quand’essi furono presenti: “O padre e madre sciagurati, esclamò, voglio che tutti sappiano che voi siete la causa della mia morte infame. Voi siete disonorati davanti al mondo; ma siete dei disgraziati! se m’aveste corretto quando cominciavo a commettere i miei piccoli furti, non avrei certo commessi quelli che mi hanno condotto su questo patibolo. „ Dico, F. M., che i genitori debbono essere molto circospetti riguardo ai loro figli, quando pure dimenticassero di aver un’anima da salvare. Si vede infatti, ordinariamente, che quali sono i genitori, tali sono i figli. Ogni giorno si sente dire: Il tale ha dei figli che ripeteranno quello che ha fatto lui quand’era giovane. — Questo non vi riguarda, mi direte, lasciateci tranquilli, non venite a disturbarci; noi non pensavamo più a questo e voi venite a ricordarcelo. Il fuoco dell’inferno non è dunque abbastanza rigoroso, e l’eternità abbastanza lunga, perché ci facciate soffrire così in questo mondo? — È vero, F. M., ma è perché non vorrei vedervi dannati. — Ebbene, peggio per noi; se noi facciamo il male, non ne porterete voi la pena. — Contenti voi, tanto meglio!… Altra volta, sarà un calzolaio che adopererà cuoio cattivo e filo scadente e lo farà pagare come buono. Oppure sarà un sarto, che col pretesto di non ricevere un buon prezzo di fattura, riterrà senza dir nulla un pezzo di stoffa. Dio mio! quanti ladri scoprirà la morte!… Ovvero un tessitore che guasta una parte del filo, piuttosto di affaticarsi a districarlo; oppure ne metterà di meno e, senza dir nulla, nasconderà quello che gli venne dato. Ecco una donna cui si darà della canapa da filare; essa ne getterà via una parte col pretesto che non è ben pettinata, poi ne nasconderà un poco per sé e, mettendo il filo in un luogo umido, il peso sarà ancora uguale. Essa forse non pensa che questo filo appartiene ad un povero domestico, il quale non potrà servirsene, perché già mezzo marcio: essa, dunque, sarà la causa di molte sue maledizioni contro il padrone che gli avrà dato questa canapa in compenso del salario; un pastore sa benissimo che non è permesso condurre a pascolare in quel prato od in quel bosco; non importa: gli basta non esser visto. Un altro sa che è proibito raccogliere il loglio tra quel grano, perché è fiorito; ed egli guarda se nessuno lo vede e vi entra. Ditemi, F. M., sareste contenti se il vostro vicino facesse così con voi? No, senza dubbio: ebbene credetemi: colui che… Se esaminiamo ora la condotta degli operai, ne troviamo una parte che sono ladri; e ne sarete subito convinti. Se si fanno lavorare a cottimo, sia a zappare, sia a scavare, sia per qualunque altro lavoro, ne faranno male la metà, e non mancheranno di farsi ben pagare. Presi a giornate, si accontentano di lavorar bene quando il padrone li osserva, e poi si mettono a chiacchierare o ad oziare. Un servo non si farà scrupolo di ricevere e trattar bene i suoi amici in assenza dei padroni pur sapendo che essi non lo tollererebbero. Altri fanno grosse elemosine per essere in voce di persone caritatevoli. Non dovrebbero invece farle col loro guadagno che sì spesso sciupano in vanità? Se questo vi è capitato, non dimenticate l’obbligo che avete di restituire a chi spetta quanto avete dato ai poveri all’insaputa e contro la volontà dei vostri padroni. Può esservi pure un primo servo cui il padrone ha affidata la sorveglianza sugli altri domestici o sugli operai, e che, domandato da loro darà ad essi vino o qualche altra cosa: attenti bene: se sapete dare, bisognerà saper restituire sotto pena di dannazione. Un uomo d’affari sarà stato incaricato di comperare del grano, del fieno o della paglia, e dirà al mercante: “Fatemi una quietanza su cui noterete pel mio padrone qualche misura di più di grano; dieci, dodici quintali di paglia e di fieno più di quanto m’avete dato. Ciò non può far danno. „ Ora se quel povero cieco fa una tale quietanza, è obbligato lui stesso a restituire il denaro che quest’uomo fa spendere in più al suo padrone, altrimenti deve risolversi ad andare a bruciare nell’inferno. – Se ci volgiamo ora dalla parte dei padroni, credo che non mancheremo di trovarvi dei ladri. Infatti, quanti padroni non danno ai loro dipendenti tutto ciò che è stato convenuto; e che, avvicinandosi la fine dell’anno fanno ogni possibile per licenziarli affine di non doverli pagare. Se una bestia muore, malgrado tutte le cure da parte di chi ne era incaricato, gliene riterranno il valore sul suo salario; così che quel poveretto avrà lavorato tutto l’anno, ed alla fine si troverà colle mani vuote. Quanti avendo promesso della tela, la faranno fare più corta o di filo peggiore, od anche la fanno aspettare per parecchi anni; così che bisogna citarli in giudizio per obbligarli a pagare. Quanti infine coltivando, falciando, mietendo oltrepassano i propri confini; oppure tagliano al loro vicino un alberello per fare il manico alla zappa, ovvero un vinciglio per legare il covone, o farne una corda per la loro carretta. Non avevo ragione di dire, F. M., che esaminando da vicino la condotta della gente del mondo, non troveremmo altro che ladri e mariuoli? Non mancate di esaminarvi su quanto ho detto; e se la vostra coscienza vi rimorde, affrettatevi a riparare il male che avete fatto, e mentre ne siete ancora in tempo, restituite subito, se potete, od almeno lavorate con tutte le vostre forze per restituire ciò che avete male acquistato. Ricordatevi di dire nelle vostre confessioni quante volte avete trascurato di restituire essendo in grado di farlo; poiché avendovene Dio dato il pensiero, sono tante grazie disprezzate. – Vi parlerò anche d’un furto assai comune nelle famiglie, quando certi eredi, al tempo della divisione, nascondono più roba che possono. Questo è un vero rubare e si è obbligati a restituire, altrimenti si è dannati. Vi ho detto in principio, che nulla è più comune della ingiustizia, e nulla è più raro della restituzione: sono pochi, come vedete, quelli che non hanno nulla sulla coscienza. Ebbene! dove sono quelli che restituiscono? Io non lo so. Eppure, F. M., quantunque siamo obbligati a restituire i beni mal acquistati sotto pena di dannarci, quando lo facciamo Dio non lascia di ricompensarcene. Un esempio ve lo proverà chiaramente. Un fornaio, che da molti anni aveva usato falsi pesi e false misure, volendo acquietare la sua coscienza, consultò il proprio confessore, che lo consigliò di usare, per qualche tempo, pesi un po’ più abbondanti. Essendosene sparsa la voce, il concorso dei clienti diventò grandissimo, e, sebbene guadagnasse poco, Dio permise che restituendo, aumentasse considerevolmente la sua fortuna.

III. — Ora, direte voi, possiamo sperare di conoscere, almeno superficialmente, il modo con cui possiamo commettere ingiustizia. Ma come ed a chi bisogna restituire? — Volete restituire? Ebbene! ascoltatemi un momento e lo saprete. Non bisogna accontentarsi di rendere la metà, né i tre quarti; ma tutto, se lo potete, altrimenti vi dannerete. Vi sono di quelli che, senza cercare il numero delle persone alle quali hanno recato danno, faranno qualche elemosina, o faranno celebrare qualche messa; e dopo questo, si crederanno sicuri in coscienza. È vero, le elemosine e le messe sono buonissime cose, ma bisogna che siano fatte col vostro denaro, e non con quello del vostro prossimo. Questo denaro non è vostro; rendetelo al suo padrone, e poi date del vostro, se volete; farete benissimo. Sapete come chiama queste elemosine S. Gio. Crisostomo? le elemosine di Giuda e del demonio. Quando Giuda ebbe venduto nostro Signore, vedendolo condannato, corse a restituire il denaro ai dottori; questi, sebbene avarissimi, non vollero accettarlo; ne comperarono un campo per seppellirvi i forestieri. — Ma, mi direte, quando i danneggiati sono morti, a chi bisogna restituire? Non si può ritenersi il denaro o darlo ai poveri? Amico, ecco ciò che dovete fare. Se hanno dei figli, dovete restituire a loro; se non ne hanno, ai parenti, agli eredi; se non hanno parenti né eredi, andate dal vostro pastore ed egli vi dirà ciò che dovete fare. Altri dicono: Io ho danneggiato il tale, ma egli è ricchissimo, soccorrerò una persona povera che ha molto maggior bisogno. — Amico, a questa persona date del vostro; ma restituite al vostro prossimo ciò che gli avete rubato. — Egli l’adoprerà malamente. — Ciò non v’importa: dategli il suo, pregate per lui e state tranquillo. Ahimè! oggi la gente del mondo è così avara, così attaccata ai beni della terra, che, credendo di non averne mai abbastanza, fa a chi sarà più accorto ed ingannerà meglio degli altri. Ma voi, F. M., non dimenticatevi che se per colpa vostra ad alcuno avete recato danno, quand’anche aveste dato il doppio ai poveri, se non restituirete al padrone ciò che avete rubato, vi dannerete. Io non so se la vostra coscienza è tranquilla; ne dubito molto … Ho detto che il mondo è pieno di ladri e di imbroglioni. I mercanti rubano ingannando coi pesi e colle misure; essi approfittano della semplicità d’una persona per vendere più caro, e per comperare a miglior prezzo; i padroni rubano ai loro dipendenti facendo perdere loro una parte del salario; altri, facendoli aspettare per un tempo considerevole, diminuendo perfino un giorno di malattia, come se avessero preso il male in casa di un vicino e non al loro servizio!… Da parte loro i domestici rubano ai padroni o non facendo il lavoro stabilito, o lasciandone rovinare colpevolmente gli averi; un operaio si fa pagare mentre il lavoro è fatto per metà. Quelli che tengono le osterie, questi serbatoi d’iniquità, porte d’inferno, calvari dove Gesù Cristo è incessantemente crocifisso, scuole infernali dove satana insegna la sua dottrina, dove si distruggono la religione e la morale, gli osti, dico, rubano il pane d’una povera donna e dei suoi figli dando del vino a questi ubbriaconi, che la domenica sprecano tutto il guadagno della settimana. Un mezzadro distrarrà mille cose per sé, prima di dividere col padrone, e non ne terrà conto. Dio mio, dove siamo? Quante cose da giudicare dopo la morte!… Se la loro coscienza grida troppo forte, costoro andranno dal ministro del Signore. Vorrebbero ottenere la remissione del loro debito; se invece vengono sollecitati a restituire, troveranno mille pretesti per provare che altri hanno recato danno anche a loro e che per ora non possono. Ah! io non so se il buon Dio si accontenterà delle vostre ragioni! Se voleste diminuire un po’ quelle vanità, quelle golosità, quei giuochi; andare un po’ meno all’osteria e al ballo e raddoppiare il vostro lavoro, avreste ben presto pagata una parte dei vostri debiti. Ricordatevi, che se non fate il possibile per restituire a ciascuno quanto gli dovete, qualsiasi penitenza facciate, non tralascerete di cadere nell’inferno: statene sicuri!… Troverete molti così ciechi da dire che i figli lo faranno dopo la loro morte. I vostri figli. amico mio, lo faranno al pari di voi. Del resto, volete che della vostr’anima abbiano più cura i vostri figli di voi? Vi dannerete; ecco ciò che vi toccherà. Ditemi, avete soddisfatto voi piccole ingiustizie dei vostri genitori? Ve ne siete ben guardati, ed i vostri poveri genitori sono all’inferno per non aver restituito quand’erano vivi, fidandosi troppo della vostra buona volontà. Infine, per tagliar corto, quanti tra quelli che m’ascoltano, incaricati dai loro genitori, forse più di venti anni fa, di far elemosine o celebrare messe, l’han fatto? se ne sono ben guardati! Preferiscono allargare le loro possessioni, frequentare i giuochi e le osterie, comperare vanità alle loro figliuole. – S. Antonino racconta che un usuraio preferì morire senza Sacramenti piuttosto che restituire ciò che non gli apparteneva. Egli non aveva che due figli; uno temeva Dio, l’altro no. Quello che si dava pensiero della salute della sua anima fu così commosso dallo stato sciagurato in cui era morto suo padre, che dopo aver usata una parte della sua fortuna per riparare le ingiustizie del padre, si fece monaco per non aver più nulla a cui pensare fuorché a Dio solo. L’altro invece dissipò tutto il suo denaro in stravizi e morì improvvisamente. Ne fu portata la notizia al religioso il quale si mise subito in orazione. Vide in spirito la terra spalancata e, nel suo centro, una profonda voragine da cui uscivano fiamme. In mezzo a queste fiamme suo padre e suo fratello bruciavano e si maledicevano l’un l’altro. Il padre malediceva il figlio, poiché volendo egli lasciargli molte ricchezze, non aveva temuto di dannarsi per lui, ed il figlio rimproverava al padre i cattivi esempi ricevuti. Dovrò io parlarvi di quelli che aspettano fino alla loro morte prima di restituire? Vi proverò con due esempi che, in quel momento, o non lo vorrete, o, quand’anche lo vorreste, non lo potrete più.

1° Non lo vorrete. Si racconta che stando per morire un padre di numerosa famiglia, i suoi figli gli dissero: “Padre, lo sapete, queste ricchezze che ci lasciate, non sono nostre, bisognerebbe restituirle. — Figli miei, disse il padre, se restituissi tutto ciò che non è mio, non vi resterebbe quasi nulla. — Padre, piuttosto che vi danniate, noi preferiamo lavorare per guadagnarci da vivere. — No, figli miei, non voglio restituire; voi non sapete che cos’è l’esser poveri. — Se non restituite, andrete all’inferno. — No, non restituirò nulla. „ E morì dannato… Dio mio! quanto il peccato d’avarizia acceca l’uomo!

2° Ho detto che, in quel momento quand’anche il voleste, non lo potrete. Un missionario racconta che un padre, vedendo la sua fine prossima, fece venire i figli vicino al suo letto, e disse loro: “Figli miei, sapete che io ho danneggiato molta gente; se non restituisco sono perduto. Andate in cerca di un notaio che abbia da ricevere le mie disposizioni. — Ecchè! padre, gli risposero i figli, vorreste disonorare voi e noi, facendovi passare per uomo disonesto? Vorreste ridurci in miseria e costringerci a mendicare il pane? — Ma, figli miei, se non restituisco mi dannerò! „ Ed uno di quegli empi figliuoli non temette di dirgli: “Padre, voi dunque temete l’inferno? Via, si abitua a tutto: in otto giorni vi sarete già avvezzo… „ – Ebbene, F. M., che cosa concluderemo da tutto questo? Che voi siete estremamente ciechi! Voi perdete le vostre anime per lasciare qualche palmo di terra, o un po’ dibeni di fortuna ai vostri figli, i quali lungi, dall’esservene grati, si rideranno di voi, mentre voi brucerete nell’inferno. Finisco dicendo che siamo insensati non pensando che ad ammassare ricchezze, le quali ci rendono infelici mentre le accumuliamo, per tutto il tempo che le possediamo, quando le lasciamo ed anche per tutta l’eternità. Siamo più saggi, F. M., attacchiamoci a quei beni che ci accompagneranno nell’altra vita e formeranno la nostra felicità nei giorni senza fine: ciò che vi auguro…

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis.

[Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.

[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata sempre vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole.]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA RESTITUZIONE

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla restituzione.

Reddito ergo quæ suntCæsaris, Cæsari: et quæ sunt Dei, Deo.

(MATTH. XXII, 21).

Dare a Dio quello ch’è di Dio, ed al prossimo quello che gli è dovuto; niente di più giusto, niente di più ragionevole. Se tutti i Cristiani seguissero questa via, l’inferno non avrebbe più alcun abitatore, ed il cielo sarebbe popolato. Ah! volesse Iddio, ci dice il gran S. Ilario, che gli uomini non perdessero mai di vista questo precetto! Ma, ahimè! quanti si illudono! Essi passano la loro vita rubando all’uno, ed ingannando l’altro. Si, F. M., non vi è cosa più comune delle ingiustizie, non vi è cosa più rara delle restituzioni. Il profeta Osea aveva ben ragione di dire che le ingiustizie ed i latrocini coprivano la faccia della terra, e che assomigliavano al diluvio che aveva distrutto l’universo  (Os. IV, 2). E disgraziatamente quanti sono i colpevoli altrettanti sono quelli che non vogliono riconoscersi tali. Mio Dio! quanti ladri farà scoprire la morte! Per convincervene, F. M., vi mostrerò:

1° che i beni di mal acquisto non portano fortuna;

in quanti modi si reca danno al prossimo;

3° come ed a chi dovete restituire ciò che non vi appartiene.

I. — Noi siamo sì ciechi, che passiamo tutta la vita nel cercare di ammassare beni che poi, nostro malgrado, perderemo, e trascuriamo quelli che potremo conservare per tutta l’eternità. Le ricchezze di questo mondo per un Cristiano sono degne soltanto di disprezzo, e noi invece corriamo precisamente dietro ad esse. L’uomo è dunque un insensato, perché agisce in un modo tutto contrario al fine per cui Dio l’ha messo al mondo. Non voglio parlarvi, F. M., di coloro che prestano ad usura, al sette, otto, nove e dieci per cento; lasciamoli da una parte. Bisognerebbe, per far sentir loro tutta l’enormità della loro ingiustizia e crudeltà, che uno di quei vecchi usurai, che da tre o quattro mila anni bruciano nell’inferno, venisse a raccontar loro i tormenti che soffre a causa delle sue innumerevoli ingiustizie. No, non è questo il mio assunto. Costoro sanno che fanno male e che Dio non perdonerà loro mai, se non restituiscono a quelli che hanno danneggiato. Tutto ciò che potrei dire servirebbe soltanto a renderli più colpevoli. Entriamo invece in certi particolari che riguardano la maggior parte dei Cristiani. – Dico anzitutto che i beni acquistati ingiustamente non arricchiscono mai chi li possiede. Al contrario saranno una sorgente di maledizioni per tutta la sua famiglia. Mio Dio! quanto è cieco l’uomo! Egli è perfettamente convinto che viene in questo mondo per brevissimo tempo; ad ogni istante ne vede partir uomini più giovani e più robusti di lui; non importa; ciò non gli fa aprire gli occhi. Può ben dirgli lo Spirito Santo, per bocca di Giobbe, che egli è venuto nel mondo sprovvisto di tutto e che se ne andrà nella stessa condizione (Job I, 21); che tutti questi beni dietro ai quali egli corre, lo abbandoneranno quando meno v i penserà; tutto questo non vale a trattenerlo. S. Paolo afferma che chi vuol diventar ricco per vie ingiuste, non tarerà a cadere in grandi traviamenti; e di più non vedrà mai la faccia di Dio (I Tim. VI, 9). È questo è così vero, che un avaro, od anche, se volete, una persona arricchita per frode o con male arti, senza un miracolo della grazia non si convertirà quasi mai, tanto questo peccato acceca chi lo commette. Ascoltate come san Agostino parla a quelli che ritengono beni altrui (Ep CLIII ad Macedonium, c. VI, 22). Potrete ben confessarvi, dice, far penitenze e piangere i vostri peccati, se non restituite, quando potete, Iddio non vi perdonerà mai. Tutte le vostre confessioni e comunioni non saranno che sacrilegi l’un sopra l’altro. O rendete quello che non è vostro, o risolvetevi di andar a bruciare nell’inferno.Lo Spirito Santo non ci proibisce solo di prendere e desiderare i beni del prossimo, manon vuole nemmeno che li guardiamo nel timore che questa vista vi ci faccia mettere sopra le mani. Il profeta Zaccaria ci dice chela maledizione di Dio resterà sulla casa di chi ruba, fino a che essa non sarà distrutta (Zach. V, 3,4). Ed io aggiungo, che non solo i beni acquistati con frode o con male arti non vi daranno alcun profitto,ma saranno la causa che abbiate da perdere anche quelli legittimamente acquistati, e che si abbrevino i vostri giorni. Se ne dubitato, ascoltatemi un momento e ne sarete persuasi. Leggiamo nella sacra Scrittura, che il re Acabbo volendo allargare il suo giardino, andò da un uomo chiamato Naboth, per domandargli di vendergli la sua vigna. “No, gli disse Naboth, è l’eredità dei miei padri, e voglio conservarla.„ Il re fu così indispettito per questo rifiuto, che ne ammalò. Non poteva né bere, né ì mangiare, e si mise a letto. La regina venne, e gli domandò la causa della sua malattia. Le rispose il re che voleva allargare il giardino, e che Naboth erasi rifiutato di vendergli la sua vigna. « Ecchè! disse la regina, dov’è dunque la vostra autorità? Non inquietatevi tanto; io ve la farò avere. E s’affrettò a cercare qualcuno che, corrotto con denaro, testimoniasse che Naboth aveva bestemmiato contro Dio e contro Mosè. Il povero uomo poté ben difendersi, affermando che era innocente del delitto di cui lo si accusava, invano; non gli si volle credere: fu trascinato dalla folla e lapidato. La regina vistolo immerso nel proprio sangue, corse dal re annunciandogli di impossessarsi pure della vigna, poiché colui che aveva ardito rifiutargliela era morto. A questa notizia il re guarì, e corse come un pazzo ad impossessarsi della vigna. Lo sciagurato non pensava che qui appunto l’aspettasse Iddio per punirlo. Il Signore chiamò il suo profeta Elia, e gli ordinò d’andare dal re a dirgli da parte sua che, nel luogo stesso dove i cani avevano leccato il sangue di Naboth, leccherebbero anche il suo, e che nessuno dei suoi figli regnerebbe dopo di lui. Lo mandò poi dalla regina Gezabele per annunziarle che, in punizione del suo delitto, i cani la mangerebbero. Come il profeta aveva predetto, così avvenne. Il re fa ucciso in un combattimento, ed i cani leccarono il suo sangue. Il nuovo re chiamato Jehu, entrando nella città, vide una donna affacciata ad una finestra. Ella s’era vestita come una dea, sperando affascinare il cuore del nuovo re. Questi domandò chi fosse. Gli fu risposto che era la regina Gezabele. Subito comandò di gettarla dalla finestra; e uomini e cavalli la calpestarono sotto i loro piedi. Alla sera, quando si volle darle sepoltura, non si trovò di lei che qualche misero avanzo: i cani avevano mangiato il resto. “Ah! esclamò Jehu, ecco adempiuta la parola del profeta.„ (IV, Reg. IX). Il re Acabbo lasciava settanta figli, tutti principi; il nuovo re ordinò che a tutti fosse mozzata la testa, e che le teste fossero raccolte in panieri alle porte della città, per mostrare con uno spettacolo così orrendo quali disgrazie attirino sui figli le ingiustizie dei genitori (IV, Reg. X, 7) . S. Vittore ci racconta un esempio che non è meno sorprendente. Un uomo, egli dice, era entrato nel granaio del suo vicino per rubargli del grano. Nel momento in cui s’impadroniva del sacco, il demonio s’impadronì di lui, e lo trascinò davanti a tutti come se lo portasse all’inferno (Vedere nel RIBADENEIRA, al 26 Febbraio la vita di san Vittore d’Arcis-sur-Aube.). Dio mio, come è cieco l’uomo, che vuol dannarsi per sì poca cosa. – La seconda ragione che ci deve far temere d’impossessarci dei beni altrui, è che questa colpa ci trascina all’inferno. Il profeta Zaccaria dice che, in una visione, Iddio gli fece vedere un libro, dove era scritto che mai i rapitori dei beni altrui vedranno Dio, e che essi saranno gettati nelle fiamme. Eppure, F. M., vi sono alcuni talmente ciechi che preferirebbero morire e dannarsi, anziché restituire le ricchezze mal acquistate, anche se la morte fosse sul punto di strapparle loro dalle mani. Un uomo aveva passato la sua vita rubando e saccheggiando… Aveva appena trent’anni, quando fu preso da una malattia, della quale poi morì. Uno dei suoi amici, vedendo ch’egli non domandava il sacerdote, andò egli stesso a cercarne uno. “Amico, gli dice il prete, mi sembrate molto aggravato. Non pensavate dunque a chiamarmi? Volete confessarvi? — Ah! Reverendo, rispose l’ammalato smarrito, mi credete dunque già spacciato? — Ma, amico, più conoscenza avrete, e meglio riceverete i Sacramenti. — Non me ne parlate; in questo momento sono stanco; quando starò meglio verrò io stesso in chiesa. — No, amico, se aveste a morire senza Sacramenti, ne sarei troppo addolorato. Siccome sono qui, non me ne andrò finché non vi siate confessato.„ Vedendovisi costretto, acconsente; ma come lo fa? come una persona che avendo dei beni altrui non vuol restituirli. Non ne dice nulla… – “Se peggiorerete verrò a portarvi il Viatico.„ Infatti l’ammalato si avvicina alla morte: si corre ad avvertire il prete che il suo penitente sta per spirare, ed egli si affretta ad accorrere. Quando l’ammalato sentì il campanello, domandò che cos’era, e sapendo che il signor Parroco gli portava il Viatico: “Ecché! esclamò, non vi avevo detto, che non volevo riceverlo? Ditegli pure che non venga avanti.„ Frattanto entrò il sacerdote, ed accostandosi al letto di lui, gli dice: “Voi non volete dunque ricevere il buon Dio, che vi consolerebbe, e che vi aiuterebbe a sopportare le vostre pene? — No, no, ho già fatto troppo male. — Ma scandalizzerete tutta la parrocchia. — Eh! che m’importa che tutti sappiano ch’io mi son dannato? — Se non volete ricevere i Sacramenti, non potrete essere sepolto cristianamente. — Un dannato merita forse di essere sepolto tra i santi? Quando il demonio si sarà impossessato della mia maledetta anima, gettate il mio corpo ai lupi, come quello d’un animale… „ E vedendo sua moglie piangente: “Tu piangi? consolati; se mi hai accompagnato per andare di notte a rubare ai vicini, non tarderai a raggiungermi nell’inferno. „ E gridava disperato: “Ah! orrori dell’inferno, aprite i vostri abissi, venite a strapparmi da questo mondo; io non posso più reggere. „ E muore con segni visibili di riprovazione. — Ma, mi direte, egli aveva certo commesso grandi peccati. — Ahimè! amico, se osassi, vi direi ch’egli faceva quello che fate quasi tutti; ora rubava un fascio di legna, ora una bracciata di fieno, ovvero un covone di grano.

