I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (VIII)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (VIII)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica, 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (IV)

CAPITOLO X.

Delle passioni.

Per legare insieme i concetti e comprendere ciò che segue, convien dire qualche cosa sopra le passioni.

1. Le passioni (presa questa parola non come sinonimo d’inclinazioni cattive e disordinate. ma di proprietà naturali) sono moti dell’appetito sensitivo o parte inferiore verso ciò che naturalmente ci piace o dispiace, e che si presenta all’anima per mezzo dei sensi e della fantasia, od anche ordinariamente mediante un’eccitazione materiale ben percettibile. Se l’oggetto è gradevole, risveglia in noi il desiderio; Se sgradevole, orrore e ripugnanza. Si danno, quindi, come due estremi a cui possono ridursi le passioni: amore ed odio. Il primo si suddivide in desiderio, speranza, coraggio e gioia; il secondo in ripugnanza, timore, disperazione e tristezza.

2. Le passioni hanno il loro fondamento nella nostra natura, composta di spirito e di materia, e servono per la conservazione e benessere d’entrambi, in quanto che li aiutano a tendere al loro proprio fine con facilità ed energia, tenendoli lontani dal male. I moti delle passioni che prevengono la riflessione e la volontà non hanno per sé valore morale e sono indifferenti, ma possono, secondo che si decida la volontà, essere occasione e strumento sia del peccato come della virtù, vale a dire, possono essere innocui o pericolosi. In conseguenza del peccato originale, le passioni manifestano le loro tendenze ed attività non solo all’insaputa e senza il consenso della volontà, ma altresì contro di essa e contro la ragione; e sono perciò causa di disordine, di scissura e d’inquietudine, causa di tentazioni e persino di peccato, se la volontà vi aderisce e loro si sottomette. Ma la volontà è sempre libera nel determinarsi, negando o prestando loro il proprio consenso. Le passioni presentano tuttavia i loro vantaggi e sono di grande aiuto al bene, poiché offrono facilità, costanza ed anche slancio per le virtù eroiche, e conferiscono grandi meriti se operano sotto l’influsso della parte superiore della volontà. Cooperando le passioni è tutto l’uomo che opera e con tutte le sue forze. Inoltre, le naturali inclinazioni ben indirizzate sono norma sicura ed infallibile delle sue azioni.

3. Il buon uso è servizio delle passioni torna, quindi, di grandissima utilità alla vita spirituale, in quanto che sono una forza. potente sia pel male che pel bene, Sono, come suol dirsi, cattive consigliere, ma buone ausiliarie. Per questo bisogna tenerle lontane dal male, e farle servire al bene. Passioni ne abbiamo e dobbiamo averne; ciò che importa è di servirci bene di esse. Non è possibile soggiogarle dispoticamente, né violentarle, sradicarle o sopprimerle; fa d’uopo trattarle diplomaticamente, sia col distoglierle da ciò che è vietato e offrir loro occupazioni serie, sia col proporre un bene non proibito e farle servire di alleate nell’adempimento del dovere. La divozione al divin Cuore di Gesù ed allo Spirito Santo riesce di somma utilità per conseguire un retto uso delle passioni.

CAPITOLO XI.

La pigrizia.

Vediamo ora in particolare il modo che dobbiamo tenere circa alcune passioni e difetti.

1. La pigrizia è una certa pesantezza dell’anima e delle sue potenze, che cerca disordinatamente il riposo e l’inazione. V’è anzitutto pigrizia d’intelletto, che consiste in una certa svogliatezza di pensare, nell’occupare lo Spirito in cose vaghe e inutili, nel fare castelli in aria, nel darsi a divagazioni e a idee superficiali o nebulose, nel far pòsa or qua or là, in una certa, vertigine e sonnolenza spirituale che si fa sentire specialmente in tempo di preghiera. – Anche la volontà ha la sua specie di pigrizia, che consiste in una inerzia indolente e melanconica per tutto ciò che non le va a genio e disgusta, nell’indecisione per operare, in un perpetuo rimandar le cose al domani, ed in un vivere senza metodo, senza un piano e norme fisse. Nel corpo la pigrizia si manifesta per la fiacchezza, indolenza e ricerca di comodità. Il pigro preferisce la quiete al moto, il sedere allo star in piedi, lo sdraiarsi allo star seduto. La prediletta sua occupazione è di dormire molto.

