LO SCUDO DELLA FEDE (155)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (24)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA

DISCUSSIONE XXI

Necessità delle opere buone.

124. Prot. Fin qui ho dovuto cedere in tutto alla Chiesa, Cattolica, e ritirarmi colle pive nel sacco; ma vengo adesso a riferirvi certi suoi mostruosi errori (principal causa della mia separazione da essa), pei quali sarà certamente da voi condannata, esecrata, maledetta. Insegna pertanto, 1.° Che per salvarsi, oltre la fede, necessarie sono, per gli adulti, le opere buone : 2.° Che per quanto un fedele sia giusto e, in grazia di Dio, perde infallibilmente la sua giustizia, e nuovamente diviene nemico di Dio, se gravemente pecca, se fa opere, gravemente cattive! Io però, attenendomi alla vostra santa dottrina, rigetto e condanno questi detestabili errori; e costante, al mio solito, nella verità, credo ed insegno: 1.° Che basta la sola fede per esser salvi, e perciò necessarie non sono al conseguimento della salute le opere-buone. 2° Che siccome la sola fede giustifica, per la quale ci è applicata la-stessa giustizia di Gesù Cristo, coprendo Egli per tal modo i nostri peccati; così se non si perde la fede, è impossibile si perda la giustizia, la grazia di Dio, quand’anche si commettessero tutte le scelleratezze del mondo. Onde dico a’ miei seguaci: « Niuna cosa può nuocere all’uomo fedele, purché tenga ferme le promesse che apprende colla fede. » (Melantone, Loci theologic. P- 92… « L’uomo cristiano, anche volendo, non può perdere la sua salute per quanti peccati commetta, purché non cessi di credere; imperocché verun peccato lo può condannare, fuorché la sola infedeltà! Sii peccatore e pecca fortemente, ma credi più fortemente, e rallegrati in Cristo che è il vincitor del peccato, della morte e del mondo. Finché siamo qui, dobbiamo peccare. Questa vita non è l’abitazione della giustizia; ma aspettiamo, dice Pietro , cieli nuovi e terra nuova. Basta che abbiamo conosciuto, per le ricchezze della gloria di Dio, l’Agnello che toglie’ i peccati del mondo. Da questo Agnello non può separarci il peccato, ancorché fornichiamo, o uccidiamo mille volte il giorno. » (Lutero, Lib. De Captivit. Babylonic. Cap. de Baptismo.) — « Se fosse possibile commettere un adulterio nella fede, non sarebbe peccato. » (Lutero, Epist. Ad Melanth.) Questa è la mia sana dottrina, perché io seguo il puro Vangelo. Ed oh! se sapeste quanto a moltissimi piace, singolarmente poi a certi apostati, che vengono a me dal Cattolicismo. Essi sarebbero inclinati alla religione maomettana, ma è troppo rigorosa, perché non accorda di rubare, né di aver donne che a proprie spese, e però eglino preferiscono la mia Santa Riforma, perché io dico loro: « Desidera alcuno la moglie del suo prossimo? Se la goda, se può…. Si rapiscano pure colla forza o colla frode le fortune dei prossimi, imperocché nulla prende che non voglia ed approvi Iddio » (Calvino, Instruc. Cont. Lutheranos, cap. 13). «Sebbene io vituperi coloro che dicono: – pecchiamo, affinché in noi abbondi la grazia: – pure ciononostante, l’adulterio, l’incesto, l’omicidio mi rendono più santo in terra, e più glorioso in cielo. » (Flechter Duybeny, Guide in the Church, p. 82). – Perciò poi che riguarda la preghiera, proibisco le superstiziose orazioni papistiche ed assegno loro la seguente. « O Dio! Per vostra bontà provvedeteci di abiti, di cappelli. e di mantelli; di vitelli ben grassi, di capretti, di montoni e di vitelle; di molte femmine e di pochi figli. ben mangiare è il vero mezzo di non ammalarsi. » (Lutero. Che questa brutta orazione sia di Lutero, non osa negarlo neppure il furioso Bust nel suo Appel, né vi ha chi ne dubiti.)

125. Bibbia. Empio, scellerato! Questa tua dottrina è dottrina è dottrina del diavolo, se pure il diavolo è mai arrivato a tanto … È vero che senza fede nessuno può salvarsi, essendo la fede il principio, il fondamento dell’umana salute, e la radice di ogni giustificazione. – Imperocché sta scritto: « Senza la fede è impossibile piacere a Dio » (Hebr. XI, 6). Ma basta per salvarvi la sola fede senza le buone opere, ed ancorché facciate d’ogni erba un fascio? Ascolta. «Venite benedetti dal mio Padre, possedete il regno preparato a voi fin dalla fondazione del mondo: imperocché ebbi fame, e mi deste da mangiare: ebbi sete, e mi deste da bere: ero pellegrino e mi ricettaste: ignudo, e mi vestiste: ammalato, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me :… Allora dirò anche a coloro che saranno alla sinistra: Via da me, maledetti, al fuoco, eterno, imperocchè ebbi fame, e non mi deste da mangiare: ebbi sete e non mi deste da bere: era pellegrino, e non mi recettaste, ignudo, e non mi vestiste: ammalato e carcerato, e non mi visitaste, E andranno questi all’eterno supplizio, e i giusti alla vita eterna. » (Matth. XXV, 34 e segg.). – Or ben vedi che Gesù Cristo non dà il Paradiso agli eletti perché ebbero la sola fede, né condanna all’inferno i reprobi perché abbiano mancato di fede; ma gli uni e gli altri trattati sono secondo le opere loro.

« Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi forse profetato nel nome tuo, e non abbiamo noi nel tuo nome cacciato i demoni, e non abbiamo noi nel nome tuo fatti molti miracoli? E allora io protesterò ad essi: Non vi ho mai conosciuti: ritiratevi da me tutti voi che operate l’iniquità. » (Matth. VIII, 22, 23). Questi avranno certamente avuta la vera fede; poiché avranno operato miracoli.

«Che pro, miei fratelli, se uno dica di aver la fede e non ha le opere? Potrà forse salvarlo la fede? La fede, se non ha le opere è morta in sé stessa. Anzi qualcuno dirà: tu hai la fede io ho le opere. Mostrami la tua fede senza le opere, ed io ti farò vedere colle opere la mia fede. – Tu credi che Dio è uno: ben fai, anche i demoni credono e tremano. 

« Ma vuoi tu conoscere, o uomo vano, come la fede senza le opere é morta? Abramo padre nostro non fu egli giustificato per via delle opere, avendo offerto sull’altare Isacco suo figlio? Tu vedi come la fede cooperava alle opere di lui: e per mezzo delle opere fu conosciuta la fede, e si adempì la Scrittura, che dice: Abramo credette a Dio, e fugli imputato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. – Vedete come per le opere è giustificato l’uomo e non per la fede soltanto? Imperocché siccome il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede sola senza le opere è morta. » (Giacom. II, 14 e segg.). « Se non farete penitenza, tutti similmente morirete » (Luc. XIII, 3) —

« Il Figliuolo dell’uomo verrà nella gloria del Padre co’ suoi Angeli;- e allora renderà a ciascheduno secondo le opere sue » (Matth. XXVI, 27).

«Usciranno fuori quelli che avranno fatto opere buone, in resurrezione di vita. Quelli poi che avranno fatto opere male, in resurrezione di condannazione » (ivi, VII, 22, 23). – Hai capito?

Protest. S Paolo dice: « Noi pensiamo che l’uomo è giustificato  per la sola fede senza le opere della Legge. » (Rom,. III, 28)

Bibbia. Oltre che non dice – per la solo fede, – come dici tu, tosto soggiunge: « Distruggiamo noi dunque la legge con la fede? Mai no: anzi confermiamo la legge (ivi, v. 31). Dice ancora:

« Non gli uditori della legge sono giusti dinanzi a Dio, ma quei… (N. B.) che osservano la legge saranno giustificati. » (ivi, II, 13). S. Paolo dunque distrugge la legge, poiché ne scarta le opere e nel tempo 0stesso conferma la legge: dice non esser necessarie alla salute le opere della legge, e poi le asserisce necessarie? Si certamente.  Come ciò può spiegarsi? Ascoltalo.

« Ma adesso in Gesù Cristo voi che eravate una volta lontani, siete divenuti vicini … Imperocche Egli è la nostra pace…. abolendo (N. B.) co’ (suoi) decreti la legge dei precetti. » (Ephes.- II, 13, 14). Dunque S. Paolo rigettò le opera della legge abolita da Gesù Cristo, cioè i precetti legali, i riti della legge Mosaica; e conferma la legge istituita da Gesù Cristo co’ suoi decreti, cioè, la legge Evangelica, le opera (ossia osservanza) della quale dice esser necessarie alla salute. Ed infatti in quel capitolo, da cui hai preso quel passo, parla contro la necessità della circoncisione. E quindi altrove dice: « In Cristo Gesù né la circoncisione, né il prepuzio ha qualche valore, ma la fede operante per la caritas » (Gal. II, 6) « La circoncisione è nulla, il prepuzio è nulla: ma (il tutto) l’osservanza dei comandamenti di Dio. » (I Cor. VII, 19). « Quando avessi tutta la fede, talmente che trasportassi le montagne; se non ho la carità, sono un niente: nulla mi giova » (I Cor. XIII, 23) 

Prot. Quando dico che basta la sola fede, non intendo quella che opera miracoli, ma quella che equivale ad una ferma fiducia che Dio tutto ci perdonerà, e ci darà il Paradiso senza the facciamo opera buone e quand’anche non volessimo fare che dei peccati. Bibbia. Questa non è fede, è un’empietà. Ma chiamala come tu voi, già ti ho risposto, e se non ti basta, ascolta ancora S. Paolo al quale ti sei appellato. « Noi siamo figliuoli di Dio; se figliuoli, anche eredi: eredi di Dio, e coeredi di Cristo: se però patiamo con Lui per essere con Lui glorificati. » (Rom. VIII, 16-17).

« Gesù Cristo…. diede se stesso per noi, affine di riscattarci da ogni nequizia, e per purificarsi un popolo accettevole, zelatore delle opere buone. »

« Non sapete voi che gl’ingiusti non saranno eredi del regno di Dio? Badate di non errare: né i fornicatori, né gli adulteri, né gli effeminati, né quelli che peccano contro natura, nè i ladri, né gli avari, né gli ubriaconi, né i maledici, né i rapaci erediteranno il regno di Dio. » (I. a’ Cor. VI, 9-10).  

« Quelli che credono in Dio, procurino di stare intenti alle opere buone. » (Tit. III, 8).  « Iddio renderà a ciascuno secondo le opere sue … Ira, indignazione, affanno ed angustia per l’anima di qualunque uomo che opera male: gloria, onore e pace a chiunque opera bene. » (Rom. II, 5 e segg.). Ne vuoi più?

126. Prot. Ne ho abbastanza. Credo come voi: ascoltatemi. –

« Non deve negarsi che si possa esser giustificati per le insegna S. Giacomo; poiché Dio renderà a ciascuno secondo le opere. La questione non è dei meriti, noi non li rigettiamo di alcuna sorta, e noi medesimi riconosciamo che si merita la vita eterna, secondo questa parola del Signore: – Colui che abbandonerà tutto per amor di me, avrà il centuplo in questo mondo, e la vita eterna. » (Bucero, Resp. ad Abrinc.).

 « Quando si parla della fede che giustifica, s’intende quella che opera per la carità (Lutero Comment. in Epist. ad Galat. T. 3. p. 213). »  

« L’errore, in cui taluni avevan la dottrina che le opere buone devono aver merito agli occhi di Dio, e che i pellegrinaggi a certi luoghi santi e le penitenze, e punizioni che c’imponiamo devono essere ricevute in espiazione dei nostri peccati, li fece cadere nell’errore degli antichi gnostici. Insegnarono quindi la dottrina della giustificazione mediante la sola fede, contradicendo così l’Apostolo Giacomo (Whately attuale Arcivescovo anglicano di Dublino, Introduzione alla Storia del Culto Religioso: Lez. IX, §9).

« Se Giacomo contradicesse in questo a Paolo, certamente non dovrebbe rigettarsi Giacomo, il quale apertamente insegna, ciò che insegna la legge di natura, cioè ciò che in ogni luogo insegna la Santa Scrittura ed altrove inculca lo stesso S. Paolo; ma rigettare si dovrebbero quelle Epistole di Paolo, nelle quali conterrebesi un dogma opposto. Ma se rettamente consideriamo la cosa, non vi è tra Giacomo e Paolo contrarietà  di sorta; essendoché Giacomo parla della legge di natura, e della legge di Cristo, e Paolo parla della legge ed economia di Mosè. » (Lutero, presso Bayle, Dictionar. Crit. Art. Luther. – Lo stesso dicono Rosenmüller, Scholia in Epist. Jacob.; e il Michelis, Introd. Au Noveau Testam. Genève 1822, T. 4, cap. 25, sect. 2 e 6) –

« L’eresia degli antichi gnostici “antinomi” fui condannata dagli Apostoli. Dottrine simili sono esistiti in tutte le età della Chiesa, e tale è, per esempio la seguente: – Perché siamo salvati per grazia mediante la fede (Efes. II. 8.): e questo non vien da noi, imperocché è dono di Dio (Rom. VI. 7.): possiamo con sicurezza vivere in peccato, perché la grazia soprabbonderà. – O quest’altra: che certuni possono considerare se stessi come persone scelte, cioè, come popolo di Dio, e che sono certi di ottenere l’eterna salute, sebbene non abbandonino le loro male abitudini, perché il Signore non imputerà loro a peccato, che non debbono affliggersi di aver peccato…. Tutte queste assurdità, tanto contrarie alle dottrine cristiane, furono ad esse commiste dalla depravità degli uomini…. L’altra dottrina altresì – che nulla di tutto ciò che possiamo fare può procurarci l’eterna salute è vera nel senso che niuna opera nostra buona può di per sè sola esser meritoria agli occhi di Dio, come pure nel senso, che non possiamo da per noi stessi menare una vita di veri Cristiani, senza l’aiuto dello Spirito Santo. » (Whatly sudd. Op. cit. lez. VII, a n. 5, n. 5, §6).

« Vi sono altri che insegnano che l’obbedienza di Gesù Cristo alla legge divina è imputata come meritoria a quelli che credono in Lui, cosicché le opere buone che Egli fece in terra, sono riguardate da Dio come fatte dai fedeli suoi. – Tale dottrina non è autorizzata dalle Sante Scritture. » (il medes., ivi, §7).

« Tutto quello che in questo caso possiamo inferire da ciò che sta scritto nella Bibbia, si è che non ci è negato di sperare; ma le promesse fatte dalle Scritture sono per coloro, che producono frutti di penitenza.3 » (Il medes. ivi, §5 n. 3).

« Sappiamo che una religione falsa può demoralizzare i suoi seguaci; e quindi ci immaginiamo che chi abbia abbracciata la vera fede, e sia inoltre di un carattere religioso, diverrà necessariamente uomo di moralità perfetta, in conseguenza della religione che professa, e che sarà giusto nel cospetto di Dio. Eppure, sarà così nel caso soltanto in cui osservi diligentemente l’avviso di Paolo, che … quelli che credono a Dio procurino di stare intenti nelle opere buone: e con sollecitudine adoprandosi, come esorta Pietro (II di Piet. I. 3), uniscano alla fede la virtù, alla virtù la scienza. » (Il medes. ivi, §4).

« Le buone opere sono degne di grandi elogi, esse sono necessarie, e meritano delle ricompense. La carità quando si esercita merita l’accrescimento della carità. E per questo le genti dabbene intendono le vere opere buone; e come elleno piacciano o Dio. c come sien meritorie. (Conf. Ausburg, Art. 6, cap. de bon. operib. p. 20).

« Poiché Dio giudicherà ciascuno secondo le opere, non deve negarsi che le buone opere fatte per la grazia di Gesù Cristo, le quali Egli stesso opera ne’ suoi servi, meritino la vita eterna; poiché è a tali opere che la Scrittura promette la ricompensa della vita eterna, la quale per questo non è meno una grazia, per un altro riguardo, cioè, perché queste buone opere, alle quali si dà si grande ricompensa, sono doni di Dio.» (Bucero, in disput. Lipsica, ann. 1539).

« Quelli che cadono in peccato mortale, non sono giusti. È necessario resistere alle malvagie inclinazioni: coloro che le secondano contro i comandamenti di Dio, e operano contro la coscienza, sono ingiusti, e non hanno lo Spirito Santo. » (Confess. Ausburg. Cap. de bon. Operib.).

« È proprio di un petto cristiano avere in orrore quei dogmi che nuocciono alla pietà quale è quello propugnato da taluni: Pecca fortemente, ma credi più fortemente, e niente ti nuoceranno cento omicidi, e mille stupri. – Sono questi i frutti naturali di quei dogmi, che uno debba credere che gli è imputata la giustizia di Cristo, quasi che esso (individuo) l’avesse operata: che è certo di perseverare: che certamente gli è destinata la salute: che i peccati dei fedeli, per quanto grandi e gravi esser possano, non sono loro imputati, per la fede che hanno in Gesù Cristo: che cader possono nel delitto di lesa maestà, nell’omicidio; nell’adulterio, etc., e nientedimeno esser eglino sicuri che mai totalmente e finalmente cadranno dalla carità di Dio verso di sé medesimo » (Grossio, Discuss. Apolog. Riveti.).

« Noi detestiamo con tutto il cuore questi dogmi empii, contrari ai buoni costumi (e alla fede), che tutto giorno si spandono tra i popoli, cioè, – che i veri fedeli non posson cadere in peccati di malizia, ma solamente in peccati d’ignoranza e di debolezza: che non possono perder la grazia … che lutti i peccati passati presenti e futuri sono già loro preventivamente rimessi. » (Il sinodo naz. prot. di Dordrech, Sess. 34, art. 7).

« Noi condanniamo gli Anabattisti, i quali negano che possa perdersi lo Spirito Santo quando siamo una volta giustificati. » (Confess. Ausburg, citaz. Ibid. p. 20).

« Ecco che tutto ho accordato alla Chiesa Cattolica, e se ancor non vi basta, vi presenterò in compendio i miei sentimenti, in ritrattazione di quanto ne ho detto di male sino al presente.

 « La Chiesa di Gesù, Cristo, custode vigilante dei dogmi che le sono stati dati in deposito, nulla cangia giammai: Ella niente diminuisce, niente aggiunge: Ella niente  toglie delle cose necessarie: Ella punto ne aggiunge delle superflue. Tutto il suo tra-vagliò è di pulire le cose che anticamente le furon date, di confermare quelle che sono state sufficientemente spiegate, di custodire quelle che sono state confermate e definite, di consegnare in iscritto alla posterità ciò che Ella ha ricevuto per la sola Tradizione. Tutto questo (insegnato da Vincenzo Lerinese) è preciso, e niente può aggiungersi da vantaggio: La Chiesa niente aggiunge di nuovo: Ella dunque, non fa nuovi articoli di fede. I Concilj confermano ciò che è sempre stato insegnato. (M Jurieu, Livr. De l’unité. Tr. VII, cap. 4 p. 626. – Questa confessione è preziosa, perché è di uno de’ primarii e più fanatici Ministri della Riforma protestante).

Bibbia. Ottimamente; ma se di tutto ciò eri persuaso, perché sempre e in tutto hai contradetto alla Chiesa Cattolica?

127. Prot. Il perché non oso dirvelo apertamente, ma potrete ben dedurlo dalle mie seguenti dichiarazioni.

« Se un Concilio ordinasse, o permettesse le due specie (nella Comunione), noi (N. B.) in dispetto del Concilio non ne prenderemmo che una, o non prenderemmo né l’una né l’altra, e malediremmo coloro che le prendessero in virtù di tale ordinanza. » (Lutero, Formul.  Miss. T. 2).

« Si può conservare la elevazione come una testimonianza della presenza reale e corporale; poiché il farla è dire al popolo: Vedete Cristiani, questo è il Corpo di Gesù Cristo, che è stato dato per noi. Che se io ho atterrato la elevazione, è stato solamente in dispetto del Papato; e se l’ho ritenuta sì lungo tempo, è stato in dispetto di Carlostadio. Insomma, si deve ritenere quando è rigettata come empia e si deve rigettare quando è comandata come necessaria. » (Il medes. Parva confess. N, 21).

« Egli è vero, io credo sia un errore il dire che il pane vi resti (nell’Eucaristia), sebbene questo errore siami sembrato sin qui di poca importanza. Ma poiché adesso con tanta forza mi pressano a rigettar questo errore, senza l’autorità della Scrittura; in dispetto dei Papisti voglio credere che vi restano il pane e il vino » (Il medes. Epist. De Argentinens, 1522)-. » Avete ben capito?

Bibbia. Iniquo!… Dunque, per puro capriccio, per far dispetto neghi e combatti ferocemente i dogmi più sacrosanti della cristiana fede, e insieme con essi la Chiesa di Cristo?… Iniquo!… – Né qui si è arrestata la tua empietà! Anche contro di me hai esercitato l’eretico tuo furore, e ben ne sento le crudeli ferite! Sì tu gonfio di orgoglio, perché contrari al tuo ereticale sistema di religione, come tu medesimo l’hai pur confessato (n. 74), hai combattuti e rigettati tanti miei libri divini, e frazioni di essi, che dal solo Antico Testamento hai tolte e strappate ben ventimila sentenze!… Ne qui si è tampoco arrestato la tua empietà! …  Non contento di avere strappati tanti libri divini, (ved. n. 69) dell’Antico e del Nuovo Testamento, anche tutto il resto hai manomesso, interpolando, mutilando, corrompendo tutti quelli innumerevoli testi che ti condannano, spacciando per tal modo ai popoli da te ingannati, l’eretica tua parola, per parola di Dio! … E dopo di ciò hai pure l’inverecondia di appellarti alla Bibbia?… Iniquo! Senti adesso dalla Bibbia qual sia di ciò la tua giusta mercede.

« Io protesto ad ognuno che ode le parole di profezia di questo libro, che se alcuno aggiungerà a queste cose, porrà Dio la porzione di lui dal libro della vita, e della santa città, e dalle cose che sono scritte in questo libro. » (Apoc. XXII, 18, 19).

128. Protest. Signora Bibbia! … non alzate con me tanto la cresta … Capite? Non vi dimenticvate che avete da farla col Protestantesimo … Udite un poco adesso quello che dico a voi, e a tutto il Papismo da voi difeso.

«Ancorché i Papisti riportino una gran quantità di luoghi della Scrittura, nei quali si prescrivono le buone opere, io non di meno non mi curo di tutti i detti della Scrittura (capite?) ancorché ne recassero eziandio ancorché di più. Tu papista, te ne prendi gran fastidio, e ti rendi feroce con la Scrittura, la quale è tuttavia al di sotto di Cristo. Io pertanto per tutto questo non mi muovo. Su via, dunque, appoggiati al servo quanto puoi. Ma io mi appoggio a Cristo vero Maestro e superiore alle Scrittura. A questo io consento, e so che Egli non sarà per mentire e trarmi in errore. Amo meglio onorar Lui e credergli, anziché per tutti i detti della Scrittura soffrire di muovermi neppur di un’unghia dalla mia sentenza. » (Lutero, Præfat. Ad cap. 2, in Epist. Ad Galat. Item, Comm. In cap. 3, ad Galat. Annot. 36).

Mi rimproverate che io corrompo la parola di Dio! Signora Bibbia! chi vi ha fatta parola di Dio? È vero che S. Paolo dice: « Tutta la Scrittura (è) divinamente ispirata » (II Tim. III, 16). Ma io avendo il gran privilegio d’intender tutto a mio piacimento, rispondo che il vero senso di quelle parole è questo: « Ogni bene spettante all’anima ha Dio per autore, è da Dio quasi ispirato » (Teller, presso Rosenmüller, in cap. II ad Tim., v, 5, 13). Insomma quelle parole – non contengono che una generale sentenza, cosicché non sembrano riferirsi né al Vecchio, né al Nuovo Testamento. » (Errico Heurichs, presso Kopp, Nov. Test, Græc. Perpet, annal. Illustr.: Gotting.1768). Intendetemi bene:

« Questa idea dell’ispirazione divina non è che un mito (una favola), contenuto, come, tanti altri, nei nostri libri Sacri. » (Bauer, Mitologia Ebraica, p. 23)- Mi rimproverate di aver combattuto la Chiesa di Cristo. E che per questo? «Il Cristo non è mica un individuo: è un’idea, o un concetto simbolico dell’umanità. » (Il dottore Federico Strauss, la vie de Jesus, ou examen critique de son histoire: trad, Paris 1839, T. 1, pag. 35-105.) Concludiamo.

« Lungi dalla ipocrisia, noi dichiariamo la guerra a tutto ciò che esiste, una guerra di decomposizione a tutte le religioni stabilite…. Quanto all’ateismo, se noi non lo proclamiamo ancora, noi possiamo antecedentemente provarci a demolire a poco a poco il sentimento religioso. Il critico esamina i racconti scritturali, considera, il Cristianesimo nella sua essenza; egli stabilisce (N. B.) che questi racconti sono favolosi: che questa essenza è ristretta: egli vuole innalzar gli uomini fino all’ateismo; perché allora soltanto essi saranno liberi … Convien liberar l’uomo dalla coscienza, e alla Germania, paese il più essenzialmente protestante in fra tutti, si appartiene di adempiere questa nobile missione. » (Il Giornale: Die Berliner monaschift n. 1).  

Or avrete capito, Signora Bibbia. So fare a meno di voi, di Dio, dell’Uomo-Dio, e di quanto ne viene di conseguenza. Sono il Protestantismo: rammentatevene: a rivedervi!

IL SACRO CUORE (42)

IL SACRO CUORE (42)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero”, 1919]

PARTE SECONDA.

CAPITOLO III

L’ATTO PROPRIO DELLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE

Una divozione sì specifica sopra tutto per il oggetto; ma è pur sempre un insieme un insieme di idee, di sentimenti, di pratiche, in relazione con quell’oggetto. Per conoscerla sempre meglio, vi bisogna dunque studiarla anche da questa parte, domandandosi quale è l’atto proprio della devozione al Sacro Cuore. La risposta può dedursi  dall’oggetto e dal fine della devozione, questo fine essendo determinato dalla natura dell’oggetto. Ma, per non procedere unicamente a priori, dovremo pure esaminare i testi ed i fatti (V. sopra – I parte, c. III § 2 – i testi della santa, sullo spirito della devozione). – La questione dell’atto proprio potrebbe esprimersi benissimo così: Quali sono il carattere e lo spirito proprio della devozione al sacro Cuore, quali ne sono le pratiche speciali, secondo quale spirito e questo carattere? Si può riferir tutto a questi due capi: fine e atto proprio delle devozione, spiegandone lo spirito, le pratiche e il carattere.

I.

SCOPO DELLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE

L’amore vuole amore. L’amore sconosciuto vuole amore riparatore.

Quando Gesù mostrava alla beata Margherita Maria il suo cuore infiammato d’amore per gli uomini e, incapace di contenere più a lungo quelle fiamme che lo consumavano, e desideroso di far parte a, tutti delle ricchezze del suo cuore, che cosa voleva? Attirare l’attenzione degli uomini su questo amore, indurli a rendergli omaggio, invitarli ad attingere in questo cuore infinitamente ricco. Se, al dire della santa, Egli si compiace grandemente di essere onorato sotto la figura del suo Cuore di carne, che scopo vuole che ci proponiamo nel rendergli questo onore? Si tratta del fine preciso e prossimo della divozione, non già del fine ultimo e generale che è, evidentemente, la gloria di Dio e la santificazione delle anime. Egli vuole che ci proponiamo di onorare il suo amore e di corrispondergli, rendendo amore per amore. La manifestazione del sacro Cuore alla beata Margherita Maria è la ma-nifestazione dell’amore. Si può dunque collegare tutta la devozione a questo. Da una parte, un amore che reclama corrispondenza d’amore, un amore tenero, esuberante, che vuole ricambio proporzionato d’amore; dall’altra parte l’amore che risponde all’invito dell’amore, l’amore desideroso di non essere troppo al disotto dell’amore immenso che l’ha prevenuto e lo provoca. Se la divozione al sacro Cuore, secondo la parola di Pio VI, ci conduce a venerare l’immensa vita e il prodigo (effusum) amore di nostro Signore per noi, è evidente che ciò serve ad accendere il nostro amore a questo focolare dell’amore. Il ehe è evidente. Ricorderò qualche testo soltanto per mostrare che è proprio così. La beata scriveva al P. Croiset: « Mi si mostrava di continuo un cuore che gettava fiamme da ogni parte, con queste parole Se tu sapessi quanto io abbia sete d’essere amato dagli uomini tu non risparmieresti nulla per questo…. Io ho sete, io ardo dal desiderio d’essere amato » (Lettres inédites, VI, p. 18o rivedute su G. c. XXXV, 600). E precedentemente aveva scritto alla madre de Saumaise: « Egli vivrà malgrado i suoi nemici, e si farà padrone e possessore dei nostri cuori e ne prenderà possesso; perché il fine principale di questa divozione è di convertire le anime all’amor suo » (Lettres, 1, VII (LIX); t. Il, p. II (132); G. LXV, 355). E ancora al P. Croiset: « Egli mi fece vedere che il suo ardente desiderio d’essere amato dagli uomini…. gli aveva suggerito il desiderio di manifestare il suo cuore agli uomini con tutti i tesori d’amore, di misericordia, di grazia, di santificazione e salute che conteneva, affinché tutti coloro che volessero rendergli e procurargli l’onore, l’amore e la gloria che potessero, fossero arricchiti con abbondanza e profusione di questi divini tesori del Cuore di Dio che ne è la sorgente e che si deve onorare sotto la figura di questo Cuore di carne …. Questa devozione è come un ultimo sforzo dell’amor suo che voleva favorire gli uomini in questi ultimi secoli, con questa redenzione amorosa…. per metterci sotto la dolce libertà dell’impero del suo amore, che voleva stabilire nel cuore di tutti coloro che vorrebbero abbracciare questa devozione » (Lettres IV, p. 142 rivedute su G. CXXXIII, p. 568). È ben così che l’intendevano i promotori della divozione: « Il fine della nuova divozione, diceva il postulatore del 1697, è di pagare un tributo d’amore alla sorgente stessa dell’amore » (Memoriale citato da Nilles, 1.a parte, 2.a C. 11, C. 1, p. 338.). – « Il primo fine che si ha in vista, diceva il P. Galliffet, postulatore nel 1727, è di corrispondere all’amore di Gesù Cristo » (Citato da NILLES, CC. cit. p. 340). – E il P. Croiset: « Non si trova qui, per parlare propriamente, che un esercizio d’amore: l’amore ne è l’oggetto, l’amore ne è il motivo principale, ed è l’amore che deve esserne il fine » (1.a parte, c. I, p. 3-4. Mons. DE PRESSY si esprime presso a poco nello stesso modo: « Il suo oggetto, tanto corporale che spirituale, non si riferisce che alla carità, i suoi motivi non respirano che la carità, le sue pratiche e il suo fine non tendono che ad esercitare e perfezionare la carità ». Lettera pastorale per stabilire la divozione al sacro Cuore, I c., col. 1032). – È ben così che l’intende la Chiesa. Essa dice nell’inno alle Laudi: Quis non amantem redamet? Quis non redemptus diligat? ». E nella segreta della Messa Egredimini prega cosi: « Noi vi supplichiamo, Signore che lo Spirito Santo c’infiammi dell’amore che Nostro Signore Gesù Cristo ha fatto scaturire dal suo amore sulla terra, e che ha voluto tanto vedere accendersi ». – Quando Pio IX, nel 1856, estendeva la festa del Sacro Cuore a tutta la Chiesa, fu per « fornire ai fedeli un’incitamento (incitamenta) per amare e ripagare in amore (ad amandum et redamandum) il cuore di Colui che ci ha amato ed ha lavato col suo sangue le nostre colpe » (in: NILLES, 1. 1, parte 1, c. IV, § 1, t. I, p. 167). E, quando lo stesso Pontefice innalzò la festa a un rito superiore, lo fece perché la devozione d’amore al Cuore del nostro Redentore si propagasse sempre di più e penetrasse più addentro nel cuore dei fedeli, affinché « la carità che si è raffreddata, in molti, si rianimi al fuoco del divino amore » (Ibid, p. 170). Si dice pure nel breve di beatificazione di Margherita Maria: « Gesù non ha nulla così a cuore come di accendere nel cuore degli uomini quella fiamma d’amore di cui il suo proprio cuore è infiammato. Per meglio riuscirvi, ha voluto che si stabilisse e si propagasse nella Chiesa, il culto del suo sacratissimo cuore (In: NILLES, 1. 1, parte 2, C. Il, § 2, t. I, p. 346.). La medaglia commemorativa della beatificazione, coniata a Roma nel 1864, rappresenta Gesù che mostra il suo cuore, con questa leggenda: Cor, ut redametur exhibet » (Vedi: NILLES, I. 1, p. 3a , C. 111, t. 1, p; 468.). –

Leone XIII ha ripetuti) gli stessi insegnamenti nella Enciclica del 28 giugno 1889. Egli scrive: « Gesù non ha desiderio più ardente che di vedere acceso nelle anime il fuoco d’amore da cui il suo proprio cuore è consumato. Andiamo dunque a Colui che non ci domanda altro come prezzo della sua carità, che corrispondenza d’amore ». Tutta la lettera è piena di questa idea. È qui, d’altronde, che ci riconducono sempre i documenti che si riferiscono al sacro Cuore, e nulla è più frequente che incontrare, citata in questo senso la parola del Divin Maestro: « Sono venuto a portare il fuoco nella terra, e che cos’altro desidero se non che si accenda ». Aggiungiamo che, siccome la divozione è un compenso d’amore all’amore sconosciuto e oltraggiato, così quest’amore si presenta naturalmente come un amore di riparazione. Così come vedremo, i documenti ci parlano in pari tempo e di riparazione e d’amore.

II.

L’ATTO PROPRIO DELLA DEVOZIONE

L’atto proprio della divozione al sacro Cuore; l’atto. d’amore; il suo spirito, il carattere, le pratiche. tutto si riferisce all’amore. La riparazione.