II. — Se volessi, F. M., esaminare la condotta di quelli che sono qui presenti, forse non troverei altro che ladri. Vi stupisce questo? Ascoltatemi un momento e converrete con me che ciò è vero. S’io comincio coll’esaminare la condotta dei servitori, li trovo colpevoli verso i padroni e verso i poveri. I servi sono colpevoli verso i padroni e, per conseguenza obbligati a restituire, tutto il tempo di più dell’occorrente che hanno impiegato per riposarsi o che hanno sciupato nelle osterie; se hanno lasciato andar in rovina e rubare i beni dei loro padroni, e se potendo impedirlo non l’abbiano fatto. Parimente, se, un servo offrendo l’opera sua ha assicurato che era capace di far certi lavori, sapendo benissimo ch’egli non li conosceva o padrone della perdita che deriva dalla sua ignoranza o dalla sua debolezza. Di più, ruba ai poveri tutte le volte che spende il denaro nel giuoco, all’osteria, o in altre cose inutili. — Ma, mi direte, questo denaro è mio, è il mio guadagno. — Vi risponderò: Voi avete lavorato per guadagnarlo, è vero; eppure siete colpevoli. Ascoltatemi e capitemi bene. Forse i vostri genitori sono tanto poveri da essere obbligati a ricorrere alla carità pubblica; se voi aveste conservato il vostro guadagno, potreste sollevarli; siete nell’impossibilità di farlo; non è rubare ai poveri? Una serva od un domestico hanno sprecato tutto il loro denaro, l’una nel comperare oggetti di vanità, l’altro nelle osterie e nei giuochi; se il buon Dio manda loro qualche malattia od infermità, sono obbligati di andar all’ospedale a mangiare il pane dei poveri; oppure aspetteranno che una persona caritatevole tenda loro la mano, dando ad essi quello che verrà a mancare ad altri che sono più disgraziati. Se contraggono matrimonio, eccoli ridotti in miseria insieme coi loro figliuoli. Perché tutto questo? Perché da giovani non hanno saputo metter nulla da parte. Non è vero, sorella mia, che se si riflettesse un po’, la vanità non andrebbe tant’alto? E il più desolante si è, che voi non solo sprecate un bene che poi vi mancherà, ma perdete la vostra anima. – Ma ecco un peccato tanto più deplorevole quanto è più comune: quello dei fanciulli e dei servitori che rubano ai loro genitori padroni. I fanciulli non devono mai nulla prendere ai genitori col pretesto che non è abbastanza. Quando i vostri genitori vi hanno nutriti, vestiti ed istruiti, non vi devono più nulla. Del resto quando un ragazzo ruba ai suoi genitori, lo si considera capace di tutto. Tutti lo fuggono e lo disprezzano. Un servo mi dirà: “Non vengo pagato delle mie fatiche, bisogna dunque che mi ricompensi. — Se non siete pagato delle vostre fatiche, amico mio, perché restate presso questi padroni? Quando vi siete presentato, sapevate quale era il vostro guadagno, e quanto potevate meritare; dovevate indirizzarvi dove avreste potuto guadagnare di più. E quelli che ricevono in custodia quanto i servi rubano ai loro padroni od i figli ai genitori, stiano bene attenti! Quando pure quegli oggetti fossero stati presso di loro solo cinque minuti: e quand’anche non ne conoscessero il valore, questi nasconditori sono obbligati a restituirli, sotto pena di dannarsi, se i colpevoli non li restituiscono essi stessi. Alcuni, compreranno qualche oggetto da un figlio di famiglia o da un domestico; ora, quando pure lo pagassero più di quello che vale, sono obbligati di restituire al padrone l’oggetto od il suo valore; altrimenti saranno gettati nell’inferno. Se avete consigliato ad una persona di rubare, quand’anche voi non ne aveste ricavato alcun profitto, se il ladro non restituisce, tocca a voi di farlo; altrimenti è inutile sperare il cielo. I furti più comuni si fanno nelle vendite e nelle compere. Entriamo nei particolari, affinché conosciate il male che avete fatto, e, nel medesimo tempo possiate correggervene. Quando portate a vendere le vostre derrate, vi si domanderà se le vostre uova ed il vostro burro sono freschi, e vi affretterete di rispondere: Sì; mentre sapete benissimo che è vero il contrario. Perché lo dite, se non per rubare due o tre soldi ad una povera madre di famiglia che, forse li ebbe in prestito per preparare il pranzo? Un’altra volta sarà vendendo il cotone. Voi avrete la precauzione di nascondere in mezzo il più piccolo ed il più brutto. Porse direte: Se non facessi così non ne venderei tanto. — Cioè se vi diportaste da buon Cristiano non rubereste come fate. Un’altra volta, vi siete accorto che nel conto vi fu dato più di quanto vi si doveva, ma non avete detto nulla. — Tanto peggio per quella persona; non è mio sbaglio. — Ah! amico mio, verrà un giorno in cui vi si dirà forse con più ragione: Tanto peggio per te!… Il tale vuol comperare da voi del grano, del vino o delle bestie, e vi domanderà se quel grano è buono. Senza esitare l’assicurate di sì. Il vino lo mescolate con dell’altro cattivo e lo vendete come se fosse buono. Se non siete creduto, giurate; e non una, ma anche venti volte date la vostra anima al demonio. Ah amico mio, non fa bisogno che ti affatichi tanto per darti a lui; già da molto tempo gli appartieni! Questa bestia, vi si chiederà, ha qualche difetto? Non dovete ingannarmi; ho preso in prestito questo denaro, e se mi ingannate sono in miseria. — No, no, rispondete, questa bestia è sanissima. Se la vendo, non lo faccio senza rincrescimento; se potessi altrimenti certo non la venderei. Ed infatti la vendete solo perché non val nulla, e non può più servirvi. — Io faccio come fanno tutti; peggio per chi resta ingannato. Sono stato ingannato e cerco d’ingannare, altrimenti perderei troppo. — Ma, amico, gli altri si dannano e bisogna che vi danniate anche voi? gli altri vanno all’inferno, e dovete proprio andarvi insieme? Voi preferite avere qualche soldo di più e andar a bruciare nell’inferno per tutta l’eternità? Ebbene! vi dico che se avete venduto una bestia con dei difetti nascosti, siete obbligati a ricompensare il compratore della perdita che quei difetti possono avergli recato; altrimenti vi dannerete. — Ah! se voi foste al nostro posto, fareste come noi. — Sì, senza dubbio, farei come voi se, come voi, volessi dannarmi; ma, volendo salvarmi, farei tutto il contrario di quello che voi fate. Altri passando per un prato, per un campo di rape, per un orto non si faranno scrupolo di riempire i loro grembiuli di erbe o di rape e di portar via i panieri e le tasche piene di frutta. I genitori vedranno ritornare i figli colle mani piene di cose rubate e li rimprovereranno ridendo: — Ehei! è troppo, sai! — F. M, se rubate ora un soldo, ora due, ben presto avrete accumulato la materia d’un peccato mortale. D’altra parte, potete commettere peccato mortale anche prendendo un centesimo, se avete intenzione di rubare tre lire. Che debbono dunque fare i genitori quando vedono i figli con qualche oggetto rubato? ecco. Debbono obbligarli ad andare essi stessi a restituirli a quelli cui li hanno rubati. Una o due volte basteranno per correggerli. Un esempio mostrerà come dovete essere fedeli in questo. Si racconta che un fanciullo dai nove ai dieci anni cominciava a commettere piccoli furti, come di frutta o d’altre cose di lieve valore. E andò sempre aumentando i suoi furti fino a che più tardi lasciò la vita sul patibolo. Prima di morire, domandò ai giudici, che si facessero venire i suoi genitori; quand’essi furono presenti: “O padre e madre sciagurati, esclamò, voglio che tutti sappiano che voi siete la causa della mia morte infame. Voi siete disonorati davanti al mondo; ma siete dei disgraziati! se m’aveste corretto quando cominciavo a commettere i miei piccoli furti, non avrei certo commessi quelli che mi hanno condotto su questo patibolo. „ Dico, F. M., che i genitori debbono essere molto circospetti riguardo ai loro figli, quando pure dimenticassero di aver un’anima da salvare. Si vede infatti, ordinariamente, che quali sono i genitori, tali sono i figli. Ogni giorno si sente dire: Il tale ha dei figli che ripeteranno quello che ha fatto lui quand’era giovane. — Questo non vi riguarda, mi direte, lasciateci tranquilli, non venite a disturbarci; noi non pensavamo più a questo e voi venite a ricordarcelo. Il fuoco dell’inferno non è dunque abbastanza rigoroso, e l’eternità abbastanza lunga, perché ci facciate soffrire così in questo mondo? — E vero, F. M., ma è perché non vorrei vedervi dannati. — Ebbene, peggio per noi; se noi facciamo il male, non ne porterete voi la pena. — Contenti voi, tanto meglio!… Altra volta, sarà un calzolaio che adopererà cuoio cattivo e filo scadente e lo farà pagare come buono. Oppure sarà un sarto, che col pretesto di non ricevere un buon prezzo di fattura, riterrà senza dir nulla un pezzo di stoffa. Dio mio! quanti ladri scoprirà la morte!… Ovvero un tessitore che guasta una parte del filo, piuttosto di affaticarsi a districarlo; oppure ne metterà di meno e, senza dir nulla, nasconderà quello che gli venne dato. Ecco una donna cui si darà della canapa da filare; essa ne getterà via una parte col pretesto che non è ben pettinata, poi ne nasconderà un poco per sé e, mettendo il filo in un luogo umido, il peso sarà ancora uguale. Essa forse non pensa che questo filo appartiene ad un povero domestico, il quale non potrà servirsene, perché già mezzo marcio: essa, dunque, sarà la causa di molte sue maledizioni contro il padrone che gli avrà dato questa canapa in compenso del salario; Un pastore sa benissimo che non è permesso condurre a pascolare in quel prato od in quel bosco; non importa: gli basta non esser visto. Un altro sa che è proibito raccogliere il loglio tra quel grano, perché è fiorito; ed egli guarda se nessuno lo vede e vi entra. Ditemi, F. M., sareste contenti se il vostro vicino facesse così con voi? No, senza dubbio: ebbene credetemi: colui che… Se esaminiamo ora la condotta degli operai, ne troviamo una parte che sono ladri; e ne sarete subito convinti. Se si fanno lavorare a cottimo, sia a zappare, sia a scavare, sia per qualunque altro lavoro, ne faranno male la metà, e non mancheranno di farsi ben pagare. Presi a giornate, si accontentano di lavorar bene quando il padrone li osserva, e poi si mettono a chiacchierare o ad oziare. Un servo non si farà scrupolo di ricevere e trattar bene i suoi amici in assenza dei padroni pur sapendo che essi non lo tollererebbero. Altri fanno grosse elemosine per essere in voce di persone caritatevoli Non dovrebbero invece farle col loro guadagno che sì spesso sciupano in vanità? Se questo vi è capitato, non dimenticate l’obbligo che avete di restituire a chi spetta quanto avete dato ai poveri all’insaputa e contro la volontà dei vostri padroni. Può esservi pure un primo servo cui il padrone ha affidata la sorveglianza sugli altri domestici o sugli operai, e che, domandato da loro darà ad essi vino o qualche altra cosa: attenti bene: se sapete dare, bisognerà sapier restituire sotto pena di dannazione. Un uomo d’affari sarà stato incaricato di comperare del grano, del fieno o della paglia, e dirà al mercante: “Fatemi una quietanza su cui noterete pel mio padrone qualche misura di più di grano; dieci, dodici quintali di paglia e di fieno più di quanto m’avete dato. Ciò non può far danno. „ Ora se quel povero cieco fa una tale quietanza, è obbligato lui stesso a restituire il denaro che quest’uomo fa spendere in più al suo padrone, altrimenti deve risolversi ad andare a bruciare nell’inferno. – Se ci volgiamo ora dalla parte dei padroni, credo che non mancheremo di trovarvi dei ladri. Infatti, quanti padroni non danno ai loro dipendenti tutto ciò che è stato convenuto; e che, avvicinandosi la fine dell’anno fanno ogni possibile per licenziarli affine di non doverli pagare. Se una bestia muore, malgrado tutte le cure da parte di chi ne era incaricato, gliene riterranno il valore sul suo salario; così che quel poveretto avrà lavorato tutto l’anno, ed alla fine si troverà colle mani vuote. Quanti avendo promesso della tela, la faranno fare più corta o di filo peggiore, od anche la fanno aspettare per parecchi anni; così che bisogna citarli in giudizio per obbligarli a pagare. Quanti infine coltivando, falciando, mietendo oltrepassano i propri confini; oppure tagliano al loro vicino un alberello per fare il manico alla zappa, ovvero un vinciglio per legare il covone, o farne una corda per la loro carretta. Non avevo ragione di dire, F. M., che esaminando da vicino la condotta della gente del mondo, non troveremmo altro che ladri e mariuoli? Non mancate di esaminarvi su quanto ho detto; e se la vostra coscienza vi rimorde, affrettatevi a riparare il male che avete fatto, e mentre ne siete ancora in tempo, restituite subito, se potete, od almeno lavorate con tutte le vostre forze per restituire ciò che avete male acquistato. Ricordatevi di dire nelle vostre confessioni quante volte avete trascurato di restituire essendo in grado di farlo; poiché avendovene Dio dato il pensiero, sono tante grazie disprezzate. – Vi parlerò anche d’un furto assai comune nelle famiglie, quando certi eredi, al tempo della divisione, nascondono più roba che possono. Questo è un vero rubare e si è obbligati a restituire, altrimenti si è dannati. Vi ho detto in principio, che nulla è più comune della ingiustizia, e nulla è più raro della restituzione: sono pochi, come vedete, quelli che non hanno nulla sulla coscienza. Ebbene! dove sono quelli che restituiscono? Io non lo so. Eppure, F. M., quantunque siamo obbligati a restituire i beni mal acquistati sotto pena di dannarci, quando lo facciamo Dio non lascia di ricompensarcene. Un esempio ve lo proverà chiaramente. Un fornaio, che da molti anni aveva usato falsi pesi e false misure, volendo acquetare la sua coscienza, consultò il proprio confessore, che lo consigliò di usare, per qualche tempo, pesi un po’ più abbondanti. Essendosene sparsa la voce, il concorso dei clienti diventò grandissimo, e, sebbene guadagnasse poco, Dio permise che restituendo, aumentasse considerevolmente la sua fortuna.

III. — Ora, direte voi, possiamo sperare di conoscere, almeno superficialmente, il modo con cui possiamo commettere ingiustizia. Ma come ed a chi bisogna restituire? — Volete restituire? Ebbene! ascoltatemi un momento e lo saprete. Non bisogna accontentarsi di rendere la metà, né i tre quarti; ma tutto, se lo potete, altrimenti vi dannerete. Vi sono di quelli che, senza cercare il numero delle persone alle quali hanno recato danno, faranno qualche elemosina, o faranno celebrare qualche messa; e dopo questo, si crederanno sicuri in coscienza. È vero, le elemosine e le messe sono buonissime cose, ma bisogna che siano fatte col vostro denaro, e non con quello del vostro prossimo. Questo denaro non è vostro; rendetelo al suo padrone, e poi date del vostro, se volete; farete benissimo. Sapete come chiama queste elemosine S. Gio. Crisostomo? le elemosine di Giuda e del demonio. Quando Giuda ebbe venduto nostro Signore, vedendolo condannato, corse a restituire il denaro ai dottori; questi, sebbene avarissimi, non vollero accettarlo; ne comperarono un campo per seppellirvi i forestieri. — Ma, mi direte, quando i danneggiati sono morti, a chi bisogna restituire? Non si può ritenersi il denaro o darlo ai poveri? Amico, ecco ciò che dovete fare. Se hanno dei figli, dovete restituire a loro; se non ne hanno, ai parenti, agli eredi; se non hanno parenti né eredi, andate dal vostro pastore ed egli vi dirà ciò che dovete fare. Altri dicono: Io ho danneggiato il tale, ma egli è ricchissimo, soccorrerò una persona povera che ha molto maggior bisogno. — Amico, a questa persona date del vostro; ma restituite al vostro prossimo ciò che gli avete rubato. — Egli l’adoprerà malamente. — Ciò non v’importa: dategli il suo, pregate per lui e state tranquillo. Ahimè! oggi la gente del mondo è così avara, così attaccata ai beni della terra, che, credendo di non averne mai abbastanza, fa a chi sarà più accorto ed ingannerà meglio degli altri. Ma voi, F. M., non dimenticatevi che se per colpa vostra ad alcuno avete recato danno, quand’anche aveste dato il doppio ai poveri, se non restituirete al padrone ciò che avete rubato, vi dannerete. Io non so se la vostra coscienza è tranquilla; ne dubito molto … Ho detto che il mondo è pieno di ladri e di imbroglioni. I mercanti rubano ingannando coi pesi e colle misure; essi approfittano della semplicità d’una persona per vendere più caro, e per comperare a miglior prezzo; i padroni rubano ai loro dipendenti facendo perdere loro una parte del salario; altri, facendoli aspettare per un tempo considerevole, diminuendo perfino un giorno di malattia, come se avessero preso il male in casa di un vicino e non al loro servizio!… Da parte loro i domestici rubano ai padroni o non facendo il lavoro stabilito, o lasciandone rovinare colpevolmente gli averi; un operaio si fa pagare mentre il lavoro è fatto per metà. Quelli che tengono le osterie, questi serbatoi d’iniquità, porte d’inferno, calvari dove Gesù Cristo è incessantemente crocifisso, scuole infernali dove satana insegna la sua dottrina, dove si distruggono la religione e la morale, gli osti, dico, rubano il pane d’una povera donna e dei suoi figli dando del vino a questi ubbriaconi, che la domenica sprecano tutto il guadagno della settimana. Un mezzadro distrarrà mille cose per sé, prima di dividere col padrone, e non ne terrà conto. Dio mio, dove siamo? Quante cose da giudicare dopo la morte!… Se la loro coscienza grida troppo forte, costoro andranno dal ministro del Signore. Vorrebbero ottenere la remissione del loro debito; se invece vengono sollecitati a restituire, troveranno mille pretesti per provare che altri hanno recato danno anche a loro e che per ora non possono. Ah! io non so se il buon Dio si accontenterà delle vostre ragioni! Se voleste diminuire un po’ quelle vanità, quelle golosità, quei giuochi; andare un po’ meno all’osteria e al ballo e raddoppiare il vostro lavoro, avreste ben presto pagata una parte dei vostri debiti. Ricordatevi, che se non fate il possibile per restituire a ciascuno quanto gli dovete, qualsiasi penitenza facciate, non tralascerete di cadere nell’inferno: statene sicuri!… Troverete molti così ciechi da dire che i figli lo faranno dopo la loro morte. I vostri figli. amico mio, lo faranno al pari di voi. Del resto, volete che della vostr’anima abbiano più cura i vostri figli di voi? Vi dannerete; ecco ciò che vi toccherà. Ditemi, avete soddisfatto voi piccolo ingiustizie dei vostri genitori? Ve ne siete ben guardati, ed i vostri poveri genitori sono all’inferno per non aver restituito quand’erano vivi, fidandosi troppo della vostra buona volontà. Infine, per tagliar corto, quanti tra quelli che m’ascoltano, incaricati dai loro genitori, forse più di venti anni fa, di far elemosine o celebrare messe, l’han fatto? se ne sono ben guardati! Preferiscono allargare le loro possessioni, frequentare i giuochi e le osterie, comperare vanità alle loro figliuole. – S. Antonino racconta che un usuraio preferì morire senza Sacramenti piuttosto che restituire ciò che non gli apparteneva. Egli non aveva che due figli; uno temeva Dio, l’altro no. Quello che si dava pensiero della salute della sua anima fu così commosso dallo stato sciagurato in cui era morto suo padre, che dopo aver usata una parte della sua fortuna per riparare le ingiustizie del padre, si fece monaco per non aver più nulla a cui pensare fuorché a Dio solo. L’altro invece dissipò tutto il suo denaro in stravizi e morì improvvisamente. Ne fu portata la notizia al religioso il quale si mise subito in orazione. Vide in spirito la terra spalancata e, nel suo centro, una profonda voragine da cui uscivano fiamme. In mezzo a queste fiamme suo padre e suo fratello bruciavano e si maledicevano l’un l’altro. Il padre malediceva il figlio, poiché volendo egli lasciargli molte ricchezze, non aveva temuto di dannarsi per lui, ed il figliò rimproverava al padre i cattivi esempi ricevuti. Dovrò io parlarvi di quelli che aspettano fino alla loro morte prima di restituire? Vi proverò con due esempi che, in quel momento, o non lo vorrete, o, quand’anche lo vorreste, non lo potrete più.

1° Non lo vorrete. Si racconta che stando per morire un padre di numerosa famiglia, i suoi figli gli dissero: “Padre, lo sapete, queste ricchezze che ci lasciate, non sono nostre, bisognerebbe restituirle. — Figli miei, disse il padre, se restituissi tutto ciò che non è mio, non vi resterebbe quasi nulla. — Padre, piuttosto che vi danniate, noi preferiamo lavorare per guadagnarci da vivere. — No, figli miei, non voglio restituire; voi non sapete che cos’è l’esser poveri. — Se non restituite, andrete all’inferno. — No, non restituirò nulla. „ E morì dannato… Dio mio! quanto il peccato d’avarizia acceca l’ uomo!

2° Ho detto che, in quel momento quand’anche il voleste, non lo potrete. Un missionario racconta che un padre, vedendo la sua fine prossima, fece venire i figli vicino al suo letto, e disse loro: “Figli miei, sapete che io ho danneggiato molta gente; se non restituisco sono perduto. Andate in cerca di un notaio che abbia da ricevere le mie disposizioni. — Ecchè! padre, gli risposero i figli, vorreste disonorare voi e noi, facendovi passare per uomo disonesto? Vorreste ridurci in miseria e costringerci a mendicare il pane? — Ma, figli miei, se non restituisco mi dannerò! „ Ed uno di quegli empi figliuoli non temette di dirgli: “Padre, voi dunque temete l’inferno? Via, si abitua a tutto: in otto giorni vi sarete già avvezzo… „ – Ebbene, F. M., che cosa concluderemo da tutto questo? Che voi siete estremamente ciechi! Voi perdete le vostre anime per lasciare qualche palmo di terra, o un po’ di beni di fortuna ai vostri figli, i quali lungi, dall’esservene grati, si rideranno di voi, mentre voi brucerete nell’inferno. Finisco dicendo che siamo insensati non pensando che ad ammassare ricchezze, le quali ci rendono infelici mentre le accumuliamo, per tutto il tempo che le possediamo, quando le lasciamo ed anche per tutta l’eternità. Siamo più saggi, F. M., attacchiamoci a quei beni che ci accompagneranno nell’altra vita e formeranno la nostra felicità nei giorni senza fine: ciò che vi auguro…

LO SCUDO DELLA FEDE (178)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XIV)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

VIII. — Il mistero della Grazia.

D. Dicevi testè che la Redenzione non è resa effettiva se non per la restituzione della vita soprannaturale perduta per la colpa. In che consiste esattamente questa vita?

R. L’abbiamo espressa in una sola parola: la grazia. Lì sta il fatto essenziale del Cristianesimo, quello in vista del quale sono istituiti o ci sono rivelati tutti gli altri.

D. Ed è anche un mistero?

R. È un mistero affatto segreto che Dio solo ci può rivelare, e siamo noi stessi uno di questi segreti, sia nella nostra natura profonda, sia in ciò che Dio ne vuol fare.

D. La grazia è dunque un disegno di Dio?

R. È il suo disegno essenziale, ed è poi un fatto.

D. Qual disegno? Quale fatto?

È. Il disegno è di farci figliuoli di Dio in un senso nuovo che la natura non comportava punto, che la pura filosofia deista ignora, e che è propriamente la buona novella evangelica, espressa da queste parole di S. Giovanni: « A tutti quelli che hanno creduto, Egli diede il potere di diventare figliuoli di Dio, a quelli che credono nel suo Nome, e che, non dal sangue e dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio, son nati » (Prologo).

D. Bisogna dunque nascere di nuovo?

R. Tu poni la questione di Nicodemo, quando venne di nottetempo a interrogare Gesù sulla sua dottrina: io non posso che ripeterti la risposta di Gesù a Nicodemo: « Nessuno, se non rinasce dall’acqua e dallo Spirito, può entrare nel regno di Dio ».

D. Tu dici che lì sta l’essenziale? Io credevo che l’essenziale del Cristianesimo fosse nell’adesione a Cristo.

R. L’adesione a Cristo non ha ragione di essere e non vuole altro effetto che l’effusione in noi dei doni divini che Cristo ha ricevuto per il genere umano. Cristo è il « Ceppo », e noi siamo i tralci, e il ceppo non è fatto che per i tralci e per i grappoli. Quando riceviamo la grazia, noi diamo a Cristo la sua ragione di essere con quella della nostra adesione. La Trinità non ci fu rivelata se non come la sorgente di questo fatto, l’Incarnazione come il suo agente, la Redenzione come la sua condizione e il suo prezzo. La Chiesa, con tutto quello che porta in sé, ne sarà lo strumento.

D. Vuoi precisarmi che cosa è la grazia?

R. Si chiama grazia, in generale, ogni favore che Dio ci fa, nell’ordine soprannaturale in cui ci ha collocati. Vi sono delle grazie esteriori, come la Redenzione stessa, gli esempi e le esortazioni di Gesù Cristo o dei Santi, il ministero della Chiesa, etc. Ce ne sono delle interiori, come i doni di lume e gli stimoli segreti che ci spingono al bene. In questo dominio segreto, si distinguono due sorta di grazie: la grazia abituale, o santificante, che si può conservare o perdere, ma che, per sé, ci è data per sempre, e le grazie attuali, destinate a procurare atti virtuosi.

D. Queste sono divisioni; io domandavo che cosa è veramente la grazia in sé, e che cosa tu intendi per quest’ordine soprannaturale di cui si tratta dall’inizio dei nostri discorsi.

E. Io aspettavo questo momento per spiegarmi in proposito, e la Spiegazione chiarirà, come spero, tutto quello che abbiamo detto, come quello che deve seguire.

D. La grazia deve affiliarci a Dio?

R. Noi siamo dei figli di Dio per natura; la creazione di cui abbiamo stabilito la nozione precisa, ci mette in relazione necessaria e permanente col nostro Principio. Ma la relazione tra due esseri può essere più o meno stretta, e quando si tratta di relazioni che arricchiscono, come quelle che ci rilegano a Dio, la ricchezza può essere più o meno preziosa e appartenere ad ordini diversissimi. La creazione ci arricchisce per se stessa del nostro essere e della nostra natura ragionevole; ci dà un corpo ed un’anima, delle facoltà vitali, dei poteri di sensazione e di pensiero; ci assegna in sorte la cognizione e l’uso di questo mondo, e inoltre, per la filosofia nel suo più alto insegnamento o per istinto religioso che la sostituisce, il conoscimento astratto e il culto ragionevole del divino.

D. Non basta questo?

R. Noi non possiamo spingerci più lontano del fatto della nostra natura stessa e del suo funzionamento proprio. Ma, osserva S. Tommaso, dovunque noi vediamo delle nature coordinate, ciascuna di esse, oltre il suo movimento proprio, ubbidisce a un movimento che le è impresso dalla natura superiore. In questo modo il mare, lasciato a se stesso si estende a guisa di velo e sposa la forma del suo pianeta; ma gli astri lo attirano e, gonfiando la sua massa, producono il fenomeno delle maree, che non gli è naturale se non lo si considera come in composizione con gli astri. Ora, aggiunge egli, l’uomo è rilegato a Dio per la sua attività intelligente, poiché l’intelligenza gli permette di raggiungere l’universale a proposito degli oggetti dell’esperienza, mettendolo per questo solo, sulla strada del principio dell’universale, che è il Primo Principio. Sarà dunque normale e conforme ad un’induzione costante che la natura umana si sviluppi sopra un duplice piano. Quello che la sua natura determina, tal quale ce la rivela l’analisi, e quello al quale vorrà elevarlo quel motore supremo, buono e magnifico, che noi chiamiamo Dio.