2. La pigrizia intellettuale negli esercizî spirituali si supera con fervidi e frequenti colloquî, colla preghiera vocale, con positure rispettose e col variare il modo di far orazione. Nelle nostre azioni in generale dobbiamo essere diligenti, ma non affannosi. Ciò che deve farsi non si deve rimandare. L’occuparsi in cose inutili non è altro che una finta attività. In tutte le occupazioni regni l’ordine, e nell’adempimento dei propositi la rettitudine e la fedeltà. Un mezzo sommamente buono per combattere la pigrizia, sia dell’anima come del corpo, è la pratica di penitenze esteriori ed anzitutto il dominio di se stessi, vincendo così la lentezza del corpo e rinvigorendo lo spirito.

3. Molti motivi abbiamo per allontanare da noi la pigrizia. Essa soprattutto è un nemico universale; più o meno s’infiltra in tutti, perché tutti constiamo in parte di materia. Tende insidie anche ai più avveduti e fervorosi. sebbene in diversa maniera: ad uno lancia addosso l’accidia intellettuale, ad un altro quella della volontà, ad un terzo la corporale. La flemma, la melanconia, l’insofferenza non sono che forme distinte della pigrizia. Inoltre, è un nemico scaltro ed una dolce schiavitù: cresce con noi e senza avvedercene vi ci abituiamo. Sa molto bene nascondersi quando prevede di non essere bene accolta. Il suo peccato è come un peccato che non ha corpo; non farà cadere alla prima, ma userà l’arte di chi ci deruba, fingendosi amico. Finalmente la pigrizia è un nemico cattivo e perverso, che indebolisce e paralizza tutta la vita spirituale. Se uno non sa proporsi nulla né elevarsi a qualche cosa di grande, è colpa della pigrizia che stringe i lacci della volontà e dello spirito, indebolisce l’anima, presta forze alla materia, ci ruba tempo e meriti incalcolabili e cagiona alla vita nostra spirituale molteplici danni. Il peggio è che di solito s’introduce nelle azioni più importanti della vita spirituale, come nella meditazione, negli esami di coscienza, nelle pratiche di pietà. Si rassomiglia molto alla tiepidezza, tarlo dello spirito, compagna ed alleata. Nessuno vuol essere considerato pigro; motivo sufficiente per proporre di non esserlo.

CAPITOLO XII.

La paura

Una certa affinità colla pigrizia ha la paura.

1. La paura è un sentimento d’agitazione e d’inquietudine dell’anima di fronte a un male imminente che può evitarsi, non senza però una notevole difficoltà. L’oggetto e causa della paura, quindi, è un male che s’approssima e la cui rimozione, sebbene possibile, è costosa, La pressione che naturalmente esercita sull’anima e sulla volontà è d’inquietudine, deperimento, spossatezza; influenza che cresce e si fa forte a proporzione del pericolo che si teme e dello sforzo che si richiede per allontanarlo, e secondo che è più o meno debole la persona minacciata. Questa debolezza cresce colla confusione ed oscurità dell’intelletto, coll’esaltazione della fantasia e della sensibilità, e colla eccitazione dei nervi. Perciò sono più soggetti all’influenza della paura i vecchi. le donne ed i fanciulli. Alle volte la paura si comunica anche ai sensi, e può avvenire che cagioni spasimi e svenimenti. Non vogliamo parlare qui di questo potere terribile che ha la paura, ma solo dell’influenza che esercita sulla nostra volontà nella vita ordinaria, nella quale manifesta altresì il suo potere snervante e disordinato. Per questo si associa in certo modo alla pigrizia.

