DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B.; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La liturgia di questo giorno insiste sui castighi terribili che la giustizia di Dio infliggerà a quelli che avranno rinnegato Cristo. Morranno tutti e nessuno entrerà nel regno dei cieli. Coloro invece che in mezzo a tutte le avversità di questa vita saranno rimasti fedeli a Gesù, saranno un giorno strappati alle mani dei loro nemici ed entreranno al suo seguito nel cielo, ove Egli entrò nel giorno della sua Ascensione, che la Chiesa ha celebrato nel Tempo Pasquale. Questi pensieri sulla giustizia divina sono conformi, in questa IX Domenica dopo Pentecoste, colla lettura che la liturgia fa della storia del profeta Elia nel Breviario. – Dopo la morte di Salomone, le dodici tribù di Israele si divisero in due grandi regni: quello di Giuda e quello d’Israele. Il primo formatosi con le due tribù di Giuda e di Beniamino, ebbe per capitale Gerusalemme: il secondo si compose di dieci tribù con capitale Sichem, poi Samaria. A questo secondo regno appartenne il profeta Elia, che abitava il deserto di Galaad in Samaria. Uomo virtuoso e austero, vestiva una tunica di peli di cammello con ai fianchi una cintura di cuoio: « pieno di zelo per il Dio degli eserciti », uscì tre volte dal deserto per minacciare Achab, VII re di Israele, e la regina Iezabele, che avevano trascinato il popolo all’idolatria; per mandare a morte i 450 profeti di Baal che confuse sul Monte Carmelo; e per annunciare al re, impossessatosi della vigna di Naboth, che sarebbe stato ucciso, e alla regina, che era stata il cattivo genio di Achab, che il suo sangue sarebbe scorso ove era scorso il sangue di Naboth e i cani avrebbero divorate le sue carni. Per tutti questi motivi, Elia fu perseguitato dagli Israeliti, da Achab e da lezabele e dovette fuggire sul monte Horeb per scampare alla morte. Quando più tardi Ochozia, figlio di Achab, divenne re, Elia gli fece dire di non consultare Belzebù, il dio di Accaron, come aveva intenzione, ma il Dio d’Israele. Ochozia allora gli mandò un capitano con cinquanta soldati per indurlo a scendere dalla montagna e rendergli conto delle sue parole. Elia rispose al capitano: « Se io sono un uomo di Dio, scenda dal cielo un fuoco che divori te e i tuoi cinquanta », E scese il fuoco e divorò lui e i suoi cinquanta uomini » (Breviario). Più tardi, Elia andò verso il Giordano con Eliseo e allorché ebbero attraversato il fiume, un carro di fuoco con cavalli di fuoco separò l’uno dall’altro ed Elia sali al cielo in un turbine. Eliseo allora si rivestì del mantello che Elia aveva lasciato cadere e ricevette doppiamente il suo spirito. E tutti i discepoli di Elia dissero: «lo spirito di Elia si è posato su Eliseo ». E mentre Eliseo andava verso Bethel, alcuni ragazzi lo schernirono dicendo: « Sali, sali, calvo! ». Ed Eliseo li maledisse nel nome di Dio che essi offendevano: due orsi uscirono dalla foresta e sbranarono 42 di quei fanciulli. — Per tutta la sua vita Elia, con la sua parola di  fuoco, difese i diritti di Dio. Più tardi Giovanni Battista, « pieno dello Spirito e della virtù di Elia », si presentò vestito come lui ed abitante come lui nel deserto, e difese allo stesso modo gli stessi diritti di Dio, annunziando la separazione che farà Cristo venturo della paglia dal buon grano »: raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia in un fuoco che non si estinguerà. –   « Elia, dice S. Agostino, rappresenta il Salvatore e Signore nostro. Come infatti Elia soffrì persecuzioni da parte dei Giudei; nostro Signore, il vero Elia, fu rigettato e disprezzato dal medesimo popolo. Elia lasciò il paese suo; Cristo abbandonò la sinagoga e accolse i Gentili (2° Nott.). « Dio liberò Elia dai suoi nemici elevandolo al cielo, Dio innalzò Cristo in mezzo ai suoi nemici e lo fece salire il giorno dell’Ascensione in cielo ». « Liberami, o Signore dai miei nemici, dice l’Alleluia, e allontanami da quelli che insorgono contro di me ». Elia, trasportato in un carro di fuoco è, secondo i Padri, la figura di Cristo, che sale al Cielo. Il Graduale è il versetto del Salmo VIII, che la liturgia usa nel giorno dell’Ascensione: «Signore, Dio nostro, come è ammirevole il tuo nome su tutta la terra: poiché la tua magnificenza si solleva al di sopra dei cieli. » E l’Introito aggiunge:« Ecco che Dio viene in mio aiuto e che il Signore accoglie la mia anima. Oh, Dio! salvami nel tuo nome e liberami nella tua potenza ». Questo trionfo di Gesù su quelli che lo odiano, figurato da quello di Elia su coloro che lo disprezzano, sarà anche il nostro se «non tenteremo Cristo», cioè se eviteremo l’idolatria, l’impurità, la mormorazione» (Ep.) rimanendo fedeli alla grazia. Poiché « se Gesù continua a immolarsi sui nostri altari per applicarci i frutti della sua redenzione » (Secr.), e se « mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue,  noi dimoriamo in Lui e Lui in noi » (Com.), si è perché, « uniti a Lui », (Postcom.), osserviamo fedelmente i suoi comandamenti, che sono più dolci del miele » (Off.). S. Paolo ci dice infatti che « Dio, il quale è fedele, non permetterà che noi siamo tentati al di sopra delle nostre forze, ma con la tentazione ci darà anche il mezzo di uscirne affinché possiamo perseverare » (Ep.). Supplichiamo dunque il Signore d’accogliere benignamente le preghiere che noi gli indirizziamo e di fare in modo che gli chiediamo solo quanto gli sia gradito, affinché ci possa sempre esaudire (Oraz.). – Ma la Giustizia divina non si accontenta di proteggere il giusto contro i suoi nemici e di ricompensarlo per la sua fedeltà; essa punisce anche quelli che fanno il male. Elia minacciò il regno di Israele infedele e fece cadere il fuoco dal cielo sui suoi nemici (Brev.); « Gli Israeliti, che tentarono Iddio con le loro mormorazioni, perirono per mezzo dei serpenti di fuoco » (Ep.), e Gerusalemme sulla quale Gesù pianse, minacciandole castighi perché lo respingeva, fu distrutta dalla guerra e dall’incendio (Vang.). « Ventitremila Ebrei perirono in un sol giorno per la loro idolatria, e molti furono colpiti a morte dall’Angelo sterminatore per le loro mormorazioni ». Ma tutti questi avvenimenti, spiega S. Paolo, furono permessi da Dio, e narrati per servire di nostro ammaestramento » (Ep.). Più di un milione di Giudei perirono nella distruzione di Gerusalemme, perché avevano rifiutato il Messia e il Vangelo (Vedi I Domenica dell’Avvento e XXIV dopo Pentecoste). Gesù ha sempre paragonata questa fine tragica alle catastrofi che segneranno la fine del mondo, quando Dio verrà a giudicare il mondo col fuoco. Allora il Giudice divino opererà la separazioni dei buoni dai cattivi e mentre ricompenserà i primi, allontanerà dal regno di Dio tutti quelli che lo avranno rinnegato per la loro incredulità e i loro peccati, come cacciò dal Tempio, che è la figura della Chiesa terrestre e celeste, tutti i venditori che avevano trasformato la casa di Dio in una spelonca di ladri (Vang.). « Il male ricada sui miei avversari, chiede il Salmista e, fedele alle tue promesse, distruggili, o Dio, mio protettore! » (Intr.). Allora, infatti il tempo della misericordia sarà passato e non vi sarà più che quello della giustizia ». « Frattanto colui che crede di essere in alto guardi di non cadere!», dice l’Apostolo (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LIII: 6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’anima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]


Ps LIII: 3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.

[O Dio, salvami nel tuo nome: e liberami per la tua potenza.]


Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Oratio

Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.

[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti supplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X: 6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília. Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.

[“Fratelli: Non desideriamo cose cattive, come le desiderarono quelli. Non diventate idolatri, come furono alcuni di loro, secondo sta scritto: «Il popolo si sedette a mangiare e bere; poi si alzarono a tripudiare. Né fornichiamo, come fornicarono alcuni di loro, e caddero in un giorno 23 mila. Né tentiamo Cristo come lo tentarono alcuni di loro, e furono uccisi dai serpenti. Né mormorate come mormorarono alcuni di loro, ed ebbero morte dallo sterminatore. Or tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte per ammaestramento di noi, che viviamo alla fine dei tempi. Colui, pertanto che si crede di stare in piedi, badi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha sorpreso se non umana. Dio, poi, che è fedele, non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze: ma con la tentazione preparerà anche lo scampo, dandovi il potere di sostenerla”.]

IL TIMOR DI DIO

Essere Cristiani non vuol dire essere esenti dalla vigilanza, e da una attenta vigilanza. Nell’Epistola della Domenica di Settuagesima abbiam visto come l’Apostolo per incoraggiare i Corinti alla perseveranza, oltre il proprio esempio, portò l’esempio dei Giudei, i quali, quantunque usciti in gran numero dall’Egitto, dopo aver ricevuto grandi benefici dal Signore, solamente in numero di due poterono entrare nella terra promessa. L’Epistola di quest’oggi continua quel brano. Vi sono enumerate alcune prevaricazioni dei Giudei ed i castighi, che ne seguirono, e si esortano i Corinti a non imitarne l’esempio; poiché quanto avvenne agli Israeliti sarà figura di quanto avverrà a noi Cristiani, se abuseremo delle grazie del Signore. – E noi non abuseremo certamente delle grazie del Signore, se avremo il timor di Dio, il quale:

1 Ci fa evitare il peccato,

2 Ci rende diffidenti di noi,

3 Ci lascia calmi e fiduciosi in Dio, durante le prove.

Graduale 

Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!

[Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!]


V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja

[Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps LVIII: 2
Alleluja, Alleluja

Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.

 [Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e liberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX: 41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ. Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo”.

[“In quel tempo avvicinandosi Gesù a Gerusalemme, rimirandola, pianse sopra di lei, e disse: Oh? se conoscessi anche tu, e in questo tuo giorno, quello che importa al tuo bene! ma ora questo è a’ tuoi occhi celato. Conciossiachè verrà per te il tempo, quando i tuoi nemici ti circonderanno di trincea, e ti serreranno all’intorno, e ti stringeranno per ogni parte. E ti cacceranno per terra te e i tuoi figliuoli con te, e non lasceranno in te pietra sopra pietra; perché non hai conosciuto il tempo della visita a te fatta. Ed entrato nel tempio, cominciò a scacciare coloro che in esso vendevano e comperavano, dicendo loro: Sta scritto: La casa mia è casa di orazione; e voi l’avete cangiata in spelonca di ladri. E insegnava ogni giorno nel tempio”.

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Le lagrime di Gesù Cristo.

Videns Jesus oivitatem, flevit super illam.

(Luc. XIX, 41).

Gesù Cristo, entrando nella città di Gerusalemme pianse su di essa, dicendo: “Se almeno conoscessi le grazie che ti ho portato, e ne volessi approfittare, potresti ricevere ancora il tuo perdono: ma la tua cecità è giunta a tale eccesso, che tutte queste grazie non serviranno che a renderti ostinata e a perderti: tu hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio; ed ora stai per mettere il colmo ai tuoi delitti facendo morire il Figlio stesso di Dio. „ Ecco, F. M., ciò che strappava lagrime a Gesù Cristo in grande abbondanza, mentre si avvicinava a quella città. Ahimè! Egli considerava in tutte queste sventure, la perdita di tante anime, ben più colpevoli dei Giudei, perché più di questi favoriti di tante grazie. Davvero, F. M., ciò che lo commosse così vivamente fu il pensiero che, non ostante i meriti della sua passione e morte sufficienti per redimere mille mondi più grandi del nostro, il maggior numero degli uomini andrebbe perduto. – Sì, F. M., Egli prevedeva coloro che disprezzerebbero le sue grazie, non servendosene che in proprio danno. E chi di noi, F. M., non trepiderà pensando sinceramente a condurre l’anima propria al cielo? Non siamo noi di quel numero? Non è per noi che Gesù Cristo disse piangendo: “Ah! purtroppo, se il mio sangue e la mia morte non servono alla vostra salvezza, accenderanno la collera del Padre mio su di voi per tutta l’eternità? „ Un Dio tradito!… un’anima dannata!… un cielo rifiutato! … Possibile che a tante sciagure rimaniamo insensibili? … È possibile, F. M., che, malgrado quanto ha fatto Gesù Cristo per salvare le anime nostre, siamo così insensibili alla loro perdita? … Ma per togliervi, F. M., da tale insensibilità, vi mostrerò:

1° che cos’è un’anima;

2° quanto ha costato a Gesù Cristo;

3° quanto fa il demonio per condurla a perdizione.

I. — Ah! F. M., se avessimo la fortuna di conoscere il valore dell’anima nostra, con qual cura la custodiremmo? Ahimè! non lo comprenderemo mai abbastanza! Voler mostrarvi, F. M., la grandezza del valore di un’anima è impossibile per un mortale: Dio solo conosco tutte le bellezze, le perfezioni delle quali l’ha ornata. Vi dirò solamente che tutto quanto Dio ha creato, il cielo, la terra e tutto ciò che vi a contenuto, tutto queste meraviglie furon create in suo favore. Il nostro catechismo ci dà la più bella prova possibile della grandezza dell’anima. Quando si domanda ad un fanciullo: che cosa intendi quando dici che l’anima dell’uomo è uno spirito creato ad immagine di Dio? Quest’anima, ci risponde il fanciullo, al pari di Dio ha la potenza di conoscere, di amare e di determinarsi liberamente in tutte le sue azioni. Ecco, F. M., il più bell’elogio che possiamo fare delle doti, colle quali Dio abbellì l’anima nostra, creata dalle tre Persone della Ss. Trinità, ed a loro somiglianza. Uno spirito, al par di Dio, immortale, capace di conoscere le bellezze e le perfezioni tutte di Dio, quanto è possibile ad una creatura: uno spirito, che è l’oggetto delle compiacenze delle tre divine Persone; uno spirito, che può glorificar Dio in tutte le sue azioni; uno spirito, la cui occupazione sarà di cantar le lodi di Dio per tutti i secoli; uno spirito, che risplenderà della felicità di Dio medesimo; uno spirito, che ha una tal libertà nelle sue azioni da poter donare la sua amicizia, l’amor suo a chi meglio gli pare; che può non amare Dio, od amarlo: ma che, se è tanto fortunato di volgere il suo amore a Dio, non obbedisce più esso a Dio, sebbene Dio stesso fa quanto vuole questo spirito (Voluntatem timentium se faciet Ps. CXLIV. 19) e sembra compiacersi di farlo. Potrei anche dire che dal principio del mondo non trovate un’anima che, essendosi data a Dio senza restrizioni, Dio le abbia rifiutato alcuna cosa da lei desiderata. Vediamo che Dio ci ha creato con tali desideri, che nulla è capace di soddisfarli. Presentate ad un’anima tutte le ricchezze ed i tesori del mondo, niente di ciò potrà accontentarla; avendola Iddio creata per sé, non vi è che Lui solo capace di riempire tutti i vasti suoi desideri. Sì, F. M., l’anima nostra può amar Dio; ed è questa la più grande di tutte le felicità! Amandolo abbiamo tutti i beni ed i piaceri che possiamo desiderare sulla terra ed in cielo (Ps. LXXII, 25). Possiamo anche servirlo; cioè glorificarlo in ogni azione della nostra vita. Anche dalle minime cose che facciamo Dio viene glorificato, se le facciamo coll’intenzione di piacergli. La nostra occupazione, mentre siamo sulla terra, nulla ha di differente da quella degli Angeli in cielo; l’unica differenza è che noi vediamo questi beni solo cogli occhi della fede.  L’anima nostra è così nobile, ornata di tante belle qualità che il buon Dio non volle affidarla che ad un principe della corte celeste. L’anima nostra è così preziosa agli occhi di Dio stesso, che in tutta la sua sapienza, non trovò altro cibo degno di lei che il suo Corpo adorabile, di cui vuole che essa faccia il suo nutrimento quotidiano: e altra bevanda che il Sangue suo prezioso. ” Sì, F. M., abbiamo un’anima che Dio stima tanto, ci dice S. Ambrogio, che, fosse stata pur sola nel mondo, Egli non avrebbe creduto di far troppo morendo per essa; e se, creandola, non avesse creato il cielo, il buon Dio lo avrebbe creato apposta per essa, anche se fosse sola nel mondo.„ Come disse Egli un giorno a S. Teresa: “Mi sei tanto cara, così Gesù Cristo, che se non vi fosse il cielo, ne creerei uno apposta per te. „ —“O corpo mio, esclama S. Bernardo, quanto sei fortunato di albergare un’anima adorna di tante belle qualità! Un Dio, sebbene infinito, la fa oggetto di sue compiacenze!„ Sì, F. M., l’anima nostra è destinata a passar tutta l’eternità in grembo a Dio stesso. Dico tutto in una parola: l’anima nostra è alcunché di così grande, di così prezioso, che Dio solo la supera. Un giorno il buon Dio fece vedere un’anima a S. Caterina. La trovò così bella, che esclamò: “O mio Dio, se la fede non mi insegnasse che v’è un Dio solo, crederei che questa sia una divinità; no, mio Dio, non mi meraviglio più che Voi siate morto per l’anima che è sì bella!„ Sì, F. M., l’anima nostra nella vita futura sarà eterna quanto Dio stesso. No, no, non andiamo oltre: ci perdiamo in questo abisso di grandezza. Dopo questo, F. M., vi lascio pensare se dobbiamo meravigliarci che Dio, il quale ne conosce così bene il valore, pianga tanto amaramente la perdita di un’anima. Ahimè! F. M., il buon Dio è così sensibile alla perdita di un’anima che l’ha pianta prima di aver gli occhi per piangere: adoperò gli occhi dei suoi profeti per piangere la perdita delle anime nostre. Lo vediamo in modo evidente nel profeta Amos: “Essendomi ritirato nell’oscurità, dice il profeta, considerando lo spaventoso numero di delitti che il popolo di Dio commette ogni giorno, vedendo che la collera di Dio era pronta a piombargli addosso, e che l’inferno apriva le sue fauci per inghiottirlo, adunatili insieme, ed io stesso tutto tremante, dissi loro piangendo amaramente: “Figli miei, sapete qual è la mia occupazione, notte e giorno? Ahimè! mi rappresento vivamente tutti i vostri peccati, nell’amarezza del mio cuore. Se dopo… oppresso dalla fatica, mi assopisco, subito mi sveglio di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime ed il cuore spezzato dal dolore gridando: Mio Dio, mio Dio, non vi saranno anime in Israele che non vi offendono? Quando mi riempio la mente di questa triste e lagrimevole idea, ne parlo  al Signore, ne gemo amaramente alla sua santa presenza, dicendogli: Mio Dio, qual mezzo debbo usare per ottener loro grazia? Ecco che cosa mi rispose il Signore: Profeta, se vuoi ottenere il perdono di questo popolo ingrato, va, corri per le vie e per le pubbliche piazze: falle risuonare dei gemiti più amari: entra nelle botteghe dei mercanti e degli artigiani; va nei luoghi dove si amministra la giustizia: ascendi nelle magioni dei grandi e nei gabinetti dei giudici: di’ a tutti quanti troverai dentro e fuori della città: “Guai a voi! ah! guai a voi, che avete peccato contro il Signore!„ Non basta; chiama in tuo soccorso quanti sono capaci di piangere, affinché aggiungano le loro lagrime alle tue, ed i vostri gemiti e le vostre grida siano così spaventose da gettare la costernazione in tutti i cuori: affinché abbandonino i loro peccati e li piangano sino alla tomba: affinché comprendano quanto mi è dolorosa la perdita delle anime loro. „ – Il Profeta Geremia, F. M., va ancor più oltre. Per farci intendere quanto la perdita di un’anima è dolorosa per Iddio, ascoltatelo in un momento in cui è dominato dallo spirito del Signore: “Ah! mio Dio, ah! mio Dio, che diverrò? m’avete dato la cura d’un popolo ribelle, d’una nazione ingrata, che non vuole ascoltarvi, né sottomettersi ai vostri ordini; ahimè! che farò io? qual partito prenderò? Ecco ciò che il Signore mi rispose: “Per mostrar loro quanto Io soffra per la perdita dell’anima loro, afferra i tuoi capelli, strappali dalla testa, gettali lontano, perché il peccato di questo popolo m’ha costretto ad abbandonarlo, ed il mio furore è piombato su di esso.„ Quando la collera del Signore è accesa pel peccato nel cuore, è la più terribile malattia: “Ma, Signore, gli disse il Profeta, che farò io per impegnarvi a distogliere il vostro sguardo di collera dal popolo vostro? — Vestiti di un sacco, mi disse il Signore, mettiti la cenere sulla testa e piangi senza tregua e con tanta abbondanza che le lagrime coprano il tuo volto; e piangi tanto amaramente che i tuoi peccati vengano soffocati nelle tue lagrime.„ (Ger. VII, 29). Comprendete, F. M., quanto affligga il buon Dio la perdita delle nostre anime? Vedete quanto siamo sventurati, perdendo un’anima, che Dio ama tanto che non avendo ancora gli occhi per piangere, adopera quelli dei Profeti per versar lagrime amare sulla sua rovina! Il Signore ci dice per bocca del Profeta Gioele: “Piangete la perdita delle anime come uno sposo novello, il quale ha perduto la sposa che doveva essere tutta la sua consolazione, ed è ridotto ad ogni sorta di sventure!„ (Gioel. I, 8) S. Bernardo ci dice che tre cose sono capaci di farci piangere: ma ve n’è una sola che possa render meritorie le lagrime nostre, cioè quando piangiamo i peccati nostri o dei nostri fratelli: tutte le altre non sono che lagrime profane o colpevoli, o almeno infruttuose. Piangere la perdita d’una lite ingiusta, la morte d’un figlio; lagrime inutili. Piangere la privazione d’un piacere carnale; lagrime peccaminose. Piangere una lunga malattia; lagrime infruttuose ed inutili. Ma, piangere la morte spirituale dell’anima propria, la lontananza di Dio, la perdita del cielo: “O lagrime preziose, ci dice questo gran Santo; ma quanto siete rare!„ E perché, F. M., se non perché non sentite la grandezza della disgrazia vostra nel tempo e nella eternità? Ahimè, F. M.! è il timore di questa perdita che ha spopolato il mondo, per riempire di tanti Cristiani i deserti ed i monasteri: costoro comprendevano assai meglio di noi che se perdiamo l’anima nostra tutto è perduto; e che essa doveva essere di gran valore, se Dio stesso ne faceva tanto conto. Sì, F. M., i Santi hanno sofferto tanto per conservare l’anima loro pel cielo! La storia ce ne fornisce esempi senza numero: eccone uno, F. M.: se non abbiamo il coraggio di imitarlo, potremo almeno ammirarlo per benedirne il buon Dio. Leggiamo nella vita di S. Giovanni Calibita (Vita dei Padri del deserto, t. IX, P. 279), nato a Costantinopoli, che incominciò dalla sua infanzia a comprendere il nulla delle cose umane, ed a sentire un gusto grande per la solitudine. Un religioso d’un vicino monastero passando da Costantinopoli per andar in pellegrinaggio a Gerusalemme, alloggiò in casa de’ parenti di lui, che ricevevano i pellegrini con molto piacere. Il fanciullo domandò qual era la vita che si conduceva nel monastero. Sentito il racconto della vita santa e penitente dei religiosi, il piacere che si provava separati dal mondo per non aver altro commercio che con Dio solo, egli ne fu così commosso, e concepì un tal desiderio di abbandonare il mondo per partecipare a tale felicità, che non poteva più vedersi nel mondo. Disse a’ suoi parenti di non pensar più a fargli una posizione, perché Dio lo chiamava a finire i suoi giorni nel ritiro. I parenti tentarono, se era possibile, di fargli cambiar proposito: tutto inutile; domandò loro per sola eredità il libro dei santi Vangeli, che fu il suo unico tesoro. Ma per liberarsi dalle insistenze continue dei genitori, e per darsi tutto al buon Dio, abbandonò la casa, ed andò a presentarsi alla porta d’un monastero, chiedendo d’esservi ricevuto. I parenti mandarono a cercarlo da ogni parte. Non potendo trovarlo, si abbandonarono alle lagrime più amare. Il santo giovane passò sei anni in quel ritiro praticando tutte le virtù e penitenze che il suo amore per il buon Dio poté ispirargli. Dopo questo tempo gli venne il pensiero d’andar a visitare i parenti suoi, sperando che il buon Dio gli accorderebbe la stessa grazia che ebbe S. Alessio, il quale passò venti anni presso i suoi senza che alcuno lo conoscesse. Appena uscito dal monastero, trovato un povero cambiò l’abito con lui per rendersi ancor più irriconoscibile: d’altra parte le sue austerità così grandi ed una grave malattia l’avevano estremamente sfigurato. Vista da lontano la casa dei suoi genitori, si inginocchiò per domandare a Dio di guidarlo nella sua impresa. Essendo la porta già chiusa perché era notte, rimase fino a giorno là presso. Al mattino i domestici, vedutolo, ne ebbero compassione e gli permisero d’entrare in una piccola stanza per ritirarvisi. Dio solo conobbe quanto ebbe a soffrire, vedendo i suoi genitori ad ogni istante che passavano davanti a lui, e piangevano amaramente la perdita del figlio che era tutta la loro consolazione. Il padre suo, assai caritatevole, di tratto in tratto mandavagli di che nutrirsi: ma la madre non poteva avvicinarglisi senza sentirsi il cuore ribellarsi, tanto trovava ributtante quel povero. Se la sua carità non le avesse fatto vincere tal ripugnanza, l’avrebbe scacciato di casa. Sempre immersa nella tristezza, sempre piangente: e ciò davanti a colui che non poteva essere insensibile a quanto formava il più grande dei tormenti di sua madre… Il buon Santo passò tre anni in quella triste condizione, solo occupato nella preghiera e nel digiuno, spinto fino all’eccesso: piangeva continuamente. Quando il buon Dio gli fece conoscere essere vicina la sua fine, pregò il maggiordomo di suggerire alla padrona la carità di venire a vederlo, perché desiderava ardentemente di parlarle. Ricevuta tale ambasciata, ella ne parve seccata, sebbene solita a visitare spesso gli ammalati: provava tal ripugnanza di visitare costui, che dovette farsi grande violenza per andare sino all’entrata del luogo dove egli trovavasi. Il morente la ringraziò di tutte le cure che aveva avuto per un miserabile sconosciuto, e l’assicurò che pregherebbe sempre il Signore per lei, affinché la ricompensasse di quanto aveva fatto a suo favore. Le domandò ancora la grazia di incaricarsi della sua sepoltura. Dopo che glielo ebbe promesso, le donò il libro dei santi Evangeli, assai ben rilegato. Ella fu sorpresa di vedere che un povero possedeva un libro così ben rilegato: allora si risovvenne di quello già dato al figlio perduto. Rinnovandosi il suo dolore, si mise a versar lagrime copiose. Accorso il padre a quel pianto rumoroso, ed esaminato il libro, riconobbe che era quello del loro figlio. Egli domandò cosa fosse avvenuto di lui. Il Santo che non aveva più che un soffio di vita, disse loro sospirando e piangendo: “Questo è il libro che mi avete dato dieci anni fa: io sono quel figlio che tanto cercaste e pel quale tanto avete pianto. „ A queste parole, quasi svennero, vedendo il loro caro figlio cercato tanto lontano, e che era così vicino: sembrava loro di non poter più vivere. Ma nell’istante che lo stringevano tra le braccia, egli alzò le mani e gli occhi al cielo e rese a Dio la sua anima bella, che per conservarsi nell’innocenza aveva fatto tanti sacrifici, penitenze e sparso tante lagrime. Ecco, F. M., ciò che possiamo dire: questo Cristiano aveva la fortuna di conoscere la grandezza dell’anima sua, e la cura che doveva averne. Ecco, F. M., un Cristiano che ha glorificato Iddio in tutti gli atti della sua vita: ecco un’anima che ora brilla di gloria in cielo, e benedice il buon Dio d’averle dato la grazia di vincere il mondo, la carne, il sangue. Ah! sono pur fortunate queste morti anche agli occhi del mondo!

II. — In secondo luogo, ho detto che per conoscere il valore dell’anima nostra ci basta considerare quanto Gesù Cristo ha fatto per essa. Chi di noi, F. M., potrà comprendere quanta stima fa il buon Dio dell’anima nostra, giacché Egli ha fatto quanto era possibile ad un Dio per rendere felice una creatura? Per sentirsi più spinto ad amarla, la volle creare a sua immagine e somiglianza: perché contemplandola vedesse se stesso. Perciò vediamo che Egli dà all’anima i nomi più teneri e più capaci di manifestare un amore spinto sino all’eccesso. La chiama sua figlia, sorella, diletta, sposa, amica, colomba. (Cant. II, 10; IV, 9; etc., etc.). Ma non basta: l’amore si mostra assai meglio coi fatti che colle parole. Vedete la sua premura di abbandonare il cielo per prendere un corpo simile al nostro; sposando la nostra natura, Egli ha assunto tutte le nostre infermità, tranne il peccato; o piuttosto ha voluto caricarsi della giustizia che il Padre suo domandava da noi. Vedete il suo annientamento nel mistero dell’Incarnazione: vedete la sua povertà: per noi nasce in una stalla: vedete le lagrime che spargeva su quella paglia, dove pianse in anticipazione i nostri peccati: vedete quel sangue che scorre sotto il coltello della circoncisione: vedetelo fuggire in Egitto come un colpevole: vedete quell’umiltà e quella sottomissione a’ suoi genitori: vedetelo nel giardino dogli Ulivi, che geme, prega e sparge lagrime di sangue: vedetelo, preso, legato, incatenato, gettato a terra, percosso con calci e bastoni dalle sue creature: osservatelo attaccato alla colonna, tutto insanguinato: il suo corpo ha ricevuto troppe percosse, il sangue scorre per modo che anche i carnefici ne sono coperti: vedete la corona di spine che trapassa quel capo sacrosanto; vedetelo portare la croce al Calvario: quanti sono i passi che muove altrettante le cadute: vedetelo inchiodato sulla croce, ove Egli stesso vi si stende senza lasciar uscire dalla bocca una sola parola di lamento. Vedete le lacrime d’amore sparse morendo, e mescolantisi col suo Sangue adorabile! Questo è veramente un amore degno d’un Dio, che è amore! Così davvero, F. M., Egli mostra la stima che fa di un’anima! Non basta questo per farci comprendere quanto essa valga e la cura che dobbiamo averne? Ah! F. M., se avessimo la ventura, una volta sola nella vita, di comprendere la bellezza ed il valore dell’anima nostra, non saremmo pronti come Gesù Cristo, a far tutti i sacrifici per conservarla? Oh! quanto un’anima è bella, è preziosa agli occhi stessi di Dio! Come mai può darsi che ne facciamo così poco conto, e la trattiamo più duramente del più vile animale? Che deve pensare quest’anima, la quale conosce la propria bellezza e tutte le sue splendide doti, vedendosi trascinata nelle brutture del peccato? Ah! F. M., quando la avvoltoliamo nelle acque di quelle infami voluttà, sentiamo noi quale orrore deve essa provare di sé medesima l’anima, a cui Dio solo è superiore? Mio Dio, è possibile che sì poca cura ci prendiamo di tale bellezza? Vedete, F. M., cosa diviene un’anima che ha la disgrazia di cadere nel peccato. In grazia di Dio la si prenderebbe per una divinità: ma nel peccato!… Il Signore un giorno mostrò ad un Profeta un’anima in peccato: ed egli ci dice che era simile ad una carogna, trascinata otto giorni per una strada sotto la sferza del sole. Ah! possiamo ben dire, F. M., col profeta Geremia: “È caduta la grande Babilonia, è divenuta il nido dei demoni. „ (Apoc. XVIII, 2; Jer. LI, 8) Oh! come è bella un’anima, quando ha la fortuna di possedere la grazia del suo Dio! No, no, Dio solo può conoscerne tutto il pregio e tutto il valore! Quindi, vedete come Dio ha istituito una Religione per renderla felice quaggiù, aspettando di farla un giorno godere d’una più grande felicità nell’altra vita. Perché, F. M., ha istituito tutti i Sacramenti? Non è per guarirla, quando ha la sventura di essere ferita dal peccato, e per fortificarla nelle sue battaglie? Vedete a quanti oltraggi s’è esposto Gesù Cristo per essa! Quanto spesso si violano i suoi Comandamenti! quante volte vengono profanati i suoi Sacramenti, quanti sacrilegi nel riceverli! Eppur, no, F. M., sebbene Gesù Cristo sappia tutti gli insulti che vi riceverà, l’amore per le anime nostre non ha potuto arrestarlo dirò meglio, F. M.: Gesù Cristo ha tanto amato, o piuttosto ama tanto l’anima nostra, che, se occorresse, morirebbe una seconda volta. Vedete la sua sollecitudine in soccorrerci nelle nostre pene e nei nostri dolori: vedete le sue cure per coloro che vogliono amarlo: vedete tutte quelle schiere di Santi che ha nutrito in modo miracoloso. Ah! F. M., se avessimo una volta la fortuna di ben comprendere che cos’è un’anima e come Dio… come Egli l’ama, e vuol ricompensarla per tutta l’eternità, noi faremmo come i Santi: né i beni, né i piaceri, né la morte sarebbero capaci di farcela vendere al demonio. Vedete tutte quelle schiere di martiri e i tormenti sopportati per non perderla: vedeteli montar sui patiboli, e darsi in mano ai carnefici con gioia incredibile … Ne abbiamo un bell’esempio in S. Cristina, vergine e martire. Questa martire illustre era toscana. Il padre suo, governatore, ne divenne egli stesso il carnefice. Causa della sua collera, fu l’aver la figliuola tolti via tutti gli idoli che egli adorava in casa; riducendoli in pezzi per farne elemosina ai poveri Cristiani. Per questo atto il padre ebbe un tale accesso di furore che la diede sull’istante in mano ai carnefici, i quali per suo ordine la flagellarono crudelmente e la tormentarono con ferocia inaudita. Il suo povero corpo era ormai tutto sanguinante e il padre ordinò si prendessero uncini di ferro per straziarglielo maggiormente. Giunsero tant’oltre, che le si vedeva gran parte delle ossa in quasi tutte le membra del corpo: ma, un dolore sì cocente non abbatté il suo coraggio né turbò la calma dell’anima sua; ella raccolse, senza tremare, la propria carne dilaniata e la presentò al padre. Un atto così sorprendente, invece di toccare il cuore di quel barbaro padre, non servì che ad irritarlo ancor più: la fece gettare in una prigione orribile, carica di catene: la ricoperse di maledizioni, dicendole che ben altri tormenti le erano preparati: ma la santa figliuola, che aveva appena dieci anni, non ne fu spaventata. Infatti, pochi giorni dopo, il padre la fece uscire di prigione, ed attaccare ad una ruota uncinata alquanto sollevata da terra e tutta cosparsa d’olio, con sotto accesovi gran fuoco, affinché, girando la ruota, il corpo della piccola innocente soffrisse un doppio supplizio. Ma un grande miracolo ne impedì l’effetto: il fuoco rispettò la purezza della vergine Cristina, e non fece alcun danno al suo corpo; mentre invece si voltò contro gli idolatri, e ne abbruciò un numero grandissimo. Il padre, vedendo tali prodigi, scoppiava di dispetto. Non potendo soffrire tale sconfitta, senza vendicarsene come l’odio gli ispirava, ricondusse la figlia in prigione: ma non vi restò senza chi la soccorresse: un Angelo discese nella sua cella per consolarla, e ad un tempo guarì tutte le sue piaghe, ridandole nuove forze. Il padre snaturato, saputo il miracolo, stabilì di ordinare un ultimo sforzo. Comandò al carnefice di attaccarle una pietra al collo, e precipitarla nel lago. Ma il buon Dio che aveva saputo preservarla dalle fiamme, seppe anche salvarla dalle acque: il medesimo Angelo che l’aveva soccorsa in prigione, la soccorse sulle acque e la fece tranquillamente tornare alla riva, dove fu trovata più sana di prima. Il padre, vedendo che tutto quanto ordinava per farla soffrire non riusciva a nulla, ne ebbe tale rammarico che morì di rabbia. Dione, suo successore nel governo, gli succedette anche nella ferocia: credette fosse dover suo vendicare la morte del padre, di cui credeva fosse causa la figlia. Inventò mille sorta di tormenti contro quella vergine innocente: ma il più crudele fu l’immergerla in una vasca piena di olio bollente misto a pece. La santa giovane, che Dio compiacevasi proteggere in faccia ed a confusione dei suoi tiranni, con un sol segno di croce fece perder la forza a tutta quella materia, e usando una santa facezia, disse loro che l’avevano messa in una culla, come un bambino appena battezzato. Quei detestabili ministri di satana furono indignati di vedere che una fanciulla di dieci anni trionfava di tutti i loro sforzi, e dimenticando il rispetto dovuto al pudore ed alla modestia di quella vergine, le tagliarono i capelli, la spogliarono degli abiti, ed in tale stato la trascinarono in un tempio di idoli per forzarla a presentare incenso al demonio: ma alla sua entrata nel tempio, l’idolo cadde in pezzi, ed il tiranno morì sull’istante. Gli idolatri, testimoni del fatto, si convertirono quasi tutti, in numero di tremila. La santa giovane passò in mano d’un altro carnefice, chiamato Giustino. Il tiranno, stimando suo dovere vendicar la vergogna e la morte del suo predecessore, provò ancora su di essa quanto il furore poté ispirargli: cominciò a gettarla in una fornace ardente, perché vi rimanesse incenerita: ma il buon Dio, con un nuovo miracolo, permise che le fiamme non le facessero alcun male; e la vergine vi stette cinque giorni senza nulla soffrirne. Allora gli uomini, trovandosi esauriti nella loro malizia, ricorsero al demonio, e si rivolsero ad un mago che gettò gran numero di orribili serpenti nella sua prigione, pensando che sarebbe morta di veleno: ma tale consiglio diabolico non servì che a far risplendere maggiormente la gloria della vergine, facendola trionfare degli animali, dopo aver trionfato della rabbia degli uomini. Le si tagliò la lingua: ma si faceva udire anche meglio, e cantava con più forza le lodi del Dio che adorava. Da ultimo, non sapendo più che fare, il carnefice la fece attaccare ad un palo, dove il suo corpo fu trafitto da frecce, finché l’anima sua se ne separò per andar a godere la presenza di Dio che aveva così ben meritata. Ditemi, F. M., questa giovinetta non comprendeva la grandezza ed il valore dell’anima? Non era penetrata di quanto doveva fare per conservarla, a costo dei beni, dei piaceri, della sua vita stessa? Ah! F. M., se avessimo una buona volta compreso che 1’anima nostra vale la stima che Dio stesso ne fa, potremmo lasciarla perire come facciamo? No, no, F. M., non meravigliamoci più di tante lagrime versate da Gesù Cristo sulla perdita dell’anima nostra. Ma, penserete voi, su che cosa adunque ha tanto pianto Gesù Cristo? — Ahimè! ha pianto sul nostro orgoglio, vedendo che non cerchiamo che gli onori e la stima del mondo, invece di pensar solo ad umiliarci alla vista di ciò che un Dio ha subito per innalzarci: ha pianto sui nostri odii e sulle nostre vendette, mentre egli muore pe’ suoi nemici: ha pianto sui nostri vizi vergognosi di impurità, vedendo come questo peccato disonora l’anima nostra e la immerge in un fango immondo e putrido. Ahimè, F. M.! Egli ha pianto sui nostri peccati. Voleva salvarci tutti e renderci felici; non voleva che anime sì belle, sue creature, andassero perdute, disonorate, schiave del demonio, mentre sono dotate di tante belle doti, e destinate a sì grande felicità.