È questa una questione su la quale è discusso qualche volta. Per noi è stata già risolta da quel che precede; l’atto proprio della divozione, è, evidentemente, l’atto d’amore. Gesù ci dà il suo cuore per avere il nostro. La divozione all’amore è, essenzialmente, una divozione d’amore. La sua divisa è: Nos ergo diligamus Deum quoniam ipse prior dilexit nos (I Giov., IV, 19). E ancora: Sic nos amantem quis non redamaret? All’amore, rispondiamo con l’amore. Ma, notiamolo bene, per questo appunto che si presenta come una risposta all’amore, quest’amore ha dei caratteri speciali, determinati in gran parte dall’amore che vuol riconoscere rispondendo ad esso. – Io non parlo del colore indescrivibile che gl’imprime il sentimento sempre presente della distanza fra noi e l’Amico divino, la cognizione di ciò che Egli è e di quel che noi siamo; Egli ci mette, a suo riguardo, in una attitudine analoga a quella degli Apostoli dopo la risurrezione, al mattino della pesca miracolosa. Mangiando sotto i suoi sguardi la piccola refezione che Egli stesso aveva preparato loro non osavano domandargli chi fosse ben sapendo che era Gesù. Egli addolcisce tutte le relazioni fra Lui e noi per fondere insieme la condiscendenza infinita che senza abbassarsi discende alla più intima famigliarità, e il rispetto affettuoso che osa amare semplicemente, senza dimenticare l’audacia di rivolger in alto i propri affetti. Voglio indicare certi tratti più speciali di questo amore, tali come li richiede la divozione. È un amore reciproco che non dimentica mai d’essere amato. Se si fosse tentati di dimenticarlo, uno sguardo al sacro Cuore, ce lo ricorderebbe subito. Quest’amore reciproco è, malgrado le distanze, un amore d’amicizia, un amore di famigliarità. di fratellanza intima e tenera. Ciò dipende in parte, senza dubbio, dal fatto che l’amore del sacro Cuore per noi si presenta come un amore umano, sotto forme sensibili, alla misura, per così dire, del nostro cuore. Ma ciò dipende sopra tutto dal fatto che questo amore, essendo quello di Gesù, del Verbo incarnato, non possiamo dimenticare che Egli ha voluto immedesimarsi nella nostra famiglia per immedesimarci nella sua, e che, essendo Dio, ha voluto farsi uomo per fare dell’uomo un Dio. Quest’amore reciproco, pertanto, non dimentica che una parte ha prevenuto, che Gesù ha fatto i primi passi e che non ci resta che corrispondere. Si ferma dunque a studiare questo amore che previene e tutto quello che ha fatto; cerca, pur sapendo di non arrivar mai, di corrispondere alla tenerezza e all’ardore di quest’amore, con tutta la sua potenza di tenerezza e di ardore, alla sua generosità, con tutta la sua forza di abnegazione, disinteressata, ecc…. In una parola si sforza, in una lotta ineguale, di rispondere con la perfezione dell’amore, all’amore perfetto che l’ha prevenuto. Ma l’amore di Gesù, come si è rivelato alla beata Margherita Maria, è un amore sconosciuto e oltraggiato. Ed è questo che dà tutta la sua importanza all’atto di riparazione, al culto del sacro ‘Cuore. Questo posto fatto alla riparazione è tale che, qualche volta, sembra presentarsi come il primo atto e il più essenziale della divozione. E pertanto non è così. Prima di tutto, la riparazione, tale come ci apparisce qui, è una riparazione d’amore, non già una riparazione di giustizia e di espiazione, e si traduce per mezzo dell’ammenda onorevole che si rivolge precisamente all’amore sconosciuto e oltraggiato. L’amore è messo dunque in prima linea. Ag-giungiamo che paranco nei testi la riparazione è sempre messa al secondo posto. Vi si dice che il fine principale della divozione è l’amore; la riparazione vien dopo, e come atto speciale d’amore verso l’amore riconosciuto e oltraggiato. L’amore, la consacrazione, o dono amoroso di sé al sacro Cuore, la vita tutta per lui, e in lui, hanno un’importanza infinitamente maggiore negli scritti e nelle preoccupazioni di beata Margherita Maria, che non ne abbiano la riparazione e l’ammenda onorevole. E, se anche fosse altrimenti, non bisognerebbe, per questo, invertire l’ordine. Per la forza stessa delle cose, la riparazione non vien che dopo e come prova speciale di amore. – Altri atti, altre pratiche son care ai devoti del sacro Cuore: Comunione riparatrice, divozione all’Eucaristia, Ora santa, divozione alla Passione, ecc. Care al loro amore perché chieste espressamente da Gesù ai suoi amici fedeli, nella persona della sua amante prediletta, perché praticate o indicate da lei stessa come gradite al cuore del Divino Amico perché manifestazioni spontanee d’un amore tenero, delicato, generoso. Tutto questo proviene naturalmente dalla natura propria di questa divozione. Sono gli aspetti dell’amore. Niente è estraneo all’amore di quel che è rivelazione, traduzione ne d’amore. Ma tutto quello che si fa, tutto quello che si soffre, non si riferisce all’amore come alla sua sorgente e al suo termine. Leggete quello che dice san Paolo della carità (I Cor. XIII, 5 e segg.). Vi trovate come una descrizione della vera divozione al sacro Cuore, poiché vi trovate la descrizione del vero amore. Lo spirito della divozione è dunque uno spirito d’amore. Tutte le pratiche ne sono animate, tutte ci guidano a lui. – Dappertutto dove incontriamo la divozione al sacro Cuore incontriamo questo carattere dell’amore. – È per amore che si stringe a Gesù per studiarvi il suo amore, dalla culla al Calvario; non arrestandosi ai fatti o esteriori che per ricercarvi le tracce dell’amore. È per meglio amarlo che cerca di meglio conoscerlo. È pure per amare che compatisce alle sue pene, che gli rende omaggio vedendolo sconosciuto, che gode delle sue gioie e dei suoi trionfi come se fossero suoi, che vive di lui, infine, e si sforza di piacergli, amandolo sempre più, per innestargli il proprio amore e rendendosi sempre più amabile ai suoi occhi per soddisfare questo amore. È, a dir vero, ai predicatori e agli autori ascetici che appartiene sviluppare tutte queste considerazioni, ma era pur necessario accennarle per farsi un’idea più giusta e vera della divozione. – Le anime di vote troveranno nella loro divozione stessa di che nutrirsene e penetrarsene. Ed è a misura che se ne nutrono e se penetrano, che la loro divozione cresce e diviene in loro una sorgente inesauribile di considerazioni amorose e di amore sempre più tenero, sempre più operoso.

LA PARUSIA (2)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (2)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE. Rue de Rennes, 117; 1920

ARTICOLO SECONDO

LA PRESENTE GENERAZIONE NON PASSERÀ, PRIMA CHE TUTTE QUESTE COSE NON SI SIANO COMPIUTE »,

in San Matteo (xxiv XXIV, 34) e San Marco (XIII, 30), da un lato; S. Luca dall’altro (XXI, 32).

Cominciamo col concedere audacemente che la parola generatio hæc, (ἠ γενεά αὓτη – [e ghenea aute]) significa, in senso naturale e ovvio, il tempo dei contemporanei di Gesù, la generazione di quel tempo in opposizione a quelle che la seguiranno, e di conseguenza, il periodo di tempo che, valutato all’estrema durata della vita umana, si concluderà con il primo secolo della nostra era. – Non sembra esserci alcun dubbio a questo proposito. È vero che diversi interpreti hanno creduto di poter uscire d’imbarazzo dando alla parola γενεά [ghenea] il senso di posterità, discendenza, razza, o addirittura “tutta la durata del genere umano” in generale, o del popolo giudaico in particolare, così da tradurre: « Questa generazione (cioè il genere umano, o se si vuole, la razza giudaica) non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute. » In questo modo, la difficoltà che sta per occuparci scomparirebbe subito, e radicalmente, e ciò non potrebbe essere più chiaro; ma aggiungiamo rapidamente che scomparirebbe solo per farne posto ad un’altra incomparabilmente più grave, o per meglio dire, inestricabile in ogni modo. – Infatti, una tale interpretazione del testo evangelico, gli toglierebbe ogni credibilità ed è del tutto inammissibile. Innanzitutto perché farebbe parlare Gesù per niente dire. Perché se intendiamo questa generazione, con “tutto il genere umano”, il significato sarebbe: “In verità, vi dico, la fine del mondo non verrà finché non avverranno tutte le cose che ho predetto sulla fine del mondo stesso”, il che si ridurrebbe ad una solenne affermazione che la fine non verrà prima che venga la fine: una tautologia assurda e ridicola. E se si intende la razza peculiare del popolo giudaico, il significato, identico nella sostanza, aggiungerebbe solo l’assicurazione della durata futura di questo popolo fino all’ultimo giorno, una cosa senza dubbio estremamente notevole e degna di nota, soprattutto in considerazione delle condizioni molto particolari in cui esso si trovava, ma che non ha alcun tipo di connessione o legame con l’oggetto della presente questione. – In secondo luogo, l’espressione ἠ γενεά αὓτη (e ghenèa aute) ricorre fino a sedici altre volte nei Vangeli, sia di San Matteo, sia di San Marco, sia di San Luca, e sempre, costantemente, invariabilmente, significa la generazione favorita dalla presenza, dagli insegnamenti e dai miracoli di Gesù. È la generazione che è come i bambini seduti al mercato, che gridano ai loro compagni: « Abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato un lamento per voi e non vi siete battuti il petto. Giovanni non è venuto né a mangiare né a bere, e dicono: “È posseduto dal demonio”. Il Figlio dell’uomo è venuto mangiando e bevendo, e dicono che è un uomo allegro e un bevitore di vino » (Matth., XI, 16; Luca, VII, 31), Questa è ancora la generazione che chiede un segno, e alla quale sarà dato solo il segno del profeta Giona (Matth, XII, 39; Marco, VIII, 12; Luca, XI, 29); la generazione che sarà condannata nel giorno del giudizio dagli uomini di Ninive che fecero penitenza alla voce di Giona, così come la regina del Sud che venne dai confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone, mentre a questa generazione, fu mandato più di Giona e più di Salomone (Matth, XII, 41; Luca, XI, 31); la generazione, infine, dalla quale il sangue di tutti i profeti e di tutti i giusti fu versato fin dall’inizio, perché doveva rendere completa la misura crocifiggendo il Figlio di Dio stesso, e mettendo a morte i suoi Apostoli e i suoi ministri (Matth., XXIII, 36; Luca, XI, 50): tanti i caratteri che sono appropriati alla generazione contemporanea a Gesù, ed appropriati solo ad essa. Infine, non è evidente che dicendo: “Questa generazione non passerà finché tutte queste cose non saranno compiute“, Gesù intendeva rispondere alla domanda posta in precedenza dai discepoli, e posta in questi termini precisi: « Dicci quando avverranno queste cose, dic nobis quando hæc erunt? ». E non è ancora più evidente ancora che, intendendo ἠ γενεά αὓτη – ghenea aute – come “razza umana” o razza giudaica fino alla fine dei secoli, la risposta non sarebbe più una risposta, poiché lascerebbe il tempo degli eventi, in tutti i punti e lungo tutta la linea, completamente indeterminato? Non rifacciamo dunque i testi a nostro piacimento per amore di una causa, ma prendiamoli così come sono, con il significato dato loro dal valore naturale delle parole, dalle esigenze del contesto, dall’analogia dei passi paralleli e dal modo comunemente usato nel linguaggio umano. Gesù, interrogato sul tempo degli eventi, ha detto: “Questa generazione non passerà finché essi non saranno compiuti“. Questo era per dire ai suoi contemporanei che li avrebbero visti, che ne sarebbero stati testimoni, che addirittura, come appare dai termini di questa profezia e da diversi altri luoghi del Vangelo, avrebbero avuto una parte molto terribile in essi. E infatti, se veniamo ora all’evento, troveremo piena e completa conferma del senso naturale e ovvio delle parole ascoltate dagli Apostoli sul Monte degli Ulivi, alla vigilia della Passione. Una cosa è ovvia dall’inizio, e deve essere concessa prima di ogni ulteriore esame dell’oracolo evangelico. Non era ancora passato mezzo secolo, anzi meno, cioè quarant’anni, e tutto ciò che nella predizione è descritto in primo piano, aveva ricevuto da punto a punto, fino all’ultimo dettaglio, con una sorprendente precisione, il più brillante adempimento. Ho detto, tutto ciò che è descritto in primo piano, perché qui, come è evidente dal più semplice sguardo al testo dei tre evangelisti, siamo davvero in una di quelle profezie con doppio oggetto, e di conseguenza, con doppio piano, di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente. È impossibile sbagliarsi. Due grandi catastrofi, distinte l’una dall’altra per come è possibile, sono chiaramente annunciate. La prima riguarda Gerusalemme, che sarà investita dalle armate, assediata, saccheggiata e calpestata dai Gentili; l’altra, incomparabilmente più grande, riguarda l’universo, che, scosso fino al suo fondo, sarà nelle convulsioni dell’agonia, mentre gli uomini si prosciugheranno dal terrore nell’attesa di ciò che accadrà al mondo (Luca, XXI, 20, segg.; 25, segg.). L’una più vicina, quando i Giudei saranno messi a ferro e fuoco e condotti in cattività tra tutte le nazioni, l’altra più lontana, che verrà solo dopo che il Vangelo sarà stato predicato su tutta la terra ed i tempi dei Gentili saranno stati compiuti (Luc. XXI, 24; Matt. XXIV, 14). – L’una che può essere evitata con la fuga, grazie ai segni dati in anticipo, l’altra che verrà all’improvviso, che sorprenderà come una rete tutti gli abitanti della terra, senza che sia possibile sfuggirvi, se non preparandosi ad essa con una vigilanza continua ed una preghiera perseverante (Matth., XXIV, 15; Luc, XXI, 35). L’una, infine, il cui tempo non cade sotto l’impenetrabile segretezza in cui è nascosto invece il tempo della seconda (Matth., XXIV, 36), e che, a differenza della seconda, occupa veramente quello che abbiamo chiamato il primo piano e per così dire il proscenio del quadro profetico dipinto da Nostro Signore. – Vediamo dunque, prima di ogni altra cosa, come questa profezia del primo piano, nella quale, notiamo già (perché questo è ciò che è importante osservare qui, e sul quale torneremo più avanti), l’oggetto del fondo stesso sia in qualche modo compreso, secondo che la cosa rappresentata si possa dire compresa nella figura, e la realtà rappresentata dall’immagine, nell’immagine che la rappresenta: Vediamo, dico, come si fosse realizzata da punto a punto, ed in ogni suo dettaglio, prima che fosse passata la generazione di cui Gesù aveva detto, non præteribit generatio hæc, donec omnia hæc fiant. Colpisce la presentazione fatta da Bossuet nel Discorso sulla storia universale. Ci basta trascrivere qui (salvo alcune lievi aggiunte, abbreviazioni e trasposizioni) i passaggi principali, a cominciare dall’enumerazione delle sventure segnalate negli anni precedenti l’assedio della sfortunata Gerusalemme (Bossuet, Hist. univ. II° parte, c. XXI – XXII). In primo luogo, Gesù aveva annunciato epidemie, carestie e terremoti, e infatti le storie testimoniano che mai queste cose erano state più frequenti e più notevoli di quanto lo fossero in questi tempi. Negli ultimi sette anni di Nerone, la terra, si può dire letteralmente, tremò da tutte le parti. Nel 61 e 62 d.C. i terremoti scossero l’Asia, l’Acaia e la Macedonia; le città di Hierapolis, Laodicea e Colossi furono particolarmente colpite (Tacito, Ann., XIV, 27.). Nel 63 passarono in Italia; la campagna di Napoli già ardeva di quei terribili incendi che, sedici anni dopo, portarono alla prima storica eruzione del Vesuvio. Si sono manifestati in scosse sotterranee. Napoli e Nocera furono colpite, Pompei fu quasi rasa ak suolo, Ercolano parzialmente distrutta: e questo era ancora solo il preludio alla loro rovina. Il terrore in Campania fu universale, gli uomini divennero folle per lo stacento (Tacit. Ann. XIV, 22). Il terreno sembrava scosso ovunque, e i Cristiani ricordarono le parole del Salvatore: Et terræ motus magni erunt per loca. L’anno 66 vide un altro tipo di disgrazia. La sfortunata Campania fu afflitta questa volta da venti torrenziali che devastarono case, arbusti e coltivazioni. Queste tempeste raggiunsero Roma, e nella città stessa, senza alcun disturbo visibile dell’atmosfera, una malattia pestilenziale spopolò tutti i ceti della società. Secondo Tacito (Ann., XVI, 13) e Svetonio (in Ner. 39), le case erano piene di corpi morti, le strade di convogli funebri. Uomini e donne, bambini e vecchi, schiavi e liberi, perirono allo stesso modo. In un solo autunno il tesoro di Venere Libitina registrò trentamila morti (De Clinmpagny, Rome et la  Judée, t. 1, c,11). Con il pronostico delle catastrofi naturali, si adempì anche il pronostico annunciato, di apparizioni spaventose nel cielo, e di segni straordinari: terroresque de cœlo, et signa magna erunt. Giuseppe: de Bello jud., l. VII, c. 12) e Tacito (Hist, v, 13), ci dicono che per un anno intero si vide planare una sinistra meteora a forma di spada, e (cosa che secondo Giuseppe sembrerebbe una favola inverosimile, se non fosse garantita da una moltitudine di testimoni oculari), che in quel momento si vedevano in tutto il paese, un po’ prima dell’alba, squadroni di cavalieri armati, che sfondavano le nuvole, correvano nell’aria e venivano ad accamparsi intorno alla capitale. « È anche una tradizione costante attestata nel Talmud, e confermata da tutti i rabbini, che circa quarant’anni prima della catastrofe, costantemente nel tempio sono state viste cose strane. Ogni giorno apparivano nuove prodigi, così che un famoso rabbino un giorno gridò: “Tempio, tempio, cosa ti muove e perché ti spaventi? Cosa c’è di più marcato di quel terribile rumore che fu udito dai sacerdoti nel santuario il giorno di Pentecoste, e questa voce che usciva dalle profondità di quel luogo Sacro: “Andiamo via da qui, andiamo via da qui! E se questo prodigio fu visto solo dai sacerdoti, qui ce n’era un altro manifesto agli occhi di tutto il popolo. Quattro anni prima della dichiarazione di guerra, un contadino di nome Gesù, detto Giuseppe, si mise a gridare: “Una voce uscì dall’oriente, “Una voce uscì dall’ovest, “Una voce uscì dai quattro venti: Una voce contro Gerusalemme e contro il tempio, una voce contro gli sposi e le spose, una voce contro tutto il popolo. Da allora non cessò mai di gridare: « Guai a Gerusalemme! » E nei giorni di festa gridava ancora più forte. E nessun’altra parola usciva dalla sua bocca; perché quelli che lo compiangevano, quelli che lo maledicevano e quelli che provvedevano a lui, non udirono da lui che questa terribile parola: « Guai a Gerusalemme! » Fu preso, interrogato e condannato alla fustigazione dai magistrati: ad ogni colpo e ad ogni richiesta, rispondeva senza mai lamentarsi: « Guai a Gerusalemme! » Fu rinviato come un pazzo, e corse per tutto il paese ripetendo continuamente la sua triste previsione. Per sette anni continuò a gridare in questo modo, senza rallentare e senza che la sua voce si indebolisse mai. Al momento dell’ultimo assedio, si rinchiuse nella città, girando instancabilmente intorno alle mura e gridando con tutta la sua forza: « Guai al tempio, guai alla città, guai a tutto il popolo! » Alla fine aggiunse: “Guai a me!” e allo stesso tempo fu colpito da una pietra lanciata da una macchina. » Questo per quanto riguarda i presagi di cui è stato detto: “Ci saranno apparizioni spaventose nel cielo e grandi segni”. Per quanto riguarda i disordini, le voci di guerra e l’insorgere di nazione contro nazione e regno contro regno: « Questo fu verificato alla lettera negli ultimi anni di Nerone, quando l’impero romano, così pacifico dopo la vittoria di Augusto e sotto il potere degli imperatori, cominciò a scuotersi, e le città della Gallia, della Spagna e tutti i regni di cui l’impero era composto, furono improvvisamente agitati: quattro imperatori (Galba, Ottone, Vitellio, Vespasiano) si sollevarono quasi contemporaneamente contro Nerone e tra loro; le coorti del pretorio, gli eserciti della Siria, della Germania e tutti quelli che erano sparsi in Oriente e in Occidente, che si scontrarono e attraversano il mondo da un’estremità all’altra, per decidere la loro dispute con battaglie sanguinose. In ventidue mesi, l’Italia fu invasa due volte, Roma presa due volte, la seconda con un assalto; guerra sul Reno, guerra sul Danubio, guerra sul Mar Nero, guerra ai piedi dell’Atlante, contemporaneamente sul Tevere; mai forse, per tante cause diverse, tante nazioni erano state agitate, tante terre avevano sofferto, tanti uomini erano morti. E questo doveva essere solo l’inizio dei dolori ». Badate a voi stessi, aveva aggiunto Gesù, intendendo che anche la Chiesa, sempre afflitta fin dalla sua prima costituzione, avrebbe visto accendersi contro di essa la furia dell’inferno, più violenta che mai. Vi consegneranno alle torture, vi faranno morire, sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Questo si compì punto per punto, e in particolare a Roma, dove Nerone scatenò la prima delle dieci grandi persecuzioni di cui Tacito ha descritto gli orrori, e mise a morte i principi degli Apostoli, San Pietro e San Paolo. Ma era sui Giudei che dovevano cadere le più grandi calamità: sui Giudei che, con la loro turbolenza e il loro furore, stavano preparando la loro stessa rovina, alla quale sarebbero stati irrimediabilmente precipitati dai falsi Cristi e dai falsi profeti che Gesù aveva annunciato: “Sorgeranno molti falsi Cristi e falsi profeti – aveva detto – e inganneranno molte persone. Infatti, non ne sono mai apparsi così tanti come nel periodo successivo alla sua morte. “Soprattutto al tempo della guerra di Giudea, e durante il regno di Nerone che la iniziò, Giuseppe ci mostra un numero infinito di questi impostori che attiravano il popolo nel deserto con vani prestigi e segreti di magia, promettendo loro una pronta e miracolosa liberazione. Infatti, uno dei segni più terribili dell’ira divina è quando, come punizione per i nostri peccati precedenti, essa ci consegna al nostro senso reprobo, così che siamo sordi a tutti i saggi avvertimenti, ciechi alle vie di salvezza che ci vengono mostrate, veloci a credere a tutto ciò che ci perde, purché ci lusinghi, e audaci a intraprendere tutto senza mai misurare la nostra forza con quella dei nostri nemici che irritiamo. E questo è ciò che doveva accadere ai Giudei, perché sebbene la loro ribellione avesse attirato su di loro le armi romane, Tito non li avrebbe persi, anzi, spesso offrì loro il perdono, non solo all’inizio della guerra, ma anche quando non potevano più sfuggire alle sue mani. Aveva già costruito un lungo ed esteso muro intorno a Gerusalemme, con torri e ridotte forti come la città stessa, quando mandò loro Giuseppe, un loro concittadino, uno dei loro capitani, uno dei loro sacerdoti, che era stato catturato in questa guerra mentre lasciava il suo paese. E cosa non aveva detto loro per smuoverli? Quante forti ragioni aveva dato loro per tornare all’obbedienza! Ma, sedotti dai loro falsi profeti, non ascoltarono nulla, e furono ridotti allo stremo; la fame ne uccise più che la guerra, e le madri mangiarono i loro figli. E Tito, da parte sua, era toccato dai loro mali, e prese i suoi dei come testimoni che non era lui la causa di tanti orrori, ed essi diedero ancora credito alle false predizioni che promettevano loro l’impero dell’universo. Ancor più, la città era presa, il fuoco era già appiccato da ogni parte, e questi insensati credevano ancora sempre ai falsi profeti che dicevano loro che il giorno della salvezza era arrivato, per cui avrebbero dovuto resistere fino alla fine e non ci sarebbe stata pietà per loro. » – Ma veniamo ora ai segni che Gesù diede al suo popolo per tirarlo fuori dalle disgrazie che dovevano colpire Gerusalemme. « Dio, naturalmente, non dà sempre al suo popolo fedele tali segni, e in questi terribili castighi che fanno sentire la sua potenza a intere nazioni, spesso colpisce i giusti con i colpevoli, perché ha mezzi migliori per separarli, di quelli che appaiono ai nostri sensi. Ma nella desolazione di Gerusalemme, affinché l’immagine dell’ultimo giudizio fosse più esplicita e la vendetta divina più pronunciata sui miscredenti, Egli non volle che i Giudei che avevano ricevuto il Vangelo si confondessero con gli altri, e Gesù diede ai suoi discepoli certi segni con cui avrebbero potuto sapere quando era il momento di lasciare quella città reproba. Si basò, come era sua abitudine, sulle profezie antiche, e guardando indietro al luogo dove l’ultima rovina di Gerusalemme fu mostrata così chiaramente a Daniele così chiaramente a Daniele: “Quando vedrete l’abominio della desolazione che Daniele ha profetizzato, colui che legge ascolti; quando l’avete visto posto nel luogo santo, oppure, come dice San Marco, nel luogo dove non dovrebbe essere, allora coloro che sono in Giudea, fuggano verso le montagne. San Luca racconta la stessa cosa con altre parole: Quando avrete visto gli eserciti circondare Gerusalemme, sappiate che la sua desolazione è vicina; allora quelli che sono in Giudea si ritirino sui monti. Uno degli evangelisti spiega l’altro, e mettendo insieme questi passaggi è facile per noi sentire che questo abominio predetto da Daniele è (in parte almeno) la stessa cosa degli eserciti intorno a Gerusalemme, κυκλουμένη ὑπό στρατοπέδων Ίερουσαλήμ [kokloumene upo stratopedon Ierousalem]. I santi Padri l’hanno intesa così, e la ragione ci convince, perché la parola abominio nell’uso della Scrittura, significa idolo, e tutti sanno che gli eserciti romani portavano sulle loro insegne le immagini dei loro dei e dei loro Cesari che erano i più rispettati tra tutti i loro dei. Queste insegne erano un oggetto di culto per i soldati, e poiché gli idoli, secondo gli ordini di Dio, non dovevano mai apparire in terra santa, le insegne romane ne erano bandite. Così vediamo nelle storie che, finché i romani ebbero qualche riguardo per i Giudei, non lasciarono mai apparire le insegne romane in Giudea. Permettevano che gli stendardi delle legioni entrassero a Gerusalemme solo velati; a volte, addirittura, facevano marciare le loro truppe senza insegna, come quando Vitellio attraversò la Giudea per portare la guerra in Arabia. Inoltre, secondo Giuseppe (Antiq. XVI, 2), essi arrivarono al punto di esentare i giovani dal servizio militare, affinché non fossero costretti a seguire stendarti contrassegnati da immagini idolatriche e a subire cose così contrarie alla loro legge. Ma all’epoca dell’ultima guerra giudaica, i romani non risparmiarono un popolo che volevano punire. Così, quando Gerusalemme fu assediata, era circondata da tanti idoli, quante erano le insegne romane, e [l’abominio] non apparve mai dove non doveva essere, cioè in terra santa e intorno al tempio (Questo è detto senza pregiudizio di un’interpretazione più completa di cui parleremo più tardi, secondo la quale l’abominazione della desolazione predetta dal profeta Daniele, segnò la profanazione del luogo santo da entrambe le parti in una volta sola. Da parte degli assedianti, con l’esposizione di insegne idolatriche e il culto che veniva reso loro sotto le mura stesse del tempio. Ma soprattutto e prima di tutto, dalla parte degli assediati, dagli eccessi degli Zeloti che, stabiliti nel tempio come in una fortezza, lo insozzarono durante quattro anni consecutivi, con crimini inauditi e forzature esecrabili che la penna si rifiuta di descrivere, come si dirà a suo luogo). – « Ma, si dirà, è questo il grande segno che Gesù doveva dare? Era il momento per fuggire quando Tito pose l’assedio a Gerusalemme e chiuse i viali così strettamente che non c’era modo non c’era modo di scappare? È qui la meraviglia della profezia. Gerusalemme fu assediata due volte in questi tempi: la prima da Gestio Gallo, governatore della Siria, nell’anno 66 d.C.; la seconda da Tito, quattro anni dopo. Nell’ultimo assedio, non c’era modo di scappare. Tito condusse questa guerra con troppo zelo, e l’accerchiamento impenetrabile che fece intorno alla città non diede speranza ai suoi abitanti. Ma non ci fu nulla del genere nell’assedio di Gestio; egli era accampato a cinquanta stadi da Gerusalemme; il suo esercito era sparso tutt’intorno, ma senza fare alcuna trincea, e fece la guerra con tanta negligenza da perdere l’occasione di prendere la città, le cui porte gli furono aperte dal terrore, dalle sedizioni e persino dalla sua stessa intelligenza. Inoltre, Gestio levò prontamente l’assedio e ordinò una ritirata che si trasformò in un disastro per i romani. Ecco perché, durante la tregua di quattro o cinque mesi che trascorse fino all’invasione dell’esercito di Vespasiano (cioè dall’autunno del 66 alla primavera del 67), lungi dall’essere impossibile la fuga, la storia registra espressamente che molti si ritirarono. « Dopo la sconfitta di Cestio – dice Giuseppe – (Joseph., 1. II de Bello jud., c. XXV), molti fuggirono da Gerusalemme come si fugge da una nave che affonda. » Quindi Gesù aveva distinto molto chiaramente i due assedi: uno in cui la città sarebbe stata circondata da trincee, “circumdabunt, te inimici tui vallo, et coangustabunt te undique” (Luca, XIX, 43); l’altro dove sarebbe stato investita dalle armate, cum videritis circumdari ab exercitu Jerusalem (Luca XXI, 20). Era allora che occorreva fuggire e ritirarsi sulle montagne; questo fu il segnale che Nostro Signore aveva dato ai suoi. E infatti i Cristiani obbedirono alla parola del loro Maestro. – Sebbene ce ne fossero migliaia a Gerusalemme e in Giudea, non leggiamo in Giuseppe o in altre storie che ce ne fossero nella città quando essa fu presa. Al contrario, i monumenti antichi mostrano che si ritirarono nella piccola città di Pella in un paese montuoso vicino al deserto, ai confini tra la Giudea e dell’Arabia. Il resto è noto; sono noti gli orrori dell’assedio, di cui Gesù disse: “Ci sarà allora una così grande angoscia come non c’è stata dall’inizio del mondo, né ci sarà mai. (1(I) Niente può dare un’idea dell’angoscia di quei giorni terribili come il resoconto dato da Giuseppe nel terzo libro della sua Storia Ecclesiastica, che è tradotto come segue: “Una donna di nome Maria, della regione al di là del Giordano, distinta sia per la sua nascita che per la sua ricchezza, si era rifugiata a Gerusalemme, dove fu tenuta rinchiusa con il resto della moltitudine. Già i terroristi che facevano tremare la città, come Gerusalemme, pressata da tutti i lati dai romani, era lacerata all’interno da tre fazioni ostili. “E anche se l’odio che queste fazioni avevano verso i romani arrivava fino al furore, non erano meno feroci l’una contro l’altra. Le battaglie all’esterno costarono ai Giudei meno sangue di quelle all’interno. Un momento dopo gli assalti sostenuti contro lo straniero, i cittadini ripresero la loro guerra interna; la violenza e il brigantaggio regnavano ovunque nella città. Nel frattempo, la città stava languendo, e tutto il bagaglio che aveva potuto portare con sé nella sua precipitosa ritirata era stato saccheggiato, e i loro sbirri la stavano gradualmente derubando degli ultimi resti della sua fortuna, e in particolare, di tutto il cibo che era possibile procurarsi. Questo portò al culmine l’indignazione di questa donna, che, stanca di preparare per gli altri un cibo che non le era permesso di toccare, e non avendo alcun mezzo per trovarlo, fu torturata dalla fame fino al fondo delle sue viscere, e ascoltando solo i sinistri consigli del furore e del bisogno estremo, finì per ribellarsi alla natura. Prendendo in mano suo figlio, che stava ancora allattando, gli disse: “Misero bambino, per chi o per cosa ti riserverei in mezzo ai terribili mali che ci sovrastano? I mali dell’assedio, i mali della carestia, i mali dell’atroce guerra civile! Cadendo nelle mani dei romani, se abbiamo la nostra vita, cosa possiamo aspettarci se non la servitù? Ma prima della schiavitù, ecco, è venuta la fame, e peggio di entrambe sono gli uomini faziosi che ci opprimono. Diventa dunque per me un cibo, per i nostri tiranni una furia, per il resto degli uomini la loro favola, poiché tu sei l’ultima cosa che ancora manca alle calamità degli ebrei!” Detto questo, taglia la gola a suo figlio, lo cucina, poi ne mangia la metà, e mette da parte l’altra metà che coprendola accuratamente. Nello stesso tempo, arrivarono gli sbirri che, attratti dall’odore dell’esecrabile arrosto, minacciarono la donna di morte se non avesse mostrato immediatamente il piatto che aveva preparato. E lei rispose che aveva riservato una buona metà per loro e che gliela avrebbe mostrata. Ma a una tale vista i briganti indietreggiano con orrore. E la donna riprese: “Questo è mio figlio, e questo è anche il mio crimine. Quindi mangiate, gente, visto che io stesso ne ho mangiato, e non date l’impressione di essere più sensibili di una donna, più teneri di una madre. Se, per scrupoli religiosi, siete riluttanti a mangiare la mia vittima, allora bene, lasciate che io, che ho già consumato la prima metà, ne abbia pure la seconda!” A queste parole gli sbirri si ritirarono tremando di orrore, non osando disputare tal piatto con una madre. E la notizia di un così grande delitto si diffuse subito in tutta la città, dove tutti si sentirono agghiacciati dall’orrore, e chiamarono beati coloro che la morte aveva preso prima che fossero stati testimoni oculari o auricolari di tali estremi mali » (Josephus, apud Euseb., Hist.,1, III, c. VI – Migne, P. G., t. XX, col. 231). – Si sa come Gerusalemme, pressata da ogni parte dai romani, fosse ormai solo un grande campo coperto di cadaveri, eppure i capi delle fazioni vi combattevano per l’impero. Non era questa un’immagine dell’inferno, dove i dannati si odiano l’un l’altro non meno di quanto odiano i demoni che odiano i demoni che sono i loro comuni nemici, e dove tutto è   di orgoglio, confusione e rabbia? » Ma alla fine il giorno fatale era arrivato, il giorno in cui Gerusalemme, una volta presa d’assalto, avrebbe visto il compimento della profezia di Gesù: Non relinquetur hic lapis super lapidem qui non destruatur. « Era il decimo giorno di agosto, che, secondo Giuseppe, si vedeva bruciare il tempio di Salomone. Nonostante la proibizione di Tito, e nonostante l’inclinazione naturale dei soldati, che doveva portarli piuttosto a saccheggiare che a dilapidare tanta ricchezza, un soldato, ispirato da un’ispirazione divina, si fece issare dai suoi compagni ad una finestra e diede fuoco al tempio. A questa notizia, Tito accorse, Tito ordinò che fosse subito spenta la fiamma incipiente. Ma l’ordine contrario era venuto dall’alto; la fiamma prese piede ovunque in un baleno, e in meno di qualche ora questo superbo edificio veniva ridotto in cenere. Così si consumò la più spaventosa catastrofe che la storia ricordi. Quale città ha mai visto perire un milione e centomila uomini in quattro mesi e in un solo assedio? Questo è ciò che i Giudei hanno visto nell’ultimo assedio di Gerusalemme. Non c’è da stupirsi, quindi, che il vittorioso Tito non ricevesse le congratulazioni dei popoli vicini, né le corone che gli mandavano per onorare la sua vittoria. Tante circostanze memorabili, l’ira di Dio così marcata e la sua mano così presente, lo tenevano in un profondo stupore, ed è questo che gli fece dire che egli non era il vincitore, e che era solo un debole strumento della vendetta divina » (Bossuet, passim, ubi supra).  – Questi sono gli eventi memorabili con cui tutte le predizioni di Gesù sulla città e sul tempio si sono adempiute con sorprendente precisione. Cominciati verso la fine del regno di Nerone, finirono sotto Tito nell’anno 70, quando, senza dubbio, non era ancora passata la generazione che nell’anno della predizione, cioè della passione (33 d.C.), fu chiamata “questa generazione”, ἠ γενεά αὓτη – ghênea aute. Infatti, molti dei contemporanei di Gesù ne erano stati testimoni e molti di loro vi erano morti. Molti, dico, e non solo tra i convertiti al Cristianesimo, che una speciale disposizione della Provvidenza aveva portato in salvo, ma anche, a quanto pare, di quelli che, dopo il sacco della città, furono ridotti in servitù e portati in cattività per tutta la terra. Ancora tutte queste cose non possono essere messe in dubbio perché hanno la notorietà che le dà la grande luce della storia. Inoltre, esse non sono l’oggetto principale della dimostrazione da dare al momento, dato che riguardano ancora solo quella parte della profezia che abbiamo chiamato sopra dell’avanti scena o primo piano, dove il culmine della difficoltà e del dibattito. – Così ora dobbiamo venire a quello che guarda lo sfondo, il fondo della prospettiva: il sole oscurato, la luna senza luce, le stelle che cadono dal cielo, l’intero universo in sussulto, il Figlio dell’Uomo che viene nella sua maestà, i suoi Angeli che raccolgono i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all’altro del cielo, e il resto che si riferisce indiscutibilmente all’ultimo giorno del mondo. Vogliamo dire, forse, che anche di tutto questo sia testimone oculare la stessa generazione? Pretendiamo che non sia passata senza che anche tutto questo abbia ricevuto il suo compimento? O, una volta ammesso, come deve essere, che sarebbe inutile cercare un altro significato ragionevole per “generatio hæc” rispetto a quello che è stato stabilito, dovremo forse concedere di buon grado o forzati alla scuola modernista la validità della parola “generatio hæc” che essa attribuisce come un errore a Gesù Cristo? La risposta a tutte queste domande è più semplice e più ovvia di quanto sembri; ma prima di entrare nella spiegazione che lo metterà nella giusta luce, notiamo attentamente i due modi in cui si dice che un evento profetizzato si sia realizzato, nello stile delle Scritture. In primo luogo, in se stesso, cioè nella propria realtà. In secondo luogo, prima di realizzarsi in sé, in un evento precursore, la sua immagine e la sua figura. È vero che questo secondo modo, poiché non è letterale e materiale come il primo, non cade così direttamente sotto i sensi, ma è forse, per tutto questo, meno fondato nella verità? Niente affatto. E questo per la ragione già indicata, che la figura come tale contiene già in qualche modo la cosa che rappresenta, e le dà una specie di esistenza anticipata: soprattutto se la figura e la cosa rappresentata sono state prima unite nell’unità della stessa profezia, e che, di conseguenza, la realizzazione esatta dell’una può essere concepita solo come infallibilmente legata alla realizzazione integrale e completa dell’altra. Non dobbiamo stupirci di vedere questo stesso modo comunemente ricevuto, ammesso e assunto dagli stessi scrittori sacri, non meno che dai loro interpreti più autorizzati. Isaia, per esempio, profetizza il parto della Vergine e lo dà ad Achaz e a tutta la casa di Davide come segno della protezione di Dio contro la cospirazione di Phaceo, re di Samaria, e Rasin, re di Siria. « Ascolta ora, o casa di Davide, egli dice – Dio stesso ti darà un segno: ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio e si chiamerà Emmanuele; ed egli mangerà panna e miele finché saprà gettare via il male e scegliere il bene; e prima che il bambino sappia gettare via il male e scegliere il bene, il paese di cui i due re ti spaventano, sarà devastato (Isaia, VII, 13-16). » Indubbiamente, qui si parla del Messia, colui che unirà a questo bel nome di Emmanuele gli altri non meno magnifici, elencati nel capitolo seguente, di mirabile consigliere, Dio forte, padre dell’eternità, principe della pace (Isaia, IX, 6). Ma cosa? Isaia credeva allora nell’adempimento immediato del suo oracolo, e quindi nella venuta immediata del Messia, per calcolare così l’età del meraviglioso bambino, nel tempo in cui la Giudea sarebbe stata liberata dall’attacco dei due re congiurati, e il paese nemico (Siria e Samaria, Damasco ed Efraim) devastato e distrutto? O forse dovremmo deviare dal loro significato naturale queste significative parole: Quia antequam sciat puer reprobare malum et eligere bonum, derelinquetur terra quant tu detestaris, a facie duorum regum suorum? Ma distinguiamo l’adempimento dell’oracolo nella persona del vero Emmanuele dal suo precedente adempimento nella persona dell’Emmanuele figurato. Perché qui c’è un altro bambino misterioso che sarà concepito, che nascerà, al quale sarà dato un nome simbolico, garantendo alla casa di Davide la liberazione dal pericolo di cui è minacciata, prima che sia giunto il tempo del primo balbettio del neonato. Questo è il bambino di cui il profeta dice qualche riga più sotto: “E mi avvicinai alla profetessa ed ella concepì e partorì un figlio. E il Signore mi disse: “Chiamalo Mecher-Shalal-Chasch-Baz, perché prima che il bambino possa gridare: “Padre mio, madre mia! … le ricchezze di Damasco e il bottino di Samaria saranno portati davanti al re. degli Assiri. Et dixit Dominas ad me: voca nomen ejus, accelera spolia detraheri. Quia antequam sciât puer vocare patrem suum et matrem suam, auferetur fortitudo Damasci, et spolia Samariœ coram rege Assyriorum (Isai. VIII, 3-4). “Ed in lui, in questo bambino, l’oracolo dell’Emmanuel il primo adempimento, un sicuro segno del secondo, che lo avrebbe avuto solo diversi secoli dopo, non più all’ombra di una figura questa volta, ma nella pienezza della realtà, « il Messia che egli (Isaia) annuncia in termini così magnifici, non deve apparire di persona se non più tardi, ma nascerà ora in figura; il mistero della sua nascita si svolgerà davanti ad un intero popolo per risvegliare la sua fede nella promessa. Nascerà così un figlio di Isaia, e il nome simbolico datogli prima del suo concepimento, segnerà la prossima devastazione di Damasco ed Efraïm, o, in un senso più alto l’inferno sconfitto e spogliato dal Messia. La madre di questo bambino si chiama profetessa, non perché è la moglie di un profeta, e si cercherebbe invano nella Bibbia un’analogia che giustifichi questo significato, ma perché essa profetizza effettivamente, con un parto che è l’immagine, molto cruda senza dubbio, del parto verginale di Maria » (Le Hir, Profeti d’Israele, sez. 1, art. 2). E sarebbe facile moltiplicare gli esempi di queste profezie con un doppio adempimento di cui la Scrittura abbonda (come la profezia di Malachia (IV, 5) sul ritorno di Elia, e quella del Salmo LXXI, sulle glorie del regno di Gesù Cristo, entrambe le quali dovevano realizzarsi una prima volta, l’una nella persona di Giovanni Battista (Matth., IX, 14, e XVII, 12), l’altra nella persona di Salomone, “tamquam in umbra et imagine veritatis“, secondo l’espressione di San Girolamo in Dan, c. XI), e strettamente legati come sono all’economia già esposta degli eventi figurativi, che la Sapienza divina ha destinato ad essere di epoca in epoca come tante prime rappresentazioni e attuazioni anticipate dei misteri della nostra Religione. Detto questo, dico ora che nella profezia di cui ci stiamo occupando, tutto ciò che si riferisce all’ultimo giorno del mondo ebbe senza difficoltà, nella rovina di Gerusalemme, e di conseguenza, prima che fosse passata la generazione contemporanea di Gesù, un primo adempimento del tipo di cui abbiamo appena parlato: un adempimento in forma di figura, senza dubbio, o, se volete, solo in effigie, ma sufficiente, secondo l’uso della Scrittura, ad autorizzare l’espressione, donec omnia fiant. Dico e ripeto che in questa stessa catastrofe si realizzarono come in un quadro vivente, ed una grandiosa rappresentazione delle cose, tutti i tratti dell’oracolo relativi alla consumazione dei secoli – cioè i segni nel sole, nella luna e nelle stelle furono rappresentati allora dagli straordinari prodigi che abbiamo riportato da Giuseppe e Tacito; che il raduno degli eletti da un capo all’altro della terra fu marcata dalla conservazione dei fedeli in rifugi sicuri, e separati dalla massa dei reprobi, che, rinchiusi all’interno delle mura della città, stavano per diventare la preda di tutte i flagelli uniti; che lo scuotimento, lo sconvolgimento di tutta la natura era la figura di questo disastro inaudito che, secondo testimonianze storiche, gettò Tito in uno stupore così profondo e lo fece inchinare davanti ad un agente misterioso, una forza superiore, una potenza irresistibile, per cui si diceva essere strumento irresponsabile ed involontario. E così, se Cristo, in questo spaventoso “finimondo” – per prendere in prestito dalla lingua italiana un’espressione che si adatta molto bene al nostro soggetto – non si è mostrato agli occhi del corpo con i suoi Angeli sulle nuvole del cielo nella gloria e nella maestà, la sua presenza, tuttavia, il suo intervento, la sua azione era così evidente che era sentito e riconosciuto dai pagani stessi, al punto da costringere l’imperatore romano, nel bel mezzo di una vittoria, a confessare che non era lui il vincitore, ma che ad un altro andavano le acclamazioni e le corone. Ora, queste semplici citazioni sarebbero già sufficienti a risolvere ogni difficoltà. Sì, è vero: tutto doveva essere realizzato, e tutto è stato compiuto in effetti, prima che fosse passata la generazione di allora, generatio hæc, fosse passata: tutto, compresa la parte della fine del mondo, nel modo che è stato spiegato, e che è in tutti i punti in accordo con quella che fa legge qui, cioè il linguaggio ricevuto e consacrato nella Scrittura. Non avremmo quindi che solo la lezione di San Luca, che dice tutto, senza aggiungere nulla, senza determinare nulla, senza specificare nulla: Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc donec omnia fiant (XXI, 32), e saremmo autorizzati a concludere che Gesù aveva annunciato che dovevano accadere durante la vita della sua generazione, eventi che sarebbero stati almeno un’immagine ed una bozza profetica della catastrofe suprema; non saremmo in alcun modo giustificati nel dire che aveva predetto questa catastrofe, considerata in sé, come prossima. – Ma questa non è ancora che solo una prima risposta. Se non avessimo altro da opporre all’affermazione modernista, dovremmo rinunciare al vantaggio di ridurre l’avversario convincendolo della falsità, poiché è probabile che le considerazioni precedenti, per quanto vere e fondate possano essere, lo sfiorerebbero appena; inoltre, rimarrebbero completamente al di fuori della sua comprensione, essendo i dati su cui poggiano, di natura tale che non potrebbe ammetterli senza smentire o negare se stessi. Questo, dunque, è il difetto essenziale ed insanabile dell’esegesi razionalista che, non riconoscendo il carattere trascendente e senza pari della Scrittura, manca di tutti i criteri necessari per penetrarne i misteri. Ma in questo caso, non c’è bisogno di penetrare nei segreti chiusi al profano; basta seguire la critica sul suo stesso terreno, per mostrare che sta operando su testi troncati, e quindi distorti, cosa imperdonabile sempre e ovunque, ma in particolare a coloro che si vantano di una scienza così positiva, e fanno tanta mostra della loro documentazione rigorosa. Ecco la lezione di San Matteo e di San Marco, che, letta fino in fondo, chiarisce e spiega quella di San Luca, ed esclude apertamente, chiaramente, categoricamente la fine del mondo, considerata in sé, dal numero degli eventi annunciati come da compiersi nel corso della presente generazione. Ma, ripeto, deve essere letto nella sua interezza, senza separare il primo membro dal secondo, al quale si oppone, e dal quale dipende necessariamente, in virtù dell’opposizione che limita e circoscrive la comprensione del soggetto. Così leggiamo in San Matteo: Amen dico vobis, quia non præteribit gêneraito hæc donec omnia hæc fiant. Ma non è qua la pausa, non è questo il punto in cui dobbiamo fermarci, perché le parole, cœlum et terra transibunt, verba autem mea non præteribunt, che seguono immediatamente, sono solo una parentesi, dopo la quale viene subito la proposizione opposta, determinativa della prima: de die autem illo et hora nemo scit, neque angeli cœlorum, nisi solus Pater. La stessa cosa in San Marco, lo stesso contrasto, la stessa opposizione tra questa generazione, queste cose, e questo giorno, quest’ora. Questo dà, parola per parola, come traduzione dell’uno e dell’altro evangelista: « In verità vi dico che questa generazione non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute; ma per quel giorno e quell’ora nessuno lo conosce, nemmeno gli Angeli del cielo, né alcuno, né altri che il Padre mio. » Se dunque la profezia contrappone, da un lato, questa generazione, queste cose, e dall’altro, quel giorno e quell’ora; se, inoltre, segna chiaramente il tempo in cui queste cose si compiranno, e si ricusa riguardo a quel giorno, dicendo che nessuno sa quando verrà, né gli Angeli del cielo, né il Figlio (come uomo, e di conoscenza comunicabile), ma il Padre solo; Se, infine, quel giorno e quell’ora sono visibilmente il giorno e l’ora della parusia, come tutto il seguito del discorso dimostra troppo bene, perché sia necessario, non dico dimostrarlo, ma addirittura affermarlo: Ma quale fronte ci porterà questo testo, che sostenga che le dichiarazioni di Gesù sulla prossimità della catastrofe, non lasciano spazio ad equivoci? « Qui – dice Bossuet in modo eccellente – ci sono due tempi ben marcati, hæc e illa, in greco come in latino, segnare due tempi opposti, uno più vicino, l’altro più lontano. Questa generazione vedrà tutte queste cose compiute: generatio hæc, omnia hæc, omnia ista. Ma per quel giorno, per quell’ora, de die autem ille et hora, nessuno lo sa. È come se avesse detto: “Vi ho parlato di due cose: della rovina di Gerusalemme e della rovina di tutto l’universo al giudizio, di cosa debba succedere nella generazione in cui viviamo, e di cui gli uomini viventi devono essere testimoni, ne segno il tempo e questa generazione non passerà finché non si sarà adempiuto. Questo è per l’evento che stiamo toccando. Ma per quanto riguarda il giorno, questo giorno in cui verrò a giudicare il mondo, nessuno ne sa niente, ed Io non devo rendervelo noto. È chiaramente indicato che la caduta di Gerusalemme era vicina, e la Chiesa doveva saperlo. Ma per quel giorno, quell’ultimo giorno in cui l’intero universo sarà in subbuglio, e il Figlio dell’Uomo verrà in persona, nessuno ne sa niente, non sappiamo se sia lontano o vicino, e il segreto è impenetrabile, e agli Angeli del cielo, e alla Chiesa stessa, benché venga insegnato dal Figlio di Dio (Bossuet, Meditazioni sul Vangelo, l’ultima settimana del Salvatore, 76° giorno). » E con questa sola osservazione, senza nemmeno contare nessuna delle ragioni precedenti, va in fumo l’intera costruzione modernista sul testo: Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc, donec omnia haec fiant.