2. Essere colti dalla paura naturalmente non è nessuna debolezza. Si suol dire che solo i pazzi e gli animali non hanno paura; i primi perché sono fuori del loro giudizio, ed i secondi perché ne sono privi e quindi incapaci di conoscere ed apprezzare il pericolo. Una paura moderata può essere segno persino di prudenza e previsione. Ma l’uomo ragionevole e di buon senso deve dominare questo sentimento, e non lasciarsi per esso allontanare dal suo dovere, sotto pena di venire annoverato tra gli esseri più deboli. Questa è la prima ragione che si presenta per opporsi alla paura, per stare all’erta e non lasciarsi dominare da essa; perché può condurre l’uomo a pervertire l’ordine della ragione, il che è peccato. Secondo il retto ordine, devono sottomettersi alla ragione tanto il sentimento come l’appetito sensitivo; però la ragione non ci dice semplicemente che noi dobbiamo evitare questo e cercare quello, ma ci comanda di fuggire e raggiungere alcune cose piuttosto che altre, e di affrontare persino il pericolo per eseguire molte buone imprese. Orbene, se noi per paura d’un male non aspiriamo a un bene necessario; in altre parole, se non adempiamo il nostro dovere, allora cadiamo in una imperfezione, in un peccato, più o meno leggiero, più o meno grave. Così pur troppo nella vita quotidiana la ignobile paura d’un disgusto (è il rispetto umano) ci spinge o trascina a una moltitudine d’infedeltà contro la coscienza e il dovere. È questo un motivo sufficiente per stare in guardia contro la paura, e fare quanto si può per difenderci dalla sua influenza. – Ben più perniciosa si può dire che sia questa influenza della paura in ordine al bene ed allo spirito di perfezione sradicare i difetti e i disordini è la prima condizione per progredire. Un mezzo molto proficuo a tale effetto è la manifestazione e confessione de’ nostri peccati e imperfezioni a chi si deve e da cui possiamo ricevere consigli. Ma la paura vi si oppone; o per un ingiustificabile rossore di far conoscere le nostre miserie, o pel timore di dovercene emendare. Quanto giova inoltre alla perfezione implorare e seguire le divine ispirazioni! Ma chi è che rende vane queste ispirazioni e queste chiamate di Dio così ricolme di grazie se non la paura, la pigrizia e l’orrore della natura nostra per la mortificazione? D’altronde, senza solidi principî e nobili aspirazioni è impossibile parlare di perfezione, che solo può conseguirsi sacrificando le comodità, il benessere materiale e la vita quieta; che tanto si ricercano da questa povera nostra natura. Orbene, la paura è come un peso che ci schiaccia e rende vani in noi tutti i sacrifici e le generose risoluzioni che Dio si degna di chiederci. Da ciò risulta che restiamo sempre nella bassezza d’una vita volgare ed ordinaria. Tuttavia sono ben più deplorabili gli effetti della paura, quando si estendono all’anima e riescono a infondervi orrore ed avversione a qualche impresa grande ed importante per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, come sarebbe la vocazione ad una vita più rigida ed elevata. Il danno allora è incalcolabile. Questo lo vediamo chiaramente in quel giovane del Vangelo, a cui la tristezza, compagna della paura, impedì di seguire l’alta vocazione, che il Signore stesso con mano così liberale e cuore sì generoso aveagli offerta. La talpa è una triste aiutatrice del giardiniere. Nei giardini di Dio, vale a dire della Chiesa, è la paura che fa da talpa e cagiona non piccola strage. La perfezione, a guisa di girasole, non germina se non sotto il chiaro cielo dell’allegria e del valore: sotto la fosca e fredda luce dell’inerzia e della pusillanimità non prospera nulla di grande e di bello. Chi non può dominare la paura, può rinunciare senz’altro alla perfezione. Infine, se vogliamo vivere una vita allegra e veramente felice, dobbiamo bandire da noi la paura. Certamente che vi sono dei mali nel mondo, ed il solo pensarvi ci atterrisce e ci toglie la pace e l’allegria; ma il più delle volte è la paura che ci fa vedere mali dove non sono, e, se ne scorge, li ingrandisce ed esagera. La paura ci fa veder spettri dappertutto: disprezziamo queste novelle da veglia. Il pauroso si tormenta con mali immaginarî, specie di martirio senza gloria ed onore; l’intrepido al contrario che, senza punto lasciarsi si smuovere da vani fantasmi, prosegue tranquillo per la via del dovere, dimostra buon criterio e una volontà ancor più indipendente. Qual cosa può togliere la pace e quiete di spirito a colui che non teme né i mali del mondo né i terrori della paura? Il sole non risplende soltanto per conto suo, ma infonde vigore su quanto gli si avvicina e partecipa de’ suoi raggi; lo stesso opera il valoroso: infonde energia e buon umore in molti altri.

3. Molto bene e presto detto; ma esiste alcun rimedio per bandire la paura ed essere coraggiosi? Quelli che più danno da fare alla volontà perché possa sovrapporsi all’angoscia sono il sentimento e la fantasia; questi sono che mediante mutue influenze tutto esagerano, imponendo alla volontà i loro terrori e difficoltà. Il sentimento stesso è indipendente dalla volontà nostra. Ciò che possiamo fare è di frenare e restringere i suoi eccessi e le sue ribellioni, di modo che non presenti alla volontà tanto pericolo. Dobbiamo procurare altresì che il sentimento obbedisca come un cagnolino ben istruito, il quale, sebbene al primo impeto s’agita ed abbaia, non sì tosto gli fa segno il suo padrone si ritira e s’accuccia. – Tre rimedî molto giovevoli si offrono a questo fine. Il primo è di convincersi che su questa terra, in cento casi, la maggior parte delle cose che possono allietarci o impressionarci, non esistono nella realtà tanto quanto nella nostra fantasia od immaginazione che tutto esagera. Propriamente parlando, il solo pensiero dell’eternità dovrebbe infonderci gaudio o terrore. Imprimiamoci nella mente ben profondamente questo detto: « I tre quarti sono pura immaginazione », e ripetiamolo quando la paura volesse impossessarsi di noi, sicuri che con tale pensiero le toglieremo la forza. Il secondo rimedio è di essere realmente persuasi e praticamente convinti che la cosa è così e non altrimenti. La paura vorrebbe farci credere che, adempiendo un nostro dovere ed operando ciò che si richiede per conseguire la perfezione, ne sentiremo danno; non le diamo retta. Vorrebbe insinuarci l’attaccamento ad una creatura, quasi che non potessimo vivere senza di essa; lasciamola, e vedremo che nulla si perderà per questo e che possiamo vivere ugualmente bene: come prima ed anche meglio. Quante volte ne avremo già fatto esperienza in vita! Quante cose ci si presentarono alla mente con aspetto spaventoso, prima che succedessero, ed avvenute, ci si resero facili! Tutti gli avvenimenti di quaggiù, per quanto ardui, passano; e tutto ciò che dà pena, col tempo si rende lieve. Animiamoci con questi pensieri. È veramente terribile e deplorevole l’influenza che la fantasia ha su di noi, e i danni che cagiona alla vita spirituale. Ci fa vedere gli oggetti attraverso un prisma e ce li fa pesare sopra una bilancia inesatta, di maniera che ci appariscono diversamente da quel che sono, e ne diamo un giudizio erroneo. Di qui derivano tanti falsi pregiudizi, tante impossibilità e timori immaginarî. La fantasia vede fantasmi dappertutto (Prov. XXVI, 13), e trascina l’uomo nelle cose più indegne d’un essere ragionevole. Solo resistendo risolutamente a codesti fantasmi si libera uno dalla loro indegna schiavitù e diviene valoroso, cioè uomo senza paure e imperfezioni. Per questo la prima lezione che gli antichi maestri di vita spirituale davano, era di ridurre a ragione la fantasia: Corrigere phantasiam. – Il terzo rimedio contro la paura e la pusillanimità è la preghiera e fiducia in Dio. Così c’insegnò coll’esempio il nostro Divin Redentore. Il terrore e l’angoscia non fecero ancora sudar sangue a noi; il Signore permise che s’impadronissero di Lui, per insegnarci che il timore non è peccato né disordine, per consolarci, per ottenerci grazia e per indicarci la via che dobbiamo seguire in angustie simili a quelle ch’Ei provò nell’Orto. Dobbiamo pregare come Lui con umiltà e perseveranza. Mediante la preghiera l’umanità sua santissima ricevette grande conforto, non perché n’abbisognasse, ma perché così volle; e con questo sollievo corse eroicamente incontro ai terribili tormenti della sua Passione. Se Dio, per provarci, permettesse un’ora somigliante di desolazione, possiamo esser certi che ci assisterebbe colla sua grazia. E se Egli è con noi, qual cosa vi sarà che non si possa fare e soffrire? (Come fedeli siamo soldati di Cristo, e non c’è cosa più umiliante per un soldato della paura e codardia. Il cristiano nel Battesimo ha dato il nome suo pel combattimento e sacrificio; egli è quell’invitto guerriero sì mirabilmente dipinto da Dürer, che senza timore della morte e del demonio, i quali a guisa di fantasmi gli stanno sempre ai fianchi, prosegue impavido il suo cammino. Solamente il cane, come contrapposto, lascia cadere pauroso la coda. Il Cattolico non teme che Dio ed il peccato; tutto il resto, compresa la morte, ché morendo Gesù Cristo ed i suoi Discepoli vinsero il mondo, reputa guadagno e vittoria (Fil. IV, 21). Nella vita spirituale si suol badare assai poco alla necessità di vivere la paura e la pusillanimità; eppure non è altra l’origine disgraziata di tanti e così gravi mali. La paura è il pungiglione con cui la pigrizia, la mollezza e lo scoraggiamento uccidono in noi ogni nobile aspirazione e ci condannano a una miserabile mediocrità. «Quante volte », scrive santa Teresa, « lo sperimentai! Quando. all’imprendere alcuna opera buona. io vinceva la resistenza nella natura nemica, sempre ne provava conforto. Quanto maggiore era il timore. altrettanto era la dolcezza dell’anima, nel fare ciò che d’altronde sembrava così difficile. Se io dovessi dare un consiglio, direi: Non fate caso della paura naturale, né mai riceviate con sfiducia i doni di Dio, allorché v’ispira qualche impresa grande ed eccellente ». – La paura e la pigrizia sono sorelle che a nulla di buono conducono. Secondo Dante, la turba dei pusillanimi e paurosi, non merita lode né odio; è un cumulo di polvere, che non si sa da qual parte e dove andrà a cadere, sollevata dal vento.