III. — S. Agostino ci dice: “Volete sapere che cosa vale l’anima vostra? Andate, domandatelo al demonio; egli ve lo dirà. Il demonio stima tanto un’anima che quando pur vivessimo quattro mila anni, se dopo quattro mila anni di tentazioni riuscisse di guadagnarci, non gli rincrescerebbe affatto.„ Questo Santo che aveva provato le tentazioni del demonio in un modo particolare, ci dice che la nostra vita è una tentazione continua. Il demonio stesso disse un giorno per bocca di un ossesso, che finché fossevi un uomo sulla terra lo avrebbe tentato. Perché, disse, non posso soffrire che i Cristiani dopo tanti peccati possano sperar ancora il cielo che io ho perduto in un solo momento senza poterlo più riguadagnare. Ma, ahimè! non sentiamo noi stessi che in quasi tutte le nostre azioni siamo tentati, ora dall’orgoglio, dalla vanità, dalla buona opinione che pensiamo si avrà di noi, ora dalla gelosia, dall’odio, dalla vendetta! Altre volte il demonio non viene a presentarci le immagini più vergognose ed impure? Vedete nelle nostre preghiere: egli distrae il nostro spirito da una parte e dall’altra: non ci sembra quasi d’essere in uno stato quando ci troviamo alla santa presenza di Dio? E, assai più, non troverete un santo che non sia stato tentato dopo Adamo, chi in un modo, chi in un altro; ed i più gran Santi lo furono di più. Se nostro Signore è stato tentato, è per mostrarci che dobbiamo esserlo ancor noi: bisogna adunque assolutamente aspettarcelo. Se mi domandate la causa delle nostre tentazioni, vi dirò che è la bellezza ed il valore dell’anima nostra, che il demonio stima ed ama tanto che acconsentirebbe a soffrire due inferni, occorrendo, se con ciò potesse trascinare l’anima nostra all’inferno. Non dobbiamo cessar mai di vegliare su di noi stessi, per timore che il demonio ci inganni quando meno ce l’aspettiamo. S. Francesco ci dice che un giorno il buon Dio gli fece vedere il modo col quale il demonio tentava i suoi religiosi, soprattutto contro la purità. Gli mise innanzi una schiera innumerevole di demoni i quali non facevan altro che tirar frecce contro i religiosi: le une ritornavano con violenza contro i demoni stessi che le avevano scagliate; ed allora questi fuggivano gettando urla spaventevoli: le altre rimbalzavano su quelli contro i quali erano state gettate, cadendo ai loro piedi senza fare alcun male; altre entravano sino a tutta l’asta, ed infine li trapassavano da parte a parte. Bisogna servirci per scacciarli, come ci dice sant’Antonio, delle medesime armi; quando ci tenta di orgoglio, dobbiamo subito umiliarci ed abbassarci davanti a Dio: se vuol tentarci contro la santa virtù della purità, dobbiam cercare di mortificare il nostro corpo e tutti i nostri sensi, ed essere ancor più vigilanti su di noi stessi. Se vuol tentarci col disgusto nella preghiera, bisogna pregare di più e con maggior attenzione: e più il demonio ci dirà di lasciarla, più dobbiamo aumentare il numero delle nostre orazioni. Le tentazioni più da temere sono quelle che non conosciamo. S. Gregorio ci dice che era vi un religioso, che per un po’ era stato buono: gli venne poi un gran desiderio di uscire dal monastero e ritornare nel mondo perché, diceva egli, il buon Dio non lo voleva più nel monastero. Il suo superiore gli disse: “Amico mio, è il demonio che così vi tenta, indispettito che possiate salvar  l’anima vostra; combattetelo.„ Ma no, l’altro credé sempre che la cosa fosse com’egli pensava. Il santo gli permise di andarsene: ma mentre questi usciva, egli si pose in ginocchio per domandare al buon Dio di far conoscere a quel povero religioso che era precisamente il demonio che voleva perderlo. Appena messo il piede sulla soglia della porta per uscire, vide un grosso dragone che gli si gettò addosso. “Ah! esclamò, Fratelli miei, soccorso! ecco un dragone che mi vuol divorare.„ Infatti i religiosi accorsi al rumore, lo trovarono steso in terra, svenuto: lo portarono nel monastero, ed egli riconobbe che era il demonio che lo tentava, e che si struggeva di rabbia perché il suo superiore aveva pregato per lui, impedendogli di farlo suo. Ahimè! F. M., dobbiamo temere di non conoscere le nostre tentazioni! E non le conosceremo mai se non lo domandiamo a Dio. Che cosa dobbiamo, M. F., concludere, da ciò? che l’anima nostra è qualche cosa di ben grande agli occhi dei demoni, poiché sono tanto solleciti di non lasciarsi sfuggire una sola occasione di tentarci, per perderci e trascinarci nella loro rovina. Ma ora che abbiamo visto, F. M., che l’anima nostra è alcunché di grande, che Dio l’ama, che ha sofferto tanto per salvarla, e quali beni le prepara nell’altra vita: ora che abbiamo visto tutte le insidie ed astuzie del demonio per rovinarla, che cosa, F. M., ne pensiamo? quale stima ne facciamo? quale cura ne abbiamo? Abbiamo mai, F. M., meditato sulla grandezza dell’anima nostra, e sulla sollecitudine che ne dobbiamo avere? Che cosa facciamo, F. M., di quest’anima che ha tanto costato a Gesù Cristo? Ahimè! se dovessimo confessare che l’abbiamo soltanto per renderla infelice e farla soffrire! La stimiamo meno delle nostre bestie più vili: se queste sono in stalla, diamo loro da mangiare: abbiamo cura di aprire e chiudere le porte, temendo che i ladri ce le rubino: se ammalate, cerchiamo il veterinario che le guarisca: siamo afflitti, assai spesso, vedendole soffrire. Facciamo altrettanto per l’anima nostra, F. M.? Abbiamo cura di nutrirla colla grazia, colla frequenza ai Sacramenti? Abbiamo cura di ben chiudere le porte, per timore che i ladri ce la rubino? Ahimè! F. M., diciamolo a nostra vergogna: la lasciamo perire di miseria: la lasciamo assalire dai nemici, le nostre passioni: lasciamo tutte le porte aperte: viene il demonio dell’orgoglio, lo lasciamo entrare, ferire, straziare l’anima nostra: viene quello dell’impurità, entra, insozza, corrompe la povera anima nostra. “Ah! povera anima, ci dice S. Agostino, come sei stimata cosa da poco. Un orgoglioso ti vende per un pensiero di orgoglio, un avaro per un po’ di terra, un ubbriacone per un bicchier di vino, un vendicativo per un pensiero di vendetta!„ E davvero, F. M., dove sono le nostre buone orazioni, le Comunioni, le preghiere ben fatte, le Messe ben ascoltate, la rassegnazione alla volontà di Dio nelle afflizioni, la carità pei nemici? È possibile, F. M., che facciamo sì poco caso di un’anima tanto bella, che Dio ha amato più di se stesso, poiché è morto per salvarla? Ahimè, amiamo il mondo ed i piaceri del mondo: e quanto si riferisce alla gloria di Dio od alla salvezza dell’anima nostra ci annoia, ci disgusta: mormoriamo, quando bisogna occuparsene. Ahimè! qual rimorso avremo un giorno!… Il mondo sembra darci qualche piacere: ma non inganniamoci. Ascoltate che cosa ci dice S. Giovanni Crisostomo: vedrete come è più fortunato chi cerca conservare l’anima sua di chi cerca solo i piaceri e lascia da parte l’anima. “Mentre dormivo, racconta questo gran Santo, ebbi un sogno straordinario, che, svegliatomi, mi presentò tanti soggetti di riflessioni davanti a Dio. Vidi un luogo delizioso, una valle incantevole, dove la natura aveva raccolto tutte le sue bellezze, tutte le ricchezze e tutti i piaceri capaci di rallegrare un mortale. Mi meravigliò, in mezzo a quella valle di delizie, un uomo dall’aspetto triste, dal viso alterato, dallo spirito preoccupato: il suo atteggiamento tradiva l’agitazione dell’animo: ora stava immobile, con lo sguardo fisso a terra; ora camminava a lunghi passi con aria smarrita: poi, arrestatosi improvvisamente, mandava profondi sospiri, e s’immergeva in tetra melanconia, come se fosse vicino alla disperazione. Osservando attentamente, scopersi che quella valle di delizie terminava ad un precipizio pauroso, ad una voragine immensa, dove una forza arcana sembrava trascinarlo. Quell’uomo era agitato, malgrado tante delizie, perché con tale vista non poteva gustare un sol momento di gioia e di pace. Ma spingendo più lontano i miei sguardi, vidi un altro luogo tutto differente, un vallone oscuro e triste, montagne scoscese, deserti sterili: solo la desolazione sembrava abitar quel luogo, e nessun fogliame, nessuna verzura; rovi e spine: tutto ispirava tristezza, e una specie di orrore. La mia sorpresa giunse al colmo quando scorsi in questa valle un uomo pallido, macilento, estenuato, eppure con un viso sereno, un portamento tranquillo ed un’aria contenta: nonostante le apparenze desolanti, tutto annunciava un uomo che ha la pace dell’anima: ma spingendo i miei sguardi ancor più lontano, distinsi al termine di quella valle di miserie e di quel pauroso deserto, un luogo delizioso, un sito incantevole, dove scoprivasi ogni sorta di bellezze. L’uomo teneva fisso sempre l’occhio a quel termine, non lo perdeva mai di vista: camminava con coraggio, passando attraverso i rovi, dove spesso si pungeva: ma le sue ferite sembravano rinnovargli le forze. Meravigliato di ciò, domandai perché l’uno era così triste in quel luogo di piaceri, e l’altro così contento in un luogo di miserie. Allora sentii una voce che mi disse: Questi due uomini che vedi sono l’immagine di coloro che sono o interamente attaccati al mondo, o sinceramente consacrati al servizio di Dio. Il mondo, mi disse quella voce, presenta ai suoi seguaci prima i beni, i piaceri, almeno in apparenza; essi vi si abbandonano come insensati: ma bentosto riconoscono che non trovarono quanto credevano. La cosa più triste e desolante è che a capo di questa valle vi è una voragine, dove vanno a precipitare tutti coloro che camminano per questa via che sembra tanto dilettevole. L’altro uomo al contrario, mi disse la voce, dimostra l’opposto: nel servizio di Dio, prima vi sono prove e dolori, si abita in una valle di lagrime: bisogna mortificarsi, farsi violenza, privarsi delle dolcezze della vita, passare i giorni nelle angustie. Ma si resta animati dalla vista e dalla speranza d’un avvenire per sempre felice: è la sorte riservata all’uomo che trovavasi nella valle triste: ed il pensiero della felicità che gli  spetta lo conforta e lo sostiene nelle sue lotte. Tutto diviene consolante per lui, l’anima sua gusta già i beni promessi, che l’attendono, e dei quali godrà presto. „ Si può trovare, F. M., un’immagine più naturale di questa, per farci comprendere la differenza tra chi nella sua vita cerca solo di piacere a Dio, salvare l’anima propria, e chi mette da parte Dio e l’anima per correre dietro ad alcuni piaceri, che, senza offrire nulla di consolante né di perfetto, ci conducono in un precipizio, cioè nella voragine infernale (Est via qua videtur humìni justa: novìssima autem ejus deducunt ad mortem. Risus dolore miscebitur, et extrema gaudii luctus occupat (Prov.XIV, 12, 13). Fortunato, carissimi, chi seguirà questa strada, dove vi sono pene, ma di breve durata, e che al suo termine conduce ad un luogo felice, al possesso di Dio! È la fortuna che vi auguro ….

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XVIII: 9-12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]

Secreta

Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur.

[Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann VI: 57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.

[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.

[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “LE LACRIME DI GESÙ CRISTO”

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Le lagrime di Gesù Cristo.

Videns Jesus oivitatem, flevit super illam.

(Luc. XIX, 41).

Gesù Cristo, entrando nella città di Gerusalemme pianse su di essa, dicendo: “Se almeno conoscessi le grazie che ti ho portato, e ne volessi approfittare, potresti ricevere ancora il tuo perdono: ma la tua cecità è giunta a tale eccesso, che tutte queste grazie non serviranno che a renderti ostinata e a perderti: tu hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio; ed ora stai per mettere il colmo ai tuoi delitti facendo morire il Figlio stesso di Dio. „ Ecco, F. M., ciò che strappava lagrime a Gesù Cristo in grande abbondanza, mentre si avvicinava a quella città. Ahimè! Egli considerava in tutte queste sventure, la perdita di tante anime, ben più colpevoli dei Giudei, perché più di questi favoriti di tante grazie. Davvero, F. M., ciò che lo commosse così vivamente fu il pensiero che, non ostante i meriti della sua passione e morte sufficienti per redimere mille mondi più grandi del nostro, il maggior numero degli uomini andrebbe perduto. – Sì, F. M., Egli prevedeva coloro che disprezzerebbero le sue grazie, non servendosene che in proprio danno. E chi di noi, F. M., non trepiderà pensando sinceramente a condurre l’anima propria al cielo? Non siamo noi di quel numero? Non è per noi che Gesù Cristo disse piangendo: “Ah! purtroppo, se il mio sangue e la mia morte non servono alla vostra salvezza, accenderanno la collera del Padre mio su di voi per tutta l’eternità? „ Un Dio tradito!… un’anima dannata!… un cielo rifiutato! … Possibile che a tante sciagure rimaniamo insensibili? … È possibile, F. M., che, malgrado quanto ha fatto Gesù Cristo per salvare le anime nostre, siamo così insensibili alla loro perdita? … Ma per togliervi, F. M., da tale insensibilità, vi mostrerò:

1° che cos’è un’anima;

2° quanto ha costato a Gesù Cristo;

3° quanto fa il demonio per condurla a perdizione.

I. — Ah! F. M., se avessimo la fortuna di conoscere il valore dell’anima nostra, con qual cura la custodiremmo? Ahimè! non lo comprenderemo mai abbastanza! Voler mostrarvi, F. M., la grandezza del valore di un’anima è impossibile per un mortale: Dio solo conosco tutte le bellezze, le perfezioni delle quali l’ha ornata. Vi dirò solamente che tutto quanto Dio ha creato, il cielo, la terra e tutto ciò che vi a contenuto, tutto queste meraviglie furon create in suo favore. Il nostro catechismo ci dà la più bella prova possibile della grandezza dell’anima. Quando si domanda ad un fanciullo: che cosa intendi quando dici che l’anima dell’uomo è uno spirito creato ad immagine di Dio? Quest’anima, ci risponde il fanciullo, al pari di Dio ha la potenza di conoscere, di amare e di determinarsi liberamente in tutte le sue azioni. Ecco, F. M., il più bell’elogio che possiamo fare delle doti, colle quali Dio abbellì l’anima nostra, creata dalle tre Persone della Ss. Trinità, ed a loro somiglianza. Uno spirito, al par di Dio, immortale, capace di conoscere le bellezze e le perfezioni tutte di Dio, quanto è possibile ad una creatura: uno spirito, che è l’oggetto delle compiacenze delle tre divine Persone; uno spirito, che può glorificar Dio in tutte le sue azioni; uno spirito, la cui occupazione sarà di cantar le lodi di Dio per tutti i secoli; uno spirito, che risplenderà della felicità di Dio medesimo; uno spirito, che ha una tal libertà nelle sue azioni da poter donare la sua amicizia, l’amor suo a chi meglio gli pare; che può non amare Dio, od amarlo: ma che, se è tanto fortunato di volgere il suo amore a Dio, non obbedisce più esso a Dio, sebbene Dio stesso fa quanto vuole questo spirito (Voluntatem timentium se faciet Ps. CXLIV. 19) e sembra compiacersi di farlo. Potrei anche dire che dal principio del mondo non trovate un’anima che, essendosi data a Dio senza restrizioni, Dio le abbia rifiutato alcuna cosa da lei desiderata. Vediamo che Dio ci ha creato con tali desideri, che nulla è capace di soddisfarli. Presentate ad un’anima tutte le ricchezze ed i tesori del mondo, niente di ciò potrà accontentarla; avendola Iddio creata per sé, non vi è che Lui solo capace di riempire tutti i vasti suoi desideri. Sì, P. M., l’anima nostra può amar Dio; ed è questa la più grande di tutte le felicità! Amandolo abbiamo tutti i beni ed i piaceri che possiamo desiderare sulla terra ed in cielo (Ps. LXXII, 25).Possiamo anche servirlo; cioè glorificarlo in ogni azione della nostra vita. Anche dalle minime cose che facciamo Dio viene glorificato, se le facciamo coll’intenzione di piacergli. La nostra occupazione, mentre siamo sulla terra, nulla ha di differente da quella degli Angeli in cielo; l’unica differenza è che noi vediamo questi beni solo cogli occhi della fede.  L’anima nostra è così nobile, ornata di tante belle qualità che il buon Dio non volle affidarla che ad un principe della corte celeste. L’anima nostra è così preziosa agli occhi di Dio stesso, che in tutta la sua sapienza, non trovò altro cibo degno di lei che il suo Corpo adorabile, di cui vuole che essa faccia il suo nutrimento quotidiano: e altra bevanda che il Sangue suo prezioso. ” Sì, F. M., abbiamo un’anima che Dio stima tanto, ci dice S. Ambrogio, che, fosse stata pur sola nel mondo, egli non avrebbe creduto di far troppo morendo per essa; e se, creandola, non avesse creato il cielo, il buon Dio lo avrebbe creato apposta per essa, anche se fosse sola nel mondo.„ Come disse Egli un giorno a S. Teresa: “Mi sei tanto cara, così Gesù Cristo, che se non vi fosse il cielo, ne creerei uno apposta per te. „ —“O corpo mio, esclama S. Bernardo, quanto sei fortunato di albergare un’anima adorna di tante belle qualità! Un Dio, sebbene infinito, la fa oggetto di sue compiacenze!„ Sì, F. M., l’anima nostra è destinata a passar tutta l’eternità in grembo a Dio stesso. Dico tutto in una parola: l’anima nostra è alcunché di così grande, di così prezioso, che Dio solo la supera. Un giorno il buon Dio fece vedere un’anima a S. Caterina. La trovò così bella, che esclamò: “O mio Dio, se la fede non mi insegnasse che v’è un Dio solo, crederei che questa sia una divinità; no, mio Dio, non mi meraviglio più che voi siate morto per l’anima che è sì bella!„ Sì, F. M., l’anima nostra nella vita futura sarà eterna quanto Dio stesso. No, no, non andiamo oltre: ci perdiamo in questo abisso di grandezza. Dopo questo, F. M., vi lascio pensare se dobbiamo meravigliarci che Dio, il quale ne conosce così bene il valore, pianga tanto amaramente la perdita di un’anima. Ahimè! F. M., il buon Dio è così sensibile alla perdita di un’anima che l’ha pianta prima di aver gli occhi per piangere: adoperò gli occhi dei suoi profeti per piangere la perdita delle anime nostre. Lo vediamo in modo evidente nel profeta Amos: “Essendomi ritirato nell’oscurità, dice il profeta, considerando lo spaventoso numero di delitti che il popolo di Dio commette ogni giorno, vedendo che la collera di Dio era pronta a piombargli addosso, e che l’inferno apriva le sue fauci per inghiottirlo, adunatili insieme, ed io stesso tutto tremante, dissi loro piangendo amaramente: “Figli miei, sapete qual è la mia occupazione, notte e giorno? Ahimè! mi rappresento vivamente tutti i vostri peccati, nell’amarezza del mio cuore. Se dopo… oppresso dalla fatica, mi assopisco, subito mi sveglio di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime ed il cuore spezzato dal dolore gridando: Mio Dio, mio Dio, non vi saranno anime in Israele che non vi offendono? Quando mi riempio la mente di questa triste e lagrimevole idea, ne parlo   al Signore, ne gemo amaramente alla sua santa presenza, dicendogli: Mio Dio, qual mezzo debbo usare per ottener loro grazia? Ecco che cosa mi rispose il Signore: Profeta, se vuoi ottenere il perdono di questo popolo ingrato, va, corri per le vie e per le pubbliche piazze: falle risuonare dei gemiti più amari: entra nelle botteghe dei mercanti e degli artigiani; va nei luoghi dove si amministra la giustizia: ascendi nelle magioni dei grandi e nei gabinetti dei giudici: di’ a tutti quanti troverai dentro e fuori della città: “Guai a voi! ah! guai a voi, che avete peccato contro il Signore!„ Non basta; chiama in tuo soccorso quanti sono capaci di piangere, affinché aggiungano le loro lagrime alle tue, ed i vostri gemiti e le vostre grida siano così spaventose da gettare la costernazione in tutti i cuori: affinché abbandonino i loro peccati e li piangano sino alla tomba: affinché comprendano quanto mi è dolorosa la perdita delle anime loro. „ – Il profeta Geremia, F. M., va ancor più oltre. Per farci intendere quanto la perdita di un’anima è dolorosa per Iddio, ascoltatelo in un momento in cui è dominato dallo spirito del Signore: “Ah! mio Dio, ah! mio Dio, che diverrò? m’avete dato la cura d’un popolo ribelle, d’una nazione ingrata, che non vuole ascoltarvi, né sottomettersi ai vostri ordini; ahimè! che farò io? qual partito prenderò? Ecco ciò che il Signore mi rispose: “Per mostrar loro quanto io soffra per la perdita dell’anima loro, afferra i tuoi capelli, strappali dalla testa, gettali lontano, perché il peccato di questo popolo m’ha costretto ad abbandonarlo, ed il mio furore è piombato su di esso.„ Quando la collera del Signore è accesa pel peccato nel cuore, è la più terribile malattia: “Ma, Signore, gli disse il profeta, che farò io per impegnarvi a distogliere il vostro sguardo di collera dal popolo vostro? — Vestiti di un sacco, mi disse il Signore, mettiti la cenere sulla testa e piangi senza tregua e con tanta abbondanza che le lagrime coprano il tuo volto; e piangi tanto amaramente che i tuoi peccati vengano soffocati nelle tue lagrime.„ (Ger. VII, 29). Comprendete, F. M.. quanto affligga il buon Dio la perdita delle nostre anime? Vedete quanto siamo sventurati, perdendo un’anima, che Dio ama tanto che non avendo ancora gli occhi per piangere, adopera quelli dei profeti per versar lagrime amare sulla sua rovina! Il Signore ci dice per bocca del profeta Gioele: “Piangete la perdita delle anime come uno sposo novello, il quale ha perduto la sposa che doveva essere tutta la sua consolazione, ed è ridotto ad ogni sorta di sventure!„ (Gioel. I, 8) S. Bernardo ci dice che tre cose sono capaci di farci piangere: ma ve n’è una sola che possa render meritorie le lagrime nostre, cioè quando piangiamo i peccati nostri o dei nostri fratelli: tutte le altre non sono che lagrime profane o colpevoli, o almeno infruttuose. Piangere la perdita d’una lite ingiusta, la morte d’un figlio; lagrime inutili. Piangere la privazione d’un piacere carnale; lagrime peccaminose. Piangere una lunga malattia; lagrime infruttuose ed inutili. Ma, piangere la morte spirituale dell’anima propria, la lontananza di Dio, la perdita del cielo: “O lagrime preziose, ci dice questo gran Santo; ma quanto siete rare!„ E perché, F. M., se non perché non sentite la grandezza della disgrazia vostra nel tempo e nella eternità? Ahimè, F. M.! è il timore di questa perdita che ha spopolato il mondo, per riempire di tanti Cristiani i deserti ed i monasteri: costoro comprendevano assai meglio di noi che se perdiamo l’anima nostra tutto è perduto; e, che essa doveva essere di gran valore, se Dio stesso ne faceva tanto conto. Sì, F. M., i santi hanno sofferto tanto per conservare l’anima loro pel cielo! La storia ce ne fornisce esempi senza numero: eccone uno, F. M.: se non abbiamo il coraggio di imitarlo, potremo almeno ammirarlo per benedirne il buon Dio. Leggiamo nella vita di S. Giovanni Calibita (Vita dei Padri del deserto, t. IX, P. 279), nato a Costantinopoli, che incominciò dalla sua infanzia a comprendere il nulla delle cose umane, ed a sentire un gusto grande per la solitudine. Un religioso d’un vicino monastero passando da Costantinopoli per andar in pellegrinaggio a Gerusalemme, alloggiò in casa de’ parenti di lui, che ricevevano i pellegrini con molto piacere. Il fanciullo domandò qual era la vita che si conduceva nel monastero. Sentito il racconto della vita santa e penitente dei religiosi, il piacere che si provava separati dal mondo per non aver altro commercio che con Dio solo, egli ne fu così commosso, e concepì un tal desiderio di abbandonare il mondo per partecipare a tale felicità, che non poteva più vedersi nel mondo. Disse a’ suoi parenti di non pensar più a fargli una posizione, perché Dio lo chiamava a finire i suoi giorni nel ritiro. I parenti tentarono, se era possibile, di fargli cambiar proposito: tutto inutile; domandò loro per sola eredità il libro dei santi Vangeli, che fu il suo unico tesoro. Ma per liberarsi dalle insistenze continue dei genitori, e per darsi tutto al buon Dio, abbandonò la casa, ed andò a presentarsi alla porta d’un monastero, chiedendo d’esservi ricevuto. I parenti mandarono a cercarlo da ogni parte. Non potendo trovarlo, si abbandonarono alle lagrime più amare. Il santo giovane passò sei anni in quel ritiro praticando tutte le virtù e penitenze che il suo amore per il buon Dio poté ispirargli. Dopo questo tempo gli venne il pensiero d’andar a visitare i parenti suoi, sperando che il buon Dio gli accorderebbe la stessa grazia che ebbe S. Alessio, il quale passò venti anni presso i suoi senza che alcuno lo conoscesse. Appena uscito dal monastero, trovato un povero cambiò l’abito con lui per rendersi ancor più irriconoscibile: d’altra parte le sue austerità così grandi ed una grave malattia l’avevano estremamente sfigurato. Vista da lontano la casa dei suoi genitori, si inginocchiò per domandare a Dio di guidarlo nella sua impresa. Essendo la porta già chiusa perché era notte, rimase fino a giorno là presso. Al mattino i domestici, vedutolo, ne ebbero compassione e gli permisero d’entrare in una piccola stanza per ritirarvisi. Dio solo conobbe quanto ebbe a soffrire, vedendo i suoi genitori ad ogni istante che passavano davanti a lui, e piangevano amaramente la perdita del figlio che era tutta la loro consolazione. Il padre suo, assai caritatevole, di tratto in tratto mandavagli di che nutrirsi: ma la madre non poteva avvicinarglisi senza sentirsi il cuore ribellarsi, tanto trovava ributtante quel povero. Se la sua carità non le avesse fatto vincere tal ripugnanza, l’avrebbe scacciato di casa. Sempre immersa nella tristezza, sempre piangente: e ciò davanti a colui che non poteva essere insensibile a quanto formava il più grande dei tormenti di sua madre… Il buon santo passò tre anni in quella triste condizione, solo occupato nella preghiera e nel digiuno, spinto fino all’eccesso: piangeva continuamente. Quando il buon Dio gli fece conoscere essere vicina la sua fine, pregò il maggiordomo di suggerire alla padrona la carità di venire a vederlo, perché desiderava ardentemente di parlarle. Ricevuta tale ambasciata, ella ne parve seccata, sebbene solita a visitare spesso gli ammalati: provava tal ripugnanza di visitare costui, che dovette farsi grande violenza per andare sino all’entrata del luogo dove egli trovavasi. Il morente la ringraziò di tutte le cure che aveva avuto per un miserabile sconosciuto, e l’assicurò che pregherebbe sempre il Signore per lei, affinché la ricompensasse di quanto aveva fatto a suo favore. Le domandò ancora la grazia di incaricarsi della sua sepoltura. Dopo che glielo ebbe promesso, le donò il libro dei santi Evangeli, assai ben rilegato. Ella fu sorpresa di vedere che un povero possedeva un libro così ben rilegato: allora si risovvenne di quello già dato al figlio perduto. Rinnovandosi il suo dolore, si mise a versar lagrime copiose. Accorso il padre a quel pianto rumoroso, ed esaminato il libro, riconobbe che era quello del loro figlio. Egli domandò cosa fosse avvenuto di lui. Il santo che non aveva più che un soffio di vita, disse loro sospirando e piangendo: “Questo è il libro che mi avete dato dieci anni fa: io sono quel figlio che tanto cercaste e pel quale tanto avete pianto. „ A queste parole, quasi svennero, vedendo il loro caro figlio cercato tanto lontano, e che era così vicino: sembrava loro di non poter più vivere. Ma nell’istante che lo stringevano tra le braccia, egli alzò le mani e gli occhi al cielo e rese a Dio la sua anima bella, che per conservarsi nell’innocenza aveva fatto tanti sacrifici, penitenze e sparso tante lagrime. Ecco, F. M., ciò che possiamo dire: questo Cristiano aveva la fortuna di conoscere la grandezza dell’anima sua, e la cura che doveva averne. Ecco, F. M., un Cristiano che ha glorificato Iddio in tutti gli atti della sua vita: ecco un’anima che ora brilla di gloria in cielo, e benedice il buon Dio d’averle dato la grazia di vincere il mondo, la carne, il sangue. Ah! sono pur fortunate queste morti anche agli occhi del mondo!

II. — In secondo luogo, ho detto che per conoscere il valore dell’anima nostra ci basta considerare quanto Gesù Cristo ha fatto per essa. Chi di noi, F. M., potrà comprendere quanta stima fa il buon Dio dell’anima nostra, giacché Egli ha fatto quanto era possibile ad un Dio per rendere felice una creatura? Per sentirsi più spinto ad amarla, la volle creare a sua immagine e somiglianza: perché contemplandola vedesse so stesso. Perciò vediamo che Egli dà all’anima i nomi più teneri e più capaci di manifestare un amore spinto sino all’eccesso. L a chiama sua figlia, sorella, diletta, sposa, amica, colomba. (Cant. II, 10; IV, 9; e, etc.). Ma non basta: l’amore si mostra assai meglio coi fatti che colle parole. Vedete la sua premura di abbandonare il cielo per prendere un corpo simile al nostro; sposando la nostra natura, Egli ha assunto tutte le nostre informità, tranne il peccato; o piuttosto ha voluto caricarsi della giustizia che il Padre suo domandava da noi. Vedete il suo annientamento nel mistero dell’Incarnazione: vedete la sua povertà: per noi nasce in una stalla: vedete le lagrime che spargeva su quella paglia, dove pianse in anticipazione i nostri peccati: vedete quel sangue che scorre sotto il coltello della circoncisione: vedetelo fuggire in Egitto come un colpevole: vedete quell’umiltà e quella sottomissione a’ suoi genitori: vedetelo nel giardino dogli Ulivi, che geme, prega e sparge lagrime di sangue: vedetelo, preso, legato, incatenato, gettato a terra, percosso con calci e bastoni dalle sue creature: osservatelo attaccato alla colonna, tutto insanguinato: il suo corpo ha ricevuto troppe percosse, il sangue scorre per modo che anche i carnefici ne sono coperti: vedete la corona di spine che trapassa quel capo sacrosanto; vedetelo portare la croce al Calvario: quanti sono i passi che muove altrettante le cadute: vedetelo inchiodato sulla croce, ove Egli stesso vi si stende senza lasciar uscire dalla bocca una sola parola di lamento. Vedete le lacrime d’amore sparse morendo, e mescolantisi col suo Sangue adorabile! Questo è veramente un amore degno d’un Dio, che è amore! Così davvero, F. M., Egli mostra la stima che fa di un’anima! Non basta questo per farei comprendere quanto essa valga e la cura che dobbiamo averne? Ah! F. M., se avessimo la ventura, una volta sola nella vita, di comprendere la bellezza ed il valore dell’anima nostra, non saremmo pronti come Gesù Cristo, a far tutti i sacrifici per conservarla? Oh! quanto un’anima è bella, è preziosa agli occhi stessi di Dio! Come mai può darsi che ne facciamo così poco conto, e la trattiamo più duramente del più vile animale? Che deve pensare quest’anima, la quale conosce la propria bellezza e tutte le sue splendide doti, vedendosi trascinata nelle brutture del peccato? Ah! F. M., quando la avvoltoliamo nelle acque di quelle infami voluttà, sentiamo noi quale orrore deve essa provare di sé medesima l’anima, a cui Dio solo è superiore? Mio Dio, è possibile che sì poca cura ci prendiamo di tale bellezza? Vedete, F . M., cosa diviene un’anima che ha la disgrazia di cadere nel peccato. In grazia di Dio la si prenderebbe per una divinità: ma nel peccato!… Il Signore un giorno mostrò ad un profeta un’anima in peccato: ed egli ci dice che era simile ad una carogna, trascinata otto giorni per una strada sotto la sferza del sole. Ah! possiamo ben dire, F . M., col profeta Geremia: “È caduta la grande Babilonia, è divenuta il nido dei demoni. „ (Apoc. XVIII, 2; Jer. LI, 8) Oh! come è bella un’anima, quando ha la fortuna di possedere la grazia del suo Dio! No, no, Dio solo può conoscerne tutto il pregio e tutto il valore! Quindi, vedete come Dio ha istituito una religione per renderla felice quaggiù, aspettando di farla un giorno godere d’una più grande felicità nell’altra vita. Perché, F. M., ha istituito tutti i Sacramenti? Non è per guarirla, quando ha la sventura di essere ferita dal peccato, e per fortificarla nelle sue battaglie? Vedete a quanti oltraggi s’è esposto Gesù Cristo per essa! Quanto spesso si violano i suoi Comandamenti! quante volte vengono profanati i suoi Sacramenti, quanti sacrilegi nel riceverli! Eppur, no, F. M., sebbene Gesù Cristo sappia tutti gli insulti che vi riceverà, l’amore per le anime nostre non ha potuto arrestarlo dirò meglio, F. M.: Gesù Cristo ha tanto amato, o piuttosto ama tanto l’anima nostra, che, se occorresse, morirebbe una seconda volta. Vedete la sua sollecitudine in soccorrerci nelle nostre pene e nei nostri dolori: vedete le sue cure per coloro che vogliono amarlo: vedete tutte quelle schiere di santi che ha nutrito in modo miracoloso. Ah! F. M., se avessimo una volta la fortuna di ben comprendere che cos’è un’anima e come Dio… come Egli l’ama, e vuol ricompensarla per tutta l’eternità, noi faremmo come i santi: né i beni, né i piaceri, né la morte sarebbero capaci di farcela vendere al demonio. Vedete tutte quelle schiere di martiri e i tormenti sopportati per non perderla: vedeteli montar sui patiboli, e darsi in mano ai carnefici con gioia in credibile … Ne abbiamo un bell’esempio in S. Cristina, vergine e martire. Questa martire illustre era toscana. Il padre suo, governatore, ne divenne egli stesso il carnefice. Causa della sua collera, fu l’aver la figliuola tolti via tutti gli idoli che egli adorava in casa; riducendoli in pezzi per farne elemosina ai poveri cristiani. Per questo atto il padre ebbe un tale accesso di furore che la diede sull’istante in mano ai carnefici, i quali per suo ordine la flagellarono crudelmente e la tormentarono con ferocia inaudita. Il suo povero corpo era ormai tutto sanguinante e il padre ordinò si prendessero uncini di ferro per straziarglielo maggiormente. Giunsero tant’oltre, che le si vedeva gran parte delle ossa in quasi tutte le membra del corpo: ma, un dolore sì cocente non abbatté il suo coraggio né turbò la calma dell’anima sua; ella raccolse, senza tremare, la propria carne dilaniata e la presentò al padre. Un atto così sorprendente, invece di toccare il cuore di quel barbaro padre, non servì che ad irritarlo ancor più: la fece gettare in una prigione orribile, carica di catene: la ricoperse di maledizioni, dicendole che ben altri tormenti le erano preparati: ma la santa figliuola, che aveva appena dieci anni, non ne fu spaventata. Infatti, pochi giorni dopo, il padre la fece uscire di prigione, ed attaccare ad una ruota uncinata alquanto sollevata da terra e tutta cosparsa d’olio, con sotto accesovi gran fuoco, affinché, girando la ruota, il corpo della piccola innocente soffrisse un doppio supplizio. Ma un grande miracolo ne impedì l’effetto: il fuoco rispettò la purezza della vergine Cristina, e non fece alcun danno al suo corpo; mentre invece si voltò contro gli idolatri, e ne abbruciò un numero grandissimo. Il padre, vedendo tali prodigi, scoppiava di dispetto. Non potendo soffrire tale sconfitta, senza vendicarsene come l’odio gli ispirava, ricondusse la figlia in prigione: ma non vi restò senza chi la soccorresse: un angelo discese nella sua cella per consolarla, e ad un tempo guarì tutte le sue piaghe, ridandole nuove forze. Il padre snaturato, saputo il miracolo, stabilì di ordinare un ultimo sforzo. Comandò al carnefice di attaccarle una pietra al collo, e precipitarla nel lago. Ma il buon Dio che aveva saputo preservarla dalle fiamme, seppe anche salvarla dalle acque: il medesimo Angelo che l’aveva soccorsa in prigione, la soccorse sulle acque e la fece tranquillamente tornare alla riva, dove fu trovata più sana di prima. Il padre, vedendo che tutto quanto ordinava per farla soffrire non riusciva a nulla, ne ebbe tale rammarico che morì di rabbia. Dione, suo successore nel governo, gli succedette anche nella ferocia: credette fosse dover suo vendicare la morte del padre, di cui credeva fosse causa la figlia. Inventò mille sorta di tormenti contro quella vergine innocente: ma il più crudele fu l’immergerla in una vasca piena di olio bollente misto a pece. La santa giovane, che Dio compiacevasi proteggere in faccia ed a confusione dei suoi tiranni, con un sol segno di croce fece perder la forza a tutta quella materia, e usando una santa facezia, disse loro che l’avevano messa in una culla, come un bambino appena battezzato. Quei detestabili ministri di satana furono indignati di vedere che una fanciulla di dieci anni trionfava di tutti i loro sforzi, e dimenticando il rispetto dovuto al pudore ed alla modestia di quella vergine, le tagliarono i capelli, la spogliarono degli abiti, ed in tale stato la trascinarono in un tempio di idoli per forzarla a presentare incenso al demonio: ma alla sua entrata nel tempio, l’idolo cadde in pezzi, ed il tiranno morì sull’istante. Gli idolatri, testimoni del fatto, si convertirono quasi tutti, in numero di tremila. La santa giovane passò in mano d’un altro carnefice, chiamato Giustino. Il tiranno, stimando suo dovere vendicar la vergogna e la morte del suo predecessore, provò ancora su di essa quanto il furore poté ispirargli: cominciò a gettarla in una fornace ardente, perché vi rimanesse incenerita: ma il buon Dio, con un nuovo miracolo, permise che le fiamme non le facessero alcun male; e la vergine vi stette cinque giorni senza nulla soffrirne. Allora gli uomini, trovandosi esauriti nella loro malizia, ricorsero al demonio, e si rivolsero ad un mago che gettò gran numero di orribili serpenti nella sua prigione, pensando che sarebbe morta di veleno: ma tale consiglio diabolico non servì che a far risplendere maggiormente la gloria della vergine, facendola trionfare degli animali, dopo aver trionfato della rabbia degli uomini. Le si tagliò la lingua: ma si faceva udire anche meglio, e cantava con più forza le lodi del Dio che adorava. Da ultimo, non sapendo più che fare, il carnefice la fece attaccare ad un palo, dove il suo corpo fu trafitto da frecce, finché l’anima sua se ne separò per andar a godere la presenza di Dio che aveva così ben meritata. Ditemi, F. M., questa giovinetta non comprendeva la grandezza ed il valore dell’anima? Non era penetrata di quanto doveva fare per conservarla, a costo dei beni, dei piaceri, della sua vita stessa? Ah! F. M., se avessimo una buona volta compreso che 1’anima nostra vale la stima che Dio stesso ne fa, potremmo lasciarla perire come facciamo? No, no, F. M., non meravigliamoci più di tante lagrime versate da Gesù Cristo sulla perdita dell’anima nostra. Ma, penserete voi, su che cosa adunque ha tanto pianto Gesù Cristo? — Ahimè! ha pianto sul nostro orgoglio, vedendo che non cerchiamo che gli onori e la stima del mondo, invece di pensar solo ad umiliarci alla vista di ciò che un Dio ha subito per innalzarci: ha pianto sui nostri odii e sulle nostre vendette, mentre egli muore pe’ suoi nemici: ha pianto sui nostri vizi vergognosi di impurità, vedendo come questo peccato disonora l’anima nostra e la immerge in un fango immondo e putrido. Ahimè, F. M.! ha pianto sui nostri peccati. Voleva salvarci tutti e renderci felici; non voleva che anime sì belle, sue creature, andassero perdute, disonorate, schiave del demonio, mentre sono dotate di tante belle doti, e destinate a sì grande felicità.