D. Questa teoria è interessante; è propria di S. Tommaso d’Aquino?

R. Essa era stata abbozzata da parecchi filosofi dell’antichità. Aristotile ne fornì i lineamenti nella sua celebre interpretazione del genio, genio dell’intelligenza o genio della virtù, che, secondo lui, non sarebbe altro che un’irruzione subitanea del divino che si sostituisce ai nostri ragionamenti e alle nostre prudenze, per portarci più in alto e più lontano. La Morale di Eudemo, uscita immediatamente dalla sua intelligenza, ci presenta a questo proposito una pagina mirabile, e Plutarco, in cui si trova un riflesso di ciò che vi è di meglio nella filosofia antica, scrisse nel Banchetto dei sette sapienti questo passo meraviglioso che suscitava in Gratry l’entusiasmo: «Il corpo è lo strumento dell’anima e l’anima è io strumento di Dio. E come il corpo ha dei movimenti che gli sono proprii, ma ne ha altri più belli che gli vengono dall’anima, così l’anima ha il suo ordine proprio d’azioni e di movimenti, ma può anche, come il più perfetto degli strumenti, lasciarsi dirigere e muovere da Dio, che agisce in lei. Che se il fuoco, il vento, l’acqua, le nubi sono strumenti di Dio per la vita e per la morte, chi crederà che gli esseri viventi non si possano adattare alla forza di Dio, e lavorare con questa forza, e ispirarsi ai movimenti di Dio, come la freccia ubbidisce agli Sciti e la lira agli Elleni? ».

D. È evidentemente la teoria di S. Tommaso.

R. Bada bene; S. Tommaso ne fa un uso assai più ardito, sostenuto dalle rivelazioni evangeliche, donde vengono per noi le certezze e le ispirazioni superiori. Ciò che l’antichità sospetta, è che Dio opera in noi per portarci più lontano che non potremmo andare da noi stessi, per esempio, per farci vedere, nelle ore d’ispirazione, quello che rimane oscuro alla nostra intelligenza ragionante; per alzarci, in quello slancio che noi chiamiamo eroismo, al di sopra della debolezza del nostro volere. Ma i dominii di vita in cui quest’azione complementare ci spinge, sono nondimeno dei dominii del nostro ordine umano; quello che a noi ne verrà sarà della stessa natura che i risultati ottenuti da sforzi virili. La nostra vita resta nella sua essenza, nelle sue operazioni naturali, nel suo valore d’oggetti; non è cambiato altro che l’ampiezza del gesto, e noi non diventiamo divini pur essendo mossi così dalla Divinità.

D. Perché diventare divini?

R. Così vuole la divina munificenza, e ciò non avviene, ho detto, senza una profonda armonia con la nostra natura. «Il Vangelo soddisfa la coscienza perché la oltrepassa», serive Carlo Secrétan.

D. Tu dici dunque, lasciando l’antichità

E. Che il pensiero cristiano va più oltre; che esso intende di unirci a Dio non più solo come il mobile al suo motore, restando ciascuno dei due nel suo ordine, ma nel modo intimo che permetterà la comunicazione delle vite, in tal maniera che i pensieri e gli amori siano comuni, le vite mescolate, gli oggetti identici, e che io, Cristiano, possa sentire, o ad ogni modo riconoscere « qualcuno che sia in me più me stesso di me» (PAOLO CLAUDEL).

D. Non capisco una tale pretesa.

R. Rappresentati la gamma delle relazioni supponibili tra Dio e la sua creatura. L’uno degli estremi è abbastanza bene rappresentato dal razionalismo deista, il quale vede Dio che interviene nelle nostre vite soltanto per l’intermedio delle leggi generali. L’altro estremo sarebbe fornito dal panteismo, che confonde Dio e l’uomo nell’unità d’una stessa sostanza. Tra i due c’è posto per innumerevoli intermedi; ma il più vicino al razionalismo puro sarebbe quello che abbiamo ora incontrato nei nostri antichi filosofi, e il più vicino al panteismo, del quale esso si appropria la profondità di dottrina rigettando i suoi eccessi, è il sistema cristiano del soprannaturale. Noi ne abbiamo trovato il tipo in Cristo, ed era di diritto, poiché il nostro capo di stirpe soprannaturale è Lui stesso, nella sua umanità fraterna, paterna, solidale su ogni punto della nostra.

D. Cristo non è Dio?

R. Cristo è Dio, e a questo titolo, dicevamo, Egli realizza una sorta di panteismo individuale, in ciò che noi possiamo dire, designando la sua Persona: Questi è Dio, come Anassimene, mostrando con un largo gesto il cielo e la terra, diceva: Tutto questo è Dio. Ma questo fatto non annulla punto la sua umanità. Questa umanità unita a Dio in persona serba il suo funzionamento proprio, sopraelevato però da una tale unione, e l’essenza del soprannaturale si rivela appunto in questo funzionamento di una umanità « piena di grazia ».

D. Io ne richiedo ancora il dato preciso.

R. Si tratta di un’unione di conoscimento e di amore, di un’intuizione dell’intelletto, di un’interpenetrazione dei cuori, di una comunicazione delle vite che introduce l’umanità stessa nella Trinità, e non forma più che una sola vita delle due vite naturali infinitamente disparate.

D. Parli sempre di Cristo?

R. Parlo di Cristo anzitutto; perché Cristo per il primo godeva di questi privilegi, e vedeva Dio, lo provava, lo viveva come noi vediamo e proviamo coi nostri sensi gli oggetti di questo mondo, in tal modo che la sua vita era a un tempo terrestre e celeste. Ma questo stato di grazia — poiché anche in Cristo è una grazia, benché sia una derivazione naturale della grazia prima che è la « grazia d’unione » — questo stato, dico, ci è comunicato nel suo fondo, se noi prestiamo ai meriti di Cristo l’adesione dell’anima nostra. Noi non ne godiamo subito come Lui, perché abbiamo prima da cooperare e non pretendiamo alla sua dignità eminente; ma ne abbiamo in noi il germe, come il bambino prima di nascere ha in germe la vita e il pensiero. Ed è questo germe, questo grano di immortalità beatifica, d’intuizione trascendente, d’amore infinito, che noi chiamiamo grazia santificante. Per essa noi acquistiamo il potere, come diceva S. Giovanni, di esercitare verso Dio il compito di figliuoli nella sua pienezza, cioè di condividere la sua vita intima, di conoscere Lui stesso e tutto quello che Egli conosce, di amare quello che Egli ama e volere quello che Egli vuole come oggetti oramai nostri, connaturali all’anima nostra trapiantata, come il sensibile e i suoi oggetti sono a noi qui connaturali. Vedete, dice S. Giovanni, quale amore il Padre ci ha dimostrato, perché noi fossimo chiamati e fossimo realmente figliuoli di Dio. Adesso noi lo siamo; ma quello che saremo un giorno non e ancora stato manifestato. Noi sappiamo che quando questo sarà manifestato, saremo simili a Dio, perché lo vedremo tal quale Egli è. Per vedere Dio tal quale è, bisogna essergli simili a qualche titolo, poiché questo non è naturale che a Lui. Egli lo rende naturale a noi stessi comunicandoci questa nuova natura, questa natura soprannaturale che è la grazia.

D. Tutto questo rasenta la follia. I personaggi dell’Areopago ne avrebbero riso di cuore.

R. Essi ridevano anche della follia della croce, che fece la sua strada nel mondo. È appunto la follia della croce che richiede questo contrappeso, che spiega queste mire sublimi. Convenne che Cristo morisse per entrare nella sua gloria e perché noi vi salissimo con Lui; ma bisogna reciprocamente che noi saliamo nella gloria dove sale Cristo, per giustificare una tale morte. Quando il sole scende nella notte sanguigna, è per preparare l’alba e il meriggio; questa caduta d’astro è un pegno; un tramonto di sole non è che un’aurora anticipata: così la caduta di un Dio nella vita e nella morte umana è il pegno dei nostri supremi fini.

D. Ancora bisogna tenersi nel verosimile.

E. Il verosimile è sempre oltrepassato da Dio. Quante inverosimiglianze, già, nella natura! In fondo, tutto è inverosimile; lo diciamo verosimile dopo. Ad ogni modo una questione come questa è a noi superiore. «Se si vuole dire che l’uomo è troppo poco per meritare la comunicazione con Dio, bisogna essere ben grande per giudicarne » (PASCAL).

D. Le tue Scritture nel loro insieme appoggiano queste straordinarie pretese?

R. Senza ciò, noi non ci permetteremmo mai di aprire la bocca in proposito. Io ho testè citato Giovanni; ma questa dottrina è comune nel Nuovo Testamento. « Voi sarete partecipi della stessa natura di Dio », diceva S. Pietro ai suoi fedeli, e S. Paolo: «Quando il perfetto sarà venuto, quello che è parziale e incompleto in noi avrà fine. Conosciamo adesso come in uno specchio in modo oscuro; ma allora vedremo il divino a faccia a faccia. Ora conosco in parte; ma allora conoscerò come sono conosciuto » (I Cor., XIII).

D. La grazia, dici, presagisce questo stato; come intendi tu î loro rapporti?

R. Io, per figurarlo, ho usato l’immagine del grano, del germe, e con ciò intendo che in ragione dell’unità della nostra vita, naturale o soprannaturale, si deve trovare al punto di partenza, virtualmente, quello che si troverà sviluppato al termine. Ogni termine qualifica le tappe che lo preparano. Nessuna evoluzione si concepisce se non per trasformazione successiva di un elemento già differenziato e in relazione specifica con l’ultimo effetto. Perché la quercia sia quercia, bisogna che la ghianda sia ghianda, cioè non una quercia in piccolo, come credevano antichi naturalisti, ma una quercia in potenza. Nello stesso modo, se l’uomo dev’essere un giorno divino, nel senso partecipato che abbiamo definito, bisogna che sia tale fin di qui nello stesso senso, con la sola differenza tra la pianta sviluppata e il suo germe.

D. In altre parole?…

R. Voglio dire che l’uomo, portato dalla Divinità così come ogni creatura, deve di più essere pervaso di essa, unito ad essa più a fondo, invaso nel suo essere e nei suoi poteri da quello stesso influsso di cui noi pensiamo che vive Dio e che chiamiamo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l’agente proprio della grazia; è Lui che effettua questa compenetrazione del divino e dell’umano nell’uomo rigenerato, nuovamente generato per una vita nuova. Egli è per questo fatto «l’anima dell’anima nostra », dice S. Agostino, perché la relazione dell’anima al corpo, come principio di vita, si riscontra in un grado superiore tra l’anima nostra e l’influsso divino che la mette in azione. L’anima informa il corpo; la grazia informa l’anima nostra, e per essa tutto l’essere, per renderlo più divino. Per questo fatto, si dice che Dio lo abita.

D. Abitazione metaforica!

R. Abitazione misteriosa, ma reale, sotto gli auspizi della grazia, e questa abitazione di Dio in noi è agli occhi nostri tutta la religione, poiché è il vincolo solido, quello, non puramente ideale, che ci lega all’oggetto religioso, alla Divinità in persona.

D. L’individualità umana, in tali condizioni, può ancora sussistere? Che cosa diventano le nostre facoltà, e di qual libera azione sono ancora suscettibili?

R. Dio non distrugge niente di ciò che Egli tocca, poiché non tocca se non per vivificare. La sua sopracreazione rispetta în tutto la creazione primitiva. Le nostre facoltà sono sopraelevate e rafforzate per il contributo divino della grazia, senza perdere nulla della loro autonomia e dei loro caratteri. Quello che è grazia santificante nell’anima presa nella sua entità fondamentale, nella sua essenza, come noi diciamo, diventa virtù soprannaturale nell’incanalarsi nelle nostre varie facoltà. Nel nostro intelletto è la fede, che si sovrappone alle nostre cognizioni naturali senza contradirle; nella nostra volontà e nella nostra sensibilità, sono la speranza, la carità, le virtù morali soprannaturali, e inoltre, aggiungendovisi come il genio alla scienza e l’eroismo alla virtù, ciò che noi chiamiamo i doni dello Spirito Santo, disposizioni interiori procedenti a modo dell’istinto, quando le virtù si valgono dei procedimenti razionali dei quali la deliberazione è il tipo.

D. E qual è qui l’essenziale?

R. È la carità, l’amore. Onde l’ordine soprannaturale è chiamato comunemente l’ordine della carità, come si vede in Pascal. Lì è il centro della nostra vita soprannaturale, e per conseguenza lì sta il suo principio organizzatore. La grazia di Dio opera nell’anima il medesimo effetto che lo Spirito sopra il caos primitivo. Il nostro ingresso nella vita divina, che è armonia e dirittura, luce e forza, si effettua sotto questo segno dello Spirito, che è l’Amore vivente, e noi siamo, per questo fatto, sotto una legge d’amore, scritta, dice S. Paolo, non su tavole di pietra, ma su tavole di carne, nei nostri cuori.

D. Ciò esclude evidentemente il male morale?

R. La grazia e il male sono per sé incompatibili; perciò chiamiamo un peccato grave un peccato mortale, perché trae seco la morte dell’anima riguardo a quella vita soprannaturale che noi descriviamo. Parimenti chiamiamo la venuta nello stato di grazia una giustificazione, perché l’uomo in grazia è necessariamente un giusto, un essere gradito a Dio, un figlio di adozione, un fratello di Cristo, perciò un erede del regno che Gesù Cristo conquistò, un «tempio » dello Spirito Santo e di tutta la Trinità, le cui missioni nell’anima sono uno degli arcani più sottili della fede.

D. Sono questi per te veramente dei fatti psicologici, e non solo dei dati morali?

E. Sono dei fatti di biologia spirituale, se così posso dire, dei modi reali dell’essere, dei fenomeni di vita.

D. Allora come non ne abbiamo coscienza?

E. Un sommo psicologo non ne converrebbe affatto. Maine de Biran (Journal, 20 dicembre 1823) scrive: « Adesso intendo la comunicazione interiore d’uno Spirito superiore a noi, che ci parla, che noi udiamo dentro, che vivifica e feconda il nostro Spirito senza confondersi con esso; infatti noi sentiamo che i buoni pensieri, i buoni movimenti non nascono da noi stessi. Questa comunicazione interna dello Spirito col nostro spirito proprio, quando sappiamo invitarlo o preparargli una dimora dentro, è un vero fatto psicologico, e non di fede soltanto. »Tuttavia bisogna riconoscere che di solito lo stato soprannaturale in se stesso non può essere l’oggetto di una certezza sperimentale. Onde S. Paolo dice che assolutamente parlando nessuno sa se sia degno di amore o di odio. Ma si può discernere l’albero da’ suoi frutti. Il modo di vivere, il modo di comportarsi riguardo al soprannaturale, ecco il segno, e questo segno è moralmente sicuro, senza che vi sia bisogno di una evidenza immediata, di un contatto.

D. Resta la stranezza di un’armatura spirituale completa di cui non abbiamo affatto coscienza.

R. Abbiamo noi coscienza dell’incosciente, la cui esistenza è così certa? Abbiamo anzi coscienza della circolazione del sangue? Un fenomeno così grossolano non è stato scoperto che dopo secoli di studi fisiologici, e certi sapienti non ci vollero punto credere. Una folla di correnti ci attraversano o si sprigionano da noi senza che ne siamo avvertiti dalla minima sensazione.

D. Tu ammetti qui, ad ogni modo, un miracolo permanente.

R. Non è un miracolo più di quello che sia un miracolo il sollevarsi dell’acqua nel fenomeno delle maree. È un ordine nuovo, è vero, ma che si presenta come in continuità con tutti gli altri, nell’interno del piano divino. La vita della grazia si sovrappone alla vita naturale dell’anima che essa impregna, come questa all’attività cerebrale, questa all’azione fisico-chimica del corpo e questa all’inerzia materiale.

D. Ma questo stato soprannaturale, identico in tutti i « giusti », non è la rovina delle originalità e delle iniziative? Tutti nello stesso stampo, sia pure uno stampo divino, questo non è un ideale.

R. Comprendere così le cose sarebbe commettere un grosso controsenso. La grazia è la stessa per tutti come soprannaturale e adattata alla natura comune; ma ho già detto che essa è ricevuta in ciascuno secondo le sue particolarità, e, salvo il male, essa rispetta queste ultime. L’Incarnazione non tolse a Cristo uomo i suoi caratteri individuali, neppure quelli della sua stirpe: a molto più forte ragione la grazia non altera i nostri, giacché la nostra personalità non è assorbita da Dio, come fu quella di Cristo. Anzi la grazia consacra e intende di effettuare superiormente ciò che si potrebbe chiamare la nostra vocazione di natura, essa vuol fare con noi la nostra opera propria; sposa il nostro caso e lo favorisce sotto il nome di grazia di stato. Si può essere sicuri che un essere è molto meglio se stesso, quando per la grazia è purificato da’ suoi difetti e sollevato in tutti i suoi mezzi. Alla fine di questo lavoro, la gloria, che espande la grazia, ciascun uomo apparisce, secondo il celebre detto di Mallarmé: « e quale in se stesso finalmente l’eternità lo cambia ». Egli è cambiato, ma in se stesso, in ciò stesso che ideò il Creatore e che le nostre miserie terrene ricoprivano, e per di più in un se stesso trasposto, realizzato in un modo superiore, come di una melodia scritta in un tono più alto.

D. Hai parlato di grazie attuali: qual è la loro nozione?

R. Noi chiamiamo così ogni soccorso soprannaturale di Dio che non ha più un carattere permanente, ma occasionale. Può essere un lume nella nostra intelligenza, uno stimolo della nostra volontà, un movimento felice della nostra sensibilità il tutto in vista del nostro bene spirituale. Secondo i suoi effetti, si dirà di questa grazia che essa ci eccita, ci aiuta, ci guarisce, ci eleva. Si chiamerà efficace se essa porta fino all’azione, o sufficiente se è lasciata all’uso del nostro libero arbitrio. Ma in tutti i casi essa esige la nostra cooperazione. Non ci si salva senza di noi.

D. La grazia dunque non è che una prevenienza di Dio.

R. È più che una prevenienza, perché anche alla risposta Iddio coopera, allorché alle sue prevenienze noi non cooperiamo. Dio è sempre il primo, Dio è sempre il più forte, specialmente in amore. Egli viene, e noi gli andiamo incontro; ma, anche Lui che è dovunque e mescolato a tutto viene con noi, al suo proprio incontro. Che cosa si farebbe, o uomini, in questo ordine che sorpassa l’uomo, senza questo compagno divino?

D. Non si può fare nulla di bene senza la grazia?

E. Si possono fare delle buone azioni senza la grazia, checché ne abbiano detto i luterani e i giansenisti, per i quali la natura umana, totalmente corrotta dal peccato di origine, non sarebbe capace che di male. Ma senza la grazia non si può fare nulla di efficace per la salute, che è soprannaturale; si è solamente ad essa preparati e messi sulla sua strada. Di più, senza la grazia, non si potrebbe evitare, in tutto il corso di una vita, ogni colpa grave contro la legge morale. E noi crediamo ancora giustamente necessario un soccorso speciale, per ottenere quello che chiamiamo la perseveranza finale.

D. Credi possibile, con la grazia, di evitare ogni colpa qualsiasi, anche la più leggera?

R. Praticamente, no; lo spirito umano è troppo incostante; troppe occasioni e accidenti interni o esterni ci sorprendono. Si può evitare ciascuna colpa presa a parte; ma per vincere sempre e non essere mai feriti, noi crediamo indispensabile un privilegio fuori dell’ordinario, che per quanto sappiamo non si è riscontrato che due volte: in Gesù e nella sua purissima Madre.

D. Avendo in sé la grazia che tu chiami santificante, si può  senza la grazia attuale, essere Santi?

R. Anche qui, diamo la stessa risposta. Teoricamente, è possibile; ma praticamente, ci son veramente necessarie grazie attuali, grazie d’occasione. Per quanto armata e coraggiosa sia una milizia, può sempre evitare di ricorrere al suo capo per chieder rinforzo?

D. Il «rinforzo » è qui assicurato?

R. È di fede che tutti i giusti ricevono le grazie necessarie alla loro perseveranza nel bene, tutti i peccatori le grazie necessarie alla loro conversione e alla loro salute, tutti gl’infedeli le grazie che, se vogliono, li condurranno, sia alla fede esplicita, sia ai supplementi morali e soprannaturali della fede.

D. Pare che questa dottrina sia uno sforzo di equilibrio tra il tutto o il niente delle dottrine estreme.

R.. Tommaso scrisse queste belle parole: «La Chiesa santa e apostolica tra due siepi di errori, ben in mezzo alla strada, va con un passo lento ».

D. La dottrina della grazia urta però legittimi orgogli.

R. Quale sorta di orgoglio potrebbe veramente essere qui legittima? « Che bella cosa, scrive Pascal, gridare a un uomo che non conosce se stesso che egli vada da se stesso a Dio! E che bella cosa dirlo a un uomo che conosce se stesso! ». E ancora: « Per fare d’un uomo un santo, è indispensabile che intervenga la grazia, e chi ne dubita non sa che cosa sia un santo e che cosa sia un UOMO ».

D. Ciò non favorisce quelle eresie contrarie che poco fa condannavi?

R. L’uomo s’immagina alternativamente, e alle volte nello stesso tempo che egli può tutto senza Dio e che non può niente, anche con Dio: la Chiesa gl’insegna che egli non può niente senza Dio e tutto con Dio. In tal modo essa crede di onorarlo e d’incoraggiarlo di più; perché l’onore dell’uomo è in quello di Dio, e in Dio la sua forza.

D. L’uomo da solo compie spesso delle belle opere.

R. Compie delle opere magnifiche, ma in collaborazione con la natura e armandosi delle forze universali, delle quali egli stesso non è fisicamente che un punto di concentramento. Ve ne sono anche nell’ordine spirituale, e più ancora nell’ordine soprannaturale. La grazia è un collegamento, in noi, per l’utilizzazione delle forze eterne. Vorrà l’uomo compiere senza Dio un’opera divina, dal momento che non può agire in questo mondo se non utilizzando la materia che insozza i suoi piedi?

D. Ma dov’è allora il merito umano?

R. Il merito umano non può essere un merito solitario, perché l’uomo non è mai solo; ma pure è un merito, perché ciò ch’egli fa con un soccorso normale, lo fa veramente lui, ed è normale altresì che egli ne abbia il benefizio. Per giunta, quello che Dio ci dà non ci appartiene forse, e i meriti di Cristo non sono forse nostri? Che Dio, coronando le nostre opere, non faccia altro che coronare i suoi propri doni, come dice S. Agostino, ciò non impedisce che egli ci coroni. Dio incomincia, ci mette sulla strada; accompagna il viaggiatore, ed è lui che ci riceve; ma ciononostante si cammina.

D. Si può meritare l’aumento della grazia?

R. Sì, ma con la grazia, poiché senza di essa non si può nulla.

D. Si può dunque meritare la prima grazia?

R. La sua stessa definizione vi si oppone. Ho detto però che uno vi si può disporre.

D. Il peccatore destato da una prima grazia può meritarne altre e la conversione stessa?

R. Strettamente no, poiché non si merita propriamente se non essendo amico di Dio; ma alla bontà che lo ha così prevenuto conviene rispondere al suo buon volere e compiere l’opera sua.

D. E si merita la gloria?

R. Nelle medesime condizioni, e si merita pure che essa si aumenti.

D. Che dici del merito per altri o in vista di altri?

R. Non si può salvare un altro senza che lui stesso lo voglia, ma gli si può meritare soccorso, in ragione della nostra solidarietà in Gesù Cristo e nella comune paternità divina. Ecco un caso di ciò che noi chiamiamo la comunione dei santi.

D. Che avviene quando si sono acquistati dei meriti e si pecca poi gravemente?

R. I meriti periscono, perché non si può essere a un tempo separato da Dio e meritevole davanti a Lui; ma se si rientra nella sua amicizia, i meriti rivivono.

D. Rivivono anche le colpe perdonate, quando si ricade?

R. No, e in ciò splende la bontà del nostro Dio, che ricorda il bene e dimentica il male. Non si può tuttavia fare a meno che ne sussistano le tracce, e grande a questo riguardo è la differenza tra il peccatore che ricade e il peccatore che si rialza; perché sul primo gli effetti di antichi peccati sono un peso di più, mentre al secondo servono di scusa. Nel capitolo della Penitenza, del resto, noi ritroveremo questo caso.

D. Quali sono, secondo te, i rapporti di questo regime individuale e interindividuale della grazia con lo stato sociale?

R. Essi sono stretti, e i loro effetti riconosciuti sarebbero immensi. Avendo la grazia per compito di raddrizzare la natura individuale, di sopraelevarla conforme a se stessa e in tutti i suoi aspetti, di aiutarla in tutte le sue attribuzioni, è chiaro che la grazia prepara alla società degli elementi scelti e favorisce l’uso di questi elementi in tutti gli ordini di fatti che la società abbraccia. Essa tende a frenare le forze cattive che mantengono il disordine e intralciano il progresso; dispone le menti alle sane concezioni e alle utili riforme; calma le impazienze perturbatrici; dà come base alla costruzione sociale una famiglia purificata, consolidata dall’unità e dall’indissolubilità del matrimonio, perciò conforme alle esigenze di una società veramente in progresso; con la carità unita alla giustizia, essa aiuta la concordia degli elementi del lavoro, la ricerca e l’accettazione delle combinazioni economiche favorevoli, l’elaborazione e il funzionamento d’una buona politica nazionale e d’una politica di pace.

D. Ammetti tu la reciproca?

R. Essa è di diritto. Poiché la grazia si deve adattare a nature individuali definite e attive, non a una materia anonima e inerte, vi è interesse per essa e per il suo lavoro sovrumano a che le nature individuali siano prese in quadri sociali ben concepiti e funzionanti normalmente. Come base di azione soprannaturale, nulla è meglio che individualità umane « qualificate », e se è possibile superiormente qualificate.

D. Vi è dunque un parallelismo sociale tra la grazia e la natura, come tu hai riconosciuto tra esse un parallelismo individuale?

R. Socialmente come individualmente vi è di fatto un avviamento parallelo e concertato della grazia e della natura. Questo si concepisce subito, se si osserva che la nostra natura è sociale, e solo per astrazione si può distinguere.

D. Vorresti riassumermi in due parole che cosa è il tuo soprannaturale?

R. È un modo di essere e di agire che è naturale solo a Dio e che Dio ci comunica. È la vita intima della Trinità, nella quale noi entriamo.

D. È dunque una vita in due mondi?

R. La nostra conversazione è in cielo, dice S. Paolo. La nostra società con Dio non dipende da nessun mondo; essa comporta solo delle tappe, richieste per il necessario uso della nostra libertà. È presentemente una società per meritare e lavorare alacremente, in attesa del fine e del godimento.