LA PARUSIA (3)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (12)

G Dom. Jean de MONLÉON Monaco Benedettino

Il Senso Mistico dell’APOCALYSSE (12)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat: Elie Maire Can. Cens. Ex. Off.

Imprimi potest:  Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur: LECLERC.

Lutetiæ Parisiorum die II nov. 194

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Sesta Visione

L’ORA DELLA GIUSTIZIA

SECONDA PARTE

VITTORIA DEL CRISTO SULL’ANTICRISTO

Capitolo XIX – (1-21)

“Dopo di ciò udii come una voce di molte turbe in cielo, che dicevano: Alleluja: salute, e gloria, e virtù al nostro Dìo: perché veri e giusti sono i suoi giudizii, ed ha giudicato la gran meretrice, che ha corrotto la terra colla sua prostituzione, ed ha fatto vendetta del sangue dei suoi servi (sparso) dalle mani di lei. E dissero per la seconda volta: Alleluia. E il fumo di essa sale pei secoli dei secoli. E i ventiquattro seniori e i quattro animali si prostrarono, e adorarono Dio sedente sul trono, dicendo: Amen: alleluja. E uscì dal trono una voce, che diceva: Date lode al nostro Dio voi tutti suoi servi: e voi, che lo temete, piccoli e grandi. E udii come la voce di gran moltitudine, e come la voce di molte acque, e come la voce di grandi tuoni, che dicevano: Alleluia: poiché il Signore nostro Dio onnipotente è entrato nel regno. Rallegriamoci, ed esultiamo, e diamo a lui gloria: perché sono venute le nozze dell’Agnello, e la sua consorte sì è messa all’ordine. E le è stato dato di vestirsi di bisso candido e lucente. Perocché il bisso sono le giustificazioni dei Santi. E mi disse: Scrivi; Beati coloro che sono stati chiamati alla cena delle nozze dell’Agnello: e mi disse: Queste parole di Dio sono vere. E mi prostrai ai suoi piedi per adorarlo. Ma egli mi disse: Guardati dal farlo: io sono servo come te e come i tuoi fratelli, i quali hanno testimonianza di Gesù. Adora Dio. Poiché la testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia. E vidi il cielo aperto, ed ecco un caval bianco, e colui che vi stava sopra si chiamava il Fedele e il Verace, e giudica con giustizia, e combatte. I suoi occhi erano come fiamma di fuoco, e aveva sulla testa molti diademi, e portava scritto un nome, che nessuno conosce se non egli. Ed era rivestito d’una veste tinta di sangue: e il suo nome si chiama Verbo di Dio. E gli eserciti, che sono nel cielo, lo seguivano sopra cavalli bianchi, essendo vestiti di bisso bianco e puro. E dalla bocca di lui usciva una spada a due tagli, colla quale egli percuota le genti. Ed egli le governerà con verga di ferro: ed egli pigia lo strettoio del vino del furore dell’ira di Dio onnipotente. Ed ha scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti. E vidi un Angelo che stava nel sole, e gridò ad alta voce, dicendo a tutti gli uccelli che volavano per mezzo il cielo: Venite, e radunatevi per la gran cena di Dio: per mangiare le carni dei re, e le carni dei tribuni, e le carni dei potenti, e le carni dei cavalli e dei cavalieri, e le carni di tutti, liberi e servi, e piccoli e grandi E vidi la bestia, e i re della terra, e i loro eserciti radunati per far battaglia con colui che stava sul cavallo, e col suo esercito. E la bestia fu presa, e con essa il falso profeta, che fece davanti ad essa, prodigi, coi quali sedusse coloro che ricevettero il carattere della bestia, e adorarono la sua immagine. Tutti e due furono gettati vivi nello stagno di fuoco ardente per lo zolfo: e il restante furono uccisi dalla spada di colui che stava sul cavallo, la quale esce dalla sua bocca: e tutti gli uccelli si sfamarono delle loro carni.”

§ 1 – Azioni di grazia della Chiesa trionfante e della Chiesa militante.

La condanna dei servi del mondo, menzionata nel capitolo precedente, sarà controbilanciata all’ultimo giudizio dalla gioia di tutti coloro che si vedranno al sicuro dalle pene dell’inferno. Mentre i re ed i mercanti della terra piangeranno, mentre diranno “” davanti al crollo delle loro ricchezze, delle loro ambizioni, della loro vita di piacere, gli abitanti del cielo canteranno: Alleluia, una parola intraducibile, destinata proprio da questo fatto a far capire che la felicità degli eletti supera ogni linguaggio umano. Essi proclameranno la loro gratitudine al Dio che ha riservato loro una tale ricompensa e una tale gioia: « A Lui – diranno – appartiene tutto il merito della nostra salvezza, perché senza di Lui non avremmo potuto fare nulla; è Lui che è degno di tutta la gloria per le opere meravigliose che ha compiuto attraverso la sua Parola; è Lui solo che ha abbattuto l’inferno con la sua potenza. Rendiamo grazie a Lui, perché i suoi giudizi sono veri e giusti. Egli ha mantenuto fedelmente le promesse fatte a coloro che avrebbero ascoltato i suoi comandamenti, così come ha applicato senza debolezza i castighi con cui aveva minacciato i trasgressori della sua Legge. Così la sua condanna contro la grande prostituta è sovranamente giusta, e questo per due ragioni: perché l’esempio dei suoi disordini aveva corrotto tutta la terra, e perché aveva versato il sangue dei Santi con le sue stesse mani. » – E dissero di nuovo: Alleluia, per mostrare che la lode di Dio sarà continuamente rinnovata ed eterna, come il fumo che sale dal fuoco dove si consuma Babilonia, e cioè come la punizione dei dannati, sarà eterna. Questa opposizione tra una felicità ed una disgrazia che non avrà fine è un invito a fare tutto il possibile per meritare la prima, ed evitare la seconda. E i ventiquattro vegliardi, cioè i Padri dell’Antico e del Nuovo Testamento, i dodici Profeti ed i dodici Apostoli, si prostrarono con la faccia a terra, ed i quattro animali, che rappresentano – come abbiamo già visto – tutti i predicatori del Vangelo; e tutti insieme adorarono Dio che siede sul suo trono, in mezzo alla Chiesa trionfante, dicendo: Amen, Alleluia: Amen, per indicare il loro assenso ai giudizi pronunciati da Dio; Alleluia, perché non potevano reprimere la gioia di cui il loro cuore traboccava. Queste due parole, come ha osservato Sant’Agostino, riassumono tutta l’occupazione dei beati: la prima esprime la continua meraviglia della loro intelligenza alla presenza dell’ineffabile e sempre nuova Verità, che brilla davanti a loro; la seconda, l’entusiasmo del loro cuore davanti al possesso di un tale bene. Allora – scrive questo grande Dottore, – contempleremo la Verità senza minimamente annoiarci, e con una felicità che non verrà mai meno; noi la vedremo in uno splendore che non lascerà spazio ad alcun dubbio. Inoltre, pieni d’amore per questa medesima Verità, ci attaccheremo intimamente ad essa, l’abbracceremo, per così dire, per darle un bacio tanto dolce quanto casto e spirituale; e, con una voce non meno felice, loderemo Colui che è la Verità stessa, cantando: Alleluia. Sì, nel trasporto della loro gioia e nell’ardore della carità che li infiammerà gli uni per gli altri e soprattutto per Dio, tutti gli abitanti di questa Città benedetta saranno spinti a lodare Dio con lo stesso amore e ripeteranno: Alleluia, e si ripeteranno: Amen (Sermone 362; della Risurrezione dei morti). Dopo queste acclamazioni dei beati, San Giovanni udì una voce proveniente dal trono. Questa voce si rivolgeva agli abitanti della terra e diceva loro: Cantate la gloria di Dio, voi che siete i suoi servi, voi che lo temete, grandi e piccoli. Perché sono degni di lodare Dio, solo questi che vivono secondo i suoi comandamenti, che temono di offenderlo. Dio non accetta la lode dei peccatori, che cantano la sua gloria con le labbra, ma il cui cuore è corrotto. Al contrario, Egli ascolta con piacere i canti dei suoi servi, non solo quelli dei grandi, cioè dei Dottori, delle anime favorite da grazie speciali, ma anche quelli dei piccoli, degli ignoranti e dei semplici. Allora il concerto degli eletti si alzò di nuovo nel cielo, come il rumore delle grandi acque ed il fragore del tuono. Queste espressioni hanno lo scopo di farci capire che siamo ancora sulla terra l’eccellenza della lode divina, di quell’« opera di Dio » che San Benedetto ha posto al centro della sua Regola, e alla quale ha voluto che « nulla vi fosse preferito ». San Giovanni la paragona alle grandi acque per l’effetto purificatore che ha sulle anime che vi si dedicano con devozione, e che vi si immergono come in un diluvio di grazia; e al fragore del tuono per la paura che ispira al diavolo.

§ 2 – Motivi di gioia per i Santi.

I beati cantarono di nuovo: Alleluia, perché il Signore nostro Dio ha stabilito il suo regno. Sulla terra, infatti, non si può dire che Dio regni veramente. Sebbene sia presente in tutte le cose con la potenza, come dicono i teologi, non esercita questo potere ovunque; sospende costantemente la sua azione per rispettare la libertà umana, dando così a ciascuno la possibilità di meritare o demeritare; ed è per questo che tollera il male, il peccato, l’attività del demonio. Nella vita futura, al contrario, Egli stabilirà il suo regno, perché permetterà a questa stessa potenza di avere il suo pieno effetto, e questo potere, avvolgendo gli eletti, li proteggerà da tutto ciò che potrebbe danneggiarli. In questo capitolo, notiamo che la parola “Alleluia” è usata quattro volte. I santi dottori che hanno commentato l’Apocalisse non hanno pensato che questo fosse invano: vi hanno visto un’allusione ai quattro motivi principali che i beati avranno per lodare Dio, e che l’autore indica discretamente dicendo che Egli è il Signore, il nostro Dio onnipotente. Infatti, dobbiamo lodarlo perché è il Signore, cioè il Creatore, al quale dobbiamo la nostra vita; perché è Dio, la somma di tutti i beni, l’unico oggetto capace di calmare l’ansia del nostro cuore; perché si è degnato di farsi Nostro, nel mistero dell’Incarnazione e nella Santa Eucaristia; perché, infine, Egli è onnipotente, e solo Lui può strapparci dalla morsa del diavolo, dall’abisso della morte e del peccato, per condurci alla gloria eterna. « Abbandoniamoci dunque alla gioia più completa – cantavano gli eletti – e rendiamogli gloria per tutti i beni che si è degnato di concederci, per la vittoria che ci ha permesso di ottenere con lui, per tutta la felicità di cui ci inonda: poiché è arrivato il giorno delle nozze dell’Agnello, e la sua sposa si è adornata con i suoi abiti; ha messo da parte i vizi dell’uomo vecchio, si è rivestita non dei propri meriti, ma con i doni che Dio le ha dato, per andare a Lui. Essa ha ricevuto, per coprirsi e per piacere al suo Sposo, una veste di puro lino lucente e ouro. » Il lino rappresenta le giustificazioni dei santi: per sua natura, infatti, questa pianta è color terra, ma molteplici lavaggi e manipolazioni la portano gradualmente ad un candore immacolato; allo stesso modo l’anima dei Santi, come quella degli altri uomini, nasce con il colore terroso del peccato originale e della concupiscenza: ma a poco a poco, le prove e gli esercizi della vita spirituale la portano ad una purezza senza macchia, scintillante di carità  Mentre i Santi continuavano i loro inni di gioia, San Giovanni vide un Angelo davanti a sé, che gli disse: Scrivi: Beati coloro che sono stati invitati alle nozze dell’Agnello, come per dire: « incidi profondamente nel tuo cuore, e in quello dei fedeli che ti ascoltano, questa verità, che la vera felicità non appartiene ai ricchi, non ai sani, non ai potenti di questo mondo; ma a coloro che una vita pura rende degni di essere chiamati un giorno a quelle nozze ineffabili, dove l’anima è unita a Dio per l’eternità! » E il messaggero celeste aggiunse, per sottolineare ancora di più l’importanza di ciò che aveva appena detto: « Queste parole di Dio sono assolutamente vere. » San Giovanni, pieno di gratitudine, cadde ai piedi dell’Angelo, come se avesse voluto adorarlo. Ma l’Angelo lo fermò immediatamente: « Guardati dal fare questo – disse – io sono solo un servo, come te, come tutti i tuoi fratelli che testimoniano Gesù con la loro fede e le loro opere. » Parlando così, l’Angelo rende omaggio non solo alla dignità dell’Apostolo, ma a quella della natura umana in generale. Dice: Io sono un servo, come te, perché gli Angeli e gli uomini non hanno che un solo Signore, Gesù Cristo. Nell’Antico Testamento gli Angeli permisero talvolta agli uomini di prostrarsi davanti a loro, per rendere loro il culto di dulia a cui hanno diritto; come, per esempio, quello che apparve a Giosuè, davanti alla città di Gerico (Jos., V, 15): ma dopo il compimento del mistero dell’Incarnazione, da quando la natura umana si è seduta alla destra di Dio, sul trono stesso della Sua Maestà, nella persona di Cristo, non lo permettono più, per rispetto alla Santissima Umanità del nostro Salvatore. Perciò colui di cui ci occupiamo aggiunge, sempre rivolgendosi a San Giovanni: « Adora Dio, che solo è degno di  esserlo, e non me, perché lo spirito di profezia di cui sei animato costituisce, per te e per coloro che ti conoscono, una sicura garanzia che tu sei un figlio di Dio come Gesù stesso. »

§ 3 – Il Verbo di Dio.

In una seconda scena di questa stessa visione, San Giovanni assiste alla condanna della Bestia. Lo riferisce qui, ma insiste soprattutto sull’ammirazione suscitata in lui dalla vista di Colui che ha trionfato su di esso, cioè il Salvatore. Il cielo si aprì ai suoi occhi, per permettere alla sua intelligenza di penetrare più profondamente nel segreto dei misteri divini, e gli apparve un cavallo bianco. Abbiamo già incontrato questa figura nella visione dei sette sigilli (Cap. VI, 2), e abbiamo detto allora che era il simbolo dell’Umanità immacolata di Cristo, che era come montato del Verbo, durante il suo soggiorno sulla terra. Il cavaliere portato da questo cavallo era chiamato Fedele e Verace. Nostro Signore fu davvero il modello di fedeltà sia verso suo Padre, perché eseguì perfettamente tutte le sue volontà, sia verso gli uomini, perché non mancò mai di mantenere le promesse che fece loro. Egli è sovranamente verace, al contrario degli altri uomini che sono tutti bugiardi, come insegna il Profeta reale (Ps. CXV, 11). Mai nessuna considerazione lo ha fatto deviare dalla pura verità, mai ha chiamato male ciò che è bene, né bene ciò che è male. Giudica con giustizia e combatte per i suoi amici. I suoi occhi sono come la fiamma del fuoco: quando si fermano su un’anima, il loro sguardo consuma la ruggine del peccato in essa, scioglie il ghiaccio del suo cuore, la illumina sulla via da seguire e la infiamma con l’ardore della carità. – Il Salvatore portava molti diademi sulla sua testa, che rappresentano le molte vittorie che ha riportato sul diavolo, sul mondo, sui suoi nemici. Egli è dotato di un potere a cui nulla può resistere, perché porta, inciso sul suo Essere, il nome di Gesù, in cui Dio ha condensato tutta la sua misericordia; quel Nome che è al di sopra di tutti i nomi, e la cui saggezza, dolcezza e potenza nessuno conosce tranne Egli stesso. Era vestito con una veste colore del sangue; questa veste è la carne umana di cui la divinità si coprì nel mistero dell’Incarnazione, e che fu immersa, reimmersa, rotolata e rivoltata nel suo stesso sangue al momento della passione. Eppure, questo diluvio di dolore, oppressione e sofferenza non ha offuscato nemmeno per un momento la meravigliosa brillantezza del Nome con cui deve essere designato, cioè quello del Verbo di Dio.

§ 4 – Cristo e il suo esercito entrano in campo.

Dietro di Lui andò l’esercito dei martiri e di tutti coloro che sono nel cielo, non solo quelli che vi regnano, ma anche quelli che vi vivono già con i loro desideri, e che combattono agli ordini di Cristo con le armi della povertà, dell’umiltà e della carità. Lo seguirono, montati su cavalli bianchi e vestiti di puro lino bianco. I cavalli bianchi simboleggiano la castità dei loro corpi, il lino designa la giustizia con cui sono adornati, secondo la spiegazione che abbiamo dato sopra. Il candore esprime la cura con cui i Santi si guardano da ogni errore nel campo della fede; la sua purezza, quella con cui evitano i minimi moti della concupiscenza. Dalla bocca di Cristo uscì una spada affilata su entrambi i lati. Questa immagine non deve essere presa in un senso materiale, come se Nostro Signore si fosse realmente mostrato all’Apostolo con una spada tra i denti. Essa rappresenta in forma simbolica la parola che esce dalla bocca del Salvatore, e la paragona ad una spada affilata, perché questa parola ha un meraviglioso potere di tagliare ciò che è superfluo, di separare il bene dal male, di uccidere i vizi, e di penetrare anche i pensieri più segreti e raggiungere la divisione dell’anima e dello spirito.  Essa è affilata sui due lati, perché colpisce i buoni e i cattivi: i buoni per potarli, i cattivi per punirli e staccarli dal Corpo Mistico di Gesù Cristo. Essa raggiungerà tutte le nazioni, perché da un lato Nostro Signore vuole e cerca veramente la salvezza di tutti gli uomini, e dall’altro non c’è nessuno che possa sfuggire alla Sua giustizia. Egli li governerà con una regola di ferro: perché, anche per i migliori, la legge di Dio è inflessibile. Non permette che si trascuri nemmeno il più piccolo iota dagli obblighi che impone; tutte le infrazioni saranno materia di punizione se non sono state cancellate dalla penitenza. Senza dubbio, la misericordia di Dio è infinita; fornisce a ciascuno mezzi di salvezza sovrabbondanti, è pronta a perdonare i più grandi crimini; ma non va mai contro la giustizia. Nessuno può approfittare della bontà di Dio col disprezzare i suoi comandamenti o per trascurare qualcuno dei doveri che è tenuto a rendergli. È in questo senso che si dice qui che Cristo ci governerà con una regola di ferro. Ed ha il diritto di farlo: da un lato, perché ha assunto su di sé i rigori della giustizia divina, e dall’altro, perché è il Re dei re. Nella sua passione e risurrezione, ha calpestato il torchio dell’ira del furore di Dio onnipotente; queste espressioni ripetute hanno lo scopo di farci capire che il castigo meritato dai peccati del mondo è una cosa terribile: Dio, in vista di essi, sembra dimenticare ogni misura e comportarsi come un uomo violento che viene stravolto dall’ubriachezza. Ma Nostro Signore, subendo senza debolezza l’uragano di questa collera, trionfando sulla morte e sul diavolo, ha messo, per così dire, i diritti della giustizia divina sotto i suoi piedi. Ha pagato il debito di tutto il genere umano, ed è per questo che ora appartiene a Lui giudicare tutti gli uomini. È anche perché Lui è il Re dei re e il Signore dei signori. Invano i Giudei rifiutarono di riconoscere la sua regalità: Egli porta questo titolo scritto nella stessa trama della sua veste ed inciso sulla sua carne; la sua dignità di Re universale aderisce alla sua Umanità con la stessa forza della divinità, così che nulla può diminuire il suo diritto di governare tutte le creature e di ricevere i loro omaggi, come il profeta aveva annunciato: I re di Tarso e delle isole gli offriranno dei doni, i re d’Arabia e di Saba gli porteranno dei doni. E tutti i re della terra lo adoreranno, e tutte le nazioni gli saranno soggette (Ps. LXXI, 10, 11). – Dopo aver così contemplato il Salvatore nella sua potenza, Giovanni vide un Angelo in piedi nel sole, personificando con ciò i predicatori che annunciano coraggiosamente il Vangelo, aureolati con il fulgore della verità e come inondato dalla luce del Cristo. Questi gridò ad alta voce, cioè parlò liberamente, apertamente e senza paura, e diceva a tutti gli uccelli che volavano in mezzo al cielo: “Venite, radunatevi intorno alla grande cena di Dio“. Queste parole sono veramente rivolte ai veri discepoli di Gesù Cristo, a coloro che si elevano al di sopra delle cose terrene e che prendono il loro modello da quegli uccelli che Nostro Signore ha proposto come esempio; a quegli uccelli che non seminano né filano, che non si preoccupano di ammassare denaro, ma che si affidano interamente al Padre che è nei cieli (Mt., VI, 26). Questi, quando il Signore li chiama, non esitano a dire: Mi scusi, ho comprato una villa, o: ho comprato cinque paia di scarpe, o: mi sono appena sposato e non posso venire (Lc., XIV, 18-20). Essi vivono più in alto di queste preoccupazioni umane; il loro cuore, sollevato sulle ali delle virtù, va incessantemente per il centro del cielo, cercando, con la Sposa del Cantico, tra i cori angelici e le schiere dei Santi, Colui che la loro anima ama (Cant., III, 2, 3). Ecco perché il divino Maestro li invita alla grande cena di Dio, alla festa delle nozze eterne. E li invita a trarre da questo pensiero lo zelo e la forza di cui hanno bisogno per mangiare la carne dei re, nel senso in cui a San Pietro fu comandato di mangiare i serpenti e gli animali impuri che gli furono mostrati in visione e che erano la figura dei Gentili (Atti. X.); vale a dire, per portarli nella Chiesa, per incorporarli a Cristo. Essi non dovranno trascurare nessuno: si attaccheranno ai re, ai tribuni, cioè gli uomini che hanno autorità sugli altri; ai potenti, che hanno la forza materiale nelle loro mani; ai cavalli, cioè quei personaggi generosi e impetuosi pronti a dedicarsi e a mettersi al servizio di individui che li sanno sfruttare, che qui sono rappresentati da coloro che li cavalcano; si attaccheranno agli uomini liberi, che si ritengono liberi dalla legge di Dio, e a quelli che sono schiavi del peccato; ai piccoli e ai grandi.

§ 5 – Sconfitta e dannazione dell’Anticristo.