III. — S. Agostino ci dice “Volete sapere che cosa vale l’anima vostra? Andate, domandatelo al demonio; egli ve lo dirà. Il demonio stima tanto un’anima che quando pur vivessimo quattro mila anni, se dopo quattro mila anni di tentazioni riuscisse di guadagnarci, non gli rincrescerebbe affatto.„ Questo santo che aveva provato le tentazioni del demonio in un modo particolare, ci dice che la nostra vita è una tentazione continua. Il demonio stesso disse un giorno per bocca di un ossesso, che finché fossevi un uomo sulla terra lo avrebbe tentato. Perché, disse, non posso soffrire che i cristiani dopo tanti peccati possano sperar ancora il cielo che io ho perduto in un solo momento senza poterlo più riguadagnare. Ma, ahimè! non sentiamo noi stessi che in quasi tutte le nostre azioni siamo tentati, ora dall’orgoglio, dalla vanità, dalla buona opinione che pensiamo si avrà di noi, ora dalla gelosia, dall’odio, dalla vendetta! Altre volte il demonio non viene a presentarci le immagini più vergognose ed impure? Vedete nelle nostre preghiere: egli distrae il nostro spirito da una parte e dall’altra: non ci sembra quasi d’essere in uno stato quando ci troviamo alla santa presenza di Dio? E, assai più, non troverete un santo che non sia stato tentato dopo Adamo, chi in un modo, chi in un altro; ed i più gran santi lo furono di più. Se nostro Signore è stato tentato, è per mostrarci che dobbiamo esserlo ancor noi: bisogna adunque assolutamente aspettarcelo. Se mi domandate la causa delle nostre tentazioni, vi dirò che è la bellezza ed il valore dell’anima nostra, che il demonio stima ed ama tanto che acconsentirebbe a soffrire due inferni, occorrendo, se con ciò potesse trascinare l’anima nostra all’inferno. Non dobbiamo cessar mai di vegliare su di noi stessi, per timore che il demonio ci inganni quando meno ce l’aspettiamo. S. Francesco ci dice che un giorno il buon Dio gli fece vedere il modo col quale il demonio tentava i suoi religiosi, soprattutto contro la purità. Gli mise innanzi una schiera innumerevole di demoni i quali non facevan altroché tirar frecce contro i religiosi: le une ritornavano con violenza contro i demoni stessi che le avevano scagliate; ed allora questi fuggivano gettando urla spaventevoli: le altre rimbalzavano su quelli contro i quali erano state gettate, cadendo ai loro piedi senza fare alcun male; altre entravano sino a tutta l’asta, ed infine li trapassavano da parte a parte. Bisogna servirci per scacciarli, come ci dice sant’Antonio, delle medesime armi; quando ci tenta di orgoglio, dobbiamo subito umiliarci ed abbassarci davanti a Dio: se vuol tentarci contro la santa virtù della purità, dobbiam cercare di mortificare il nostro corpo e tutti i nostri sensi, ed essere ancor più vigilanti su di noi stessi. Se vuol tentarci col disgusto nella preghiera, bisogna pregare di più e con maggior attenzione: e più il demonio ci dirà di lasciarla, più dobbiamo aumentare il numero delle nostre orazioni. Le tentazioni più da temere sono quelle che non conosciamo. S. Gregorio ci dice che era vi un religioso, che per un po’ era stato buono: gli venne poi un gran desiderio di uscire dal monastero e ritornare nel mondo perché, diceva egli, il buon Dio non lo voleva più nel monastero. Il suo superiore gli disse: “Amico mio, è il demonio che così vi tenta, indispettito che possiate salvar  l’anima vostra; combattetelo.„ Ma no, l’altro credé sempre che la cosa fosse com’egli pensava. Il santo gli permise di andarsene: ma mentre questi usciva, egli si pose in ginocchio per domandare al buon Dio di far conoscere a quel povero religioso che era precisamente il demonio che voleva perderlo. Appena messo il piede sulla soglia della porta per uscire, vide un grosso dragone che gli si gettò addosso. “Ah! esclamò, Fratelli miei, soccorso! ecco un dragone che mi vuol divorare.„ Infatti i religiosi accorsi al rumore, lo trovarono steso in terra, svenuto: lo portarono nel monastero, ed egli riconobbe che era il demonio che lo tentava, e che si struggeva di rabbia perché il suo superiore aveva pregato per lui, impedendogli di farlo suo. Ahimè! F. M., dobbiamo temere di non conoscere le nostre tentazioni! E non le conosceremo mai se non lo domandiamo a Dio. Che cosa dobbiamo, M. F., concludere, da ciò? che l’anima nostra è qualche cosa di ben grande agli occhi dei demoni, poiché sono tanto solleciti di non lasciarsi sfuggire una sola occasione di tentarci, per perderci e trascinarci nella loro rovina. Ma ora che abbiamo visto, F. M., che l’anima nostra è alcunché di grande, che Dio l ‘ama, che ha sofferto tanto per salvarla, e quali beni le prepara nell’altra vita: ora che abbiamo visto tutte le insidie ed astuzie del demonio per rovinarla, che cosa, F. M., ne pensiamo? quale stima ne facciamo? quale cura ne abbiamo? Abbiamo mai, F. M., meditato sulla grandezza dell’anima nostra, e sulla sollecitudine che ne dobbiamo avere? Che cosa facciamo, F. M., di quest’anima che ha tanto costato a Gesù Cristo? Ahimè! se dovessimo confessare che l’abbiamo soltanto per renderla infelice e farla soffrire! La stimiamo meno delle nostre bestie più vili: se queste sono in stalla, diamo loro da mangiare: abbiamo cura di aprire e chiudere le porte, temendo che i ladri ce le rubino: se ammalate, cerchiamo il veterinario che le guarisca: siamo afflitti, assai spesso, vedendole soffrire. Facciamo altrettanto per l’anima nostra, F. M.? Abbiamo cura di nutrirla colla grazia, colla frequenza ai Sacramenti? Abbiamo cura di ben chiudere le porte, per timore che i ladri ce la rubino? Ahimè! F. M., diciamolo a nostra vergogna: la lasciamo perire di miseria: la lasciamo assalire dai nemici, le nostre passioni: lasciamo tutte le porte aperte: viene il demonio dell’orgoglio, lo lasciamo entrare, ferire, straziare l’anima nostra: viene quello dell’impurità, entra, insozza, corrompe la povera anima nostra. “Ah! povera anima, ci dice S. Agostino, come sei stimata cosa da poco. Un orgoglioso ti vende per un pensiero di orgoglio, un avaro per un po’ di terra, un ubbriacone per un bicchier di vino, un vendicativo per un pensiero di vendetta!„ E davvero, F. M., dove sono le nostre buone orazioni, le comunioni, le preghiere ben fatte, le Messe ben ascoltate, la rassegnazione alla volontà di Dio nelle afflizioni, la carità pei nemici? E possibile, F. M., che facciamo sì poco caso di un’anima tanto bella, che Dio ha amato più di se stesso, poiché è morto per salvarla? Ahimè, amiamo il mondo ed i piaceri del mondo: e quanto si riferisce alla gloria di Dio od alla salvezza dell’anima nostra ci annoia, ci disgusta: mormoriamo, quando bisogna occuparsene. Ahimè! qual rimorso avremo un giorno!… Il mondo sembra darci qualche piacere: ma non inganniamoci. Ascoltate che cosa ci dice S. Giovanni Crisostomo: vedrete come è più fortunato chi cerca conservare l’anima sua di chi cerca solo i piaceri e lascia da parte l’anima. “Mentre dormivo, racconta questo gran santo, ebbi un sogno straordinario, che, svegliatomi, mi presentò tanti soggetti di riflessioni davanti a Dio. Vidi un luogo delizioso, una valle incantevole, dove la natura aveva raccolto tutte le sue bellezze, tutte le ricchezze e tutti i piaceri capaci di rallegrare un mortale. Mi meravigliò, in mezzo a quella valle di delizie, un uomo dall’aspetto triste, dal viso alterato, dallo spirito preoccupato: il suo atteggiamento tradiva l’agitazione dell’animo: ora stava immobile, con lo sguardo fisso a terra; ora camminava a lunghi passi con aria smarrita: poi, arrestatosi improvvisamente, mandava profondi sospiri, e s’immergeva in tetra melanconia, come se fosse vicino alla disperazione. Osservando attentamente, scopersi che quella valle di delizie terminava ad un precipizio pauroso, ad una voragine immensa, dove una forza arcana sembrava trascinarlo. Quell’uomo era agitato, malgrado tante delizie, perché con tale vista non poteva gustare un sol momento di gioia e di pace. Ma spingendo più lontano i miei sguardi, vidi un altro luogo tutto differente, un vallone oscuro e triste, montagne scoscese, deserti sterili: solo la desolazione sembrava abitar quel luogo, e nessun fogliame, nessuna verzura; rovi e spine: tutto ispirava tristezza, e una specie di orrore. La mia sorpresa giunse al colmo quando scorsi in questa valle un uomo pallido, macilento, estenuato, eppure con un viso sereno, u n portamento tranquillo ed un’aria contenta: nonostante le apparenze desolanti, tutto annunciava un uomo che ha la pace dell’anima: ma spingendo i miei sguardi ancor più lontano, distinsi al termine di quella valle di miserie e di quel pauroso deserto, un luogo delizioso, un sito incantevole, dove scoprivasi ogni sorta di bellezze. L’uomo teneva fisso sempre l’occhio a quel termine, non lo perdeva mai di vista: camminava con coraggio, passando attraverso i rovi, dove spesso si pungeva: ma le sue ferite sembravano rinnovargli le forze. Meravigliato di ciò, domandai perché l’uno era così triste in quel luogo di piaceri, e l’altro così contento in un luogo di miserie. Allora sentii una voce che mi disse: Questi due uomini che vedi sono l’immagine di coloro che sono o interamente attaccati al mondo, o sinceramente consacrati al servizio di Dio. Il mondo, mi disse quella voce, presenta ai suoi seguaci prima i beni, i piaceri, almeno in apparenza; essi vi si abbandonano come insensati: ma bentosto riconoscono che non trovarono quanto credevano. La cosa più triste e desolante è che a capo di questa valle vi è una voragine, dove vanno a precipitare tutti coloro che camminano per questa via che sembra tanto dilettevole. L’altro uomo al contrario, mi disse la voce, dimostra l’opposto: nel servizio di Dio, prima vi sono prove e dolori, si abita in una valle di lagrime: bisogna mortificarsi, farsi violenza, privarsi delle dolcezze della vita, passare i giorni nelle angustie. Ma si resta animati dalla vista e dalla speranza d’un avvenire per sempre felice: è la sorte riservata all’uomo che trovava si nella valle triste: ed il pensiero della felicità che gli  spetta lo conforta e lo sostiene nelle sue lotte. Tutto diviene consolante per lui, l’anima sua gusta già i beni promessi, che l’attendono, e dei quali godrà presto. „ Si può trovare, F. M., un’immagine più naturale di questa, per farci comprendere la differenza tra chi nella sua vita cerca solo di piacere a Dio, salvare l’anima propria, e chi mette da parte Dio e l’anima per correre dietro ad alcuni piaceri, che, senza offrire nulla di consolante né di perfetto, ci conducono in un precipizio, cioè nella voragine infernale (Est via qua videtur humìni justa: novìssima autem ejus deducunt ad mortem. Risus dolore miscebitur, et extrema gaudii luctus occupat (Prov.XIV, 12, 13). Fortunato, carissimi, chi seguirà questa strada, dove vi sono pene, ma di breve durata, e che al suo termine conduce ad un luogo felice, al possesso di Dio! È la fortuna ….

LO SCUDO DELLA FEDE (166)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (II)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

II. — La Provvidenza.

D. Tu spesso adoperi l’uno per l’altro questi due vocaboli: Dio, e la Provvidenza; è forse perché, secondo te, il compito provvidenziale è essenziale a Dio?

R. Esso è talmente essenziale che, senza la Provvidenza, si domanda se sarebbe ancora utile parlare di Dio.

D. Qual è la sua nozione precisa? Tu senza dubbio chiami provvidenza il governo divino.

R. In digrosso, sì; ma passa una differenza. Il governo divino rappresenta piuttosto l’esecutivo, la provvidenza il legislativo, nel regime eterno. Dio è provvido, in ciò che i destini universali e particolari hanno da Lui il loro orientamento e la loro forma, e per conseguenza, il concetto di quest’ordine, di questi destini, è incluso nell’oggetto dell’Intelligenza prima.

D. Ciò suppone che Dio conosca tutto.

R. difatti conosce tutto, ma come la conoscenza di qualsiasi cosa potrebbe sfuggire a Dio, che è la causa di tutto l’essere, e che ha causato tutto per via d’intelletto?

D. Certamente Dio conosce tutto, ma in generale?

R. La cognizione di Dio all’opposto è eminentemente particolare e precisa; conosce tutto nei minimi particolari, fino all’intimo degli esseri e dei cuori. E come giudicare altrimenti senza fare di Dio un uomo ingrandito, un cervello astratto, invece della Causa suprema? Le generalità non sono che nozioni; Colui che conosce solo queste non conosce veramente quello che esse comprendono, e per questo il Dio dei deisti, così contegnoso e così sicuro di sé, non è che un fantoccio intellettuale. La scienza creatrice si deve estendere e si estende appunto sopra l’essere, sopra la realtà dell’essere in tutte le sue manifestazioni,

D. In questo caso, Dio non conoscerà punto l’avvenire, che non esiste.

R. Anche l’avvenire è compreso nell’essere; esso fa parte della creazione totale, che include il tempo come include lo spazio, o una qualsiasi qualificazione del creato.

D. Nondimeno l’avvenire non è presente, e come conoscere presentemente quello che non è presente?

R. Possiamo noi stessi ciò fare in un certo caso, ed è quando l’avvenire ci è presente nella sua causa. Io so che il sole sorgerà domani, perché la causa che lo ricondurrà sul nostro orizzonte è già in opera, perché la vedo operare, e prevedo facilmente a qual punto dell’opera sua sarà essa domani mattina. Ma non so ciò che deciderai domani, tu, essere libero, perché ciò non è determinato da una natura delle cose che io possa decifrare oggi, perché per giunta ciò non è determinato da te stesso. Domani farai quello che vorrai. Ma questa impossibilità in cui io mi trovo di conoscere l’avvenire non dipende che da una sola cosa, ed è che la mia cognizione è nel tempo, come gli oggetti ai quali essa si rivolge. La mia mente funziona oggi, tu opererai domani: non vi è coincidenza; l’incontro non ha luogo tra la mente e il fatto. Ma se la mia mente fosse fuori del tempo, se comprendesse il tempo, io vedrei che cosa faresti domani come vedo quello che fai oggi; non ci sarebbe alcuna differenza. Ora tal è il caso di Dio. Dio non è nel tempo; la sua cognizione non è successiva; al pari del suo essere, essa non si svolge punto, e perciò vede l’opera sua tutta quanta con un semplice sguardo, con uno sguardo eterno.

D. Tuttavia Iddio dura, e non si dice eterno se non perché dura sempre?

R. Niente affatto; se Dio è eterno, è perché non dura punto. Se dici che dura, aggiungi subito: Egli dura tutta la sua durata a un tempo. L’eternità non è una durata infinitamente lunga, è una durata senza lunghezza; non è una successione infinita d’istanti, ma un unico istante ricco di una vita senza termine, d’una vita senza vicissitudini, senza divenire.

D. Così il tempo non esiste per Dio, e se esiste per noi è indubbiamente in ragione di una illusione soggettiva?

R. Il tempo non è un’illusione, ma è una realtà creata, e che perciò non può imporre le sue condizioni al Creatore. Dio è affatto indipendente da esso. Dio vede l’opera sua davanti a sé con la sua durata, come la vede con gli altri suoi caratteri; la vede col suo passato, col suo presente e col suo avvenire, come si vede un oggetto con la sua lunghezza, con la sua larghezza e con la sua profondità. Presente, passato e futuro appariscono a Lui, se si può usare questa parola, a modo di presente, senza essere per questo qualificati presenti.

D. Parlando così, non si prende forse qualche cosa dalle teorie di Einstein, per il quale il tempo è come una quarta dimensione delle cose?

R. Propriamente parlando, no; ma è certo che un partigiano della relatività è ben preparato a comprendere quello che io spiego, poiché egli dice con Eddington: «Secondo il punto di vista della teoria della relatività, gli avvenimenti non si producono; ma sono al loro posto, e noi li ritroviamo seguendo la nostra linea di universo , oppure con Cunningham « La storia intera di un sistema di avvenimenti fisici si spiega sotto i nostri occhi come una entità priva di cambiamento ».

D. Ma il compito della Provvidenza non richiede solamente la cognizione, ma suppone anche che questa cognizione faccia legge, dunque c’è in Dio una volontà, e una volontà sovrana?

R. Infatti, Dio è volontà, e come la sua scienza comprende tutto, così la sua volontà si applica a tutto, ed è sempre ubbidita, poiché, come tu dici, è la legge delle cose. Se certe cose, come i nostri atti peccaminosi, sembra che si allontanino dalla volontà di Dio, è senza dubbio perché lo vogliamo noi; ma è anche perché Dio lo vuole in un certo modo, cioè lo permette. – La sua volontà che cede provvisoriamente, nel disegno temporale, riforma più avanti, per mezzo del pentimento efficace o del castigo, la sua trama infrangibile, e, nell’eternità, non ha cambiato nulla di ciò che, eternamente, Dio ha concepito.

D. Dio è dunque onnipotente. Ma questa onnipotenza rassomiglia assai all’arbitrario.

R. L’onnipotenza di Dio non è per nulla arbitraria; essa è fedele e giusta; è amante e misericordiosa. Dio dà a ciascuna creatura quello che le è dovuto, secondo la sua natura e il suo posto nell’insieme; Egli sovviene alle miserie degli esseri, dopo averli sollevati dal nulla, miseria suprema. E li ama; perché nessun altro motivo che l’amore lo può inclinare ad agire, a dare, a reggere, visto che Lui stesso non ha bisogno di niente e operando non acquista niente, a tal segno che S. Tommaso dice di Lui: « Egli solo è liberale; perché la stessa generosità, negli uomini, è destinata ad arricchire loro stessi della miglior ricchezza ». –  « È cosa più beata dare che ricevere, disse il Signore Gesù ». Ma Dio porta in se stesso la sua felicità.

D. Attrezzato in tal modo, se così posso dire, il tuo Dio ha di che essere provvido; ma l’esercizio del suo compito si presta a molte difficoltà. Perché, insomma, in questa concezione, tutti gli elementi si trovano fissati, preordinati nello stesso tempo che previsti, e non è più possibile che nessuno sfugga in quanto appunto ciascuno è sottomesso alla provvidenza, e Dio non può sfuggire a se stesso.

R. È veramente quello che noi pretendiamo.

D. Ma se tutto è fissato, anticipatamente (si può dire, poiché secondo te Dio non è nel tempo); se tutto è scritto; se il libro eterno porta i nostri destini e quelli della natura nei suoi fasti, e se, in questo libro, non è ammessa alcuna cancellatura, alcuna traccia di derogazione per minima che sia, che cosa diventano la libertà e il caso? a che servono le stesse necessità, come le chiamano, della natura, e come sì può spiegare il male?

R. Abbiamo qui infatti problemi difficili, e non saranno soverchie tutte le nostre riflessioni per recarvi un po’ di luce.

D. Parliamo anzitutto delle necessità naturali. Non sono esse un fatto? Non è forse necessario che vi sia alla tale data un’eclisse, alla tal altra un passaggio di cometa, alla tal altra un’eruzione vulcanica, una tempesta, un cataclisma o una riforma e, in conseguenza, miriadi di effetti? Ora, se queste cose son necessarie, non si ha bisogno di Dio per reggerle. La vera provvidenza a questo riguardo, sono le leggi del mondo.

R. Si direbbe un errore impossibile a sradicare il voler vedere un’opposizione tra l’idea di necessità e quella di provvidenza. Eppure, che illusione! Il necessario che non è Dio stesso non deve forse dar ragione della sua necessità? Le conclusioni geometriche sono tutte necessarie; tuttavia, si dimostrano; per dimostrarle si risale ad antecedenti, e da antecedenti in antecedenti, se si spingesse la cosa sino a fondo, si risalirebbe fino alla Verità eterna. Così le necessità naturali che noi avviciniamo risalgono ad altre, queste altre ad altre ancora, fino a una Necessità prima, quella cosciente e necessaria in se stessa, ma libera verso tutto il resto, ed è Iddio. Noi ritorniamo così alla prova di Dio. Riguardo a Dio e alla provvidenza di Dio, le necessità naturali non sono che esecutrici, Così dev’essere certamente, poiché esse sono cieche e fanno un’opera intelligente; poiché sono determinate, ciascuna, a qualche cosa di preciso e compiono un disegno. Alla loro azione nel reale, vi è obbligo di supporre un antecedente ideale, una preconcezione, una prima costituzione dei fatti e dell’ordine di evoluzione che essi vogliono. E inoltre, essendo l’azione di Dio universalmente creatrice, la sua provvidenza, a dispetto degli agenti di esecuzione che essa si dà, è in realtà sempre immediata; i risultati devono essere ad essa attribuiti anzitutto. Con ciò, le leggi conservano tutto il loro impero, il necessario rimane quello che è, necessario; ma esso è tale per via di Dio.

D. Sia pure. Ma vi è il caso, vi è la libertà, e vi è il male.

R. Procediamo con pazienza e con ordine. Prima il caso. Noi non abbiamo voglia di eliminare il caso. Vi sono dei Cristiani che vi si credono tenuti per allontanarsi dal paganesimo, e per onorare Dio; ma è un’illusione. Il caso è un fatto, come la necessità, sulla quale esso si basa. La pioggia cade necessariamente; l’erba germoglia necessariamente; il caso lì non ha impero; ma che una pioggia sovrabbondante faccia marcire l’erba, è un caso, perché nessuna forza naturale tendeva per se stessa a questo risultato. Come vedi, il caso e la necessità sono solidali, e nello stesso modo che la necessità non sostituisce Dio, così neppure il caso lo elimina. Tutti e due sono suoi figli: tutti e due sono suoi servi; con tutti e due Egli eseguisce la sua provvidenza.

D. Ciò pare contradittorio. Quello che è previsto e predeterminato non potrebbe essere fortuito?

R. E se è previsto come fortuito? Se è predeterminato ad essere fortuito?

D. Ciò; dico, è contradittorio.

E. T’inganni; ma riconosco che la tua illusione è affatto naturale. Noi ragioniamo da uomini, pur parlando di Dio. Conveniamo tuttavia che il suo caso non è punto simile al nostro, ed è unico, perché si tratta del Creatore. Essere creatore è porre tutto; tutto, dico, senza eccezione, per conseguenza con tutti i caratteri di questo tutto, necessità e contingenza comprese. Quasi nessuno scorge quest’ultima condizione; ma mettiti la testa fra le mani, e cerca di pensare al Primo Essere. Il Primo Essere è sopra all’essere universale, poiché Egli lo crea. Il Primo Essere non è un essere nel senso umano della parola, ma un Super-Essere. Esso, dunque, non è neppure una causa nel senso umano della parola, ma una Super-Causa, e ne segue che la sua azione non ricongiunge le azioni create, non si compone con esse, non le sostiene né le contradice nel loro ordine stesso; queste azioni create restano dunque quello che sono, contingenti, se sono contingenti, necessarie se sono necessarie. Eppure Dio le pone, senza di che esse non sarebbero né contingenti né necessarie, perché non sarebbero affatto.

D. Un esempio chiarirebbe la cosa.

R. Supponiamo che Dio crei tutto a un tratto, davanti a noi, una fabbrica di tessitura in cui vi fosse un tessitore seduto davanti al suo-telaio e facesse della tela. È Dio che ha creato quell’insieme: egli dunque risponde di tutto, fino ai minimi particolari. Ecco dunque i muri, ecco l’uomo, ecco il telaio, ecco la tela che si fa, la tela che è fatta: tutto è di Dio, tutto si deve finalmente riferire a Dio. Ma ciò impedisce forse che quest’uomo lavori con tutta tranquillità, subisca certe necessità del suo lavoro, e anche certi casi, ai quali dovrà mettere ordine, se può? Tutto ciò cammina come se non vi fosse Dio. Forse l’uomo non sa che egli viene da Dio (è il caso degli atei). Forse non ci pensa punto (è ben sovente il caso nostro). Ma se non vi fosse Dio non vi sarebbe niente. È Lui che pone tutto. Ma ponendo tutto, non intralcia niente, perché la sua azione non viene ad inserirsi nella trama dei fatti e a farvi una parte dello stesso ordine di quello della necessità o del caso. Il suo compito è diverso,

D. In che consiste esso?

R. Esso è Creatore, vale a dire costituisce tutte le differenze che noi osserviamo tra le cose che chiamiamo necessarie o fortuite. Egli le costituisce, dunque non le distrugge; e che Egli crei del caso nell’interno dell’opera sua, ciò parimenti non impedisce al caso di essere caso più di quello che creare del necessario gl’impedisca di esser necessario.

D. Applicheresti questa dottrina alla libertà?

R. Sì, assolutamente. La mia fabbrica di tuttora, che Dio ha creata con tutti i pezzi insieme col suo tessitore e col suo telaio, contiene una libertà all’opera. Il tessitore lavora liberamente, così liberamente come se non vi fosse Dio, dicevo. Tuttavia Dio lo crea in tutti i suoi istanti, in tutti gli stadi del suo pensiero, in tutte le tappe della sua volontà, in tutti i momenti de’ suoi atti e in tutti i loro effetti, poiché la creazione è una cosa fuori del tempo, e avvolge il tempo tutto quanto, lo pone tutto quanto, con tutto ciò che esso racchiude. Perché questo toglierebbe qualcosa alla libertà? Ciò, all’opposto, costituisce la libertà, fornendole, in grazia di Dio Creatore, la sua ragione totale.

D. Comprendo male questa totalità.

R. L’uomo esiste appunto perché Dio lo crea, è uomo appunto perché Dio lo fa uomo; l’uomo è libero appunto perché Dio lo fa libero; usa della sua libertà appunto perché Dio lo crea facente uso della sua libertà; usa della sua libertà in tal senso, appunto perché Dio lo crea, attualmente, facente uso della sua libertà in tal senso.

D. Ma allora egli non è libero!

R. È libero come egli è, poiché per lui, in questo momento, essere è essere libero.

D. E Dio è causa anche di questo?

R. Dio è causa di tutto ciò che è. Senza Dio e senza l’azione di Dio, senza la sua azione totale; poiché tutto l’essere gli appartiene, niente di tutto ciò che noi qui notiamo sarebbe scritto, né la libertà, né il resto. Per lui tutto questo è, e tutto questo è ciò che è, la libertà come il resto. La libertà è dunque libera, anche sotto l’azione di Dio, la quale, del resto, non è veramente un’azione nel senso umano della parola, ma una super-azione, nello stesso modo che Dio è una Super-Causa, essendo un Super-Essere.

D. Il fatto del caso sì trova tutto qui?

R. L’errore testé rilevato a proposito del caso prende qui questa forma speciale di confondere le condizioni del funzionamento psicologico con la condizione trascendente che l’azione creatrice importa. Psicologicamente, l’uomo è libero tanto quanto se Dio non esistesse o non agisse, bisogna dirlo incessantemente. L’azione di Dio non è un elemento dell’azione umana, o che si aggiunga a questa azione, o che si componga con essa. Dio non interviene, nel senso in cui intervenire significherebbe che l’influsso di Dio venga a inserirsi nel nostro, e perciò a modificarlo o ad abolirlo. Dio crea, e la creazione non pone nel creato altro che una relazione di dipendenza. Questa dipendenza è totale; ma lascia quello che dipende tal quale esso è, libero se è libero, e quindi non incatenato. Insomma, non si tratta che di questo: il creato è creato; non è l’increato; l’essere derivato non è l’Essere primo; il mondo o l’uomo non sono Dio.

D. Io ti aspetto davanti al male.

R. Ne parlerò umilmente. Qui il mistero ci avvolge più che mai, ed è anche più che mai angosciante, poiché è un mistero morale, un mistero che mette in causa i nostri destini, e, quello che è anche più grave, e grave anche per noi, la santità di Dio.

D. Il primo male che io oppongo alla provvidenza è l’invisibilità della sua azione. Qui non sì ha da dire, tutto avviene come se non vi fosse Dio.

R. Un Cristiano non può non reputare offensive tali parole. Egli ti dirà con Joad: « Avrai dunque sempre occhi per non vedere, popolo ingrato!… ». Tutta la serie dei fatti evangelici, dei fatti biblici, tanti altri fatti che non si possono mettere in dubbio provano sovrabbondantemente le gesta di Dio. Ma questi sono avvenimenti straordinari. Vi ritorneremo sopra. Io dico che nella stessa vita quotidiana, un Cristiano non ti ammetterebbe che la provvidenza sia invisibile. La provvidenza è una sapienza, e le vie della sapienza sono spesso oscure; «le opere del Signore sono stupende, dice la Bibbia, e la sua azione tra gli uomini è nascosta ». Dio si mostra in tutte le cose come uno che agisce veramente in tutte le cose, e non vuole essere veduto; si può sempre contestare: è la parte dell’infedele; ma spesso le cose sono tali che non lo si deve fare: è la parte del fedele credente.

D. In realtà, non giudichi così in forza di confidenza?

R. Sì, per motivi di confidenza, e questa confidenza è giustificata in tante maniere che noi non pensiamo a difendercene; ma anche per esperienza, quando l’esperienza è attenta e seguita. Quanti tesori di certezza s’incontrano in questa via, quando ci si avanza con occhio e cuore aperto! Ogni uomo ha trovato Dio sul suo cammino, per poco che egli abbia posto mente a certi incidenti e coincidenze di avvenimenti, a certe affinità prestabilite d’un fatto, d’un concorso di fatti col proprio destino individuale, in cui vengono a inserirsi come dei pezzi di un meccanismo, o come una replica impressionante nel corso d’un dialogo in apparenza indipendente. L’azione della provvidenza è generalmente di questa forma, e appunto per questo la certezza sperimentale che ne hanno i credenti è incomunicabile agli altri. Ma nemmeno a Dio preme di convincere coloro a cui non preme di essere convinti.

D. Lasciamo questo; è il piccolo lato delle cose. Io perdono volentieri a una provvidenza invisibile; ma non potrei perdonare a una provvidenza causa del male, onde preferisco dire con Sthendhal, in faccia all’universo e alla vita tali quali mi appariscono: « La sola scusa di Dio è che Egli non esiste ».

R. Tu bestemmi con soverchia prontezza, e per giunta ti esprimi scorrettamente. Dio non è affatto causa del male, per l’eccellente ragione che il male, propriamente parlando, non ha causa. Il male non è cosa positiva, è una mancanza, e a questo riguardo, si può approvare la divertente espressione di Nietzsche: « Il diavolo non è che l’oziosità di Dio ».

D. Intanto il male si vede.

R. Si vede come l’ombra delle figure sullo schermo del cinematografo. L’ombra disegna tanto, quanto la luce; tuttavia non è niente; è l’assenza della luce. Così il male qualifica gli esseri e specialmente le anime, ma non è niente in se stesso; è l’assenza del bene.

D. Tuttavia il dolore

R. È un funzionamento imperfetto che l’anima nostra percepisce.

D. Il peccato

R. È una attività felice sopra un punto, quello che tenta il peccatore, ma che la ragione abbandona. Un vizio non è che una virtù mal collocata.

D. Sottoscrivi tu realmente quest’ultima formula?

R. S. Tommaso d’Aquino, poco amico del paradosso, sottoscrive questo: «Il male è un certo bene, come il falso è un certo vero ». Tu intendi che si tratta del male in quanto all’essere. Il male non ha altro essere che l’essere stesso del bene; esso non è affatto in se stesso.

D. Ammettiamo che il male non è affatto; nondimeno vi è il male.

R. Vi è il male e io non nego il problema che il male presenta.

D. Vi è di che invalidare tutte le tue prove di Dio; perché il Sommo bene e il male sono incompatibili.

R. Negare Dio a cagione del male è un espediente molto strano; perché l’argomento del negatore si rivolge contro di lui. Che cosa si rimprovera alla vita e alla natura? Dei difetti. Ma i difetti che si rilevano così nell’opera della Provvidenza suppongono la Provvidenza. Non si rileverebbero dei difetti in ciò che non presentasse nessun ordine, e se vi è un ordine, bisogna necessariamente che vi sia un Ordinatore. Si rimprovera forse a un mucchio di sabbia il disordine de’ suoi elementi? Si rimprovera il disordine a un cronometro, a una macchina utensile, a un organismo vivente, quando si guastano. Ora nello stesso modo si rimproverano alla natura i suoi scarti e i suoi mostri, alla vita le sue sventure e le sue colpe. Ciò avviene dunque perché la natura e la vita seguono un ordine, hanno una finalità, ubbidiscono a un pensiero. È dunque perché  sono rette da una Provvidenza.

D. Una Provvidenza in fallo?

R. Se la Provvidenza è in fallo, essa esiste, e se esiste, non è in fallo, siano noi che non sappiamo vedere abbastanza lontano.

D. Non senti la potenza di convincimento di questa sentenza: Vi è il male, dunque Dio non è?

R. Io le oppongo quest’altra: Vi è il bene, dunque Dio è.

D. Allora questo si equilibra, e non si sa di più.

R. Scusami, Il peso della seconda proposizione supera infinitamente quello della prima; perché anzitutto il bene domina, senza di che il mondo perirebbe, come un organismo affetto da malattia mortale. In secondo luogo, è certo che il bene, qualunque sia la sua dose, non si spiega senza Dio, e non è certo che il male non si spieghi con Dio. Agostino sfugge dicendo: «Dio non permetterebbe il male, se Egli non fosse così potente e così buono da farne uscire il bene ».

D. È una scappatoia, lo dici tu stesso.

R. È un atto di fede, e l’atto di fede è qui un obbligo logico, tanto quanto il fatto di un cuore consenziente. L’ordine generale del mondo ci sfugge: dunque ci manca ogni base logica per decidere direttamente se si tratti di un mostro piuttosto che di un sublime tenebroso. Ma la necessità di Dio non ci sfugge punto. Se Dio è, Egli è perfetto. Se è perfetto, l’opera sua, nel totale, è buona, ed ecco espulso il mostro. In altre parole, il male non c’invita a negare Dio se non quando noi lo giudichiamo senza Dio. Se vi è un Dio onnipotente e buono, il male cambia faccia; può bensì includere ancora un mistero, ma non più uno scandalo; questo disaccordo è sicurissimo di ritrovare il suo ordine, questa dissonanza la sua soluzione. Ora vi è bene ed ordine sufficiente per provare Dio, per poco che il male abbia soluzione possibile, e chi oserebbe dire che esso non ne abbia affatto?

D. Io, forse.

E. Che presunzione! Un giudizio sulla Provvidenza non appartiene che all’eternità. È proprio l’eternità che decide della contesa delle cose. Si possono fare due pitture del mondo: l’una magnifica e l’altra spaventosa. La sapienza non sta forse nel dire: Quello che io vedo di bene m’insegna a fidarmi del Creatore per il male che non comprendo? Sia per me il mio segreto! dice il Signore in Isaia; sia per me il mio segreto! e chi, per punirlo di questo segreto, vorrà accusarlo di falso contro quella espressione della sua gioia creatrice: « Dio vide tutte le cose che aveva fatto, ed erano grandemente buone »? In fondo, il mistero morale che aleggia sopra il mondo può condurci a Dio così come il mistero fisico. È « la presenza di un Dio che si nasconde », ci direbbe Pascal, e questa evidenza del male nel cuore di un’armonia meravigliosa, non è forse l’indizio d’un calcolo profondo, d’un volere superiore ai nostri motivi riguardanti ciò che è parziale e immediato, di una potenza così alta che ha il potere di trasformare il male e di fare di tutti i nostri lamenti un cantico?

D. Tu ragioni in generale; ma veniamo ai fatti. Vedi la natura: quante deviazioni, quanti indietreggiamenti, quante stragi, quante vite sacrificate, quanti germi che non maturano!

R. Che cosa obietteresti a chi ti rispondesse: Lo scopo di Dio qui è la germinazione stessa, questa prodigalità di vita, segno della sua infinita ricchezza e della sua onnipotenza?

D. Tu vedi un segno di Dio in questo universo sconvolto?

R. Il segno di Dio non sono gli sconvolgimenti, ma quella potente aspirazione verso l’essere, quell’eroismo costruttivo che non si arresta mai. La natura sale all’essere; ricomincia senza posa il suo sforzo; rinnova senza posa il suo slancio; quando la dicono crudele, è perché non si sa vedere a qual punto è innocente. Essa è la stessa innocenza. Si slancia verso la vita, ecco tutto. Gli esseri che essa anima non hanno parzialità; lavorano per la vita contro se stessi così come contro gli altri; basta solo vedere le api, le formiche, le termiti, i castori…, e sovente, gli uomini. Ciò che vuole essere prende la sua materia dove la trova, e a questo effetto distrugge (per costruire); fa soffrire (per crescere ed espandersi); fa morire (per vivere). Ma, in tutto questo, di voluto non vi è che la vita, l’essere, e l’immensa aspirazione a essere. Ecco l’immagine di Dio. « Il male, dice Paolo Claudel, è nel mondo come uno schiavo che fa salire l’acqua ». Il male, che in se stesso è una caduta, è non di meno, per la vita dell’universo, un mirabile stimolante; esso la fa rimbalzare sotto lo sforzo del bene. « Ogni cosa, serive Enrico Bergson, nel movimento che la sua forma registra, manifesta la generosità infinita d’un principio che si dà ». Questo giudizio è più serio che la sortita di Stendhal.

D. Tu dimentichi la sofferenza di tante creature innocenti, che le riuscite della natura non consoleranno punto.

R. Intendi di parlare degli animali?

D. Di essi prima.

R. Io confesso di non avere qui soluzione che mi soddisfaccia. Ma tu confessa che ciò non ci riguarda affatto. La psicologia animale ci sfugge; il destino animale non ci è rivelato. Sarebbe un grave errore credere che la bestia soffra come noi, specialmente che essa reagisca come noi alla sofferenza; si può pensare che ad onta di passeggeri dolori, le bestie sono felici. Tuttavia soffrono. Con quale occhio Dio le vede? Quale sistema di compensazioni ha Egli concepito per il passero che cade dal tetto in ragione delle leggi che Egli pone? Tali compensazioni sono richieste dalla sorte reale dei viventi inferiori e si trovano nella loro stessa costituzione, nelle reazioni di cui essi sono il soggetto? Ecco quello che non sappiamo.

D. Ma che sarà, se, dalla creazione inferiore, noi passiamo all’umanità!

R. Tutto all’opposto! La Provvidenza qui è facile a difendere, e dolce a vendicare.

D. Faresti tu un quadro idillico della vita?

R. Niente affatto; io constato all’opposto che il dolore e il peccato vi tengono un posto centrale; ma un centro si sposta fra estremi, qui tra un cominciamento e una fine. Il cominciamento è felice, ed è la nascita; se anche la fine è felice, tutto sarà bene, e noi potremo pronunziare l’Amen dell’Apocalisse, a lode del Padre supremo.

D. Chi ti dice che la fine sarà felice?

R. Ciò dipende da noi; mi riservo di fartelo vedere.

D. Ad ogni modo vi è il cammino.

R. Bisogna confessare che la Provvidenza è una terribile benefattrice; essa non è sentimentale; non è romantica; nondimeno è una benefattrice. Ameremmo noi che essa fosse vinta, e noi con lei, da troppa sensibilità? Essa pensa all’opera sua; pensa a noi stessi, e procede con tutta l’energia che ci vuole, simile in ciò a tanti uomini che non raccolgono che le nostre lodi. Quante verghe nelle mani dei genitori! quanti pensi inflitti dal maestro di scuola! quanti veleni nelle vetrine del farmacista! Quante pinze e coltelli nella sala del chirurgo! Quanti strumenti di tortura nel laboratorio dell’ortopedico?

D. Che cosa significano questi esempi?

R. Per comprendere il chirurgo, il farmacista o l’ortopedico, bisogna sapere il pregio della salute; per accettare il penso e le verghe, bisogna pensare all’educazione; per dire di sì alla Provvidenza, ai suoi rigori e al suo mistero, bisogna ricordare la vita eterna, e in essa, sotto forme che ci sfuggono, ricordare il rovescio di tutti i nostri valori di vita.