D. Il divino nell’umano, insomma, e umano nel divino?

R. Satana aveva promesso ad Adamo e ad Eva che sarebbero come dèi. « Gesù Cristo mantiene la magnifica promessa del demonio » (MALEBRANCHE).

IL SEGNO DELLA CROCE (6)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (6)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA QUINTA.

30 novembre.

Il segno della croce ci nobilita. — Desso è il segno del fiore della umanità. — Il blasone del cattolico. — Quel che sia un cattolico. — II segno della croce nobilitandoci c’insegna il rispetto di noi stessi. — Importanza di tale insegnamento. — Onta di chi non fа il segno della croce. — Quadro del disfreno ch’eglino hanno per se stessi.

Ho detto, mio caro Federico, che il segno della croce è un segno che nobilita, perché quanto è divino nobilita. Questa sola ragione basterebbe; ma nondimeno continuandomi dico, che questo segno ci nobilita perché desso è il segno del fiorе della umanità. V’hanno mai pensato i compagni tuoi? Chi non si segna, ed ancor più, chi ha onta di questo segno, resta misto e confuso con i pagani, i musulmani, i giudei, gli eretici, i cattivi cattolici, infine con le bestie; è quanto dire, con la feccia della creazione. Che ne pensi tu? Non dobbiamo andare superbi di un segno che ci distingue sì nobilmente da tutti quelli che non lo hanno?  Il figlio ascrive a gran ventura essere membro di una famiglia veneranda per l’antichità sua, illustre per le gesta, rispettabile per le virtù, potente per le ricchezze. Egli pensa parimente del suo blasone. Lo fa scolpire in pietra, in marmo, in argento, in oro, in agata, ed in rubini; lo pone sulla sua abitazione, lo fa modellare su la mobilia, designare sul vasellame, e sui pannilini, lo fa incidere sul suo suggello, dipingere sulla sua carrozza, orna di esso i fornimenti de’ suoi cavalli, vorrebbe scolpirlo sulla propria fronte. Se tu ne togli la vanità, egli ha ragione. La sua condotta proclama altamente la legge pereminenza sociale, la solidarietà. La gloria degli avi, ègloria dei figli, èun patrimonio di famiglia. – Come cattolico, il segno della croce èmio stemma. Esso dice a me ed a tutti la nobiltà della mia schiatta, la sua antichità, le sue gesta, le glorie e le virtù sue. Come non andarne superbo? Io rinunzierei al sangue illustre, che mi corre per le vene! Indegno di avere un gran nome, rigetterei vigliaccamente la legge della solidarietà gettando nel fango le mie insegne gentilizie, ed al vento la ricca eredità degli avi miei. Gli uomini sono lieti di appartenere ad una grande nazione aristocratica. Lo Spagnuolo d’essere Spagnuolo, l’Inglese d’essere Inglese, ed il Francese d’essere Francese, l’Italiano di essere Italiano, come tutte le altre grandi nazioni. Dimmi, amico mio, qual è la nazione più grande, e la più aristocratica del pianeta? V’ha una nazione che tutte vinca in antichità, che conti fra i suoi membri un numero, che avanzi quello delle nazioni testé nominate? Una nazione che per i suoi lumi brilli come il sole nel firmamento; che essenzialmente espansiva, a prezzo di proprio sangue abbia sottratto il genere umano alla barbarie, e gli dia modo da non ricadervi, e che la storia ed il mappamondo ne facciano fede? Una nazione che veda e sola, nel mezzo de’ suoi figli, quanto l’uomo ha conosciuto di meglio in fatto di genio e di virtù, di scienza e di coraggio, legioni intere di dottori, di vergini, di martiri, di oratori, filosofi, artisti, i grandi legislatori, i buoni re, i guerrieri illustri di tutte le parti del mondo; una nazione altrettanto più aristocratica, che tutte le altre da essa debbono ripetere la loro superiorità? Che che si dica, e che che si faccia, la storia ha nominato la grande NAZIONE CATTOLICA. IO le appartengo: il segno della croce è. il suo stemma: potrei averne onta? Dio stesso ha voluto mostrare con strepitosi miracoli, quanto sia in onore agli occhi suoi la persona ed il membro che fa il segno della croce. Santa Èdita figlia di Edgardo re d’Inghilterra sin dalla infanzia fu tenerissima del segno della croce. Questa giovane principessa, uno de’ più belli fiori olezzanti verginità, che abbia ornato l’antica isola dei santi, nulla operava senza che innanzi segnasse il fronte ed il petto dello stemma de’ cattolici. A sfogo di sua devozione fece edificare una chiesa in onore di S. Dionisio, e pregò S. Dunstan Arcivescovo di Cantorbery per la solenne dedicazione. Il santo consenti volentieri, e nelle diverse conversazioni che tenne seco lei, ammirò che la giovane principessa, come i primi Cristiani si segnava frequentemente col pollice la fronte. Tale divozione tornò si cara al santo, ch’egli fe’ voti a Dio perché benedicesse questo pollice, e Io preservasse dalla corruzione della tomba. La preghiera fu esaudita. Quinci a poco tempo la vergine moriva al 23″ anno dell’età sua ed apparsa al santo gli disse: disumate il mio corpo, desso è incorrotto, eccetto le parti di che feci mal uso nella leggerezza della mia infanzia. Queste parti erano gli occhi, i piedi e le mani, eccetto il pollice con che faceva in vita il segno della croce. – Al punto di vista dell’onore gli avi nostri aveano eglino torto di fare si soventemente il segno della croce? E noi; abbiamo noi ragione di non più farlo? Ah! ch’eglino aveano ben altrimenti da noi la coscienza di loro nobiltà, ed il sentimento della dignità loro. Così ripetendosi di continuo nobiltà obbliga, non mi meraviglio che abbiano formato una società unica negli annali del mondo per l’eroismo di sue virtù: fra poco l’intenderai.- II primo sentimento, che il segno della croce sviluppa in noi nobilitandoci agli occhi nostri istessi, èil rispetto di noi medesimi. Il rispetto di noi medesimi! io dico, caro amico, una grande parola. Volgo io sguardo all’intorno, e vedo un secolo, un mondo, una gioventù che non rifinisce di parlare di dignità umana, di emancipazione, di libertà. Queste parole vuote di senso, o che uno ne raccolgono cattivo, rende il secolo, il mondo, la gioventù insofferente d’ogni maniera di governo ed impaziente del giogo d’ogni autorità divina, civile e paterna, corre all’impazzata dicendo a quanti incontra: Rispettami!  Benissimo; ma se vuoi essere rispettato, comincia tu a rispettar te stesso. Il rispetto degli altri, a nostro riguardo, è in ragione di quello che noi stessi abbiamo per noi. La crudeltà, l’ipocrisia, il sensualismo, il vizio orpellato, nascosto, ricco, coronato, possono inspirare timore, ma ottenere rispetto giammai. Ora l’uomo attuale giovane o vecchio che sia, che non si segna dello stemma cattolico si rispetta? Facciamo un saggio di autopsia.  La parte più nobile dell’uomo è l’anima, e di questa la facoltà, che vince in dignità le altre, è l’intelligenza. Vaso prezioso, formato dalla mano di Dio a raccogliere la verità, e solo la verità, di modo, che quanto non è verità la rende immonda e profana. L’uomo attuale rispetta la intelligenza, le lascia libero il cammino alla verità? Egli non ha che disgusto per le sorgenti pure, dond’essa deriva; oracoli divini, sermoni, libri ascetici o di filosofia cristiana lo appenano ed annoiano. Se tu discendi al fondo di queste intelligenze battezzate, ti crederai in un bazar. Tu vi ritroverai un rimescolio d’ignoranze, di baje, di frivolezze, pregiudizii, menzogne, errori, dubbii, obbiezioni, negazioni, empietà, inezie. Triste spettacolo che mi ricorda lo struzzo morto ultimamente a Lione. Tu sai che l’autopsia del suo stomaco rivelò l’esistenza di un vero arsenale di pezzi di ferro, di legno, di corde ecc. Ecco di che nutrica la sua intelligenza l’uomo, che non fa più il segno della croce: ecco com’egli la rispetta! Ed il suo cuore? Dispensami, caro Federico, dal rivelartene le ignominie. I moti suoi in vece d’essere ascendenti, sono discendenti, non si eleva spaziandosi a volo di aquila, ma si striscia sulla terra; non si nutre, come l’ape, del profumo de’ fiori, ma, qual mosca schifosa, fa suo pasto ogni maniera di lordura. Non v’ha violazione di legge che lo spaventi, né immondizia che eviti. Tu puoi bene convincertene, che la bocca parlando per la pienezza del cuore, la sua gola è spiraglio di sepolcro in putrefazione. Ed il suo corpo? Giovane che trovi indegno di te fare il segno della croce, tu credi essere un grande spirito, ma tu fai pietà! Ti credi indipendente, e sei schiavo; tu non vuoi onorarti facendo quanto fa il fiore della umanità, e per giusto castigo, tu fai quanto esegue il rifiuto della umana famiglia. La tua mano non segna la fronte del segno divino, ed essa toccherà quanto non dovrebbe mai toccare. Tu non vuoi ornare del segno protettore i tuoi occhi, le labbra ed il petto, ed i tuoi occhi s’insozzeranno guardando quanto non dovrebbero guardare, le tue labbra mute ciarliere, loquaces muti, come dice un gran genio (S. Aug. Medit. XXXV, S), diranno quanto non dovrebbero dire, e diranno quello che dovrebbero tacere; il tuo petto, profano altare, brucerà di un fuoco, il cui solo nome fa onta. È questa la tua storia intima; potrai negarla, ma cancellarla giammai. Dessa è scritta su questa carta con inchiostro, ma è letta in tutte le parti del tuo essere, scrittavi con sanguigni caratteri di colpa, in sanguine peccati. – E la sua vita! L’uomo che non fa più il segno della croce perde la stima della sua vita. Egli la vilipende, ne fa spreco, e mai la prende sul serio. Fare della notte giorno, e del giorno notte; poco lavoro e molto sonno, cibi delicati, senza nulla negare al gusto; consumarsi pel tempo, senza alcuna considerazione per l’eternità, ciò è a dire, tessere della tela di ragno, fare de’ castelli di carta, prender mosche, in una parola: usar della vita come padrone, non è prenderla al serio. Prender la vita al serio è fare di essa l’uso voluto da Colui che ce l’ha confidata, e che ce ne domanderà conto non in confuso, ma dettagliatamente; non ad anni, ma per minuto.  – Quando il disprezzatore del segno divino, che doven nobilitarlo inspirandogli sentimenti di rispetto per l’anima ed il corpo suo, è stanco della iniquità e delle inezie, che cosa farà egli? Soventemente egli rigetta la vita come un peso insopportabile. Considerandosi qual bestia priva di timore e di speranza oltre la tomba, si uccide. – Qui, mio caro, come potrò io tutta esprimerti la pena dell’animo mio? Quanto diceva l’Apostolo delle meraviglie del cielo, che l’occhio non ha visto, né l’orecchio sentito, né lo spirito concepito nulla di simile, è mestieri dirlo al presente gemendo, arrossendo e tremando. No, in nessuna epoca, sotto nessun clima, nel mezzo di nessun popolo, ancorché pagano ed antropofago, l’occhio non ha visto, l’orecchio non ha sentito, lo spirito non ha concepito quello che noi vediamo, intendiamo e tocchiamo con mano; qual cosa? Il suicidio. Il suicidio è su di una scala senza paragone nell’istoria. In Francia solamente cento mila suicidi nel corso degli ultimi trentanni. Cento mila! ed il numero va sempre più crescendo. Ora, io son sicuro, benché senza prova, che di questi cento mila, novanta nove mila aveano perduto l’uso di fare il segno della croce seriamente, sovente, e con ogni religione. Credi ciò come tredicesimo articolo del simbolo. A dimani.

IL SEGNO DELLA CROCE (7)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

AL LETTORE

La opportunità, che il soggetto, trattato in questi discorsi, parve avere alle condizioni del nostro tempo e della presente Italia, ha fatto giudicare, che potrebbe riuscire di qualche comune utilità il metterli a stampa. E per questa ragione medesima si è altresì passato per sopra a quella probabilità, che pure vi è non mediocre, che essi, essendo letti, non siano per trovare tutta quella indulgenza, colla quale furono ascoltati. Che poi quel soggetto sia singolarmente appropri alle nostre contrade, potrà intenderlo chiunque conoscendo le condizioni di queste (e chi può ignorarle sotto il peso della terribile lezione, che Iddio sta dando all’Italia?), corra coll’occhio gli argomenti posti in capo a ciascun discorso. Da essi si rileverà leggermente, tutti essere indirizzati a combattere quella non tanto dottrina che pratica, la quale è la radice segreta delle gravi calamità, che affliggono la patria nostra, e sarebbe delle più gravi che la minacciano. Quella fu chiamata Cristianesimo civile, Naturalismo, Razionalismo sociale o individuale, e non si sa come altro. Ma è sempre la super pretensione di ordinare l’uomo privato ed il pubblico coi soli elementi fornitici dalla natura. Ora questa fu proprio la condizione dell’antico Paganesimo; e comincia ad essere ancora del Paganesimo moderno: il quale è tanto più reo ed abbominevole dell’altro, quanto che l’antico pur camminava al Riparatore venturo, laddove il moderno ripudia il Riparatore venuto. Soggetto, come ognun vede, vastissimo, siccome quello che abbraccia tutto l’uomo, come particolare persona e come membro del consorzio domestico e civile; e ciò nel doppio ordine naturale e sovrannaturale. Ma di tanta amplissima svariatezza non si essendo potuto che toccare alcuni capi precipui, si sono scelti quelli che meglio rispondevano al bisogno del tempo moderno ed all’indole sacra di discorsi dovuti dire, non in adunanza accademica, ma nel tempio di Dio. – Questi discorsi sono ora pubblicati in forma forse meno incompiuta, ma certo più piena di quella, onde, nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle, furono detti. Essendosi chi li diceva prefissa la legge di non oltrepassare, parlando, lo spazio di un’ora, ogni qualvolta gli avveniva di aggiungere, nel calore del dire, qualche tratto non compreso nella tela divisata, era costretto ad omettere qualche altro presso che uguale. Ma dallo spazio nello stampare non si avendo quel costringimento, che pure si volle avere dal tempo nel favellare, i discorsi si sono potuti dare alla luce nella loro integrità; tanto che, comprendendo fedelmente tutto quello che fu detto. Contengono altresì qualche parte, e non breve, la quale, per la ragione sopra indicata, nel dirli fu preterita. – Da ultimo si vuole notare, che, nel concepire questo piccolo lavoro, non si ebbe alcuna idea che esso dovesse mai essere dato alla stampa. E così nelle varie autorità che vi si citano, bastò che fossero sicure, senza che si vedesse alcune necessità di cercare i luoghi precisi, ove quelle si tenevano; ed il più spesso alcuna necessità di cercare i luoghi precisi, ove quelle si trovano; ed il più spesso furono appuntati dalla memoria. Ora che va sotto degli occhi, sarebbe certo stato uopo di riscontrare e verificare le singole appellazioni. Ma essendo mancato il tempo e l’agio di farlo, se alcuna inesattezza per questo rispetto sarà occorsa, si lascia alla gentilezza del lettore il condonarla; ed egli si accorgerà forse, nel leggere, che quella non è né la sola, né la precipua occasione, che avrà di mostrarsi gentile.

Roma, 5 Febbraio 1862.

DISCORSO PRIMO

ARGOMENTO

La considerazione della Epifania è opportunissima alla Cristianità raccolta dal Paganesimo, alla moderna società che piega ai pensieri ed agli amori pagani, e soprattutto, a Roma che fu il centro dell’antico Paganesimo.

Un drappello di Re, o sapienti che fossero i Magi, i quali, con tutto lo sfoggio della pompa orientale, con salmerie di servi, di cammelli e di dromedari, muovono alla ricerca di un Re neonato; una stella fulgidissima che, di nuovi splendori rallegrando il firmamento, scorge a quelli il cammino; una città regale che all’annunzio di quel nato Re si conturba, ed un altro Re che, punto di sospetti ed agitato da gelosie di Stato, si volge, a fine di assicurarsi in capo la corona, alle più scaltrite arti di volpina politica, e vi resta deluso; sono questi, miei riveriti uditori, altrettanti obbietti degnissimi della vostra considerazione, ed i quali certo potrebbero non mediocremente allettarvi colle attrattive del grandioso, dello straordinario, dell’inaspettato. Ma nei Misteri della nostra Fede, più che le apparenze della corteccia, si debbono considerare le realità del midollo; più che il seguito di fatti, spesso non dissomiglianti dai naturali, si deve tenere l’occhio ai sensi misteriosi, onde quei fatti stessi sono l’indumento e l’involucro; sicché ben meritano il nome di Misteri, in quanto che recano nascosa in grembo alcuna cosa di segreto, di arcano e da sensibili apparenze velato. Certo di questo Mistero appunto della Epifania disse il Magno Leone, non potere essere vuoto di profonde significazioni ciò che accadeva così fuori d’ogni uso naturale ed umano: ut confestim advertatur, non esse otiosum, quod tam in solitum videbatur (Serm . I. in Epiphan.). Non tanto dunque la Epifania per sé medesima, quanto l’arcana significazione, ond’è fecondo quell’alto.

I. Mistero, rende insigne questa splendida solennità, renderà a voi di segnalata utilità spirituale lo assistervi, e rende a me singolarmente caro il potervi, col ministerio della mia voce, in qualche modo contribuire. Né questa utilità spirituale per le vostre anime, la quale io mi prometto dalla considerazione della Epifania, è quella utilità generale, che più o meno può cogliersi da tutti e singoli i Misteri della nostra fede. Questa della Epifania ha un’opportunità tutta speciale al nostro Cristianesimo raccolto dalla Gentilità; ha opportunità più speciale ancora alla condizione della moderna società, nelle cui inclinazioni poco dissimulate ad un assoluto Naturalismo molti lamentano un ritorno ai pensieri ed agli affetti del Gentilesimo; da ultimo ha una opportunità specialissima a questa vostra Roma, la quale di quella Gentilità stessa fu il centro e, per così dire, l’acropoli e il propugnacolo. E questa singolare opportunità credo io essere stata la ragione, perché un tale Mistero volle specialmente prescelto ad essere solennizzato ogni anno, con pompa unica in quest’Ottavario, quell’apostolico e piissimo Sacerdote, che vive ancora nella vostra memoria, o Romani, e che, morendo, vi lasciò, dolcissima eredità di affetto, una famiglia a sé nello zelo e nella pietà somigliante. (L’ab. Vincenzo Pallotti, di pia e venerata memoria, morto nel 1850, fu l’istitutore dell’Ottavario solenne in onore dell’Epifania, nel quale sono stati detti questi Discorsi; e la Congregazione di Sacerdoti, da lui fondata, ne ha ora tutto il pensiero.). Tant’è, Signori miei! Tra tutti i Misteri del Redentore, io mi avviso non esservene alcuno più appropriato ai bisogni presentissimi dei nostri tempi e delle città nostre, di quello che sia il Mistero della Epifania; e se questo fu la cagione precipua dell’essersi istituita in Roma la presente splendidissima solennità, questo può essere altresì la cagione per voi di assistervi con frequenza, con raccoglimento, con verace desiderio del vostro spirituale profitto. Siate pertanto contenti che io mi fermi quest’oggi a mostrarvi appunto la singolare opportunità della Epifania al nostro tempo, ai nostri uomini ed alla vostra città, per quindi alla fine divisarvi il modo, onde intendo ragionarne nei seguenti Discorsi. Non facendo io professione, né avendo esercizio di predicare, e distratto in cure molto lontane da tal ministero, sento pur troppo, e me ne duole, che potrò ben poveramente rispondere allo splendore di tanta solennità ed alla gentilezza della vostra espettazione. Tuttavolta mi conforto al pensare, che quel poco di franchezza nel ragionarvi e quel non poco desiderio del vostro bene, che altre volte vi fè non ingrato al tutto questo mio dire, possa, eziandio nella presente congiuntura, tenervi vece di altri pregi, che sento di non avere. Incomincio.

II. Epifania è greca voce che suona propriamente manifestazione; ed indica e rammemora e solennizza quella pietosa dispensazione, onde il Verbo Incarnato, fino dai primordii della sua infanzia, degnò manifestarsi ai Gentili. Chiamansi poi col nome di Gentili, di Gentes o di Nationes quei popoli che gli Ebrei appellavano גוים (goim) ed i Greci ebraizzanti dicevano Ethnici da Ἐθνῆ [etne]; i quali poscia furono detti ancora Pagani, quando, scacciata dalle città, la idolatria riparò nei luoghi appartati, com’erano i villaggi, detti latinamente Pagi: onde, Pagani, Paganesimo ed altre voci affini si derivarono. Col nome, pertanto, di Pagani o di Gentili intendevansi tutti i popoli diversi dal giudaico; il che vuol dire tutto quasi il genere umano, di cui il popolo giudaico era piccolissima parte, poco conosciuta e meno apprezzata nel mondo, soprattutto dall’Occidente e nel tempo, in cui apparve il Redentore. Ma se la famiglia di Giacobbe era poco considerata dagli altri popoli, gli altri popoli erano spregiati, vilipesi, quasi abbominati dalla famiglia di Giacobbe; la quale avea in conto di barbari i Gentili, e li riputava esclusi dalle promesse divine, come vedeali infatti da se separati nel culto di Dio. Vero è che la vocazione dei Gentili alla Fede era stata in cento luoghi vaticinata nelle Scritture, e specialmente Isaia l’aveva altamente prenunziata e nelle sue più piccole circostanze descritta. Vero è che Noè medesimo, nel maledire alla irriverente petulanza del figliuolo Cham, non pure avea predetto che la stirpe di Giafet saria stata coerede con quella di Sem, che volea dire la Gentilità col popolo giudaico; ma avea di più adombrata la riprovazione di questo e la elezione di quella nella parola simbolica, che Giafet sarebbesi dilatato ed avrebbe abitato nei tabernacoli o nelle tende di Sem: Dilatet Dominus Iaphet et habitet in tabernaculis Sem (Gen IX, 27). Ma non fu questo il solo caso, che la protervia del popolo giudaico o non intese od intese a rovescio gli oracoli divini; e quando esso era stato per grazia eletto ad essere il primo, si arrogò superbamente il privilegio di esser il solo, meritando con questo di non esser neppure l’ultimo, almeno finora e siccome popolo. Intanto quel dilatet noetico si cominciò ad avverare; e le nazioni coprirono la faccia della terra, furono quasi il tutto del genere umano, senza che né esse sospettassero, né altri attribuisse loro quella salute, che pur dovea essere universale, e che con tanti vaticinii era loro stata promessa nelle Scritture. – Ora sapreste voi dirmi quali e dove sono gli eredi legittimi di quella salute manifestata alle genti? Sapreste dirmi qual fu il principio di quella fortunata manifestazione? O signori miei, io non posso pensarvi, senza sentire alta commozione nel cuore, e senza che gli occhi misi gonfino di lacrime! E voi che siete Cristiani e pietosi, se vi porrete mente, sono sicuro ne sentirete simigliantissimi effetti. O si! Gli eredi del Gentilesimo siamo noi; noi popoli giapetici che copriamo la colta Europa, e che travalicando le colonne erculee ed il vasto Atlantico, mandammo insieme col sole tante migrazioni alle plaghe occidue di ambedue le Americhe; noi siamo la stirpe di Giafet, noi i tardi nipoti delle generazioni cieche ed idolatre. Che se da esse non ereditammo la cecità della mente e l’idolatria, lo dobbiamo alla pietosissima vocazione di Cristo. Udirono, sì, udirono gli ave nostri la grande parola di San Leone: « Oh, entri tra i Patriarchi la pienezza delle genti; ed i figliuoli della promessa accolgano quella benedizione nel seno di Abramo, la quale i figli della carne ripudiarono. » Intret, intret in Patriarcharum familiam, gentium plenitudo, et benedictionem in semine Abrahæ, qua se filii carnis abdicant, filii promissionis accipiant (Serm. 33). Signori sì! Signori sì! ed intendetelo bene; chè questo è punto capitalissimo. Se noi, in luogo di adorare stupidamente divinità spietate od impure, conosciamo ed adoriamo in ispirito e verità la Triade sacrosanta in un solo Iddio; se in luogo dell’orgoglio feroce, della lascivia sfrenata e della forza prepotente, noi conosciamo e pratichiamo la serena umiltà, la casta temperanza e il santo impero della ragione e del dritto, noi lo dobbiamo alla graziosa vocazione di Dio, qui eripuit nos de potestate tenebrarum, et transtulit in regnum fili dilectionis suæ (Coloss. I,  12). E disse bene l’Apostolo : eripuit « strappò; » perché davvero non fummo noi, no! che ci separammo da quella sozza e sanguinosa orgia di quaranta secoli, che era oggimai il Paganesimo: fu Dio che ce ne trasse di viva forza: eripuit nos. Non fummo noi che, per propria elezione, ci aggiungemmo a questo regno beato di dilezione, di decoro, di pace e di speranza, che è il Cristianesimo: fu Dio che vi ci trasportò, noi neppur consapevoli, e, quasi che non dissi, noi renitenti: transtulit nos. E l’Epifania del Redentore fu appunto il felice istante, in cui quella nostra vocazione ed elezione venne iniziata. Già il Crisostomo aveva detto che Cristo, fin dagli inizi aveva dischiusa la porta ai Gentili, ab ipsi statim initiis ostrium gentibus aperuit (Hom. VI in Matth.); ma San Tommaso, notò appresso, che i Magi furono le vere primizie del Gentilesimo, e che quella manifestazione fatta ad essi fu come un saggio della più piena che dovea venire appresso: quædam praelibatio plenae manifestationis, quæ erat futura (S. Th. III p. q, 36 a 4). Anzi in quel fatto san Leone vede raccolta, come in compendio, tutta la economia della conversione del Gentilesimo, senza che vi mancassero le vestigia della illuminante grazia nella stella, e delle persecuzioni dalla parte dei Pagani nell’empio Erode, del martirio negli uccisi innocenti. Eccovi le espresse sue parole: In stellæ fulgore Dei gratia , et in rege impio crudelitas paganorum, et in occisione infantium cunctorum martyrum forma præcessit (Hom. VIII in Epiph.). Pertanto se noi siamo il Cristianesimo raccolto dalle Genti, ossia dalle nazioni pagane; se ogni nostro bene temporale ed eterno si deriva fontalmente dall’essere noi stati così eletti e chiamati; se di questa elezione e di questa chiamata l’inizio, l’attuazione e l’adombramento si compì nella Epifania; deh! miei amatissimi, con quanta riverenza non dovremmo noi proseguire questa festa di quanto amore prediligerla! con quanto studio non dovremmo applicarci a penetrarne le arcane significazioni, a ponderarne le promesse ineffabili e le speranze immortali che essa ne inspira!