Mentre i giusti si preparavano alla battaglia, vidi – continua l’autore sacro – la Bestia e i re della terra, cioè l’Anticristo e i suoi luogotenenti, riuniti nel loro esercito, per ingaggiare battaglia contro Colui che cavalcava il cavallo bianco e l’esercito dei suoi discepoli. E la Bestia fu sottomessa, catturata ed incatenata; e con lui tutta la compagnia degli pseudo-profeti, che avevano fatto miracoli nel suo nome, per ingannare gli uomini affinché accettassero di portare il segno della Bestia ed adorare la sua immagine, per strapparli alla fede cattolica e portarli sulla via del peccato. Entrambi, cioè l’Anticristo e i suoi profeti, saranno gettati vivi nel lago di fuoco di zolfo ardente, e puniti in modo particolarmente severo, a causa della gravità dei loro crimini. Quanto agli altri, quelli che li avevano seguiti, sebbene la loro colpa fosse minore, tuttavia furono puniti con la dannazione eterna, dal giudizio di Cristo; e tutti gli uccelli furono saziati della loro carne, tutti i giusti applaudirono la loro punizione.

TERZA PARTE

IL CASTIGO DEL DEMONIO

Capitolo XX (1- 15)

“E vidi un Angelo che scendeva dal cielo, e aveva la chiave dell’abisso, e una grande catena in mano. Ed egli afferrò il dragone, il serpente antico, che è il diavolo e satana, e lo legò per mille anni, e lo cacciò nell’abisso, e lo chiuse e sigillò sopra di lui, perché non seduca più le nazioni, fino a  tanto che siano compiti i mille anni: dopo i quali deve essere sciolto per poco tempo. E vidi dei troni, e sederono su questi, e fu dato ad essi di giudicare : e le anime di quelli che furono decollati a causa della testimonianza di Gesù, e a causa della parola di Dio, e quelli i quali non adorarono la bestia, né la sua immagine, né ricevettero il suo carattere sulla fronte o sulle loro mani, e vissero e regnarono con Cristo per  mille anni. Gli altri morti poi non vissero, fintantoché siano compiti i mille anni. Questa è la prima risurrezione. Beato e santo chi ha parte nella prima risurrezione : sopra di questi non ha potere la seconda morte: ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, e regneranno con lui per, mille anni. E compiti i mille anni, satana sarà sciolto dalla sua prigione, e uscirà, e sedurrà le nazioni che sono nei quattro angoli della terra, Gog e Magog, e le radunerà a battaglia, il numero delle quali è come la rena del mare. E si stesero per l’ampiezza della terra, e circondarono gli accampamenti dei santi e la città diletta. E dal cielo cadde un fuoco (spedito) da Dio, il quale le divorò: e il diavolo, che le seduceva, fu gettato in uno stagno di fuoco e di zolfo, dove anche la bestia, e il falso profeta saranno tormentati dì e notte pei secoli dei secoli. E vidi un gran trono candido, e uno che sopra di esso sedeva, dalla vista del quale fuggirono la terra e il cielo e non fu più trovato luogo per loro. E vidi i morti grandi e piccali stare davanti al trono; e si aprirono i libri: e fu aperto un altro libro che è quello della vita: e i morti furono giudicati sopra quello che era scritto nei libri secondo le opere loro. E il mare rendette i morti che riteneva dentro di sé: e la morte e l’inferno rendettero i morti che avevano: e si fece giudizio di ciascuno secondo quello che avevano operato. E l’inferno e la morte furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte. “E chi non si trovò scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco.”

§ 1 – La prima sconfitta del Diavolo.

E vidi – dice – un Angelo che scendeva dal cielo, cioè Cristo che veniva, per così dire, dal seno di Suo Padre e scendeva sulla terra attraverso il mistero dell’Incarnazione. Egli teneva in mano, cioè a libera disposizione della Sua Santissima Umanità, la chiave dell’abisso, quella chiave che il profeta Isaia Lo aveva visto portare sulla sua spalla, e che non è altro che la Sua croce; una chiave che Gli permette di aprire senza che nessuno possa chiudere, e di chiudere senza che nessuno possa aprire (Is., XXII, 22): cioè di trarre fuori dalle grinfie dell’inferno chi gli piace, e di rinchiudere il diavolo al contrario, per impedirgli di fare del male come vorrebbe. Teneva anche una grande catena, segno del potere che ha di legare eternamente i buoni alla sua gloria e i malvagi ai loro supplizi. Per mezzo di questo potere si impadronisce del drago, l’antico serpente che è anche il diavolo e satana: questi diversi epiteti sono destinati a manifestare i caratteri nefasti dello stesso personaggio: egli è forte come un drago, astuto come un serpente, esperto come uno che ha osservato gli uomini fin dalla più remota antichità; è il diavolo, cioè colui che per primo è uscito dall’unità, per introdurre nel mondo la dualità e, quindi, il disordine; è infine satana, parola che significa l’avversario, e quindi il nemico per essenza di ogni bene. – E lo ha legato per mille anni: con la sua Passione, Nostro Signore ha infatti, per così dire, legato il diavolo, lo ha messo fuori dallo stato di nuocere, indubbiamente non in modo assoluto, ma almeno per quanto questo spirito impuro vorrebbe. Egli ci ha dato nella sua dottrina, nei suoi esempi, nei suoi sacramenti, dei mezzi infallibili per trionfare su di lui, se siamo disposti a farne uso. Questo è per mille anni, cioè fino alla fine del mondo, fino al regno dell’Anticristo, che precederà di poco il secondo avvento del Salvatore. Questo numero di mille anni è dunque da prendere, come molti altri nel libro dell’Apocalisse, in senso simbolico e non a rigor di termini: esso significa la durata che deve intercorrere tra la Passione del Salvatore, dove il diavolo fu incatenato, e l’avvento dell’Anticristo, dove egli riceverà nuovamente una maggiore libertà di esercitare la sua malvagità, come sarà detto nei versetti seguenti. Se questo periodo è designato da un numero simbolico, è perché la sua durata esatta deve rimanere sconosciuta agli uomini e persino agli Angeli – dice nostro Signore – fino alla fine dei tempi; è anche perché rappresenta, nel piano divino, qualcosa di perfetto, poiché mille è per lo scrittore sacro il numero perfetto per eccellenza. Il Salvatore, dunque, dopo averlo legato saldamente, lo gettò nell’abisso: lo ha lasciato libero solo di regnare sui cuori degli uomini malvagi che non vogliono credere in Lui; lo ha rinchiuso entro limiti ristretti, per il potere delle chiavi lasciate in eredità alla Sua Chiesa; lo ha sigillato sotto il segno della croce, che permette a tutti i Cristiani di trionfare su di lui quando vogliono; affinché non ingannasse più le nazioni, né si facesse adorare con riti sacrileghi sotto i nomi di Giove, Apollo o Venere, finché non si fossero consumati i mille anni, cioè fino agli ultimi giorni del mondo. Perché in quel tempo deve, per volontà di Dio, essere sciolto di nuovo per un po’ di tempo, il tempo in cui l’Anticristo trionfante dominerà tutta la terra, per tre anni e mezzo. Perché Dio permetterà allora questo scatenamento delle forze del male? Per quanto possiamo scandagliare i misteriosi disegni della Sua Sapienza, possiamo discernere almeno due ragioni per questo: la conversione dei tiepidi, il fiorire di un’alta santità. Se Dio, già tante volte, nel corso della storia del mondo, ha permesso a uomini pieni di vizi, di inganno, crudeltà, orgoglio e menzogna di diventare padroni dei popoli e di soddisfare i loro istinti criminali sull’umanità, è prima di tutto per far uscire dalla loro apatia spirituale la massa di coloro che vivono alla giornata, senza mai guardare alla loro eternità; È così che, presi dalla paura o dal dolore per il trionfo dell’ingiustizia, per la minaccia di morte, per la perdita di tutto ciò che era la loro ragione di essere quaggiù, possano tornare al Dio che avevano abbandonato, al Dio che è il loro Padre e il Padre delle misericordie; così che possano cercare rifugio e protezione presso di Lui, e accettare dalla sua mano quelle penitenze necessarie che non avrebbero mai acconsentito a imporsi da soli. Ma è anche – dice San Paolo – per mostrare le ricchezze della sua gloria verso i vasi di misericordia che ha preparato per la sua gloria (Rom., IX, 23.), è per modellare a suo agio questi vasi purissimi, queste anime privilegiate, che non prendono l’alta perfezione della loro forma, i loro colori, la loro brillantezza che nel crogiolo della tribolazione. Senza persecutori, non ci sarebbero stati martiri e la Chiesa sarebbe stata privata dei più bei gioielli della sua corona. La fine dei tempi vedrà dunque l’emergere di una falange di uomini e donne santi, sotto la violenza della persecuzione, che non sarà inferiore a quella dei primi secoli del Cristianesimo.

§ 2 – Il regno dei mille anni.

Tuttavia, all’annuncio di queste terribili eventualità, non ci lasciamo andare ad un vivo timore. Questa terribile persecuzione durerà solo per poco tempo. Nostro Signore stesso ci promette che i giorni saranno accorciati a causa degli eletti. E fino ad allora, la Chiesa avrà conosciuto, dalla vittoria del suo Fondatore, una pace molto apprezzabile, di cui San Giovanni abbozza un’immagine dicendo: “Ed io vidi – mentre il drago era legato – la pace di cui godevano sia la Chiesa militante che la Chiesa trionfante: E vidi delle sedi sulla terra, cioè le sedi episcopali della cristianità, che, raggruppate gerarchicamente intorno a quella di Roma, costituiscono l’armatura della Chiesa. E su queste sedi sedettero degli uomini ai quali Dio diede il potere di giudicare. Perché la Sua saggezza assiste i Vescovi in modo molto speciale nell’insegnamento e nel governo del popolo fedele. Ho visto, invece, in cielo, le anime di tutti coloro che sono stati torturati per aver dato testimonianza a Gesù Cristo, per aver riconosciuto in Lui il Salvatore del mondo e confessato che Egli era il Verbo di Dio; di coloro che non hanno voluto adorare la Bestia, cioè l’Anticristo, né la sua immagine, cioè i suoi ritratti o le sue statue; o piuttosto, in senso figurato, né le sue creature, che lo rappresentano a capo di paesi, province o città; ho visto le anime di coloro che hanno rifiutato di ricevere il suo sigillo sulle loro mani, cioè di imitare le sue opere, né sulla loro fronte: Questo suggerisce che l’Anticristo avrà la pretesa di imporre ai suoi sudditi un rito simile a quello del Battesimo, dove i nuovi Cristiani sono segnati sulla fronte con il sigillo di Gesù Cristo. Tutti questi servi che rimasero fedeli a Dio nonostante le persecuzioni, morirono, è vero, agli occhi degli uomini: ma, in realtà, appena varcarono le porte dell’altro mondo, trovarono, nell’unione delle loro anime con il loro Creatore, una nuova vita molto più perfetta di quella di questo mondo. E regnarono mille anni con Cristo. Queste ultime parole richiedono qualche spiegazione, perché è su di esse che si è innestata la dottrina nota come millenarismo; una dottrina rifiutata dalla Chiesa per secoli, e che tuttavia vede, di tanto in tanto, sorgere nuovi campioni in suo favore, sotto il pretesto fallace di avere dalla loro parte l’opinione di diversi Padri autenticamente ortodossi. I suoi sostenitori, i millenaristi, chiamati anche chiliasti, sostengono che molto prima del giorno della risurrezione generale, i giusti riprenderanno i loro corpi, e così risorti, regneranno mille anni su questa terra, nella Gerusalemme restaurata, con Cristo. Poi verrà l’ultima rivolta di satana, il combattimento supremo condotto contro la Chiesa da Gog e Magog, lo schiacciamento dei ribelli da parte di Dio, e infine la resurrezione universale seguita dal Giudizio Universale. Ci sarebbero quindi due resurrezioni successive, separate da un intervallo di mille anni: prima quella dei Martiri, poi quella del resto dell’umanità. La teoria del millenarismo aveva le sue radici nella letteratura giudaica, che era sempre ossessionata dall’idea di un Messia che regnasse gloriosamente sulla terra. Fu ripresa ai tempi di San Giovanni dall’eresiarca Cerinto, ed è vero che nei secoli II e III dell’era cristiana, alcuni Padri, e non dei più infimi, la adottarono in forme diverse e più o meno attenuate. Tra questi possiamo citare San Giustino, Sant’Ireneo, Tertulliano, ecc. – Ma il sentimento di questi scrittori non può in alcun modo essere considerato come rappresentante la credenza della Chiesa: perché la testimonianza di diversi Padri sia considerata come l’espressione della Tradizione cattolica, è necessario, dicono i teologi, « che non sia contestata da altri ». (Cfr. per esempio Hurler, Theologia dogmatica, T. I, Tract. II, Tesi XXVI); Questa condizione non esiste nel presente caso: già San Giustino riconosceva che la teoria millenarista era lontana dall’essere accettata da tutti; Origene la rimproverava e la chiamava sciocchezza giudaica. San Girolamo è deliberatamente in contrario con essa: « Noi – scrive – non ci aspettiamo, secondo le favole che i Giudei decorano con il nome di tradizioni, che una Gerusalemme di perle e d’oro scenda dal cielo; non dovremo sottometterci di nuovo all’ingiuria della circoncisione, offrire montoni e tori come vittime e dormire nell’oziosità del sabato. Ci sono troppi dei nostri che hanno preso sul serio queste promesse, in particolare Tertulliano, nel suo libro intitolato: La speranza dei fedeli; Lattanzio, nel suo settimo libro delle Istituzioni; il vescovo Vittoriano di Pettau, in numerose dissertazioni e, recentemente, il nostro Sulpizio Severo nel dialogo a cui ha dato il nome di Gallus. Per quanto riguarda i greci, mi limiterò a citare il primo e l’ultimo, Ireneo e Apollinare (Commento al profeta Ezechiele, L. XI. Bareille, vol. VII, col. 311a). – Sant’Agostino si pronuncia nello stesso senso: se all’inizio mostra qualche esitazione, lo vediamo poi, nella Città di Dio, condannare chiaramente il chiliasmo, e questa opinione è quella che prevale ormai, tanto in Oriente che in Occidente, nella Chiesa. Dal quarto secolo in poi, non si trova alcuno scrittore cattolico degno di considerazione che difenda il millenarismo, e il sentimento unanime dei teologi, tra i quali spiccano San Tommaso e San Bonaventura, lo rifiuta risolutamente (Cfr. su questo argomento: Franzelin, De divina traditione, tesi XVI, p. 186): « senza dubbio, nel Medioevo – scrive padre Allô –  Gioacchino de Flore ora e la sua scuola insegnavano una dottrina che era una specie di semi-millenarismo spirituale, ma che non deve essere confusa con l’antico chiliasmo. Quest’ultima è rimasta solo tra alcuni luterani o in oscure sette protestanti; pochissimi esegeti cattolici si prendono ancora la briga di rinnovarla in una forma attenuata e conciliabile con l’ortodossia. Sebbene il Chiliasmo non sia stato ritenuto un’eresia, il sentimento comune dei teologi di tutte le scuole vede in esso una dottrina erronea a cui certe condizioni delle età primitive possono aver condotto alcuni degli antichi Padri » (Op. cit. XXXVII, P. 296). – L’espressione: “Essi regnarono mille anni con Cristo” deve quindi, come abbiamo già indicato, essere intesa in senso mistico. I mille anni designano tutto il periodo che si estende tra il giorno in cui Cristo, con la sua risurrezione, ha riaperto il regno dei cieli, passando attraverso le sue porte con la sua santissima umanità, ed il giorno in cui, grazie alla risurrezione generale, i corpi degli eletti vi entreranno a loro volta. Ma le anime dei beati sono già lì, strettamente unite a Colui che è la loro vera vita; partecipano alla gloria di Cristo, costituiscono la sua corte, regnano con Lui.

§ 3. L’assalto di Gog e Magog e la loro sconfitta.

Dopo aver parlato della pace che la Chiesa ha goduto sulla terra e in cielo mentre il diavolo era in catene, l’autore ci mostrerà ora l’ultimo assalto di quest’ultimo, e poi la sua condanna e la punizione finale: Quando questi mille anni saranno compiuti, satana sarà liberato dalla sua prigione e gli sarà permesso di attaccare gli uomini con più forza in questi ultimi giorni. Egli uscirà, cioè si manifesterà allo scoperto, passerà dalla tentazione occulta alla persecuzione aperta, sedurrà le nazioni che abitano ai quattro angoli della terra, cioè Gog e Magog. Cosa significano esattamente questi due nomi, che già ricorrono nel profeta Ezechiele (XXXIX). Naturalmente, abbiamo cercato di identificarli con quelli fra i popoli le cui grandi invasioni hanno di volta in volta desolato la terra nel corso della storia. Ma Sant’Agostino – e la sua opinione è stata seguita da tutti i dottori delle epoche successive – dichiara espressamente nella Città di Dio (L. XX, cap. XI), che non si tratta qui di nazioni definite, come per esempio, dice, dei Gesti e dei Massagesti, come alcuni immaginano a causa delle prime lettere di questi nomi, o di qualche altra razza sconosciuta e non soggetta alla legge romana. È abbastanza chiaro che i nemici verranno da tutta la terra, poiché è detto: “Le nazioni che abitano ai quattro angoli della terra“. Cioè nei quattro punti cardinali. Dobbiamo dunque prendere queste parole nel loro significato mistico: Gog, che significa tectum, cioè: ciò che copre, o ciò che nasconde, e rappresenta, sempre secondo Sant’Agostino, gli uomini sensuali per i cui istinti grossolani, abilmente eccitati dal diavolo, lo hanno servito, o lo servono come copertura per attaccare e perseguitare la Chiesa; Magog, invece, che significa : de tecto, cioè: ciò che esce da sotto una coperta, rappresenta il demonio stesso e tutti i nemici segreti di Gesù Cristo, che nascosti finora e agendo al di sotto, getteranno la maschera e attaccheranno allo scoperto. Il diavolo riunirà così, per questo combattimento supremo, tutti gli avversari della Chiesa, quelli che combattono allo scoperto e quelli che combattono nell’ombra. San Giovanni paragona il loro numero ai granelli di sabbia del mare, per farci capire che sono innumerevoli, è vero, ma allo stesso tempo impotenti e sterili. Si solleveranno contro di essa con orgoglio, su tutta la superficie della terra in una volta sola: la persecuzione sarà universale. Avvolgeranno i campi trincerati dei Santi, cioè attaccheranno e aggireranno i servitori di Dio da ogni parte, e queste roccaforti spirituali non saranno sfondate; e la diletta città di Dio sarà pressata da ogni parte. Ma questo periodo di estrema angoscia non durerà che un tempo: Dio uscirà improvvisamente dalla riserva in cui sembrava essersi rinchiuso, e la sua ira, scendendo dal cielo come un fulmine, schiaccerà in un istante questo esercito di persecutori. Il diavolo, che li guidava, dopo averli ingannati e presi nelle sue insidie, sarà gettato con loro nel lago di fuoco e di zolfo, aumentando così l’orrore di quella dimora con la sua presenza; e anche la folla e gli pseudo-profeti, cioè l’Anticristo ed i suoi complici, vi saranno gettati, e tutti vi saranno tormentati giorno e notte senza interruzione e senza fine per i secoli dei secoli.

§ 4 – La punizione della morte e dell’inferno.

E vidi un trono pieno di maestà e di splendore, sul quale Uno era seduto. L’autore non nomina questa Persona, e il suo silenzio è più eloquente di qualsiasi parola: nessuno potrà ignorare chi sia, quando verrà, con tanta nobiltà e splendore, a giudicare i vivi e i morti. Il trono su cui Egli siederà rappresenta la Chiesa, in mezzo alla quale Egli regna e che apparirà allora in tutta la sua dignità e bellezza come la Sposa di Dio. A questo spettacolo, il cielo e la terra scomparvero. Il Vangelo ci dice che il cielo e la terra passeranno, il che non significa che saranno annientati, ma che saranno completamente trasformati e rinnovati. La superficie del pianeta sarà divorata da un diluvio di fuoco, in cui tutte le opere delle mani dell’uomo scompariranno; le più grandi città, i monumenti più belli, i libri più rari, gli oggetti più preziosi di ogni genere, tutto sarà ridotto in cenere senza pietà. Il cielo, non quello che Dio abita con gli Angeli e gli Eletti, ma quello che le stelle attraversano, sarà sconvolto in un caos spaventoso. E non ci sarà posto nel nuovo universo per questi elementi, almeno come erano nel loro primo stato. E vidi i morti, cioè i peccatori, gli uomini privati della vita della grazia, li vidi, piccoli e grandi, che, ripresi i loro corpi, stavano davanti al trono di Dio per essere giudicati. E furono aperti i libri, i libri delle coscienze, nei quali sono scritti giorno per giorno, ora per ora, secondo per secondo, i pensieri che ciascuno cova nel suo interno. Ogni uomo sarà così in grado di leggere chiaramente ciò che è successo nella coscienza degli altri in ogni momento della loro vita. – Ma un altro libro sarà aperto nello stesso tempo, che è il libro della vita, cioè di Colui che è la Vita. In esso si vedrà con piena luce perché gli eletti furono salvati, perché i dannati furono riprovati. E i morti furono giudicati secondo le cose scritte nei libri, secondo la testimonianza della loro coscienza, che divenne visibile a tutti, e secondo le loro opere, secondo le opere enunciate nel Vangelo, con le pene che ne derivano: Allora il Re dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, voi, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi fin dall’inizio del mondo. Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere, ecc. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: “Partite da me, maledetti, e andate al fuoco eterno, che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli; perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ecc. (Mt. XXV, 34 e seguenti). Nessuno potrà sfuggire a questo giudizio: non solo la terra dovrà restituire tutti i corpi sepolti nel suo seno nel corso dei secoli e ora ridotti in polvere, ma il mare stesso dovrà restituire quelli che sono stati immersi nelle sue onde, divorati dai pesci, dispersi nei suoi abissi in parti non componibili. Tutti i corpi, quindi, per quanto decomposti, rinasceranno alla vita. Nello stesso tempo, la morte e l’inferno ridaranno i morti che contenevano: la morte designa qui l’autore della morte, cioè il diavolo, poiché la Sapienza ci insegna che è lui che, con la sua gelosia, l’ha introdotta nel mondo (II, 24). – Dovrà restituire le anime che sono state affidate alle sue cure e che tiene nelle prigioni dell’Inferno, affinché, riunite ai loro corpi, vengano a comparire davanti al Re dei Cieli per essere giudicate secondo le loro azioni, come è stato detto sopra. E quando la sentenza finale sarà stata pronunciata, senza lasciare spazio ad appelli o speranze, la morte, cioè il principe delle tenebre, e con lui l’inferno, cioè tutte le potenze infernali, tutti i demoni, saranno gettati nel lago di fuoco, nell’abisso spaventoso dal quale è impossibile fuggire, dal quale è bandita ogni speranza, e dove arde quel fuoco spaventoso, al quale i più feroci fuochi della terra non possono essere paragonati. Questa è la seconda morte, la dannazione, la separazione irrevocabile ed eterna da Dio. E in questo lago saranno gettati anche tutti coloro che non hanno fatto penitenza, tutti coloro i cui nomi non saranno trovati scritti nel Libro della Vita nell’ultimo giorno. – Al contrario, gli altri morti, tutti coloro che hanno aderito all’Anticristo, non hanno vissuto fino a quando i mille anni non furono compiuti. Perché non hanno vissuto fino a quando i mille anni sono stati compiuti? – Per capire cosa intenda l’autore sacro, dobbiamo ricordare che l’uomo, per sua natura, è oggetto di una doppia vita: la vita spirituale e la vita naturale. La prima ha come principio l’unione della sua anima con Dio; la seconda, l’unione della sua anima con il suo corpo. Ora, abbiamo appena visto che, per mille anni, cioè durante tutto il periodo che è iniziato con la risurrezione del Salvatore e terminerà alla fine del mondo, gli eletti, se sono privati di questa seconda vita, godono della prima in cielo. I dannati, invece, essendo separati sia da Dio che dai loro corpi, non possiedono nessuno delle due; sono doppiamente morti, e questo fino al giorno del Giudizio, quando ritroveranno la vita naturale riprendendo i loro corpi, ma per un’eternità di sventura. Non conosceranno la gloria e le gioie ineffabili della seconda risurrezione, perché non hanno saputo realizzare la prima. Se, dunque, vogliamo evitare di condividere il loro destino, impegniamoci a prepararci per questo. In cosa consiste questa prima risurrezione? È uscire dallo stato di peccato per mezzo della penitenza; liberarsi dalla morte spirituale, recuperare la vita della grazia (È per marcare questa necessità di una risurrezione spirituale come preludio alla risurrezione generale, che nella liturgia benedettina, l’Ufficio delle Lodi, che è destinato a celebrare il mistero della risurrezione, inizia anche la domenica con il Salmo Miserere, il più noto dei Salmi Penitenziali).

Coloro che sapranno nell’ora di giustizia partecipare e perseverare in essa, saranno un giorno beati e Santi: beati, perché otterranno la beatitudine quando lasceranno questo mondo; Santi, perché saranno stabiliti e confermati nella gloria, in modo tale che la seconda morte, cioè la dannazione eterna, non avrà più alcun potere su di loro. Saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, offrendo senza sosta il sacrificio di lode a Dio, Autore di ogni bene, e a Cristo, operatore della nostra redenzione; e le loro anime regneranno in cielo con Lui per mille anni, cioè fino al giorno in cui i loro corpi saranno loro restituiti.

LA PARUSIA (1)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE Rue de Rennes, 117 ; 1920

PREMESSA

Le pagine che presentiamo al pubblico sono solo la riproduzione degli articoli sulla Parousia, apparsi ne “gli Studi”, negli anni 1911, 1918 e 1919. Molti di voi hanno espresso il desiderio di averli tutti in un unico volume, così abbiamo pensato di dover aderire alla richiesta. Inoltre, per abbreviare e semplificare il lavoro di ripubblicazione, abbiamo mantenuto la forma originale, senza altre preoccupazioni che adattarle meglio alla cornice e alla struttura di un libro. Sono quindi ancora presentati sotto forma di articoli e non troveranno modifiche o aggiunte degne di nota. Tuttavia, speriamo che questo modesto lavoro contribuisca a illuminare alcune anime di buona volontà, a dissipare i dubbi che le recenti controversie hanno sollevato, a risolvere una delle principali obiezioni della critica modernista al Vangelo, e infine a far luce su tutta la verità assoluta delle nostre Sacre Scritture, così temerariamente negata dalla nuova scuola.

Roma, 2 ottobre 1919, nella festa dei Santi Angeli Custodi, L. BILLOT S . J .

INTRODUZIONE

C’è un punto del Vangelo su cui i critici modernisti si sono particolarmente concentrati, ritenendolo un argomento decisivo per la loro opera di demolizione della Religione cristiana come Religione trascendente e rivelata di Dio. Questo è il punto relativo alla Seconda venuta di Gesù Cristo, comunemente chiamata dagli scrittori neotestamentari parusia [παρουσία] (letteralmente: presenza, arrivo, venuta), da cui è stato tratto il nome parousîa, ora accettato in senso escatologico, se non nel dizionario dell’Accademia, almeno nel linguaggio abituale e comune dell’esegesi biblica.  È abbastanza noto quale posto centrale nell’economia della rivelazione cristiana sia occupato dalla prospettiva di questa seconda venuta del Signore, da Lui così spesso e così solennemente annunciata, come quella che, con la fine e la palingenesi del mondo, con la trasformazione dei cieli e della terra di oggi, con la risurrezione dei morti e il giudizio generale, dovrà portare alla definitiva affermazione del regno di Dio nella sua consumazione finale e nella sua definitiva perfezione. – È sufficiente in effetti aprire un po’ il Vangelo, per riconoscere subito che la parusia è veramente l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, la prima e l’ultima parola della predicazione di Gesù; che è la chiave, la fine, la spiegazione, la ragione d’essere, la sanzione; che è l’evento supremo a cui tutto il resto è legato, e senza il quale tutto il resto crolla e scompare. Ne consegue che convincere Gesù della falsità di un punto così essenziale è stato allo stesso tempo porre fine alla leggenda della sua divinità, è stato togliergli la trascendenza, è stato rimetterlo nei ranghi e ridurlo alle proporzioni degli altri fondatori di religioni emerse nel corso dei secoli dal seno dell’umanità. Il modernismo lo ha capito subito. Così, basandosi su vari testi del Vangelo, interpretati in modo superficiale, si è applicato a mettere in circolazione questa affermazione audace: che la coscienza della vocazione messianica era germogliata in Gesù insieme alla convinzione che la fine del mondo stava arrivando; che il regno per la cui organizzazione Egli stesso diceva di venire nella gloria e nella maestà, portato sulle nuvole del cielo, aveva creduto proprio alla vigilia della sua istituzione; molto di più, che era esclusivamente in vista di questa prossima e immediata consumazione di tutte le cose, che aveva predicato il completo distacco dalle ricchezze, preteso dal suo popolo un assoluto disprezzo per i beni terreni, raccomandato la povertà volontaria, proclamato l’eccellenza dello stato di verginità, ecc. Insomma, che l’idea fissa della catastrofe suprema aveva talmente ossessionato la sua mente e influenzato tutto il suo insegnamento e la sua condotta che, dopo la sua morte, era necessario rielaborare profondamente l’intero Vangelo per accogliere al meglio un mondo che fosse duraturo, ciò che in origine era stato detto di un mondo che doveva essere vicino alla fine. In tutto questo, inoltre, i modernisti si limitavano a divulgare idee precedentemente portate alla luce dalla critica razionalista. Già nella sua Vita di Gesù, Renan aveva scritto: “Le sue dichiarazioni (di Gesù) sulla vicinanza della catastrofe (finale) non lasciano spazio all’ambiguità. La generazione attuale, ha detto, non passerà senza che tutto questo sia stato realizzato (Mt., XXIV, 34). Molti dei presenti non proveranno la morte senza aver visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno (Mt., XVI, 28). Egli rimprovera chi non crede in lui perché non sa leggere la prognosi del futuro regno. Quando vedi il rosso della sera”, diceva, “prevedi che andrà tutto bene; quando vedi il rosso del mattino, preannunci la tempesta. Come potete voi, che giudicate l’aspetto del cielo, non saper riconoscere i segni dei tempi? (Matth., XVI, 2-4.). Tali dichiarazioni formali hanno preoccupato la famiglia cristiana per quasi settant’anni. “E più in basso: “Se la prima generazione cristiana ha avuto un credo profondo e costante, questo era che il mondo stava per finire (Atti II, 17; I Cor. XV: 23-24; I Tess. III: 13, IV, 14; II Tess. II: 18; I Tim. VI: 14; II Tim. IV: 1; Jacob. V, 3-8; II Petr. passim; Apoc.., I, 1, II, 5, ecc.), e che la grande rivelazione di Cristo avrà presto luogo. Questo vivace annuncio: È il tempo che apre e chiude l’Apocalisse, quel richiamo che si ripete incessantemente: Chi ha orecchie, che ascolti! sono le grida di speranza e il richiamo di ogni pagina apostolica. Un’espressione siriaca, Maranatha (I Cor., XVI, 22), “Nostro Signore sta arrivando!”, è diventata una specie di parola d’ordine che i credenti usavano dirsi per rafforzare la loro fede e le loro speranze. L’Apocalisse, scritta nell’anno 68 della nostra era, fissa il termine a tre anni e mezzo, XV, 2; XII, 14. (Questo è l’insieme dei testi sui quali i nemici della nostra fede basano la loro tesi che il Vangelo sia nato da un errore, da un’allucinazione, da una vana credenza, da tempo ridotta a nulla e solennemente messa in mora dai fatti più visibili e suggestivi del mondo. – Renan, Vita di Gesù, cap. XVII). – D’altra parte, non si può negare che questi stessi testi, presentati artificiosamente e da essi abilmente sfruttati, non siano di natura tale da impressionare, o addirittura da disturbare profondamente, le menti non bene informate secondo le modalità proprie della Scrittura nel campo della profezia in generale, e in quello escatologico in particolare. Lo scopo di questi articoli è quindi quello di far luce, all’interno delle modeste risorse dell’autore, sulle difficoltà che l’affermazione modernista avrebbe lasciato nella mente di molti, richiamando alcuni principi e spiegando alcune regole che è necessario avere sotto gli occhi per una esatta comprensione dei passaggi in questione. Questi passaggi devono essere sottoposti ad un esame approfondito e, più in particolare, quello in cui le difficoltà di tutti gli altri sono riunite e condensate, e che, una volta adeguatamente chiarito in ciascuna delle sue parti, fornirà, anche per tutti gli altri, gli elementi di soluzione necessari. Questo è il discorso che riempie il capitolo XXIV di San Matteo, unito ai luoghi paralleli di San Marco e San Luca, e che, considerato prima di tutto nel suo insieme, si presenta avente come oggetto indiviso la caduta di Gerusalemme e l’ultimo giorno del mondo.

ARTICOLO PRIMO

LA ROVINA DI GERUSALEMME E LA FINE DEL MONDO PREDETTE INSIEME, E DA UN’ALTRA PROSPETTIVA NEL DISCORSO ESCATOLOGICO. (MATTH. XXIV, MARC. XIII, LUC. XXI).