D. E se non si crede alla vita eterna?

R. Allora, oso dire che si ha il diritto di non credere neppure nella Provvidenza; queste due verità sono legate insieme; ma la seconda, essendo certissima, deve servire a confermarci la prima, avanti che il dubbio sulla prima venga a indebolire o a invalidare la seconda. « Le prove che concludono sono qualche cosa di positivo, dice Pascal; e le difficoltà sono semplici negazioni, che provengono dal non vedere tutto ».

D. Come non dubitare davanti alla sventura?

R. Noi dimentichiamo che un male non è mai se non la cessazione di un bene. Per il male, noi accusiamo Dio; per il bene, noi ci contentiamo del silenzio, o di nuove esigenze, o dell’abuso. Crederemmo facilmente alla Provvidenza, se gli avvenimenti favorissero sempre i nostri desideri.

D. Si può ritorcere l’argomento, e dire: Se tu credi così facilmente alla Provvidenza, è certamente perché gli avvenimenti non contradicono troppo è tuoi desideri.

R. Chi sa! Ma supponiamo questo. Allora dirò che questa situazione pacifica è forse la miglior condizione per giudicare il caso. Si ricusa un giudice troppo interessato; si teme che si appassioni e non sia più equo. Parliamo chiaro: per essere contenti della Provvidenza o solo per crederci, vorremmo che essa fosse per noi come un distributore automatico, in cui non ci fosse da mettere moneta.

D. Io chiederei solo quello che tu chiami una situazione pacifica.

R. Non è forse questo, a dispetto dei nostri lamenti, il caso nostro più frequente? Il caso stesso si estenderebbe molto lontano, se sapessimo contribuirvi con un po’ di pazienza. Gusta il nobile linguaggio del grande Arnauld, che dice a Dio: « I mali di questo mondo spaventano quando si guardano da lontano, ci si adatta quando ci si trova, e la tua grazia rende tutto sopportabile ».

D. « Sopportabile », è dunque abbastanza per Dio?

R. È abbastanza per questo tempo. Se questo mondo fosse sufficiente, non vi sarebbe ragione perché ve ne fosse un altro. Se la nostra destinazione ha delle tappe, non bisogna domandare alla prima di rappresentare tutto il nostro bene perfetto. Del resto cessiamo di accusare Dio; la sua incarnazione dolorosa ci proverà che le sue ragioni di permettere il male sono senza dubbio potenti, e che l’indifferenza non c’entra per nulla, poiché, non credendo di potere eliminare il patire, Egli lo condivide; non credendo di dovere scacciare il male morale, ne fa la sorgente dei più alti valori, ne’ suoi figli coraggiosi. Dio non paventa la sua pena più che la nostra, se così posso dire, né la nostra più che la sua; Egli mira allo scopo; i mezzi più atti fissano la sua scelta; le condizioni del compito lo trovano fermo, e quando, ciecamente, la sua materia vivente gli resiste, Egli taglia senza paura, in mezzo alle grida.

D. Tu supponi sempre che il dolore giovi.

R. Esso non è fatto se non per questo, e dipende da noi, con Dio, che esso faccia la parte sua, come in un apparecchio fumivoro il fumo si cambia in fuoco. Dio vuole che il dolore provochi in noi un’aspirazione, non una depressione; un progresso, e non una caduta. Egli ci ha messi in questo mondo per provarci, formarci, e ci si prova e ci si forma certamente mediante la gioia, che però esige una felice padronanza di se stesso; ma la prova nel senso triste della parola è inoltre spesso necessaria. Prova, misura delle forze, controllo del buon volere, esperienza di ciò che noi vagliamo con la mira di farci valere di più: non è forse questo lo stato normale di un essere che fa il suo tirocinio, come sempre stiamo facendo quaggiù? Quanto più studio le persone felici, scrive il Lacordaire, tanto più sono spaventato della loro incapacità divina. Noi siamo fatti per il divino, per la salita dalla materia verso lo Spirito, e lo spirito è una fiamma che il sacrifizio della sua cera esalta, e le resistenze della sua cera possono spegnere. Se Dio è spirito e ci ha fatti per lo spirito, che meraviglia se anche la bontà di Dio sia dell’ordine dello spirito, e che Dio bruci tutto il resto, quando è necessario per il bene dello spirito?

D. Ci si tratta come dei colpevoli.

È. Non abbiamo noi niente da espiare? « Con quale facilità perdoniamo a noi le nostre colpe, dice Bossuet, quando la fortuna ce le perdona! ». Se la fortuna, questa ancella di Dio, ci usa qualche rigore, non sarà un benefizio? Bisogna espiare per sé; bisogna espiare anche per gli altri; Cristo ha espiato per tutti, e tutte le croci del mondo, Calvario infinito, si stringono attorno alla sua; infatti, come ci dichiara S. Paolo, alla Passione di Cristo manca qualcosa, finché per solidarietà fraterna, in Lui, gli uni per gli altri, noi non compiamo il laborioso e sublime riscatto.

D. Bisogna espiare, dici tu; ma ciò è affatto negativo, e la vita è accrescimento. Non bisogna forse essere in possesso di tutte le proprie forze, per meritare?

R. Si merita con ogni azione retta; ma il dolore accettato per amore è la più alta occasione di merito e di lavoro che questa vita ci possa presentare. È il lavoro del Calvario. Il pagano, quando soffre, crede volentieri che il suo Dio l’abbandoni; il Cristiano invece, ricordandosi del Calvario, pensa che il suo Dio è più vicino a lui, che il suo Dio lo trascina: per la mano, per la nuca, per i capelli, che importa? Egli riconosce il suo divin Maestro dalla sua spietata dolcezza. Egli consente perché crede; non prova più violenza, perché ama. Sopra la croce, come Gesù, con Gesù stesso, egli si sente sulla via del cielo.

D. Questi sentimenti sono frequenti tra voi?

R. Sono troppo rari; ma quel che è ben certo si è che sono il pacificamento e la semplificazione di tutta la vita.

D. Il tutto è di vedere.

R. In questo dominio quello che si vede abbaglia; quello che illumina è appunto quello che non si vede.

D. Tremo nondimeno per la responsabilità del tuo Dio.

R. Quando avremo soppresso da questo mondo la dose di male di cui siamo noi stessi responsabili, saremo in una migliore condizione per domandare dei conti a Dio. Ma non ci penseremo più.

D. Io ritorno alla filosofia generale del caso, e vorrei, riguardo al male, tutto l’insieme delle tue vedute.

R. Ecco, liberamente interpretata, la tesi di S. Tommaso. Il male non è qualche cosa che Dio abbia fatto, e che avrebbe dunque potuto dispensarsi dal fare. Il male è una deficienza; è un’imperfezione di ciò che è. Un uomo dovrebbe camminare diritto; ma la sua gamba è corta: egli zoppica. Dovrebbe operare bene; ma una passione lo trascina: egli devia. Che cosa ci vorrebbe per evitare questo doppio male, per evitarlo immancabilmente? Bisognerebbe che l’uomo fosse perfetto, fisicamente e moralmente. E bisognerebbe per giunta che non potesse essere sloggiato da questa perfezione né per assalti esterni, né per se stesso. Si domanda così, senza saperlo, un universo molto strano, assai diverso da quello che noi vediamo. A costituirlo nella nostra mente, urteremmo costantemente in impossibilità, e alla fine dei fini, se spingessimo sino a fondo la prova, ci troveremmo di fronte a un’impossibilità suprema, che è questa: Un universo perfetto è impossibile.

D. Perché ciò?

R. L’universo si stabilisce discendendo, a partire da Dio, la scala che noi risaliamo per andare incontro al primo Principio. L’universo si stabilisce per derivazione, per digradazione a partire dal Sommo Bene, in virtù di partecipazioni graduali, ciascuna delle quali esprime Dio a suo modo, ciascuna delle quali è dunque buona, ma necessariamente deficiente; il perfetto non si realizza due volte. Che se ciascuna cosa è imperfetta, l’universo è necessariamente imperfetto. Dunque esso è, in una misura qualunque, il soggetto del male. Potremmo soltanto domandarci che cosa è che ha determinato la misura, e se questa misura era tale che il Creatore la volesse alla bella prima. Noi vedremo questo. Ad ogni modo, ne segue che il mondo sia cattivo? No. Dalla diversità delle nature e dalla loro imperfezione nascono degli urti che si possono chiamare mali in se stessi, ma che sono nondimeno il prezzo di un bene. Questo bene è l’ordine; è la varietà dei beni singolari, sono le gradazioni, gli scambi; è la vita della natura, ed è la vita umana co’ suoi mali senza numero, con le sue onte, co’ suoi difetti, ma anché co’ suoi splendori. Sarebbe meglio che tutto questo non fosse punto? Affinché la pecora non fosse mangiata dal leone, sarebbe meglio che non vi fossero né pecore né leoni, o unicamerite delle pecore, o unicamente dei leoni? Ma il bene che rappresenta il leone e il bene che rappresenta la pecora, sono due beni preziosi, e che non sono commutabili. Ciascuno è unico, insostituibile dall’altro e da nessun altro. Di modo che sopprimere il male, qui, sarebbe impoverire l’essere, impoverire l’universo. E così avviene di tutto il resto. Vi sono dei ladri; vi sono dei dissoluti; vi sono dei manigoldi. Ma se non vi fossero dei manigoldi, non vi sarebbero parimenti dei generosi martiri. Se non vi fossero dei dissoluti e dei ladri, non vi sarebbe, nell’insieme né libertà del male, né difficoltà del bene, e allora non vi sarebbe parimenti occasione di vittoria, né possibilità di conquista nell’ordine morale. L’indolenza può stimare che ciò sarebbe meglio; ma gli eserciti non si organizzano per i codardi né le scuole per i gamberi, né i salotti per gli sciocchi. La natura è una lotta, anche la vita; ma alla fine Dio premia il trionfo, e, tra le creature ragionevoli, vi sarà associato colui che l’avrà seriamente voluto.

D. Strana alternativa! Sî crederebbe di vedere Dio e satana

che lottano a parità di forza.

R. Il bene ha più forza in bene che il male in male. Il primo ha più valore di quel che conta il secondo. Non vi è forse maggiore utilità, dice S. Tommaso, a far sì che la casa sia salda e salga in alto, di quel che si abbia noia a scavare nella terra le sue fondamenta? Molte cose sono sepolte nell’opera di Dio; ma quest’opera sale. Il male è male; ma che possa esservi del male è un bene. Tutto dipende dal risultato, e chi può dire che esso sia cattivo, che sia insufficiente? Chi oserebbe dire: Signore, non valeva la pena! Il vostro universo ha cagionato troppe rovine; la vostra umanità ha conosciuto troppi orrori; noi non vogliamo sottoscrivere per voi un’opera simile; come l’empio del Salmo, noi preferiamo dire nel nostro cuore: Non vi è Dio!… È meglio, non è vero? confessare, come Giobbe dopo la riprensione dell’Eterno: Ho parlato senza intelligenza delle meraviglie che sono a me superiori e che ignoro; perciò condanno me stesso e’ mi pento, nella polvere e nella cenere.

LA SUMMA PER TUTTI (3)

LA SUMMA PER TUTTI (3)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA Di S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE PRIMA

CAPO IV.

Persone.

74. Che cosa intendete quando dite che Dio è uno Spirito in tre Persone?

Intendo che: sono Tre ad essere il medesimo Spirito che è Dio, con tutti gli attributi della Divinità (XXX, 2).

75. Quali sono i nomi di queste tre Persone che sono il medesimo Dio con tutti gli attributi della Divinità?

Si chiamano Padre, Figliuolo e Spirito Santo.

76. Che cosa è il Padre in Dio?

È Colui che senza avere avuto principio genera il Figlio, e dal quale procede lo Spirito Santo.

77. Che cosa è il Figliuolo in Dio?

Il Figliuolo è Colui che è generato dal Padre e dal quale, nello stesso tempo che dal Padre, procede lo Spirito Santo.

78. Che cosa è lo Spirito Santo in Dio?

È Colui che procede dal Padre e dal Figliuolo.

79. Queste tre Persone in Dio sono distinte da Dio stesso?

Queste tre Persone in Dio non sono distinte da Dio stesso.

80. Sono esse distinte tra loro?

Esse sono distinte tra loro.

81. Che cosa intendete col dire che le tre Persone in Dio sono distinte tra loro?

Intendo che il Padre non è il Figliuolo né lo Spirito Santo; che il Figliuolo non è né il Padre né lo Spirito Santo, e che lo Spirito Santo non è né il Padre né il Figliuolo.

82. Queste tre Persone possono essere separate l’una dall’altra?

Queste tre Persone non possono essere separate l’una dall’altra.

83. Sono esse insieme da tutta la eternità?

Esse sono insieme da tutta la eternità.

84. Il Padre, nella sua relazione col Figlio, ha in Sé tutto ciò che abbiamo veduto essere in Dio?

Sì; il Padre nella sua relazione col Figlio ha in Sé tutto ciò che abbiamo veduto essere in Dio.

85. Il Figlio, nella sua relazione col Padre, ha in Sé tutto ciò che abbiamo veduto essere in Dio?

Sì; il Figlio nella sua relazione col Padre ha in Sé tutto ciò che abbiamo veduto essere in Dio.

86. Il Padre ed il Figlio, nella loro relazione con lo Spirito Santo, hanno in Sé tutto ciò che abbiamo- veduto essere in Dio?

Sì; il Padre ed il Figlio nella loro relazione con lo Spirito Santo hanno in Sé tutto ciò che abbiamo veduto essere in Dio.

87. Lo Spirito Santo, nella sua relazione col Padre e col Figlio, ha in Sé tutto ciò che abbiamo veduto essere in Dio?

Sì; lo Spirito Santo nella sua relazione col Padre e col Figlio, ha in Sé tutto ciò che abbiamo veduto essere in Dio.

88. Sono tre Dei questi che hanno relazione tra loro da tutta la eternità?

Non sono tre Dei, ma tre Persone che si identificano ciascuna nel medesimo Dio, e che restano frattanto pienamente distinte fra loro.

89. Queste tre Persone in Dio formano tra loro una vera società?

Sì; queste tre Persone in Dio formano tra loro una vera società, che è la più perfetta di tutte le società (XXXI, ad 1).

90. Perché dite che la società delle tre Persone di Dio è la più perfetta di tutte le società?

Perchè sono Tre, ciascuno dei quali è il medesimo Infinito in perfezione, in durata, in iscienza, in amore, in potenza, in felicità; e godono di Loro stessi nel seno della Divinità.

91. Come sappiamo che in Dio vi sono tre Persone?

Noi sappiamo che in Dio vi sono tre Persone per mezzo della fede.

92. La ragione senza la fede potrebbe sapere che in Dio vi sono tre Persone?

No; la ragione senza la fede non potrebbe sapere che in Dio vi sono tre Persone (XXXII, 1).

93. E quando per mezzo della fede sappiamo che in Dio vi sono tre Persone, la ragione può comprenderlo?

No; neppure quando sappiamo per mezzo della fede che in Dio vi sono tre Persone, la ragione lo può comprendere (XXXII, 1 ad 2).

94. Come si chiamano queste verità che conosciamo per mezzo della fede, senza che la ragione possa comprenderle?

Si chiamano misteri.

95. La esistenza delle tre Persone in Dio è dunque un mistero?

Sì; ed è il più profondo di tutti i misteri.

96. Come si chiama questo mistero delle tre Persone in Dio? i sione (XXV!

Si chiama il mistero della Santissima Trinità (XXXI, 1).

97. Potremo un giorno conoscere in se stesso il mistero della Santissima Trinità?

Sì; potremo un giorno conoscere in se stesso il mistero della Santissima Trinità, e

tale conoscenza formerà la nostra eterna felicità in cielo.

98. Non possiamo su questa terra intravedere qualche cosa delle armonie del mistero della Santissima Trinità, considerando la natura delle operazioni che sono proprie degli spiriti?

Sì; perché queste operazioni implicano nel soggetto che: agisce un doppio rapporto di principio e di termine della operazione, sia nell’atto di pensare che in quello di amare; donde risulta che in Dio, secondo che la fede ci insegna, nell’atto di pensare, il Padre ha ragione del Principio che dice, ed il Verbo ha ragione del termine che è detto; e nell’atto di amare, il Padre ed il Figlio hanno ragione del Principio comune rispetto allo Spirito Santo che ha ragione di termine.

99. Che cosa è dunque che forma in Dio il mistero della Santissima Trinità?

È la infinita ricchezza e la fecondità della sua natura, per la quale hanno luogo in essa delle misteriose processioni d’origine (XXVII, 1).

100. Come si chiamano queste processioni di origine in Dio?

Si chiamano la generazione e la processione (XXVII, 2-8).

101. Che cosa si deduce da questa generazione e da questa processione in Dio?

Si deduce che fra ciascuno dei due termini della generazione e della processione esistono delle reali relazioni, costituite da questi diversi termini (XXVII, 1).

102. Quali sono queste relazioni in Dio?

Sono quattro: la paternità e la filiazione, la spirazione attiva e la processione o spirazione passiva (XXVIII, 4).

103. Queste relazioni in Dio sono la stessa cosa che le Persone divine?

Sì; queste relazioni in Dio sono la stessa cosa che le Persone divine (XL, 1).

104. Perché dunque vi sono quattro relazioni e non vi sono che tre Persone in Dio?

Perchè ‘una delle relazioni, la spirazione attiva, non opponendosi con opposizione relativa alla paternità ed alla filiazione, ma convenendo invece all’una ed all’altra, ne segue che le due stesse Persone costituite l’una dalla paternità e l’altra dalla filiazione, possono e debbono essere il soggetto della spirazione attiva, che perciò non costituisce una Persona, ma conviene insieme alla Persona del Padre ed alla Persona del Figlio (XXX, 2).

105. Vi è un certo ordine in Dio fra le Persone divine?

Vi è l’ordine di origine, che permette al Figlio di procedere dal Padre ed allo Spirito Santo di procedere dal Padre e dal Figlio (XLI, XLII).

106. Quando le Persone divine agiscono con azione diversa dagli atti nozionali che sono l’atto di dire o di generare e l’atto di spirare, agiscono con una sola e medesima azione comune a tutte e tre?

Sì; e così l’atto di pensare e quello di amare convengono a tutte e tre le Persone; e similmente tutte le azioni che scendono a qualche effetto fuori di Dio (XXXIX, XLI).

107. Vi sono però certi atti e certi princìpi di azione che si attribuiscono più specialmente a questa od a quella Persona?

Sì; e queste specie di attribuzioni avvengono in ragione di una certa armonia che questi atti o princìpi di azione presentano con le caratteristiche di questa o di quella Persona. Così, a modo di appropriazione, si attribuisce la potenza al Padre, la sapienza al Figliuolo e la bontà allo Spirito Santo, quantunque esse convengano ugualmente a tutte e Tre (XXXIX, 7, 8; XLV, 6).

108. Quando, dunque, parliamo di Dio nei suoi rapporti col mondo esterno, si tratta sempre di Dio nella unità della sua natura e nella Trinità delle Persone?

Sì; con la sola eccezione di ciò che riguarda la Persona del Verbo nei misteri della sua Incarnazione (XLV, 6).

Capo V.

Opera di Creazione.

109. Che cosa intendete col dire che Dio è il Creatore di tutte le cose?

Intendo che tutte le cose sono state da Lui create dal niente (XLIV, XLV).

110. Non esisteva dunque niente fuori di Dio, prima che Egli creasse tutte le cose?

No; niente esisteva fuori di Dio prima che Egli creasse tutte le cose; esistendo Egli solo da Sé e tutto il resto non esistendo che per Lui (XLIV, 1).

111. Quando ha creato Dio tutte le cose dal niente?

Dio ha creato dal niente tutte le cose quando Gli è piaciuto (XLIV).

112. Dunque se lo avesse voluto avrebbe potuto non creare le cose che invece ha create?

Sì; Dio avrebbe potuto, se lo avesse voluto, non creare le cose che ha create.

113. E perché Dio ha voluto creare in un dato momento le cose create?

Dio ha creato le cose per manifestare la sua gloria (XLIV, 4).

114. Che cosa intendete col dire che Dio ha creato le cose per manifestare la sua gloria?

Intendo che Egli ha voluto mostrare fuori di Sé la sua bontà comunicando ad altri qualche cosa del Bene infinito che è Egli stesso.

115. Non è dunque per bisogno né per acquistare qualche cosa che Dio ha creato le cose?

No; Egli invece ha creato le cose per dare ad altri qualche cosa di ciò che possiede infinitamente in Sé stesso e per pura bontà (XLIV, 4 ad 1).

Capo. VI.

Il mondo.

116. Come si chiama tutto l’insieme delle cose create da Dio?

Si chiama mondo oppure universo (XLVII, 4).

117. Il mondo od universo è dunque l’opera stessa di Dio?

Sì; il mondo od universo è la stessa opera di Dio (XLVII, 1, 2, 3).

118. Che cosa comprende il mondo od universo, opera di Dio?

Il mondo od universo opera di Dio comprende tre categorie di esseri che sono: i puri spiriti, i corpi e lo spirito unito ad un corpo.

119. Dunque Dio stesso ha creato i puri spiriti, i corpi e lo spirito unito ad un corpo?

Sì; Dio stesso ha creato i puri spiriti, i corpi e lo spirito unito ad un corpo.

120. Ha agito Egli stesso, da Sé stesso solo?

Sì; Dio ha fatto tutto da Sé stesso solo, essendo Egli solo in grado di creare

(XLV, 5).

121. In qual modo Dio, da Sé stesso e solo, ha creato il mondo degli spiriti e dei corpi?

Lo ha creato mediante la sua Parola o Verbo e col suo Amore (XLV, 6).

Capo VII.

Gli angeli. – Loro natura.

122. Perché Dio ha voluto che vi fossero dei puri spiriti nell’opera da Lui creata?

Dio ha voluto che nell’opera sua vi fossero dei puri spiriti, perché questi dovevano essere il coronamento dell’opera stessa (L, 1).

123. Che cosa intendete col dire che i puri spiriti dovevano essere il coronamento dell’opera di Dio?

Intendo che essi ne sono la parte più nobile, la più perfetta e la più bella (Ibid.).

124. Potreste dire quale è la natura dei puri spiriti?

Sì; i purì spiriti sono nature ossia sostanze che esistono scevre affatto di corpo e di materia (L, 1, 2).

125. Questi puri spiriti sono in grandissimo numero?

Sì; questi puri spiriti sono in grandissimo numero (L, 3).

126. Il loro numero supera il numero di tutte le altre nature create?

Sì; il loro numero supera il numero di tutte le altre nature create (/bid.).

127. Perché bisognava che fossero così numerosi?

Perché conveniva che ciò che vi era di più bello nell’opera di Dio superasse in grandezza tutto il resto (/bid.).

128. Come si chiamano ordinariamente questi puri spiriti?

Si. chiamano Angeli.

129. Perché i puri spiriti si chiamano Angeli?

Perché sono i messaggeri di cui Dio si serve per amministrare il rimanente della sua opera.

130. Possono gli Angeli prendere un corpo come noi?

No; gli Angeli non possono prendere un corpo come noi; e se talvolta si sono potuti mostrare rivestiti di un corpo, non ne avevano che l’apparenza esterna (LI, 1, 2, 8).

131. Gli Angeli stanno in qualche luogo?

Sì; gli Angeli stanno in qualche luogo (LII, 1).

132. Qual è il luogo ordinario degli Angeli?

Il luogo ordinario degli Angeli è il cielo (LXI, 4).

133. Gli Angeli possono recarsi da un luogo ad un altro?

Sì; gli Angeli possono recarsi da un luogo ad un altro (LIII, 1).

134. Occorre loro del tempo per recarsi da un luogo ad un altro?

Gli Angeli possono recarsi da un luogo ad un altro, fossero anche i luoghi più opposti, quasi istantaneamente (LIII, 2).

185. Possono anche lasciare lentamente un luogo e recarsi lentamente in un altro secondoché loro aggrada?

Sì; essi possono anche lasciare lentamente un luogo e recarsi lentamente in un altro secondoché loro aggrada; non essendo il loro movimento che una successiva applicazione della loro virtù e della loro azione a diversi esseri, ossia alle diverse parti di un medesimo tutto (LIII, 3).

Capo VIII.

Loro vita intima.

136. In che cosa consiste la vita degli; Angeli, secondo la loro natura di puri spiriti?

La vita degli Angeli secondo la loro natura di puri spiriti consiste nel conoscere e nell’amare.

137. Quale specie di conoscenza si trova negli Angeli?

Negli Angeli si trova la conoscenza intellettuale (LIV).

138. Non vi è negli Angeli nessuna conoscenza sensibile come in noi?

No; negli Angeli non si trova nessuna conoscenza sensibile come in noi (LIV, 5).

139. Perché non vi è negli Angeli la conoscenza, sensibile come in noi?

Perché la conoscenza sensibile avviene per mezzo del corpo, e gli Angeli non hanno affatto corpo (Ibid.).

140. La conoscenza intellettuale degli Angeli è più perfetta della nostra conoscenza inteltuale?

Sì; la conoscenza intellettuale degli Angeli è più perfetta della nostra conoscenza intellettuale.

141. Perché la conoscenza intellettuale degli Angeli è più perfetta della nostra conoscenza intellettuale?

Perché essi non hanno come noi da attingere la loro conoscenza nel mondo esterno, ed apprendono tutta la verità con un solo sguardo del loro spirito, senza aver bisogno come noi di ragionamento (LV, 2; LVIII, 3, 4).

142. Gli Angeli conoscono tutte le cose?

No; gli Angeli non conoscono affatto tutte le cose perché hanno una natura finita: Dio solo, essendo infinito, conosce tutte le cose (LIV, 1, 2, 3).

143. Conoscono essi tutto l’insieme delle creature?

Sì; essi conoscono tutto insieme delle creature, perché la loro natura di puri spiriti richiede che sia così (LV, 2).

144. Gli Angeli conoscono tutto ciò che avviene nel mondo esterno?

Sì; gli Angeli conoscono tutto ciò che avviene nel mondo esterno, perché le idee del loro intelletto manifestano loro le cose di mano in mano che accadono (ibid.).-

145. Conoscono i segreti dei cuori?

No; gli Angeli non conoscono affatto i segreti dei cuori; perché tali segreti essendo liberi non rientrano nella serie necessaria dei fatti esterni (LVII, 4). i i

146. Che cosa occorre perché gli Angeli conoscano i segreti dei cuori?

Occorre che Dio li riveli loro, oppure il soggetto stesso li faccia loro conoscere (Ibid).

147. Gli Angeli conoscono l’avvenire?

No; gli Angeli non conoscono l’avvenire, salvo che Dio lo riveli loro (LVII, 8).

148. Che specie di amore si trova negli Angeli secondo la loro natura?

Negli Angeli secondo la loro natura si trova un amore perfetto di Dio, di se stessi e di tutte le creature; purché il peccato, nell’ordine soprannaturale, non snaturi ciò che vi ha di libero nel loro amore di ordine naturale (LX).

Capo IX,

Loro creazione.

149. Tutti gli Angeli sono stati creati immediatamente da Dio?

Sì; tutti gli Angeli sono stati creati immediatamente da Dio, essendo ciascuno di essi un puro spirito che non è potuto venire alla esistenza che per via di creazione (LXI, 1).

150. Quando sono stati creati da Dio gli Angeli?

Gli Angeli sono stati creati da Dio istantaneamente, nel primo momento in cui creò anche tutti gli elementi del mondo corporeo (LXI, 8).

151. Gli angeli furono creati da Dio in un luogo corporeo?

Sì; gli Angeli furono creati da Dio in un luogo corporeo, perché l’armonia dell’opera divina vuole che fosse così (LXI, 4 ad 1).

152. Come si chiama il luogo dove gli Angeli furono creati da Dio?

Noi lo chiamiamo cielo semplicemente, e qualche volta anche cielo empireo (LXI, 4).

153. Che cosa significano queste parole: « cielo empireo »?

Significano un luogo tutto luce e splendore, che è la parte più bella del mondo corporeo

154. Il cielo empireo è lo stesso che il cielo dei beati o cielo semplicemente?

Sì; il cielo empireo è lo stesso che il cielo dei beati o semplicemente cielo (Ibid. ad 3).

Capo X.

Loro prova.

155. In quale stato furono creati gli Angeli da Dio?

Gli angeli furono creati da Dio in istato di grazia (LXII, 3).

156. Che cosa intendete col dire che gli Angeli furono creati da Dio in istato di grazia?

Intendo che al momento della loro creazione essi ricevettero da Dio «una natura rivestita della grazia santificante, che li rendeva figli di Dio e dava loro la possibilità di conseguire la gloria della vita eterna (LXII, 1,2,3).

157. Gli Angeli poterono conseguire la gloria della vita eterna con un atto del loro libero arbitrio?

Sì; gli Angeli poterono conseguire la gloria della vita eterna con un atto del loro libero arbitrio (LXII, 4).

158. In che cosa consisté l’atto del libero arbitrio degli Angeli, per mezzo del quale essi poterono conseguire la gloria della vita eterna?

Tale atto consisté nel seguire l’impulso della grazia che li induceva a sottomettersi a Dio, ed a ricevere da Lui con amore e riconoscenza il dono della propria gloria che offriva loro (ibid.).

159. Abbisognò molto tempo agli Angeli per decidersi, sotto l’azione della grazia, sulla scelta che Dio offriva loro?

Questa scelta fu fatta da loro istantaneamente (ibid.).

160. Gli Angeli furono ammessi alla gloria subito dopo aver fatta questa scelta?

Sì; gli Angeli furono ammessi alla gloria subito dopo aver fatta questa scelta (LXII, 5).

Capo XI.

Caduta degli angeli cattivi.

161. Tutti gli angeli fecero la scelta proposta loro da Dio come prova meritoria?

No; non tutti gli Angeli fecero questa scelta, e ve ne furono alcuni che la rifiutarono (LXII, 3).

162. Perché vi furono degli Angeli che rifiutarono di fare questa scelta?

Per sentimento di orgoglio e per essere simili a Dio; per bastare a se stessi come a Se stesso basta Dio (LXIII, 2, 3).

163. Questo sentimento di orgoglio fu un grave peccato?

Questo sentimento di orgoglio fu un peccato orribile che provocò immediatamente la collera di Dio.

164. Che cosa fece Dio nella sua giusta collera contro il peccato degli Angeli?

Li precipitò subito nell’inferno, che sarà eternamente il luogo del loro supplizio. (LXIV, 4).

165. Come si chiamano gli Angeli cattivi che si ribellarono a Dio e furono precipitati nell’inferno?

Si chiamano demoni (LXIII, 4).

LA SUMMA PER TUTTI (4)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XI)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XI)

INTERPRETAZIONE DELL’APOCALISSE

Che comprende LA STORIA DELLE SETTE ETÁ DELLA CHIESA CATTOLICA. DEL VENERABILE SERVO DI DIO BARTHÉLEMY HOLZHAUSER

RESTAURATORE DELLA DISCIPLINA ECCLESIASTICA IN GERMANIA,

OPERA TRADOTTA DAL LATINO E CONTINUATA DAL CANONICO DE WUILLERET,

PARIS, LIBRAIRIE DE LOUIS VIVÈS, ÉDITEUR RUE CASSETTE, 23 – 1856

LIBRO TERZO

SEZIONE II.

SUL CAPITOLO VII.

LA CONSOLAZIONE DELLA CHIESA MILITANTE E DELLA CHIESA TRIONFANTE PER LE TRIBOLAZIONI PASSATE.

I. Vers. 1. – Poi vidi quattro angeli in piedi ai quattro angoli della terra, che trattenevano i quattro venti, per impedire che soffiassero sulla terra e sul mare e su qualsiasi albero. L’Apostolo, dopo aver descritto la persecuzione di Diocleziano, parla della consolazione che fu concessa alla Chiesa di Dio al tempo di Costantino il Grande, figlio di S. Elena. Questo capitolo deve essere considerato sotto due rapporti, e contiene due parti: in primo luogo, vediamo descritta la consolazione concessa alla Chiesa militante, come si può vedere nel versetto seguente:

Vers. 2. E vidi un altro Angelo che saliva da oriente, portando il segno del Dio vivente, ecc. In secondo luogo, questo capitolo descrive la consolazione della Chiesa trionfante, come segue:

Vers. 9. Dopo questo vidi una grande moltitudine, ecc. …. con le palme in mano.

§ I.

Della consolazione e della liberazione della Chiesa militante dal giogo e dalle persecuzioni dei tiranni.

CAPITOLO VII. VERSETTI 1-8 .

Post hæc vidi quatuor angelos stantes super quatuor angulos terræ, tenentes quatuor ventos terræ, ne flarent super terram, neque super mare, neque in ullam arborem. Et vidi alterum angelum ascendentem ab ortu solis, habentem signum Dei vivi: et clamavit voce magna quatuor angelis, quibus datum est nocere terrae et mari, dicens: Nolite nocere terræ, et mari, neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum. Et audivi numerum signatorum, centum quadraginta quatuor millia signati, ex omni tribu filiorum Israel. Ex tribu Juda duodecim millia signati: ex tribu Ruben duodecim millia signati: ex tribu Gad duodecim millia signati: ex tribu Aser duodecim millia signati: ex tribu Nephthali duodecim millia signati: ex tribu Manasse duodecim millia signati: ex tribu Simeon duodecim millia signati: ex tribu Levi duodecim millia signati: ex tribu Issachar duodecim millia signati: ex tribu Zabulon duodecim millia signati: ex tribu Joseph duodecim millia signati: ex tribu Benjamin duodecim millia signati.

[Dopo queste cose vidi quattro Angeli che stavano sui quattro angoli della terra, e ritenevano i quattro venti della terra, affinché non soffiassero sopra la terra, né sopra il mare, né sopra alcuna pianta. E vidi un altro Angelo che saliva da levante, e aveva il sigillo di Dio vivo: e gridò ad alta voce ai quattro Angeli, ai quali fu dato di far del male alla terra e al mare, dicendo: Non fate male alla terra e al mare, né alle piante, fino a tanto che abbiamo segnati nella loro fronte i servi del nostro Dio. E udii il numero dei segnati, cento quarantaquattro mila segnati, di tutte le tribù dei figliuoli d’Israele. Della tribù dì Giuda dodici mila segnati: della tribù di Ruben dodici mila segnati: della tribù di Gad dodici mila segnati: della tribù di Aser dodici mila segnati: della tribù di Neftali dodici mila segnati: della tribù di Manasse dodicimila segnati: della tribù di Simeone dodici mila segnati: della tribù di Levi dodici mila segnati: della tribù di Issacar dodicimila segnati: Mella tribù di Zàbulon dodici mila segnati: della tribù di Giuseppe dodici mila segnati: della tribù di Beniamino dodici mila segnati.]

I. Vers. 1. – Poi vidi quattro angeli in piedi ai quattro angoli della terra, che trattenevano i quattro venti, per impedire che soffiassero sulla terra e sul mare e su qualsiasi albero. Queste parole suggeriscono una breve continuazione della persecuzione precedente, da parte dei quattro imperatori che allora regnavano nelle quattro parti dell’Impero Romano, e che erano: Galerio, Massenzio, Massimino e Licinio. Perciò l’Apostolo dice: “Dopo questo, cioè dopo la persecuzione di Diocleziano e Massimiano, che deposero le redini dell’impero, vidi quattro angeli, cioè i quattro imperatori e persecutori della Chiesa sopra menzionati, in piedi e che governavano o regnavano ai quattro angoli della terra, nelle quattro parti dell’Impero Romano, che si estendeva fin quasi alle estremità del mondo. Li ho visti trattenere i quattro venti, per impedire che soffiassero sulla terra, cioè impedissero a tutti i dottori della Chiesa di predicare il Vangelo e la parola di Dio. Di questo vento si parla nel libro del Cantico dei Cantici (IV, 16): « Aquilone, alzati; vieni, vento del sud, soffia nel mio giardino, esalta tutti i suoi profumi. » Infatti come la terra è resa feconda dai venti, così il giardino della Chiesa militante è reso fecondo dal soffio della predicazione. Li ho visti trattenere i quattro venti, per impedire che soffiassero sulla terra e sul mare e su qualsiasi albero. Qui l’Apostolo scambia il contenitore per il contenuto. Infatti alcuni Cristiani vivevano nei deserti, altri nelle isole, altri ancora nelle foreste, per paura delle persecuzioni. Ora tutti questi luoghi sono designati dalle parole mare, terra e alberi.

II. Vers. 2E vidi un altro Angelo che saliva da est. San Giovanni descrive ora la soppressione di questi quattro tiranni da parte dell’imperatore Costantino il Grande, nell’anno di Cristo 312. E vidi un altro Angelo, che è cioè un Angelo opposto ai primi; questo fu Costantino il Grande, che salì dall’Oriente; che salì all’Impero per disposizione di Cristo, che è il Sole di giustizia, per riportare la pace nella Chiesa. Infatti, mentre Massenzio, che aveva ucciso Severo, esercitava la sua tirannia a Roma, la nobiltà chiese a Costantino, figlio di Costanzo Cloro, allora governatore nelle Gallie, di liberare la città dalla servitù di Massenzio. Questo Angelo, che stava salendo dall’Oriente, portava il segno del Dio vivente, cioè il segno di Cristo. È infatti riportato (Hist. ecc. 1. IX), che Costantino, venendo a Roma per opporsi alla tirannia di Massenzio, meditava spesso sulle disposizioni da prendere in questa guerra; e, sebbene non avesse ancora ricevuto il Battesimo, stava tuttavia pregando Dio per ottenere la vittoria, quando, alzando gli occhi al cielo, vide lo stendardo della croce brillare nell’aria. E mentre questa straordinaria visione lo colpiva con stupore, sentì gli Angeli che circondavano la croce che gli dicevano: « Con questo segno tu vincerai ». Rassicurato della vittoria, fece mettere il segno della croce sulle bandiere dei suoi soldati, proprio come gli era apparso; ed essendosi mosso contro Massenzio, egli lo sconfisse e ne risultò trionfante.

Vers. 3E gridò ad alta voce ai quattro Angeli ai quali era stato dato di danneggiare la terra e il mare. Dicendo: “Non fate del male alla terra, al mare e agli alberi, finché non abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio”. Queste parole descrivono la potenza, la grande pietà e l’ardente zelo di Costantino il Grande per la Religione cristiana. E gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cioè a quei quattro persecutori e ai loro ministri stabiliti nelle quattro parti dell’impero. E comandò a loro e a tutti i sudditi dell’impero di chiudere i templi del paganesimo, di rinunciare agli idoli, e di abbracciare la fede dei Cristiani. Ordinò anche la costruzione di chiese in tutto la terra, ed egli stesso costruì a Roma la basilica di San Giovanni in Laterano e molti altri edifici sacri, che adornò con grandi spese e riempì di immense ricchezze. Egli emanò delle leggi contro il culto degli idoli, mise a tacere i falsi oracoli, impedì l’erezione di nuovi simulacri e mise fine ai sacrifici occulti. Proibì i combattimenti tra gladiatori nelle città, …e non permise che esse fossero contaminate con sangue umano. Il culto del Nilo da parte di uomini effeminati non fu più tollerato. Ecco perché proibì la morte degli ermafroditi come colpevoli di adulterio. Diede anche delle leggi ai governatori delle province, per la santificazione della domenica, e per far rispettare le feste dei martiri. (Hist. Eccl., 1. IV. De vita Constantini.). Riservò certi diritti in tutte le città, sul tributo che dovevano pagare; e ne assegnò le entrate alle chiese e al clero di ogni località, assicurandone il possesso in perpetuo. La decisione delle difficoltà sollevate dai tribunali civili contro la Chiesa, fu devoluta ai Vescovi, e volle che tutte le loro sentenze avessero forza di legge. Egli diede anche ai Vescovi piena giurisdizione sui loro chierici. Stabilì dappertutto le immunità ecclesiastiche, favorì le belle lettere, istituì numerose scuole e fondò delle biblioteche. Accordò ai professori molti privilegi ed immunità, e dotò le loro cattedre di considerevoli ritenute. È così che questo imperatore gridò ad alta voce, dicendo: “Non danneggiate la terra, il mare o gli alberi, impedendo e rovinando la fede e la religione di Cristo; … e così soppresse il potere dei quattro tiranni e dei loro ministri, in modo che non fosse più possibile per loro danneggiare i Cristiani. Perché combatté contro Massenzio e lo uccise. La stessa sorte toccò a Licinio, che maltrattò crudelmente i fedeli ad Alessandria e in Egitto; gli altri due tiranni dovettero cedere al suo potere. Così che, per quanto la Chiesa di Gesù Cristo fosse stata precedentemente nell’abiezione, nella desolazione e nelle avversità, allo stesso modo fu onorata, esaltata e consolata dal grande Costantino, principe tanto pio quanto potente, il cui regno durò trentatré anni. Non danneggiate la terra, etc. … , finché non avremo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Queste parole significano la pratica pubblica del santo Battesimo che Costantino stesso ricevette da San Silvestro, e che introdusse in tutto l’impero con i suoi decreti, così come con il suo esempio. Infine relegò all’inferno ed ebbe completamente rovinato gli idoli insudiciati da tanti orrori e falsità. – Si deve osservare qui che queste parole, finora citate nel testo, non sono da prendere in un ristretto ma illimitato, come quando si dice: quest’uomo non si è pentito mentre viveva, si intende dire che è morto senza fare penitenza, poiché non ci si può più pentire dopo la morte. Così questo passaggio, fino a quando abbiamo segnato sulla fronte, ecc., deve essere inteso in questo senso: che questi quattro tiranni non debbano mai più nuocere ai Cristiani.