III. E pure (che giova dissimularlo?) mi vien forte a temere, non forse alcuni pretesi sapienti del nostro tempo stentino a capire, come io pregi tanto questa vocazione del Gentilesimo all’Evangelio, e neppure saprebbero intendere, come e perché i Santi Padri l’abbiano tanto magnificata. Usi dalla fanciullezza ad una improvvida ed esagerata ammirazione della grandezza pagana; studiata da giovani una storia, che è cospirazione faziosa contro del vero, ed una filosofia che ripudia ogni autorità ed ogni tradizione; gonfi, non so bene se il capo o il cuore, di superbie smisurate intorno alle forze della umanità ( è questa la propria loro parola), essi non bastano a vedere qual bisogno vi fosse di quella trasformazione del Paganesimo; pare loro che la perfettibilità naturale dell’uomo avrebbe di per sé sola raggiunte le parti accettabili dell’Evangelio; e per poco non dicono, bestemmiando, che Cristo avrebbe fatto miglior senno a lasciare le cose come trovolle, venendo al mondo. Dall’altra parte giudici pregiudicati ed ingiusti della grandezza cristiana, essi non vi trovano nulla che li satisfaccia; e per loro l’eroe pagano sovrasta di gran lunga all’Evangelo, senza che sappiano scorgere, in tutti i fasti Cristiani, cui paragonare al buffone attico, come Arnobio chiamò Socrate, o al soggiogato dal Re di Bitinia, come dalla soldatesca licenziosa fu salutato Giulio Cesare. In somma se per cotesti traviati è molto problematico il benefizio della vocazione della Gentilità alla Fede, essi non debbono avere in gran capitale il Mistero dell’Epifania, il quale appunto quel beneficio rammemora ai Fedeli, per eccitarne in essi la riconoscenza. – Ora tutto questo dimostra appunto, quanto sia appropriata al nostro tempo, la considerazione dell’Epifania e dal significato onde fu essa il simbolo alla stess’ora ed inizio. Perchiocché tutto quel discorso fatto oggimai comune a moltissimi, se non nella teorica, nella pratica, dimostra che la società moderna ritorna a gran passi al Paganesimo; e senza suscitarne la grossiera idolatria, vi torna coi pensieri, cogli amori, colle inclinazioni, colle opere, colle parole, talmente che di sotto a questo immenso sepolcro, che è il suolo romano, si levasse redivivo il popolo il popolo coetaneo già agli Scipioni e ai Coriolani, e senza guardare ai nostri templi ed al nostro culto, attendesse solo ai pensieri, alle aspirazioni, ai parlari di non pochi, ahimè, io non credo io non credo che si accorgerebbe essi devariare gran fatto da loro se non fosse dalla prostrazione degli animi e nella fiacchezza dei propositi. Pertanto, essendosi nel tempo nostro da molti sconosciuto radicalmente l’insigne beneficio della vocazione del Paganesimo alla Fede, fino quasi ad agognare al ritorno di quella bugiarda grandezza defunta; deh, quale migliore opera potrebbe oggi farsi che mostrare e far sentire quello che fosse in realtà il Paganesino, in cui languiva l’antico mondo; quello che sia in realtà il Cristianesimo, e che fu tramutato, per quindi fare giusta stima della vocazione di quello a questo ? Ed a ciò fare donde potremo trarre più opportuna occasione, che dal Mistero della Epifania, il quale appunto di quella vocazione fu l’inizio e, diciamo così, l’inaugurazione fortunata? Oh sì, pur troppo è vero! E per quanto sia doloroso il dirlo bob sarebbe rimedio sufficiente a guarire il male il tacerlo. Il nostro mondo, ed al presente, più di qualunque parte del mondo, la nostra Italia, per la fede debilitata, e pel mal costume ringarglialdito, comincia pur troppo ad avere pensieri, affetti, desideri, poco dissomiglianti dai gentileschi, né vi credereste che a questo sia uopo adorare gli idoli: oh! Niente affatto! Il Paganesimo nella sua parte costitutiva, o vogliamo dire nella sua ragione formale di essere, non importava altro che Naturalismo, come io nei seguenti giorni vi verrò mostrando. Ora se voi mirate la cosa pubblica e la privata, se attendete ai discorsi che si intrecciano, se leggete i libri e le effemeridi  che si stampano, se ponete mente alle inclinazioni che si manifestano, voi in quelli ed in queste appena troverete altro, che la natura e la natura sola e la natura sempre. E  nella società che professa le idee nuove del secolo, quale è ramo della letteratura e della filosofia, qual parte delle scienze economiche o delle sociali, quale tratto di storia o quale estetica di arti belle, quale appartenenza domestica o civile o politica vi ha oggimai, che serbi un vincolo di attinenza colle Rivelazione? Anzi quale non ha fatto pieno ed assoluto divorzio della Rivelazione stessa, presumendo di tutto trarre da questo povero fondo dell’intelletto umano, il quale allora solo può essere buono a qualche cosa, quando è conscio della sua debolezza ed ha la modestia di confessarlo a sé e ad altrui? Che se alcuna cosa pur si ritiene dalla Fede o nella teorica o nella pratica; ciò è solo quel poco che si acconcia alle nostre disordinate abitudini, che non iscomoda, che favorisce anzi le nostre passioni ed i nostri interessi, e soprattutto che non si leva sopra quello, che alla losca nostra ragione piace tenere per vero. Il qual bisticcio di alcuni pensieri ed affetti tolti dall’Evangelio, commisti e manipolati coi pensieri e cogli affetti. della guasta natura, è propriamente quel Cristianesimo civile, messo in voga, già sono tre lustri, il quale molti dicono di professare, e del quale io non so se e quanto sia civile, ma so di certo che non è cristiano. La mercè di questo nuovo trovato, noi, incapaci e svogliati di levarci alle altezze limpidissime della Fede, pensiamo di aver ottenuto gran cosa, quando abbiamo fatto declinare la Fede alla nostra bassezza, snaturandola e stremandola del più splendido suo carattere, di essere cioè qualche cosa più alta, che noi omicciattoli non possiamo immaginare. Ora cotesto Naturalismo introdotto e dominante nel moderno mondo, è puro e pretto Paganesimo; ma Paganesimo tanto più reo e condannevole, che non era l’antico, quanto che questo moderno è effetto di una pratica apostasia da quella Fede, a cui l’antico era ordinato, e la quale esso abbracciò con tanta alacrità e devozione. Paganesimo redivivo che dello spento ha tutte le servilità e tutte le abbominazioni, senza la originalità e la grandezza; non essendo la grandezza pagana cosa possibile; a risuscitare, e chi lo ha tentato, non è riuscito che a scimmiature sguaiate, che sarebbon ridicole, se troppo spesso non fossero state atroci. Paganesimo disperato, perché nessun Balaam gli ha promessa una stella di Giacobbe, come all’antico, il quale pure aspettava una chiamata; laddove il nostro, nato dalla corruzione del Cristianesimo, o piuttosto da una civiltà decrepita ed ingancrenita, non aspetta altra chiamata, che quella dell’eterno Giudice, che lo condanni di tante abusate misericordie. Di questo Paganesimo se qualche alito, miei dilettissimi, vi avesse mai offeso, e permettete all’amor che vi porto, il dubitarne od anche solo il temerne, voi non potrete trovarvi migliore rimedio, che la considerazione devota e ragionata dell’Epifania.

IV. Ma oltre a quella ragione generale e comune a tutta la Gentilità convertita, che vuol dire a tutto il Cristianesimo; oltre a questo meno comune ed attenentesi alle inclinazioni della moderna società, egli vi ha nelle condizioni speciali delle città, in cui vi parlo, una peculiarissima ragione di tributare ossequio tutto singolare a questo Mistero della Epifania. E chi siete voi, o ascoltatori? Voi, sì! Voi siete gli eredi ed i discendenti di quei prischi Romani, i quali avendo incentrata in loro tutta la grandezza e la potenza pagana, parve che tutto il Paganesimo fosse trionfato dalla Croce, quando quei vostri maggiori furono conquisi alla Croce. Noi ci troviamo sopra le ruine di quella Roma che, fatta rocca e propugnacolo della Idolatria, come parlò il Magno Leone, s’immaginava di possedere una splendida Religione, perché nessuna superstiziosa insania avea rifiutata: Magnam sibi videbatur assumpsisse religionem, quia nullam respuerat falsitatem (Serm . I. in Nat. App . Petri et Pauli.). Sopra quella Roma che a tutte le più nefande deità innalzò are e delubri, sgozzò vittime e bruciò incenso, meno a quel Dio Ottimo, Massimo, che solo n’era degno, come Arnobio le gettò in viso. – Ora come foste voi cangiati in un’altra cosa da quel che furono i vostri antichi? Come per questa Roma fu fatale l’essere, non capitale di di non so che regno sgangherato e fallito prima di nascere, ma reina e reina sempre del mondo; sì che non dovendo più imperiare sui popoli per la prepotenza delle armi, cominciasse a reggere l’orbe tanto più nobilmente per la santità augusta della Religione! Quisquid non possidet armis religione tenet (Prudenzio, Carmina). Chi non ravvisa il dito di Dio in questa portentosa trasformazione d’una in altra grandezza, per forma nondimeno che la profana grandezza, dovendo pur essere per sé medesima ostacolo insormontabile alla sacra, riuscì tuttavolta ad esserne fondamento provvidenziale ed apparecchio? Chi non vede come l’unità del mondo romano, opera di otto secoli e tra le umane la più stupenda, fu ordinata a fare da substrato alla unità più vasta e più duratura del mondo cristiano? O miei fratelli! fate di entrar bene in questo pensiero; ché nessun altro per avventura al pari di questo può farvi intendere gran cosa che per voi è, o Romani, l’Epifania: nessun altro meglio di questo può premunirvi contro certe scaltre seduzioni, che vorrebbero passare per italiane, e sono pagane. – Guardate! Noi ci aggiriamo per questi fori, dove assembravano i figliuoli di Quirino, a sentirvi arringare dai vostri magni oratori, ed a deliberarvi gli assassini dei popoli, che si chiamavano, e dai pagani redivivi si chiamano tuttavia conquiste. Noi calpestiamo le zolle di quei circhi ed anfiteatri che rimbombavano altra volta da inverecondi e tempestosi tripudi di una plebe ubriaca di sangue, che era beata di bere gli cogli occhi le agonie e gli spasimi di uomini, perciò, solo devoti alla morte. Noi camminiamo accanto alla ruine di queste terme, di questi templi, di questi fornici; e templi e fornici, in opera di prepotente libidine, erano tutt’uno; tanto che , se ogninume pagano dai nostri tribunali avrebbe meritato per lo meno la galea, pgni tempio non poteva guardarsi altrimenti, che come un pubblico lupanare avendo detto per Minucio Felice, che frequentius in ædituorum cellulis, quam in ipsis lupanaribus, flagrans libido defungitur (Octavius, cap. XXV). E sopra questo indistinto osceno di prepotenza calpestatrice di ogni diritto, di derocia gavazzante nel sangue, di mostruosa lascivia che fa a fidanza con divinità prostitute,; sopra questo indistinto, io dico, che fu come la torre munita di tutto il Paganesimo nell’antica Roma, che vedete voi al presente? Voi non vedete oggimai trionfare altro sopra quelle ruine che la Croce,; e la Croce coi casti suoi pensieri, e la Croce colla sua umiltà rassegnata e con le sue speranze. Sulle arene silenziose dell’anfiteatro Flavio, inzuppate già del sangue di tanti mancipii, e di tanti martiri, grave e devoto incede al presente ai posti giorni un pio drappello; e quale velato il capo, quale scalzo il piede, tutti col cuore compunto, con innanzi inalberata la Croce. Riandano i dolori dell’Uomo-Dio ivi medesimo, ove tanti dolori incompianti furono divorati dalle generazioni che passarono, ove sedeva già il Campidoglio, smisurata e superstiziosa ambizione di un popolo padrone della terra, siede oggi numerosa famiglia del poverello d’Assisi, che, nell’umile povertà della Croce, seppe e sa educare pel cielo la terra i serafini, sul palazzo dei Cesari, ricetto infame che fu d’ogni più impura nequizia, un coro eletto di vergini sacre a Dio fa oggi fiorire come in giardino di paradiso, i gigli della illibatezza più pura; e mentre il mondo assonnato riposa, deste esse alla nota squilla, levansi notturne a mattinare il celeste loro sposo, perché le ami. Che più? Quel tempio, cui Agrippa dicava a tutti le infami divinità del Paganesimo, eccovelo già espiato dai riti cristiani, già sacro alla Reina del cielo e a tutti i Santi: anzi, quasi ciò fosse poco, quel tempio medesimo, riprodotto nelle vaste sue proporzioni, voi scorgete dall’audacia dell’arte cristiana, fatto sol parte d’immenso tutto, e campato nella regione delle tempeste, servire di coperchio alla tomba dello scalzo e spregiato Pescator galileo. Né queste trasformazioni ricordai quasi fossero sole; le ricordai più veramente, come ad esempio, perché sono precipue. Nel resto in questa vostra città non vi è sasso per avventura, non vi è zolla, non vi è rudero di vetusto monumento, che non vi narri in sua favella la smisurata ambizione e la bugiarda grandezza del popolo che foste un tempo; è narrandovi questo, vi deve far sentire l’immenso benefizio del Redentore, che chiamovvi ad essere quel tutt’altro popolo che al presente voi siete. – E (sia detto ad onor del vero) voi, o Romani, deste in questi ultimi tempi, e state dando tuttavia segni risplendidissimi di averlo inteso! Voi, a confusione di chi aveva interesse a supporvi e dipingervi tutt’altro da quello che siete, mostraste al mondo ammirato, e dico ancora alla Cattolicità rinfrancata, come qui la fedeltà dei sudditi, accoppiata in bell’accordo alla pietà dei cattolici, vi facea non che satisfatti, ma lieti, ma nobilmente alteri di sapere i vostri destini civili immedesimati ai destini della Roma Cristiana, in quanto avete a vostro Principe il Vicario stesso di Cristo. Io non so se altra età vi sia stata, in cui fossero i Romani più devoti ai loro Pontefici; ma è indubitato, che in nessun’altra età ne diedero, mai prove così affettuose, così splendide, così universali, come sono quelle che voi, da oggimai due anni ne state dando. E ne avete ragione! Per una Roma, sotto ai cui piedi Iddio volle poste, quasi sgabello, le ruine maestose del massimo Imperio che vedessero le stelle, ogni altra corona saria minore della sua grandezza! Sul capo augusto di lei solo sta bene e si addice quella che sta portando da dodici secoli, lungo i quali tanti troni crollarono, sparirono tante dinastie e tanti scettri fur fatti polvere! quella corona per cui, guardata Roma siccome patria spirituale di quanti sono credenti, è salutata Capo dell’Orbe, Reina, madre, maestra ed altrice dell’universo mondo! Riposiamo.

V. Vedete dunque per quali e quanți titoli la solennità e la considerazione dell’Epifania è opportunissima a noi tutti Cristiani, i quali fummo, nelle generazioni che ci precedettero, chiamati e raccolti dalla Gentilità; è opportunissima alla condizione presente della società che, in mezzo a tante superbie di progresso, rinverte miseramente ai pensieri, agli amori, alle tendenze del Paganesimo, già trionfato dalla Croce; è opportunissima da ultimo a voi, o Romani, i quali, dall’essere il centro e la viva espressione del Paganesimo dominante, passaste a vedere locato nel vostro mezzo il centro e come il cuore di questo gran corpo, che è la Chiesa universale. – Dissi poi solennità e considerazione della Epifania, parendomi che in queste due parti possa dividersi tutto ciò, che è per farsi in questo splendido ottavario. E la solennità, che attesta la riconoscenza, è raccomandata agli zelanti che coll’opera o colle largizioni vi prendono parte. Quanto alla considerazione, ordinata ad eccitare la riconoscenza, essa sarà frutto della divina parola, che sì copiosa ed in tante svariate forme, sarà amministrata nei correnti giorni in questo tempio. E, nella piccola parte, che ne è a me raccomandata, io non mi dipartirò dal soggetto indicatovi oggi; e vi discorrerò l’antico ed il moderno Paganesimo: quello da cui Dio ci trasse per sua misericordia; questo a cui il mondo presente è incamminato per sua colpa e per sua sventura. – Ora né questa colpa, né questa sventura  potrà intendersi , né la grazia della vocazione dei Gentili, se non si fa giusta stima di quello che fosse veramente la Gentilità. Oh, sì! A quella società così ammirata pei suoi poeti, pei suoi oratori, pei suoi artisti, e più ancora per i suoi uomini di stato in pace ed in guerra, a quella società, io dico, conviene strappare d’attorno lo splendido velo che l’ammanta, per tutta vedernel’orribile abbominazione e la schifosità snaturata. Senza ciò, non è possibile intendere abbastanza bene l’immensa trasformazione compiuta dall’Evangelo; e noi, senza il concetto di quello che fummo, non intenderemo mai la grazia ed il pregio di essere stati fatti quello che siamo. – Ed a farlovi intendere, secondo la mia piccola facoltà, io vi discorrerò domani la radice del Paganesimo, la quale mi pare di ravvisare principalmente nell’assoluta separazione dell’uomo da Dio. Da questa málaugurata radice pullularono due funesti germogli: l’avere cioè l’uomo sconosciuto sé medesimo, e l’essersi alterato nelle sue relazioni coll’universo esteriore; e questi saranno i suggetti del terzo e del quarto discorso. Quell’alterazione poi, che nella intenzione di chi la volle dovea fruttare all’uomo piena indipendenza da tutto che non fosse lui; per contrario importò nell’uomo pagano una triplice schiavitudine: schiavitudine alle forze della natura, schiavitudine alle seduzioni del senso, schiavitudine alla prepotenza dello Stato; e questi tre saranno gli altrettanti suggetti dei seguenti. L’ultimo o l’ottavo sarà una conchiusione pratica di tutti gli altri, tolta dal mezzo stupendo, di che si valse la Provvidenza per compiere quella trasformazione; quantunque in tutti mi studierò di non farvi desiderare applicazioni morali ai nostri tempi ed alle nostre condizioni.

IL SEGNO DELLA CROCE (5)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (4)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA QUARTA.

29 novembre.

Risposta ad un’obiezione. — I tempi sono cambiati. Ragioni in favore de’ primi  Cristiani desunte dalla natura del segno della croce. — Il segno della croce è cinque cose. — Un segno divino, che nobilita l’uomo. — Prove che il segno della croce è divino.

« Per me, tu mi dici, mio caro Federico, la questione è giudicata. Giammai potrei credere che Iddio avesse dato la verità ed il buon senso a’ suoi inimici, condannando allo errore, ed alla superstizione i migliori amici suoi ».  Questa confessione mi consola, e non mi sorprende. Il tuo spirito cerca la verità, ed il tuo. cuore non la rigetta. Se tutti fossero nella istessa disposizione, il compito d’apologista sarebbe facile, ma sventuratamente l’è tutto altrimenti! Nella maggior parte delle controversie, e principalmente nelle controversie religiose l’uomo discute, non con la sua ragione, ma con le proprie passioni. Non per la verità, ma per la vittoria egli combatte. Triste vittoria, che conferma la sua schiavitù all’errore, ed al vizio.  – Quello, che so de’ tuoi compagni e di altri pretesi Cattolici del nostro tempo, mi fa temere ch’eglino agognino a siffatta vittoria. Io li amo, devo loro disputarla: e, per squarciare tutte le bende, in che si ravvolgono, e per illuminare la tua convinzione, voglio esporti le ragioni intrinseche, che giustificano l’inviolabile fedeltà de’ veri Cristiani al frequente uso del segno della croce. Ma facciamo innanzi giustizia alla grande obiezione de’ moderni disprezzatori del segno adorabile. Altri tempi, altri costumi, eglino dicono. Quanto era utile ed ancora necessario ne’ primi secoli della Chiesa, non l’è più di presente. I tempi si cambiano: è da vivere col proprio secolo.  San Pietro risponde loro, che : Gesù era ieri, egli è oggi, egli sarà lo stesso ne’ secoli de secoli. Tertulliano aggiunge: il Verbo incarnato si chiama verità, e non consuetudine. Ora la verità non cambia. Quello, che gli Apostoli e i Cristiani della primitiva Chiesa, i veri Cristiani di tutti i secoli hanno creduto utile, e fino ad un certo punto necessario, non ha finito di esserlo. Io oso affermare, che di presente è più necessario che in altri tempi. Il che è reso manifesto da’ caratteri di somiglianza che esistono fra le posizioni de’ Cristiani de’ primi secoli, e quella de’ Cristiani del secolo decimonono. Qual era la posizione de’ nostri padri delia Chiesa primitiva? Dessi erano al cospetto di un mondo non cristiano, che non voleva divenirlo, che non voleva che altri lo fosse, che perseguitava a morte quanti si ostinavano ad esserlo. E noi, non siamo noi in faccia di un mondo, che cessa di essere cristiano, che non vuole divenirlo di nuovo, che non vuole che altri lo sia, che perseguita, or con scaltrite arti, ed or con la forza quelli che coraggiosi professano il Cristianesimo? Se, in una eguale posizione i primi Cristiani, disciplinati alla scuola apostolica, hanno riconosciuto necessario l’uso frequente del segno della croce, quali ragioni avremmo di abbandonarlo? Siam noi forse più abili, o più forti? I pericoli sono meno grandi, i nemici in minor numero, o meno perfidi? Il proporre simili questioni, è un averle risolute. Passiamo innanzi! – Fino al presente, mio caro Federico, ho fatto valere le circostanze esteriori della causa; ora è mestieri difenderla a fondo, deducendo le ragioni dalla natura del segno istesso della croce. Queste per te, per me. per tutti gli uomini siffattamente si riassumono:  Figli della polvere, il segno della croce è un segno divino che ci nobilita; Ignoranti, il segno della croce è un libro che ci nstruisce;  Poveri, il segno della croce è un tesoro, che ci arrichisce; Soldati, il segno della croce è un’arma, che dissipa l’inimico;  Viaggiatori verso il ciclo, il segno della croce è una guida che ci conduce.  – Prendi la tua toga, siedi da giudice, ed ascolta!

Figli della polvere, il segno della croce è un segno divino che ci nobilita. Chi è, dimmi, questo essere che viene al mondo piangendo, soggetto come il più piccolo degli animali a tutte le infermità, incapace più di lui, e per maggior spazio di tempo, di soddisfare a’ suoi bisogni? Che l’uomo si chiami principe, re, imperatore; che la donna abbia titolo di contessa, duchessa, imperatrice, non ne vadano gonfii; poiché uno sguardo retrospettivo insegnerà loro, ch’eglino sono questo essere. Questo essere è l’uomo, verme nel suo principio, e cibo de vermi nella tomba (Primam vocem similem omnibus emisi plorans. In involumentis sum, et curis magnis. Nemo enira ex regibus aliud habuit nativitatis initium. Sap.VII. 3). – Questo essere tanto infermo, si nullo, e si vergognosamente confuso con i deboli e vili animali lungo i primi anni di sua esistenza, e spinto d’altronde a rassomigliarlo pe’ suoi instinti. Non pertanto, questo essere è l’immagine di Dio, il Re della creazione, egli non deve degradarsi. Dio lo tocca alla fronte, v’imprime un segno divino, che la nobilita, e la nobiltà obbliga. Rispettato dagli altri, egli rispetterà se stesso. Queste lettere di nobiltà, questo segno divino, è il segno della croce. È divino, cheviene dal cielo e non dalla terra: l’è divino, cheil padrone può solo marcare i suoi prodotti. Desso viene dal cielo, perché la terra confessa di non essere suo trovato. Percorri tutti i paesi, e tutti i secoli, in nessun luogo tu troverai l’uomo che abbia immaginato il segno della croce, il santo che l’abbia insegnato, come proprio insegnamento; il Concilio, che l’abbia imposto come suo precetto. La tradizione lo insegna, la consuetudine lo conferma, la fede lo pratica » (Harum et aliaruui hujusmodi disciplinarum si legem ex-postules, scripturarura nullam invenies. Traditio te prætenditur autrix, consuetudo confirmatrix, et fides observatrix. Ter. de Coron. c. III). Così Tertulliano: e per esso tu ascolti la voce della seconda metà del secondo secolo. S. Giustino (Dextera manu in nomine Cbristi quos crucis signo obsignandi sunt, obsignamus. Quæst. 118) parla per la prima, e ti apprende non solo la esistenza, ma il modo con che tale segno era fatto, è con ciò noi siamo a’ tempi primitivi, tempi di memoria eterna, che gli eretici istessi chiamano l’età d’oro del Cristianesimo, sì per la purezza della dottrina, che per la santità de’ costumi. Ora, noi vi troviamo il segno della croce in piena pratica in Oriente, come in Occidente.  Diamo qualche passo, e daremo la mano a s. Giovanni, quello, che sopravvisse a tutti gli Apostoli. Vedi il venerabile vecchio, che fa il segno della croce su di una coppa avvelenata, e beve il micidiale liquore impavidamente (S. Simeon: Metaph. in Joan.). Un po’ più lontano, ed ecco i suoi più illustri colleghi, Pietro e Paolo. Come Giovanni il discepolo amato dal divino Maestro, Pietro e Paolo, principi dell’apostolato, fanno religiosamente il segno della croce, e l’insegnano dall’oriente fino all’occidente, a Gerusalemme, in Antiochia, ad Atene, a Roma, ai Greci ed ai barbari. Ascoltiamo un irrecusabile testimone della tradizione, c Paolo, dice santo Agostino, posto dappertutto il reale stendardo della croce, pesca gli uomini, e Pietro segna le nazioni col segno della croce (Circumfert Paulus Dominicum in cruce vexillum. Et iste piscator hominum, et ille titulat signo crucis gentiles. S. loan Chrys. Ser. XXVIII). » Nè solamente eglino lo eseguono sugli  omini, ma sulle creature inanimate, e vogliono che altri ancora il facesse. Ogni creatura di Dio è buona, scrive il grande Apostolo, non è da rigettare alcuna cosa, che possa riceversi con rendimento di grazie; poiché dessa è santificata dalla parola di Dio, e dalla preghiera. Questa è la regola: quale n’é il senso? Nel diritto se v’ha un testo oscuro, come si chiarisce? Per chiarirlo, si consulta l’interprete il più autorizzato, ed il più vicino al legislatore: la sua parola è legge.  Ascolta la parola la più autorizzata dall’Apostolo s. Paolo, s. Crisostomo « Paolo, egli scrive, ha stabilito qui due cose: la prima che nessuna creatura è immonda: la seconda, che se lo fosse, facile cosa sarebbe purificarla. Segnala del segno della croce, rendi grazia e gloria al Signore, e detto fatto, l’immondizia partirà (Duo capita ponit, unum quidem quod creatura nulla communis sit. Secundo, quod etsi communis sit, medicamentum in promptu est. Signum illi crucis imprime, gratias age, Deo gloriam refer, et protinus immunditia omnis abscessit. In Tim. hom. XII). » Ecco l’insegnamento apostolico. I principi degli Apostoli non solamente facevano questo segno adorabile sulle cose inanimate, e sopra i popoli che accorrevano alla fede, ma sopra se stessi. Questo segno adunque esisteva prima di loro. Paolo il persecutore è rovesciato lungo il cammino di Damasco, perché divenga l’apostolo del Dio, ch’egli perseguita. Quale sarà il primo atto del Dio vincitore sul nobile vinto? Sarà segnarlo del segno della croce. Va, dice Egli ad Anania, e segnalo del mio segno (Vade ad eum, et signa eum charactere meo. S. Aug. Ser. l et Ser. XXV, De Sanctis). Chi è dunque l’autore e institutore del segno della croce? Per trovarlo è da sormontare tutti i secoli, tutte le cose visibili, tutte le gerarchie angeliche, per venire fino al Verbo eterno, alla verità istessa. Ascolta un altro testimone, perfettamente in grado di saperlo, e che ha confermato la testimonianza col suo sangue. Ho nominato l’immortale Vescovo di Cartagine, s. Cipriano. « Signore, egli esclama, sacerdote santo, voi ci avete legato tre cose che non periranno giammai: il calice del vostro sangue, il segno della croce e l’esempio de’ vostri dolori. (Tu Domine, sacerdos sáncte, constituisti nobis inconsumptibiliter potum vivificum, crucis Signum, et mortificationis exemplum. Serm. de Pass. Christi) » Santo Agostino aggiunge: Siete voi, o Signore, che avete voluto questo segno impresso sulla nostra fronte (Signum suum Christus in fronte nobis fligi voluit. In psal. 130). Sarebbe facile citare venti altri testimoni; ma perché scrivo delle lettere, e non un libro, mi arresto. Il segno della croce è un segno divino: ecco un fatto constatato per la discussione. Ve n’ha un altro, di che sarà parola dimani.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULL’AMORE DEL PROSSIMO”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS:

DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS

Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933~

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur.

C . FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.

Proprietà è della traduzione (23-XI-07-10- 29-XII-32-15).

Sull’amore del prossimo.

“Vade, et tu fac similiter”.

(Luc. X, 37).

Un dottore della legge, narra S. Luca, si presentò a Gesù Cristo dicendogli per tentarlo: “Maestro, che cosa bisogna fare per ottenere la vita eterna?„ Gesù Cristo gli rispose:” Che cosa sta scritto nella legge, che cosa vi leggi?„ E l’altro rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze: ed il prossimo tuo come te stesso.„ — “Hai risposto bene, gli replicò Gesù Cristo: va, fa questo, ed avrai la vita eterna.„ Il dottore gli domandò poi chi fosse il suo prossimo, e chi dovesse amare come se stesso. Gesù Cristo gli propose questa parabola: “Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico: cadde fra le mani dei ladri che non contenti di averlo spogliato, lo copersero di ferite e lo lasciarono mezzo morto sulla strada. Per caso passò di là un sacerdote che scendeva per la medesima via. Avendolo visto in così misero stato, non lo guardò nemmeno. Poi un levita, avendolo scorto, passò via parimente: ma un Samaritano che faceva la stessa strada, avendolo visto gli si avvicinò, e ne fu vivamente mosso a compassione: discese dal cavallo, e si mise ad aiutarlo con ogni suo mezzo. Lavò le sue ferite con olio e vino, le fasciò, e messolo sul suo cavallo lo condusse ad un albergo, dove ordinò al padrone di prenderne cura, dicendogli che se il danaro datogli non bastava, al ritorno gli darebbe ciò che avesse speso di più. „ Gesù Cristo disse al dottore “Quale dei tre credi tu sia stato prossimo a quest’uomo che cadde nelle mani dei ladri?„ Il dottore gli rispose: “Credo sia colui che gli ha usato misericordia.„ — “Ebbene va, gli disse Gesù Cristo, fa altrettanto ed avrai la vita eterna.„ Ecco F. M., il modello perfetto della carità che dobbiamo avere pel nostro prossimo. Vediamo quindi, F. M., se abbiamo questa carità che ci assicura la vita Eterna. – Ma, per meglio farvene sentire la necessità, vi mostrerò che tutta la nostra religione non è che falsità, e tutte le nostre virtù non sono che larve, e noi non siamo che ipocriti davanti a Dio, se non abbiamo questa carità universale per tutti senza distinzione: cioè per i buoni come per i cattivi, per i poveri come per i ricchi, per tutti coloro che ci fanno del male come per coloro che ci fanno del bene. No, F . M., non vi è virtù che meglio della carità ci faccia conoscere se siamo figli di Dio! e l’obbligo che abbiamo di amare il nostro prossimo è così grande, che Gesù Cristo ce ne fa un comandamento, che mette subito dopo quello col quale ci ordina di amar Lui con tutto il nostro cuore. Ci dice che tutta la legge ed i profeti son compresi nel comando di amare Dio e il prossimo.(Matt. XXII, 40). Sì, F. M., dobbiamo considerare questo dovere come il più universale, il più necessario ed essenziale alla religione e alla nostra salvezza; perché adempiendo questo comandamento adempiamo tutti gli altri. S. Paolo ci dice che gli altri comandamenti ci proibiscono l’adulterio, il furto, le ingiurie e il dire il falso in testimonio: se amiamo il nostro prossimo non faremo niente di tutto questo, perché l’amore che portiamo al nostro prossimo non può soffrire che gli facciamo alcun male (Rom. XIII, 9, 10). Dico anzitutto, che: – 1° questo comandamento che ci ordina di amare il nostro prossimo, è il più necessario alla nostra salvezza, poiché S. Giovanni ci dice che se non amiamo i nostri fratelli, cioè gli uomini, siamo in istato di riprovazione. Vediamo altresì che Gesù Cristo ha tanto a cuore l’adempimento di questo comandamento, che ci dice che solo dall’amore che avremo gli uni per gli altri Egli ci riconoscerà per suoi figli (Giv. XIII, 35). – 2° Affermo inoltre, F. M., che questo obbligo così grande di amarci gli uni gli altri, ci è imposto perché abbiamo tutti il medesimo Creatore, tutti la stessa origine; siamo tutti d’una stessa famiglia, della quale Gesù Cristo è il padre, e tutti portiamo la sua immagine e somiglianza; siamo tutti creati per uno stesso fine, che è la gloria eterna; e tutti fummo redenti dalla passione e morte di Gesù Cristo. Dopo di ciò, F. M., non possiamo rifiutarci di amare il nostro prossimo, senza offendere Gesù Cristo in persona che ce lo comanda sotto minaccia di dannazione eterna. S. Paolo ci dice che avendo tutti una stessa speranza, la vita eterna, uno stesso Signore, una stessa fede, uno stesso battesimo ed uno stesso Dio che è Padre di tutti gli uomini, dobbiamo amare tutti gli uomini come noi stessi se vogliamo piacere a Gesù Cristo e salvare le anime nostre (Ephes. IV, 2-6). Ma, forse chiederete, in che consiste adunque l’amore che dobbiamo al nostro prossimo?

— F. M., esso consiste in tre cose:

1 ° nel voler il bene di tutti; 2° nel farne loro ogni qual volta il possiamo; 3° nel sopportare, scusare e nascondere i loro difetti. Ecco, F. M., la vera carità dovuta al prossimo, ed il vero segno d’una vera carità, senza la quale non possiamo né piacere a Dio né salvare le anime nostre.

1° Dobbiamo desiderare bene a tutti, e sentirci afflitti davvero quando sappiamo che accade al nostro prossimo qualche sventura, perché dobbiamo considerare tutti gli uomini, anche i nemici, come nostri fratelli: dobbiamo usare maniere belle ed affabili verso tutti: non invidiare coloro che stanno meglio di noi; amare i buoni per le loro virtù, ed i cattivi perché diventino buoni: augurare la perseveranza ai primi e la conversione ai secondi. Se un uomo è gran peccatore, possiamo odiare il peccato che è opera dell’uomo e del demonio; ma bisogna amare l’uomo che è immagine di Dio.

2° Dobbiamo far del bene a tutti, almeno quanto possiamo: e lo si fa in tre maniere, che si riferiscono ai beni del corpo, dell’onore e dell’anima. Riguardo ai beni del corpo non dobbiamo mai recar danno al prossimo, né impedirgli di fare un guadagno anche se questo potesse esser nostro. Non vi sono Cristiani così accetti a Dio come quelli che hanno compassione pei disgraziati. Vedete S. Paolo: ci dice che piangeva coi piangenti, e gioiva con chi era contento Quanto all’onore del prossimo, dobbiamo guardarci bene dal nuocere alla sua riputazione con maldicenze e molto meno con calunnie. Se possiamo impedire quelli che parlano male, dobbiamo farlo; se non possiamo, dobbiamo lasciarli od almeno dire tutto il bene possibile di quelle persone. Ma quanto ai beni dell’anima, che sono cento volte più preziosi di quelli del corpo, possiamo loro procurarli pregando per loro, allontanandoli dal male coi nostri consigli, e soprattutto coi buoni esempi: vi siamo specialmente obbligati verso coloro coi quali viviamo. I padri e le madri, i padroni e le padrone vi sono obbligati in modo particolare per il conto che dovranno rendere a Dio dei loro figli e dei loro servi. Ahimè! F. M., si può dire che i padri e le madri amano i loro figli, quando li vedono vivere così indifferenti per ciò che riguarda la salvezza delle anime loro, e non muovono un dito? Ahimè! F. M., un padre ed una madre, che avessero la carità che debbono avere pei loro figli, potrebbero vivere senza piangere dì e notte sullo stato miserando dei loro figliuoli che sono in peccato, che vivono, purtroppo, da reprobi, che non sono più pel cielo, ma sono invece per l’inferno? … Ahimè! F. M., come desidereranno di procurare la loro salvezza se non pensano neppure alla propria? Davvero, F. M., quanti padri e madri che dovrebbero gemere e pregare continuamente per la condizione dei loro miseri figli, li distraggono invece dal bene e li avviano al male parlando ad essi dei torti, delle offese, delle ingiurie, che hanno loro detto o fatto i vicini, della lor mala fede, dei mezzi impiegati per vendicarsi: il che spinge spesso i figli a volersi essi pure vendicare, od almeno a conservare l’odio nel cuore. Oh! F. M., quanto i primi Cristiani erano ben lontani da ciò, perché comprendevano il valore di un’anima! F. M., se un padre ed una madre conoscessero il valore d’un’anima, potrebbero con tanta indifferenza lasciar perdere quelle dei loro figli o domestici? Potrebbero far loro trascurare la preghiera, per farli lavorare? Avrebbero il coraggio di farli mancare alle sacre funzioni? Mio Dio! che risponderanno a Gesù Cristo quand’Egli mostrerà loro che hanno preferito una bestia all’anima dei loro figli? Ah! che dico? un pugno di fieno! O povera anima, quanto poco sei stimata! No, no, F. M., questi padri e queste madri ciechi ed ignoranti, giammai hanno compreso che la perdita dell’anima è un male più grande che la distruzione di tutte le creature che esistono sulla terra. Giudichiamo, F. M., della dignità d’un’anima da quella degli Angeli: un Angelo è così perfetto che quanto vediamo sulla terra od in cielo è meno d’un grano di polvere in confronto al sole: eppure per quanto perfetti siano gli Angeli, non hanno costato a Dio che una parola: mentre un’anima ha costato il prezzo del suo Sangue adorabile. Il demonio per tentare il Salvatore gli offerse tutti i regni del mondo, dicendogli: “Se vuoi prostrarti davanti a me, ti darò tutti questi beni (Matt. IV, 9): „ il che ci mostra che un’anima è infinitamente più preziosa agli occhi di Dio, ed anche del demonio, che non tutto l’universo con quanto contiene (Matt. XVI, 26). Ah! quale vergogna per questi padri e queste madri che stimano l’anima dei loro figli meno di quanto le stima il demonio stesso! Sì, F. M., la nostra anima ha un valore così grande che, dice S. Giovanni Crisostomo, se vi fosse stato anche un sol uomo sulla terra, la sua anima è così preziosa agli occhi di Gesù Cristo, che non avrebbe stimato indegno di sé il morire per salvarla. ” Sì, dice egli, un’anima è sì cara al suo Creatore, che, se essa l’amasse, Egli annienterebbe i cieli piuttosto che lasciarla perire.„ —” 0 mio corpo, esclamava S. Bernardo, quanto sei onorato di albergare un’anima così bella! „ Ditemi, F. M., se foste stati ai piedi della croce, ed aveste raccolto in un vaso il Sangue adorabile di Gesù Cristo, con qual rispetto l’avreste conservato? Ora, F. M., dobbiamo avere altrettanto rispetto e cura per conservare l’anima nostra, perché essa è costata tutto il sangue di Gesù Cristo. “Dacché ho riconosciuto, ci dice S. Agostino, che la mia anima è stata redenta col sangue d’un Dio, ho deciso di conservarla a costo pure della mia vita, e di non ridonarla mai al demonio col peccato. „ Ah! padri e madri, se foste ben convinti che siete i custodi delle anime dei figli vostri, potreste lasciarle perire con tanta indifferenza? Mio Dio, quante persone dannate per aver lasciato perdere qualche povera anima, ciò che, volendo, avrebbero potuto impedire! No, F. M., non abbiamo la carità che dovremmo avere gli uni per gli altri, e soprattutto pei nostri figli e domestici. – Leggiamo nella storia che al tempo dei primi Cristiani, quando gli imperatori pagani li interrogavano per sapere chi fossero, rispondevano: “Ci domandate che cosa siamo, eccolo: non formiamo che un solo popolo ed una sola famiglia, unita insieme dai vincoli della carità: Quanto ai nostri beni, sono tutti in comune: chi ha dà a chi non possiede; nessuno si lamenta, nessuno si vendica, nessuno dice male dell’altro o fa male ad alcuno. Noi preghiamo gli uni per gli altri, ed anche per i nemici; invece di vendicarci facciamo del bene a chi ci fa del male, benediciamo quelli che ci maledicono. „ Ah! F. M., dove sono quei tempi felici? Ahimè! quanti Cristiani al presente non hanno che amore per se stessi, niente pel prossimo! –  Volete sapere, F. M., che cosa sono i Cristiani dei nostri giorni? Ecco, ascoltatemi. Se due persone maritate sono del medesimo umore, dello stesso carattere, ovvero hanno le medesime inclinazioni, voi le vedete che amandosi vivono insieme: questo non è cosa rara. Ma se l’umore od il carattere non si accordano, non v’è più pace, amicizia, carità, prossimo. Ahimè! F. M., sono Cristiani che non hanno che una falsa religione: amano il loro prossimo solo quando esso possiede le loro inclinazioni, o favorisce i loro sentimenti ed interessi, altrimenti non possono più vedersi, né tollerarsi in compagnia: bisogna separarsi, si dice, per avere la pace e salvare l’anima propria. Andate, poveri ipocriti, andate, separatevi da quelli che non sono, come dite, del vostro carattere, e coi quali non potete vivere: non potete allontanarvi tanto da essi quanto già lo siete da Dio. Andate, la vostra religione non è che apparenza, e voi stessi non siete che dei riprovati. Non avete mai conosciuto né la vostra religione, né ciò che vi comanda, nè la carità che dovete avere pel vostro fratello per piacere a Dio e salvarvi. Non è difficile amare quelli che ci amano, e che sono del nostro parere in quanto diciamo o facciamo, perché in ciò non facciamo nulla di più dei pagani, che facevano altrettanto. S. Giacomo ci dice (Giac. II, 2, 3): “Se fate bella accoglienza ad un ricco, e disprezzate il povero; se salutate con garbo chi vi ha fatto del bene, mentre appena salutate chi vi ha insultato, voi né adempite la legge, né avete la carità che dovete avere: non fate niente di più di coloro che non conoscono il buon Dio. „ — Ma, mi direte, come dobbiamo adunque amare il nostro prossimo? — Eccolo. S. Agostino ci dice che dobbiamo amarlo come Gesù Cristo ci ama: Egli non ha ascoltato né la carne né il sangue, ma ci ha amati per santificarci e meritarci la vita eterna. Noi dobbiamo augurare e desiderare al nostro prossimo tutto il bene che possiamo desiderare per noi stessi. Sì, F. M., non conosceremo di essere sulla strada del cielo e di amare veramente il buon Dio, se non quando trovandoci con persone interamente opposte al nostro carattere e che sembrano contraddirci in tutto, tuttavia le amiamo come noi stessi, le vediamo di buon grado, ne parliamo bene e mai male, cerchiamo la loro compagnia, le preveniamo, e rendiamo loro servizi, a preferenza di tutti quelli che ci interessano e non ci contraddicono in nulla. Se facciamo questo, possiamo sperare che l’anima nostra sia nell’amicizia di Dio, e che amiamo il nostro prossimo cristianamente. Ecco la regola ed il modello che Gesù Cristo ci ha lasciato e che tutti i santi hanno riprodotto: non inganniamoci, non v’ha altra via che ci conduca al cielo. Se non fate questo, non dubitate un solo istante che voi camminate per la via della perdizione. Andate, poveri ciechi: pregate, fate penitenza, assistete alle funzioni sacre, frequentate i Sacramenti tutti i giorni, se vi piace: date tutta la vostra sostanza a quelli che vi amano, non per questo sfuggirete d’andar a bruciare nell’inferno dopo la vostra vita! Ahimè! F. M., quanto è scarsa la vera divozione, quante divozioni invece di capriccio, d’inclinazione! Vi sono di quelli che danno tutto, e sono pronti a tutto sacrificare, quando si tratta di persone che loro convenga di trattar così o che essi amano. Ahimè! pochi hanno quella carità che piace a Dio e conduce al cielo! F. M., volete un bell’esempio di carità cristiana? eccovene uno che potrà servirvi di modello per tutta la vostra vita. Si racconta nella storia dei Padri del deserto (Vita dei Padri del deserto, t. IV, pag. 23. Storia di Eulogio d’Alessandria e del suo lebbroso), che un solitario incontrò un giorno per via un povero storpio, coperto di ulceri e di putredine: era in istato così miserabile da non poter né guadagnarsi la vita, e neppur trascinarsi. Il solitario, mosso a compassione, lo portò nella sua colletta, e gli diede tutti i conforti possibili. Avendo il povero riprese le forze, il solitario gli disse: “Volete, fratello mio, restare con me? farò quanto potrò per nutrirvi, e pregheremo e serviremo il buon Dio insieme. „ — “Oh! qual gioia mi date, dissegli il povero; quanto son felice di trovare nella vostra carità un sollievo alla mia miseria!„ Il solitario che stentava già tanto a guadagnarsi da vivere, raddoppiò il lavoro per poter nutrire il povero il meglio che potesse, ed assai meglio di se stesso. Ma, dopo qualche tempo, il povero cominciò a mormorare contro il suo benefattore, lamentandosi che lo nutriva troppo male. ” Ahimè! caro amico, gli disse il solitario, vi nutro meglio di me, non posso fare di più per voi. „ Alcuni giorni dopo, l’ingrato ricominciò i suoi lamenti, e lanciò contro il benefattore un torrente d’ingiurie. Il solitario soffrì tutto con pazienza, senza rispondere. Il povero si vergognò d’aver parlato in tal modo ad un uomo così santo, che non gli faceva che del bene, e gli domandò scusa. Ma ricadde bentosto nelle stesse impazienze, e concepì un tal odio contro il buon solitario, che nol poteva più sopportare. “Sono stanco di vivere con te, voglio che tu mi riporti dove m’hai trovato; non son uso ad esser nutrito così male… Il solitario gli domandò perdono, promettendogli che cercherebbe di trattarlo meglio. Il buon Dio gli ispirò d’andare da un caritatevole benestante vicino per domandargli del cibo migliore pel suo storpio. Il benestante, mosso a compassione, gli disse di venire ogni giorno a prendere il vitto. Il povero sembrò contento: ma dopo alcune settimane, ricominciò a fare nuovi e pungenti rimproveri al solitario. ~ Va, gli diceva, tu sei un ipocrita, fai mostra di cercar l’elemosina per me, ed invece lo fai per te: tu mangi la parte migliore di nascosto, e non mi dai che i tuoi avanzi. „ — “Ah! amico mio, dissegli il solitario, mi fate torto. vi assicuro che non domando mai niente per me , che non tocco neppur un briciolo di quanto mi si dà per voi: se non siete contento dei servizi che vi rendo, abbiate almeno pazienza per amore di Gesù Cristo, aspettando ch’io faccia meglio. „ — ” Va, rispose il povero, non ho bisogno delle tue esortazioni, „ e, preso un sasso, lo scagliò alla testa del solitario, che appena poté evitarlo. Di poi il tristo, preso un grosso bastone, di cui servivasi per trascinarsi, gli diede un colpo così forte da gettarlo a terra. “Il buon Dio vi perdoni, dissegli il solitario; da parte mia, per amor di Gesù Cristo vi perdono i cattivi trattamenti che mi usate. „ — “Dici che mi perdoni, ma non è che a fior di labbra; perché so che tu vorresti vedermi morto. „ — “Vi assicuro, amico mio, dissegli dolcemente il solitario, che è con tutto il mio cuore che vi perdono. „ E volle abbracciarlo per dimostrargli che l’amava. Ma il miserabile lo prese alla gola, gli graffiò il viso colle unghie, e tentava strangolarlo. Essendosi il solitario svincolato dalle sue mani, il povero gli disse: “Va pure, ma non morrai che per mano mia. „ Il solitario, sempre preso da compassione e ripieno di carità veramente cristiana, portò pazienza con lui per tre o quattro anni. Durante questo tempo, Dio solo seppe quanto ebbe a soffrire da parte del povero. Questi gli diceva ad ogni momento di riportarlo al luogo dove l’aveva trovato, che preferiva morir di fame o di freddo, od esser divorato dalle belve piuttosto che vivere con lui. Il solitario non sapeva a qual partito appigliarsi: da una parte, la carità gli dimostrava che, riportandolo al posto dove l’aveva trovato, sarebbe morto di miseria: dall’altra, temeva di perder la pazienza nella prova. Pensò d’andar a consultare S. Antonio sul partito da prendere per essere più accetto a Dio: non temeva né le pene, né gli oltraggi che riceveva in cambio dei suoi benefizi; ma voleva soltanto conoscere la volontà di Dio. Arrivato da sant’Antonio, prima ancora di parlare, questi inspirato dallo Spirito Santo, gli disse : “Ah! figlio mio, so che cosa ti conduce qui, e perché vieni a trovarmi. Guardati bene dal seguire il pensiero che hai di mandar via quel povero: è una cattiva tentazione del demonio che vuol rapirti la corona: se avessi la sventura di abbandonarlo, figlio mio, non l’abbandonerebbe il buon Dio. „ Sembrava, a quanto dissegli S. Antonio, che la sua salvezza dipendesse dalle cure che aveva pel poveri. “Ma, padre mio, dissegli il solitario, temo di perdere la pazienza. „ — ” E perché la perderesti, figliuol mio? gli replicò S. Antonio: non sai che è appunto verso quelli che ci trattano peggio, che dobbiamo esercitare la nostra carità più generosamente? Figlio mio dimmi, qual merito avresti esercitando la pazienza con chi non ti facesse mai alcun male? Non sai tu che la carità è una virtù coraggiosa, che non guarda i difetti di chi ci fa soffrire, ma invece guarda Iddio solo? Quindi, figlio mio, ti impegno assai a custodire questo povero: più è cattivo, più devi averne pietà: quanto gli farai per carità, Gesù Cristo lo riterrà fatto a se stesso. Mostra colla tua pazienza che sei discepolo d’un Dio che ha patito. Ricordati che dalla pazienza e dalla carità si conosce il Cristiano. Considera questo povero come quegli di cui vuol servirsi Iddio per farti guadagnare la tua corona. „ Il solitario fu soddisfattissimo di udire da quel gran santo ch’era volontà di Dio ch’ei custodisse il suo povero, e che quanto faceva per luì era assai accetto al Signore. Ritornò presso il suo povero, e dimenticando tutte le ingiurie ed i maltrattamenti ricevuti sino allora, mostrò verso di lui una carità senza limiti, servendolo con una umiltà ammirabile, e non cessando di pregare per lui. Il buon Dio vide nel giovane solitario tanta pazienza e carità che gli convertì il povero: e con questo mostrò al suo servo, quanto gli fosse gradito tutto quello che aveva fatto, perché concesse all’infelice la conversione e la salvezza. Che ne pensate, F. M.? È questa una carità cristiana, sì o no? Oh! quanto quest’esempio nel gran giorno del giudizio confonderà i Cristiani che non vogliono neppur soffrire una parola, sopportare per otto giorni il cattivo carattere d’una persona senza mormorare, e forse volerle male. Bisogna lasciarsi, si dice bisogna separarsi per aver la pace. O mio Dio, quanti Cristiani si dannano per mancanza di carità! No, no, F. M., faceste anche miracoli, non andrete mai salvi, se non avete la carità. F. M., non aver carità è non conoscere la propria religione: è avere una religione di capriccio, stravagante, e volubile. Andate, andate, non siete che ipocriti e riprovati! Senza la carità giammai vedrete Dio, giammai vedrete il cielo… Date i vostri beni, fate grandi elemosine a quelli che v’amano o vi piacciono, ascoltate tutti i giorni la santa Messa, comunicatevi anche, se vi piace ogni dì: non siete che ipocriti e riprovati: continuate la vostra strada e ben presto vi troverete all’inferno! … Non potete sopportare i difetti del vostro prossimo, perché è troppo noioso, non vi piace starvene con lui. Andate, andate pure, disgraziati, non siete che ipocriti, non avete che una falsa religione, la quale, con tutto il bene che fate, vi condurrà all’inferno. Mio Dio! Come è rara questa virtù! Ahimè! è così rara come sono rari quelli che andranno in cielo. Non amo vederli, mi direte: in chiesa, mi causano distrazioni con ogni loro atto. — Ah! disgraziato; di’ piuttosto che non hai carità, che sei un miserabile, che ami solamente quelli che s’accordano coi tuoi sentimenti od interessi, che non ti contraddicono in nulla, e ti adulano per le tue buone opere, che usano ringraziarti dei tuoi benefici, e ti ricambiano con la riconoscenza. – Voi farete di tutto per costoro, non vi rincresce neppur di privarvi del necessario per soccorrerli: ma se vi disprezzano, se vi contraccambiano con ingratitudini, non li amate più, non volete più vederli, fuggite la loro compagnia: nei colloquii che avete con loro, tagliate corto. Mio Dio! quante false divozioni che devono condurci tra i riprovati! Se ne dubitate, F. M., ascoltate S. Paolo, che non può ingannarvi: “Se donassi, egli dice, ogni mio avere ai poveri, se facessi miracoli risuscitando i morti, ma non avessi la carità, non sono altro che un ipocrita (1 Cor. XIII, 3). „ Ma per meglio convincervene, percorrete tutta la passione di N. Signore Gesù Cristo, vedete tutte le vite dei Santi, non ne troverete alcuno che non abbia questa virtù, cioè che non abbia amato quelli che lo ingiuriavano, che gli volevan male, che lo ricambiavano d’ingratitudine nei suoi benefizi. No, no, non ne vedrete uno, che non abbia preferito far del bene a chi gli abbia fatto qualche torto. Vedete S. Francesco di Sales, che ci dice che se avesse un’opera buona soltanto da fare, sceglierebbe chi gli ha fatto qualche oltraggio, piuttosto che uno da cui avesse ricevuto qualche servigio. Ahimè! F. M., una persona che non ha la carità quanto va innanzi nel male! Se alcuno le ha fatto qualche torto, vedetela esaminare ogni sua azione: le giudica, le condanna, le volge in male, credendo sempre d’aver ragione. — Ma, mi direte, tante volte, si vede che agiscono male, non si può pensar diversamente. — Amico mio, non avendo carità, credi che facciano male: ma se avessi la carità, penseresti ben diversamente, perché crederesti sempre che puoi ingannarti, come spesso avviene: e per convincervene, eccovi un esempio, che vi prego di non iscancellar dalla vostra mente, specialmente quando vi verrà il pensiero che il vostro prossimo faccia male. – Si racconta nella storia dei Padri del deserto (Vita dei Padri del deserto, t. VIII, pag. 244, S. Simeone, soprannominato Sal, o Salus. cioè lo Stravagante), che un solitario chiamato Simeone, dopo essere stato più anni nella solitudine, ebbe il pensiero di andare nel mondo: ma domandò a Dio che giammai gli uomini potessero conoscere le sue intenzioni. Avendogli Dio accordata questa grazia, andò nel mondo. Faceva il pazzo, liberava gli ossessi dal demonio, guariva gli ammalati: entrava nelle case delle donne di mala vita, faceva loro giurare che non avrebbero amato altri che lui, dando loro tutto il denaro che aveva. Ognuno lo teneva per un solitario impazzito. Si vedeva ogni giorno quest’uomo, che aveva più di settant’anni, giuocare coi fanciulli per le vie: altre volte si gettava in mezzo ai balli pubblici per danzare cogli altri, dicendo loro qualche parola che mostrasse il male che facevano. Ma tutto ciò si considerava come cosa che veniva da un pazzo, non raccoglieva che disprezzi. Altre volte saliva sui teatri, e gettava pietre su quelli ch’erano sotto. Quando vedeva qualche ossesso dal demonio, si metteva in sua compagnia e imitava l’ossesso come se lo fosse egli pure. Lo si vedeva correre per le osterie, accompagnarsi cogli ubbriachi: nei mercati si rotolava per terra, e faceva mille altre cose assai stravaganti. Tutti lo condannavano, lo disprezzavano; gli uni lo stimavano pazzo, gli altri un libertino ed un cattivo soggetto, meritevole solo della prigione. Eppure, F. M., malgrado ciò, era un santo, che cercava solo il disprezzo, e di guadagnare anime a Dio, sebbene il mondo lo giudicasse male. Il che ci mostra che sebbene le azioni del nostro prossimo ci appariscano cattive, non dobbiamo giudicarle male. Spesso le giudichiamo cattive, mentre agli occhi di Dio non sono tali. Ah! chi avesse la fortuna di possedere la carità, questa bella ed incomparabile virtù, si guarderebbe dal giudicare il suo prossimo e dal volergli male! — Ma, direte, il suo carattere: è troppo cattivo, non si può sopportarlo. — Voi non potete sopportarlo, amico mio; credete dunque d’essere un santo e senza difetti? povero cieco! vedrete un giorno che ne avete fatto soffrire più voi a coloro che vi stanno intorno, che non essi a voi. È cosa solita che i cattivi credono di non far soffrire nulla agli altri, e che debbono tutto soffrire dagli altri. Mio Dio, quanto l’uomo è cieco, quando la carità non trovasi nel suo cuore! D’altra parte, se non aveste nulla da soffrire da coloro che vivono con voi, che cosa avreste da presentare al buon Dio? — Quando, dunque, si potrà conoscere di essere sulla strada che conduce al cielo? — No, no, F. M., finché non amerete coloro che sono d’umore, di carattere differente dal vostro, ed anche coloro che vi contraddicono in quanto fate, sarete solo un ipocrita, mai un buon Cristiano. Fate, finché volete tutte le altre opere buone; esse non vi impediranno d’andar dannati. Del resto vedete la condotta che tennero i Santi, e come si diportarono col prossimo: ed eccovi un esempio che ci mostra come questa virtù sola, sembra assicurarci il cielo. Narrasi nella storia che un solitario, il quale aveva condotto una vita assai imperfetta, almeno in apparenza ed agli occhi del mondo. si trovò all’ora della morte così contento e consolato, che il superiore ne fu sorpreso. Pensando fosse un inganno del demonio, gli domandò donde potesse venirgli tale contentezza, sapendo benissimo che la sua vita non poteva troppo rassicurarlo, considerato che i giudizi di Dio sono così terribili, anche pei più perfetti. “È vero, Padre mio, dissegli il morente; io non ho fatto opere straordinarie, anzi quasi nulla di bene: ma ho cercato in tutta la mia vita di praticare quel gran precetto del Signore, che è quello d’amar tutti, di pensar bene di tutti, di sopportare i difetti, di scusarli, di render loro servizi; io l’ho fatto tutte le volte che n’ebbi occasione: ho procurato di non far mai male ed alcuno, di non parlar male, e di pensar bene di tutti: ecco, Padre mio, ecco quanto forma tutta la mia consolazione e speranza in questo momento, e che, malgrado le mie imperfezioni, mi dà fiducia che il buon Dio avrà pietà di me. „ Il superiore ne fu così meravigliato, che esclamò con trasporto di ammirazione: “Mio Dio! quanto questa virtù è bella e preziosa agli occhi vostri. „ — “Andate, figlio mio, disse al solitario, avete tutto fatto ed adempiuto osservando questo comandamento: andate, il cielo per voi è sicuro. „ Ah! F. M., se conoscessimo bene questa virtù, e quale ne sia il valore davanti a Dio, con quanta premura coglieremmo tutte le occasioni per praticarla, poiché essa racchiude tutte le altre, e ci assicura così facilmente il cielo! No, no, F. M., non saremo che ipocriti, finché questa virtù non accompagnerà tutte le nostre azioni. Ma, penserete tra voi, donde nasce che non abbiamo questa carità, mentr’essa ci rende felici anche in questo mondo per la pace e l’unione che regnano tra coloro che hanno la gran fortuna di possederla ? — F. M., tre cose ce la fanno perdere, cioè: l’avarizia, l’orgoglio e l’invidia. — Ditemi: perché non amate quella persona? — Ahimè! perché non ne avete alcun interesse: avrà detto qualche parola o fatto qualche cosa che non vi piacque: ovvero le avete domandato qualche favore che vi ha rifiutato: ovvero avrà fatto qualche guadagno che speravate voi: ecco ciò che vi impedisce d’amarla come dovreste. E non pensate che, finché non amerete il vostro prossimo, cioè tutti gli uomini, come vorreste essere amati voi, siete un, che se aveste a morire sareste dannato. Eppure vi piace ancora nutrire nel vostro cuore sentimenti che non son davvero caritatevoli; fuggite quelle persone; ma badate bene, amico mio, che anche il buon Dio non vi fugga. Non dimenticate che finché non amate il vostro prossimo, Dio è in collera con voi: se veniste a morire, vi precipiterebbe subito nell’inferno. Mio Dio! si può vivere coll’odio nel cuore? Ahimè! amico mio, voi siete davvero abbominevole agli occhi di Dio, se siete senza carità. È perché vedete dei grandi difetti nel vostro vicino? Ebbene, amico mio, siate ben persuaso che ne avete anche voi; e forse più grandi agli occhi di Dio, e che non conoscete. E vero che non dobbiamo amare i difetti ed i vizi del peccatore; ma dobbiamo amare la persona; perché sebbene peccatore, non cessa d’essere una creatura di Dio, fatta a sua immagine. Se non volete amare che coloro che non hanno difetti, non amereste nessuno, perché nessuno è senza difetti. Ragioniamo, F. M., un po’ più da Cristiani: più un Cristiano è peccatore, più è degno di compassione e d’aver un posto nel nostro cuore. No, P. M., per quanto cattivi siano coloro coi quali viviamo, non dobbiamo odiarli: ma, ad esempio di Gesù Cristo, amarli più di noi stessi. Vedete come Gesù Cristo, nostro modello, si è comportato coi suoi nemici: ha pregato per loro, e per loro è morto. Chi ha indotto gli apostoli attraversare i mari, ed a finire la vita col martirio? Non fu l’amore per gli uomini? Vedete la carità di S. Francesco Zaverio, che abbandona la patria ed i beni, per andar ad abitare tra i barbari, che gli fanno soffrire quanto è possibile far soffrire ad un Cristiano, salvo la morte. Vedete S. Abramo, un solitario, che abbandona la solitudine per andare a predicare la fede in un paese, dove nessuno aveva potuto farla ricevere. Non fu la sua carità causa ch’ei fosse battuto, e trascinato per terra fino ad esservi abbandonato mezzo morto? Non poteva lasciarli nella loro cecità? Sì, senza dubbio; ma la carità, il gran desiderio di salvare quelle povere anime gli fece soffrire tutte queste ingiurie (Vita dei Padri del deserto, t. VIII, pag. 165, s. Abramo, prete e solitario). Sì, F. M., chi ha la carità non vede i difetti del fratello, ma soltanto la necessità di aiutarlo a salvar l’anima a qualunque costo. Aggiungo inoltre, che se amiamo davvero il nostro prossimo ci guarderemo dallo scandalizzarlo, o far cosa che possa distoglierlo dal bene e portarlo al male. Sì, F. M., dobbiamo amar tutti, e a tutti far del bene quanto possiamo e per l’anima e pel corpo: perché Gesù Cristo ci dice, che quando facciamo qualche bene al prossimo nel suo corpo, lo facciamo a Lui stesso: quindi, a più forte ragione, quando l’aiutiamo a salvar l’anima. Non dimentichiamo mai queste parole che Gesù Cristo ci dice nel Vangelo: “Venite, benedetti del Padre mio, ebbi fame, e mi deste da mangiare, ecc. (Matt. XXV, 34). „ Vedete la carità di san Serapione, che lasciò il suo abito per donarlo ad un povero: ne incontrò un altro, gli diede la sottoveste: non restandogli che il libro del Vangelo, va a venderlo per poter ancora dare. Un discepolo gli domandò chi l’avesse cosi spogliato. Rispose, che avendo letto nel suo libro: “Vendete, date quanto avete ai poveri, ed avrete un tesoro in cielo: perciò ho venduto anche il libro. „ Andò ancora più innanzi, diede se stesso ad una povera vedova perché lo vendesse, e ne ricavasse di che nutrire i suoi figli: e, condotto fra i barbari, ebbe la lieta sorte di convertirne buon numero. Oh! bella virtù! se avessimo la felicità di possederti, quante anime condurremmo al buon Dio!… Quando S. Giovanni l’Elemosiniere pensava a questa bella azione di S. Serapione: “Credetti, diceva a’ suoi amici, d’aver fatto qualche cosa, dando tutto il mio denaro ai poveri: ma ho riconosciuto che non ho ancora fatto nulla, perché non ho dato me stesso come il beato Serapione, che si vendé per nutrire i figli della vedova „ (Vita dei Padri del deserto, t. IV, pag. 49. S. Serapione il Sindonita). – Concludiamo, F. M., che la carità è una delle più belle virtù, e che più d’ogni altra ci assicura l’amicizia del buon Dio: colle altre virtù, possiamo essere ancora sulla strada dell’inferno: ma con la carità, che è universale, che non fugge, che ama i nemici come gli amici, che fa del bene a chi ci fa del male, come a chi ci fa del bene! Chi la possiede è sicuro che il cielo è suo!… È  la felicità ch’io vi auguro.