– LA DIFFERENZA TRA LA PROFEZIA E LA STORIA. – Era la sera del martedì prima dell’ultima Pasqua. Gesù aveva appena finito la sua predicazione pubblica con un avvertimento supremo dato a Gerusalemme, omicida dei profeti e assassina di coloro che le sono inviati,e mentre lasciava il tempio, per non farvi più ritorno, l’attenzione dei discepoli si concentrava sulle grandiose costruzioni di questo superbo edificio. Questo non era il primo tempio costruito da Salomone e distrutto dagli Assiri sotto Nabucodonosor. Era il secondo, ricostruito dopo la cattività sotto Zorobabele, ma rifatto successivamente dal primo Erode, il quale, per conquistare le grazie della nazione, come si legge in Giuseppe (Flavio), aveva intrapreso questa grande opera, e l’aveva intrapresa con l’intenzione di superare in magnificenza tutto ciò che si era visto fino ad allora. Infatti, non furono risparmiati né uomini, né risorse economiche, né spese di alcun genere, così che dopo quarantasei anni di lavoro ininterrotto (Joann. II, 20), questo tempio era diventato una delle meraviglie, per non dire la meraviglia, dell’universo. Guardate, Maestro – disse uno dei discepoli – guardate che pietre e che struttura! Ma Gesù disse: « Tu vedi tutte queste grandi costruzioni? Non resterà pietra su pietra che non sarà buttata giù ». Fu dunque con i gravi pensieri che questa risposta doveva aver suscitato nelle loro menti che il piccolo gruppo, dopo aver superato prima il tempio e poi le mura della città, attraversò la valle del Cedron, salì il versante occidentale del Monte degli Ulivi e si diresse verso Betania per passarvi la notte. Ma fecero una sosta a metà strada sulla collina. San Marco racconta che quando Gesù arrivò a un certo punto della montagna, si fermò e si sedette proprio davanti al tempio, la cui mole imponente si stagliava contro il cielo, che era infuocato dagli ultimi raggi del sole al tramonto. Era dunque il momento, o mai più, di ottenere un chiarimento della risposta precedente, ed ecco i quattro discepoli più familiari, Pietro, Giacomo, Giovanni ed Andrea, desiderosi di porre la domanda: Diteci, quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? – Certamente queste richieste andavano ben oltre i limiti della predizione che le aveva originate, se questa fosse stata ridotta ai semplici termini in cui ci è stata trasmessa dagli evangelisti. In ogni caso, un tale ampliamento della questione non ci sorprenderebbe se considerassimo che le idee che gli Apostoli, ancora impregnati di pregiudizi giudaici, avevano di Gerusalemme e del suo tempio, erano da sole più che sufficienti a spiegare come e perché la rovina della città santa fosse legata nel loro pensiero alla fine stessa del mondo.La domanda dei discepoli, quindi, riguardava sia il tempo della distruzione del tempio che i segni precursori della parusia e della catastrofe suprema. Anche la risposta del Maestro tratterà gli stessi argomenti, salvo che questa congiunzione di eventi, così indipendenti l’uno dall’altro, facilmente spiegabile nella domanda dei discepoli, diventerà ora un argomento di obiezione nella risposta del Maestro. Infatti, se Gesù unisce nella stessa descrizione, se raffigura nella stessa immagine, se presenta nella stessa prospettiva la fine di Gerusalemme, la fine del mondo e la sua venuta, e se Gesù unisce nella stessa descrizione, se raffigura nella stessa immagine, se presenta nella stessa prospettiva la fine di Gerusalemme, la fine del mondo, e la sua venuta di gloria, non è forse perché anche Egli condivida l’opinione, o piuttosto il terrore di coloro che lo interrogano? … la stessa opinione che abbiamo appena notato tra gli Apostoli? E già solo per questo, il modernismo non è forse sufficientemente fondato nell’attribuirglielo? Questa è almeno l’obiezione che si pone fin dall’inizio, che sorge spontaneamente nella mente prima di qualsiasi esame dettagliato del testo evangelico, e la cui soluzione deve servire come base per tutte le spiegazioni successive. Ma ora, questa prima soluzione che, per la portata che deve avere, è di particolare importanza, da dove la dedurremo? Da nient’altro che dalla natura stessa del genere a cui appartiene la risposta di Gesù. È perché questa risposta appartiene al dominio riservato della profezia, ed allora il discorso profetico non deve essere confrontato con gli altri. Esso ha un modo proprio, una maniera propria, un fascino particolare che prende in prestito dal modo in cui il futuro è visto dall’alto dell’eternità divina: un insieme di condizioni che lo collocano in una categoria assolutamente trascendente, non avendo nulla che gli si avvicini nella letteratura profana, o anche in qualsiasi altra branca della letteratura sacra. Questo è ciò che viene comunemente dimenticato, e questa è anche la ragione della presente difficoltà. Vogliono applicare alla previsione di eventi futuri le regole che governano il racconto di eventi passati. In altre parole, il modo e lo stile della profezia si confondono con il modo e lo stile della storia, due generi così assolutamente diversi l’uno dall’altro che nulla di più radicale o chiaro potrebbe essere immaginato in termini di differenze. Questa è la confusione in cui erano caduti negli ultimi anni quelli della scuola larga, i quali, con il pretesto che la Bibbia non è un manuale di storia, ma un codice di religione, volevano che gli scrittori sacri fossero molto a loro agio con i fatti che riportavano, al punto di non farsi scrupolo di modificarli, amplificarli e sistemarli artificialmente, al meglio del loro scopo dogmatico o morale che si proponevano.   Questa era una strana teoria, contro la quale cozzava tutto ciò che c’è di più profondo nella mente di chiunque creda ancora nell’ispirazione della Scrittura, ma che essi pretendevano di autorizzare dal modo in cui questi stessi scrittori sacri si erano comportati riguardo all’avvenire. Non hanno forse riunito nella stessa vista profetica, come se fossero stati consecutivi, eventi che dovevano tuttavia essere separati da lunghi intervalli di tempo? Non parlavano di cose future come di cose presenti o già passate, e, al contrario le cose presenti o passate come cose da continuare in un futuro senza fine? E poi, è stato chiesto, dov’è la ragione per cui tali libertà sarebbero state appropriate nella descrizione profetica, per poi cessare di esserlo nella narrazione storica? In che modo la verità della Scrittura sarebbe impegnata se, per esempio, si ammette che il Levitico ci dà, come istituzione mosaica, ciò che in realtà avrebbe avuto un’origine molto più tardiva, mentre non lo era più quando Isaia chiamava Ciro come già presente, quando Geremia profetizzava che Gerusalemme sarebbe stata per sempre il centro della religione, quando l’Angelo predisse che il figlio nato da Maria avrebbe regnato sulla casa di Giacobbe e avrebbe occupato per sempre il trono di Davide suo padre, quando Gesù stesso mescolò in uno stesso disegno le due catastrofi, quella di Gerusalemme, che sarebbe avvenuta in capo ad appena quarant’anni, e quella dell’universo, che sarebbe avvenuta solo alla consumazione dei tempi. Questo è certamente un modo insolito di ragionare, e sembra che non sia mai venuto alla mente di esegeti seri. Ma di tanti sofismi accumulati come a piacere, questo solo deve occuparci qui, e che consiste nel confondere insieme i due generi, il genere profetico ed il genere storico, nonostante le evidenti differenze che li distinguono, e che ridurremo a tre punti principali.

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E prima di tutto, se paragoniamo la profezia alla storia, vedremo che si differenzia da essa da quello che potremmo chiamare il punto di prospettiva. Il punto di vista della storia è diverso da quello della profezia. Il primo è preso dal piano stesso dove si svolgono gli eventi di questo mondo, l’altro è al di fuori di tutto ciò che si misura con il tempo. Ora, chi non sa che il raggruppamento e l’assemblaggio degli oggetti nella stessa porzione del campo visivo dipende essenzialmente dal punto di osservazione, e varia anche secondo la variazione di quel punto stesso? Quando, per esempio, gli astronomi riuniscono le stelle dell’Orsa Maggiore, o del Capricorno, o del Toro, nella stessa costellazione, e le raggruppano rispettivamente sotto una denominazione comune, non intendono, immagino, attribuire loro negli spazi celesti le stesse relazioni di vicinanza e di apparente coordinazione che hanno nel campo visivo dell’osservatore terrestre. E senza bisogno di andare così lontano, non è evidente che gli stessi oggetti si presentino in modo diverso, a seconda che siano visti dal piano, uno dopo l’altro, a tutte le distanze, o, al contrario, in linea d’aria da un’alta cima, e ad una angolazione tale che, nonostante le distanze che li separano, sono uniti dall’occhio nei limiti di una stessa inquadratura, e si fondono nell’unità di uno stesso quadro? Così è, in proporzione, con l’ottica della profezia rispetto a quella della storia. La storia ha il suo punto di osservazione sulla pianura; segue gli eventi passo dopo passo nel loro svolgimento. È un cinematografo che, avendo prima registrato la marcia e la successione degli eventi, li presenta poi in ordine, uno dopo l’altro, senza mai passare per le fasi intermedie, in tante immagini corrispondenti e distinte. Ma la profezia, al contrario, si trova su quelle alte vette che dominano l’intero corso del tempo, illuminate come sono dall’unico sole della prescienza di Dio. Questo fa dire ai teologi che, a differenza della storia, la profezia vede gli avvenimenti nello specchio dell’eternità, cioè in idee che rappresentano quella durata eterna di Dio, alla cui luce gli intervalli più lunghi sono un istante, mille anni come un solo giorno, e soprattutto, non dimentichiamolo, tutto ciò che per noi è ancora nel futuro o già nel passato, non è né passato né futuro, ma indifferentemente e indistintamente in un rapporto immutabile di presente a presente. Cosa c’è da stupirsi, allora, se la descrizione profetica non sia soggetta alle stesse regole della narrazione storica? Che salti talvolta le tappe che in rapporto a noi segnano la strada dell’avvenire? E che spesso, attraversando come in un salto tutti gli avvenimenti intermedi, unisca in uno stesso quadro eventi che dovrebbero tuttavia essere separati tra loro da lunghe serie di giorni, anni, persino secoli? Tutto questo è dovuto alle condizioni particolari del punto di vista, come è stato detto, e le ragioni intrinseche da un lato, e le analogie del mondo fisico dall’altro, sembrerebbero concordare nel fornire una prova sufficiente. Ma questo non è tutto, non è ancora abbastanza. Qui c’è una seconda differenza tra la profezia e la storia, che è senza dubbio strettamente connessa alla prima, ma che tuttavia è distinta da essa, e che è molto importante avere innanzi agli occhi come complemento necessario alla considerazione precedente. Non si prende più dal punto da cui parte la prospettiva, ma dall’oggetto al quale termina: dall’oggetto, dico, che nella profezia si presenta con un orizzonte diversamente esteso che nella storia. Infatti, se la storia conosce gli eventi solo attraverso gli eventi e negli eventi stessi, li conosce solo nella loro particolare individualità, direi, nella loro nuda materialità, senza mai andare oltre, se non forse con congetture, induzioni, opinioni o precisazioni, appartenenti, se si vuole, alla filosofia della storia, ma non entrando nella prospettiva della storia stessa. Ne consegue che l’oggetto prossimo della storia è anche il suo proprio e unico oggetto; che questo oggetto è necessariamente limitato ai nudi fatti, così come sono accaduti, nell’ordine stesso in cui sono accaduti; e che, infine, per quanto riguarda la connessione degli eventi tra loro, la storia come tale non conosce altro che la pura e semplice connessione dell’ordine cronologico. Ma la condizione dell’oggetto della profezia è molto diversa ora. L’oggetto della profezia, come tale, è nel futuro, e il futuro è assolutamente inconoscibile in se stesso. L’avvenire, come abbiamo già detto, non può essere letto che nell’infinita prescienza di Dio, nei piani della sua sovrana provvidenza, nelle disposizioni della sua sapienza ordinatrice, in quelle ragioni eterne che misurano tutta l’evoluzione dei secoli e che, dalle profondità divine in cui sono nascoste, si proiettano, per così dire, e si riflettono nello spirito del profeta. E se questo è l’ambiente in cui la profezia trova e raggiunge il suo oggetto, che meraviglia che essa lo presenti anche nelle condizioni adatte a questo stesso ambiente, cioè non più nella sua nuda e semplice individualità, ma con i pro e i contro che le sono dati dall’ordine del piano provvidenziale? Ora, in questo ordine del piano provvidenziale, in questa disposizione della Sapienza infinita in cui tutta l’economia delle cose è disposta con una maestria e un’arte incomprensibili, gli eventi sono tenuti insieme e collegati in un modo diverso dalla semplice continuità o simultaneità cronologica. In particolare, essi hanno una modalità di collegamento che sarebbe vanamente cercata altrove, perché scaturita della sola potenza divina; una modalità che viene anche in primo piano nel soggetto che abbiamo davanti, perché appartiene essenzialmente al genere profetico di cui costituisce una categoria speciale. È il modo che tutta la Tradizione, fondata peraltro sulla Scrittura, riconosce tra i fatti appartenenti alle diverse fasi della religione, dal suo primo inizio nell’Antico Testamento alla sua ultima consumazione nella gloria: un modo di connessione che consiste in una relazione tra la figura e la cosa rappresentata, che rende gli eventi precedenti a quelli successivi ciò che l’ombra è per il corpo, ciò che la silhouette è per il profilo, ciò che l’immagine è per la realtà, ciò che lo schizzo e il contorno mostrato in anticipo, è per la grande opera, completa e definita, che deve venire dopo. San Paolo non dice forse che ciò che accadde al popolo giudeo accadde loro sotto forma di immagine? E ancora, che nell’antica legge c’era un’ombra delle cose a venire, ma che la realtà si trova in Cristo? E ancora, che Gesù Cristo era ieri, è oggi e sarà per sempre? nei secoli dei secoli? Sì, certo, oggi e domani e nei secoli dei secoli, ma anche ieri, e come? Da coloro che lo rappresentavano nell’antico popolo di Dio; dalle misteriose rappresentazioni della sua venuta e della sua salvezza, di cui sono pieni gli annali di quello stesso popolo: rappresentazioni che sono state molto giustamente paragonate a quei misteri della passione e della vita di Cristo che i nostri antenati recitavano nel Medioevo sulla scena, sebbene, naturalmente, differissero essenzialmente da essi, in quanto non erano né artificiali né fittizi, ma facevano parte del tessuto della storia, o piuttosto costituivano la storia stessa di Israele nei suoi personaggi più illustri e nei suoi eventi più importanti. (Le Hir, Études bibliques, les Prophètes d’Israël, Sez. 1. art. 2.) Dobbiamo leggere il libro XII di Sant’Agostino contra Faustum, per vedervi in che misura questi eventi sono stati, dall’inizio fino alla fine, una predizione in atto della vita, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, e per avere un’idea di ciò che abbiamo appena chiamato il loro dentro e fuori nell’ordine e nell’armonia del piano provvidenziale. E se ora, dalla persona stessa di Gesù Cristo, passiamo alle opere della sua misericordia o giustizia, non è sempre la stessa economia che ci si rivela? Questo è il regno di Dio, che avrà la sua consumazione finale solo alla risurrezione dei morti, nella vita dell’epoca futura; ma ha già avuto il suo primo stabilimento sulla terra, principalmente attraverso la predicazione del Vangelo e dalla fondazione della Chiesa; e questo primo stabilimento è stato a sua volta preceduto da una preparazione e un abbozzo di lunghi secoli di durata. Ora, tra questo lontano abbozzo e la realizzazione compiuta nella pienezza del tempo, non è facile vedere e notare la stessa connessione di cui sopra? Quando, per esempio, l’arca dell’alleanza andò nel deserto in testa alle dodici tribù, coperta dalla nuvola in cui Dio nascondeva la sua presenza, quando si fermò per dare l’alt, e il popolo si accampò intorno ad essa in quell’ordine perfetto, così ben descritto da Bossuet nel suo immortale exordium del sermone sull’unità della Chiesa, quando Balaam, contemplando questo spettacolo dalle alture di Moab, esclamò con estasi: Come sono belle le vostre tende, o figli di Giacobbe, come sono belli i vostri padiglioni, o Israeliti! Non è vero che Israele era già il il regno di Dio in figura? – E quando, più tardi questa stessa arca, riconquistata dai Filistei, fu portata con grande pompa di sacrifici e cerimonie al Monte di Sion, , non era l’immagine del Signore che prendeva possesso del suo trono in mezzo ai suoi? (Le Hir, loc. cit.). E da una parte come dall’altra, la magnificenza delle descrizioni, l’esuberanza dell’entusiasmo, l’esagerazione anche del lirismo profetico ci avvertono che la prospettiva del profeta si estendeva ben oltre l’evento materiale del momento, fino a quelle realtà ancora lontane di cui era l’immagine e l’annuncio? Infine, la stessa osservazione può essere fatta sulle grandi manifestazioni della giustizia, che sono le alte opere di Dio. Il giudizio definitivo e solenne contro il mondo e l’inferno è differito fino all’ultimo giorno, questo è chiaro. « Ma il mondo ne sta già sentendo l’avvicinarsi nel rovesciamento della sua grandezza, e soprattutto nella distruzione dei superbi imperi e delle città che sono nemiche di Dio. Di là, quindi, queste immagini apparentemente esagerate, che sono spesso nella descrizione di queste catastrofi: il sole e le stelle si oscurarono, la terra scossa nelle sue fondamenta, le stelle che cadono dal cielo e i cieli che rotolano via come un libro. Queste metafore audaci sono piene di appropriatezza e precisione, non appena lo sguardo si estende alla futura rovina dell’universo, disegnato sotto proporzioni minori in quello di un regno limitato » (Le Hir, ibid.).  Questo, dunque, come l’oggetto della profezia, proprio perché è visto dal profeta nello specchio dell’eternità, e contemplato da lui nelle armonie del piano provvidenziale, si presenta spesso con un’estensione di prospettiva che non è affatto presente al centro della storia. Questo spiega la singolarità, a prima vista così strana, eppure così frequente nella Scrittura, della fusione in una stessa predizione di eventi, fatti e personaggi che non dovrebbero avere alcuna connessione tra loro, né sulla base della cronologia, né nell’ordine della catena naturale di cause ed effetti. Che se nella narrazione storica l’oggetto conserva sempre e necessariamente la sua stretta unità, e si dispiega su un unico piano che racchiude un solo orizzonte, succede, al contrario, che nell’oracolo profetico l’oggetto si scinde e si divide in due distinti, uno più distante, dove avviene l’evento principale e di primaria importanza, occupando come tale lo sfondo della prospettiva, l’altro più vicino, di cui l’evento, che potrei chiamare di avanti scena, è anteriore a quello principale secondo l’ordine del tempo, ma disposto da Dio nelle prospettive della Sua provvidenza, per essere la figura, il tipo, lo schizzo, e quindi anche il preludio vivente. Questo è ciò che osserva San Girolamo a proposito di una profezia di Daniele (XI-XII), relativa, per vicinanza di tempo, ad Antioco Epifane, ma in prospettiva lontana rivolta all’anticristo. « La consuetudine della Scrittura è quella di precedere, con delle figure di cose, la verità degli  eventi futuri. Così il Salmo LXXI è intitolato in Solomonem, eppure tutto ciò che vi si dice non può convenire a Salomone, ma la profezia si realizzerà in Salomone come nell’ombra e nell’immagine della verità, da realizzare poi più perfettamente nel Salvatore » (Hieron., in Dan, C. XI, Migne, P. L., XXV, col. 503.). E questo sarà meglio compreso da un elegante confronto fornito da uno dei principi dell’esegesi moderna, da cui abbiamo già preso in prestito molte delle considerazioni precedenti. « Immaginate – egli dice – due palazzi di dimensioni disuguali, ma che offrono la stessa distribuzione di stanze, cortili, corridoi, ecc . Il più piccolo, più vicino a voi, è situato in modo tale che, se fosse trasparente come il cristallo, il vostro occhio coglierà i contorni e le linee corrispondenti al più vasto posto dietro. Se, al contrario, questa trasparenza è velata, irregolare e intermittente, avrete bisogno di qualche combinazione per completare nella vostra mente l’immagine del grande edificio, del quale non potreste dubitare dell’esistenza, né della sua disposizione principali. Così è per un oracolo con un oggetto doppio. L’oggetto prossimo a volte sembra svanire per lasciare che il fatto più importante e più grande, che occupa lo sfondo della prospettiva, risplenda con tutta la sua brillantezza; pertanto, le prime linee sono più opache e velano parzialmente quelle di dietro. Ma la ragione, guidata dall’analogia, restituisce facilmente a ciascuno degli oggetti ciò che l’occhio scopre solo confusamente. » Ecco, appunto, presentato in un’immagine molto accurata, l’ordine del discorso escatologico, l’oggetto di questo studio, dove due cose sono previste simultaneamente e sotto la stessa prospettiva, due rovine di grandezza ineguale: la prossima rovina di Gerusalemme, come punizione per il crimine dei deicidi che non volevano ricevere né riconoscere Cristo, e la suprema rovina, ancora nascosta in un futuro impenetrabile, come punizione per il crimine del mondo apostata, che, dopo averlo conosciuto, lo ha infine respinto. A tutto questo si obietterà, forse, che un tale modo di mescolare insieme eventi così diversi e distanti tra loro non può che portare a confusione e oscurità nelle profezie, il cui vero significato diventerà da questo punto di vista, se non impossibile almeno molto difficile da capire. Si obietterà, ma invano, e penso che la difficoltà, ridotta alle sue vere proporzioni, si risolverebbe agli occhi di chiunque abbi poco riflettuto sulla condizione e la ragion d’essere delle profezie, sullo scopo assegnato loro, sui fini che Dio si propone nel dettarle. Ed infatti, qui di nuovo, guardiamoci dal confondere la profezia con la storia; non dimentichiamo le profonde differenze tra di loro, e consideriamo che, oltre a quelli che sono già state esposte, che una terza differenza ora se ne aggiunge, non più del punto da cui parte la prospettiva, né dell’oggetto a cui finisce, ma dalla quantità relativamente piccola di chiarezza la quantità relativamente piccola di chiarezza che la rivelazione del il futuro comporta. Perché l’avvenire, per molte altre ragioni che è facile capire, deve sempre in una certa misura, esserci chiuso: così che, se alla storia appartiene il grande giorno e la piena luce, al profezia, che l’evento non è ancora venuto a chiarire e spiegare, sarà sempre appropriato, converrà sempre, su qualche lato almeno, il chiaro scuro e la penombra. Infatti, le profezie non sono date agli uomini per soddisfare in loro una vana curiosità, ma  per scopi degni di Dio, che ne è il solo e unico autore. Sarà a volte per avvertirci di un evento futuro di cui dobbiamo essere informati: sia che Dio voglia che vi ci prepariamo, o perché possiamo salvarcene, ed in entrambi i casi, è sufficiente che l’evento sia conosciuto in anticipo nelle sue generalità, al massimo nei suoi segni precursori: non è affatto necessario che sia conosciuto nelle sue modalità circostanze, nelle sue particolarità. Sarà soprattutto, sarà sempre, per fornirci una prova eclatante della credibilità della rivelazione cristiana, così come un argomento perentorio dell’impero che Dio esercita sul mondo morale, non meno universale e non meno efficace di quello che esercita sul mondo fisico: un impero in virtù del quale non succede nulla né piccolo né grande, che non sia previsto, organizzato, voluto da Lui: voluto, dico? in vari modi della volontà, secondo la qualità degli oggetti, ma parlando in assoluto, sempre voluto. – Ora, per ottenere questo risultato, è sufficiente che, una volta che gli eventi si siano verificati, se ne possa riconoscere l’annuncio certo nella profezia che li ha preceduti, senza che sia stato necessario averli visti distintamente all’inizio. Inoltre, una visione anticipatrice potrebbe avere in vari casi un inconveniente considerevole che indebolirebbe singolarmente la forza della prova: quella di lasciare la porta aperta al sospetto che l’adempimento della predizione fosse l’effetto di volontà determinate a conformarsi ad essa, e quindi il puro e semplice risultato dell’industria umana. Invece, il più delle volte, le stesse persone in cui le profezie si realizzano, e anche coloro che le realizzano, non capiscono il loro mistero, né l’opera di Dio in loro. E così si prepara una prova della divinità della profezia, tanto più convincente quanto più sarà inartificiale e naturale, garantita contro ogni sospetto, per quanto remoto, che l’inganno dell’uomo possa avervi avuto una certa parte (Bossnet, Prefazione sull’Apocalypse, XVII-XX). – Da tutte queste considerazioni, ne consegue che una certa ombra di mistero deve avvolgere la maggior parte delle profezie. Ne consegue anche, e a titolo di conseguenza, che se la scissione dell’oggetto nel modo spiegato sopra è la causa di qualche oscurità, l’obiezione che si pretenderebbe di trarne, lungi dall’essere valida, sarebbe del tutto falsa. Ma ciò che noi dobbiamo osservare soprattutto qui, è che ciò che è già vero in una tesi generale, e fatta astrazione di ogni caso a cui si fa riferimento più in particolare, lo è ancora di più, non appena la domanda si pone la questione del giorno del giudizio e della consumazione dei secoli; perché allora, alle ragioni comuni che si applicano indifferentemente ad ogni velatura dell’avvenire, si aggiungono ragioni speciali, molto espressamente marcate nel Vangelo. Infatti, vediamo nel Vangelo, figurato come elemento morale di primaria importanza, così come l’assoluta certezza di questo ritorno futuro, quando Gesù Cristo tornerà nella gloria e nella maestà per giudicare il mondo, la completa incertezza del tempo, del giorno e dell’ora in cui esso avrà luogo. Questo è qualcosa che, per espresso disegno di Dio, deve rimanere nascosto e racchiuso in un impenetrabile segreto a tutte le creature, anche agli Angeli del cielo: Nemo scit, neque angeli cœlorum, nisi solus Pater. Ecco perché, quando i discepoli interrogarono il loro Maestro dicendo: Raccontaci quando queste cose accadranno, e qual è il segno della tua venuta e della fine dei tempi, confondendo la rovina di Gerusalemme con quella del mondo, provocarono una risposta che, senza confermarli positivamente nel loro errore, non li distolse da esso, né diede una chiara determinazione della distanza tra i due eventi l’uno dall’altro; una risposta che, basandosi su ciò che questi stessi eventi dovevano avere in comune, piuttosto che sulle loro peculiarità dislocanti, lascerebbe volutamente il campo aperto a tutte le congetture. – E tale fu infatti la risposta che ricevettero di tal mirabile maestria e arte, in cui, come è già stato detto, Gesù fondeva le due rovine in una sola cornice, un po’ come quei pittori che, dopo aver dipinto, con colori vivaci, quello che è il soggetto principale del loro quadro, vi tracciano ancora, in una distanza oscura e confusa, altre cose più lontane da questo oggetto. Oppure meglio ancora, e per parlare con rigore di precisione, alla maniera dei profeti dell’Antico Testamento, che ha tracciavano in una predizione un’altra predizione più profonda, proponendo l’evento figurativo prossimo, in unione con l’evento figurativo, non importa quanto fosse lontano nel futuro, e sempre per ragioni diverse da qualsiasi connessione tra il tempo o l’epoca dell’uno e il tempo o l’epoca dell’altro. È quindi del tutto sbagliato basarsi su questa unione delle due catastrofi nel discorso che, nei sinottici, chiude la predicazione di Gesù, ed è quindi sbagliato concludere, con i modernisti, che Egli le riteneva entrambe simultanee, e che, di conseguenza, persuaso che stava arrivando il momento in cui il tempio sarebbe stato distrutto, sarebbe stato ugualmente convinto che il mondo stesse per finire. Le spiegazioni precedenti sembrano averlo dimostrato a sufficienza, anzi in modo sovrabbondante, e non c’è bisogno di tornarci sopra. Tuttavia, siamo, per tutto questo, solo all’inizio del nostro compito. Infatti, se non si può stabilire l’accusa di errore e di falsità sulla semplice congiunzione dei due oggetti nella stessa previsione, qui cercheremo di farlo su un’altra base, almeno in apparenza, più solida. Niente è brutale come un fatto, come siamo soliti dire, ma niente è brutale come un’affermazione categorica. Ma non è questo il caso? A che cosa, si chiederanno, servono tante considerazioni su ciò che il genere profetico comporti o non comporti, se, dopo così lungo girovagare, ci vediamo, volenti o nolenti davanti ad un’affermazione come quella con cui Gesù termina: « In verità vi dico che questa generazione non passerà non passerà senza che tutte queste cose si compiano. » ? “Tutte queste cose”, omnia hæc cioè, apparentemente, tutte le cose appena descritte, e non solo l’ultima desolazione di Gerusalemme, ma anche l’oscuramento del sole, il turbamento delle stelle, la commozione dell’intero universo e delle potenze celesti preposte alla sua condotta, l’apparizione in cielo del segno del Figlio dell’uomo, la discesa del Figlio dell’uomo stesso in gloria e maestà per convocare tutta l’umanità al suo giudizio: di nuovo, tutto questo per essere realizzato prima della fine della contemporanea generazione! Ora tutto questo è chiaro, ed è sufficiente a ribaltare tutto i ragionamenti del mondo fatti a priori. Ecco, dice Renan, ciò che non lascia spazio ad equivoci. Questo è ciò che sarà necessario esaminare nell’articolo seguente.

LA PARUSIA (2)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (11)

G Dom. Jean de MONLÉON

Monaco Benedettino

Il Senso Mistico dell’APOCALYSSE (11)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat: Elie Maire Can. Cens. Ex. Off.

Imprimi potest:  Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur:

Lutetiæ Parisiorum die II nov. 1947

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Sesta Visione

L’ORA DELLA GIUSTIZIA

PRIMA PARTE

IL CASTIGO DI BABILONIA

Capitolo XVIII. (1-24) “E dopo di ciò vidi un altro Angelo, che scendeva dal cielo, e aveva grande potestà: e la terra fu illuminata dal suo splendore. E gridò forte, dicendo: È caduta, è caduta Babilonia la grande: ed è diventata abitazione di demoni, e carcere di ogni spirito immondo, e carcere di ogni uccello immondo e odioso: Perché tutte le genti bevettero del vino dell’ira della sua fornicazione: e i re della terra fornicarono con essa: e i mercanti della terra si sono arricchiti dell’abbondanza delle sue delizie. E udii un’altra voce dal cielo, che diceva: Uscite da essa, popolo mio, per non essere partecipi dei suoi peccati, né percossi dalle sue piaghe. Poiché i suoi peccati sono arrivati sino al cielo, e il Signore si è ricordato delle sue iniquità. Rendete a lei secondo quello che essa ha reso a voi: e datele il doppio secondo le opere sue: mescetele il doppio nel bicchiere, in cui ha dato da bere. Quanto si glorificò e visse nelle delizie, altrettanto datele di tormento e di lutto, perché dice in cuor suo: Siedo regina, e non sono vedova: e non vedrò lutto. Per questo in uno stesso giorno verranno le sue piaghe, la morte, e il lutto, e la fame: e sarà arsa col fuoco: perché forte è Dio, che la giudicherà. E piangeranno e meneranno duolo per lei i re della terra, i quali fornicarono con essa e vissero nelle delizie, allorché vedranno il fumo del suo incendio: Stando da lungi per tema dei suoi tormenti, dicendo: Ahi, ahi, Babilonia, la città grande, la città forte: in un attimo é venuto il tuo giudizio. – E i mercanti della terra piangeranno e gemeranno sopra di lei: perché nessuno comprerà più le loro merci: le merci d’oro, e di argento, e le pietre preziose, e le perle, e il bisso, e la porpora, e la seta, e il cocco, e tutti i legni di tino, e tutti 1 vasi d’avorio, e tutti i vasi di pietra preziosa, e di bronzo, e di ferro, e dì marmo, e il cinnamomo, e gli odori, e l’unguento, e l’incenso, e il vino, e l’olio, e il fior di farina, e il grano, e i giumenti, e le pecore, e i cavalli, e i cocchi, e gli schiavi, e le anime degli uomini. E i frutti desiderati dalla tua anima se ne sono partiti da te, e tutte le cose grasse e splendide sano perite per te, e non si troveranno mai più. I mercanti di tali cose che da essa sono stati arricchiti, se ne staranno alla lontana per tema dei suoi tormenti, piangendo, e gemendo, e diranno: Ahi, ahi, la città grande, che era vestita di bisso, e di porpora, e di cocco, ed era coperta d’oro, e di pietre preziose, e di perle: Come in un attimo sono state ridotte al nulla tante ricchezze. E tutti i piloti, e tutti quei che navigano pel lago, e i nocchieri, e quanti trafficano sul mare, se ne stettero alla lontana, e gridarono guardando il luogo del suo incendio, dicendo: Qual città vi fu mai simile a questa grande città? E si gettarono polvere sul capo, e gridarono piangendo e gemendo: Ahi, ahi, la città grande, delle cui ricchezze si fecero ricchi quanti avevano navi sul mare, in un attimo è stata ridotta al nulla. Esulta sopra di essa, o cielo, e voi, santi Apostoli e profeti: perché Dio ha pronunziato sentenza per voi contro di essa. Allora un Angelo potente alzò una pietra come una grossa macina, e la scagliò nel mare, dicendo: Con quest’impeto sarà scagliata Babilonia, la gran città, e non sarà più ritrovata, e non si udirà più in te la voce dei suonatori dì cetra, e dei musici, e dei suonatori di flauto e di tromba: e non si troverà più in te alcun artefice dì qualunque arte: e non sì udirà più in te rumore di macina: e non rilucerà più in te lume di lucerna: e non sì udirà più in te voce di sposo e di sposa: perché i tuoi mercanti erano i principi della terra, perché a causa dei tuoi venefìcii furono sedotte tutte le nazioni. E in essa si è trovato il sangue dei profeti, e dei santi, e di tutti quelli che sono stati uccisi sulla terra.”

§ 1. – La rovina di Babilonia.

Con questo capitolo XVIII inizia la sesta visione di San Giovanni. In esso, l’autore descrive, sotto le immagini simboliche che gli sono abituali, il giudizio di Dio alla fine dei tempi. Vedremo prima la dannazione di Babilonia, o della grande prostituta, cioè di tutti i reprobi, come si compirà quando risuoneranno queste terribili parole: “Andate, maledetti, nel fuoco eterno”. Nei capitoli seguenti, vedremo quello dell’Anticristo e del diavolo. E per associare più strettamente la profezia che segue con quelle che il divino Maestro ha fatto su questo argomento nel Vangelo, lo Spirito Santo, parlando per bocca dell’Apostolo, mette Cristo stesso sulla scena fin dall’inizio. Parla della sua venuta sulla terra nel mistero dell’Incarnazione e dei suoi avvertimenti sui terribili giudizi di Dio. Infatti, l’angelo che San Giovanni vide scendere dal cielo con grande potenza, e che illuminò tutta la terra con la sua gloria, rappresenta il Salvatore del mondo, quando venne ad abitare in mezzo a noi, e gli Apostoli videro la sua gloria, una gloria tutta simile a quella dell’unico Figlio del Padre (Jo. I); la luce della sua dottrina illuminò il mondo intero, e la potenza di cui era rivestito rovinò l’impero del diavolo. Durante la sua permanenza sulla terra, ha gridato a gran voce, ha insegnato la verità con una voce che nulla poteva fermare o coprire, e che era quella del suo amore. Non cessò di annunciare il giudizio del mondo attuale, del suo principe, dei suoi servi: È caduto, disse, è caduto, la grande Babilonia; cioè: « Periranno infallibilmente, anima e corpo, i sudditi della grande cortigiana; i peccatori ostinati che hanno permesso volentieri ai demoni di stabilire la loro tana nei loro cuori, in quel cuore che è stato dato loro per essere il tempio di Dio; periranno perché hanno conservato in se stessi, invece di cacciarli con l’umile confessione, tutti gli spiriti ripugnanti e tutti gli uccelli immondi, tutti i pensieri vergognosi e tutti i peccati di orgoglio, che li hanno resi abominevoli agli occhi di Dio. » Il mondo cadrà perché ha scatenato contro di sé le tre concupiscenze: la concupiscenza della carne, designata qui dal vino della fornicazione; la concupiscenza della vita, rappresentata dai re della terra; e la concupiscenza degli occhi, rappresentata dai mercanti. L’autore sacro, dunque, annuncia il castigo del mondo, perché tutte le nazioni, cioè, in senso mistico, tutti coloro che non sono stati rigenerati spiritualmente, tutti coloro che vivono secondo le leggi della carne, hanno bevuto del vino della sua fornicazione, e così hanno provocato l’ira di Dio, dando libero sfogo ai loro amori impuri; perché i re della terra, cioè i superbi, coloro che non sono rigenerati e coloro che vivono secondo le leggi della carne, hanno bevuto del vino della sua fornicazione: i superbi, quelli posseduti dallo spirito di dominio, hanno peccato con essa; hanno portato tutti i loro desideri in questo mondo presente, e hanno sacrificato tutto per esserne padroni; infine, perché i mercanti, gli uomini avidi e cupidi di denaro, si sono arricchiti offrendo agli altri i mezzi per godere delle delizie della carne, e aumentando così senza misura il numero dei peccati.

§ 2 – Esortazioni ai fedeli.

Ma nello stesso tempo in cui annunciava i castighi riservati ai malvagi, Nostro Signore esortava tutti coloro che lo ascoltavano a rinunciare al mondo e a convertirsi. Ecco perché San Giovanni sentì un’altra voce, che era quella della misericordia, dopo quella della giustizia, e che gridava: Uscite da lì, popolo mio, come Lot uscì da Sodoma per sfuggire alla distruzione di quella città; uscite da lì, voi che vivete per la vita eterna, per non avere parte nei crimini di Babilonia, ed evitare così le mali che la minacciano, perché la sua rovina è inevitabile, i suoi peccati hanno raggiunto il cielo; hanno superato ogni misura, hanno costretto il Signore a lasciare la pazienza con cui sopporta, come se non li vedesse, l’ingratitudine e i crimini dell’umanità. » – Per punire il mondo per aver perseguitato i santi, l’Onnipotente li farà sedere sul suo stesso tribunale e li inviterà a pronunciare essi stessi la sentenza dei peccatori. Questa è la scena descritta ora dall’autore sacro: « Giudicate a vostra volta – dice Dio ai suoi servi – coloro che vi hanno giudicato. E infliggete loro un castigo doppio di quello che hanno inflitto a voi, perché hanno potuto colpire solo i vostri corpi: voi manderete a morte eterna sia i loro corpi che le loro anime. Puniteli con pene commisurate alle loro azioni, e nel calice che hanno preparato per voi, preparate per loro una doppia bevanda; cioè condannateli agli stessi tormenti che hanno inflitto a voi, ma aggiungendo alle sofferenze esterne il fuoco interiore e il rimorso della disperazione. Quanto più hanno cercato la gloria umana, tanto più li coprirete di vergogna e di confusione; e quanto più si sono crogiolati nelle delizie della carne, tanto più li punirete nei loro corpi. »

§ 3. Il reclamo dei re della terra.