III. Vers. 4E sentii che il numero di coloro che erano stati segnati era di centoquarantaquattromila, da tutte le tribù dei figli d’Israele. Vediamo qui il risultato di questa repressione dei tiranni, che fu la moltiplicazione dei Cristiani sotto il regno di Costantino il Grande. E sentii (in immaginazione e in spirito) che il numero di coloro che furono segnati, cioè il numero di coloro che furono battezzati e credettero, era di centoquarantaquattromila. L’Apostolo cita un numero finito per un numero infinito, come spesso accade nella Sacra Scrittura. Perché il numero di Battesimi in tutto l’impero superò di gran lunga questa cifra a quel tempo della Chiesa. Di tutte le tribù dei figli d’Israele. Il nome d’Israele appartiene ora, nel suo vero senso, a tutte le nazioni rigenerate in Gesù Cristo mediante il Battesimo, secondo questa parola di Osea (II, 24): « E io dirò a colui che è stato chiamato, non mio popolo, Tu sei il mio popolo. » Possiamo anche citare qui quest’altro passo di Isaia, (XLIV, 3): « Farò scendere il mio spirito sulla tua razza e la mia benedizione sui tuoi discendenti. I vostri figli cresceranno tra le piante, come salici presso i ruscelli. Uno dirà: Io sono del Signore; un altro si glorierà nel nome di Giacobbe; un altro scriverà con la sua mano: Io sono del Signore; e si glorierà nel nome d’Israele. » Ora questo passaggio si applica alle nazioni convertite a Gesù Cristo. Allo stesso modo l’Apostolo dice (Rom. II, 28): « Il Giudeo non è colui che lo è esteriormente, né la circoncisione è quella che si fa nella carne, e che è solo esteriore; ma Giudeo è colui che è Giudeo interiormente », attraverso la fede di Gesù Cristo e la circoncisione spirituale del cuore. Ce n’erano dodicimila della tribù di Giuda. In conseguenza di ciò che è stato appena detto, queste dodici tribù devono essere intese letteralmente come i dodici Apostoli del Nuovo Testamento, che corrispondono e sono assimilati ai dodici Patriarchi del Vecchio Testamento. Infatti, come attraverso questi, tutte le generazioni d’Israele discendono da Giacobbe secondo la carne, così attraverso gli Apostoli, tutte le generazioni dei Cristiani discendono da Gesù Cristo, secondo la seconda promessa e secondo lo Spirito. – E invece della tribù di Dan dalla quale si dice che nascerà l’Anticristo, l’Apostolo pone qui la tribù di Giuseppe, come San Mattia ottenne il posto di Giuda il prevaricatore.

§ II.

Della consolazione della Chiesa trionfante per le passate tribolazioni, e delle vittorie ottenute dai santi martiri nelle persecuzioni.

CAPITOLO VII. VERSETTI 9-17.

Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumerare nemo poterat, ex omnibus gentibus, et tribubus, et populis, et linguis: stantes ante thronum, et in conspectu Agni, amicti stolis albis, et palmae in manibus eorum: et clamabant voce magna, dicentes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes angeli stabant in circuitu throni, et seniorum, et quatuor animalium: et ceciderunt in conspectu throni in facies suas, et adoraverunt Deum, dicentes: Amen. Benedictio, et claritas, et sapientia, et gratiarum actio, honor, et virtus, et fortitudo Deo nostro in saecula saeculorum. Amen. Et respondit unus de senioribus et dixit mihi: Hi, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt? et unde venerunt? Et dixi illi: Domine mi, tu scis. Et dixit mihi: Hi sunt, qui venerunt de tribulatione magna, et laverunt stolas suas, et dealbaverunt eas in sanguine Agni. Ideo sunt ante thronum Dei, et serviunt ei die ac nocte in templo ejus: et qui sedet in throno, habitabit super illos: non esurient, neque sitient amplius, nec cadet super illos sol, neque ullus æstus: quoniam Agnus, qui in medio throni est, reget illos et deducet eos ad vitæ fontes aquarum, et absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum.

[Dopo questo vidi una turba grande che ninno poteva noverare, di tutte le genti, e tribù, e popoli, e lingue, che stavano dinanzi al trono e dinanzi all’Agnello, vestiti di bianche stole con palme nelle loro mani: e gridavano ad alta voce, dicendo: La salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli stavano d’intorno al trono, e ai seniori, e ai quattro animali: e si prostrarono bocconi dinanzi al trono, e adorarono Dìo, dicendo: Amen. Benedizione, e gloria, e sapienza, e rendimento di grazie, e onore, e virtù, e fortezza al nostro Dio pei secoli dei secoli, così sia. E uno dei seniori mi disse: Questi, che sono vestiti di bianche stole, chi sono? e donde vennero? E io gli risposi: Signor mio, tu lo sai. Ed egli mi disse: Questi sono quelli che sono venuti dalla grande tribolazione, e hanno lavato le loro stole, e le hanno imbiancate nel sangue dell’Agnello. Perciò sono dinnanzi al trono di Dio, e lo servono dì e notte nel suo tempio: e colui che siede sul trono abiterà sopra di essi: non avranno più fame, né sete, né darà loro addosso il sole, né calore alcuno: poiché l’Agnello, che è nel mezzo del trono, li governerà, e li guiderà alle fontane delle acque della vita, e Dio asciugherà tutte le lacrime dagli occhi loro.]

Vers. 9. Poi vidi una grande moltitudine che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, in piedi davanti al trono, ecc. In queste e nelle seguenti parole, l’Apostolo descrive e rivela lo stato beato di tutti i santi martiri esistenti nella Chiesa trionfante, che, al tempo di Diocleziano e dei tiranni che lo precedettero, passarono alla vita eterna attraverso molte tribolazioni e una morte crudele. Lo scopo di questa descrizione di San Giovanni è di confortare e consolare i soldati cristiani che dovranno ancora soffrire fino alla consumazione dei secoli, per la fede, per la giustizia e per la gloria di Dio nella Chiesa militante, ecc. Dopo questo: queste due parole devono essere intese, secondo l’ordine delle cose rivelate, ho visto una grande moltitudine di martiri e santi che, nei primi tre secoli della Chiesa, sono arrivati alla gloria celeste. Che nessuno poteva contare. L’apostolo non specifica il numero di questi martiri, per far capire che era immenso, come si può vedere da quanto detto sopra. Da ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Egli cita questi quattro diversi tipi di moltitudini per dire che una moltitudine di uomini di tutte le nazioni della terra, nelle quattro parti del mondo, è giunta alla vita eterna attraverso il martirio, e anche per farci capire che nessuna classe di uomini è esclusa dalla gloria celeste. Ho visto questa moltitudine in piedi davanti al trono. Queste parole esprimono lo stato di quei Santi che godono della visione beatifica di Dio e della stabilità del riposo eterno. – E davanti all’Agnello, cioè godendo della presenza dell’umanità di Gesù Cristo, che potranno contemplare in tutta la misura dei loro desideri. Essi saranno anche rivestiti di vesti bianche, ecc., cioè arricchiti della gloria, delle ricompense e delle aureole speciali proporzionate alle loro lotte, alle loro opere e ai loro meriti. Infine, staranno davanti al trono, … con le palme delle mani, come segno della loro completa vittoria, che non potrà mai essere raggiunta nella vita presente, poiché i più grandi Santi devono sempre combattere quaggiù, in qualsiasi situazione si trovino. Si vede quindi, da quanto appena detto, che questa descrizione non può che riferirsi allo stato della Chiesa trionfante in cielo.

Vers. 10. – E gridarono a gran voce. Queste parole indicano l’ufficio speciale dei Santi in cielo, insieme alla veemenza e all’ardore dell’amore con cui lodano e glorificano Dio e l’Agnello, per gratitudine della loro salvezza, di cui sono sicuri per tutta l’eternità, dicendo: La salvezza è del nostro Dio seduto sul trono e dell’Agnello, cioè che la salvezza, la felicità e tutte le cose buone di cui godono vengono da Dio e dall’Agnello.

II. Vers. 11. – E tutti gli Angeli stavano intorno al trono, i vegliardi ed i quattro animali, e si prostravano con la faccia davanti al trono e adoravano Dio. E seguì un applauso generale di tutti i santi Angeli per la salvezza di questi gloriosi martiri. E tutti gli Angeli stavano in piedi, pronti ad eseguire ogni volontà divina, intorno al trono, agli anziani e ai quattro animali. Questi Angeli della Chiesa trionfante formano tre gerarchie, divise in nove cori. Erano in piedi intorno al trono di Dio e ai Vegliardi, cioè i Profeti, gli Apostoli, i quattro animali, i quattro Evangelisti e i dottori, dove essi sono continuamente pronti a servire Dio loro Creatore, come indica l’espressione “in piedi”. Si prostrarono con la faccia davanti al trono e adorarono Dio. Queste parole esprimono la più perfetta sottomissione, il rispetto e l’umiltà con cui questi spiriti angelici adorano, per tutta l’eternità, Gesù Cristo, vero Dio e uomo allo stesso tempo, dandogli ogni lode e gloria per lo stato della loro beatitudine, ed esprimendo la loro gratitudine a Lui per il trionfo dei santi martiri, dicendo: “Amen“.

Vers. 12. – Benedizione, gloria, sapienza, azioni di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Così sia. Ciò significa che questi Angeli benedicono Dio, lo lodano e glorificano la sua potenza, il suo Nome e la sua sapienza, in ciò che concerne i suoi attributi eterni. Essi gli rendono azioni di grazie per le tribolazioni che questi santi martiri hanno sopportato e che hanno dato loro una così grande gloria. Onore, nelle chiese pubbliche e sugli altari che furono costruiti in tutto l’universo dopo l’ultima persecuzione di Diocleziano. Potenza, nei miracoli compiuti come testimonianza della fede. Forza, nella resistenza ai tiranni e ai persecutori della Chiesa. Infine, l’ammirevole costanza dei santi martiri, il cui numero quasi infinito di entrambi i sessi ha trionfato su tutti i tormenti e ha raggiunto il regno celeste. Ora, questi santi Angeli dichiarano che tutti questi vantaggi devono essere attribuiti al Signore, unica fonte e oceano di ogni bene; poi finiscono con la parola Amen. Così sia, per esprimere il loro ardente desiderio che sia così.

III. VERSETTO 13. – Allora uno degli anziani rispose e disse: “Chi sono questi che appaiono in vesti bianche e da dove vengono? È con la più grande saggezza che uno degli anziani qui fa una domanda su queste persone, su ciò che sono e come sono pervenute allo stato di beatitudine. Egli pone questa domanda per la consolazione, la gioia e la speranza dei giusti, in mezzo a tutte le avversità che soffriranno sulla terra, per mano degli empi, per permesso di Dio. Lo fa anche per farci capire che il martirio e la morte dei giusti non sono una disgrazia per loro, ma piuttosto il passaggio ad uno stato che è la riunione di ogni bene e di ogni gloria. (Sap. III, 1): « Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e il tormento della morte non le toccherà. Apparivano morti agli occhi degli stolti, la loro partenza dal mondo era considerata un colmo di afflizioni e la loro partenza dal mondo come un grande dolore, e la loro separazione da noi come una completa rovina; eppure, essi sono in pace. » Questo è ciò che gli empi saranno costretti a confessare e a deplorare loro stessi all’ultimo giudizio, per la loro vergogna eterna; ma sarà troppo tardi. (Sap. V, 1): «Allora i giusti insorgeranno con grande fermezza contro coloro che li hanno tormentati ed hanno tolti loro il frutto del loro lavoro. A questa vista gli empi saranno turbati e avranno grande paura; saranno stupiti quando vedranno improvvisamente i giusti salvati contro le loro aspettative. Diranno dentro di sé nel loro cuore, presi dal rimpianto e sospirando: Questi sono coloro che un tempo venivano derisi da noi e che noi additavamo come esempi di persone degne di ogni tipo di oppressione. Insensati com’eravamo, la loro vita ci sembrava una  follia e la loro morte un’onta. Eppure eccoli elevati al rango di figli di Dio, e la loro porzione è con i santi. » Allora uno dei vegliardi prendendo la parola mi disse, etc. Questo vegliardo è San Pietro, il primo dei prelati della Chiesa. Chi sono questi che appaiono vestiti di bianco e da dove vengono?

Vers. 14. – Io gli risposi: Signore, voi lo sapete. San Giovanni ricevette immediatamente dalla Verità Eterna una risposta piena di istruzioni per noi.  Ed egli mi disse: Questi sono coloro che sono venuti qui dopo grandi afflizioni; cioè, sono coloro che sono stati il rimprovero degli uomini sulla terra, e che hanno sopportato ogni sorta di tormento: le ruote, il fuoco, le bestie, la spada, la prigione e l’esilio; ed anche coloro che sono usciti da questo mondo per il martirio, al tempo delle terribili tribolazioni di Diocleziano, Massimiano e degli altri tiranni loro predecessori, e che hanno lavato e rese bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello. Queste parole esprimono l’aureola del martirio che fu loro conferito a causa della testimonianza che diedero alla fede di Gesù Cristo. Perché il sangue dei martiri è moralmente preso per il sangue dell’Agnello, perché quel sangue è il sangue delle sue membra, nelle quali Egli soffre la persecuzione, come Egli stesso dice (Atti, IX, 4): – « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » Si dice anche che hanno lavato e rese bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello, perché tutti i meriti e la morte dei Santi sono fondati sui meriti, la morte ed il sangue dell’Agnello Gesù Cristo, nel quale sono radicati, come il tralcio nella vite, e al quale sono uniti come il frutto all’albero, e come la pianta alla semenza, etc.

Vers. 15. – Perciò essi sono davanti al trono di Dio e lo servono giorno e notte, ecc. Qui segue la degna e piena ricompensa che è data loro in proporzione alle loro tribolazioni, e che è espressa da queste parole: … è per questo. Queste parole specificano ulteriormente le otto beatitudini che corrispondono agli otto gradi di virtù che sono difficili da raggiungere, e le otto vittorie principali che i Cristiani devono vincere per raggiungere il regno celeste. Queste sono le otto ricompense o beatitudini che Gesù Cristo ha promesso ai suoi soldati in Matteo V. Questo numero otto designa anche l’universalità e la sazietà di tutti i beni del cielo, come vedremo.

IV. Il primo grado delle virtù cristiane è la povertà di spirito di cui il Cristiano deve essere armato, in modo che sia disposto a perdere tutti i beni temporali piuttosto che negare la fede.  Deve anche essere pronto, in mezzo alla persecuzione, a distribuire i suoi beni ai poveri, come fecero San Lorenzo e tutti gli altri martiri quando i tiranni perseguitavano i fedeli nei loro beni temporali. Ora è a questo generoso sacrificio di tutti i beni temporali che Gesù Cristo promette il regno dei cieli, che è la stabilità eterna nella gloria e nella felicità. Anche San Giovanni aggiunge in questa occasione: Perciò essi sono davanti al trono di Dio, durante l’eternità, e lo vedono faccia a faccia, così com’è. Il secondo grado è la mitezza, la dolcezza e la pazienza con cui i santi martiri sopportarono il giogo e soffrirono la tirannia dei re della terra, seguendo l’esempio di Gesù Cristo loro maestro. Si sono lasciati immolare come agnelli senza lamentarsi, vincendo così il male con il bene. Ora, è come ricompensa per questa virtù che viene loro promessa la seconda beatitudine che consiste nel possesso della terra, cioè nella perfetta libertà e nel godimento eterno del sovrano Bene; poiché essi regneranno con Gesù Cristo loro Capo per tutti i secoli dei secoli, così come regnano con Lui sulla terra, poiché è per regnare che servono Dio. Per questo San Giovanni aggiunge: E lo servono giorno e notte nel suo tempio, cioè lo servono giorno e notte nel riposo, nella libertà e nella beatitudine eterna, lodando il loro Creatore, senza avere mai nulla da temere. (Ps. LXXX, 5): « Beati coloro che abitano nella la tua casa, o Signore, essi ti loderanno per sempre. » Per “tempio” intendiamo qui l’Empireo, il palazzo del Re eterno, il tabernacolo incorruttibile, in cui Dio abita con i Santi e con gli Angeli, come vedremo nel capitolo XXI. Il terzo grado è il pianto dei giusti ed il loro gemito nelle avversità, nell’instabilità, nei tormenti, nelle tentazioni e nelle innumerevoli miserie e calamità di questo mondo. Ma, d’altra parte, viene loro promessa la piena consolazione e la perfetta felicità, che consisterà nell’essere con Gesù Cristo, e di regnare con questo Monarca infinitamente giusto, santo e potente, la cui bontà, potenza e regno rimarranno fissi ed immutabili per tutta l’eternità. Ecco perché San Giovanni dice: E colui che siede sul trono regnerà su di loro. Poiché non saranno più soggetti a nessun re della terra per servirlo, né il loro felice stato cambierà più nei secoli dei secoli, perché il nostro Signore Gesù Cristo, il Re dei re, il Signore dei signori, il cui giogo è facile e il cui fardello è leggero, sarà il loro re. Egli regnerà su di loro per tutta l’eternità ed essi non saranno mai più separati da Lui. – Il quarto grado è lo zelo della giustizia, al quale è promessa la perfetta soddisfazione di tutti i desideri e la sazietà di tutti i beni. Perché i giusti ed i santi di Dio sulla terra, vedendo che questo mondo è pieno di mali, provano una tale afflizione di spirito nel non potervi porre rimedio, che può essere paragonata agli ardori della fame e della sete. Perché quale grande dolore provano quando vedono l’oppressione dei poveri, degli orfani e delle vedove, e quando vedono gli empi prevalere sui giusti! Sono testimoni delle follie dei malvagi e del disprezzo dei saggi; contemplano con dolore tutti i beni che sono impediti di realizzarsi: tante anime che periscono, tante guerre e processi ingiusti; infine, essi sono costretti a riconoscere, senza potervi porre rimedio, che non c’è né giustizia, né verità, né timore di Dio, né carità, né buona fede nella maggior parte degli uomini! Ora è a queste persone giuste che San Giovanni applica queste parole consolanti:

Vers. 16. – Non avranno più fame né sete, perché saranno pienamente soddisfatti e contenti in tutti i loro desideri, conoscendo dall’alto i decreti della volontà divina. (Sal. XVI, 17): « Quanto a me, o Signore, rivestito di giustizia, vedrò il tuo volto; sarò soddisfatto quando la tua immagine mi apparirà. »  Questi giusti non saranno più soggetti alle infermità del corpo per tutta l’eternità. Il quinto grado delle virtù cristiane è essere misericordiosi amando i poveri, i miserabili, gli afflitti, le vedove e gli orfani; aiutando i bisognosi, ed essendo mite, gentile, benevolo e compassionevole verso il prossimo, nella carità di Gesù Cristo. Per questa virtù l’Apostolo promette a coloro che la praticano la misericordia di Dio, che li preserverà dalle pene dell’inferno e li rassicurerà contro ogni tribolazione nei secoli dei secoli. Infatti aggiunge: E il calore del sole e di nessun altro fuoco li disturberà più; cioè, Gesù Cristo, il Sole di Giustizia, tormenterà nell’inferno solo gli empi, i tiranni e gli uomini senza pietà; e nessuna delle grandi e numerose tribolazioni di questo mondo disturberà coloro che hanno mostrato misericordia. Il sesto grado è una vita santa, immacolata, casta, sobria e pia in questo mondo. Questo virtù sarà ricompensata con la visione eterna di Dio nel suo regno, dove nulla di contaminato può entrare.

Vers. 17. – Perché l’Agnello, che è in mezzo al trono, sarà il loro pastore. Per Agnello si intende qui l’umanità di Cristo, nella quale e attraverso la quale, come in una luce ardente, i beati vedranno eternamente lo splendore della Divinità. Perché l’Agnello che è in mezzo al trono, cioè al cielo, (Matth. V), nel quale il Signore nostro Gesù Cristo si manifesterà glorioso e mirabile a tutti i Santi. L’Agnello ….. sarà il loro pastore, perché è attraverso l’umanità di Cristo, posta tra la Divinità e le creature, che i beati godranno della visione beatifica; e anche perché i giusti saranno diretti dalla volontà ineffabile di Gesù Cristo, da cui dipenderanno assolutamente. E il Signore non permetterà più loro di sbagliare o di peccare durante tutta l’eternità. Ma rimarranno perfettamente uniti al loro Creatore nel perfetto riposo, e saranno come assorbiti in lui in modo ineffabile. Ora, è attraverso l’aiuto dell’umanità di Cristo che essi godranno eternamente di questa felicità infinita. Per questo non dovranno più temere di perdere la visione beatifica di cui godranno  con un piacere sempre nuovo, perché non c’è nulla che possano ancor più possedere. – Il settimo grado è una certa libertà e una santa pace sulla terra, per mezzo della quale i giusti domineranno i loro affetti malvagi e conterranno le loro passioni nella calma e nella sottomissione. È da questo che essi resteranno saldi nelle calamità, nelle avversità e nelle persecuzioni, non perdendo mai la calma e la pace del cuore, e riposando in Dio, sulla testimonianza della loro buona coscienza. L’Apostolo promette loro la figliolanza di Dio, con la quale i desideri dei Santi saranno pienamente realizzati e soddisfatti, poiché non c’è nulla di più grande che essi possano possedere, niente di più degno che possano desiderare, niente di più dolce di cui si possa godere, niente di più meraviglioso che possano contemplare, questo loro Dio con tutte le sue perfezioni! E li condurrà alle fonti delle acque vive, cioè all’immortalità e alla sazietà di tutti i beni e di tutti i desideri possibili. È per esprimere questa varietà e molteplicità di beni che San Giovanni dice al plurale: Li condurrà alle fonti di acque vive. Di conseguenza, otterremo questa pienezza di felicità e questa filiazione divina dopo la resurrezione universale dei corpi, quando saremo chiamati figli di Dio, e vedremo il nostro Creatore faccia a faccia e così come Egli è. Infine, l’ottavo grado delle virtù consiste nel soffrire con pazienza e con umiltà le persecuzioni, le avversità, le catene, il carcere, la perdita dei beni temporali e persino la morte, per amore della giustizia e della fede di Gesù Cristo. È di quest’ultimo grado che San Giovanni dice: E Dio asciugherà dai loro occhi ogni lacrima, cioè Dio non permetterà più alcun motivo di afflizione contro di essi, ma concederà loro una consolazione piena e perfetta. Per quanto hanno sofferto, di tanto saranno consolati; così che nessuno di loro si lamenterà delle loro passate tribolazioni ed avversità, poiché godranno dei beni eterni che avranno ottenuto in proporzione ai dolori che hanno sopportato ed ai sacrifici che hanno dovuto fare.

FINE DEL TERZO LIBRO

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XII)

LA SUMMA PER TUTTI (2)

LA SUMMA PER TUTTI (2)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA

DI S. TOMMASO DI AQUINO

IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE PRIMA

DIO ESSERE SOVRANO CREATORE E SIGNORE DI OGNI ESSERE

CAPO I.

Esistenza.

1. Dio esiste?

Sì; Dio esiste (II).

2. Perché dite che Dio esiste?

Perché se Dio non esistesse niente esisterebbe (II, 3).

3. Come dimostrate che se Dio non esistesse niente esisterebbe?

Si dimostra con questo ragionamento: Ciò che non esiste che da Dio, non esisterebbe se Dio non esistesse. Ora tutto ciò che esiste e non è Dio, non esiste che da Dio. Dunque se Dio non esistesse niente esisterebbe.

4. Ma come dimostrate che ciò che esiste e non è Dio non esiste che da Dio?

Con questo ragionamento: Ciò che esiste e non esiste da sé, in ultima analisi non esiste che per un altro che è da sé e che noi chiamiamo Dio. Ora ciò che esiste e non è Dio non esiste affatto da sé. Dunque ciò che esiste e non è Dio non esiste in ultima analisi che da Dio.

5. E come dimostrate che ciò che esiste e non è Dio non esiste affatto da sé?

Con questo ragionamento: Niente di ciò che ha bisogno di qualche cosa esiste da sé. Ora, tutto ciò che esiste e non è Dio ha bisogno di qualche cosa. Dunque ciò che esiste e non è Dio non esiste affatto da sé.

6. Perché dite che niente di ciò che ha bisogno di qualche cosa esiste da sé?

Perché ciò che esiste da sé non dipende né può dipendere da niente né da nessuno; e tutto ciò che ha bisogno di qualche cosa o di qualcuno, dipende da questo qualche cosa o da questo qualcuno.

7. E perché dite che ciò che esiste da sé non dipende né può dipendere da niente né da nessuno?

Perché esistendo da sé ha tutto in se stesso e da se stesso, e non può nulla ricevere da niente né da nessuno.

8. Dunque ogni essere che esiste ed ha bisogno di qualche cosa prova evidentemente, con la sua sola esistenza, che Dio esiste?

Sì; ogni essere che esiste ed ha bisogno di qualche cosa prova evidentemente, con la sua sola esistenza, che Dio esiste.

9. Che cosa fanno dunque quelli che negano Dio?

Essi affermano in modo equivalente che ciò che ha bisogno di tutto non ha bisogno di nulla.

10. Ma qui si ha una contraddizione?

Precisamente; e non si può negare Dio senza contraddirsi.

11. È dunque una vera follia negare Dio?

Sì; è una vera follia negare Dio.

CAPO II.

Natura ed attributi.

12. Che cosa è Dio?

Dio è uno Spirito in tre Persone, Creatore e Sovrano Signore di tutte le cose.

13. Che cosa volete dire dicendo che Dio è uno Spirito?

Voglio dire che Egli non ha corpo come noi ed è scevro da ogni materia, ossia da ogni natura distinta dal suo essere (III, 1-4).

14. Che cosa si deduce da questo, riguardo a Dio?

Si deduce che Dio non è un essere come gli altri, che non sono che tali o tali altri esseri particolarizzati; ma che Egli è, nel più vero senso, il più trascendente ed il più assoluto, l’Essere stesso (III, 4).

15. Dio è perfetto?

Sì; Dio è perfetto, perché non Gli manca niente (IV, 1).

16. Dio è buono?

Sì; Dio è la stessa bontà, perché Egli è il principio ed il termine di ogni amore (VI).

17. Dio è infinito?

Sì; Dio è infinito, perché da niente circoscritto (VII, 1).

18. Dio è dappertutto?

Sì; Dio è dappertutto, perché tutto ciò che esiste, esiste in Lui e per Lui (VII)

19. Dio è immutabile?

Sì; Dio è immutabile, perché non ha niente da acquistare (IX).

20. Dio è eterno?

Sì; Dio è eterno, perché in Lui non vi sono successioni (X).

21. Vi sono più Dei?

No; non vi è che un solo Dio (XI).

22. Perché affermate questi diversi attributi di Dio?

Perché se Egli non li possedesse non sarebbe più Dio.

23. Come dimostrate che se Dio non possedesse questi attributi non sarebbe più Dio?

Perché Dio non sarebbe più Dio se non fosse Colui che esiste da sé. Ora, Colui che esiste da sé deve essere perfetto, perché ha tutto in se stesso; e se Egli è perfetto, necessariamente è buono. Deve essere infinito, senza di che qualche cosa agirebbe su di Lui per limitarlo; e se Egli è infinito, bisogna che sia dappertutto. Deve essere immutabile, senza di che si troverebbe di fronte alla ricerca di qualche cosa; e se Egli è immutabile è anche eterno, essendo il tempo una successione che implica mutamento. D’altra parte, poiché è infinitamente perfetto, non può essere che uno, essendo assolutamente impossibile potersi dare due infinitamente perfetti, perché l’uno non avrebbe niente onde distinguersi dall’altro (III-XI).

24. Possiamo noi vedere Dio su questa terra?

No; noi non possiamo vedere Dio su questa terra, facendovi ostacolo il nostro corpo mortale (XII, 11).

25. Potremo vedere Dio nel cielo?

Sì; potremo vedere Dio nel cielo con gli occhi dell’anima glorificata (XII, 1-10).

26. Come possiamo conoscere Dio su questa terra?

Possiamo conoscere Dio su questa terra con la ragione e con la fede (XII, 12-13).

27. Che cosa vuol dire conoscere Dio su questa terra con la ragione?

Vuol dire conoscerlo per mezzo delle creature che Egli stesso ha prodotto (XII, 12).

28. Che cosa vuol dire conoscere Dio su questa terra con la fede?

Vuol dire conoscerlo per mezzo di ciò che Egli ci ha detto di Se stesso (XII, 13).

29. Di queste due Specie di conoscenza che noi possiamo avere di Dio su questa terra, quale è la più perfetta?

Senza dubbio la conoscenza che noi abbiamo di Lui per mezzo della fede, perché essa ci fa considerare Dio sotto una luce che la ragione non potrebbe neppure immaginare; e sebbene questa luce sia ancora mescolata per noi di ombra e di oscurità impenetrabile, è frattanto come un cominciamento della luce della visione celeste, la cui piena chiarezza costituirà il nostro bene per tutta la eternità (XII, 13).

30. Quando parliamo di Dio o ci intratteniamo intorno a Lui, le parole ed i termini che usiamo hanno un senso preciso che noi potremmo legittimare?

Sicuramente; perché questi termini o queste parole, sebbene usati anzitutto a designare le perfezioni della creatura, si sono potuti poi assumere a designare ciò che in Dio corrisponde a queste stesse perfezioni (XII, 1-4).

31. Questi termini o queste parole hanno il medesimo significato quando li diciamo di Dio e della creatura, oppure hanno un senso affatto differente?

Hanno il medesìmo significato, ma con una portata più alta. E ciò vuol dire che usati a designare le perfezioni delle creature, le designano nella loro pienezza e dicendo tutto ciò che esse sono; mentre usati a designare le perfezioni divine, ossia ciò che si trova in Dio, se tutto quello che dicono di perfezione si trova verissimamente in Dio, non dicono però tutto quello che sono in Lui le perfezioni che esprimono (XIII, 5).

32. È dunque vero che Dio rimane per noi ineffabile, checché possiamo dire di Lui e per quanto sublimi possano essere le nostre espressioni rispetto a Lui?

Sì; ma intanto noi non possiamo far niente di meglio né di più vero o di più perfetto. che parlare di Lui e di intrattenerci intorno a Lui, per quanto imperfetto riesca su questa terra tutto ciò che possiamo pensare o dire di Lui (XIII, 6-12)-

CAPO III

Operazioni.

33. Che cosa fa Dio in Se Stesso?

Vive della sua conoscenza e del suo amore (XIV-XXVI).

34. Dio conosce tutte le cose?

Sì; Dio conosce tutte le cose (XIV, 5).

35. Dio sa tutto ciò che avviene sulla terra?

Sì; Dio sa tutto ciò che avviene sulla terra (XIV; 11).

36. Dio conosce i segreti dei cuori?

Sì; Dio conosce i segreti dei cuori (XIV, 10).

37. Dio conosce l’avvenire?

Sì; Dio conosce l’avvenire (XIV, 13).

38. Perché dite che in Dio si trova questa scienza?

Perché essendo Dio al sommo grado di immaterialità, è di una intelligenza infinita; e non può niente ignorare di ciò che è o sarà o sarebbe o potrebbe avvenire in qualsivoglia essere, essendo tutto questo come in rapporto di effetto alla causa, a riguardo della sua scienza fatta di intelligenza e di volontà (XIV, art. 1-5).

39. Vi è dunque anche una volontà in Dio?

Sì; in Dio vi è anche una volontà, perché la volontà si trova sempre dove si trova la intelligenza (XIX, 1).

40. Tutto dipende dalla volontà di Dio?

Sì; tutto dipende dalla volontà di Dio, perché essa è la causa prima e suprema di tutto (XIX, 4-6).

41. Dio ama tutte le sue creature?

Sì; Dio ama tutte le sue creature, non avendole create che per amore (XX, 2).

42. L’amore di Dio per le sue creature produce in queste qualche effetto?

Sì; l’amore di Dio per le sue creature produce in queste il suo effetto.

43. Qual è l’effetto dell’amore di Dio nelle sue creature?

È tutto il bene che in esse si trova (XX, 3-4).

44. Dio è giusto?

Sì; Dio è la stessa giustizia (XXI, 1).

45. Perché dite che Dio è la stessa giustizia?

Perché Egli dà ad ogni essere ciò che la sua natura esige (XXI, 1-2).

46. Esiste una forma speciale della giustizia di Dio verso gli uomini?

Sì; esiste una forma speciale della giustizia di Dio verso gli uomini.

47. Quale è la forma special di Dio verso gli uomini?

La forma speciale della giustizia di Dio verso gli uomini è che Egli ricompensa i buoni e punisce i cattivi (XXI, 1 ad 3).

48. Dio ricompensa i buoni e punisce i cattivi su questa terra?

Solamente in parte Dio ricompensa i buoni e punisce i cattivi su questa terra.

49. Dove Dio ricompensa interamente i buoni

e punisce i cattivi?

Dio ricompensa interamente i buoni in Cielo e punisce i cattivi nell’inferno.

50. Vi è in Dio la misericordia?

Sì; in Dio vi è la misericordia (XXI, 3).

51. In che consiste la misericordia di Dio?

La misericordia di Dio consiste in questo, che Egli dà ad ogni essere ben più di quello che la sua natura esige; ricompensa i buoni oltre i loro meriti, e punisce i cattivi al di sotto di quello che meritano (XXI, 4).

52. Dio in Se stesso si occupa del mondo?

Sì; Dio in Se stesso si occupa del mondo.

53. Con qual nome si chiama la cura che Dio ha in Se stesso del mondo?

La cura che Dio ha in Se stesso del mondo si chiama Provvidenza (XXI, 1).

54. La Provvidenza di Dio si estende a tutte le cose?

Sì; la Provvidenza di Dio sì estende a tutte le cose, perché niente esiste nel mondo che Dio non abbia previsto e preordinato da tutta la eternità (XXII, 2).

55. Si estende anche agli esseri inanimati?

Sì; essa si estende anche agli esseri inanimati, perché questi stessi esseri fanno parte dell’opera di Dio (XXII, 2 ad 5).

56. Si estende agli uomini nei loro atti liberi?

Sì; si estende agli uomini nei loro atti liberi (XXI, 2 ad 4).

57. Che cosa intendete col dire che la Provvidenza, di Dio si estende agli uomini nei loro atti liberi?

Con questo io intendo che tutti gli atti liberi degli uomini sono soggetti alla disposizione della divina Provvidenza, e che niente accade in quegli atti che Dio non ordini o permetta, perché la libertà dell’uomo non implica in nessuna maniera la sua indipendenza da Dio (Ibid).

58. La Provvidenza di Dio riguardo ai giusti ha un nome speciale?

Sì; essa si chiama Predestinazione (XXI, 1).

59. Che cosa comporta la Predestinazione rispetto agli nomini che ne sono l’oggetto?

Comporta che questi uomini possederanno un giorno nel cielo la felicità della gloria (XXIII, 2).

60. Come si chiamano coloro che non debbono conseguire tale felicità?

Si chiamano reprobi, ossia non eletti (XXIII, 3)

61. Donde viene che i predestinati avranno questa felicità, mentre i reprobi o non eletti non l’avranno?

Ciò viene da questo, che i predestinati sono stati scelti da Dio o da Dio amati con un amore di preferenza, in virtù del quale Dio disporrà in maniera tale tutte le cose nella loro vita, che finalmente essi giungeranno alla felicità del cielo (XXIII, 4).

62. E perché i reprobi o non eletti non giungeranno finalmente alla stessa felicità?

Perché essi non saranno stati amati col medesimo amore dei predestinati (XXIII, 3 ad 1).

63. Ma questa non è una ingiustizia da parte di Dio?

No; perché Dio non è debitore a nessuno della felicità del cielo, e quelli che la otterranno non la otterranno che per grazia (XXIII, 8 ad 2).

64. Quelli che non la otterranno saranno puniti di non ottenerla?

Non saranno puniti se non in ragione di una colpa da parte loro per non ottenerla (XXIII, 3 ad 8).

65. Come può esservi colpa da parte degli uomini per non conseguire la felicità del cielo?

Può esservi colpa perché Dio avrà offerta questa felicità a tutti, e l’uomo essendo libero avrà potuto non corrispondere all’offerta che Dio gli faceva, oppure disprezzare questa offerta preferendole qualche altra cosa (ibid.).

66. Questo disprezzo oppure la scelta di una cosa contraria, è una ingiuria fatta a Dio?

È una gravissima ingiuria: fatta a Dio e meritevole dei più grandi castighi, quando è effetto di un peccato personale (Ibid.).

67. Coloro che corrispondono al dono di Dio ed arrivano alla felicità del cielo, debbono a Dio stesso di avere corrisposto al suo dono e meritata la propria felicità?

Sì; essi dovranno tutto questo alla scelta della predestinazione divina (XXIII, 8 ad 2).

68. Tale scelta. è avvenuta in Dio da tutta la eternità?

Tale scelta è avvenuta in Dio da tutta la eternità (XXIII, 4).

69. Che cosa comporta questa scelta rispetto a quelli che ne sono l’oggetto?

Comporta che Dio ha stabilito per essi una sede in cielo, e per l’azione della sua grazia li metterà in grado di possederla un giorno. (XXIII, 5-7).

70. Che cosa debbono fare gli uomini al pensiero di questa scelta eterna della Predestinazione?

Essi debbono con un completo abbandono all’azione della grazia dare a se stessi, in quanto è possibile su questa terra, la certezza di essere nel numero dei predestinati (XXIII, 8)

71. Dio è onnipotente?

Sì; Dio è onnipotente (XXV, 1-6).

72. Perché dite che Dio è onnipotente?

Perché essendo Dio l’essere stesso, tutto ciò che non ripugna ad esistere gli è soggetto (XXV, 3).

73. Dio è felice?

Sì; Dio è la stessa felicità, perché gode all’infinito del bene infinito che non è altri che Lui (XXVI, 1-4).

LA SUMMA PER TUTTI (3)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (X)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (X)

INTERPRETAZIONE DELL’APOCALISSE

Che comprende LA STORIA DELLE SETTE ETÁ DELLA CHIESA CATTOLICA.

DEL VENERABILE SERVO DI DIO BARTHÉLEMY HOLZHAUSER

RESTAURATORE DELLA DISCIPLINA ECCLESIASTICA IN GERMANIA,

OPERA TRADOTTA DAL LATINO E CONTINUATA DAL CANONICO DE WUILLERET,

PARIS – LIBRAIRIE DE LOUIS VIVÈS, ÉDITEUR RUE CASSETTE, 23 – 1856

LIBRO TERZO

SUI CAPITOLI SEI E SETTE

Apertura e spiegazione dei sette sigilli; della consolazione per la Chiesa trionfante e militante delle tribolazioni passate

SEZIONE I.

SUL CAPITOLO VI.

DELL’APERTURA E DELLA SPIEGAZIONE DEI PRIMI SEI SIGILLI.

I. San Giovanni, dopo aver descritto a sufficienza la natura della Chiesa di Gesù Cristo, la costituzione universale del suo regno e la maestà che ne deriva con la rivelazione divina che gli è stata fatta, passa a descrivere in dettaglio i particolari che segnaleranno il progresso della Chiesa fino alla consumazione dei tempi. Egli enumera, per esempio, le orribili persecuzioni, le eresie, i regni dei tiranni; così come le consolazioni che la Chiesa riceverà, ciascuna a suo tempo. Tutte queste cose sono rivelate all’apertura dei sette sigilli. Ma prima di cominciare, è opportuno osservare qui: 1° Che i cavalli e coloro che li cavalcano significano, in questa descrizione, una guerra spirituale tra il regno di Cristo ed il regno di questo mondo.