IL SEGNO DELLA CROCE (4)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (4)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA TERZA.

28 novembre.

Seguito della terza presunzione: I dottori dell’Oriente e dell’Occidente.— Costantino, Teodosio, Carlomagno, San Luigi, Baiardo, Don Giovanni d’Austria, Sobieski. — Quarta presunzione: La condotta della Chiesa. — Quinta presunzione: Quelli che non fanno il segno della Croce. — Riassunto.

Ora, mio caro amico, senza eccezione alcuna tutti questi grandi geni facevano il segno della Croce, come devote giovanette. Questi lo facevano continuamente e non rifinivano dall’inculcare i Cristiani di eseguirlo in tutte le occasioni. Fare il segno della croce sopra di quelli che mettono in Gesù Cristo ogni loro speranza, dice uno di loro, è cosa fra noi notissima, e studiosamente eseguita, Primum est et notissimum (S. Basil. De S. S. c. XXVII). Un altro: La croce è dappertutto: presso i re ed i sudditi, gli uomini e le femmine, le vergini e le spose, gli schiavi ed i liberi, tutti segnano di esso il membro più nobile, la fronte…. Non vogliate sortire dalla vostra abitazione senza dire: Rinunzio a satana, e sono seguace fedele di Cristo, e senza accompagnare queste parole col segno della croce: cum hoc verbo et crucem in fronte imprimas (Crysost. Him. XXI, ai pop. Antioch.). Ed un altro: Noi dobbiamo segnarci ad ogni operazione che ci occorre compiere nel corso del giorno; omne diei opus in signo facere Salvatori* (S. Ambr. Serm. XLIII). E Gaudenzio, il gran Vescovo: « Il segno della croce sia fatto constantemente sul cuore, sulle labbra, e sulla fronte, al pranzo, al bagno, al letto, entrando o sortendo da casa, nella gioia e nella tristezza, stando seduto ed in piedi, parlando, camminando, a dir corto, in ogni operazione: verbo dicam, in omni negotio. Facciamolo sul nostro petto e sopra tutte le membra, onde l’intiero nostro corpo sia difeso da questa invincibile arma de’ Cristiani: armemur hac insuperabili christianorum armatura » (S. Gaud. Ep. Brix Tract. de lect. evang., S. Ciril. Hier. Catech, iv, n. 14. – S Efrem de Panoplia). – Fino agli estremi di loro vita, confermando le parole coi loro esempi, noi vediamo questi geni morire, come l’illustre Crisostomo, questo re della eloquenza, segnandosi del santo segno redentore. Il fiore de’ Cristiani formato a questa scuola ne imitava gli esempi. Girolamo parlando di Paola, di questa discendente degli Scipioni, ci dice: Dessa, sul punto di rendere la sua bell’anima, quando ci era già impossibile più intendere le sue parole, avea il dito sulla bocca, e, fedele al pio uso, ella disegnava la croce sulle sue labbra (Ad Eustoch. De Epiph. Paulæ).  – Attraversiamo i secoli ed accenniamo qualche anello della catena tradizionale. Senza far parola degl’immortali imperatori, legislatori e guerrieri ad un tempo, Costantino, Teodosio, Carlomagno, fedeli al pio uso di segnarsi del santo segno della croce, arriviamo al migliore de’ re, che abbia avuto la Francia, S. Luigi. Il suo amico ed istoriografo de Joinville scrive di lui: « Il re cominciava dal segno della croce la tavola, il consiglio, la guerra, tutte le sue azioni »(Vita cap. XV). Del cavaliere senza paura e sema rimprovero, Baiardo, ferito a morte, ultimo gesto fu il segno della croce, ch’egli fece con la spada. La potenza cattolica e la potenza musulmana si trovano di rincontro nel golfo di Lepanto, rappresentate da due flotte che sorpassavano il numero di quattrocento vele. Da questa guerra dipende il trionfo della civiltà, o quello della barbarie, i destini dell’Europa sono nelle mani di Don Giovanni d’Austria. L’eroe cristiano innanzi di dare il segno della battaglia si segna, ed i capitani lo imitano. L’islamismo non ancora può rifarsi della completa rotta, che ne riportò. Ma non pertanto un secolo più tardi volea riparare le sue perdite. Le sue orde innumerevoli si avanzavano fin sotto le mura di Vienna. Sobieski accorre con forze che sono un nulla al confronto di quelle dell’inimico. Ma Sobieski è Cristiano. Innanzi di discendere nel campo della battaglia fa segnare di croce la sua armata, e se stesso segua di una croce vivente, ascoltando la messa con le braccia distese in forma di croce. Per questo segno, dice un guerriero Cristiano, il visir fu battuto.  Non la finirei, mio caro, se volessi narrare lutti i fatti storici che confermano la frequenza e la perpetuità di questo segno, presso i veri Cristiani di tutti i secoli e di tutte le condizioni, sì nel mondo, che nei chiostri dell’Oriente e dell’Occidente. Questa gloriosa tradizione non è una presunzione rispettabile in favore de’ nostri maggiori della Chiesa primitiva? Che cosa mai ne pensano i tuoi compagni?  

Quarta presunzione in favore de’ primi Cristiani è l’uso della Chiesa. I secoli, e con essi gli uomini cangiano leggi, abitudini, mode, linguaggio, maniera di vedere e di giudicare: tutto si modifica. Solo la Chiesa non cambia mai, immutabile come la verità di che è maestra, quanto essa insegnava e faceva ieri, insegna ed opera quest’oggi, insegnerà ed opererà domani e sempre. Qual è il suo pensiero e la sua condotta sul conto del segno delia croce? Nulla v’ha, su di che meglio si mostri la sua divina immutabililà. Da poi 18 secoli si può dire, che la Chiesa vive del segno della croce: un istante solo non lascia di praticarlo. Comincia, continua, compie ogni operazione con questo segno. Di tutte le sue pratiche il segno della croce è la principale, la più comune e familiare, desso è l’anima de’ suoi esorcismi, delle sue preghiere e benedizioni. Quanto essa opera al presente nelle nostre basiliche sotto i nostri occhi, essa operava nelle catacombe al cospetto de’ nostri padri. Senza il segno della croce, dicono essi, nulla si fa tra noi legittimamente, niente è santo e perfetto (Sine quo signo nihil est sanctum, neque alia consecratio meretur effectum. S. Cypr. de bapt. chr. Quod signum nisi adhibeatur, nihil recte perficitur. S. Aug Tract. 188 in Joan. n. 5). Il potere della Chiesa, come quello del suo Fondatore, si esercita sulle persone e sulle cose, si estende sino al cielo e per tutta la terra: Data est mini omnis potestas. Come la esercita essa? Per Io mezzo del segno della croce. Quanto essa destina a’ suoi usi, l’acqua, il sale, il pane, il vino, il fuoco, le pietre, il legno, l’olio, il balsamo, il lino, la seta, il bronzo, i metalli preziosi, tutto segna di croce. Quanto appartiene ai suoi figli, le loro dimore, i campi, gli armenti, i loro strumenti da lavoro, le invenzioni di loro industria, di tutto prende possesso col segno della croce.  Vuole dessa preparare al Signore del cielo un’abitazione sulla terra? Innanzitutto la croce deve conservare lo spazio che occuperà l’edilizio. Niuno, dicono i Concili, si permetta innalzare una Chiesa, innanzi venga il Vescovo e vi faccia il segno della croce per scacciare satana (Nemo Ecclesiam ædificet, antequam Episcopus civitatis veniat et ibidem crucem figat: addit glossa, ad abigendas inde dæmonum phantasia.’. (Novella T, paragraph. I. Cap. Nemo consecrat. dixt.). Il segno della croce è il primo mezzo, di che usa per benedire i materiali del tempio, e per ben venti volte lo esegue sul pavimento, sui pilastri, e l’altare, e per renderlo immobile fa sormontare il tempio da una croce di ferro. Quando i suoi figli verranno nella casa di Dio, che faranno eglino avanti che ne passino la soglia? Il segno della croce. Da qual cosa i capi della preghiera, i Vescovi ed i preti cominceranno a celebrare le lodi dell’Altissimo? Dal segno della croce. Quando al principio de’ santi uffizi noi facciamo il segno della croce accompagnandolo con le parole: Signore venite in mio soccorso; è come se dicessimo, scrive un’antico liturgista: Signore, la vostra croce è il nostro aiuto: la mano ve ne rappresenta il segno, e la lingua vi prega. satana è il condottiere di tutti i nostri nemici; egli governa il mondo, e solletica la nostra carne. Ma se voi, o Signore, verrete in nostro soccorso con la vostra croce, esso e tutti i nostri nemici verranno messi in fuga. Ecco la sua condotta per l’uomo tempio vivo della Trinità. Quello, che opera sopra di lui quando sorte dal seno materno, è il segno della croce; e quando l’uomo entra nel seno della terra, la Chiesa dello stesso segno l’adorna. Questo è il primo saluto e l’ultimo addio, ch’ella usa col figlio della sua tenerezza. E quanti segni di croce lungo il tempo interposto fra la tomba e la culla? Al Battesimo, quando egli diviene figlio di Dio, lo segna di croce; nella Confermazione, sul punto di divenire soldato della virtù, lo segna di questa croce; nella Eucaristia, quando riceve il Pane degli Angeli, lo segna parimente; alla penitenza, dove l’uomo riacquista la vita divina, il segno redentore è eseguito sopra di lui; nella Estrema unzione, dalla quale trae forza per l’ultima battaglia, la croce lo segna; nell’Ordine e nel Matrimonio, in questa associazione alla paternità divina,la Chiesa onora l’uomo con questo segno (Si regenerari oportet, crux adest; si mystico cibo nutriri, si ordinari, et si quidvis aliud faciendum, ubique nobis adest hòc victoriæ symbolum. (S. loan. Chrysot. iti Matth, homil. 54, ri. 4). Quod Signum nisi adbibeatur frontihus crederitium, sive ipsi aquæ in qua regenerantur, sive oleo quo cbrismate unguntur, sire sacrificio quo aluntur, nihil eorum recte perficitur. S. August, in Joan, tract. 128, n. 5). Ma v’ha di più. Quando la Chiesa nella persona del Sacerdote ascende l’altare armato della onnipotenza con che comanda, non più alla creatura ma al Creatore, non all’uomo ma a Dio, il cielo si apre alla sua voce, ed il Cristo rinnova tutti i misteri della sua vita, della sua morte, e della gloriosa Resurrezione; v’ha alto alcuno da eseguire con maggiore solenne gravità, e da cui è da eliminare accuratamente quanto potrebb’essere straniero e superfluo? Ora nel corso di questa azione per eccellenza, che cosa fa la Chiesa? In essa più che in ogn’altra moltiplica il segno della croce; dessa si ravvolge nel segno della croce; cammina attraverso questo segno, lo ripete sì soventemente, che il numero di questo potrebbe sembrare esagerato, se non fosse profondamente misterioso. Sai tu quante volte il prete esegue il segno della croce lungo il tempo della Messa? Egli lo fa quarantotto volte. Dico male: per quanto dura il Sacrifizio, il prete è un segno di croce vivente.  E la Chiesa cattolica, la grave institutrice delle nazioni, la grande maestra della verità, si compiacerebbe di ripetere in sì solenne azione, un segno inutile, superstizioso, o di nessuna importanza! Se i tuoi compagni lo credono, a torto sono increduli; non mancano di credulità. La condotta della Chiesa e de’ veri Cristiani di tutti i secoli, è una presunzione vittoriosa in favore de’ nostri antenati.

La quinta presunzione in favore de’ primi Cristiani sono quelli che non fanno il segno della croce. Sulla terra v’hanno sei categorie di esseri che non fanno il segno della croce. I pagani: Cinesi, Indiani, Tibetani, Ottentotti, i selvaggi dell’Oceania, gli adoratori d’idoli mostruosi, i popoli profondamente degradati, e non meno infelici; questi non fanno il segno della croce. I maomettani: simili agl’immondi animali pel sensualismo, ed alle tigri per la ferocia, sono automi del fatalismo; questi, non si segnano. I Giudei: incrostati di falde di profonda superstizione, sono una pietrificazione vivente di una razza scaduta; questi neanche si segnano. Gli eretici: settari orgogliosi a segno da voler riformare l’opera di Dio, e cui toccò in sorte perdere fin l’ultimo lembo di verità, lo posso, scriveva non ha guari uno de’ ministri prussiani, scrivere sull’unghia del mio pollice quanto v’ha di comune credenza fra i protestanti: i protestanti non hanno il segno della croce. I cattivi Cattolici: rinnegati del loro Battesimo, schiavi del rispetto umano, superbi ignoranti, che parlano di tutto del tutto, ignoranti, adoratori del dio ventre, del dio carne, del dio materia, e la cui vita è sozza al pari d’immondo limo: questi del pari non si segnano. Le bestie: bipedi e quadrupedi di tutte le specie; cani, gatti, asini, muli, cammelli, i barbagianni, i coccodrilli, le ostriche, gl’ippopotami, questi non si segnano. – Tali sono le sei categorie di esseri che non fanno il segno della croce. Se nei tribunali il carattere morale degli accusatori e dei difensori contribuisce grandemente, innanzi lo stesso esame della causa, a formare l’opinione de’ giudici; lascio a te stesso pensare se il carattere di quelli che non fanno il segno della croce sia una presunzione favorevolissima pei primi Cristiani!  A dir breve, relativamente al segno della croce frequentemente eseguito, il mondo è diviso in due campi opposti.

A favore: gli ammirevoli Cristiani della primitiva Chiesa, gli uomini di gran santità, i più grandi geni dell’Oriente e dell’Occidente, i veri Cristiani di tutti i secoli, la Chiesa Cattolica istessa, maestra di verità.

Contro: i pagani, i maomettani, i giudei, gli eretici, i cattivi cattolici e le bestie.

Mi pare che tu possa di già pronunziarti. Ma meglio lo potrai quando saprai le ragioni, che condannano gli uni e giustificano gli altri. Te le dirò nelle seguenti lettere.

IL SEGNO DELLA CROCE (5)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “QUOD MULTUM”

Questa  lettera Enciclica di S. S. Leone XIII, venne indirizzata ai Vescovi ungheresi, ma contiene insegnamenti, esortazioni e timori, che sono di utilità somma a tutti i Cristiani fedeli di ogni parte del mondo e di ogni tempo. A maggior ragione oggi, epoca in cui assistiamo alla sistematica elusione di ogni principio cattolico, anche il più elementare e – diremmo – ovvio, questa lettera riacquista una importanza decisiva non solo per la residua Gerarchia cattolica oggi impedita ed “eclissata”, ma per tutti gli uomini battezzati di buona volontà. Sottolineiamo questo passaggio in particolare: « … Tuttavia, non possiamo tacere ciò che non sfugge quasi a nessuno, cioè quanto i tempi siano ostili alla virtù; quante volte la Chiesa sia combattuta con artifici; quanto ci sia da temere, fra tanti pericoli, che la fede, indebolita, languisca, anche là dove è solida e fondata su radici profondissime. È sufficiente ricordare quella funestissima fonte di mali che sono i principi del razionalismo e del naturalismo, diffusi senza freno dappertutto. Ne conseguono innumerevoli allettamenti corruttori: il dissenso o l’aperta opposizione del potere pubblico alla Chiesa; la pervicace audacia delle sette clandestine; il sistema qua e là adottato di educare la gioventù senza alcun rispetto per Dio. » Questo timore non è stato fatto debitamente proprio né dagli uomini di Chiesa, né dai governanti, né dai singoli Cristiani che oggi si trovano a pagare questa inadempienza in una società paganizzata totalmente dalle conventicole diaboliche che hanno preso il comando totale di tutte le attività umane, comprese quelle falsamente ispirate alla pratica religiosa cristiana. Tutti i popoli sono stati, e saranno ancor più puniti da Dio, con la perdita della vera fede e della pratica religiosa cristiana, surrogata da un modernismo di stampo luciferino che ha preso possesso di tutti i sacri palazzi e poteri civili e religiosi. Ogni frase va meditata con attenzione e fatta propria, al di là degli edificanti ricordi storici ungheresi ai quali si fa cenno affettuosamente come modello di zelo fervente verso la Religione Cattolica Romana, la vera ed unica Chiesa di Cristo.

Leone XIII
Quod multum

Lettera Enciclica

Ciò che desideravamo vivamente e da molto tempo, cioè che ci fosse l’occasione di parlarvi come abbiamo fatto con i Vescovi di numerose altre popolazioni, con il proposito cioè di comunicarvi i Nostri consigli sugli argomenti che concernono la prosperità del Cristianesimo ed il bene degli Ungheresi, Ci è reso possibile in maniera particolarmente positiva da queste stesse giornate nelle quali l’Ungheria, memore e lieta, celebra il bicentenario della liberazione di Buda. – Fra i meriti nazionali degli Ungheresi questa liberazione rimarrà di spicco per sempre, in quanto i vostri antenati recuperarono, con la pazienza ed il valore, la città capitale, nella quale i nemici si erano insediati per un secolo e mezzo. – Affinché rimanessero la memoria e la gratitudine per tale favore divino, giustamente Papa Innocenzo XI, Pontefice Massimo, stabilì che il 2 settembre, giorno nel quale si compì il prestigioso avvenimento, in tutto il mondo cristiano si celebrino riti solenni in onore di Santo Stefano, che fu il primo fra i vostri re apostolici. – Per la verità, si sa che la Sede Apostolica ebbe parte – e non certo di ultimo piano – nel meraviglioso e faustissimo evento del quale parliamo, che è quasi nato spontaneamente come conseguenza della splendida vittoria riportata tre anni prima sullo stesso nemico, presso Vienna; senza dubbio essa va attribuita in gran parte e a buon diritto all’impegno apostolico di Innocenzo; infatti, a partire da allora, le forze maomettane cominciarono ad indebolirsi. – In verità, anche prima di quel periodo, i Nostri Predecessori si erano preoccupati, in situazioni analoghe, di alimentare le forze dell’Ungheria con il suggerimento, con gli aiuti, con il denaro, con le alleanze. Da Callisto III ad Innocenzo XI sono molti i Pontefici Romani che sarebbe opportuno enumerare a questo titolo per rendere loro merito. – Uno eccelle fra tutti, Clemente VIII, al quale – quando Strigonia e Vincestgraz furono affrancate dalla dominazione turca – le massime Assise del regno decretarono pubblici ringraziamenti, poiché egli solo si era prodigato in favore dei derelitti, quasi disperati sulla loro sorte. – Pertanto, come la Sede Apostolica non è mai venuta meno alle aspettative della gente ungherese, ogni volta che toccò loro combattere contro i nemici della Religione e dei costumi cristiani, così ora che la commemorazione di un evento attesissimo commuove gli animi, a voi volentieri si unisce nella comunione di una giusta gioia; pur tenendo conto della diversità dei tempi, questo solo vogliamo e a questo solo Ci dedichiamo: confermare la moltitudine nella professione cattolica e parimenti impegnarci per quanto possiamo nell’allontanare il comune pericolo, in quanto il Nostro compito è provvedere alla salvezza delle genti. – La stessa Ungheria è testimone che nessun dono più grande può giungere da Dio, alle singole persone o alle comunità, che quello di abbracciare, col Suo intervento, la verità cattolica e conservarla una volta ricevuta. In un enorme dono di tal fatta è automaticamente racchiusa la somma degli altri beni grazie ai quali non solo gli individui possono ottenere la felicità eterna nei cieli, ma le nazioni stesse giungono ad una prosperità degna di tale nome. Poiché il primo dei re apostolici aveva ben capito questo, nulla egli soleva richiedere con più calore a Dio; niente, in tutta la vita, seguì con più attenzione e con maggior costanza che portare la fede cattolica in tutto il regno e stabilirla fin da principio su solidi fondamenti. Perciò subito cominciò, fra i Pontefici Romani e i re ed il popolo d’Ungheria, quello scambio di attenzioni e di cortesie che non vennero mai meno nel periodo successivo. – Stefano fondò e creò il regno, ma volle ricevere il diadema regio solo dal Pontefice Romano; fu consacrato re dall’autorità pontificia, ma volle che il suo regno fosse offerto alla Sede Apostolica; fondò con munificenza non poche sedi Vescovili e diede vita piamente a molte organizzazioni, ma in queste meritorie azioni ha avuto come compagne la massima benevolenza e l’indulgenza assolutamente singolare della Sede Apostolica in molte circostanze. Dalla sua fede e dalla sua pietà il re santissimo trasse la luce del consiglio e le migliori norme per governare lo Stato. Da null’altro, se non dall’assiduità della preghiera, egli ottenne quella forza d’animo con la quale rintuzzò le crudeli congiure dei nemici e respinse vittorioso i loro assalti. – Così, auspice la Religione, è nata la vostra nazione: conservandola come custode e come guida, siete giunti non solo alla maturità, ma alla forza del comando e alla gloria a pieno titolo. – L’Ungheria ha conservato santa ed inviolata la Religione ricevuta dal suo re e padre come un’eredità, anche nei tempi più difficoltosi, quando un pernicioso errore allontanò i popoli confinanti dal seno materno della Chiesa. Parimenti, insieme alla fede cattolica, il rispetto e l’amore devoto verso la sede di Pietro rimasero costanti nel re Apostolico, nei Vescovi e in tutto il popolo; d’altronde vediamo che continue testimonianze confermano la propensione favorevole e la paterna benevolenza dei Pontefici Romani verso gli Ungheresi. Oggi, dopo che sono trascorsi tanti secoli e sono accadute tante cose, rimangono, grazie a Dio, gli antichi vincoli; le stesse virtù dei vostri antenati non si sono assolutamente estinte nei posteri. Lodevole è inoltre l’impegno profuso, non senza frutto, nell’adempimento degli impegni Vescovili: il conforto fornito nelle calamità; lo studio mirato a difendere i diritti della Chiesa; la costante e fervida volontà di mantenere la fede cattolica. – Mentre riflettiamo su queste cose, l’animo è mosso da un giocondo senso di letizia, e a Voi, Venerabili Fratelli, e al popolo ungherese volentieri indirizziamo la lode meritata per avere ben agito. Tuttavia, non possiamo tacere ciò che non sfugge quasi a nessuno, cioè quanto i tempi siano ostili alla virtù; quante volte la Chiesa sia combattuta con artifici; quanto ci sia da temere, fra tanti pericoli, che la fede, indebolita, languisca, anche là dove è solida e fondata su radici profondissime. È sufficiente ricordare quella funestissima fonte di mali che sono i principi del razionalismo e del naturalismo, diffusi senza freno dappertutto. Ne conseguono innumerevoli allettamenti corruttori: il dissenso o l’aperta opposizione del potere pubblico alla Chiesa; la pervicace audacia delle sette clandestine; il sistema qua e là adottato di educare la gioventù senza alcun rispetto per Dio. – Se mai in altri tempi, in questo di certo converrà che sia universalmente accertata non solo l’opportunità ma l’assoluta necessità della Religione cattolica per la tranquillità e la salute pubblica. È confermato da quotidiane riprove fino a che punto si spingono a schiacciare lo Stato coloro che si sono abituati a non temere alcuna autorità e a non porre freni alle proprie bramosie. Perciò non può essere più un segreto per alcuno a che cosa mirino; con quali arti si adoperino; con quale tenacia muovano battaglia. – I più grandi imperi e le repubbliche più fiorenti sono costretti a combattere praticamente in ogni momento con branchi di uomini di tal fatta, uniti dalla sintonia delle opinioni e dalla comunione nelle azioni: pertanto ne deriva sempre qualche pericolo per la sicurezza pubblica. In alcuni luoghi, per contrastare un’audacia tanto grande e malvagia, con saggezza si è deciso di accrescere l’autorità dei magistrati e la forza delle leggi. Tuttavia, per evitare le minacce del socialismo, c’è un modo eccellente ed efficacissimo, impiegato il quale poco varrà come deterrente la paura della pena; esso consiste nel fatto che i cittadini siano profondamente attaccati alla Religione e che le loro azioni siano improntate a devozione ed amore per la Chiesa. Questa è infatti la custode santissima della Religione, la madre e l’educatrice degl’innocenti costumi e di tutte le virtù che spontaneamente sgorgano dalla Religione. Coloro che seguono con spirito religioso integro i precetti del Vangelo, per ciò stesso automaticamente restano lontani da qualsiasi ombra di socialismo. Infatti, la Religione ordina che, come si venera e si teme Dio, così si deve essere soggetti ed obbedienti al legittimo potere; vieta assolutamente i comportamenti sediziosi; vuole che ciascuno veda rispettati i propri beni ed i propri diritti; vuole che coloro che hanno maggiori ricchezze aiutino con bontà d’animo le moltitudini dei poveri. Accompagna i bisognosi con ogni forma di carità; allevia coloro che soffrono con la più soave consolazione, con l’annunciata speranza di beni infiniti ed immortali, che giungeranno tanto maggiori quanto più duramente e più a lungo gli uomini avranno patito. – Per questi motivi, coloro che governano le nazioni non possono far nulla di più saggio ed opportuno che permettere alla Religione di diffondersi negli animi senza alcuna barriera, per richiamarli, tramite i suoi precetti, all’onestà ed integrità dei costumi. Diffidare della Chiesa e trattarla con sospetto è in primo luogo palesemente ingiusto, ed inoltre non giova a nessuno, se non ai nemici dell’ordinamento civile e a coloro che sono desiderosi di sconvolgere il sistema. – L’Ungheria, per grazia di Dio, non ha visto i rilevanti moti nelle città, le folle terribili che in altri luoghi hanno distrutto la tranquillità delle popolazioni. Ma il pericolo incombente impone a Noi, e a Voi parimenti, Venerabili Fratelli, di vigilare e di sforzarci ogni giorno di più per mantener vivo e fiorente, costà, il nome della religione, e garantire l’onore delle istituzioni cristiane. – A tal fine, è auspicabile in primo luogo che la Chiesa possa godere, in tutto il regno Ungherese, di quella libertà piena e totale di cui godeva un tempo e di cui si è servita solo per il bene comune. Noi Ci auguriamo soprattutto che siano abolite dalle leggi le disposizioni che sono in conflitto con i diritti della Chiesa, ne limitano la libertà d’azione e pregiudicano la professione del Cattolicesimo. Per ottenere ciò, Noi e Voi dobbiamo costantemente impegnarci, nell’ambito consentito dalle leggi, così come tanti illustri personaggi hanno fatto in precedenza. Frattanto, per tutto il tempo in cui resteranno vigenti le norme di legge di cui parliamo, è vostro compito far sì che nuocciano il meno possibile alla salvezza, dopo avere ammonito minuziosamente i cittadini su quali siano gli obblighi di ciascuno in tale frangente. Indicheremo alcuni punti che sembrano essere i più pericolosi. – Il primo dovere è dunque abbracciare la vera religione: in nessuna età dell’uomo esso può essere limitato. Nessuna età è priva di valore nel regno di Dio. Chiunque, saputo ciò, deve comportarsi di conseguenza, senza alcuna esitazione: dalla volontà di agire in tal senso scaturisce per ciascuno un sacro diritto, che non si può violare se non con la massima ingiustizia. Analogamente, coloro che hanno cura d’anime hanno il fondamentale compito di ammettere a far parte della Chiesa tutti coloro che, in età matura per decidere, chiedono di essere ammessi. Perciò, se i curatori d’anime sono costretti a scegliere diversamente, è necessario che essi sopportino la severità delle leggi umane piuttosto che provocare l’ira di Dio vendicatore. – Per quanto concerne la società coniugale, impegnatevi, Venerabili Fratelli, affinché si radichi profondamente negli animi la dottrina cattolica sulla santità, unità e perpetuità del matrimonio; affinché sia spesso ricordato alla gente che i matrimoni fra cristiani, per la loro stessa natura, sono soggetti soltanto al potere ecclesiastico. Sia ricordato che cosa la Chiesa pensa ed insegna a proposito di quello che chiamano matrimonio civile; con quale atteggiamento e con quale spirito i Cattolici debbano obbedire a leggi di codesto tipo; come non sia lecito ai Cattolici, e ciò per validissime ragioni, contrarre matrimonio con cristiani estranei alla Religione Cattolica; chiunque osi far ciò, al di fuori della benevola autorità della Chiesa, pecca contro Dio e contro la Chiesa stessa. – Poiché il problema è – come vedete – così diffuso, coloro a cui compete debbono impegnarsi il più possibile affinché nessuno, per nessun motivo, s’allontani da questi precetti. Tanto più perché in questa materia più fortemente che in altre l’obbedienza alla Chiesa è strettamente connessa, tramite vincoli necessari, al benessere dello Stato. La società domestica alimenta e contiene infatti i principi e, per così dire, le basi migliori della vita civile; pertanto, da ciò derivano in gran parte la pace e la prosperità della nazione. La società domestica si sviluppa secondo lo stesso andamento dei matrimoni; e i matrimoni non possono riuscire bene se non regolati da Dio e dalla Chiesa. Privato di queste condizioni; asservito alle alterne passioni; iniziato contro la volontà di Dio e privato perciò dei necessari conforti celesti: tolta anche la comunione di vita sul tema che maggiormente preme, cioè la Religione, inevitabilmente il matrimonio genera frutti amarissimi, fino all’ultima distruzione delle famiglie e delle società. Perciò sono meritevoli non solo nei confronti della Religione, ma anche della Patria, quei Cattolici che da due anni (da quando le Assemblee legislative ungheresi stabilirono ed ordinarono che fossero validi i matrimoni dei Cristiani con gli ebrei) unanimemente e, a voce libera, ripudiarono tale norma ed ottennero con successo che fosse mantenuta l’antica legge sui matrimoni. Ai loro voti si unì, da tutte le parti dell’Ungheria, la unanime volontà di molti che confermavano di pensarla nello stesso modo ed approvavano la decisione con testimonianze palesi. Analoga univocità di pensiero ed altrettanta costanza d’animo possano essere espresse ogni volta che ci sia da combattere in favore del cattolicesimo; la vittoria sarà raggiunta; alla peggio, rimossa l’indolenza e superata l’inerzia, sarà più vigile e fruttuosa l’azione futura qualora i nemici del Cristianesimo volessero assopire ogni valore cattolico. – Alla comunità deriverà un’utilità non minore se ci si preoccuperà di educare la gioventù con rettitudine e saggezza fin dall’età infantile. Tali sono i tempi e le abitudini in cui assolutamente troppe persone – con molto impegno – si dedicano a distogliere dalla vigilanza della Chiesa e dalla più proficua virtù religiosa i giovani dediti alle lettere. Vengono vagheggiate e talora richieste scuole che chiamano neutre, miste, laiche, allo scopo indubitabile che gli allievi crescano nella più totale ignoranza delle cose sante e senza alcuna preoccupazione religiosa. Dato che il male è tanto maggiore e tanto più diffuso dei rimedi, vediamo svilupparsi una generazione incurante del bene dell’anima, non partecipe della Religione, spessissimo empia. Tenete lontana dalla vostra Ungheria, Venerabili Fratelli, con ogni mezzo e con ogni possibile sforzo, una calamità così grande. In questo momento è di grande giovamento non solo per la Chiesa ma anche per lo Stato educare gli adolescenti indirizzandoli fin dall’infanzia verso costumi cristiani e sapienza cristiana. Tutti coloro che ragionano correttamente capiscono perfettamente ciò; infatti, vediamo in molti luoghi e in gran numero i Cattolici intensamente impegnati nell’educazione dei bambini, e a tal fine si dedicano con attività preminente e costante, senza preoccuparsi né del costo né dell’imponente fatica. Conosciamo molte persone, anche in Ungheria, che con analogo proposito si sforzano di ottenere lo stesso risultato; nondimeno permettete, Venerabili Fratelli, che Noi sollecitiamo sempre più il vostro impegno episcopale. – Certamente, data la gravità del tema, noi dobbiamo desiderare e volere che alla Chiesa sia integralmente consentito di svolgere, nell’educazione pubblica dei fanciulli, quei ruoli che le sono stati attribuiti dal Cielo; né possiamo esimerci dal richiedere con insistenza che vi dedichiate con zelo a questo obiettivo. Intanto non cessate di ammonire i capi famiglia, affinché non sopportino che i loro figli frequentino scuole dove si teme che la fede cristiana sia in pericolo. Allo stesso tempo fate sì che vi siano in abbondanza scuole raccomandabili per la correttezza dell’istituzione e la probità degl’insegnanti, governate dalla vostra autorità e dalla vigilanza del Clero. Vogliamo che sia così non soltanto nelle scuole elementari, ma anche in quelle di lettere e delle più avanzate discipline. – Grazie alla pia generosità degli antichi e soprattutto alla munificenza dei vostri re e dei vostri Vescovi, esistono molte eccellenti strutture per coloro che si dedicano allo studio delle lettere. Gode di ottimo ricordo fra Voi, elogiato anche dalla posterità, il Cardinale Pazmany, Arcivescovo di Strigonia, che fondò il grande Liceo cattolico di Budapest e lo fornì di una ricchissima dote. È bello ricordare che un’opera di tale entità fu compiuta con la pura e sincera intenzione di promuovere la religione cattolica; analogo intento fu confermato dal re Ferdinando II, affinché la verità della Religione Cattolica rimanesse intatta nei luoghi in cui era fiorente; dov’era indebolita fosse nuovamente rafforzata e il culto divino fosse propagato ovunque. Noi abbiamo ben chiaro con quanta forza e con quanta costanza vi siete adoperati affinché, senza alcun mutamento rispetto alla natura originaria, codeste sedi di ottimi studi continuino ad essere come le vollero i loro fondatori e cioè Istituti cattolici, nei quali la struttura, l’amministrazione e l’insegnamento rimangano sotto il potere della Chiesa e dei Vescovi. Vi esortiamo a non tralasciare alcuna occasione e a tentare con ogni mezzo affinché da ogni parte si consegua tale nobile ed onesto risultato. Lo otterrete certamente, considerata la grande sensibilità religiosa del Re Apostolico e la saggezza degli uomini che guidano lo Stato; non è infatti pensabile che vi tocchi sopportare che sia negato alla Chiesa Cattolica ciò che è stato concesso alle organizzazioni che sono in contrasto col Cattolicesimo. – Se lo spirito dei tempi richiederà che si dia vita a nuovi istituti di questo tipo o che siano ingranditi quelli esistenti, non dubitiamo che seguirete l’esempio dei predecessori e vorrete dar prova di religiosità. Ci è stato anzi riferito che vi state preoccupando di realizzare un’opportuna accademia per formare insegnanti eccellenti. Ottima decisione quant’altre mai, all’altezza della vostra saggezza e della vostra virtù; speriamo che possiate portarla a compimento in breve tempo, con l’aiuto di Dio. – Se è importante per il bene pubblico l’educazione di tutti gli adolescenti, tanto più è importante quella di coloro che devono essere avviati ai sacri ministeri. A questa dovete dedicarvi, uno per uno, Venerabili Fratelli, ed impiegare la maggior parte delle vostre veglie e delle vostre fatiche; infatti, i giovani chierici sono una speranza, e per così dire un abbozzo di forma sacerdotale; Voi conoscete bene di quanta fama la Chiesa goda per i suoi sacerdoti e come ne tragga giovamento la stessa salvezza eterna delle genti. Per formare un chierico sono assolutamente necessarie due cose: la dottrina per la cultura della mente, e la virtù per la perfezione dell’anima. Alle discipline umanistiche sulle quali è solitamente basata l’educazione dell’adolescente, vanno aggiunte le discipline sacre e quelle canoniche, dopo essersi assicurati che la dottrina di tali materie sia sana, assolutamente incorrotta, interamente in accordo con i documenti della Chiesa (soprattutto di questi tempi) e ricca di forza e di argomenti, affinché sia in grado di esortare… e confutare coloro che contraddicono. – La santità della vita, senza la quale la scienza è solo vento e non costruisce, racchiude non soltanto i costumi probi ed onesti, ma anche l’insieme delle virtù sacerdotali donde deriva la somiglianza con Gesù Cristo, sommo ed eterno Sacerdote, che è la caratteristica dei buoni preti. A questo tendono i Seminari; e Voi, Venerabili Fratelli, avete non poche istituzioni di rilievo sia per preparare i ragazzi alla vita sacerdotale, sia per formare solidamente i sacerdoti. Le vostre preoccupazioni e i vostri pensieri siano concentrati soprattutto su questi obiettivi; procurate che all’insegnamento delle lettere e delle scienze siano posti uomini di valore, nei quali l’esattezza della dottrina sia unita all’innocenza dei costumi, affinché a buon diritto possiate fidarvi di loro in un settore così importante. Scegliete i responsabili della cultura e i maestri di religiosità fra coloro che eccellono per prudenza, saggezza ed esperienza; la regola della vita comune venga temperata dalla vostra autorità in modo che gli alunni non solo non compiano qualcosa di contrario alla pietà, ma anzi abbondino di tutti quegli strumenti con i quali si alimenta la fede: con opportuni esercizi siano stimolati al quotidiano miglioramento delle virtù sacerdotali. Dall’impegno e dalla diligenza spesi per formare i sacerdoti riceverete frutti più desiderabili, e vi accorgerete che sarà molto più facile e molto più vantaggioso gestire il vostro ruolo di Vescovi. – Ma è necessario che le vostre paterne cure si spingano ancora più in là, in modo da accompagnare i sacerdoti nel compimento stesso dei loro sacri doveri. Con attenzione e con delicatezza, come conviene alla vostra carità, controllate che essi non assumano mai atteggiamenti profani; che non siano mossi né dalla cupidigia né dalla preoccupazione per impegni secolari: che anzi eccellano esemplarmente nella virtù e nelle opere, senza mai tralasciare la preghiera ed accostandosi castamente ai sacri misteri. Cresciuti e rafforzati con queste concezioni, i sacerdoti affronteranno spontaneamente la fatica quotidiana degl’incarichi sacri e si dedicheranno con impegno, come è giusto, ad educare gli animi della gente, soprattutto con la predicazione e con il ricorso ai sacramenti. – Per ritemprare le forze del loro animo, che per la debolezza umana non possono essere perennemente al culmine, non c’è nulla di meglio che – come altrove è consuetudine particolarmente apprezzata – ritirarsi di tanto in tanto per periodiche meditazioni spirituali, disponibili, in tali periodi, soltanto per Dio e per se stessi. Quanto a Voi, Venerabili Fratelli, visitando, secondo la vostra discrezione le diocesi, avrete naturalmente e opportunamente l’occasione di conoscere le attitudini e le abitudini dei singoli, e parimenti di accertare che cosa – nelle contingenti circostanze – sia necessario proibire (e con quali motivazioni) oppure correggere, se si sia insediato, qualche peccato. In questo caso, affinché il potere della disciplina ecclesiastica non sia infranto, dove sia necessario occorrerà applicare con la giusta severità le norme dei canoni sacri: tutti dovranno capire che il sacerdozio e i vari gradi della dignità altro non sono che il premio delle buone azioni, e che sono riservati a coloro che abbiano servito la Chiesa; che si siano prodigati per la salvezza delle anime; che siano apprezzati per dottrina e per integrità di vita. – Con un Clero dotato di queste virtù, si sarà provveduto in misura non esigua anche a favore del popolo, il quale – amante com’è della Chiesa ed attentissimo alla religione dei padri – volentieri si lascerà condurre dai ministri della fede. – Voi non dovete tuttavia tralasciare alcuna di quelle attività che vi paiano valide per conservare fra la gente l’integrità della dottrina cattolica, la disciplina evangelica nelle azioni, nella vita, nei costumi. Impegnatevi affinché spesso vengano intraprese sacre missioni per l’educazione delle anime; mettete alla loro testa uomini di provata virtù, animati dallo spirito di Gesù Cristo ed infiammati di carità per il prossimo. – Per prevenire od eliminare gli errori d’opinione, distribuite con abbondanza fra il popolo scritti che collimino con la verità e conducano alla virtù. Sappiamo che già si sono costituite società che hanno proprio questo lodevole e fruttuoso obiettivo, e che non si sono impegnate invano. Noi desideriamo che esse crescano di numero, e che di giorno in giorno ottengano risultati sempre più positivi. Ancora questo vogliamo: che Voi stimoliate tutti, ma in particolare coloro che eccellono per cultura, ricchezza, dignità o potere, affinché in ogni momento della vita, in privato e in pubblico, curino con il massimo impegno il nome della Religione e la causa della Chiesa; secondo la vostra indicazione più fortemente si sforzino e non rifiutino di aiutare e far sviluppare tutte le iniziative cattoliche già esistenti o che saranno create. – Allo stesso modo è necessario resistere ad alcune opinioni fallaci – elaborate a sproposito con lo scopo di proteggere l’onore individuale – che addirittura ripugnano alla fede ed ai precetti dei comportamenti cristiani ed aprono la strada ad azioni turpi e scellerate. Infine, è necessaria la vigilanza assidua e coraggiosa contro le associazioni illecite delle quali deve essere capito in anticipo e sventato l’influsso con tutti i mezzi, in particolare quelle che abbiamo indicate altrove specificatamente nella Nostra Lettera Enciclica. Vogliamo che di questo vi incarichiate con solerzia tanto maggiore, dal momento che società di codesto genere quanto più sono numerose ed hanno ricchezze, tanto più hanno potere. – Queste sono le cose, Venerabili Fratelli, che vi abbiamo scritto sotto la spinta della carità; confidiamo che esse saranno accolte da tutto il popolo Ungherese con animo pronto all’obbedienza. – Se i vostri padri trionfarono a Buda contro un nemico odiosissimo, ciò non fu ottenuto soltanto dalla forza bellica, ma dal vigore della fede, la quale, così come all’inizio generò gran forza e prestigio all’impero, così procurerà prosperità nella popolazione e gloria all’estero in futuro. Noi desideriamo che codesti benefici e codesti favori vi siano destinati, e perciò preghiamo, con l’intercessione della grande Vergine Madre di Dio, alla quale il regno d’Ungheria è consacrato e dalla quale ha anche preso il nome. Per lo stesso fine umilmente imploriamo l’intervento di Santo Stefano che, avendo ornato e avvantaggiato il vostro Stato con ogni genere di benefici, lo guarderà dall’alto dei cieli, come Noi speriamo, e lo proteggerà con sicuro patrocinio. – Con questa speranza, a Voi singolarmente, Venerabili Fratelli, al Clero ed a tutti i vostri fedeli impartiamo la Benedizione Apostolica più affettuosa nel Signore, come auspicio dei doni celesti e testimonianza della Nostra paterna benevolenza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 agosto 1886, anno nono del Nostro Pontificato.