CAPITOLO XIII.

L’ira e l’impazienza

1. Tanto l’ira come l’impazienza sono un disordinato desiderio di vendetta. L’ira presuppone un torto vero o immaginario, fatto a noi od al nostro prossimo, e vuole ristabilire l’ordine per mezzo del castigo e della vendetta. Generalmente si oppone alla mansuetudine, alla moderazione e al dominio di sé stesso.

2. Anche come uomini dobbiamo opporci all’ira ed all’impazienza, perché, data l’eccitazione che cagionano, di solito molto violenta, nulla v’ha che al pari di esse impedisca il retto uso della ragione. Ed avviene che non solo non si ristabilisce la giustizia, ma s’accumula un monte d’ingiustizie, anche contro persone che molte volte sono innocenti e per nulla meritevoli di vendetta. Il principale movente non suole ordinariamente essere lo zelo per la giustizia o il ristabilimento dell’ordine, bensì una passione o voglia di rifarsi, nella qual cosa consiste precisamente il disordine dell’iracondo ed il peccato d’ira. Nello stesso tempo il collerico pregiudica sé medesimo, perché l’ira, come disordine e peccato che è, lo disonora, lo rende abietto e odioso. La brama di vendicarsi lo inviperisce e gli fa credere che il perdonare o cedere sia una debolezza, un abbassamento, una viltà e uno sconfessare se stesso. E la cosa certa è l’opposto; imperocché è lo sfogo d’ira che è una vera debolezza e deficienza di dominio, e quindi una rinunzia alla propria dignità. L’ira si basa sull’accecamento e disordine delle idee, il che, lungi dal nobilitare l’uomo, lo disonora, lo deprime. Come Cristiani abbiamo ancora maggior obbligo di frenare la collera. Ci comandò Gesù Cristo espressamente la mansuetudine e l’amore ai nemici, oltre l’esempio mirabile di pazienza che ci diede e che fu imitato da tutti i Santi e dai veri Cristiani. Il meraviglioso e divino modo di lottare del Cristianesimo consiste in questo, nel trionfare della forza, non colla forza ma colla pazienza e colla morte. Questo spirito è la pietra di paragone della solida virtù e della perfezione cristiana, e per ciò si esige in sì alto grado nei Religiosi. L’ira, che ne’ suoi giusti limiti procede dallo zelo della giustizia, della gloria di Dio e della salvezza delle anime, non solo è buona, ma è virtù del più alto grado.