2. L’apostolo raffigura quattro tipi di cavalieri, per significare che questa guerra spirituale avrà luogo nelle quattro parti del mondo. 3. Egli divide questa guerra generale in due periodi principali: a. quello dei Giudei e dei Gentili; e b. quello degli eretici e dell’Anticristo, fino alla consumazione dei tempi. La prima era è contenuta e descritta nell’apertura dei primi sei sigilli; e la seconda nel settimo ed ultimo, come dimostrerà il seguito. 4 ° Le voci dei quattro Evangelisti sono aggiunte qui come testimonianza della verità che deve essere predicata nelle quattro parti del mondo, ed è questa testimonianza che sarà l’occasione di di tutte le guerre e le persecuzioni dei tiranni.

§ 1.

Dell’apertura dei primi quattro sigilli e dei quattro cavalieri che furono mostrati a San Giovanni all’apertura di questi sigilli.

CAPITOLO VI. – VERS. 1-8 .

Et vidi quod aperuisset Agnus unum de septem sigillis, et audivi unum de quatuor animalibus, dicens tamquam vocem tonitrui: Veni, et vide. Et vidi: et ecce equus albus, et qui sedebat super illum, habebat arcum, et data est ei corona, et exivit vincens ut vinceret. Et cum aperuisset sigillum secundum, audivi secundum animal, dicens: Veni, et vide. Et exivit alius equus rufus: et qui sedebat super illum, datum est ei ut sumeret pacem de terra, et ut invicem se interficiant, et datus est ei gladius magnus. Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal, dicens: Veni, et vide. Et ecce equus niger: et qui sedebat super illum, habebat stateram in manu sua. Et audivi tamquam vocem in medio quatuor animalium dicentium: Bilibris tritici denario et tres bilibres hordei denario, et vinum, et oleum ne læseris. Et cum aperuisset sigillum quartum, audivi vocem quarti animalis dicentis: Veni, et vide. Et ecce equus pallidus: et qui sedebat super eum, nomen illi Mors, et infernus sequebatur eum, et data est illi potestas super quatuor partes terræ, interficere gladio, fame, et morte, et bestiis terræ.

[E vidi come l’Agnello aveva aperto uno dei sette sigilli, e sentii uno dei quattro animali che diceva con voce quasi di tuono: Vieni, e vedi. E mirai: ed ecco un caval bianco, e colui che v’era sopra aveva un arco, e gli fu data una corona, e uscì vincitore per vincere. E avendo aperto il secondo sigillo, udii il secondo animale che diceva: Vieni, e vedi. E uscì un altro cavallo rosso: e a colui che v’era sopra fu dato di togliere dalla terra la pace, affinché si uccidano gli uni e gli altri, e gli fu data una grande spada. E avendo aperto il terzo sigillo, udii il terzo animale che diceva: Vieni, e vedi. Ed ecco un cavallo nero: e colui che v’era sopra aveva in mano una bilancia. E udii come una voce tra i quattro animali che diceva: Una misura di grano per un denaro, e tre misure d’orzo per un denaro, e non far male al vino, né all’olio. E avendo aperto il quarto sigillo, udii la voce del quarto animale che diceva: Vieni, e vedi. Ed ecco un cavallo pallido: e colui che vi era sopra ha nome la Morte, e le andava dietro l’inferno, e le fu data potestà sopra la quarta parte della terra per uccidere colla spada, colla fame, colla mortalità e colle fiere terrestri.]

I. L’apertura del primo sigillo è la spedizione bellica di Gesù Cristo, il quale, venendo in questo mondo per fargli guerra, decretò con le più giuste ragioni di sottometterlo al suo potere e di piegare sotto il giogo della fede tutti i suoi nemici. L’esercito che inviò in tutto il mondo a questo scopo era composto dai dodici Apostoli e dall’assemblea di tutti i fedeli. Perciò San Giovanni dice:

Vers. 1. – E vidi, nell’immaginazione e nello spirito, che l’Agnello aveva aperto ed eseguito l’uno, il primo ed il principale dei sette sigilli, secondo la volontà del Padre suo, che ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, fatto uomo, e lo costituì Re dell’universo. Ma poiché né i Giudei né i Gentili lo avrebbero ammesso, Cristo fu obbligato a prendere l’offensiva e a fare la guerra contro di loro con il suo esercito, per poter entrare nel suo regno e nella sua gloria. Ed io intesi, ancora in immaginazione e in spirito, l’uno, il primo, dei quattro animali, cioè dei quattro Evangelisti; e cioè, San Matteo, che dice nello stesso capitolo in cui descrive la terribile guerra che Gesù Cristo conduceva contro il mondo: « Ecco, io vi invio come pecore in mezzo ai lupi. » E udii una dei quattro animali che diceva come con voce di tuono: in effetti San Matteo, il primo testimone della verità evangelica, annuncia a gran voce la terribile guerra che seguirà la predicazione del Vangelo, … dicendo: Vieni e vedi. Questo è un modo di parlare per attirare l’attenzione di qualcuno su qualcosa. Ho guardato, in spirito e nell’immaginazione.

Vers. 2. – E vidi un cavallo bianco. E colui che vi sedeva sopra aveva un arco, e gli fu data una corona, ed egli uscì vittorioso per conquistare.

II. Questo testo descrive il generale in capo di questo esercito e il suo potere e la sua forza. E ho visto un cavallo bianco. Questo cavallo è l’assemblea degli Apostoli e dei discepoli di Cristo. Si dice che sia bianco per metafora, a causa del candore, della purezza, della verità, della semplicità e della santità del suo esercito. Perché come il cavallo bianco deriva il suo nome e colore dal candore dei suoi crini, così i Santi ottengono la loro santità, il candore della loro purezza, dalla grazia santificante. Sono paragonati ad un cavallo, a causa della forza e della velocità con cui hanno viaggiato in tutto il mondo in un tempo molto breve ed hanno predicato il Vangelo ed il nome di Nostro Signore Gesù Cristo. Queste parole si applicano a Cristo, che è il grande Condottiero di questa guerra, e che è rappresentato come seduto sopra i suoi, che dirige con il freno del timore del Signore, e sprona con gli stimoli dell’amore per Dio e per il prossimo, e con l’aiuto della sua santa Grazia, di cui gli Apostoli e gli altri discepoli della Chiesa primitiva erano abbondantemente forniti. L’arco designa la virtù e le armi con cui Cristo doveva combattere i suoi nemici. Queste armi sono la predicazione ed i miracoli. Infatti Cristo dirigeva la predicazione degli Apostoli come l’arco dirige la freccia verso la sua meta, Marco, XVI, 20: « Essi partirono e predicarono ovunque, il Signore operava con loro e confermava la sua parola con i miracoli che l’accompagnavano. » L’efficacia e la potenza invincibile della parola è espressa di nuovo nella Lettera agli Ebrei, IV, 12: « La parola di Dio è viva ed efficace, e più penetrante di una spada a doppio taglio. » E gli fu data una corona, che significa il potere regale, perché a Cristo è stato dato tutto il potere in cielo e in terra. Gesù Cristo è dunque il Re dei re, il Signore dei dominatori, ed ha ricevuto da suo Padre la corona del regno eterno, la corona della vittoria che ha ottenuto, nella sua risurrezione e ascensione, su tutti i re, sui tiranni di questo mondo e su tutte le potenze infernali. E uscì su quel cavallo bianco con i suoi Apostoli e discepoli, per andare attraverso il mondo come un conquistatore, e per sottomettere i suoi avversari. Si recò prima in Giudea, dove in un giorno il suo Apostolo San Pietro convertì tremila uomini, (Act. II), e in un altro giorno cinquemila, (Atti IV), … Egli partì … per conquistare il mondo intero, portando i governanti delle nazioni sotto il suo dominio e sotto il giogo della fede. Perché in breve tempo, attraverso la predicazione degli Apostoli e degli altri discepoli il Signore « che agiva con loro e confermava la sua parola con i miracoli che l’accompagnavano », il Vangelo fu predicato e la fede cattolica si diffuse fino alle estremità della terra, già durante la vita di San Pietro, come si vede nella storia e negli Atti degli Apostoli, e come è annunciato nel libro dei Salmi, (XVIII, 4): « Il suo splendore si diffuse in tutto l’universo; risuonò fino ai confini della terra. »

Vers. 3 e 4.E quando ebbe aperto il secondo sigillo, sentii il secondo animale dire: “Vieni e vedi”. E subito uscì un altro cavallo rosso; e fu dato a colui che lo cavalcava di bandire la pace dalla terra e di consegnare gli uomini alla spada gli uni degli altri; e gli fu data una grande spada. Con queste parole, l’Apostolo descrive il primo ed e uno dei più terribili tiranni della Chiesa, Domiziano Nerone, che osò, su istigazione di satana, fare guerra agli Apostoli ed attaccare i Cristiani, che sono l’armata di Gesù Cristo. Questo crudele nemico diede alle fiamme, nel buio della notte, gran parte della città di Roma per il piacere di rappresentare l’incendio di Troia. Egli approfittò di questa occasione per accusare i cristiani di Roma, ed eccitare contro di loro la prima persecuzione, che infuriò soprattutto nella città. Il suo odio arrivava al punto di servirsi come giocattoli delle vittime che cadevano. Li si vestiva con pelli di animali, per eccitare la furia dei cani contro di essi; o li si crocifiggeva, venivano cosparsi di pece per servirsene come torce notturne. Il nutmero di Cristiani stati bruciati in questa persecuzione, fu così grande che era impossibile per loro essere salvati. Il numero di Cristiani bruciati in questa persecuzione fu così grande che il grasso umano ne lasciava traccia scorrendo nell’arena degli anfiteatri. Questo crudele tiranno fece morire San Pietro, San Paolo, Seneca, il suo precettore, e non risparmiò nemmeno sua madre, né sua moglie, né suo fratello e le sue sorelle. L’Apostolo, quindi, applica giustamente a lui la descrizione data sopra. E quando ebbe aperto il secondo sigillo, io intesi il secondo animale che diceva: “vieni e vedi”. Questo secondo animale è San Luca, che qui testimonia la verità dei santi martiri che Nerone fece sgozzare; infatti, è stato detto sopra che questo animale era come un vitello, poiché il suo Vangelo inizia con il sacerdozio, per cui i vitelli venivano sacrificati come ostia gradita al Signore Dio. E così i giusti ed i Cristiani furono sacrificati dagli empi, e il loro sangue e la loro morte furono un sacrificio molto gradito a Dio Padre, attraverso il suo Figlio Gesù, che fu immolato per tutti noi.

III. Vers. 4. – E subito uscì un altro cavallo rosso.  Questo cavallo è il popolo romano sotto Domiziano-Nerone. È chiamato propriamente rosso a causa dell’incendio della città di Roma e del rogo di tanti Cristiani; inoltre, a causa dello spargimento del loro sangue, come è stato detto sopra. E fu dato a colui che vi sedeva sopra, cioè Dio permise all’imperatore Nerone, che sedeva a Roma nell’anno 53, di essere così crudele con i Cristiani. È nello stesso senso che Gesù Cristo disse a Pilato, (Jo. XIX, 11): « Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. » – E fu dato a colui che lo montava di bandire la pace dalla terra, 1° nei confronti dei Cristiani che egli aveva perseguitato e messo in fuga. soprattutto a Roma ed ancora altrove. 2°. Anche a quanto riguardo del suo impero, che era turbato da malefici, crudeltà, carneficine e cieca tirannia. Per questo si dice di lui che ha bandì la pace della terra che Ottaviano Augusto aveva dato a tutto l’universo. E per consegnare gli uomini alla spada, gli uni degli altri.  Questo si verificò in occasione della sua perfidia. Nerone fu assassinato, Sergio Galba, il maggiore, usurpò l’impero ed adottò come figlio Pisone il Giovane, di costumi corrotti, che designò come suo successore. Quest’ultimo fu ucciso nel foro dai soldati del fazioso Ottone. Tre mesi dopo, lo stesso Ottone, sconfitto dall’esercito di Vitellio, si diede la morte da sé. E l’anno non è ancora finito che Vitellio, sconfitto in tre battaglie combattute a Roma dai partigiani di Vespasiano, fu trascinato nudo per le strade della città, sgozzato e infine gettato nel Tevere. E gli si diede una grande spada, cioè il potere di uccidere i Cristiani. infatti Nerone fu il primo degli imperatori romani a sollevare la persecuzione contro la Chiesa, e ad uccidere i principali Apostoli, Pietro e Paolo, e un gran numero di Cristiani sia nella città che in tutto l’impero.

IV . Vers. 5. Quando ebbe levato il terzo sigillo, udii il terzo animale dire: “Vieni e vedi”; ed ecco un cavallo nero, e colui che vi sedeva sopra aveva in mano una bilancia.

Vers. 6. E udii una voce come di mezzo ai quattro animali, che diceva: Una misura di frumento è venduta per una dracma, e tre misure d’orzo per una dracma. Non  rovinate il vino e l’olio.  – Queste parole descrivono il sacco della città di Gerusalemme e lo sterminio della sinagoga dei Giudei, che doveva avvenire per adempiere la parola di Cristo. (Matth. XXIII e Lc. XIII). Quando ebbe sollevato il terzo sigillo, udii il terzo animale dire: “Vieni e vedi”. – Con questo terzo animale si intende l’evangelista San Marco, che è stato paragonato sopra ad un leone, perché il suo Vangelo inizia con la predicazione della penitenza di San Giovanni Battista ai Giudei, che rigettarono la sua parola come rifiutarono quella di Gesù Cristo stesso. È dunque per una giusta conseguenza della durezza dei loro cuori che Cristo rivela qui a San Giovanni questo castigo e lo sterminio della nazione e della sinagoga dei Giudei. Ed ecco un cavallo nero. Questo cavallo nero è la città di Gerusalemme con i suoi abitanti. È nero: 1° a causa della cecità dei Giudei e della sinagoga, che uccisero il nostro Signore Gesù Cristo, rifiutarono di credere nella sua divinità e resistettero allo Spirito Santo, anche dopo aver assistito alla risurrezione del Salvatore. 2°. Questo cavallo è nero a causa della carestia inaudita che, secondo il rapporto dello storico giudeo Giuseppe, uccise fino a 1.100.000 anime a Gerusalemme. Tito, figlio di Vespasiano, bloccò la città e la circondò con un muro di quaranta stadi (5.000 passi, circa due leghe), e costruì tredici forti fuori dalle mura, ognuno di 1.250 passi di circonferenza, per ridurre più facilmente gli abitanti. Quest’opera immensa fu terminata in tre giorni, cioè con una velocità ben al di là delle forze umane, in modo che la parola di Cristo potesse compiersi. (Luca, XIX, 43): « Poiché i giorni verranno su di te, ed i tuoi nemici ti circonderanno di mura, e ti chiuderanno dentro, e ti schiacceranno da ogni parte. E ti getteranno a terra, te ed i tuoi figli che sono in te, e non lasceranno in te pietra su pietra. » –  Questo è ciò che si adempì alla lettera, quando Tito rivoltò la città di Gerusalemme da cima a fondo e la occupò. E colui che lo montava fu Flavio Vespasiano, che salì sul trono dell’impero nell’anno di Gesù Cristo 69. Fu suo figlio ad assediare la città ed a portare la città e tutta la nazione giudaica sotto il suo potere nell’anno 79. … e aveva in mano una bilancia. Era la bilancia della giustizia divina, di cui era l’esecutore. Perché fu per ordine di Dio che questo figlio di Vespasiano distrusse miseramente la nazione giudaica con la carestia, con la spada e con la cattività, per punirli della loro incredibile malizia e crudeltà, e per vendicare la morte di Gesù Cristo. (Luca, XIX, 44). – Questa vendetta non era, infatti, lo scopo di Tito e del suo esercito, perché essi rovinassero questa nazione perché si era ribellata all’impero romano, come vediamo nella storia di Giuseppe, (De bello Jud.). Perciò il testo dice: Aveva una bilancia in mano, non nella sua mente o nella sua intenzione e volontà. Perché lui era solo lo strumento della giustizia divina, che usava la mano di Tito per eseguire i suoi decreti. E udii una voce come dal mezzo dei quattro animali, che diceva, ecc. Queste parole contengono la sentenza di condanna pronunciata dalla giustizia divina contro il popolo giudaico, a causa del suo unico senza pari. – Ed ho sentito una voce, la voce della giustizia divina, come dal mezzo dei quattro animali, bestie, cioè dal trono di Dio, attorno al quale vi sono i quattro animali, sia nel regno militante che nel regno trionfante di Cristo. E udii una voce come dal mezzo dei quattro animali, cioè i quattro animali pronunciarono questa sentenza di giustizia divina, nella loro illustre veste di arcicancellieri del regno di Gesù Cristo. Queste parole mostrano anche che Tito, in ciò che fece contro i Giudei, era solo l’esecutore della vendetta divina: perché è da Dio solo che viene la punizione dei crimini. (Amos, III, 6): « Si farà forse del male nella città, che non l’abbia fatto il Signore? » – Una misura di grano è venduta per una dracma, e tre misure di orzo per una dracma. Per comprendere queste parole, dobbiamo notare ciò che Ugo di Firenze dice sulla fine della guerra romana contro i Giudei: « I romani, stanchi finalmente di tanta carneficina, cercarono di vendere i loro prigionieri come schiavi. Ma, poiché c’erano molti più venditori che compratori, si videro presentare spesso casi in cui si consegnavano fino a trenta schiavi Giudei per un pezzo d’argento. I Giudei avevano comprato il loro Padrone per trenta denari. Così, invece, ed al contrario, se ne vendettero fino a ben trenta per un solo denaro ». – 2°. Bisogna anche notare che la parola del testo latino bilibris è composta da bis, due, e libra, libbre, cioè due libbre che compongono un denaro. – 3 ° Infine, si deve sapere che cinque Giudei designano un libro, perché i cinque libri di Mosè furono accettati da tutti i Giudei e da ciascuno di loro in particolare. Gli altri libri, chiamati Sadducei, non sono accettati dai Giudei. – 4°. Il grano significa il più potente, il più abile e il più nobile dei Giudei; l’orzo, invece, che è un tipo di grano inferiore, indica la classe bassa di questo popolo. – 5 ° Con il vino e con l’olio, che il testo raccomanda di non alterare, intendiamo i Cristiani che furono effettivamente risparmiati dall’esercito di Tito. Infatti, prima dell’assedio di Gerusalemme, i Cristiani che erano in città e in Giudea furono avvertiti da un Angelo e attraversarono il Giordano per rifugiarsi nella città di Pella, che faceva parte del regno di Agrippa, alleato dei Romani. Inoltre, il vino significa metaforicamente la carità verso Dio, e l’olio, la carità verso il prossimo. Da tutto quello che si è appena detto, si può capire questo passaggio: La misura di grano, cioè dieci tra principali dei Giudei, è venduta per una dracma, e tre misure d’orzo, cioè trenta persone del basso popolo, una dracma. Non rovinare il vino e l’olio, cioè i Cristiani dovevano essere perseverati.

V. Vers. 7. – Quando ebbe sollevato il quarto sigillo, udii la voce della quarta bestia che diceva: “Vieni, e vedi”.

Vers. 8. –  Ed ecco un cavallo pallido, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte, e l’inferno lo seguiva, e gli fu dato il potere sulle quattro parti della terra di uccidere gli uomini con la spada, con la carestia, la mortalità e le bestie selvatiche. – Dopo che la nazione giudaica, acerrima nemica di Gesù Cristo e di tutti i Cristiani, fu sconfitta e distrutta, Domiziano sollevò la seconda persecuzione generale e scatenò una guerra crudele contro il Cristianesimo. Quando ebbe tolto il quarto sigillo, sentii la voce del quarto animale che diceva: “Vieni e vedi”. Questa è la persona stessa di San Giovanni Evangelista, considerata in particolare, come occupante il quarto posto di onore e dignità nel regno militante e trionfante di Cristo, e come confermante, con la sua testimonianza la verità del Vangelo. Ed ecco un cavallo pallido. È il popolo romano che è pallido per la paura del tiranno Domiziano, un principe crudele e avido. Questo imperatore spinse la sua furia fino a farsi chiamare Dio. Inoltre, mandò in esilio o fece massacrare un gran numero di senatori e nobili, imputando loro dei crimini per impadronirsi dei loro beni. Di conseguenza, tutto il resto del popolo, sia a Roma che nelle province, concepì il più grande timore di essere trattato nello stesso modo. Ora, siccome la paura produce il pallore, qui si dice veramente che il popolo romano di allora assomigliava a un cavallo pallido. E colui che la cavalcò, l’imperatore Domiziano, che fu elevato all’impero nell’anno di Gesù Cristo 81, fu chiamato Morte: 1°. Perché, come è stato detto, fece massacrare un gran numero di innocenti, soprattutto Cristiani, contro i quali sollevò la seconda persecuzione, che può essere considerata una continuazione e conseguenza di quella di Nerone. 2°. Perché gli fu teso un agguato e fu ucciso egli stesso dal liberto del console Clemente, che egli aveva condannato con il pretesto di empietà; e così scomparve e la sua stessa memoria fu cancellata. E l’inferno lo seguiva. Cioè, essendo morto nella sua empietà in modo improvviso e imprevisto, questo disgraziato fu gettato nelle voragini dell’inferno. E gli fu dato il potere sulle quattro parti della terra, in cui si estendeva allora l’Impero Romano, di uccidere gli uomini con la spada, con la carestia, con la moria e con le bestie selvatiche. Queste parole mostrano la crudeltà di questa persecuzione attraverso la varietà dei tormenti ed i vari tipi di morte che l’accompagnavano. Questo tiranno fece morire gli uomini. 1°. Con la spada. Fu per suo ordine, infatti, che un gran numero di Cristiani morirono di spada in tutte le parti del suo impero. 2° Con la fame, poiché molti morirono in prigione, divorati dalla fame. 3° con la mortalità. Queste parole designano in generale i diversi supplizi che si inflissero ai Cristiani per metterli a morte: li si impiccava, si affogavano, venivano bruciati e soffocati. 4°. E con le bestie selvatiche, cioè si dilettarono in quel particolare tipo di tormento che consisteva nell’esporre i Cristiani per scherno e per divertimento ad essere divorati dalle bestie feroci. Basta leggere, per esserne convinti, le storie ecclesiastiche, il martirologio e le vite dei Santi.

§ II.

Sull’apertura del quinto sigillo.

CAPITOLO VI. – VERSETTI 9-11.

Et cum aperuisset sigillum quintum, vidi subtus altare animas interfectorum propter verbum Dei, et propter testimonium, quod habebant: et clamabant voce magna, dicentes: Usquequo Domine (sanctus et verus), non judicas, et non vindicas sanguinem nostrum de iis qui habitant in terra? Et datæ sunt illis singulae stolae albæ: et dictum est illis ut requiescerent adhuc tempus modicum donec compleantur conservi eorum, et fratres eorum, qui interficiendi sunt sicut et illi.

[E avendo aperto il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di quelli che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testimonianza che avevano, e gridavano ad alta voce, dicendo: Fino a quando. Signore santo e verace, non fai giudizio, e non vendichi il nostro sangue sopra coloro che abitano la terra? E fu data ad essi una stola bianca per uno: e fu detto loro che si dian pace ancor per un poco di tempo sino a tanto che sia compito il numero dei loro conservi e fratelli, i quali debbono essere com’essi trucidati.]

Vers. 9. – All’apertura del quinto sigillo ho visto sotto l’altare le anime di coloro che hanno dato la loro vita per la parola di Dio e per renderne testimonianza.

Vers. 10. E tutti gridarono a gran voce, dicendo: “O Signore, che sei santo e verace, fino a quando tarderai a giudicare e a vendicare il nostro sangue su coloro che abitano sulla terra?

Vers. 11. – E a ciascuno di loro fu data una veste bianca. E fu detto loro di riposare ancora un po’, finché il numero di coloro che servivano Dio come loro fosse completato, così come il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte come loro.All’apertura del quinto sigillo, vediamo la continuazione delle persecuzioni contro i Cristiani, persecuzioni che continuarono dall’imperatore Traiano a Diocleziano, cioè per lo spazio di duecento anni. Infatti, nell’anno 98 d.C. Ulpio Traiano, di origine spagnola, sollevò la terza persecuzione contro la Chiesa di Cristo. Questo principe immaginava di aver ottenuto il suo trono da Giove stesso, che aveva sempre venerato con grande pietà; e siccome era pure molto superstizioso nel culto degli idoli, fu il primo a richiamare l’antica religione alla memoria del senato, facendosi un dovere di preservarla. il primo a ricordare al senato l’antica religione e a farne un dovere di conservazione, perché a quel tempo, secondo Giovenale e Plutarco, i Cristiani si stavano moltiplicando in tutto il mondo e gli idoli stavano cadendo nell’oblio e nel disprezzo, le vittime non trovavano più compratori e la maggior parte degli oracoli erano diventati muti. Questo è ciò che diede origine alla terza persecuzione dei Cristiani. La Chiesa, tuttavia, godette di un momento di riposo sotto Adriano ed Antonino Pio, che non emise alcun editto contro di essa. Ma nell’anno di Cristo 161, Marco Aurelio Antonio, salito al trono, scatenò una nuova tempesta contro il Cristianesimo, e questa quarta persecuzione portò via Policarpo, Giustino ed un numero considerevole di fedeli. Sotto i principi Commodo, Antonio, Elio, Pertinace e Tito Giuliano, la Chiesa fu di nuovo in pace per un periodo, fino al regno di Settimio Severo, nell’anno 193. Allora iniziò la quinta persecuzione, in cui morì, tra gli altri, Sant’Ireneo. Questo tiranno era così terribile che molti fedeli lo consideravano l’Anticristo. Antonio Bassanio Caracalla, Macrino, Heliogabalo e Marco Aurelio Severo non esercitarono alcuna nuova ostilità. L’autore della sesta persecuzione fu Giulio Massimiano. Questa venne attribuita alla grande gelosia di questo principe contro la famiglia alessandrina, diversi membri della quale professavano la fede di Gesù Cristo. Egli salì al trono nell’anno 235. Decio, un altro acerrimo nemico dei Cristiani, iniziò a regnare nell’anno 249, e fu l’autore della settima persecuzione. Dio la permise a causa del lassismo della disciplina ecclesiastica. Questo è chiaramente dimostrato da San Cipriano, un testimone oculare, nella sua opera Liber de lapsis, quando dice: « Sono venuti i tormenti, tormenti infiniti senza via d’uscita, che non procurano il sollievo della morte. Supplizi che non conducono facilmente alla corona di gloria, ma che fanno gemere le vittime fino a indebolirle, tranne alcune che Dio, nella sua misericordia, si degna di chiamare alla gloria eterna con una morte più rapida della tortura. » Gregorio di Nissa, il taumaturgo, dice anche: « Il potere civile non ha omesso alcun mezzo, né pubblico né privato, per catturare i fedeli e punire coloro che praticavano le massime della fede. – Si metteva tutto in opera, il terrore delle minacce, e l’infinita varietà dei supplizi: la spada, il fuoco, i pozzi, gli strumenti e i dispositivi per strappare le membra, le sedie di ferro arroventate dal fuoco, i cavalletti, gli artigli di ferro, ed altri innumerevoli tormenti venivano costantemente escogitati per terrorizzare gli uomini, ancor prima di essere messi alla prova. L’unica preoccupazione di coloro che esercitavano il loro potere in questo modo era che non si potesse superare la loro raffinatezza e scelleraggine. Gli uni si facevano denunciatori, altri giudici ed altri ancora inquisitori di coloro che fuggivano. Questi tiranni gettano occhi bramosi sui beni dei fedeli per impadronirsene; oppure perseguivano, con un pretesto di pietà e religione, quelli che abbracciavano la fede. » – Un gran numero di Cristiani furono costretti ad abbandonare la loro patria ed a ritirarsi nelle solitudini delle montagne e nelle regioni deserte. Tra questi, viene menzionato Paolo, il principe degli anacoreti. Inoltre, molti di questi sventurati rinunciarono alla fede in questa persecuzione, alcuni sacrificando pubblicamente agli idoli, ed altri, pur senza rinnegare direttamente la religione, accettarono i libelli per debolezza (Certificati per mezzo dei quali alcuni Cristiani si ripararono mettevano al riparo dalle persecuzioni) dai prefetti e dagli impiegati civili, per non essere costretti a sacrificare pubblicamente agli dei. Nell’anno 254, Licinio Valerio divenne imperatore e, seguendo il consiglio di un mago d’Egitto, ordinò l’ottava persecuzione, in cui morì San Cipriano, vescovo di Cartagine. Questa persecuzione fu così grave che Dionigi di Alessandria (Apud Eusebium, Hist. 1. 7, c. 9.) credeva che il più terribile dei tempi fosse arrivato, e che la profezia sull’anticristo, contenuta nell’Apocalisse di San Giovanni, si fosse avverata in Valerio. La nona persecuzione ebbe luogo sotto Galliano nell’anno 262. – Varie calamità, tuttavia, lo costrinsero a rallentare la sua furia. Ma questa persecuzione fu riaccesa nell’anno 272 da Valerio Aureliano, che la continuò. Ci furono molti altri imperatori intermedi che regnarono tra di questi tiranni, e sotto i quali molti Cristiani ottennero la corona del martirio; ma sono da distinguere da quelli che abbiamo menzionato, perché attaccarono e perseguitarono più che altro la Chiesa con gli editti che emanarono o rinnovarono, mentre quelli non lo facevano. Questo era il volto della Chiesa, che per un lasso di trecento anni nuotò continuamente nel sangue dei suoi martiri, e questo, per un sorprendente permesso di Dio contro i suoi amici ed il suo Sposo che gli è sì caro. Queste persecuzioni ci spiegano quel grande grido e stupore dei santi di Dio sotto l’altare, di cui si parla nel seguito.

Vers. 9All’apertura del quinto sigillo, cioè di queste persecuzioni quasi continue, ho visto, in immaginazione e in spirito, sotto l’altare, le anime di coloro che hanno dato la loro vita, cioè le anime dei martiri, i cui corpi giacevano sotto l’altare. È un modo di parlare che troviamo in Esodo (I, 5): « Tutte le anime (cioè tutti gli uomini) che sono nati da Giacobbe, ecc. » Sotto il regno di questi tiranni non c’erano chiese o altari fissi, ma altari di legno che venivano eretti in luoghi segreti, soprattutto nelle cripte dei martiri, dove venivano deposti i loro corpi. Ecco perché l’Apostolo dice di aver visto, sotto l’altare, le anime di coloro che avevano dato la loro vita per la parola di Dio. Queste parole si applicano ai dottori che hanno subito il martirio per la predicazione della parola di Dio e per averne dato testimonianza.  Lo stesso si dice dei semplici fedeli che furono sacrificati, perché, lungi dal voler rinnegare Gesù Cristo, proclamavano a gran voce di credere in Lui.

Vers. 10. – E tutti gridarono con un grande urlo, dicendo, ecc. Queste parole devono essere interpretate moralmente, come è detto in Genesi, IV, 10: « La voce del sangue di tuo fratello grida dalla terra a me. » Ora, la voce del sangue innocente dei martiri grida al Signore ancora più forte, perché la persecuzione ed il potere degli empi era più generale, più crudele e più lungo. Tutti questi martiri gridavano forte, dicendo: “Signore, che sei santo e verace, fino a quando ritarderai?” Cioè, fino a quando tu, Signore, che sei santo e verace, che sei giusto, che vedi l’iniquità degli empi, permetterai che gli innocenti siano puniti? Queste parole esprimono grande stupore che Dio permetta che la sua amata e santa Chiesa nuoti nel sangue di così tanti martiri per tre secoli, mentre gli empi trionfano. Questo stato dei santi dovrebbe insegnarci a soffrire per il nome di Gesù; e questo passaggio ci mostra che Dio non mostra sempre il suo amore in questo mondo con consolazioni e prosperità, ma spesso, al contrario, con tribolazioni, persecuzioni e il disprezzo degli uomini.  Signore, che sei santo e verace, fino a quando ritarderai a giudicare e a vendicare il nostro sangue su coloro che abitano sulla terra? cioè sui tiranni ed i loro ministri che governano il mondo.

Vers. 11.E a ciascuno di loro fu data una veste bianca. Queste vesti bianche significano la gloria celeste che fu data ad ogni martire e santo, secondo la misura dei loro meriti. Ecco perché è detto nel testo che una veste bianca fu data a ciascuno, cioè la gloria eterna a ciascun martire in particolare. Fu detto loro di riposare ancora un po’, finché il numero di coloro che servivano Dio come loro non fosse stato completato, così come il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte come loro. – Con queste parole, Dio consola la sua Chiesa, di cui i santi martiri erano i rappresentanti, appellandosi e rivendicando la giustizia divina, e le promette il riposo, che la Chiesa ha effettivamente ottenuto poi sotto Costantino il Grande. È fu detto loro, cioè che questi martiri hanno ricevettero una risposta divina. 1° Riguardo alla Chiesa militante, fu detto loro di essere pazienti e di sottomettersi alla volontà divina, che si è compiaciuta da tutta l’eternità di permettere queste persecuzioni per la maggior gloria dei suoi servi. Inoltre, è stato detto loro, di aspettare ancora un po’, fino all’ultima persecuzione, che fu la più crudele di tutte, e che fu sollevata da Diocleziano e Massimiano, come vedremo più avanti. Fino a quando il numero di coloro che hanno servito Dio come loro, così come il numero dei loro fratelli, cioè, fino a quando il numero degli altri martiri che avevano servito Dio come loro nel ministero di Cristo, e dei loro fratelli nell’amore di Gesù Cristo, e che dovevano soffrire la morte al tempo di Diocleziano, nell’ultima delle dieci principali persecuzioni, così come pure quelli che furono sacrificati nelle persecuzioni precedenti, fosse stato completato. 2º Questi martiri hanno ricevuto una risposta divina sulla Chiesa trionfante. Fu detto loro che dovevano riposare, che i loro corpi dovevano rimanere  nei loro sepolcri ancora per un po’, fino al giorno dell’ultimo giudizio. Un po’ più a lungo, vale a dire che questo tempo è breve rispetto all’eternità. (I Giov. 2,18): « Figlioli, questa è l’ultima ora. » È allora che questi martiri risorgeranno con corpi gloriosi e riceveranno la seconda veste,  che è la gloria del corpo. Fu detto loro di riposare ancora un po’, fino a quando il numero di coloro che servivano Dio come loro fosse completato, così come il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte, cioè fino alla consumazione dei secoli, in modo che tutti fossero sacrificati come loro per il nome di Gesù Cristo.

§ III.

L’apertura del sesto sigillo.

CAPITOLO VI. – VERSETTI 12-17.

Et vidi cum aperuisset sigillum sextum: et ecce terraemotus magnus factus est, et sol factus est niger tamquam saccus cilicinus: et luna tota facta est sicut sanguis: et stellæ de cælo ceciderunt super terram, sicut ficus emittit grossos suos cum a vento magno movetur:   et cælum recessit sicut liber involutus: et omnis mons, et insulæ de locis suis motæ sunt: et reges terræ, et principes, et tribuni, et divites, et fortes, et omnis servus, et liber absconderunt se in speluncis, et in petris montium: et dicunt montibus, et petris: Cadite super nos, et abscondite nos a facie sedentis super thronum, et ab ira Agni: quoniam venit dies magnus irae ipsorum: et quis poterit stare?

[E vidi, aperto che ebbe il sesto sigillo: ed ecco si fece un gran terremoto, e il sole diventò nero, come un sacco di pelo: e la luna diventò tutta come sangue: “e le stelle del cielo caddero sulla terra, come il fico lascia cadere i suoi fichi acerbi quand’è scosso da gran vento. E il cielo si ritirò come un libro che si ravvolge, e tutti i monti e le isole furono smosse dalla sede: e i re della terra, e i principi, e i tribuni, e i ricchi, e i potenti, e tutti quanti servi e liberi si nascosero nelle spelonche e nei massi delle montagne: e dicono alle montagne ed ai massi: Cadete sopra di noi, e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello: perocchè è venuto il gran giorno della loro ira: e chi potrà reggervi?].

I. Vers. 12 . E vidi, quando il sesto sigillo fu aperto, che ci fu un grande terremoto, e il sole divenne nero come i capelli, e tutta la luna divenne come il sangue. All’apertura di questo sesto sigillo, l’Apostolo descrive la decima e ultima persecuzione, istigata da Diocleziano e dal suo collega Massimiano, nell’anno di Gesù Cristo 303. San Giovanni ne fa l’oggetto di un sigillo separato, perché fu la più crudele, la più lunga persecuzione, e fu l’ultima. Essa durò dodici anni, fino all’impero di Costantino il Grande, che sconfisse Massenzio. Lo storico Sulpicio la descrive in questi termini: « Quasi tutta la terra fu cosparsa del sangue dei martiri in questa orribile tempesta. I fedeli cercarono allora questa morte gloriosa con più foga di quanto non facciano ora per i vescovadi, con deplorevoli intrighi. Mai guerra ha stancato di più il mondo, mai abbiamo ottenuto un trionfo più brillante, ed è quello che non siamo stati sconfitti in dieci anni di massacri. Per quanto riguarda il numero di vittime cadute in questo terribile disastro, se il resto della sua durata può essere giudicato dal quadro di un solo mese, il numero di martiri salirebbe senza dubbio a una cifra esorbitante; infatti è riportato nel libro dei Pontefici romani che in soli trenta giorni perirono ben 17.000 Cristiani. Ed è tutt’altro che certo che questo furore sia diminuito in seguito, perché, al contrario, non faceva che aumentare di giorno in giorno con i nuovi editti che apparivano. Si sa che solo in Egitto, al tempo di Diocleziano, 144.000 persone furono messe a morte e 72.000 mandate in esilio. In tutte le altre province prevalse lo stesso furore, tranne forse in quelle governate da Costanzo Cloro, padre di Costantino il Grande, che, sebbene pagano, trattò le sue province con meno rigore. Nessuno poteva vendere o comprare prima di aver bruciato incenso davanti agli idoli posti nelle varie località. C’erano agenti nelle isole, nei porti e nei villaggi, per impedire la fornitura di farina o acqua a tutti coloro che non volevano sacrificare agli dei. » (Vide Baron). – Di tutte le persecuzioni, la più grande fu quella in cui si bruciarono tutti i libri che si potevano ottenere, costringendo i Cristiani a consegnarli. Quelli di loro che erano spaventati dall’atrocità delle torture e rinunciavano ai loro libri erano chiamati traditori. Il numero di essi era considerevole. Ma era infinitamente più grande, il numero di quelli che preferirono la morte più crudele a questo tradimento. La Chiesa Cattolica celebra una festa in onore di questi il 2 gennaio di ogni anno, sotto il titolo: Commemorazione a Roma di un gran numero di santi martiri che, disprezzando l’editto dell’imperatore Diocleziano, con il quale si ingiungeva loro di consegnare i sacri canoni, preferirono consegnare i loro corpi ai carnefici, piuttosto che gettare le cose sacre ai cani. – In mezzo a tante atrocità, molti Cristiani fuggirono verso i barbari, dove furono accolti con benevolenza, anche se ne divennero schiavi. I loro padroni tollerarono almeno il loro libero esercizio della religione. Si veda l’editto di Costantino a favore dei Cristiani, in Eusebio, 1. II, 15 (Vide Baron.). – Poiché gli imperatori erano determinati a far scomparire completamente la Religione cristiana, pensarono che fosse necessario iniziare dai loro stessi soldati, per evitare che, nel far rispettare i loro editti in tutto l’impero, ci fossero Cristiani armati a resistere. – Fu in questa occasione che l’intera Legione Tebana, comandata da San Maurizio, fu massacrata dai soldati dell’imperatore. Una notte di Natale, 20.000 Cristiani furono bruciati nei loro templi. Tra questi santi martiri si nomina San Marcellino, Papa, San Sebastiano, Serena, la moglie di Diocleziano, e i santi Luciano, Vincenzo, Cristoforo, Biagio, Gervasio, Protasio, Cosma e Damiano, Quirino, Gorgone, Agnese, Lucia, Pantaleone, Bonifacio, Metodio, Clemente, Augrano, Eufemia, Giorgio, Barbara, e un numero infinito di altri. Le chiese furono distrutte e devastate in tutto il mondo; i Cristiani di tutti i ranghi furono massacrati, così che in molte province non si poté trovare alcuna traccia della fede di Cristo. Fu ordinato che il giorno della Pasqua o della resurrezione di Nostro Signore, tutti i Cristiani fossero messi a morte e le loro chiese devastate. Arrivarono persino a far violentare le vergini e poi a costringerle a vivere in case pubbliche, dove venivano trascinate con la forza. È in questa occasione che San Basilio scrive, 1. De Virg.: « Nel pieno della persecuzione, delle vergini scelte a causa della loro fedeltà allo Sposo divino, furono consegnate ad aguzzini empi per servire loro da trastullo; ma esse riuscirono a conservare la loro verginità, anche quella fisica, aiutate dalla grazia di Colui per il quale erano così gelose di farlo, poiché Egli le difese, le protesse e le rese pure da ogni contaminazione, respingendo tutti gli sforzi dei loro infami aggressori. » Fu anche in questa persecuzione che ad Augusta, Affra, che era stata una pubblica peccatrice, e sua madre Ilaria, e tre giovani ragazze, Digna, Eupomia ed Eutropia, insieme a tutte le altre persone di entrambi i sessi in quella famiglia, si convertirono alla fede di Gesù-Cristo, e successivamente ottennero la corona del martirio. L’Apostolo continua quindi con ragione con queste parole:

II. Vers. 12 E vidi quando il sesto sigillo fu aperto, e ci fu un grande terremoto. Con questo terremoto si intende una profonda agitazione, un disturbo molto grande, uno stato di agitazione e di convulsione nel regno di Gesù Cristo sulla terra, perché in tutte le parti dell’Impero Romano, i giudici e i prefetti furono eccitati dagli editti e dai decreti di Diocleziano e Massimiano al massacro e all’annientamento dei fedeli. Il sole divenne nero come un cilicio. Il “sole” si riferisce a Cristo, che è il sole della giustizia e la luce della verità. Il sole è il Nome di Cristo, che è il Sole di Rettitudine e la Luce della Verità. Egli fu denigrato nella sua stessa reputazione e nei suoi membri, i Cristiani, che furono accusati di essere avvelenatori e maghi. E si diceva che i maestri che li avevano istruiti e addestrati in questi vizi erano Gesù Cristo e gli Apostoli, così come gli altri discepoli. In questo modo i gentili denigravano il nome di Gesù più che potevano. Tutta la luna divenne come sangue. Qui la “luna” significa la Chiesa; perché come la luna riceve la sua luce dal sole, così la Chiesa riceve la luce della verità da Gesù Cristo, che è il sole della giustizia. Inoltre, la Chiesa, come la luna, va e viene con i tempi, e sotto la tirannia di Diocleziano e Massimiano, la Chiesa divenne tutta rossa per il sangue dei martiri; perché, come abbiamo detto sopra, innumerevoli Cristiani venivano allora massacrati come animali in tutte le parti della terra.