Babilonia si credeva invulnerabile, come sempre accade ai peccatori incalliti; diceva in cuor suo: « Non temo nulla, sono sicura come una regina; non sono una povera vedova, priva di sostegno e di consolazione, e non vedrò quei guai che gli apostoli di Cristo mi hanno predetto ». Per questo, a causa di quell’orgoglio che fa sì che, non contenta di peccare, si glorifichi del suo peccato, si vedrà piovere addosso in un solo giorno i castighi che le sono dovuti: la morte, perché pensava di essere forte; il dolore, perché pensava di essere felice; la carestia, perché pensava di essere ricca. E questa sentenza sarà infallibilmente adempiuta, perché Dio è forte e nessuno può resistergli, e non sarà scosso da minacce o preghiere nel Giorno del Giudizio. I re della terra, i grandi e i fortunati di questo mondo, faranno cordoglio quando vedranno il fumo del fuoco che la consumerà. Piangeranno e si lamenteranno della propria rovina, sapendo che saranno inghiottiti con lei, che sono stati corrotti dai suoi piaceri e che hanno vissuto nei piaceri che essa ha offerto alla loro sensualità. E stando lontano per paura dei tormenti che sopporta… queste parole non devono essere prese alla lettera: gli uomini in questione sarebbero troppo felici di assistere da semplici spettatori al castigo del mondo, al quale si erano dati interamente! San Giovanni vuole semplicemente dire che i loro cuori, che aderivano con tutte le loro forze alle gioie di questo mondo, saranno ora molto lontani da esso; lo odieranno quando vedranno il prezzo che dovranno pagare al tribunale di Dio, e quando penseranno, con una paura che decuplicherà l’orrore dei loro tormenti, che questi sono eterni. – Tuttavia, notiamo di passaggio che in senso morale i re della terra sono qui presi nella buona parte; essi designano uomini che sanno dominare se stessi, che sono riusciti a dominare le loro passioni, e che, pieni di dolore al ricordo delle loro colpe passate, deplorano il tempo in cui erano schiavi dei piaceri del mondo. Ma torniamo al significato letterale della profezia, cioè alla descrizione anticipata del Giudizio Universale. I re della terra, dunque, vedendo il mondo cadere nel cataclisma che ne segnerà la fine, grideranno: Guai, guai a questa grande città di Babilonia! Guai a noi che abbiamo riposto la nostra fiducia in lei, perché sembrava essere potente, ma in realtà era solo forte nel fare il male; perché non è stata in grado di allontanare il fuoco che ora viene su di lei, infatti, è bastata un’ora perché il suo giudizio si compisse! » Quando il grande fuoco che deve purificare l’universo sarà acceso, sarà una cosa terribile per gli amanti di questo mondo vedere le fiamme divorare in un istante tutte le ricchezze, tutti i tesori, tutti i capolavori, tutto ciò che l’attività umana aveva prodotto di bello, grandioso, utile o piacevole dalla creazione, e il caos dell’inferno rimarrà la loro unica porzione.

§ 4 – La denuncia dei mercanti.

E i mercanti della terra piangeranno e gemeranno per la rovina di Babilonia, perché non ci sarà ancora nessuno che compri le merci. Invano si sono procurati, a costo di tanta fatica, i beni d’oro, d’argento, le pietre preziose, le perle, il lino, la porpora, la seta, lo scarlatto; i legni delle specie più rare, gli oggetti d’avorio, i vasi ornati di pietre preziose e fatti di bronzo, ferro o marmo; spezie, profumi, unguenti, incenso, vino, olio, farina, grano, bestiame, pecore, cavalli, carrozze, schiavi e uomini le cui stesse anime erano in vendita. Queste ultime parole denotano gli schiavi che hanno prontamente abbracciato la religione dei loro padroni, in opposizione a quelli che hanno mantenuto la loro religione personale. – Enumerando questa varietà di oggetti che facevano la fortuna dei mercanti, San Giovanni vuole farci capire che il ricordo delle cose della terra rimarrà terribilmente preciso nella memoria dei dannati: il rimpianto dei molteplici piaceri di cui facevano le loro delizie quaggiù li perseguirà contemporaneamente, ma distintamente. Allo stesso tempo, la voce della loro coscienza ricorderà loro costantemente il carattere irrevocabile della loro rovina: « Gli oggetti dei desideri della tua anima – dirà loro – sono stati portati via da te; tutte le cose in cui ponevi le tue delizie e la tua gloria sono finite per te, mai più si troveranno in tuo possesso. » Ma va da sé che ognuna delle parole che appaiono nell’enumerazione che si è appena fatta ha un significato simbolico e che, molto più della ricchezza materiale, rappresenta un valore spirituale. Spiegheremo brevemente le interpretazioni comunemente date su questo argomento dai Dottori e dai commentatori autorizzati dell’Apocalisse. I mercanti sono gli eretici e gli ipocriti, tutti coloro che fingono di essere virtuosi per comprare non la gloria eterna, ma la gloria di questo mondo. Pretendono di possedere nei loro tesori l’oro della saggezza divina, l’argento dell’eloquenza ispirata, la pietra preziosa che è Cristo stesso, e la perla del regno dei cieli, per la quale si deve vendere e lasciare tutto. Lasciano intendere che la loro anima è bianca come il lino per la cura con cui si purifica dalla minima contaminazione, rossa come la porpora per l’ardore con cui desidera il martirio, luminosa e leggera come la seta per la sua verginità, splendente come lo scarlatto per la sua carità. Il legno di Thuja, che è imputrescibile, simboleggia la loro perseveranza, che nulla può spezzare; l’avorio, la loro castità; il bronzo, la loro resistenza; il ferro, la loro pazienza, perché questo metallo, quando è posto sul fuoco, invece di essere consumato, si spoglia delle sue scorie, diventa flessibile e può essere modellato per tutti gli usi. La loro umiltà li lascia freddi come il marmo davanti alle lodi degli uomini. La penitenza dà alla loro vita un aroma piacevole come quello della cannella; lo spirito di preghiera profuma le loro anime, e lo Spirito Santo le riempie con la sua unzione. L’incenso esprime la loro devozione; il vino, la loro compunzione; l’olio, la loro misericordia per il prossimo; la farina e il grano, la purezza e la qualità della loro dottrina. La loro devozione al servizio degli altri è tale che possono essere paragonati a bestie da soma, che accettano tutti i pesi; a pecore, che si lasciano tosare senza mormorare; a cavalli, che portano impetuosamente e generosamente i loro padroni in battaglia; a carrozze, perché aiutano a fare il viaggio di questa vita senza fatica; a schiavi, infine, perché si fanno servi di tutti, sia nello spirituale che nel temporale. Gli ipocriti, dunque, pretendono di avere tutte queste qualità, e vendono le loro opere in cambio della lode degli uomini. Ma nel giorno del giudizio, i frutti che desiderano, cioè proprio questa gloria umana, sfuggiranno loro completamente, e tutta la virtù di cui si credevano pieni, tutto lo splendore di cui si erano falsamente adornati, svaniranno senza speranza di ritorno.

§ 5. La denuncia di marinai e piloti.

Che si tratti dunque, in senso letterale, degli uomini dediti alla ricerca delle ricchezze mondane, o, in senso morale, degli ipocriti che avranno ingannato gli uomini con le loro virtù simulate, tutti loro, in quel giorno d’ira, assisteranno con disperazione alla rovina di questo mondo, piangendo, gemendo e dicendo: Guai! Guai! La parola: , che la Scrittura usa per esprimere il dolore dei dannati, è intraducibile: significa che questo dolore supera tutte le locuzioni, tutti i concetti umani, come fa, al contrario, la parola Alleluia, che canta la gioia ineffabile dei beati. « Guai – allora, diranno – a noi che abbiamo confidato in questa magnifica città. Essa era vestita di lino, porpora e scarlatto, era adornata d’oro, di pietre preziose e di perle. Ed ecco, è bastata un’ora per inghiottire tutte queste ricchezze. » E tutti i piloti, tutti quelli che navigavano sul lago, i marinai e quelli che lavorano in mare gridarono di dolore, mentre vedevano l’incendio della città. Queste espressioni, anche se in senso letterale, possono essere intese come gli uomini che affrontano i pericoli di viaggi lontani per arricchirsi, sono rivolte soprattutto ai cattivi prelati, ai cattivi sacerdoti, ai cattivi predicatori, a tutti coloro che Gesù aveva scelto, come San Pietro, Sant’Andrea, San Giacomo e San Giovanni, per essere pescatori di uomini, per guidare la barca della sua Chiesa, e che si sono fatti servi del mondo. Tutti questi, improvvisamente sobri, odieranno improvvisamente quelle prelature, gli onori e le ricchezze che hanno desiderato così ardentemente. Quando vedranno il luogo dove sarà consumata dal fuoco, e quel luogo è l’Inferno, dove essi stessi saranno caduti, diranno: « Chi è come questa città? Chi avrebbe potuto credere che un destino così tragico attendesse questa città, che sembrava così felice e potente? » E si metteranno la polvere sul capo: faranno penitenza, ma sarà troppo tardi. Nella loro disperazione riconosceranno la vanità di tutto ciò che hanno perseguito così ardentemente, e confesseranno di aver sacrificato tutto per un po’ di polvere. Grideranno con lacrime e gemiti: « Guai, guai, a questa grande città ». Tutti coloro che avevano navi nel mare, cioè tutti coloro che possedevano i beni di questo mondo, si arricchirono con le sue ricchezze, invece di cercare di conquistare il regno dei cieli. Ed ecco, in un’ora essa è stata annientata! »

§ 6. – Come i santi devono rallegrarsi di aver evitato la sventura della dannazione.

San Giovanni, dopo aver mostrato la rovina degli empi, si rivolge ora ai Santi. Li esorta a rallegrarsi, perché il Giudizio, che segnerà l’ora del castigo per i malvagi, sarà l’ora della ricompensa per i giusti. Dice loro: « Rallegratevi della distruzione di Babilonia, voi il cui cuore è come un cielo, perché Dio vi abita; voi che avete lavorato per il Vangelo, come i santi Apostoli, e annunciato il regno che viene, come i Profeti. Rallegratevi, perché il Signore l’ha chiamata a rispondere della condanna che aveva portato contro di voi. » E ora arriva l’esecuzione della sentenza. Allora l’Angelo, il Re degli Angeli, Gesù Cristo in persona, prese la pietra che era come una grande macina e la gettò nel mare, dicendo: Questa è la potenza con cui questa grande città di Babilonia sarà scaraventata nel mare. La pietra rappresenta qui la massa dei dannati: l’autore vuole farci capire che, nonostante la loro durezza e la loro ostinazione nel peccato, Nostro Signore li getterà senza sforzo nell’inferno, quando dirà: Andate, maledetti, nel fuoco eterno. E cadranno come la pietra che, gettata con forza nell’acqua, non rimane un attimo in superficie, ma va dritta sul fondo e non appare più. Saranno sprofondati per sempre nell’abisso della disperazione e della desolazione. Non sentiranno mai più le voci dei suonatori di cetra, dei cantori, dei suonatori di flauto o di tromba, o di qualsiasi altra cosa che incantava le loro orecchie qui sulla terra: essi sentiranno eternamente solo le grida dei demoni e gli ululati dei dannati. Nell’inferno non ci saranno artigiani di nessuna arte, nessun lavoro utile, nessun mezzo per provvedere ai bisogni della natura umana; non si sentirà il rumore della macina per fare il pane, né quello di nessun altro mestiere. E la voce dello Sposo e la voce della Sposa taceranno per sempre, perché non ci sarà più amore, non ci saranno più matrimoni, non ci saranno più feste, non ci saranno più i piaceri che rendono la vita sopportabile. Questo è il destino che attende Babilonia, perché invece di scegliere principi saggi, si è affidata a mercanti. Essi hanno lavorato per i beni della terra senza preoccuparsi della vita eterna, si sono arricchiti, hanno ricevuto la loro ricompensa, e ora arrivano a mani vuote al giudizio di Dio. Inoltre, i loro cattivi esempi hanno corrotto tutte le nazioni, e quindi sono responsabili del sangue dei Profeti, del sangue dei Santi e dell’omicidio di tutti coloro che sono stati uccisi ingiustamente sulla terra.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. BENEDETTO XIV – “

Questa breve lettera, come già nella precedente Inter omnigenas, il S. Padre Benedetto XIV, ricorda ai Cristiani residenti in paesi infestati dalla barbarie musulmana e turca, nello specifico l’Albania e le regioni balcaniche, di non assumere nomi musulmani per evitare le tassazioni ed immunità ivi vigenti o i commerci liberi, imitando all’inverso i costumi che i marrani iberici avevano già tenuto in altri tempi nei confronti dei Cristiani, poiché «… questa simulazione comporta una menzogna in materia gravissima, e comprende una virtuale negazione della Fede con grandissima offesa a Dio e scandalo al prossimo: per cui si offre ai Turchi stessi l’occasione propizia di considerare tutti i Cristiani ipocriti e ingannatori, tali che vanno a buon diritto e giustamente perseguitati… » Naturalmente oggi, la questione dei nomi non si pone solo nei confronti dei musulmani, ai quali è stato permesso libero accesso nelle Nazioni un tempo cristiane, ed oggi apostate dalla fede in Cristo, ma pure nei confronti degli “idoli” comunisti, atei, dei buffoni dello spettacolo d’oltreoceano, e senza che ci sia nessun pretesto se non il gusto di essere anticristiani, perché moderni, progressisti e “tolleranti”, il tutto favorito da conniventi giullari in talare che si atteggiano a “santoni” e guide spirituali … certo, ma guide per il fuoco eterno. Oramai i nomi imposti ai Cristiani in onore dei grandi santi, dei martiri della fede, delle vergini cristiane o della Santa Vergine nei suoi attributi, sono praticamente spariti dalla circolazione, conservandosene l’oso solo in famiglie o comunità tradizionali, sostituiti da nomignoli spesso ridicoli od impronunciabili, solo perché alla moda e secondo i modelli falso culturali attuali. E molti vengono pure battezzati accompagnando ipocritamente questi obbrobri con nomi di Santi che hanno più che altro un sapore di sacrilegio, e che gli interessati spesso non conoscono neppure.

Benedetto XIV
Quod provinciale

Il Concilio Provinciale della vostra Provincia di Albania, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, celebrato l’anno 1703 sotto il Papa Clemente XI di felice memoria, nostro Predecessore, aveva santissimamente stabilito, fra le altre cose, al canone terzo, che nel Battesimo non fossero imposti né ai bambini né agli adulti nomi Turchi o Maomettani, e che i Cristiani non tollerassero di essere chiamati con nomi Turchi o Maomettani che mai erano stati loro imposti, per qualunque esenzione da tributi o immunità, o per facilitazioni nel commerciare liberamente, o per evitare pene. Raccomandando anche Noi le stesse cose, le confermammo, e comandammo di osservarle nella nostra Lettera Enciclica che inizia con le parole Inter omnigenas, edita per il Regno di Serbia e regioni vicine, su diversi punti di Religione e di disciplina, il giorno 11 febbraio 1744, anno quarto del Nostro Pontificato.

Quanto fu stabilito con sapienza e religione dai vostri Predecessori fu veramente provvidenziale e salutare, esempio luminoso della Fede Cattolica e della Vostra sincera pietà Cristiana, da essere indicato ad esempio agli altri e da Noi prescritto perché sia rigorosamente osservato, a maggior gloria e prestigio della Vostra Provincia e a maggiore utilità per conseguire l’eterna salvezza delle anime: tanto che se per caso capitasse che venisse trascurato, ridonderebbe a maggior disonore della vostra stessa Provincia e ad aperto danno delle anime.

1. Quindi Noi, che nella predetta nostra Lettera proclamammo quell’abuso una turpe occultazione della Fede cristiana, somigliante all’infedeltà, abbiamo appreso, col più grande dolore del nostro animo Pontificale, che moltissimi di codesta Provincia, trascurato il pensiero dell’eterna salvezza, continuano ad adoperare i medesimi nomi Turchi o Maomettani, non solo per essere considerati immuni e liberi da quei tributi e oneri che furono imposti ai Cristiani, ma anche con lo scopo che non si creda che essi stessi o i loro parenti abbiano apostatato dalla religione Maomettana, e non siano puniti con le pene inflitte in questi casi. Infatti tutte queste cose, anche se la Fede di Cristo viene conservata nel cuore, non si possono fare, senza la simulazione degli errori di Maometto, contraria alla sincerità Cristiana; questa simulazione comporta una menzogna in materia gravissima, e comprende una virtuale negazione della Fede con grandissima offesa a Dio e scandalo al prossimo: per cui si offre ai Turchi stessi l’occasione propizia di considerare tutti i Cristiani ipocriti e ingannatori, tali che vanno a buon diritto e giustamente perseguitati.

2. Si aggiunge inoltre ad aumentare sempre più il nostro dispiacere e dolore, che alcuni di Voi stessi, Venerabili Fratelli, e anche alcuni di Voi, diletti figli Parroci e Missionari, non badando affatto ad una simulazione tanto malvagia e detestabile, ma anzi conniventi, e spinti da motivazioni che non sono sufficienti a scusare i peccati, non hanno timore di ammettere alla partecipazione ai Sacramenti, senza nessun travaglio di coscienza e con pubblica offesa dei buoni Cristiani, quei fedeli affidati alle vostre cure che assumono i suddetti nomi Turchi o Maomettani e procurano di farsi chiamare così.

3. Ne consegue che Noi, che (per la sollecitudine di tutte le Chiese a Noi imposta, e per la soprintendenza suprema del Sacrosanto Apostolato), siamo obbligati a ricondurre tutti i Cristiani sulla via della salvezza e a presentarli a Dio puri, sinceri, procedenti in spirito e verità e senza macchia, dopo avere ascoltato su questo argomento i nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa Inquisitori generali contro la malvagità eretica, col loro consiglio, rinnovando dapprima il lodato Canone del Concilio Albanese della vostra Provincia, colla nostra Apostolica autorità, a tenore della presente Lettera lo confermiamo, e comandiamo che sia osservato rigorosamente. Colla stessa autorità e tenore estendiamo anche alla Vostra Provincia, e comandiamo che siano ugualmente osservati, i decreti della ricordata nostra Lettera. Quindi proibiamo rigorosamente che qualunque Cristiano, per qualunque motivo o pretesto o in qualsivoglia immaginabile circostanza, osi assumere i medesimi nomi Turchi o Maomettani per farsi credere Maomettano.

4. Inoltre, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, vi preghiamo ed esortiamo nel Signore affinché, considerando seriamente il vostro ministero e i conti severi che dovrete rendere al Supremo Principe dei Pastori ed Eterno Giudice Gesù Cristo sulle pecore affidate a ciascuno di Voi, Voi stessi curiate di assicurare la vostra elezione colle vostre buone opere, e non omettiate (la qual cosa non può avvenire senza gravissima Vostra colpa di incuria e negligenza) di rimproverare, scongiurare e sgridare con ogni pazienza e dottrina i medesimi Cristiani della vostra Provincia affinché, tenendo un buon comportamento fra i Pagani, in ogni cosa si mostrino esempio di buone opere, perché coloro che sono avversari, si vergognino, non avendo niente di male da dire su di loro, quasi fossero malfattori: essi, che per turpe guadagno parlano diversamente da come pensano. Se alcuni poi non ubbidiscono alle vostre esortazioni e ai nostri ordini, secondo la norma della disciplina Apostolica, devono essere obbligati con le maniere forti: su di loro devono essere applicate interamente le sanzioni e le pene del vostro Sinodo Albanese e della suddetta nostra Lettera, e sia loro dichiarato che non potranno ricevere, in vita, i Sacramenti, e dopo la morte, se saranno deceduti senza ravvedersi, i suffragi. Quelle pene Noi rinnoviamo e infliggiamo di nuovo, per quanto ce n’è bisogno, e vogliamo e ordiniamo che siano mandate a debita esecuzione da Voi. Questo poi non deve sembrare odioso a nessuno di voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, poiché se la Vostra giustizia non supererà quella degli Scismatici ed Eretici, nessuno dei quali osa prendere un nome Maomettano, non entrerete nel Regno dei Cieli.

5. Infine, coloro che si sono fatti Cristiani dal Maomettanesimo, o che sono figli di convertiti, nel caso in cui diffidino della propria costanza nella Fede e abbiano timore di incorrere nelle pene dei loro Governanti se lasciano i nomi Turchi, e abbiano paura di subirle, esortateli seriamente ad abbandonare di nascosto quelle regioni e a venire a rifugiarsi nelle terre dei Cristiani, nelle quali non mancheranno ad essi né Dio che dà il cibo ad ogni vivente, né la carità dei fedeli, specialmente se saranno muniti di lettere di raccomandazione dei Vescovi.

Frattanto a Voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, doniamo affettuosamente la Benedizione Apostolica, la quale vogliamo che sia data a Nostro nome ai Cristiani di retta fede da ogni Venerabile Fratello Vescovo nella sua Diocesi.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° agosto 1754, anno quattordicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la giustizia di Dio (Intr., Vang.) che si manifesta col trionfo di Gesù e l’invio dello Spirito Santo. « La destra del Signore ha operato grandi cose risuscitando Cristo da morte » (All.) e facendolo salire al cielo nel giorno dell’Ascensione. È bene per noi che Gesù lasci la terra, poiché dal cielo Egli manderà alla sua Chiesa lo Spirito di verità (Vang.), per eccellenza, che viene dal Padre dei lumi (Ep.). Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni verità (Vang., Off., Secr.), esso « ci annunzierà » quello che Gesù gli dirà e noi saremo salvi se ascolteremo questa parola di vita (Ep.). Lo Spirito Santo ci dirà le meraviglie che Dio ha operate per il Figlio (Intr., Off.) e questa testimonianza della splendida giustizia resa a Nostro Signore consolerà le anime nostre e ci sarà di sostegno in mezzo alle persecuzioni. Siccome, secondo quanto dice S. Giacomo, «la prova della nostra fede produce la pazienza e questa bandisce l’incostanza e rende le opere perfette », noi imiteremo in tal modo la pazienza del nostro Dio « e del Padre nostro », nel quale « non vi è né variazione né cambiamento » (Ep.), e « i nostri cuori saranno allora là dove si trovano le vere gioie » (Or.). Lo Spirito Santo convincerà inoltre satana e il mondo del peccato che hanno immesso mettendo a morte Gesù (Vang., Comm.) e continuando a perseguitarlo nella sua Chiesa.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVII:1; 2
Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.

]Ps XCVII: 1
Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus.

[Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod prǽcipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia.

[O Dio, che rendi di un sol volere gli ànimi dei fedeli: concedi ai tuoi pòpoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli
Jas I 17-21
Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.


[Caríssimi: Ogni liberalità benéfica e ogni dono perfetto viene dall’alto, scendendo da quel Padre dei lumi in cui non è mutamento, né ombra di vicissitudine. Egli infatti ci generò di sua volontà mediante una parola di verità, affinché noi siamo quali primizie delle sue creature. Questo voi lo sapete, miei cari fratelli. Ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. Poiché l’uomo iracondo non fa quel che è giusto davanti a Dio. Per la qual cosa, rigettando ogni immondezza e ogni resto di malizia, abbracciate con ànimo mansueto la parola innestata in voi, la quale può salvare le vostre ànime.]

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine.

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXVII:16.
Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja.

[La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]
Rom VI:9
Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja.[Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem

Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: è necessario per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito, ma quando me ne sarò andato ve lo manderò. E venendo, Egli convincerà il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché io vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il príncipe di questo mondo è già condannato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma adesso non ne siete capaci. Venuto però lo Spirito di verità, vi insegnerà tutte le verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito: vi annunzierà quello che ha da venire, e mi glorificherà, perché vi annunzierà ciò che riceverà da me.]

OMELIA

(OMELIE PANEGIRICI E SERMONI DEL PREVOSTO PAROCO IN SANTO STEFANO DI MILANO FRANCESCO MARIA ZOPPI – Томо II. – MILANO – TIPOGRAFIA DI GIUDITTA BONARDI – POGLIANI MDCCCXLII.)

VANTAGGI CHE APPORTO’ AL MONDO LA PARTENZA DI GESÙ CRISTO.

Ogni volta che il divin Redentore parlava a’ suoi discepoli della sua partenza, questi si mostravano curiosissimi di sapere dove egli se ne andasse, non avendo essi ancora inteso che volesse significare la misteriosa partenza di Lui. Quindi allorché disse loro, Figliuoli miei, mi resto ancora un poco con voi, ma poi mi cercherete, e dove Io vo, voi non potete venire; l’apostolo san Pietro si fece tosto ad interrogarlo, dicendo, Signore, dove andate? E quando tornò a dir loro, Io vo a prepararvi il luogo, e dove Io vado, voi lo sapete, e non ne ignorate la strada; l’apostolo s. Tommaso gli rispose subito, Signore, noi ignoriamo dove ve ne andate, e come possiamo saperne la strada? Ma poiché ebbero inteso che la partenza del divin Maestro volea significar prima la morte, indi l’ascensione di Lui al cielo; poiché ebbero pensato che così sarebbero rimasti orfani e privi dell’amata presenza di Lui; poiché ebbero ascoltato dalla sua bocca medesima, che dopo di Lui sarebbero stati essi pure com’Egli aspramente perseguitati, fu sì grande la tristezza onde sono stati compresi, che più non lo interpellarono ove se ne andasse. Tanto è vero, o miei dilettissimi, che sono ben rari coloro che amino la croce, o che non si rattristino quando se la vedono avvicinare. Epperò Gesù Cristo, quasi rimproverandoli dolcemente, disse loro, come si legge nell’odierno Vangelo: Ora Io me ne vado a chi mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda, dove Io me ne vada? ma perché  vi ho detto queste cose, vi lasciate occupare il cuore dalla tristezza. Nunc vado ad eum qui misit me, et nemo ex vo bis interrogat me, Quo vadis? sed quia hæc locutus sum vobis, tristitia implevit cor vestrum. Ma il divin Maestro non si lagna così della tristezza de’ cari suoi discepoli, che loro non ne porga prontissima e molta la consolazione. Vi dico la verità, così prosegue a parlar loro, torna bene per voi ch’Io me ne vada; perché se Io non me ne vo, non verrà a voi il Consolatore; che se io me ne andrò, ve lo manderò: Sed ego veritatem dico vobis: expedit vobis ut ego vadam; si enim non abiero, Paraclitus non veniet ad vos; si autem abiero, mittam eum ad vos. – Ecco come li consola, riflette s. Giovanni Crisostomo: Non vi parlo in modo lusinghiero, e quantunque vi rattristiate fuor di modo, fa d’uopo che ascoltiate ciò che è espediente; ed è proprio di chi ama veramente, il non aver riguardo al desiderio degli amati, quando così conviene, ma l’essere piuttosto sollecito di ciò che può tornare a loro vantaggio. Quando Egli sarà venuto, prosegue a dire Gesù Cristo, convincerà il mondo, Arguet mundum; insegnerà a voi tutte le verità, Docebit vos omnem veritatem; e glorificherà me stesso Ille me clarificabit. Eccovi tre vantaggi: l’uno del mondo, l’altro degli Apostoli e il terzo di Gesù Cristo; ed eccovi tutto il Vangelo d’oggi. Sarebbe di troppo il volere in oggi parlare di tutti partitamente: lasciando dunque per ora quello degli Apostoli e di Cristo, accontentiamoci di esaminare sulle tracce del santo Vangelo in che consista quello del mondo che ci riguarda. – Venuto che sarà il Paraclito, convincerà il mondo, Cum venerit ille, arguet mundum. Intorno a che cosa il convincerà, o dilettissimi? Il convincerà intorno al peccato ed alla giustizia ed al giudizio, Arguet de peccato et de justitia et de judicio. Di quale peccato, di quale giustizia e di qual giudizio? chi sia il peccatore, chi il giusto, chi il giudicato, onde qui parla Gesù Cristo, varii essendo i sentimenti de’ santi Padri, a quello mi attengo che sembrami il più conveniente ed il più utile a nostra istruzione. Il mondo tutto era in peccato anziché Gesù Cristo venisse a liberarnelo: tutti aveano peccato in Adamo, ed al peccato di origine quant’altri ne aggiungevano enormissimi de’ proprj e personali? Fa orrore il leggere nelle sacre Scritture a quale eccesso fosse arrivata la universale corruzione degli uomini: fa orrore il pensare che per punire i peccati degli uomini ha dovuto Dio Creatore, quando o colle guerre o colla peste o colla fame distruggere intere nazioni, quando col fuoco consumare città popolatissime, quando sommergere nell’acque il mondo tutto, e pentirsi d’aver fatta la migliore delle sue creature: fa orrore l’ascoltare l’apostolo s. Paolo, che dichiara, essere stati allora gli uomini ripieni d’ogni iniquità, di malizia, di fornicazione, di avarizia; pieni d’invidia, di omicidio, d’inganno; maligni, seminatori di falsi rapporti, detrattori e nemici di Dio; contumeliosi, superbi, altieri, inventori di sempre nuove maniere di far male; indocili, insensati, senza regola e senza affezione; senza patti, senza sentimento di compassione e di umanità: il quadro è tutto dell’Apostolo. Ma pure quanto erano più perversi di cuore, erano altrettanto più ciechi di mente; e mentre erano pieni di delitti da capo a piedi, non sapevano persuadersi d’essere in peccato, e ricusavano di riguardarsi come peccatori. E così pur troppo avviene tuttavia di chiunque è guasto di cuore. Al venire di Gesù Cristo doveansi poi diradare queste nubi, doveano questi ciechi aprire gli occhi alla luce vivissima che Gesù Cristo veniva a spargere per tutto il mondo: l’esemplare santità della sua vita, l’alta sapienza di sua dottrina, la luminosa evidenza de’ suoi miracoli doveano finalmente disingannarli. Ma quanto pochi furono coloro che siansi dati convinti delle loro colpe, e, credendo in Gesù Cristo, lo abbiano riguardato come il loro liberatore! Voi sapete che per lo contrario il tradussero per un indemoniato, per un impostore, per un peccatore, per un trasgressore della legge, e lo trattarono quale il più perverso ed il più infame de’ malfattori. È d’uopo adunque ch’egli si tolga dagli occhi di questi uomini materiali e carnali, e mandi lo Spirito Santo a convincerli del loro peccato. Erano allora sufficienti le opere di Lui a chiuder loro la bocca – dice san Giovanni Crisostomo – ma quanto più convinti saranno e condannati, quando vedranno rinnovarsi le opere stesse dallo Spirito Santo, e rendersi più perfetta e chiara la dottrina, ed operarsi miracoli più strepitosi, e tutte e sì grandi cose farsi in nome di Lui, ch’essi hanno sì barbaramente trattato! Quanto più manifesta si renderà la gloriosa risurrezione di lui! Finora, prosegue lo stesso santo Dottore, potevano riguardarlo come il Figliuolo del falegname, come quello di cui conoscevano il padre e la madre, e non curarlo, vilipenderlo anzi e maltrattarlo: ma quando vedranno sciogliersi i vincoli della morte, sanarsi le malattie, mandarsi in fuga i demonj, emendarsi i vizj della natura e diffondersi un’immensa pienezza di spirito, e tutte queste cose operarsi coll’invocare soltanto il nome di Gesù, che cosa diranno, Quid dicent? Come il Padre (è sempre lo stesso santo Dottore che parla) ha reso testimonianza di Lui, così la rende lo Spirito Santo; e sebbene l’abbia resa sino dal principio, or pure la renderà, e convincerà il mondo di peccato, Arguet de peccato: non gli lascerà cioè alcun appiglio, e dimostrerà che ha peccato senza che v’abbia luogo a scusa alcuna: Hoc est, omnem auferet excusationem, et sine venia peccasse demonstrabit. Al vedere pertanto le opere meravigliose dello Spirito Santo, forz’è che il mondo si riconosca legato ancora dai vincoli antichi del suo peccato; forz’è che confessi, che non poteva essere sciolto fuorchè dalle mani di Gesù Cristo; forz’è che pianga di non esserne stato da lui liberalo per non avere creduto in Lui: Arguet de peccato, quia non cre diderunt in me. Non tardò diffatti il mondo a darsi per convinto e per colpevole. Investito appena l’apostolo s. Pietro dello Spirito Santo, insegna altamente e pubblicamente a tutta la casa d’Israele, che Cristo, quello stesso ch’essi hanno poco prima messo in croce, è il solo . Salvatore, il vero Messia. Un siffatto parlare dovea concitargli contro l’odio di tutti: tutte le passioni de’ Giudei ne venivano fortemente irritate,e si sarebbe creduto che Pietro dovesse restar vittima di quell’odio stesso che di fresco avea sacrificato il suo divin. Maestro. Ma no, dilettissimi: parla Pietro, ma non è Pietro che parla, è lo Spirito Santo che parla in Lui, e talmente illumina e muove chi lo ascolta, che già si danno per rei, e computi nel cuore e premurosi di riparare il loro delitto, e a Lui e agli altri Apostoli si rivolgono affannosi, dicendo, Fratelli, fratelli, che cosa abbiamo a fare: Quid faciemus, viri Fratres? Predica Pietro per la prima volta, e predica la penitenza e predica il battesimo in nome dell’odiato Gesù; ma non è Pietro che predica, è lo Spirito santo che predica in Pietro, e porta a’ piedi di lui ben tremila persone, che, sinceramente pentite, domandano é ricevono il santo battesimo nel nome di Gesù. Predica Pietro per la seconda volta, e la parola di lui diviene più feconda di prima, ma è lo Spirito Santo che dà la forza e l’efficacia alla parola di Pietro, e penetrando nel cuore di altre ben cinquemila persone, le fa credere in quel Gesù ch’elleno stesse hanno crocifisso.Ma non erano queste che le prime prove della vittoria che lo Spirito Santo anto riportava sul cuore degli uomini: non meno efficace della predicazione di Pietro fu la predicazione di tutti gli altri Apostoli ripieni dello stesso divino Spirito. Si sparsero questi per tutto il mondo, e dappertutto predicarono la stessa fede, lo stesso Vangelo, Gesù Cristo, e questo crocifisso; ed a fronte di ostacoli e molti e fortissimi ei insormontabili, la fede e la religione di Cristo si sparse, si stabilì dappertutto rapidamente, e tutto il mondo confessò il suo peccato di non aver creduto in Gesù Cristo, riconobbe in lui il suo liberatore, e rese pienissima testimonianza col fatto siccome allo Spirito Santo che operava questo grandissimo prodigio, così a Gesù Cristo che lo avea predetto: Arguet de peccato, quia non crediderunt in me. Che se lo Spirito santo così convince il mondo intorno al suo peccato, perché non ha creduto in Gesù Cristo, il convince nello stesso tempo e per la stessa ragione intorno alla santità e giustizia di Gesù Cristo, nel quale non hanno creduto: Arguet de justitia. E qual prova può aggiungere più convincente di quella di andarsene egli al Padre suo e togliersi per sempre agli occhi loro? Quia vado ad Patrem, et jam non videbitis me. Imperciocchè, come osserva il nostro santo Padre, erano soliti i Giudei di accusare Gesù Cristo,che non venisse da Dio, e che fosse però un peccatore, un trasgressore della legge, e tale il credevano, e così bassamente pensavano di Lui, perché il vedevano affatto simile ad ogni altro uomo, vestito della stessa carne, soggetto alle stesse infermità, perché conversavano con ogni confidenza con Lui,e trattavano con Lui come con chicchessia: avranno quindi detto fra loro … Possibile che costui, in tutto simile a noi, sia il Figliuol di Dio, il Salvator del mondo, il vero Messia? Ma ascendendo egli ne’ cieli, e togliendosi per sempre agli occhi loro, conviene che ogni calunnia sia rimossa e confusa: Hinc omnis calumnia amovebitur. – Perocchè, così continua ragionando il santo Padre, se per ciò il credono trasgressore della legge, perchè non sia egli da Dio, quando lo Spirito Santo avrà dimostrato che se ne è da qui partito ed è asceso al cielo non già per un’ora, ma per rimanervi per sempre, come il significa con quelle parole, Già più non mi vedrete, Jam non videbitis me; che cosa mai diranno? Quidnam dicent? Può egli un peccatore restarsene per sempre con Dio Padre? Ecco come con questi due argomenti si toglie dall’animo de’ Giudei ogni mal concepito sospetto. Imperciocchè un peccatore non può operare miracoli a suo capriccio; i miracoli sono un effetto soltanto della virtù di Dio, della quale non vuole e non può usarne ad inganno degli uomini: un peccatore non può restarsene per sempre appresso Dio; anzi non può essere con Lui neppure per un momento, essendo riservata la beata presenza di Lui ad essere il premio e la felicità eterna de’ giusti: Ne que enim peccator miracula facere, neque esse apud Deum perpetuo protest. Dunque lo Spirito Santo li convincerà chi io mi sia, né possono più chiamarmi peccatore, e dirmi ch’io non venga da Dio: Quare non possunt me amplius peccatorem et a Deo non esse dicere: li convincerà ch’Io sono l’Agnello di Dio, l’Agnello senza macchia, quale sono stato loro predicato dal mio precursore Giovanni; che sono il Figliuol di Dio, il Salvatore del mondo, quale Io stesso mi sono dichiarato e confermato sempre sino sulla croce; li convincerà ch’egli stesso è mandato da me di là, dove sono ritornato, e ch’Io siedo alla destra di mio Padre; li convincerà finalmente ch’Io sono il santo, il giusto, la santità, la giustizia stessa; e non solo il santo, il giusto, ma la sola sorgente d’ogni santità e giustizia, Arguet de justitia. Imperciocchè non mi vedranno essi più; e tolta sarà dagli occhi loro quella carne inferma, di cui hanno voluto prendersi scandalo, Jam non videbitis me; ma dalle opere dello Spirito santo che io manderò, conosceranno ch’io non sono, quale appariva agli occhi loro, uomo infermo e peccatore, ma Dio onnipotente e giusto, quale il Padre appresso cui sono asceso, Arguet de justitia, quia vado ad Patrem. Vedranno rozzi pescatori parlare le lingue tutte e confondere i saggi del secolo; uomini timidi ed inermi affrontare l’alterigia e le minacce de tiranni, e farli impallidire; uomini deboli ed impotenti comandare alla natura, cangiarne le leggi a loro arbitrio ed operare non mai più veduti prodigi. Ma per virtù di chi, o dilettissimi, se non per virtù di Lui, che prima di ascendere al cielo, già li avea mandati per il mondo a predicare il Vangelo, e muniti d’ogni sua podestà, e costituiti a stabilire il suo regno e la sua fede sulle rovine di tanti imperi e di tanti errori? Vedranno il mondo tutto cangiare in breve tempo maniera di pensare, cangiare costume e abbracciare la religione di Cristo , cui, siccome contraria ai pregiudizi dell’educazione, agli impegni del partito, alle mire della prudenza carnale e a tutte le passioni, avea prima sommamente abborrita e contraddetta. Ma per forza di chi? se non per forza di Lui che già avea predetto, che non lo avrebbero più veduto, ma spedito avrebbe il suo Spirito a rinnovare la faccia della terra? Arguet de justitia, quia vado ad Patrem, et jam non videbitis me. S’alzerà questo mondo e il principe di lui; s’alzerà quel mondo, come riflette sant’Agostino, di cui sta scritto che non lo conobbe, Et mundus eum non cognovit, gli infedeli, cioè, onde tutto il mondo è pieno, hoc est, homines infideles, quibus toto orbe terrarum mundus est plenus: s’alzerà il principe di questo mondo, che dall’Apostolo S. Paolo si appella il principe di queste tenebre, cioè degli infedeli: Princeps tenebrarum harum, hoc est, infidelium: il demonio, in una parola, si alzerà contro questi alti disegni della divina Sapienza. E quanto già prevalse la forza e l’insidia di lui contro Gesù Cristo! Ei gli sovvertì un apostolo e glielo cangið in un traditore; ei gliene avvilì un altro e lo rese uno spergiuro; egli pervertì il cuore de’ sacerdoti, de’ seniori, de’ Giudei, e li rese ingiusti contro di lui e sacrileghi violatori delle leggi e della religione; egli concitò contro Lui l’odio ed il furore del popolo, che poc’anzi lo avea proclamato suo Re, e lo convertì in carnefice, in crocifissore di Lui; egli finalmente arrivò a conficcarlo su di una croce. Poteva sopra di Lui dimostrare potenza maggiore e menare maggior trionfo? Ma ora appunto che sembra giunto al colmo del suo potere e delle sue vittorie, lo Spirito Santo convincerà il mondo intorno al giudizio, alla condanna pronunziata contro di Lui, Arguet de judicio, e dimostrerà ch’Egli è debellato, vinto, giudicato: Arguet de judicio, quia Princeps hujus mundi jam judicatus est. Imperciocchè al solo segno di quella croce, che già fu il grande trofeo di Lui, non daranno più risposta gli idoli, muti si renderanno gli oracoli, e fugati saranno i demonj non solo da’ corpi degli ossessi, ma fuori da tutta la terra, e cacciati negli eterni abissi; e la voce sola di un discepolo di Gesù crocifisso farà rovinare i tempi, rovesciare gli altari degli déi fallaci, e più non si rammenterà l’impero del principe di questo secolo che con fremito e con orrore. Egli si opporrà alla forza ed alla sapienza dello Spirito Santo vincitore, e contro Lui dai profondi abissi, ov’egli è irrevocabilmente cacciato, adoprerà potere ed arte; userà della propria seduzione, userà del ministero di quanti seguaci egli ha nel mondo, ma vani saranno gli sforzi, inutili gli attentati di lui: contro tutte le passioni del cuore, ch’egli risveglierà e ravviverà più che mai, si promulgherà e si abbraccerà la morale evangelica di Gesù Cristo, che ne impone il freno e la mortificazione: sotto la spada onde armerà egli i tiranni per sacrificare nella sua culla, dirò così, la Chiesa di Cristo ancor bambina, crescerà questa vigorosa, e moltiplicherà i suoi figliuoli senza numero: la violenza di ostinate fierissime persecuzioni, colle quali egli si sforzerà di distruggere ne’ suoi principj la Religione di Gesù Cristo, gioverà anzi a stabilirne e dilatarne l’impero; e la crudeltà de’ persecutori, di cui egli si servirà a terrore de’ Cristiani, diverrà pe’ Cristiani – come dice Tertulliano – un allettamento: In christianis crudelitas illecebra facta est; e quanto più ne mieterà colla falce dei tiranni dal campo della Chiesa, diverrà questo tanto più fertile e coperto di messe sempre più abbondante: Quo plures metimur, eo plures efficimur. Stabilita così e dappertutto estesa la santa Chiesa di Gesù Cristo per virtù dello Spirito Santo da dodici pescatori, contro gli sforzi di questo mondo congiurato, e del principe di lui, resterà convinto il mondo, che il demonio co’ suoi seguaci già è giudicato, condannato, e, come dice sant’Agostino, irremissibilmente destinato al giudizio del fuoco eterno, Judicio ignis æterni irrevocabiliter destinatus est; che ogni potere di lui è distrutto, annientato ogni impero, e che verificandosi va la promessa di Gesù Cristo a Pietro, che le porte dell’inferno non prevaleranno giammai contro la sua Chiesa: Arguet de judicio, quia princeps hujus mundi jam judicatus est. Ormai l’opera grande dello Spirito Santo è compiuta. Siamo noi, o dilettissimi, convinti di tutto ciò di cui venne Egli a convincere il mondo? Io non dubito che alcuno di noi non lo sia. Ma dimostriamo poi tutti di esserlo coi fatti? Ahi! che forse non pochi sono bensì convinti e confessano, come dice l’Apostolo, di conoscere Dio, ma lo negano co’ fatti, e colla vita loro smentiscono la loro fede, la loro persuasione: Confitentes se nosse Deum, factis autem negant. Guardinsi costoro, conchiude sant’Agostino, guardinsi dal giudizio che li aspetta, perché, imitando essi il principe di questo mondo già giudicato, devono a tutta ragione temere di non essere con lui condannati: Caveant futurum judicium, ne cum mundi principe damnentur, quem judicatum imitantur.