3. Il rimedio generale contro l’ira e l’impazienza è la mansuetudine, che modera i desiderî sregolati di vendetta ed i moti eccessivi dell’ira stessa. Quello che fa della mansuetudine una virtù non è la naturale insensibilità, indifferenza, apatìa o timidezza, ma l’amore alla stessa per essere così conforme alla ragione, così bella e così nobile.  – E quanti motivi abbiamo per praticare la mansuetudine! Anzitutto è necessaria nella vita, ché senza di essa nulla si può fare (Ebr. X, 36). Non è, di certo, la virtù più eccellente, ma nella vita ordinaria non potrà presentarsene un’altra che sia più necessaria. Lo zucchero è migliore che il sale; ma questo è assai più importante, poiché il suo consumo è continuo e richiesto quasi in tutto. Nulla ci concilia tanto il rispetto, la confidenza e l’amore altrui come la mansuetudine, che presuppone sempre gran discrezione, retto giudizio, matura esperienza della vita e soprattutto forza non comune di volontà, cuore buono, umile e caritatevole. Che si richiede di più per cattivarsi i cuori degli uomini, guadagnarli e farli nostri? La vicinanza d’un vulcano mette in fuga tutti; ora, l’impazienza e la collera rassomigliano non poco a un vulcano. Non fanno nessun bene, ma sì molto male, o, per dir meglio, fanno più male di quel che si crede. Coll’impazienza noi guastiamo anche le cose divine, di maniera che nemmeno Dio può giovarsi di noi per qualche impresa. La impazienza si addice ancor meno alla nuova Legge, che è un vincolo d’amore, di confidenza e di pace. La mansuetudine ci rende cari a Dio ed agli uomini.

4. Per essere costantemente miti è necessaria una perseverante attenzione contro le sorprese dell’impazienza. Bisogna in questo mondo tenerci preparati a tutto, non meravigliarci di nulla, ed armarci di rassegnazione. Dobbiamo conformarci alla massima di sopportare tutte le ingiustizie, quali possano essere e da qualsiasi parte ci vengano, sotto questa o quella forma, da questo o da quel lato; altrimenti non s’avrebbe alcuna croce. Convinciamoci che non c’è alcun motivo d’impazientarci. Manteniamo il silenzio finché dura la irritazione, fosse pure per falli de’ nostri dipendenti, ché la forza della buona disciplina non istà nel correggere immediatamente il colpevole, ma nell’osservare tutto e nulla lasciar sfuggire per rimediarvi a tempo debito. Chiunque, il quale sia dotato di buona e nobile volontà, accetta una ripercussione ragionevole; ma nessuno può sopportare uno sfogo di collera. Giudica i falli altrui come giudichi i tuoi, con pazienza e tolleranza. Trattare dolcemente con uomini di temperamento pacifico, non dimostra mansuetudine in noi ma in loro. La vera mansuetudine, lo stesso che il vero amore, deve soffrire e sopportare qualche cosa. Non manifestare i tuoi disgusti ad altri, ché non conseguirai se non di renderti più impaziente, e fare cattiva impressione in chi ti ascolta. Per riuscire ad essere veramente paziente non solo non bisogna fuggire le occasioni che si presentano, ma è bene affrontarle. L’amore e la pazienza sono il mezzo per conseguire la mansuetudine. Quando cominci a impazientarti, pensa che tutto passa, che il giorno seguente non sentirai più l’ingiustizia; rivolgi la mente ad altro, e sarai lieto d’esserti conservato in pazienza.

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (IX)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.