Vers. 13. – E le stelle caddero dal cielo sulla terra, come quando il fico, scosso da un grande vento, lascia cadere i suoi fichi verdi. Queste stelle sono i personaggi eminenti nel regno di Cristo, che essendo stati scossi dalla paura della morte e dei supplizi, caddero nell’idolatria. Tra questi vi fu Papa Marcellino, anche se poi fece penitenza e subì coraggiosamente il martirio per la fede di Gesù Cristo. Anche molti altri caddero. La furia di questa persecuzione fu così grande che la sede di Roma rimase vacante per sette anni e mezzo. Come quando il fico lascia cadere i suoi fichi verdi. Qui i Cristiani sono paragonati a fichi verdi, a causa della loro debolezza, essendo esposti a tante crudeltà. Infatti, come i fichi verdi sono i primi frutti acerbi dell’albero di fico, e sono facilmente spazzati via da un grande vento; così i Cristiani che non avevano ancora sviluppato profonde radici nell’amore di Gesù Cristo, e quelli che non erano ancora maturi nella pazienza, si staccarono dall’albero della Chiesa, e furono gettati a terra dal vento di quella orribile e così tempestosa persecuzione.

Vers. 14. – Il cielo disparve come un libro arrotolato. Qui il “cielo” significa il regno e la Chiesa di Cristo, che furono dispersi dal vento di quella furiosa tempesta, e gettati ai quattro venti del cielo come i fogli di un libro strappato. Infatti la sede di San Pietro cessò di esistere a Roma, e i Cristiani furono dispersi; alcuni si nascosero nelle grotte, altri si rifugiarono sulle montagne; alcuni si ritirarono nei deserti, altri cercarono riparo tra le nazioni barbare. Allo stesso modo, come abbiamo detto sopra, i libri sacri da cui i Cristiani traevano la loro dottrina furono, per ordine dell’imperatore, strappati, bruciati e distrutti. – E tutte le montagne e le isole furono scosse dai loro posti. Qui dobbiamo prendere il contenitore per il contenuto. Infatti, come è stato ripetuto più di una volta, la furia di questa persecuzione fu così grande che i Cristiani fuggirono sui monti e sulle isole, che erano quasi inaccessibili, e fu fatta ogni possibile diligenza per scoprirli lì, cosa che non si era mai vista nelle altre persecuzioni. E quando finalmente venivano trovati, venivano trascinati alla tortura e alla morte. Infatti  vediamo da quanto precede, che questi due imperatori avevano cospirato con tutto il mondo per sterminare completamente il Cristianesimo. Per questo l’Apostolo dice: “E tutti i monti e le isole furono scossi dai loro posti da questa guerra crudele di Diocleziano e Massimiano, che tentarono di sottomettere  all’Impero Romano quasi tutti i regni, principati, isole e nazioni, e anche i luoghi più fortificati dell’Oriente e dell’Occidente. Essi e i loro colleghi estesero i limiti dell’impero, ad est fino alle Indie, a sud fino all’Etiopia, a nord fino alle nazioni selvagge e barbare dei Sarmati, e a ponente fino al regno di Genserico, e all’Oceano Britannico. È in conseguenza di tutto questo che l’Apostolo aggiunge:

III. Vers. 15. – I re della terra, i principi, i tribuni, i ricchi, i forti e tutti gli uomini liberi o schiavi si nascosero nelle grotte e nelle rocce dei monti.

Vers. 16.- E dissero ai monti e alle rocce: Cadeteci addosso e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello:

Vers. 17 Perché il gran giorno della loro ira è venuto; e chi potrà resistere? Queste parole esprimono l’angoscia prodotta dalla tirannia di quei tempi, quando tutti i Cristiani furono messi alle strette. Infatti, come è stato detto, non erano al sicuro nelle isole delle nazioni, né nei luoghi più fortificati, né nelle montagne deserte, né tra i barbari dove si erano rifugiati; poiché questi tiranni si erano resi padroni di tutte le nazioni, occupando tutte le terre, penetrando in tutto il mondo, e nessun paese era riuscito a sfuggire al loro dominio. Perciò questi miseri fedeli furono costretti a nascondersi nelle grotte e nelle rocce delle montagne. I re della terra, i principi, i tribuni e i ricchi, i forti e tutti gli uomini, liberi o schiavi, ecc. L’Apostolo menziona qui sette classi di uomini, forti e deboli, tutti oggetto della crudeltà del tiranno, per mostrare con ciò la differenza di questa persecuzione dalle altre, nelle quali, per la maggior parte, solo i prelati, i capi delle chiese ed i predicatori erano perseguitati, o quelli che si esponevano volontariamente; mentre in questa, tutti furono puniti. In seguito, per “re”, designa il Pastore sovrano della Chiesa ed i Patriarchi; per principi, indica i Vescovi; per tribuni, designa gli altri prelati, per ricchi, i nobili e la classe distinta del popolo; per forti, i soldati cristiani; per schiavi, i fedeli che erano fuggiti ai barbari ai quali si erano dati in schiavitù; infine, per liberi, indica tutto il resto del popolo cristiano, suddito dell’Impero romano. – E dissero ai monti e alle rocce: Cadeteci addosso e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono. Queste parole esprimono il desiderio dei Cristiani di morire in tale angoscia; poiché non erano al sicuro nelle grotte e nelle rocce delle montagne, dove molti si erano rifugiati come un ultimo rifugio; dovevano persino temere di essere cercati, scoperti, traditi o denunciati, ed infine trascinati a una morte orribile. Questi miserabili desideravano morire ed essere schiacciati sotto le rocce, piuttosto che essere esposti alle lunghe e crudeli torture per rinnegare la fede di Gesù Cristo, come era purtroppo successo a molti dei loro fratelli. – E dissero ai monti e alle rocce: Cadete su di noi e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono; cioè liberateci dall’orribile persecuzione di Diocleziano e Massimiano, che sedevano sul trono dell’Impero Romano. E salvateci …. dall’ira dell’Agnello, cioè dall’ira di Gesù Cristo, che i Cristiani pensavano fosse irritato con la sua Chiesa, perché permetteva che fosse perseguitata così a lungo e così crudelmente. Si credeva anche che Diocleziano fosse l’anticristo; che fosse arrivato l’ultimo giorno del giudizio, e che la Chiesa e il regno di Gesù Cristo sulla terra fossero finiti, tanto era deplorevole la posizione di tutta la cristianità. Per questo il testo aggiunge: Perché è venuto il gran giorno della loro ira, cioè il tempo dell’ultima persecuzione che Gesù Cristo descrive in San Matteo, XXIV. Questo regno di Diocleziano è chiamato un grande giorno, a causa di tirannia che superava tutto ciò che si era visto fino ad allora. Questo permesso di Dio è espresso dall’ira dell’Agnello, perché Gesù Cristo castiga i suoi eletti come se fosse in collera, e lo fa per far ad essi espiare i loro peccati e per aumentare la loro gloria e la ricompensa nei cieli. Dio, nella sua bontà, permette queste punizioni temporali per impedire ai suoi fedeli di perire eternamente e di essere gettati con gli empi nei tormenti dell’inferno. E chi può sopravvivere! Questo è un grido di debolezza umana. Questo grido esprime anche la difficoltà di resistere al tiranno ed ottenere la vittoria del martirio, come ne abbiamo un esempio nella caduta del santo Papa Marcellino.

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XI)

LA SUMMA PER TUTTI (1)

LA SUMMA PER TUTTI (1)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA Di S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

Opera onorata di un Breve di S. S. il Papa Benedetto XV

Traduzione Italiana approvata e riveduta dall’autore del Sac. Don ARTURO ROMANI, TERZIARIO DOMENICANO

TORINO-ROMA

PIETRO MARIETTI- Editore

TIPOGRAFO PONTIFICIO E DELLA $, CONGREG., DEI RITI Casa fondata nel 1820 – 1922

Nihil obstat.

Pisciæ, 20 Septembris 1921.

† ANGELUS Episcopus Piscinns.

V. Nulla osta alla stampa.

Chieri, 19 Novembre 1921.

Fr. Stefano M. VALLARO O. P., Rev. Deleg.

Imprimatur.

Torino, 23 Giugno 1921.

C. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

BREVE DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XV

Tradotto dall’originale latino

AL Diletto Figlio TOMMASO PÈGUES

DEI PREDICATORI

PROFESSORE. DI S. TOMMASO NEL COLLEGIO ANGELICO DI ROMA.

Diletto Figlio, Salute e Apostolica Benedizione. Gli specialissimi elogi che la Sede Apostolica ha fatto di Tommaso di Aquino non lasciano più a nessun cattolico dubitare che questo Dottore non sia stato suscitato da Dio, perché la Chiesa avesse un maestro della dottrina che Essa seguirebbe massimamente in ogni tempo. D’altra parte, sembrava conveniente che la sapienza unica di questo Dottore fosse direttamente manifestata non soltanto agli uomini del Clero, ma anche a tutti coloro, chiunque essi siano, che coltivano in un certo grado più alto gli studi religiosi, ed alla stessa moltitudine: avviene infatti naturalmente che più ci si avvicina alla luce, più se ne riceve abbondante splendore.

    Sei adunque grandemente degno di lode, tu che avendo intrapreso a spiegare con un commentario letterale francese la Somma Teologica, opera principale del Dottore Angelico — ed i volumi già pubblicati mostrano che il tuo disegno si va effettuando con successo — hai recentemente pubblicato la stessa Somma a modo di Catechismo. Così tu non hai meno acconciamente adattato le ricchezze di questo gran genio all’uso dei meno istruiti che a quello dei più dotti, dando sotto una forma breve e succinta, con la stessa perspicuità di ordine, tutto ciò che Egli aveva più copiosamente esposto. – Certamente Noi Ci congratuliamo con te di questo frutto di un lungo lavoro e di un lungo studio, in cui è dato riconoscere la tua grande conoscenza e la tua grande scienza della dottrina Tomistica. E Noi auguriamo — ciò che è il tuo voto per il grande amore che hai verso la Santa Chiesa — che questo lavoro serva a quanti più possibile per conoscere a fondo la dottrina cristiana. –  Auspice dei favori divini e testimonio della Nostra specialissima benevolenza, Noi impartiamo affettuosissimamente a te, diletto figlio, ed ai tuoi discepoli, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma presso S. Pietro il 5 Febbraio 1919

Anno Quinto del Nostro Pontificato.

BENEDETTO PP. XV.

PREFAZIONE DEL TRADUTTORE

Ho fatto del mio meglio per dare la esatta versione italiana del presente lavoro del chiarissimo P. Pègues, sulla Somma Teologica di S. Tommaso di Aquino ridotta in forma di Catechismo. Non so come vi sia riuscito. Certo che la cosa non era così facile, come a qualcuno a prima vista potrebbe sembrare. – In ogni modo mi sono impegnato di non tradire — anzichè tradurre — il pensiero dell’illustre autore, al quale debbo esprimere tutta la mia gratitudine per avermi egli stesso aiutato, rileggendo la traduzione italiana, a che la traduzione stessa riuscisse fedele al testo originale francese. – Non sto a fare gli elogi del volume che oggi esce in veste italiana. Ciascuno che lo legge e lo studia potrà farli e dovrà farli da sé; e tanto più lo leggerà e lo studierà, altrettanto ci troverà da cavarne tesori di verità e di sapienza. – Il libro poi non ha bisogno di altra raccomandazione, quando si sa che lo stesso Santo Padre Benedetto XV ne desiderò la traduzione, e nel Breve indirizzato all’autore esprime il voto che « questo lavoro serva a quanti più è possibile per conoscere a fondo la dottrina cristiana ». Ed anzi quando ripenso di aver avuto io la fortuna di appagare, sia pure così malamente, il desiderio sovrano del Santo Padre, mi sembra di potermi sentire legittimamente orgoglioso. – Ho inteso del resto di far tutto a gloria di Dio e per il bene delle anime, e spero che il Signore benedica anche la mia modesta fatica. –  In tanta aberrazione di intelletti, in tanto guasto di cuori, in tanto scadimento morale che oggi tutti lamentiamo, una sola è la via di salvezza: il ritorno alle verità religiose ed alle ptratiche cristiane. Non esito ad affermare che il presente libro ne è una guida sicura per tutti. Semplice e profondo al tempo Stesso, è accessibile a tutte le intelligenze desiderose di verità; frutto di quel tesoro inesauribile di dottrina e di bene che è la Somma do S. Tommaso, non può non essere veicolo di miglioramento per ogni volontà non asservita del tutto alla schiavitù morale della superbia e delle turpi passioni. Senza dire inoltre che può essere usato come ottimo libro di testo nelle Scuole di Religione, nei Collegi e nei Circoli, e come guida bene illuminata nei Corsi Parrocchiali. – In quanto a me, se con questa traduzione avrò potuto portare sia pure un minimo contributo alla propagazione della verità ed alla volgarizzazione della dottrina del grande Santo di Aquino, lustro della famiglia Domenicana che per la verità sorse e per la verità combatté e vinse tante battaglie, mi chiamerò contento e del tutto soddisfatto. Non ultimo motivo del mio lavoro, fu infatti di mostrare anche lo speciale mio attaccamento al glorioso Ordine di S. Domenico, al quale mi è sommamente caro di appartenere come il più umile dei Terziari. – E nella gloriosa celebrazione del settimo centenario Domenicano, sia questo ultimo ma non meno sentito omaggio al santo cavaliere della verità ed al suo inclito Ordine.

Pescia, 15 Settembre 1921.

Don ARTURO ROMANI

Terziario Domenicano.

AI LETTORI

Ridurre in forma di catechismo di non troppo grande mole, ed esporre per modo di brevi domande e risposte i tesori di dottrina contenuti nella Somma Teologica di S. Tommaso, è tale lavoro la cui perfezione sarebbe follia sperar. – Tuttavia è certo che il P. Pègues, che possiede a perfezione l’immensa dottrina della Somma, e che in grossi volumi la fa gustare anche ai profani della Teologia nel suo « Commentaire français littéral de la Somme Théologique de Saint Thomas », non ha tentato invano di darci il « Catéchisme de Saint Thomas »; ed è riuscito, superando difficoltà estreme, a restringere nelle due mila domande-risposte del suo lavoro gran parte delle dottrine di S. Tommaso, anche le più profonde, e le più proprie dell’Angelico Dottore. – Non si può negare che la lettura di queste pagine così condensate riesce piuttosto dura e faticosa; ma tuttavia quando i nostri giovani studenti universitari, i chierici dei nostri Seminari, i più colti nostri uomini cattolici, ed anche gli stessi Sacerdoti e Teologi si saranno con pazienza messi a meditarle e studiarle, senza dubbio ne sentiranno gusto, vedendosi aprir davanti gli occhi quegli ampi orizzonti dalla sommità dei quali l’angelica mente dell’Aquinate contemplava le divine armonie delle verità cristiane. – Anche il traduttore trovò difficoltà non lievi nel suo lavoro. Rendere in vero italiano il pensiero dell’autore, con quella precisione che è assolutamente necessaria nelle questioni teologiche, fu davvero fatica da non prendersi a gabbo. Confesserò anzi che la traduzione nel suo primo getto era in non pochi punti deficiente, e che fu necessario in più di un luogo ritoccarla notevolmente. Ma dopo il lavoro paziente di correzione si può sperare che essa non dispiacerà, e potrà servire a far conoscere anche ai nostri le sublimi speculazioni alle quali l’umana ragione, poggiando sulla rivelazione, s’innalzò Thomæ pennis evecta.

Fr. Stefano M. VALLARO O. P.

INTRODUZIONE

Crediamo di corrispondere al desiderio di molti lettori, dando qui brevemente qualche notizia su S. Tommaso di Aquino, autore della Somma Teologica, e sulla Somma Teologica stessa, di cui il presente volume non è che il riassunto catechistico. – S. Tommaso d’Aquino nacque in Italia, nel castello di Aquino o in quello di Roccasecca, dal conte Landolfo e dalla contessa Teodora, probabilmente nell’anno 1225. Nell’anno 1230, non avendo che cinque anni, fu affidato allo zio Sinibaldo abbate di Montecassino. Ivi ancora fanciullo proponeva ai suoi maestri la questione che domina tutto nella sua vita e nei suoi scritti: Che cosa è Dio? Egli non ha vissuto, né scritto, né insegnato se non per rispondervi. – Inviato a Napoli per completarvi gli studi, ebbe occasione di conoscere i primi figli di S. Domenico, che si erano stabiliti in quella città. Chiese subito di far parte della loro famiglia, e ne ricevé l’abito religioso. La madre contessa Teodora considerò come un disdoro che il proprio figlio abbracciasse il nuovo Ordine dei mendicanti, e cercò di distrarnelo. Ma Tommaso, piuttosto che rinunziare alla scelta ormai fatta, preferì di prendere la via di Roma e poi quella Francia, per sottrarsi alle resistenze della famiglia. Raggiunto dai suoi fratelli che servivano nell’esercito imperiale di Lombardia, fu condotto prigioniero e rinchiuso nel castello di famiglia a Roccasecca. Vi trattenuto quasi due anni; ma sempre più fermo nella risoluzione di essere di Dio., Tommaso utilizzava intanto il tempo della sua prigionia per imparare a memoria la Bibbia, le Sentenze e vari altri libri di Aristotele. La sua virtù fu sottoposta dai suoi fratelli ad una guerra difficilissima, ed il piccolo eroe ne uscì vittorioso: si era armato di un tizzone per scacciare da sé la tentazione vivente, mandata appositamente per trionfare della sua costanza. Due Angeli del cielo scesero a consolarlo in prigione, ed a cingerlo di un cordone misterioso, assicurando per sempre il trionfo della sua anima sui sensi. Restituito finalmente alla sua famiglia religiosa, fu inviato a Colonia per assistere alle lezioni di Alberto Magno. Quivi si mostrò così attento e così « Prodigiosamente taciturno » secondo la frase di Guglielmo di Tocco,  che i suoi Condiscepoli lo soprannominarono « il gran bue muto di Sicilia ». ma Alberto Magno, stupito del genio che scopriva nel suo discepolo, annunziò che i muggiti del « bue muto » avrebbero presto echeggiato sino alle ultime estremità della terra. – A ventisei anni appena ebbe la missione di andare ad insegnare nel convento di S. Giacomo a Parigi, ed il primo frutto di tale insegnamento fu il Commentario al libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, che era allora e doveva restare fino al secolo decimosesto il libro di testo nelle scuole di teologia. Dopo questo primo lavoro e queste prime lezioni, quegli che doveva essere per eccellenza il Maestro della Dottrina, apparì e si rivelò quale oggi la Chiesa lo ha consacrato con la sua autorità. Egli aveva una tale maniera di spiegare il testo; sapeva con tanta arte e tanto opportunamente. confrontare col testo stesso, raggruppandole in un ordine che faceva già presentire l’ordine meraviglioso della Somma Teologica, le questioni atte a rischiarare la intelligenza dei suoi discepoli; soprattutto inaugurava un metodo così preciso ed al tempo stesso così ampio e luminoso; parlava una lingua sì chiara, sì appropriata alle materie trattate; proiettava su tutto quanto toccava una tale chiarezza; emanava dal suo insegnamento una tal grazia, una soavità ed una forza tale, che ben presto non si parlò più, tra gli studenti ed i maestri di Ss. Giacomo, in tutta la Università e nel mondo intero, che delle lezioni di frate Tommaso (Histoire des Maîtres géneraux de l’Ordre des Frères-Précheurs, par le F. Mortier. — T. I., pag. 408). – Una volta Maestro, tutte le Università del mondo cristiano si disputano la gloria insigne di averlo come dottore. È chiamato a Roma, Orvieto, Anagni, Viterbo, Perugia, Bologna, Napoli. Ritorna a Parigi che deve poi lasciare di nuovo, ma con la promessa di ritornarvi; perché nessuno si rassegna a vederselo allontanare senza la speranza di riaverlo presto. Egli spande a torrenti impetuosi ed inesauribili gli splendori del suo insegnamento; e come se ciò fosse troppo poco, dagli innumerevoli allievi che si tengono avidamente intorno alle cattedre da lui occupate, da tutto il mondo cristiano gli giungono senza posa questioni e domande che lo pongono nella occasione di versare nelle umili celle dei religiosi, come sui troni dei duchi, dei principi e dei re; e fino sui gradini della cattedra di S Pietro, i getti di luce che il suo genio sprigiona. – Nello spazio di Ventiquattro o venticinque anni scrisse successivamente o contemporaneamente, oltre il Commentario sulle Sentenze, la Somma contro i Gentili; i Commentari sul libro di Giobbe, sui Salmi, sopra Isaia, sopra Geremia, sopra S. Matteo, sopra S. Giovanni, sulle Epistole di S. Paolo; la Catena aurea sui quattro Evangeli; i Commentari sopra Boezio, sopra S. Dionigi; le Questioni disputate e le Miscellanee, il Commentario sopra Aristotele e la Somma Teologica. – Noi vedremo tra breve la estensione e le proporzioni di questa ultima opera di S. Tommaso. Ci basti dire che il Commentario letterale francese, intorno al quale lavoriamo da quindici anni e che richiederà ancora, piacendo a Dio di concederceli, almeno altri dieci anni di lavoro continuo, non si occupa che della Somma Teologica; e comprenderà, non facendo che seguire il testo passo passo, almeno venti volumi in grande formato, di circa settecento pagine ciascuno. Ora, tutti insieme, gli scritti di S. Tommaso equivalgono a cinque o sei volte la Somma Teologica. D’altra parte in queste opere si trova una tale maestria ed una perfezione tale, sia di pensiero che di lingua e di espressione, che si crederebbero tutte scritte nello stesso tempo e nella stessa piena maturità, senza che S. Tommaso sia stato quasi mai obbligato a ritornare su ciò che una volta aveva insegnato. Perché egli aveva ricevuto da Dio, insieme con una missione unica, dei doni ed una tale sovrabbondanza di lumi, che non ne sono stati mai compartiti allo stesso grado o con la stessa pienezza, ad alcun altro genio comparso nella Chiesa. Cosicché la Chiesa non ha mai cessato di considerarlo e di riguardarlo in seno a sè, come il Maestro ed il Dottore per eccellenza. Egli ha per emblema il sole. Ed alla sua luce tutti debbono illuminarsi nella Chiesa di Dio. Essa stessa non esita nelle sue più solenni adunanze, di mettersi in qualche modo alla scuola di lui. Il Pontefice Leone XIII nella sua Enciclica Æterni Patris fa notare che dopo S. Tommaso non si è tenuto alcun Concilio generale, dove egli non sia stato presente con i suoi scritti, e che per così dire non abbia presieduto. Lo stesso Pontefice sottolinea soprattutto la gloria unica di cui la Chiesa circondò la Somma Teologica nel Concilio di Trento, ponendola accanto alla Sacra Scrittura ed ai Decreti dei Sommi Pontefici anche durante il Conclave, « per apprenderne gli avvisi, le ragioni, gli oracoli ».

(per la vita di S. Tommaso v. VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (1)

La Chiesa intanto, ponendo il suggello a tutto ciò che finora aveva fatto per dimostrare la stima in cui tiene il suo Dottore preferito, ha inserito nel Codice del nuovo Diritto Canonico un testo formale di legge, che prescrive a tutti i professori di filosofia e di teologia di trattare accuratamente le materie dei loro corsi e di attendere alla formazione dei loro discepoli in siffatte scienze, secondo il metodo, la dottrina ed i principi di S. Tommaso di Aquimo, e di attenervisi scrupolosamente. – S. Tommaso morì il 7 Marzo 1274 appena cinquantenne, ed il 18 Luglio 1323 fu canonizzato da Papa Giovanni XXII. Le sue reliquie furono donate da Papa Urbano V alla Università di Tolosa, e rimasero nella Chiesa dei Domenicani di questa città fino alla grande rivoluzione. Da allora in poi esse si trovano nella Chiesa di S. Sernin della stessa città. – Noi non abbiamo bisogno d’intrattenerci sulle virtù e sulla eminente santità del Dottore Angelico, né sulle meraviglie di ordine soprannaturale che contrassegnarono la sua vita e sono continuate dopo la morte. Basterà dire che per un prodigio di grazia la sua vita fu luminosa come il suo insegnamento. Essa presenta gli stessi caratteri di maestosa semplicità, di serenità e di lucidità, di calma e di fortezza, di soavità, di dolcezza, di perfetta verità. Egli fu in tutto, nella vita e negli atti, come era e come rimane nel suo insegnamento ed in tutti i suoi scritti, una purissima e perfetta irradiazione di Dio. Tutto S. Tommaso, nella vita e negli scritti, fu una purissima e perfetta irradiazione di Dio; ma la sua Somma Teologica, che è come il riassunto per eccellenza di tutto lui stesso, lo è a titolo speciale. E si vedrà subito con la semplice lettura del presente volume che non è, lo abbiamo già detto, se non il riassunto catechistico della Somma nella sua assoluta fedeltà; si vedrà che non vi si fa questione che di Dio. Il suo unico obbietto S. Tommaso lo ha definito al principio della sua opera: Dio. Dio in Se stesso, nel Suo essere, nella Sua azione intima, nella Sua vita più misteriosa e feconda, ove senza perdere nulla della sua unità di essenza, si manifesta in una Trinità di Persone; sulla Sua opera di creazione: gli angeli attorno al Suo trono, all’estremo opposto il mondo materiale, e l’uomo sul confine dei due mondi; nella Sua opera di conservazione e di governo di questo triplice mondo dell’uomo, della materia e degli spiriti. Dio che attira a Sé, per inebriarla della Sua stessa felicità, la creatura ragionevole di cui S. Tommaso esamina con infinita attenzione i più piccoli atti, vale a dire gli atti morali che possono avvicinarla od allontanarla da Dio suo ultimo fine, secondoché saranno buoni o cattivi, meritori o demeritori, cioè conformi o no alla legge divina e soprannaturalizzati dalla grazia; atti morali che si distinguono e si dividono in atti relativi alle tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, ed alle quattro virtù cardinali della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza, rivestenti talvolta il carattere più speciale impresso loro dallo stato di perfezione, quale si trova nel sommo sacerdozio e nella vita religiosa. Dio finalmente che ha pietà della sua povera creatura ammalata, decaduta, perduta dal peccato, e che viene col mistero. della sua vita e della sua morte, della sua Resurrezione e della sua Ascensione, a tracciare la via facile e sicura che permetta alla umanità rigenerata dai Sacramenti di incamminarsi verso quella meta radiosa della restaurazione finale dove essa, dopo essere venuta da Dio ed avere camminato con Dio, si troverà eternamente come immersa in Dio, oceano senza riva e senza fondo di ogni luce, di ogni amore, di ogni vita e di ogni felicità. Tale è l’obbietto, unico obbietto, ma tutto l’obbietto della Somma Teologica nelle tre parti che la compongono. – Ciascuna di queste parti si divide in questioni ed articoli. La prima comprende 119 questioni divise in 584 articoli. La seconda parte si suddivide in due sezioni: la prima sezione comprende 114 questioni divise in 618 articoli; la seconda sezione, 189 questioni divise in 924 articoli. La terza parte non è stata ultimata da S. Tommaso, avendo la morte interrotto il suo lavoro; è stata tuttavia completata con estratti ricavati da altra opera di S. Tommaso, che aveva già trattato le materie in parola. La parte trattata da S. Tommaso sulla Somma comprende 190 questioni divise in 559 articoli; la parte aggiunta che forma il supplemento comprende 99 questioni divise in 442 articoli; più un’appendice di 3 questioni divise in 10 articoli. Sono dunque in tutto 614 questioni e 3137 articoli. – Di queste tre parti della Somma, prese ciascuna nella integrità del proprio obbietto e nell’ordine stesso delle materie che vi sono svolte, il nostro presente lavoro offre il riassunto catechistico completo. Seguendo questo riassunto, i conoscitori della Somma ne riscontreranno ad ogni passo la dottrina essenziale, nella piena e perfetta chiarezza del suo ordine luminoso e del suo pensiero gelosamente conservato. Possiamo dire che niente è nostro in questo lavoro: ordine e pensiero, tutto è di S. Tommaso e di lui solo. Di nostro non vi si troverà che la scelta di ciò che bisognava prendere nello svolgimento delle questioni e degli articoli, o meglio il pensiero condensato in formule catechistiche ordinate e concatenate nell’ordine stesso della Somma Teologica, per mettere alla portata di tutte le intelligenze la Somma stessa tutta intera, in ciò che costituisce la midolla e la sostanza del suo insegnamento (Per facilitare da tutti i lati i richiami al testo della Somma, indicheremo sempre, con cifre romane per le questioni ed arabe per gli articoli, la questione e l’articolo corrispondenti al testo del presente riassunto).

Come cantore ispirato della Eucaristia S. Tommaso gode nella Chiesa di una gloria unica. I suoi inni che formano l’ammirazione delle menti più vaste, per la profondità del pensiero e la meravigliosa perfezione della forma, non cessano di essere i canti che tutti, anche i più umili, amano ripetere trovandovi le più pure delizie. Che maestà, che splendore ed insieme che soavità ed incanto nelle strofe del Lauda Sion, del Pange lingua, del Sacris Solemniis, del Verbum supernum, riassunti per tutti quotidianamente nell’O Salutaris Hostia e nel Tantum ergo Sacramentum, oppure nell’incomparabile Adoro Te! Forse si dubitava meno finora che la stessa gloria competesse a S. Tommaso nel campo della dottrina. Se egli è da tutti conosciuto come autore della Somma Teologica, di cui si nutrono le menti più poderose nel mondo del pensiero, era altresì conosciuto come il vero autore dell’insegnamento catechistico, in cui si trova il latte destinato ai piccoli, e la cui pura luce formava al tempo stesso le delizie di un Bonald, di un Jouffroy e di un Sully-Prud’homme. – Va bene che non è proprio S. Tommaso che ha dato a tale insegnamento la sua forma catechistica; ma oltrechè questo insegnamento non è che il puro estratto della sua dottrina — ed è soprattutto la purezza della dottrina che lo ha reso facile — vi è ancora questo che il primo catechismo redatto nella Chiesa per autorità della S. Sede — donde il suo nome di Catechismo Romano — subito dopo il Concilio di Trento, è stato in massima parte opera dei fratelli di S. Tommaso in S. Domenico. È stato pure un suo fratello in S. Domenico, ed uno dei più grandi tra i suoi più fedeli discepoli, il teologo spagnolo Giovanni di S. Tommaso, che nel secolo decimosettimo ridusse sotto forma di catechismo propriamente detto, ossia sotto forma dialogale, l’insegnamento di S. Tommaso, ma secondo l’ordine del catechismo, non sotto quello della Somma.

Noi vorremmo che il presente lavoro rendesse possibilmente ancora più sensibile questa assoluta e perfetta dipendenza dell’insegnamento catechistico nella Chiesa dalla grande dottrina di S. Tommaso di Aquino. Qui si troverà, come ne avverte e ne dà tutto il senso il titolo stesso del lavoro, « la Somma Teologica di S. Tommaso d’Aquino in forma di catechismo per tutti i fedeli »; e si vedrà, lo speriamo, che effettivamente la grande Somma di S. Tommaso si può trasformare in un semplicissimo e chiarissimo catechismo, che mette alla portata di tutti ciò che la Dottrina sacra ha di più profondo nel suo insegnamento, senza cessare di essere quello che è nella sua sostanza e nella forma essenziale. – Già da lungo tempo si manifestava nella Chiesa il desiderio che l’insegnamento della sacra Dottrina si semplificasse e si unificasse sempre più, non soltanto riguardo alla prima sostanza di questo insegnamento che deve essere la stessa per tutti nella Chiesa, ma anche riguardo alla sua espressione esterna ed alle sue formule. Per riuscirvi era necessario ricorrere all’autorità di un maestro sopra tutti i maestri, autorità che si impose a tutti nella Chiesa. Questo maestro, lo sappiamo, è il Dottore Angelico; e di lui come del suo insegnamento specialmente nella ultima forma che gli ha dato redigendo la Somma Teologica, si può dire a titolo affatto speciale ciò che giustamente è stato detto della Chiesa stessa e del suo insegnamento: « Che maestà! che splendore di misteri! Quale svolgimento e quale concatenazione di tutta la dottrina! Che ragione eminente! Che candore e che innocenza di virtù! Che forza invincibile e schiacciante di testimonianze rese successivamente » (La Bruyère — Caractères des esprits forts) e per tanti secoli, ma con fermezza ancora maggiore ai nostri giorni da tutto quanto di autorità, di genio, di pensiero luminoso esiste nella Chiesa, custode e focolare di tutte le divine verità e di ogni perfetta virtù. Altrettanto è di S. Tommaso e della lettera stessa della sua Somma Teologica, che la Chiesa ha voluto prendere per unificare il suo alto insegnamento dottrinale. Fra questo alto insegnamento dottrinale e l’insegnamento catechistico ordinario, che sarà pure prossimamente unificato anche nella sua forma letterale per tutta la Chiesa, doveva esservi posto per la unificazione che oggi tentiamo. Completando l’una e preparando l’altra delle due unificazioni accennate, questa deve facilitarle tutte e due, fornendo già un testo ed una dottrina emananti da quanto di più puro si trova nella dottrina e nel testo della Somma Teologica nella lettera del suo testo. (Ci sarà permesso di segnalare qui un’opera sorta in Roma, che potendo essere facilmente imitata un po’ dappertutto nel mondo cattolico, ci sembrerebbe destinata a produrre i migliori frutti. Si tratta di una Associazione per lo studio del Catechismo nel mondo sotto gli auspici di S. Tommaso di Aquino, il maestro per eccellenza dell’insegnamento cattolico. Uomini del secolo appartenenti anche alle classi ed alle condizioni più distinte, vi si riuniscono per istudiare la dottrina della Chiesa sotto forma catechistica. E si tratta di un vero studio, perché essi non hanno difficoltà di obbligarsi ad imparare a memoria il testo della lezione letta o spiegata nella riunione precedente, che ripetono interrogati per turno dal direttore o presidente nella riunione che segue. Il testo adottato è quello del presente lavoro, per la duplice ragione che pocanzi indicavamo, cioè che si tratta di un vero catechismo, ma di un catechismo tale che dando la midolla della Somma di S. Tommaso nello stesso ordine della Somma stessa, risponde mirabilmente alle esigenze intellettuali delle persone del mondo desiderose di istruirsi. – Non vi è centro nel mondo cattolico dove non possa fondarsi una simile organizzazione; poiché dappertutto sarà facile trovare un sacerdote in grado di completare al bisogno, con le spiegazioni di S. Tommaso stesso nella Somma, il presente testo dottrinale che ne è il riassunto continuo e fedele. E se pure il sacerdote mancasse, questo o quel cattolico più adatto potrebbe supplirvi, giovandosi a questo scopo dei volumi già pubblicati o da pubblicarsi del Commentaîre français littéral de la Somme théologique). – Più si estenderà nella Chiesa questa azione benefica dell’insegnamento di S. Tommaso di Aquino, per diffondersene anche al di fuori, più vedremo avverarsi sulla terra, attendendo di goderne pienamente nel cielo, quel bel voto che la Chiesa stessa esprime in un inno consacrato a festeggiare la prima manifestazione della sapienza divina apportata da Gesù alla terra: « Allora ogni errore scomparirà; allora la sposa ed i servi tutti camminando su tracce sicure, seguiranno la via regia della verità; allora gli uomini senza fede saranno cacciati di mezzo ai credenti; allora una sola e medesima dottrina, espressione della verità, nutrirà tutti gli spiriti »:

Tunc omnis error excidet, / Tunc sponsa, tunc et servuli, /Secura per vestigia; /

Viam sequentur regiam. / Gentem repellent perfidam /Credentium de finibus;/

Verax et omnes unica / Doctrina nos enutriet.

(Inno delle Laudi per la festa del Ritrovamento di Gesù al Tempio).

Senza dubbio, in previsione appunto di questa perfetta unità di insegnamento in tutti i gradi, la Chiesa ha voluto fare di S. Tommaso di Aquino il Patrono universale di tutte le scuole nel mondo cattolico. Non era stato già dichiarato tale dal Crocifisso miracoloso del convento di Napoli, che vivente ancora S. Tommaso, aveva portato sulla sua dottrina questo divino giudizio: Bene scripsisti de me, Thoma? Tommaso, tu hai scritto bene di me?

LA SUMMA PER TUTTI (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII “JAMPRIDEM CONSIDERANDO”

Questa lettera Enciclica pone un’attenzione marcata sulla filosofia di S. Tommaso d’Aquino quale rigeneratrice del pensiero cattolico inquinato già all’epoca dalle nuove teologie gnostiche [Nouvelle heologie] che esploderanno purtroppo nel modernismo anti-cristiano – denunciato con vigore da S. Pio X – e poi deflagreranno con l’empio conciliabolo clerico-massonico del 1963-65 condensandosi nelle eretiche dottrine della setta del “Novus Ordo” vaticano, trappolone demoniaco inteso a catturare anime per trascinarle all’inferno. Brandelli di tomismo vengono ancora conservati, o meglio occultati, da istituzioni finto-religiose, tra le quali, vero abominio, vari istituti (apparentemente) domenicani che si dichiarano studiosi del tomismo, ma praticano in realtà e senza vergognarsi, il modernismo più abietto, con danni gravissimi per le anime dei fedeli e degli studiosi così ingannati. Per noi pusillus grex di Cattolici della Chiesa di Cristo “una cum” il Santo Padre Gregorio, successore dell’omonimo Giuseppe Siri, resta il dovere di approfondire, secondo le possibilità di ognuno, il pensiero dell’aquinate secondo le indicazioni di Jampridem considerando, e di eliminare totalmente ogni traccia di pensiero gnostico-modernista che ha inquinato nel passato anche le nostre menti ingannate dagli antipapi e prelati usurpanti susseguitisi dal 1958 in poi. Solo la meditazione e lo studio “accanito” delle opere di S. Tommaso, di cui Leone XIII realizzò un’edizione pressoché completa, potrà fornirci ancora una volta la chiave di lettura filosofico-teologica di tutto il Cattolicesimo, base per la comprensione della “vera” dottrina della Chiesa di Cristo, unica via e verità per giungere alla vita eterna.