IL CREDO

Offertorium


Orémus.
Ps LXV:1-2; LXXXV:16
Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’ànima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann XVI:8
Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja.

[Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia]

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur.

[Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DI BOSSUET, L’AQUILA DI MEAUX: “VADO AD PATREM MEUM”

I SERMONI DI BOSSUET

Vado ad Patrem meum

Io me ne vo a mio padre

(JOANN . XVI, 16).

SERMONE RECITATO NELLA CATTEDRALE DI MEAUX NELL’APERTURA DI UNA MISSIONE, L’ANNO 1692.

(Sermoni di J. B. BOSSUET – Palermo, Stabilim. Poligrafico Empedocle, 1843)

Nostro Signore, miei cari fratelli, dice questa parola nella persona de’ suoi fedeli ugualmente che nella sua propria; e per darci la confidenza di ripeterla con Lui, disse in un altro luogo: lo ascendo a mio Padre, e al Padre vostro; al mio Dio, e al vostro Dio (Joan.: XX, 17). Dunque suo Padre è altresì il Padre nostro, sebbene con un titolo differente; è Padre di lui per natura, è Padre nostro per adozione; e noi possiam dire con esso: Io me ne vo a mio Padre. Io posso anche aggiungere, miei cari fratelli, che questa parola in un qualche senso conviene più a noi che a Gesù Cristo; perché vivendo sopra la terra, Egli era già con suo Padre secondo la divinità; e perché, anche secondo la natura umana, la sua santa anima ne vedeva la di lui faccia. Egli era sempre con esso; e nel tempo in cui sembrava ancora lontano di ritornare nel luogo della sua gloria con suo Padre, non lasciava di dire: Io non sono solo; ma mio Padre, il quale mi ha mandato, ed Io, siamo sempre assieme (JOANN. VIII , 16). – Noi dunque siamo quelli, che siamo veramente separati dal Padre, noi siamo quelli, miei dilettissimi, che dobbiamo fare un continuo sforzo per ritornarvi: a noi tocca di dire incessantemente: io me ne vo a mio padre: siccome poi questa parola indicava la consumazione del mistero di Gesù Cristo nel suo ritorno alla sua gloria, così accenna la perfezione della vita cristiana, per mezzo del desiderio che ci inspira di ritornare a Dio con tutto il nostro cuore. – Pertanto penetriamo il senso di questa parola, concepiamo:

– prima cosa sia andare da nostro Padre;

– vediamo secondariamente ciò che ci deve avvenire, finché siamo in questo mondo; e comprendiamo finalmente qual bene avremo quando saremo ivi arrivati: tutto ciò ci sarà insinuato nel nostro Vangelo; ed io non farò che seguire a passo a passo ciò che Gesù Cristo in esso ci propone.

PRIMO PUNTO

Io me ne vo a mio Padre. Lo stato di un Cristiano è di sempre andare: ma donde egli parte, e dove deve arrivare? S. Giovanni ce lo fa intendere con questa parola… sapendo Gesù ch’era arrivata la sua ora di passare da questo mondo a suo Padre (JOA. XIII, 1); non proseguiamo maggiormente: noi dobbiamo fare questo passaggio con Gesù Cristo. Io non sono forse di questo mondo, come non lo sono essi (XVII 16). Secondo la sua parola, voi parimenti non siete del mondo: dunque abbandonatelo, camminate senza allentarvi; ma camminate verso vostro Padre. Ecco le due ragioni del vostro passaggio: la miseria del luogo da cui partite, e la bellezza di quello a cui siete chiamati. S. Paolo per esprimerci la prima: il tempo è breve, dice egli (1 Cor. VII, 29), il tempo è breve; se voi non abbandonale il mondo, esso abbandonerà voi: dunque rimane, che quello il quale è ammogliato, sia come non lo fosse; e che quelli i quali piangono, come se non piangessero; e quelli i quali godono, come se non godessero; e quelli i quali comprano, come se non comprassero; e quelli i quali si servono di questo mondo, come se non si servissero; perché la figura di questo mondo sen fugge (Ibid. 29, 30, 31, 32). Come se Egli dicesse: perché volete voi fermarvi in ciò che passa? Voi credete, che ciò sia un corpo, una verità; mentre non è che un’ombra e una figura, la quale sen passa e si dilegua: così in qualunque stato voi siate, non vi arrestate. I vincoli più fermi e più santi, come è quello del matrimonio, trovano la loro dissoluzione nella morte: le vostre tristezze passeranno ugualmente che le vostre allegrezze; ciò che voi credete di possedere con tutta giustizia, fugge da voi qualunque sia il prezzo con cui lo compraste; tutto passa nostro malgrado. Ma altro è, dice sant’Agostino (In JOANN . tr. LV, n. 1, T. lll, par. II, p. 632), passare col mondo, altro passare dal mondo per andare altrove. Il primo è la porzione de’ peccatori: porzione infelice, che loro non rimane; poiché se il mondo passa, eglino passano altresì con esso. Il secondo è la porzione de’ figliuoli di Dio, i quali per timore di sempre passare, come il mondo, escono dal mondo in ispirito, e passano per andare al Signore. Domìnii, possessioni, palazzi magnifici, superbi castelli, perché volete voi arrestarmi? voi un giorno cadrete, o se sussisterete, ben presto io stesso non sarò più per possedervi: addio, io passo, io vi abbandono, io me ne vo, io non ho il comodo di fermarmi. E voi, piaceri, onori, dignità, perché ostentate i falsi adescamenti? lo me ne vo. Invano mi domandate ancora alcuni momenti, questo residuo di gioventù e di vigore: no, no, io sono sollecitato, io parto, io me ne vo; voi non mi appartenete più. Ma ove andate voi? lo ve l’ho detto, io me vo a mio Padre: questa è la seconda ragione di accelerare la mia partenza. Il mondo è una cosa da poco, che i filosofi lo abbandonarono, senza anche sapere ove andare; disgustati della sua vanità, e delle di lui miserie, lo hanno abbandonato; lo hanno abbandonato, dico io, senza neppur sapere, se ritroverebbero, abbandonandolo, un altro soggiorno, in cui potessero fermamente stabilirsi. Ma io, io so ove vado: io vado a mio Padre. Che mai teme un figliuolo, quando va nella casa paterna? Quell’infelice prodigo, che allontanandosi da essa erasi perduto, ed erasi immerso in tanti peccati e in tante miserie, ritrova un qualche rimedio dicendo: io sorgerò, e me ne andrò da mio padre (Luc. XV, 18). Prodighi, cento volte più traviati del prodigo evangelico, dite dunque: io sorgerò, io ritornerò; ma piuttosto non dite, io ritornerò; partite subito. Gesù Cristo v’insegna a dire, non già, io andrò da mio padre, ma, io me ne vo; io parto subito: o se dite col prodigo, io ritornerò, una tal risoluzione sia seguita da un pronto effetto, come la sua; imperciocchè egli tosto si leva, e viene da suo padre. Dunque dite collo stesso spirito, io ritornerò da mio Padre: ivi i mercenari, le anime imperfette, quelli che principiano a servire al Signore, e che lo fanno anche con qualche specie d’interesse, non lasciano di trovare nella di lui casa un principio di abbondanza; dunque, quanta ne troveranno quelli che sono perfetti, e lo servono per puro amore? Andate pertanto, camminate: quando anche il mondo fosse sì bello, come esso si vanta, e che sembrasse tale a’ vostri sensi, bisognerebbe lasciarlo per una maggiore bellezza, per quella di Dio e del suo regno. Ma esso non è che un niente, e voi esitate, e dite sempre: io andrò, io sorgerò, io ritornerò da mio Padre, senza mai dire: io vado. – Ma supponiamo finalmente, che voi partiate; eccovi nella casa paterna. Attratti dalle sensibili dolcezze di una nascente conversione, ivi dimorate: questo è il vitello grasso, che tosto vi si porge, è la musica che si fa sentire in tutta la casa al vostro ritorno. Volete dunque restare in questo stato ameno, ed accoppiare ad esso il vostro cuore? No, no, camminate, avanzate: ricevete ciò che Iddio vi dona; ma alzatevi maggiormente alla croce, alla sofferenza, agli abbandonamenti di Gesù Cristo, alla aridità che gli fece dire: io ho sete (JOANN . XIX 28 ); in cui nondimeno non ricevette che un poco di aceto. – Ebbene, eccomi dunque arrivato; io sono passato per le prove, e il Signore mi donò la perseveranza; io dunque non ho a che arrestarmi. No, camminate sempre. Siete forse più perfetti di s. Paolo, il quale aveva bevuto tante volte il calice della passione del suo Salvatore? udite come egli parli, o piuttosto considerate come egli operi. Egli dice a’ Filippensi: fratelli miei, io non credo già di essere arrivato (Phil. III, 23). E che, o grande Apostolo, non siete voi nel numero de perfetti! e perché avete voi detto in questo stesso luogo: sebbene noi siamo perfetti, abbiamo questo sentimento? (Ibid. 15). Egli è perfetto, e nondimeno: No, dice egli, fratelli miei, io non sono ancora ove voglio andare, e non mi resta da fare che una cosa (Ibid. 13). Intendete: Non mi resta da fare che una cosa. E che? che obbliando ciò che io ho fatto, e tutto lo spazio che ho lasciato dietro a me nella carriera in cui corro, mi estenda a ciò ch’è innanzi di me. Io mi estendo; che vuol dire egli? Io fo continuamente nuovi sforzi; io mi frango, per così dire, e distruggo me stesso per lo sforzo continuo che fo per avanzarmi, e ciò incessantemente, senza prendere respiro, senza rallentare il piede per un momento nel cammino in cui mi trovo; io corro con tutte le mie forze verso il termine che mi è proposto (Ibid. 14). Ed inoltre, qual è questo termine? Vedremo noi un qualche fine al vostro corso durante questa vita mortale? Udite ciò che egli risponde: Siate miei imitatori, come io lo sono di Gesù Cristo (1 COR . IV, 16). Imitatore di Gesù Cristo? Dunque io più non mi stupisco, se dopo tanti sforzi, tante sofferenze, tante conversioni, tanti prodigi della vostra vita, voi dite sempre che non siete ancora arrivato. Il termine a cui mirate, ch’è d’imitare la perfezione di Gesù Cristo, è sempre lontano infinitamente da voi; per ciò voi sempre andrete, finché sarete questa vita; poiché tendete a un termine a cui non sarete mai perfettamente arrivato. –  E voi, fratelli mici, che farete voi mai, se non ciò che soggiunge lo stesso Apostolo nella sua lettera a’ Filippensi  (Philip . III, 17 ) . Fratelli miei, siate imitatori, e proponetevi l’esempio di quelli che si regolano secondo il modello che avete veduto in noi. Dunque bisogna sempre avanzare, sempre crescere: in qualsivoglia grado mai riposarsi, né arrestarsi mai. Io me ne vo, io me ne vo più alto, e sempre più vicino a mio Padre: vado ad Patrem! La strada ove si cammina, il monte ove si vuole, per così dire, arrampicarsi, è sì rigido, che se sempre non si avanza, si ricade; se non si sale incessantemente, e se si vuole, prendere un momento per riposarsi, si è strascinato giù dal proprio peso. Dunque bisogna sempre inoltrarsi, sempre elevarsi, senza fermarsi in veruna parte. Bisogna celebrare la Pasqua della nuova alleanza in abito di viaggiatore, col bastone in mano, colla veste cinta, e mangiare frettolosamente l’agnello pasquale; perché è la Pasqua, cioè, il passaggio del Signore (Exod. XII, 11): e come lo spiega Mosè poco dopo, la vittima del passaggio del Signore (Ibid. 27), la quale c’insegna a sempre avanzare senza mai arrestarci: imperciocchè Gesù Cristo, ch’è una tal vittima, sen va sempre a suo Padre, e ci conduce con Lui. Se non facciamo uno sforzo continuo per avvicinarci ad esso, e unirci sempre, noi non adempiamo il precetto: Voi amerete Iddio vostro Signore non con tutto il vostro cuore, con tutti i vostri pensieri, con tutte le vostre forze (Deut. VI, 5). – Ma quando si sarà arrivato a questo perfetto esercizio dell’amore di Dio, allora almeno sarà permesso di fermarsi e di prendere riposo? Che! voi dunque non sapete che amando si acquistano nuove forze per amare, il cuore si anima, si dilata; lo Spirito Santo che lo possiede, gl’istilla nuove forze e per amare sempre più? Quindi voi non amate con tutte le vostre forze, se non amate eziandio con quelle nuove forze, che vi porge l’amore perfetto. – Dunque bisogna crescere in amore durante tutto il corso di questa vita: quello che assegna limiti al suo amore, non sa cosa sia amare: quello che non tende sempre ad un grado più alto di perfezione, non conosce la perfezione, né gli obblighi del Cristianesimo. Siate perfetti – dice il Salvatore – come è perfetto il vostro celeste Padre (MATTH. V, 48). Per tendere verso quel termine a cui non si arriva mai perfettamente in questa vita, bisogna crescere in perfezione, sempre maggiormente amare. Io non so se anche in cielo l’amore sempre non andrà crescendo; poiché l’oggetto che si amerà, essendo infinito e infinitamente perfetto, somministrerà eternamente nuove fiamme all’amore. Se nondimeno convien dire che ci sono alcuni limiti, Iddio solo è quello che li assegna; siccome poi durante questa vita si può sempre avanzare sempre crescere, sempre fare, sempre dire  io me ne vo a mio Padre; cioè, io cammino non sol per andare ivi, allorché ne sono lontano, ma anche allora che mi avvicino, che mi unisco, io procuro di avvicinarmi e di unirmi maggiormente; finché arrivo a quella perfetta unità, ove io non sarò con esso che uno stesso spirito, ove io sarò totalmente a Lui simile, vedendolo come Egli è in se stesso (JOAN. III, 2); ove finalmente, e per dire tutto in una parola, Egli stesso sarà tutto in tutti (1. COR. V, 28); e sazierà tutti i nostri desideri. Ma intanto, che dobbiamo noi fare? Questo è ciò che vi devo spiegare nella seconda parte di questo sermone, o piuttosto ciò che Gesù Cristo stesso vi spiegherà nel nostro Vangelo.

SECONDO PUNTO.

Ciò che voi dovete fare, dic’Egli, aspettando il giorno della vostra liberazione, si è, che voi pian piangerete e gemerete, e il mondo godrà; ma voi sarete nella tristezza: Vos autem contristabimini. (JOAN. XVI, 20). Per intendere questa tristezza, bisogna ascoltare l’Apostolo, il quale ci dice, che ci sono due specie di tristezza: evvi la tristezza del secolo, la tristezza secondo il mondo, e la tristezza secondo il Signore (II COR. VII, 10). Non crediate già, fratelli miei, che perché Gesù Cristo profferì che il mondo sarà nel gaudio, non crediate, dico, che Egli abbia voluto dire che le sue allegrezze saranno senza amarezza, o che non saranno seguite dal dolore. Chi non vede colla esperienza, che quelli che amano il mondo, piangono quasi sempre la perdita de’ loro beni, de’ loro piaceri, della loro fortuna, delle loro speranze, in una parola di ciò che essi amano? Se dunque Gesù Cristo ha detto che il mondo godrà, ciò ha Egli detto perché il mondo cercherà sempre di godere; perché questo è il suo genio, questo il suo carattere: ma sebbene cerchi sempre il gaudio, non gli accade mai di trovarlo secondo il suo desiderio, cioè, puro e durevole. Salomone ha detto: È molto tempo che queste due qualità mancano a’ piaceri della terra: il riso sarà confuso col dolore (Prov. XIV, 13 ); dunque i piaceri del mondo non sono mai puri: le lagrime seguono da vicino il gaudio; dunque esso non sarà mai durevole; e qualunque felicità abbiasi nel mondo, vi è in esso più afflizione che piacere; in ciò dunque consiste quella tristezza del secolo di cui vi parlò san Paolo. –  Ma che ha detto di essa questo santo Apostolo? La tristezza del secolo produce la morte (II. Cor. VII, 10); perché proviene dalla adesione a’ beni transitori. A questa tristezza del secolo s. Paolo oppone la tristezza che è secondo il Signore, e che è il vero carattere de’ suoi figliuoli. La tristezza che ci può venire per parte del mondo, per la perdita de’ beni della terra, e per la infermità della natura, per le malattie, pei dolori, ci è comune cogli empi; quindi questa non è quella tristezza che il Salvatore compartisce a’ suoi fedeli, dicendo loro: Voi piangerete. Una tale tristezza, fratelli miei, è quel dolore, secondo Dio, di cui Egli vuol parlare: e quale ne è il motivo? se non che il mondo persecutore affligge ordinariamente le persone dabbene, « le tiene nella oppressione. Aggiungiamo che Iddio, come buon Padre, castiga i giusti come suoi figliuoli, e fa loro trovare in questo mondo i loro mali; per riservar loro nella vita futura i loro beni. Voi scorgete già molto bene qualche cosa di quella tristezza la quale è secondo il Signore. Assoggettatevi, miei cari fratelli, assoggettatevi all’ordine che Egli stabilì nella sua famiglia, e se, allorché è risoluto di punire il mondo, principia il suo giudizio dalla sua casa, da’ giusti che sono i suoi figliuoli; stendete umilmente gli omeri a quella mano paterna, e lasciategli esercitare un rigore sì pieno di misericordia. Ma ecco inoltre un’altra specie di questa tristezza secondo il Signore. Assisi sopra i fiumi di Babilonia, e in mezzo a’ beni che passano, i fedeli odono il loro bando, e piangono ricordandosi di Sionne loro cara patria. Ah! miei cari figliuoli, se qualche goccia di quella tristezza entra ne’ vostri cuori, e se pieni di sdegno e di disgusto contro ciò che passa, vi sentite afflitti di non godere peranco del bene che è eterno, dietro a cui sospirate; una tale tristezza è la tristezza secondo il Signore, che io vi desidero. Ma ciò non è ancora quello che io ho in animo di predicarvi in questo giorno con san Paolo. Quella tristezza, la quale è secondo il Signore, produce – dice quel sant’Apostolo – una stabile penitenza, (1 Cor. VII, 10). Dunque questo principalmente è quel dolore che io vi desidero; il rammarico de’ vostri peccati; la tristezza e l’amarezza della penitenza. Se io posso ispirarvi un tal dolore, allora, allora, miei cari fratelli, vi dirò coll’Apostolo: Ah! miei dilettissimi, io mi consolo, non già che siate contristati, ma che siate tali secondo il Signore mediante la penitenza (Ibid. 9); e inoltre: Chi è quello che mi possa recare qualche consolazione e qualche gaudio, se non quello che per motivo di me si affligge ( Ibid . 11, 2 ), a cui la mia predicazione e i miei avvertimenti hanno ispirata quella tristezza la quale è secondo il Signore, e il dolore de’ suoi peccati? Per ispirarvi, fratelli mici, questa salutare tristezza, io ho chiamati alcuni predicatori, i quali vi predicheranno la penitenza nelle vesti è sopra la croce. Voi comincerete ad udirli in questa sera, ed io fo l’apertura di queste missioni, da cui spero sì gran frutto. Dunque lasciatevi affliggere secondo il Signore, e immergetevi nella tristezza della penitenza. Io sono mosso da gran tempo dalla tristezza, che vi recano tante miserie, tanti aggravi, che molta pena soffrite a sopportarli, e che senza dubbio non potete soffrire lungamente, malgrado la vostra buona volontà. Io vi compiango; io li sento con voi: e quale sarebbe il mio giubilo, se potessi liberarvi da questo peso? ma bisogna che io vi parli come padre amoroso: quando voi esagerate i vostri mali, che sono grandi, voi non andate alla sorgente. Tulle le volte che Iddio percuote, e che si sentono alcune miserie o pubbliche o private; che si è flagellato ne’ propri beni, nella propria persona, somministrarci nella propria famiglia; non bisogna fermarsi a piangere i propri mali, e in mandar gemiti, che non li guariscono: bisogna rivolgere il proprio pensiero ai propri peccati, i quali ci attraggono questi mali. Mirate quel prodigo, di cui vi abbiamo parlato di sopra, ridotto a pascere un gregge immondo, e che guadagna appena un po’ di pane mercé un sì basso e sì indegno servigio. Egli non si contenta di dire: I servi infimi di mio padre sono alimentati abbondantemente, ed io che sono suo figliuolo, io muoio qui di fame (Luc. XV, 17): perché quel pianto sterile non avrebbe fatto che inasprire i suoi mali invece di alleggerirli. Egli va alla sorgente: egli sente, che la sorgente de’ suoi mali si è di avere lasciato suo padre e la sua casa, ove tutto è in abbondanza; di essersi contentato de’ beni, che si consumano sì velocemente, e che gli aveva strappati; perché quel padre sì sаvio e sì buono, il quale ne conosceva la malignità, provava difficoltà in accordarglieli. Egli dunque disse tra sé stesso: io andrò, io sorgerò (Ibid. 18), e ritornerò da mio padre; e non contento di dirlo con un modo fiacco e imperfetto, si leva, viene a suo padre, e prova le dolcezze de’ suoi teneri abbracciamenti. Se si fosse contentato di dire, ah! quanto infelice io sono! e se incolpando dei suoi mali, non già se stesso, ma il Signore, avesse bestemmiato contro il cielo; che altro avrebbe egli fatto, se non accrescere il suo peso? ma poiché nella sua miseria ha detto: Padre io ho peccato contro il cielo, e contro voi e non sono degno di essere chiamato vostro figliuolo; egli nello stesso tempo e cancellò il suo peccato e annientò i mali, che ne formavano il castigo. Ma, dilettissimi, fate anche voi lo stesso. Voi vedete tanti nemici congiurati da tutte le parti contro di voi: non dite già, come una volta facevano i Giudei: l’Egitto, i Caldei, la spada del re di Babilonia, sono quelli che ci perseguitano; dite piuttosto: i nostri peccati sono quelli che hanno messa la separazione tra Dio e noi (Isa. LIX, 2); i nostri peccati sono quelli che sollevano tanti nemici contro di noi i nostri peccati opprimono lo stato, come diceva san Gregorio, il regno non può più sostenersi sotto un tal peso. Pertanto venite a gemere innanzi al Signore, e alla voce di que’ santi missionari, i quali vengono per secondarmi e porgermi il loro soccorso, per prepararvi alla grazia del giubileo.  Voi mi direte: ma la grazia del giubileo è data per alleggerirci, e rilasciare le pene, che noi meritiamo pe’ nostri peccati; conseguentemente per somministrarci allegrezza, e non già per immergerci nella tristezza, a cui voi ci esortate. Voi non intendete, miei dilellissimi, il mistero della indulgenza, e del giubileo, e la natura della grazia. Evvi una pena e un dolore, che la indulgenza rimette: e ve ne un’altra, che essa accresce. La pena che rimette, è quella spaventosa austerità della penitenza, di cui dovremmo soffrire tutti i rigori dopo di avere peccato tante volte contro il Signore, e oltraggiato il suo Santo Spirito. Ma evvi una pena, che la indulgenza deve accrescere; e questa è la pena che ci causa il dolore di avere offeso il Signore. E perché mai la indulgenza accresce questa pena di un cuore affitto per i suoi peccati, e trafitto dal dolore di averne commesso un numero si grande? Perché, come dice il Salvatore, quello a cui viene rimesso maggiormente altresì ama (Luc.VII, 47), e amando il suo benefattore deve parimenti affliggersi maggiormente di averlo offeso con tanti delitti. In tal guisa pertanto la indulgenza accresce la pena; quella pena di aver commesso un peccato mortale, cento peccati mortali, un numero infinito di peccati mortali. La indulgenza è concessa per quelli, ne’ quali quella pena interna della penitenza si aumenta. Quelli poi, i quali fanno la penitenza indifferentemente, come parla il santo Concilio di Nicea (Can. XII, Lab. t. II, p. 42, non ottengono alcuna indulgenza. Lo spirito della Chiesa si è di concedere la indulgenza a quelli che sono penetrati e quasi oppressi dal dolore dei loro peccati. Ma io voglio inoltrarmi anche maggiormente, e porvi sotto gli occhi l’esempio di S. Paolo. La penitenza imposta, e la indulgenza concessa a quell’incestuoso di Corinto ha dato luogo alla eccellente dottrina che io vi ho riferita di quel grande Apostolo sopra la tristezza della penitenza. San Paolo aveva profferita contro quello scandaloso peccatore una dura e giusta sentenza, fino a lasciarlo in potestà di satanasso, per affliggerlo quanto al corpo, e salvarlo quanto all’anima (1. Cor. V, 5). La Chiesa di Corinto, mossa vivamente dal rimprovero che aveale fatto S. Paolo di soffrire in mezzo di essa uno scandalo sì grande, aveva posto in castigo quel peccatore; e poi, penetrata dalle di lui lagrime, ne avea raddolcito il rigore, supplicando il santo Apostolo ad aggradire questo caritatevole mitigamento. Ciò posto ecco la indulgenza, che S. Paolo concede: ecco il primo esempio di quella indulgenza apostolica, che in ogni tempo fu tanto apprezzata e stimata nella Chiesa. Eh bene! dice egli, basta che il peccatore scandaloso abbia ricevuta la correzione, abbia accettata la pena, che gli fu imposta della vostra assemblea dalla moltitudine, dice egli, dalla Chiesa, dai Pastori, con il consenso di tutto il popolo; imperciocchè questo senza dubbio è ciò che vogliono significare queste parole: Sufficit objurgatio hæc, quæ fit a pluribus (II COR. II, 6). Quindi invece di disapprovare ciò che la vostra carità ha fatto per lui, ed il raddolcimento della sua pena, io vi esorto al contrario di trattarlo con indulgenza, di consolarlo con questo mezzo nella estrema confusione e afflizione, che gli cagiona il suo delitto, per timore, dice l’Apostolo, che non resti oppresso dall’eccesso della tristezza (ibid, 7). Voi ora vedete, miei dilettissimi, ciò che lo rende degno della indulgenza della chiesa e di s. Paolo; essendosi abbandonato senza limiti a quella salutare tristezza della penitenza, s’immergeva in essa fino a far temere, che non ne rimanesse oppresso, che il suo dolore non lo assorbisse: Ne absorbeatur, che non lo inabissasse; cosicchè non potesse sostenerlo. Dunque abbandonatevi, a suo esempio, al dolore della penitenza, per rendervi degni della indulgenza, delle consolazioni, della carità della Chiesa. Ma, fratelli miei, non obbliate un carattere di quella tristezza, che è secondo il Signore, accennato da s. Paolo nel passo di cui trattiamo. La tristezza, la quale è secondo il Signore, produce, dice egli, una penitenza. Qual penitenza, fratelli miei? una penitenza stabile (Pœnitentiam stabilem) (II. Cor. VII, 10), e non già certi dolori passeggieri, che il primo attacco dei sensi e della tentazione tosto e senza alcuna resistenza invola. Una tale tristezza produce la morte ugualmente che quella del secolo; perché non serve al peccatore se non per fargli fare una confessione, la quale non avendo avuto alcun buon effetto, non ha potuto averne se non di cattivissimi, dando luogo a una ricaduta più pericolosa della prima. La penitenza che io vi domando è una penitenza durevole appoggiata a massime solide, e ad una prova conveniente. In che poi consiste la stabilità di questa tristezza? L’Apostolo dice che quando essa è perfetta, deve produrre una penitenza stabile per la salute: pertanto ha essa la stabilità che le conviene, quando vi conduce fino alla salute, fino alla unione perfetta con Dio, e all’ultimo adempimento di quella parola; io vado a mio Padre. Allora vi avverrà ciò che Gesù Cristo ha promesso nel nostro Vangelo; ciò che doveva formare l’ultimo punto di questo discorso, e che io brevemente espongo. – Allora, dice Egli, la vostra tristezza sarà cambiata in gaudio, e in un gaudio, che niuno potrà mai involarvi Gaudium vestrum nemo tollet a vobis (JOAN. XVI, 22). Ecco, fratelli miei, il gaudio che io vi desidero; e non que’ piaceri, che il mondo compartisce, e che il mondo toglie: esso li dà, già mosso dalla ragione, ma dal genio e dalla bizzarria; e li toglie senza sapere il perché, senza ragione, come li ha dati. Lungi da noi questi piaceri ingannevoli; lungi da noi la cecità, che producono nel cuore, e l’attacco peccaminoso con cui ad essi ci abbandoniamo. Io vi desidero quel gaudio che non si cambia mai; perché quello che lo concede è immutabile. Ma, fratelli miei, non vi scordate mai, che bisogna ivi arrivare mediante la tristezza, mediante la tristezza che è secondo il Signore, mediante la Tristezza della penitenza. Questo è ciò che ci spiega Gesù Cristo nel fine del nostro Vangelo con una similitudine ammirabile, e molto naturale. La donna, dice Egli, prova grandi dolori mentre partorisce, perché la sua ora è arrivata ma tosto che ha partorito un figliuolo, non si ricorda più de’ suoi mali, per il piacere che ha di aver posto al mondo un uomo (Joan. XVI, 21). Ecco il modello di questo dolore nella penitenza, che io vi ho predicato in questo giorno dietro a s. Paolo. Voi dovete partorire un uomo; e questo uomo che dovete partorire e a cui dovete dare una vita nuova, siete voi stesso. La vostra ora è arrivata, voi siete al termine; la guerra con tutte le sue sciagure, il principio di una campagna, che apertamente deve essere decisiva; la missione, il giubileo, le nostre pressanti ammonizioni vi avvertono che è tempo, che adempiate un tal parto, che sembrate incominciare dopo tanti anni con un modo sì languido e si fiacco. Ma, dilettissimi, se il dolore, che vi cagionano i vostri peccati, non è vivo, penetrante, tormentoso, voi non partorirete mai la vostra salute; ohime! voi sarete di quelli de’ quali sta scritto: il bambino si presenta, e sua madre non ha forza di darlo alla luce: Vires non habet parturiens (1. Reg. xix, 3). Voi non avete che alcuniimperfetti desiderii, alcune vacillanti risoluzioni; cioènon già risoluzioni, ma alcuni languidi movimenti,che finiscono in niente: voi perirete con il fruttoche dovete dare alla luce, cioè la vostra conversione e la vostra salute. Ma se gridate con tutte le vostre forze, se i vostri gemiti feriscono il cielo, se sono pressanti e costanti i vostri sforzi, e se siete di que’ violenti i quali vogliono rapire il ciclo violentemente; quanto felice sarà la vostra sorte! Quale sarà il vostro giubilo! imperciocchè se la madre si reputa felice per aver messo al mondo un figliuolo, il quale è invero un’altra se stessa, ma finalmente è un altro; quale esser deve la vostra consolazione, allorché avrete partorito, non già un altro, ma voi stessi! Per incominciare una nuova vita, abbandonatevi dunque al dolore giustissimo di avere offeso il Signore: se poi volete compiere questo parto salutare, che io vi predico a suo nome, non vi arrestate nel timore de’ suoi giudizi. Il timore de’ suoi giudizi è un tuono che stordisce, che scuole il deserto, che spezza i cedri, che abbatte l’orgoglio, che con vivi scuotimenti principia a sradicare i cattivi abiti. Ma per rendere feconda le terra, bisogna che questo tuono squarci la nube, e faccia discendere la pioggia la quale feconda la terra: Dominus diluvium inhabitare facit (Ps. XXVIII, 10). Quella pioggia di cui è irrigata e penetrata l’anima, che altro è mai, fratelli miei, se non il santo amore? Il terrore non muove che esteriormente; non vi è che l’amore il quale cambi il cuore. Il timore opera con violenza, e può bensì raffrenarci per un poco di tempo; la sola dilezione ci fa operare naturalmente per inclinazione, e produce risoluzioni permanenti non meno che dolci. E questo è ciò che dobbiamo anche fare dicendo, io men vo a mio Padre. Ah! Egli non è un giudice implacabile e rigoroso, a cui ci bisogni andare, come vili schiavi, come rei condannati; Egli è un Padre misericordioso e pieno di tenerezza. Dunque se volete vivere, amate; amate se cambiar volete il vostro cuore, e se volete fare un durevole cambiamento. Non vi stancate mai di dolervi per avere tanto offeso un Padre così buono; e dopo di avere gustata con un dolore sì santo l’amarezza della penitenza, riempirete a poco a poco il vostro cuore di quel gaudio, il quale non vi sarà mai involato: mediante la eterna benedizione del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.

I MAGGIO, FESTA DI SAN GIUSEPPE LAVORATORE (2021)

TRIDUO A SAN GIUSEPPE IN OCCASIONE DI QUALCHE GRAVE FLAGELLO .

I. È con noi il Cielo sdegnato, o nostro ammirabile Protettore Giuseppe e con pesante flagello ci affligge, e percote . E a chi noi miseri ricorreremo, se non a Voi, cui la vostra amata Sposa Maria tutti i suoi ricchi tesori consegnò perché a nostro vantaggio Voi li versaste? Andate al mio Sposo Giuseppe, par ci dica Maria, ed Egli vi consolerà, e sollevandovi dal mal, che vi opprime, vi renderà felici, e contenti. Pietà dunqne, Giuseppe, pietà di noi, per quanto amor nutriste verso una Sposa cosi degna, ed amabile.

Un Pater, Ave, e Gloria.

II. Sotto la sferza noi siamo della divina Ginstizia, che va sopra di noi aggravando e raddoppiando i suoi colpi. Or qual sarà il nostro rifugio? In qual porto ci potremo noi mettere in salvo? Andate a Giuseppe, par ci dica Gesù, andate a Giuseppe, che fu da me tenuto e riverito in luogo di Padre. A Lui come a Padre ho io ogni mio potere comunicato, perché d’esso si serva vostro bene, a suo talento. Pietà dunque amore, Giuseppe, pietà di noi talento per quanto amore, portaste ad, un Figlio così rispettabile, e caro.

Un Pater, Ave, e Gloria.

III. L’ira di Dio, dalle nostre colpe provocata, sopra il nostro capo non va por rumoreggiando, ma già infierisce con nostro grave danno, e desolazione. In qual arca però ci ricovereremo noi, onde salvarci? Qual sarà quell’Iride benefica, che in tanto affanno ci conforterà? Andate a Giuseppe, par ci dica, l’Eterno Padre, a lui, che le mie veci in terra sostenne sopra l’umanato mio Figlio. lo gli affidai il figliol mio fonte perenne di grazie, ogni grazia però è in mano di Lui. Pietà dunque, Giuseppe, pietà di noi per quanto amore al grand’Iddio addimostraste, così liberale verso di noi.

Pater, Ave, Gloria.

PREGHIERA.

INFIERISCA pure il Cielo e minacci ora turbini ora procelle, ora siccità inondazioni; si scuota pure sin da’ suoi cardini la terra; e la fame, la guerra, la pe ste minaccino pare esterminio, e morte. Sol che voi, o inclito nostro Avvocato S. Giuseppe, un grado propizio a noi rivolgiate, in un’istante saranno qual polve al vento disperse e dissipate le calamită tutte, e tutti i disastri. La vostra possanza sì altamente stabilita, e fondata non solamente nel potere vastissimo di Maria vostra Sposa; ma più ancora in quello immenso ed infinito del Figliuol vostro, del vostro Dio, per sì fatto modo garantisce la nostra fiducia d’esser da Voi soccorsi, che sin d’ora si asciugano le nostre lacrime, fin d’ora cessano i nostri sospiri, e di un bel sereno rivestonsi i nostri volti. Riguardateci dunque con occhio amorevole o Protettor nostro ammirabile, e quel male, che sì fieramente ci travaglia, e per cui abbiamo a Voi fatto ricorso, anderà lungi da noi, e non tornerà più a darci molestia, ed affanno. Noi per tanto beneficio vi renderemo sempre li più devoti ringraziamenti, e finché spirito avremo e vita, non cesseranno mai di risuonare sulle nostre labbra le vostre lodi. Così sia.

ORAZIONE DA RECITARSI OGNI GIORNO IN ONORE DI S. GIUSEPPE.

Ci umiliamo dinanzi a voi, o nostro amorosissimo San Giuseppe, ed adorandovi di tutto cuore ci protestiamo di esser sempre vostri sinceri divoti. Voi però qual Padre amante sovvenitevi de’ miseri vostri figli, i quali ricorrono a voi, perché sanno, che soccorrete i vostri divoti in ogni qualunque siasi indigenza. Donateci sanità e quel tanto di vitto, e di vestito, che abbisognar possa per mantener questa vita nel divin servizio. Donateci pace e tranquillità, l’allontanamento di ogni disgrazia, e l’abbondanza di que’ beni tutti, che render ci possono lieti, e contenti. Tutto questo ci sarà grato, o nostro amabilissimo avvocato; ma soprattutto vi raccomandiamo l’anima nostra, rivestitela voi di tutte quelle virtù che vi fecero degno dell’immenso onore di essere Sposo di Maria, e di esser Padre Putativo di Gesù. Foste umile voi? Fate, che lo siamo ancor noi. Foste puro, foste mite, foste paziente? Fate, che lo siamo egualmente anche noi. Ma più di tutto vi supplichiamo, che ci arricchite l’anima di quella fede, di quella speranza e di quella carità ardentissima, di cui Voi foste sì abbondantemente ricolmo, affinché con questa veste nuziale siamo benignamente accolti a quella Real mensa che a tutti tiene .Iddio imbandita nel Cielo. Sia dunque la nostra vita sotto la vostra protezione, Giuseppe, si riguardo al tempo; sì riguardo all’eternità, e sia ancora sotto la vostra protezione la nostra morte, cosicché come voi abbiamo ad esalare lo spirito fra Gesù, e Maria. Amen.

1. MEDITAZIONE I.

Gesù il primo nostro Maestro, ed Esemplare in onorare S. Giuseppe.

1 . TUTTA la vita del Figlio di Dio nostro Redentore è un Esempio perfetto, anzi un’Esemplare Divino di nostra imitazione. Exemplum dedi vobis, ut quemadmodum ego feci, ita et vos faciatis (Johan. III.). Or se è cosi, vediamo l’esempio, ch’ei ci lasciò intorno a dovere imitarlo in ciò, che riguarda all’onore di S. Giuseppe. Egli è stato il primo tra tutti gli uomini, che l’ha onorato. Dacché ilDivin Genitore glie l’assegnò in terra insuo luogo, dedit illi Deus nomen et auctoritatem Patris, come dice il Damasceno,Gesù sempre lo riguardó come Padre; egli rese gli ossequi, più rispettosi in guisa che maggiori non glie li avrebbe potutirendere , quando stato fosse veramente suoFigliuol naturale. L’Evangelista S. Luca descrivendoci la vita di Gesù Cristo dai dodici ai trent’anni, ne fa tutta l’istoria inqueste tre sole parole. Erat subitus illis (II. v. 51). Oh misteriose parole! Qualsublime. lezione non si rinchiude in esse! È indubitato, che il Figliuolo di Dio nello spazio di que’ diciott’anni operò cosegrandi, e misteriose, e che fece una infinità d’azioni eroiche di pietà, di pazienza, di carità, di zelo, e di tutte le piùeccellenti virtù. E perché dunque non farne menzione? Forse le ignorava il Santo Evangelista? Non ebbe egli S. Luca per Maestra la Santissima Vergine, com’egli medesimo accenna, secondo i ss. Interpreti nel principio del suo santo Evangelo, che molti Scrittori l’hanno chiamato: Notariam Virginis? No, non fu dunque per ignoranza. Ma mentr’egli riduce a queste tre sole parole la più lunga parte della vita di Gesà Cristo: Erat subditus illis; bisogna dire, che Gesù fece una professione si costante di ubbidire in tutte le cose alla Ss. Vergine, e a S. Giuseppe, che sembra, che l’unica sua occupazione sia stata questa di fare l’altrui volere; ond’è, che ha voluto, che tacendosi ogni altra cosa, questa sia espressamente notata nell’Evangelo, come la più degna, la più gloriosa, la più divina.

II. Or vanne, o Anima divota in quella Santa Casa di Nazaret, ad apprendere sì bella lezione, di cui gli Angeli beati ne fanno le più alte meraviglie, e mira attentamente gli ossequi, e gli atti d’obbedienza che presta a Giuseppe come a suo Padre il Divin Figlio. Chi non resta attonito a prima vista! Attonito ammira il Mondo come alla voce di Giosuè obbediente il Sole arrestò il suo corso. Ma oh quanto maggior meraviglia si è, che alla voce di S. Giuseppe non una sola volta, ma mille e mille il Divin Sole di giustizia or si fermasse, or si movesse, e che Giuseppe dasse il moto al Creatore medesimo dell’AUrora, e del sole! Sub quo curvantur, qui portant orbem (Job. cap . IX) Di questa obbedienza del Divin Figlio a Giuseppe cosi rese testimonianza la sua Sposa Maria ss. a S. Brigida: Sic Filius meus obediens erat ut cum Joseph cosas diceret, fac hoc, vel illud, statim ipse faciebat. (Lib. 6. Revel. c. 58.) Il mio Figlinolo era cosi obbediente che appena usciva di bocca a Giuseppe: convien fare questa, o quell’altra cosa; Egli subito pronto la faceva. Non così pronta uscì dagli oscuri abissi del nulla al comando suo la luce: Fiat et facta est lux, con quanta prestezza, e alacrità egli eseguiva i cenni di Giuseppe a porgergli il martello, ed altri fabrili istromenti a segar legni, a raccogliere le schegge in bottega. Così ce lo descrivono S. Basilio nelle sue Regole, S. Giustino nel suo Dialogo con Trifone, S. Girolamo: (Ep. 47) e S. Bonaventura (L. 1. de vita Christi c. 15) Anzi si prestava in Casa a tutti gli uffici domestici ancora i più bassi. Spesse volte accende il fuoco, sovente prepara officioso il cibo. Lava i vasi va ad attinger l’acqua, e la reca dal vicino fonte; ed ora scopa la casa, dice il dotto , e pio Gersone Ora avviva, o anima cara la tua fede. Chi è quegli, che si presta sì ossequioso a Giuseppe? Miralo in Cielo nel suo Trono, come lo videil Profeta Daniele attorniato da innumerabili schiere di Angeli ossequiosi a servirlo: Millia millium ministrabant ei, et decies centena millia assistebant ei (Dan. VII.) ed osservalo qui in terra prostrato a’ suoi piedi, più che Giacobbe riverente al suo Giuseppe, aspettar i snoi ordini per eseguirli. Che te ne sembra?

COLLOQUIO.

Eccomi, o gran Patriarca, che io oggi, vi eleggo per Padre mio, prostrato insieme col divin Figlio a prestarvi riverente i miei omaggi. In voi ebbe compimento quel sogno misterioso dell’antico Giuseppe, che fu vostra figura; mentre non solamente a Voi prestò i suoi ossequj il Divin Sole, ma ancora la mistica Luna Maria sua Madre. Se l’esempio di Giacobbe in ossequiare il Figlio esaltato al secondo trono di Egitto ebbe forza ad animare i suoi Figli ad essergli obbedienti, ed ossequiosi; come l’esempio di Gesù, che seco nella stessa carriera tirò la bella Luna la Madre sua non tirerà ancor me vostro fratello? Deh! Voi non mi sdegnate, rammentatevi, che quell’antico Giuseppe non isdegnò i sleali suoi fratelli, ma pieno di amore li accolse, li protesse, li nutri, e salvò dalla fame, e dalla morte. Casi Voi, che avete cuore, e potere più grande, non isdegnate ma benché indegno, e sconoscente. Ammettetemi nel numero de’ vostri clienti. Siate da oggi in poi il mio Padre, il mio Avvocato, il mio Protettore; mentre per tale io vi eleggo, ed esser voglio vostro Figlio, e Cliente fino all’ultimo mio respiro. Amen.

Frutto . Obbedienza ai Genitori, ed a tutti i Snperiori. Eum parentis honore coluit, omnibus filiis exemplum tribuens, ut subjiciantur parentibus: Gesù onorò come Padre Ginseppe, dando così esempio a tutti i Figlinoli, onde sieno soggetti ai loro Genitori scrisse Origene, Hom. 20. in Luc.

Ossequio. Fare qualche atto speciale di riverenza prostrandosi avanti le sagre immagini della B. Vergine, e di S. Giuseppe. – Volo, ut omni die specialem facias reverentiam laudum B. Virgini, et S. Josepho devotissimo Nutritio meo: Voglio, che tu ogni giorno faccia special riverenza di lodi alla B. Vergine, ed a S. Giuseppe devotissimo mio Nutrizio, disse il Signore a S. Margherita da Cortona. Ap. Bolland. 22. Feb.

Esempio. Tutti i Fedeli debbono prestar riverenza a S. Giuseppe, ma in modo specialissimo dovrebbero venerarlo i Capi di Casa per la bona condotta della loro famiglia, da che questo Santo fu da Dio costituito Capo, e Signore della sua Sacrosanta Famiglia su questa terra. I figli son senza dnbbio i mobili più preziosi delle case Cristiane; onde il loro buon riuscimento dee essere il negozio dei Genitori più premuroso; perciò lo raccomandino al Patrocinio di S. Ginseppe, tanto più, che per la paterna cura, la quale Egli ebbe del Figliuolo di Dio, nella di lui Santissima Infanzia, in particolare si ha preso carico di vigilare alla custodia de’ Figliuoli, massime piccolini. Eccone una prova nel seguente esempio.  Narra il Recapito nelle osservazioni, che fa sopra il monte Vesuvio, come nell’anno 1631, apertasi quivi una larga voragine, né sboccò un tal diluvio di fuoco, e di cenere, che a maniera d’allagamento andò a scaricarsi sopra tutta la provincia circonvicina, ma molto più nella sottoposta Città detta la Torre del Greco, patria d’una donna chiamata Camilla devotissima di San Giuseppe. In tal frangente, preso in braccio un suo nipotino chiamato Giuseppe si die alla fuga per trovare scampo da quell’inondazione di fuoco; ma avendola inseguita il torrente, e chiusole il passo da un’alta rupe, che sporgeva sul mare, si vide in evidente pericolo o d’essere sopraffatta dal fuoco, o incendiata arrestandosi, o di perire nell’acqua saltando in mare. In sì dubbioso cimento la poverina, implorato l’ajuto del suo Santo Avvocato: S. Joseph, disse, commendo tibi Josephulum; Deh! San Giuseppe, prendete voi la custodia del mio Giuseppino: e senza più lasciatolo in abbandono, pensò a salvare se stessa con un salto ardito dall’alta rupe alla riva del mare. Così vedutasi a salvamento, si ricordo del suo fanciullino lasciato sullo scoglio in preda alle fiamme. Onde a guisa di frenetica smaniando qua e là correndo sopra d’un ponte, sotto cui passa il fiume Sabeto, si sente chiamar per nome, ed era appunto il caro suo nipotino che la chiamava, e venivale incontro festosetto giulivo. O Dio (esclamò la Camilla dandogli molti abbracciamenti) e chi mai ti ha potuto salvare, o figliuolo, dall’imminente rischio del fuoco? Chi poté sottrarti dal diluvio della cadente cenere? E il bambino ridente rispose; San Giuseppe, a cui mi deste in custodia: Egli mi ha preso per mano e a questo lido m’ha guidato con sicurezza Allora piena di dolci lagrime la pia Donna genuflessa ringraziò il suo amorevolissimo Protettore, il quale due prodigj avea fatto a un tempo liberando lei dalla caduta nell’acqua, e il suo nipotino dal fuoco. Che non farà dunque per noi, e per i nostri il gran Padre S. Giuseppe per liberarci dal fuoco dell’inferno  se avremo in Lui una simil fiducia?

MEDITAZIONE II.

Maria Santissima secondo Esemplare di Divozione a S. Giuseppe.

I. Mostrò Iddio all’antico Giuseppe in un Sogno Misterioso i Principi de’ Pianeti il Sole e la Luna in atto di ossequiosa adorazione inclinati davanti a lui: Vidi per Somnium quasi Solem , et Lunam et Stellas undecim adorare me. (Gen. XXXVII) Si vide un tal sogno adempito in Egitto; allor quando esaltato al secondo trono, e divenuto Giuseppe Arbitro e Padrone di tutto quel Regno, a lui prestarono il Padre significato nel Sole, e gli undici Fratelli indicati nelle undici stelle, i loro omaggi. Ma  ov’era la Madre significata nella Luna? Ella era già defunta, né poté trovarsi presente col Consorte a prestare anch’essa al fortunato figlio i suoi onori. Un altro Giuseppe era segnato nei decreti di Dio, e un’altra Donna si aspettava nel mondo; perché quel Divino oracolo avesse tutto il suo compimento. Ecco pertanto in questo avverato il tutto in ogni sua parte. Non solamente il Divin Sole s’inclina a Lui riverente, ma del pari, di concerto con esso anche la mistica Luna la Madre divina, ed ambedue gli rendettero come a lor Capo il tributo d’ogni ossequio più rispettoso; nella picciola Casa di Nazaret Gesù, e Maria sempre furono ossequiosi, ed obbedienti ai cenni di Ginsseppe. Abbiamo nella presente meditazione veduto, come si portasse Gesù con Giuseppe; or qui conside riamo come con Lui si portasse Maria. Ella sollecita di adempire perfettissimamente tutte le obbligazioni del suo stato, riconoscendosi come Sposa soggetta al suo Sposo, chi può intendere la venerazione, la deferenza, la sommissione di Lei la più Santa fra tutte le Sante donne conjugate, al suo Sposo ch’era per se stesso, attese le sue sublimi virtù, degno di venerazione, ed il più Santo fra tutti i conjugati? Sapeva la Vergine, che l’eterno Padre nelle mani di Giuseppe, come di suo Vicario, aveva data non meno la direzione del suo Figliuolo, che della Madre; perciò Ella similmente nelle mani di Giuseppe avea riposto qual pia e riverente Figliuola ogni suo arbitrio per esser governato. Giuseppe vuol che gravida si porti seco a Betlemme; ecco pronta Maria in cammino. Vuol, che seco fugga in Egitto col Bambinello; ecco Maria col suo pegno in braccio seguirne i passi per quel viaggio sì disastroso . Sette anni si ferma Giuseppe in quel paese infedele; ecco Maria, che neppure apre bocca per cercare la causa di sì lunga dimora. Intima Giuseppe il ritorno dall’Egitto in Giudea; ecco Maria, che, qual pecorella docile al suo Pastore, lo segue, contenta, che il Cielo a Lui, e non a Lei mandi gli Angeli a far palesi i suoi ordini. Ma tutto ciò è poco. Che diremo, quando poi vide il Figliuolo di Dio, che lo rispettava qual Padre, che lo serviva come Signore e che l’ascoltava come Maestro dica chi può, quanto crescesse in Maria la stima, la venerazione, l’amore verso Giuseppe? Ella gareggiava col Figlio nell’onorarlo: ma perché non poteva ella adeguare un esempio d’umiltà, che in Gesù era Divina, rimaneva confusa; e questa sua bella confusione offriva a Giuseppe in compenso di quel rispetto maggiore, che desiderava non che quale Sposa, ma quale ancella rendergli col Figlio. Quindi ella non isdegnava di apprestare a lui tutto il bisognevole, e di servirlo a mensa, e in tutto ciò, che occorresse come rivelò a Santa Brigida (Revel. L. 7. c. 35) Non dedignabar parare, et ministrare, quæ erant necesaria Joseph et mihi ipsi: altrove ci descrive anche il modo, con cui ciò faceva; Ego me ad opera sua minima humiliabam sua opera: lo mi umiliavo ad ogni minima sua opera.

II . Tal fa l’ossequio, che la gran Madre di Dio prestò in terra al Padre eletto del Salvatore. Ma qui considera , ch’Ella non paga di questo, fin del Cielo nel più alto soglio della sua gloria si è inchinata, dirò cosi, a continuarne la servitù con allettare, ed invitare i Cristiani tutti alla venerazione del suo Sposo: Non allicit Diva Virgo, ut Sponsum ejus veneremur, suscipiamus. (Hieron. Quadalup. in c. 2. Luc.): Ella fu, che nella Santa Casa di Nazaret, oggi Lanretana, dove a Giuseppe rese vivendo Maria tante testimonianze di onore, e di servitù tanto esimie, diede ordine a quel suo gran Servo (di cui faceva alta stima s. Teresa) dico il P. Baldassarre Alvarez della Compagnia di Gesù, di eleggersi S. Giuseppe per suo particolar Protettore: Ella fu, che ad un altro insigne suo devoto dell’Ordine Premostratense per nome Ermanno, mutò il nome, e gl’impose quel di Giuseppe (In ejus Vita c . 6): Ella fu, che ad uno schiavo moro in Napoli comandò, che al sacro fonte prendesse il nome di Giuseppe in memoria del suo carissimo Sposo (Surius 17 Apr.); Ella fu, che in ricognizione della gloria, la quale a questo suo Sposo aveva procurata la Santa Madre Teresa venne dal Cielo a portarle un preziosissimo donativo (In ejus vita c. 6). Ella fu,  che scoperto il Cielo, diede a vedere agli occhj di Santa Geltrude l’immensa gloria del Soglio, in cui stava assiso il suo Sposo, e le fece anco vedere come al nome solo di Giuseppe inchinavano dolcemente per riverenza il loro capo i Santi tutti del Paradiso (Revel. l. 4. 6. 12.) Or noi che faremo?

COLLOQUIO.

Eccomi, o gran Patriarca, prostrato ancor io chinarmi riverente al vostro sublime trono. Mi unisco fin da questo momento alla vostra Sposa Maria, ed a tutt’i Santi del Cielo ad asseqojarvi. Intendo di dedicare a Voi la mia servitù. Tutto ciò, che saprò fare per vostro onore, intendo di farlo in tutti giorni della mia vita; affinché voi mi assistiate sempre, ma specialmente nell’estremo momento, onde sia fatto degno di venire ad onorarvi nel celeste Regno per tutta la beata eternità. Così sia.

Frutto. Imitare gli esempi di Maria SS. e di Gesù nell’onorare S. Giuseppe, e, cercare Gesù nella loro santa unione. Se tu vuoi trovar Gesù, cercalo con Giuseppe con Maria; scrisse Origene: Tu Jesum quærens cum Joseph Mariaque reperies. Hom. 18. in Luc.

Ossequio. Onorare l’immagine di s. Giuseppe tenendola nella camera, ove si dorme, come la Santissima Vergine onora la sua persona; imitando S. Francesco di Sales, il quale nel suo Breviario altra immagine non aveva, che quella di S. Giuseppe.

Esempio. Non v’ha Immagine su questa terra che ci rappresenti con vera simiglianza il glorioso S Giuseppe. Il seguente esempio autenticamente approvato, come vale ad ispirarci fiducia nel Santo così serve ancora a darci un’idea delle sue fattezze. Ritrovavasi in Lione di Francia oppressa da mortale infermità già vicina a spirare Suor Giovanna degli Angeli Priora dell’Orsoline. Priva già di sensi esterni, ma colla mente libera si vide recato dal cielo il soccorso per mano di S. Giuseppe suo singolare Avvocato. Ed Oh! che bella vista. La sua cella le si cangiò in un piccolo Paradiso: imperocchè videsi comparire una vaghissima nuvoletta, entro cui dalla parte destra, mirò assiso un leggiadro Giovine con laminosa capelliera longa, e distesa, con in mano una candida face ma fiammeggiante; e questo era l’Angelo suo Custode. Dall’altra parte mirò il glorioso Patriarca S. Giuseppe, che con un viso più brillante del Sole, e con una maestà soprumana, non vecchio ma di età ben matura, di crine splendido sì, ma non già canuto. Il Santo con occhio pien di dolcezza prima la riguardò; indi accostatosi al letto stava, le radice pose la mano sopra la costola, ove stava la radice del male, e fattale sopra un’unzione di prodigioso liquore, disparve la visione, e nell’istesso istante l’inferma si trovò perfettamente guarita. Si levò di letto, e venuto il Medico, che temeva di trovarla morta, gli andò incontro sana e libera, qual’egli la dichiarò Ma qui non finirono le meraviglie. Poiché la guarita Religiosa sentendo qualche umidore nel la costola unta dal Santo, l’asciugò con in pannolino, e sentì, che spargeva un odore soavissimo eziandio di Paradiso a medaglie, il quale si comunicava eziandio ad immagini e corone, che gli si applicavano, operando altre guarigioni meravigliose, che qui per brevità si tralasciano. (Vide Paulum de Barry c. 12)

28.– MEDITAZIONE XXVIII.

Gesù occupato nella Bottega di Nazaret .

CONSIDERA, come nel tempo, in cui il Signore dimorò in Nazaret, ajutava il suo Padre putativo S. Giuseppe ch’era Legnajuolo, nell’arte sua per potere colle fatiche delle sue mani soccorrere ai bisogni della S. Famiglia. Ciò è manifestato dal S. Vangelo, in cui Gesù è chiamato Fabro (Marc. cap. VI.). Or chi può intendere quali fossero i sentimenti di Maria, e di Giuseppe in vedere quelle mani Divine, che fabbricarono l’Aurora, ed il Sole, maneggiar l’ascia, la pialla, ed altri rozzi strumenti, in vedere grondante di sudore quella fronte Divina, in cui si specchiano gli Angeli beati? Oh come si umiliava Giuseppe, e s’industriava ad alleviare la sua fatica! mentre dall’altra parte lo preveniva Gesù, bene intendendo ciò che avrebbe voluto fare Giuseppe. Che bella gara era questa! Un Dio, che ama obbedire, ed un’Uomo costretto a comandargli, che tutte le strade cerca di alleggerire i di lui travagli. E di Maria che diremo? Immaginati di vederla occupata nelle incombenze proprie d’una Madre di Famiglia, che non le lascia, o trascura per esser presente al suo benedetto Figliuolo. Qual sacrificio non era mai questo? Non sapea la Maddalena staccarsi dai piedi del Redentore per l’amore, che a lui portava, e per la dolcezza, che sentiva alla cara di Lui presenza. Né il Signore volle darle la pena di mandarla ad ajutare la sua Sorella, che di lei si querelava. E Maria amantissima Madre non manca di di staccarsene per attendere alle sue faccende. Oh Dio! Quest’è la mortificazione ed abnegazione più grande della propria volontà che mai si sia veduta su questa Terra.

II. Quindi impara, o anima Cristiana, che tutta la perfezione consiste in fare la volontà di Dio in ogni cosa, e perfettamente. Ecco perciò Giuseppe, per quanto ciò gli fosse arduo, comandare al Figliuolo di Dio, e tenerlo assistente nella sua Bottega. Questa era la volontà di Dio, e questa egli eseguisce continuamente. Ecco perciò Maria ora presente al Figlio ed ora da lui appartata e divisa, secondo che la voleva la medesima volontà Divina. A te come piace far questa? Oh quante anime insensate non la curano! Oh quante cieche credono di farla, e non la fanno, seguendo i loro capricci, e le immaginazioni di una falsa pietà! Quante seducono loro stesse dicendo, che sarebbero pronte a fare la volontà del Signore, ma che non sanno qual sia. Hai tu, anima cara, impegno di sapere qual sia riguardo a te la volontà Divina per eseguirla? Non hai da stentare a conoscerla. Torna a guardare Maria, e Giuseppe. Com’essi fanno il volere di Dio? Con eseguire perfettamente ciò che si conviene al proprio stato. Or questa è, e non altra, che la volontà Divina, che ognuno adempia i doveri di quello stato, in cui essa lo ha collocato. Chi per esempio trascura questi per starsene in Chiesa ancora opere le più sante, non fa certamente la volontà di Dio, ma contra quella di Dio fa la sua propria.

COLLOQUIO.

Cara Madre, o mio Giuseppe, quanto mai mi sono allontanato dai vostri esempi, coi quali si bene mi mostraste la via della perfezione adempiendo sempre perfettamente la volontà Divina! Oh Dio! E perché mai io ho così traviato? Ah si! l’intendo: solo perché la volontà di Dio non si accordava colla mia storta, ed iniqua, ebbi l’ardire di seguire questa per regola del mio vivere falsamente devoto, e conculcai quella arditamente. Ah! chi mi dà ora due fonti di lagrime per piangere giorno e notte in disordine si mostruoso! Voi Madre di Pietà, e di Misericordia: dolce rifugio de’ miseri: Voi che qual Padre, la volontà di cui volle eseguire il Divin Figlio, da lui foste tenuto qui in terra, o Glorioso S. Giuseppe, impetratemi una tal grazia e quella di far sempre in tutto e per tutto la volontà del mio Signore. Amen.

Frutto. Essere inappuntabile in eseguire i propri doveri.

Ossequio. Fare oggi il proprio dovere nell’ufficio, e nello stato proprio con ogni attenzione ad onore di S. Giuseppe.

Esempio. La Ven. Suor Margherita Teresiana, chiamata da Gesù la Sposa della sua SS.ma Infanzia, fin da fanciulla interrogata sopra a varie cose di San Giuseppe; ella dava ai quesiti risposte altissime e tanto più degne d’ammirazione, quanto più concordi a quelle, ch’hanno scritto Teologi i più famosi; tant’era penetrata per la continua contemplazione dell’eccellenze di questo Santo. Una delle belle pratiche di Margherita nelle faccende diurne del suo Convento era questa da lei medesima inculcata in una lettera ad una Monaca sua confidente: lo godo dic’ella (L. 5. c. 5.) di vederyi nell’ufficio, in cui siete. lo vi supplico di legarvi al nostro caro, ed amato Gesù Fanciullo, il quale nella Bottega non presiedeva come Capo al ļavoro, ma n’era solo per ajuto di S. Giuseppe, Unite l’uffizio vostro a quello di questo Divino Infante; attendete a riguardar la Suora, a cui vi siete data in ajuto, co me questo Bambino riguardava S. Giuseppe glorioso. Io ancora servo d’ajutatrice a una, e per quanto mi sarà possibile procurerò di rendermi fedele in questa pratica. Dopo la sua morte furono ritrovate nel suo cuore tre preziose Margherite. Nella prima era scolpita Maria Santissima con corona d’oro in testa. Nella seconda il Bambino in mezzo a due giumenti. E nella terza S. Giuseppe con manto d’ oro e con una Colomba sul capo, a’ cui piedi stava prostesa Margherita in segno del grande amore, che gli aveva portato in vita. Beato Cuore, che fosti un amoroso sacrario di Gesù, Maria, e Giuseppe. Profittiamo della pratica insegnataci da questa serva di Dio, che riceveremo ancora noi le grazie a proporzione della nostra divozione. (Razzini in ejus vita, P. Barri.).

(IL MESE DI MARZO CONSECRATO AL GLORIOSISSIMO PATRIARCA SAN GIUSEPPE SPOSO DI MARIA VERGINE

Composto dal dotto, e pio Sacerdote

GIUSEPPE MARCONI

DEDICATO ALLA SANTITA’ DI N. SIGNORE PAPA PIO VII.

ROMA MDCCCXVIII. – NELLA STAMPERIA CONTEDINI

Con licenza de’ Superiori)