Leone XIII
Iampridem considerando

Lettera

Già da gran tempo, per riflessione ed esperienza, abbiamo compreso che nulla vale a prontamente e felicemente estinguere, con il divino aiuto, l’atrocissima guerra ora mossa contro la Chiesa e la stessa umana società quanto il reintegrare ovunque, mercé le discipline filosofiche, i retti principi del comprendere e dell’operare. Perciò conviene sommamente far rifiorire in ogni parte del mondo la sana e genuina filosofia. A questo scopo abbiamo mandato recentemente a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico una Lettera enciclica nella quale con molti argomenti abbiamo dimostrato non doversi cercare tale vantaggiosa soluzione se non nella filosofia cristiana prodotta ed accresciuta dagli antichi Padri della Chiesa: quella filosofia che non solo si accorda quanto mai con la fede cattolica, ma le porge anche opportuno ed idoneo aiuto di difesa e di luce. Abbiamo ricordato che tale filosofia, seme fecondo di grandi frutti nel volgere dei secoli, venne ricevuta quasi in retaggio da San Tommaso d’Aquino, sommo maestro degli Scolastici, e che nel darle ordine, nell’illustrarla ed accrescerla, l’acume e la virtù di quel sublime Intelletto rifulsero in tal modo che l’Angelico Dottore sembra abbia raggiunto il massimo della gloria per il suo nome. Con le più fervide parole delle quali eravamo capaci abbiamo poi esortato i Vescovi ad unire le loro forze alle Nostre affinché si adoperassero a rialzare quell’antica filosofia, ormai scossa e pressoché caduta, e a ridonarla alle scuole cattoliche ed a ricollocarla nell’onorato seggio che un giorno occupava. – Non Ci procurò poca consolazione apprendere che quella Nostra Lettera, con l’aiuto di Dio, incontrò dappertutto il deferente ossequio e il singolare consenso degli animi. Del che Ci porgono chiara testimonianza molte lettere di Vescovi a Noi pervenute, specialmente dall’Italia, dalla Francia, dalla Spagna e dall’Irlanda; esse Ci recano le espressioni di egregi sentimenti sia di persone singole, sia di gruppi della stessa provincia o della stessa nazione. Né è mancato il suffragio dei dotti, in quanto insigni Accademie di uomini eruditi si compiacquero dichiararci per iscritto intendimenti del tutto eguali a quelli dei sacri Pastori. – In tali lettere, poi, Ci torna oltremodo gradito l’ossequio prestato alla Nostra autorità e a questa Sede Apostolica; graditi Ci tornano i propositi e i giudizi espressi dagli scrittori. Una sola, infatti, è la voce di tutti; una sola è l’opinione: si nota e si indica con sicurezza in quella Nostra Lettera il luogo nel quale è riposta la radice dei mali presenti e donde debba derivare il rimedio. Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’umana ragione, se si allontana dalla divina autorità della fede, è necessariamente travolta nei flutti del dubbio ed esposta ad imminenti pericoli di errore, e che facilmente uscirà da questi pericoli se gli uomini troveranno rifugio nella filosofia cattolica. Pertanto, Venerabile Fratello, è nei Nostri più caldi desideri che la dottrina di San Tommaso, conforme in modo assoluto alla fede, riviva quanto prima in tutte le Scuole cattoliche, e specialmente torni a fiorire in questa Città, capitale del cattolicesimo, la quale – appunto perché è sede del Pontefice Massimo – deve eccellere sulle altre per le migliori discipline. A questo si aggiunga che a Roma, centro dell’unità cattolica, convengono solitamente in gran numero da ogni paese i giovani per attingere meglio e più abbondantemente che altrove la vera ed incorrotta sapienza presso l’augusta cattedra del Beato Pietro. Conseguentemente, se da qui sgorgherà larga e copiosa la vena di quella cristiana filosofia di cui abbiamo detto, essa non resterà circoscritta nei confini di una sola città, ma simile a fiume in piena giungerà a tutti i popoli. – Quindi procurammo dapprima che nel Seminario Romano, nel Liceo Gregoriano, nell’Urbaniano e in altri Collegi soggetti tuttora alla Nostra autorità le discipline filosofiche, informate al concetto e ai principi del Dottore Angelico, vengano insegnate e coltivate con chiarezza, ampiamente e in profondità. E soprattutto vogliamo che la vigile cura e gli sforzi dei maestri si prefiggano quale scopo principalissimo di impartire gradevolmente e vantaggiosamente per i discepoli, spiegandole ed ampliandole, quelle ricchezze di dottrina che essi stessi avranno già raccolte con diligenza dai volumi di San Tommaso. – Ma oltre a ciò, affinché questi studi vigoreggino e fioriscano sempre più, si deve provvedere a che gli amanti della filosofia Scolastica si adoperino di continuo per farla apprezzare: soprattutto si organizzino in società e tengano di frequente adunanze nelle quali ciascuno rechi e volga a comune utilità il frutto dei propri studi. – Questi giudizi e questi Nostri concetti abbiamo voluto comunicare a Te, Venerabile Fratello Nostro che presiedi la Sacra Congregazione degli studi, confortati da sicura speranza che in un affare di tanto rilievo non Ci verranno meno la Tua operosità e la Tua prudenza. Tu non ignori certamente che le adunanze dei dotti, cioè le Accademie, furono come nobilissime palestre, nelle quali personaggi insigni per acuto ingegno e per dottrina non solo si esercitavano utilmente scrivendo e disputando delle cose della massima importanza, ma anche insegnavano ai giovani con grande vantaggio delle scienze. Da quest’ottima usanza ed istituzione di congiungere le forze e di radunare le intelligenze più vive presero origine quegli illustri Collegi di Dottori, alcuni dei quali si dedicavano collegialmente a diverse discipline, ed altri a singole scienze. – Sono ancora vive la fama e la gloria di quei Collegi i quali, col favore accordato dai Romani Pontefici per diverse ragioni, fiorirono ovunque nella nostra Italia: a Bologna, a Padova, a Salerno e altrove. Poiché tali adunanze di uomini raccoltisi volontariamente per la cultura e il lustro delle discipline umane giunsero a tanta lode e riuscirono di tanta utilità, e poiché sopravvive ancora larga parte di quella lode e di quella utilità, Noi intendiamo valerci dello stesso presidio per recare pienamente ad effetto il Nostro disegno. – Conseguentemente decidiamo di istituire in Roma un’Accademia la quale, insignita del nome e del patronato di San Tommaso d’Aquino, indirizzi gli studi e le attività a spiegare e ad illustrare le opere di lui; ne esponga i principi e li metta a confronto con quelli degli altri filosofi, antichi o recenti; dimostri la forza e le ragioni delle sue teorie; s’impegni a propagarne la salutare dottrina e si adoperi a confutare gli errori serpeggianti e ad illustrare i nuovi ritrovati. Pertanto a Te, Venerabile Fratello Nostro, del quale conosciamo i pregi dottrinari, il pronto ingegno, lo studio e la sollecitudine per tutto ciò che appartiene alle umane discipline, affidiamo il compito di eseguire il Nostro proposito. Per ora rifletti attentamente la cosa, e non appena avrai escogitato la soluzione che corrisponda ai Nostri concetti, la sottoporrai per iscritto alla Nostra valutazione, affinché possiamo approvarla e corroborarla della Nostra autorità. – Infine, perché più ampiamente si conosca e si diffonda la sapienza del Dottore Angelico, stabiliamo che nuovamente si pubblichino tutte le sue opere, secondo l’esempio lasciatoci dal Nostro Predecessore San Pio V, illustre per gloria d’imprese e per santità di vita, al quale toccò in sorte di vedere così felicemente compiuti i suoi voti, che gli esemplari di Tommaso editi per suo ordine siano ancora assai stimati presso i dotti e vengano ricercati con somma cura. Sennonché, quanto più rara diventa quell’edizione, tanto più si è cominciato a sentire il desiderio di una nuova che, per nobiltà ed eccellenza possa essere confrontata con la Piana. D’altronde, le altre edizioni, sia le antiche, sia le più recenti, o perché non offrono tutti gli scritti di San Tommaso, o perché non contengono i commenti dei migliori interpreti ed esegeti, o infine perché mostrano minore accuratezza formale, non sembra che abbiano raggiunto la perfezione. – Si nutre una certa speranza che a tale bisogno verrà provveduto con la nuova edizione, la quale comprenderà assolutamente tutti gli scritti del Santo Dottore, stampati con i migliori caratteri possibili ed emendati accuratamente. Ci si avvantaggerà anche del sussidio di codici manoscritti che in questa nostra età sono venuti alla luce e in uso. – Oltre a ciò, avremo cura che congiuntamente si pubblichino i lavori dei suoi più illustri interpreti, come Tommaso de Vio Cardinale Gaetano e il Ferrarese: lavori dai quali, come per rivi copiosi, scorre limpida la dottrina di un così grande uomo. Per la verità, sono presenti all’animo Nostro non solo la grandezza ma anche le difficoltà dell’impresa; nondimeno esse non giungono al punto di distoglierci dal mettere mano all’opera quanto prima e con grande alacrità. Infatti, in cosa di tanto rilievo, la quale riguarda in sommo modo il comune bene della Chiesa, nutriamo fiducia che Ci conforteranno il divino aiuto, il concorde impegno dei Vescovi e la prudenza e l’operosità tua, già sperimentate e da lungo tempo conosciute.

Intanto, come pegno della Nostra speciale dilezione, dall’intimo affetto del cuore impartiamo a Te, Venerabile Fratello Nostro, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 ottobre 1879, anno secondo del Nostro Pontificato.

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.) lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi e il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi, a disposizione loro per venire in. aiuto dei bisognosi e si facciano amici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra, entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovranno rendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — o una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: «ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci solleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano, in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps LXX: 1 V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII: 2

Alleluja, Alleluja

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sul giudizio particolare.

Redde rationem villicationis tuæ.

(Luc. XVI, 2).

Possiamo seriamente riflettere, Fratelli miei, sulla severità del giudizio di Dio, senza sentirci presi da vivo timore? Ecchè! F. M., i giorni delia nostra vita, sono contati; e per di più ignoriamo l’ora ed il momento in cui il nostro Giudice Supremo ci chiamerà al suo tribunale, e forse quel momento sarà quello in cui meno vi penseremo, e saremo meno disposti a rendere questo terribile conto!… Vi assicuro, F. M., che pensandovi bene, ci sarebbe da darsi alla disperazione, se la religione non ci insegnasse che possiamo render meno terribile questo momento con una vita la quale possa sempre farci sperare che il buon Dio avrà pietà di noi. Badiamo bene, F. M., di non trovarci imbarazzati in quel momento, come quel fattore di cui Gesù Cristo ci parla nell’Evangelo. Vi mostrerò dunque, F. M.:

1° che v’è un giudizio particolare in cui renderemo esattissimo conto del bene e del male che avremo fatto;

2° quali sono i mezzi che dobbiamo usare per prevenire il rigore di questo conto.

I. — Noi tutti sappiamo, F . M., che saremo giudicati due volte: una volta nel gran giorno delle vendette, cioè alla fine del mondo, quando davanti all’universo intero, le nostre azioni buone o cattive, saranno a tutti manifeste. Ma prima di quel giorno terribile e sventurato pei peccatori, avremo subito un giudizio al momento della nostra morte, dopo esalato l’ultimo respiro. Sì. F. M., la sorte dell’uomo sta tutta in queste tre parole: vivere, morire ed essere giudicato. È una legge fissa ed invariabile per tutti gli uomini. Noi nasciamo per morire, moriamo per essere giudicati, e questo giudizio deciderà della nostra felicità eterna o della nostra eterna sventura. – Il giudizio universale in cui tutti compariremo, non sarà che la pubblicazione della sentenza particolare pronunciata subito dopo la nostra morte. Voi tutti sapete che Dio ha contato i nostri anni (Breves dies hominis sunt; numerus mensium ejus apud te est – Job xiv, 5), ed in questo numero d’anni, che Egli ha fissato d’accordarci, ne ha segnato uno che sarà l’ultimo per noi; in quest’ultimo anno un ultimo mese; in quest’ultimo mese un ultimo giorno, ed in questo giorno un’ultima ora, dopo la quale non vi sarà più tempo per noi. Ahimè! che ne sarà di quel peccatore e di quell’empio che si promettono sempre una vita più lunga? Aspettino pure, poveri disgraziati, fin che vogliono; dopo quest’ultima ora non vi sarà più ritorno, non più speranza, non più rimedio! Nello stesso istante. M. F. ascoltate bene voi che non temete di passare i vostri giorni nel peccato, nello stesso istante in cui l’anima si separerà dal vostro corpo, essa sarà giudicata. — Ma, mi direte, lo sappiamo. — Sì, ma non lo credete. Ditemi, se lo credeste seriamente, come potreste restare in uno stato che vi mette nel continuo pericolo di cadere nell’inferno? No, no, amico mio, voi non lo credete; perché se lo credeste, non vi esporreste ad una sì grande disgrazia. Verrà il momento che il buon Dio applicherà sul vostro debito l’impronta della sua immortalità ed il sigillo della sua eternità, e quel sigillo e quell’impronta non saranno levati mai più. O  momento terribile! eppure così poco meditato, così breve e così lungo, che vola con tanta rapidità, e che trascina con sé un susseguirsi spaventoso di secoli! Che cosa ci avverrà dunque in questo momento che tanto fa orrore? Ahimè F. M., compariremo tutti, ciascuno in particolare, davanti al tribunale di Gesù Cristo, per esservi giudicati, e render conto del bene e del male che avremo fatto. Il giudizio particolare, F. M., è così certo, che il buon Dio per convincercene, ne ha fatto scorgere i segni a parecchi quand’erano ancor vivi, affinché noi vi ci preparassimo.Leggiamo nella storia che un giovane libertino si era dato ad ogni sorta di vizi; ma essendo stato istruito da una pia madre, una notte che teneva dietro al giorno in cui era caduto nei più gravi eccessi, fece un sogno. Si vide trasportato al tribunale di Dio. Non si può dire quale fu la sua vergogna, la sua confusione e l’amarezza della sua anima. Quando si svegliò aveva una febbre ardente, sudava ed era fuori di sé, i suoi capelli erano diventati bianchi. “Lasciatemi solo, diceva, sciogliendosi in lagrime, a quelli che pei primi lo videro in quello stato, lasciatemi solo; ho visto il mio Giudice. Ah! quanto è terribile! Perdono, Dio mio! perdono!„ I suoi compagni di stravizi, sentendo che il loro amico era ammalato e si desolava, vennero per confortarlo. “Ritiratevi da me, diceva loro, voi non siete più i miei amici, non vi voglio più. Ah! ho visto il mio Giudice. Ah! quant’è terribile! Di quanta maestà! di quanta gloria è rivestito! Ah! quante accuse e domande, alle quali non ho potuto rispondere! Tutti i miei delitti sono scritti; li ho letti tutti! Ah! quanto grande ne è il numero! Solo ora ne conosco tutta l’enormità! Ahimè! Ho visto una schiera di demoni, i quali non aspettavano che il segno per trascinarmi nell’inferno. Ritiratevi, falsi amici, non voglio più vedervi! Quanto sarei felice, se potessi, coi rigori della penitenza, placare un Giudice così terribile! Ahimè! ben presto dovrò presentarmigli davvero! forse oggi stesso!… Dio mio, perdonatemi!… Dio mio, usatemi misericordia!… Ah! di grazia, non perdetemi, abbiate pietà di me!… Farò penitenza per tutta la mia vita. Oh! quanti peccati ho commesso! Quante grazie disprezzate!… quanto bene avrei potuto fare e non ho fatto!… Dio mio, non gettatemi nell’inferno!„ E non si fermò lì, F. M. Passò il resto della sua vita a piangere e far penitenza. Quanto sarà terribile questo momento, F. M., per chi non avrà fatto alcun bene e molto male. Sì, F. M., renderemo conto di tutte le nostre azioni, buone e cattive: tutto comparirà davanti al nostro giudice nel momento in cui l’anima si separerà dal nostro corpo. Sì, F. M., il buon Dio si farà render conto dei beni che abbiamo ricevuti. Vi sono i beni di natura, di fortuna e di grazia. Tutti questi beni entreranno nel conto. I beni di natura riguardano il corpo e l’anima; bisognerà render conto dell’uso che avremo fatto del nostro corpo. Domanderà il Giudice se avremo usate le nostre forze a render servizi al nostro prossimo, a lavorare per avere di che far elemosine, a far penitenza, a visitare i luoghi privilegiati dal buon Dio (come Nostra Signora di Fourvière, S. Francesco Regis ed altri). Ma, se invece, non abbiamo usato della nostra salute e del nostro corpo, che per correre ai divertimenti, alle osterie, per derubare il prossimo, per lavorare alla domenica, per viaggiare in questi santi giorni, invece di passarli nel pregare, onorare il buon Dio, istruire gli ignoranti, dar loro buoni consigli, condurli a Dio ed allontanarli dal male… Esaminerà poi se non ci siamo serviti della nostra intelligenza pel male: cioè per istruirci di cose cattive. Se abbiamo letto libri perversi, frequentato gli empi, insegnata la malizia agli altri. Se ce ne siamo serviti per ingannare nelle vendite e nelle compere, per giurare il falso, suscitare liti, indurre altri a vendicarsi, a parlar male della religione, a insegnar loro cose empie: come, per esempio, voler far loro credere che la religione non è buona, che tutto ciò che si dice non è vero, che i preti dicono ciò che vogliono. Ed esaminerà altresì se abbiamo usato la nostra intelligenza per comporre cattive canzoni contro la purità, contro l’onor del prossimo; se abbiamo comunicato ad altri le nostre cattive cognizioni. Ci domanderà se ci siamo serviti della nostra mente per istruirci; se ci siamo invaniti della bellezza del nostro corpo, invece d’ammirare in noi la sapienza e la potenza di Dio. Se ce ne siamo serviti per indurre gli altri al male; come per esempio, chi si veste in modo d’attirare su di sé gli occhi altrui. Dio ci domanderà se abbiamo bene usato di ciò che ci ha dato, ricordandoci che noi non siamo che amministratori, e che tutto ciò di cui avremo usato male ci verrà imputato a colpa. Allora il buon Dio farà vedere a quei padri ed a quelle madri tutti gli oggetti di vanità che essi hanno comperato ai loro figli, e che servirono soltanto a perdere la loro anima; mostrerà loro tutto quel denaro consumato nei divertimenti, nelle osterie, nelle danze ed in tutte le altre spese inutili. E poi tutto ciò che abbiamo lasciato andar a male e che avremmo potuto dare ai poveri. Ahimè! quanti peccati ai quali non avremmo mai pensato, e che ora non vogliamo riconoscere; ma che in quel momento riconosceremo, troppo tardi! Veniamo ora, F. M., ad un altro conto ben più terribile, quello della grazia. Il buon Dio comincerà a mostrarci i benefizi accordatici, facendoci nascere nel seno della Chiesa cattolica; mentre tanti altri sono nati e morti fuori di essa, Ci farà vedere che anche tra i Cristiani, un numero infinito sono morti senza aver ricevuta la grazia del Battesimo. Ci farà vedere per quant’anni, mesi, settimane, giorni, ci ha conservata la vita mentre eravamo nel peccato; e che se, in quel momento, ci avesse fatto morire, saremmo stati precipitati nell’inferno. Ci metterà davanti agli occhi tutti i buoni pensieri, tutte le buone ispirazioni, i buoni desideri che ci ha dato durante la nostra vita. Ahimè! quante grazie disprezzate! Ci ricorderà tutte le istruzioni ricevute e sentite; tutte le letture messe a nostra disposizione affinché ne approfittassimo. Tutte lo nostre confessioni, le comunioni, e tante altre grazie del cielo che abbiamo ricevuto. E quanti Cristiani non ne hanno ricevuto la centesima parte, eppure si sono santificati! Ma, che cosa è stato, F. M., di tutti questi benefizi e di tutte queste grazie? qual profitto ne abbiamo  ricavato? … Triste momento per un Cristiano che ha disprezzato tutto, e di nulla seppe approfittare! … Vedete che cosa ci dice S. Gregorio: “Ah! amico, osserva quella croce, e vedrai quanto ha costato ad un Dio il ridonarci la vita.„ E per questo che S. Agostino quando meditava sul conto da rendersi delle grazie ricevute e disprezzate; esclamava: “Ahimè! disgraziato, che diventerò dopo tante grazie ricevute? Ahimè! temo ancor più per le grazie ricevute, che per i peccati commessi, per quanto siano numerosi! Dio mio, quale sarà la mia sorte? „ Leggiamo nella vita di S. Teresa che, nell’ultima sua malattia, fu trasportata davanti al tribunale di Dio; ritornata in sé, le si domandò perché temesse dopo aver fatta tanta penitenza. “Ahimè! disse, temo molto.„ — “Avete paura della morte?„ le si domandò. — “No, „ rispose. ” Dell’inferno?„ — ” No. „ Che cosa dunque la faceva tremare? “Ahimè! bisogna che la mia vita sia confrontata con quella di Gesù Cristo; ah! guai a me, se ho la minima ombra di peccato! „ E che sarà di noi, F. M., quando Gesù Cristo ci rimprovererà il disprezzo e l’abuso che abbiamo fatto del suo Sangue prezioso e di tutti i suoi meriti? “Ahi ingrato peccatore, ci dirà, vigna infruttuosa, albero sterile, che avrei dovuto fare per la tua salute e non ho fatto? Non dovevo io attendere da te buoni frutti per la vita eterna? Dove sono le buone opere da te fatte? Dove sono le tue fervorose preghiere, che mi sieno piaciute, e che mi abbiano commosso? Dove sono le tue buone confessioni? Le buone Comunioni che m’abbiano fatto rinascere nella tua anima, e ricompensato, in qualche modo dei tormenti che ho sopportati per la tua salute? Ove sono le penitenze e le lagrime da te sparse per cancellare i peccati che hai commesso? Dove sono le buone opere che hai fatte, suggerite da tanti buoni pensieri e desiderii e da tante occasioni che ti ho presentato? Dove sono quelle Messe ben ascoltate, in cui avresti potuto soddisfarmi per i tuoi peccati? Va, disgraziato, non hai fatto che opere d’iniquità, non hai lavorato che a rinnovare i dolori della mia passione e della mia morte. Va, ritirati da me, io ti maledico per tutta l’eternità! Va, nel giorno del giudizio universale, manifesterò il bene che avresti potuto fare e che non hai fatto, e tutte le grazie che ti ho accordate e che hai disprezzato.„ Ahimè! quanti rimproveri, e quanti peccati, ai quali non abbiamo mai pensato! Ahimè! quanto sarà terribile questo rendiconto! Eccone un esempio che ve lo proverà. Racconta S. Giovanni Climaco, (La scala santa, settimo gradino) che un anacoreta, chiamato Stefano, dopo aver condotto una vita delle più austere e delle più sante, essendo molto vecchio cadde ammalato e ne morì. La vigilia della sua morte, trovandosi improvvisamente fuor di sé, pure avendo gli occhi aperti, guardava a destra ed a sinistra, come se vedesse qualcheduno che gli faceva render conto delle sue azioni. Si sentiva una persona che l’interrogava, e l’ammalato rispondeva a voce così spiccata, che tutti quelli che erano nella stanza potevano sentire. Lo si sentiva dire: “Sì, è vero, ho commesso quel peccato, ma per questo ho digiunato tanti anni.„ Poi l’altra voce diceva che aveva commesso il tal altro peccato, ed il morente rispondeva: “No, non è vero, non l’ho commesso.„ Poco dopo lo si sentiva dire: “Sì, lo confesso, l’ho fatto; ma Dio è tanto misericordioso che me l’ha perdonato. „ Era, ci dice S. Giovanni Climaco, uno spettacolo spaventoso assistere al rendiconto così esatto che si chiedeva a quel solitario di tutte le sue azioni. Ma, ciò che spaventava ancor più era il sentire che lo si accusava anche di peccati, ch’egli non aveva mai commesso. Ecchè! F. M., un santo solitario, che aveva passato quarant’anni nel deserto, che aveva versate tante lagrime, confessa egli stesso che non può giustificarsi di qualche accusa che gli è fatta!!… Egli ci lasciò, ci dice S. Giovanni Climaco, in una grande incertezza per la sua salute. Ma, che sarà di un peccatore che, in quel momento non vedrà che male e niente di bene? Momento terribile! momento di disperazione! E non aver nulla su che affidarsi! Voi sapete che quel giudizio avverrà fra tre testimoni: Dio che giudicherà, il nostro Angelo custode che mostrerà le buone opere che avremo fatte, ed il demonio che manifesterà tutto ciò che di cattivo avremo commesso durante la nostra vita. Dopo le loro deposizioni, Dio ci giudicherà e fisserà la nostra sorte per tutta l’eternità. Ahimè! M. F., quale deve essere il timore d’un povero Cristiano che aspetta il suo giudizio e che, tra qualche minuto, sarà nell’inferno o nel cielo! – Leggiamo nella storia (Vita dei Padri del deserto, t. II, p.452)  che un santo abate, chiamato Agatone, al momento di spirare restò sempre cogli occhi fissi verso il cielo senza distaccarneli. I religiosi gli dissero: “Dove credete di essere ora, padre?„ — “Sono alla presenza di Dio, di cui aspetto il giudizio. — “Non lo temete ? „ — “Ahimè! non so se tutte le mie azioni saranno accette a Dio; credo di aver osservato i suoi comandamenti; ma i giudizi di Dio sono diversi da quelli degli uomini. „ In quel momento esclamò: “Ahimè! sono in giudizio.„ Ahimè! F. M., quanti rimorsi per aver perduto tanti mezzi di salvarci, e disprezzate tante grazie che il buon Dio ci ha fatte per aiutarci a guadagnare il cielo; e vedere che tutto ciò per noi è perduto, anzi, tutto torna a nostra condanna! Ma, se è già così terribile render conto delle grazie che il buon Dio ci ha fatte per preservarci dall’inferno, che cosa sarà dunque quando saremo esaminati e giudicati su tutti i peccati che avremo commesso? Forse, per consolarvi, dite che non avete commesso di quei peccati, che agli occhi del mondo sono mostruosi. Ma quei peccati interni, F. M. ?… Ahimè! quanti pensieri d’impurità, desideri! impuri, pensieri di odio, di vendetta e d’invidia sono passati per la vostra mente durante una vita di trenta o quarant’anni, o fors’anche di ottanta! Ahimè! quanti pensieri di superbia, gelosia, quanti desideri di vendetta, di far del male al proprio prossimo, di ingannare! E quando si verrà ai peccati di opere?… Ahimè! quando il buon Dio prenderà il libro dalle mani dei demoni, per esaminare tutte quelle azioni d’impurità quelle corruzioni, turpitudini, sguardi vergognosi, confessioni e comunioni sacrileghe: tutti quei raggiri e malizie usate per sedurre quella persona… Ahimè! che diverranno quelle vittime d’impurità! Oh! quanto sarebbero più felici se Dio le precipitasse nell’inferno prima della loro morte, per evitare ad esse di comparire davanti ad un Giudice così giusto! Secondo ogni apparenza questo giudizio avverrà al letto e nella camera del moribondo. Ahimè! quei poveri disgraziati che non furono più riservati degli animali, e forse meno, vedranno, al pari dell’empio Baldassarre (Dan. V), la loro condanna scritta sui muri o meglio in tutti gli angoli della loro casa. Potranno essi negare, quando Gesù Cristo, col libro in mano, mostrerà loro il luogo e l’ora in cui hanno peccato? “Va, disgraziato, dirà loro, ti condanno e ti maledico per sempre!„ Ahimè! quand’anche il buon Dio offrisse loro il perdono, è quasi certo che non lo vorrebbero, tanto il peccato avrà indurito il loro cuore. Ah! Gesù Cristo potrebbe far loro le stesse minacce che fece a quell’empio di cui si parla nella storia. Essendo ridotto a morire Gesù Cristo gli disse: “Se vuoi domandarmi perdono, io te lo darò. Ma no! quando si ha passata la vita immersi nel peccato, non se ne esce più. — “No,„ rispose il morente. — “Ebbene! gli disse Gesù Cristo, gettandogli una goccia del suo prezioso Sangue sulla fronte; va: nel gran giorno del giudizio questo Sangue adorabile, disprezzato e profanato per tutta la tua vita, sarà il marchio della tua riprovazione.„ Dopo queste parole il peccatore morì e fu precipitato nell’inferno. O terribile momento per un peccatore, il quale non vedrà più nulla che possa fargli sperare il cielo! Il povero peccatore, tutto tremante, non avendo nulla da rispondere, vorrebbe già essere nell’inferno. Egli muore e non può che dire: “Sì, ho meritato l’inferno, è giusto ch’io vi sia precipitato; poiché ho tante volte profanato quel Sangue adorabile, che voi avevate sparso sulla croce per la mia salute. „ Gesù Cristo, tenendo sempre dinanzi il libro nel quale sono scritti i suoi peccati, vedrà tutte le preghiere tralasciate o mal fatte, fors’anche fatte col sentimento dell’odio e della vendetta in cuore, e forse, che dico? col cuore arso dal fuoco dell’impurità. No, no, mio Dio, non esaminatelo più, gettatelo presto nell’inferno; è la grazia più grande che potreste fargli se, prima di gettarlo nel fuoco eterno, dovete fargliene ancora una. Sì, Gesù Cristo, volterà pagina, dove vedrà scritte tutte le bestemmie, le imprecazioni, le maledizioni che l’infelice non ha cessato di vomitare durante la sua vita, con una lingua ed una bocca, tante volte bagnate dal suo Sangue adorabile. Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina, e vi troverà scritte tutte le profanazioni dei santi giorni della domenica. Ah! no, no, non vi saranno più pretesti, tutto sarà messo in evidenza. Vedrà tutte le ubriachezze perpetrate in quei santi giorni, gli stravizi, i giuochi e le danze che hanno profanato i giorni consacrati a Dio. Ahimè! quante Messe non ascoltate od ascoltate male! Quante Messe in cui non ci siamo quasi affatto occupati del buon Dio! o forse, vi avremo commesso più peccati che durante un’intera settimana! Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina, e vedrà scritti tutti i delitti dei figli ingrati che hanno disprezzato il padre e la madre, che li hanno maledetti, che hanno loro augurata la morte per essere padroni delle loro sostanze, che li hanno fatto soffrire nella vecchiaia, che, coi loro cattivi trattamenti … Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina e vedrà scritte tutte quelle ingiustizie ed usure nelle vendite e nei prestiti. Sì, tutte quelle rapine verranno manifestate. Ahimè! quel povero infelice sentirà leggere i particolari di tutta la sua vita, e senza poterne trovare una sola scusa. Ahimè! come sarà avvilito quel povero superbo che voleva sempre aver ragione, che disprezzava tutti, che si rideva di tutto? Dio mio. in quale stato di disperazione l’ha ridotto quell’esame! Sì, F. M., in questo mondo abbiamo sempre qualche pretesto per diminuire i nostri peccati, se non possiamo del tutto nasconderli. Ma, con Gesù Cristo, F. M., non sarà più possibile. Egli stesso ci farà riconoscere tutto ciò che avremo fatto, e saremo costretti ad ammettere che tale è stata la nostra vita, e che giustamente saremo condannati all’inferno ed esclusi per sempre dalla presenza del nostro Dio. O spaventosa disgrazia! E senza speranza di ripararla! Ah! chi vi pensasse seriamente, quanto più saggio sarebbe! Ma questo ancora non basta: il demonio, che ha lavorato per tutta la nostra vita a perderci, presenterà a Gesù Cristo un libro dove saranno scritti tutti i peccati che avremo fatto commettere agli altri. Ahimè! quanto ne sarà grande il numero; e solo in quel momento potremo conoscerlo. Ahimè! che cosa sarà allora di quei padri e di quelle madri, di quei padroni e di quelle padrone che hanno tante volte impedito la preghiera ai loro figli, ai loro servi, per non perdere un momento del loro lavoro? Quante Messe non hanno fatto perdere al loro mandriano? Quanti vespri, istruzioni, catechismi e sacramenti i loro dipendenti non hanno potuto frequentare, perché mancava ad essi il tempo! Quante volte li hanno fatti lavorare di festa, e si sono burlati di essi quand’adempivano qualche pratica religiosa! E quante volte li hanno impediti di farle! Quanti libertini colle loro sollecitazioni e promesse hanno indotto giovinette al peccato! E fra le giovani non ve ne sono che coi loro modi affettati e ricercati hanno indotto altri a cattivi pensieri, a sguardi impuri? Quanti ubriaconi sono stati causa che altri si siano dati al vino, ed abbiano passato la domenica nell’osteria mancando alle funzioni! Ahimè! quanti peccati hanno lasciato commettere gli osti dando da bere agli ubriaconi! Quante parole sconce ed azioni impure, perché tutto è permesso nelle osterie! Là si fa sgorgare dal proprio cuore il veleno dell’impurità, che inebria coi suoi infami piaceri quasi tutti quelli che si trovano nell’osteria. Ahimè! quale conto da rendere! Quanti giovani rubano ai loro genitori per aver di che andare all’osteria! e chi ne porta la colpa? Nessun altro se non l’oste. Ahimè! quanti dubbi questi empi hanno fatto nascere colle loro empietà, divulgando ogni sorta di invenzioni, per indebolire la fede nel cuore di quelli che erano in loro compagnia. Quante calunnie contro i preti! come se il difetto di uno rendesse colpevoli gli altri. Ahimè! quanti Cristiani hanno cessato di frequentare i Sacramenti, solo perché si sono trovati in compagnia di amici che hanno insegnato loro tante falsità contro la Religione, per cui l’hanno abbandonata del tutto. Chi potrebbe contare le anime ch’essi hanno perduto? Ed ora tutto questo sarà loro imputato, tutto sarà causa della loro condanna. Tutte le anime da essi rovinate verranno in quel momento a domandar vendetta… Ahimè! se il santo re Davide diceva di temer più per i peccati altrui che per i propri, che ne sarà di quei poveri disgraziati i quali non hanno passata la loro vita che a perdere delle povere anime coi loro cattivi esempi e coi loro cattivi discorsi? Ahimè! quale stupore quando vedranno tante anime da essi gettate nell’inferno! Chi di noi non tremerà, F. M., pensando che Dio non lascerà nulla senza esame, neanche le buone opere, per sapere se esse sono state ben fatte, e per Lui solo? Ahimè! quante azioni fatte unicamente per il mondo, per il desiderio d’esser notati e di passare come uomo dabbene! Quante buone azioni saranno senza valore davanti a Dio! Ahimè! quante ipocrisie, quanti rispetti umani ne hanno fatto perdere tutto il merito! Se i Santi, F. M., i quali non erano colpevoli che di qualche piccolo difetto, hanno tanto temuto questo momento, hanno fatto sì aspre e lunghe penitenze, come vogliamo sperare che Dio avrà pietà di noi? Ahimè! quanti ogni giorno cadono nell’inferno, e sono meno colpevoli di noi. Dio mio, non ci precipitate nell’inferno! Fateci piuttosto soffrire tutto ciò che vorrete durante la nostra vita. Per farvi ben sentire quanto rigorosamente Dio ci giudicherà,  il che non è difficile a credersi… Ecché! non è giusto che Dio esamini con un rigore spaventoso un Cristiano colmato di tanti benefizi, che ha ricevute tante grazie per salvarsi, ed a cui nulla è mancato fuorché la volontà? Leggiamo nella storia un esempio raccontato da S. Giovanni Climaco, che sembra mostrarci in parte il rigore della giustizia di Dio verso il peccatore. Egli ci dice che uno dei suoi amici, chiamato Giovanni Sabaita, gli aveva detto che, in un convento dell’Asia, viveva un giovane il quale, vedendo che il superiore lo trattava con troppa bontà e dolcezza, pensava che ciò avrebbe potuto nuocergli, e domandò il permesso d’andare in un altro monastero. Partito che fu, la prima notte che passò nel nuovo monastero vide in sogno un personaggio che gli domandava conto delle sue azioni. Dopo un severissimo esame, si trovò debitore verso la giustizia divina di somme considerevoli, e Dio gli fece vedere che non aveva ancor fatto nulla per espiare i suoi peccati. Spaventato da quella visione, restò ancor tre anni in quel luogo, dove Dio, volendo fargli espiare i suoi peccati, permise che fosse disprezzato e maltrattato da tutti. Sembrava che ciascuno si prendesse spasso di farlo soffrire; eppure egli non si lamentò mai. Dio gli fece vedere in una seconda visione ch’egli non aveva pagato che un terzo di quanto doveva alla sua giustizia. Spaventato si finse pazzo, e continuò simil genere di vita per tredici anni: e poi il Signore gli disse che aveva pagato solo una metà. Non sapendo più come fare, per tutto il resto di sua vita non fece che implorare misericordia dal Signore. Non aveva più limite, né misura nelle sue penitenze. “Ah! Signore, non avrete pietà di me? fatemi soffrire tutto ciò che vorrete, ma perdonatemi. „ Finalmente, prima di morire, Dio gli disse che i suoi peccati gli erano perdonati. Ebbene! F. M., chi oserà sperare che i nostri peccati siano cancellati, quando li abbiamo solo confessati, e detto al buon Dio che gliene domandiamo perdono? Ahimè! quanti Cristiani sono ciechi, credendo d’aver fatto molto, mentre invece vedranno d’aver fatto nulla. Il buon Dio farà loro vedere ciò che meritavano i loro peccati, e le penitenze ch’essi hanno fatto. Ahimè! quanti Cristiani perduti! Ma nel giudizio particolare, F. M., si farà ancora un altro esame. Sebbene quanto vi ho detto sembri già rigoroso, questo non sarà meno terribile; voglio dire che Gesù Cristo ci giudicherà sul bene che avremmo potuto fare e che non avremo fatto. Gesù Cristo metterà davanti agli occhi del peccatore tutte le preghiere che non ha fatte, e che avrebbe potuto fare, tutti i Sacramenti che avrebbe potuto ricevere durante la sua vita. Quante volte di più, avrebbe potuto ricevere il suo Corpo ed il suo Sangue, se avesse voluto condurre una vita più santa! Gesù Cristo gli domanderà conto anche di tutte le volte che ebbe il pensiero di fare qualche buona azione e non l’ha fatta. Quante preghiere, quante Messe! Quante confessioni, quante penitenze! quanti atti di carità verso il prossimo! quante privazioni nei pasti, nelle visite! Quante visite di più al Ss. Sacramento nei giorni di festa! Ahimè! quante buone opere tralasciate delle quali saremo giudicati! Gesù Cristo domanderà anche conto di tutto il bene che i nostri buoni esempi avrebbero fatto fare agli altri. Ah! gran Dio! che ne sarà di noi?

II. — Ma, mi direte, che cosa dobbiamo dunque fare, per rassicurarci in un momento così disgraziato per chi avrà vissuto nel peccato, e senza pensare a placare la giustizia di Dio, che le sue colpe hanno sì grandemente irritata? Eccolo.

1° Dobbiamo rientrare in noi stessi, pensare seriamente che non abbiamo ancor fatto cosa che possa darci speranza per quel momento; e che tutti i nostri peccati sono scritti in un libro che il demonio presenterà a Dio affinché Egli ci giudichi, e conosca i nostri peccati anche i più nascosti.

2° Restituire, come Zaccheo, tutto ciò che non è nostro; altrimenti non potremo mai evitare l’inferno. Avere un gran dolore dei nostri peccati, piangerli come fece il santo re Davide, che pianse il suo peccato fino alla morte e non ne commise più. Umiliarsi profondamente davanti al buon Dio, ricevendo tutto ciò che Egli vorrà mandarci, non solo con sottomissione, ma con grande gioia : poiché non c’è via di mezzo: o piangere in questo mondo o piangere nell’altro, là dove le lagrime non servono a nulla, e la penitenza è senza merito. Non dimenticarsi mai che non sappiamo il giorno in cui saremo giudicati, e che se disgraziatamente siamo trovati in peccato, saremo perduti per tutta l’eternità. Che dobbiamo dunque concludere, F. M.? – Che siamo assolutamente ciechi; poiché esaminato bene tutto, nessuno potrebbe dire di esser pronto a comparire davanti a Gesù Cristo, e, malgrado questa certezza di non esser pronti, nessuno di noi farà un passo di più verso il buon Dio per assicurarsi una sentenza favorevole. Dio mio! quanto è cieco il peccatore! Ahimè! quanto è deplorevole la sua sorte! No, no, F. M., non viviamo più come insensati, poiché quando meno v i penseremo, Gesù Cristo batterà alla nostra porta. Beato chi non avrà atteso quel momento per prepararsi! Ciò che vi auguro…

Credo … IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine?

[Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA