LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (6) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (III)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (6)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE – AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (III)

Ma intanto io procedo più oltre. Ho mostrato quello, che deve far colla lingua un Vescovo in ogni circostanza. Passo a cercare il debito e l’uso della sua giurisdizione. Quando il sacro Concilio di Trento afferma, che un Pastore è tenuto ad amministrare al suo gregge i Sacramenti, comprende in queste parole i principali offici della giurisdizione di un Vescovo. Ora io cerco, che cosa porta questo debito in tempo di pace, per prender poi norma di ciò, che esige in tempo di persecuzione. Distinguo due parti nella giurisdizione di un Pastore; cioè quella, ch’egli può e deve esercitare; e quella, che non deve e non può mai praticare. – Comincio subito dalla prima, e dico così. Il Vescovo amministra i Sacramenti in due modi. Alcuni ne amministra solo da sé, cioè la Cresima e l’Ordine Sacro. Alcuni ne amministra insieme cogli altri, ma però in modo, che gli altri dipendano nell’amministrazione di questi Sacramenti della sua autorità. L’obbligo di conferire da sé a tutti la Cresima, e a quelli, che vi sono chiamati, l’Ordine Sacro, genera nel Vescovo un’altra obbligazione, cioè quella della residenza nella sua Diocesi. Non è questo realmente il solo titolo della residenza, ma è per altro il principale. Anche gli altri doveri del Pastore colla sua greggia lo costringono ad invigilare colla sua presenza ed autorità, affinché il lupo non divori le pecore senza ch’egli neppure il sappia. Per non dipartirci dalla nostra brevità, specialmente in un punto, che non ha mestieri di prova, eccovi le sanzioni del Sacro Concilio di Trento (Sess. 6 de reform. cap. 1). Dopo di aver raccomandato a tutti i Pastori l’adempienza del lor ministero, soggiunge così: « Implere autem illud se nequaquam posse sciant, si greges sibi commissos mercenarioruin more deserant; atque ovium suarum, quarum sanguis de eorum est manibus a supremo iudice requirendus, custodiæ minime incumbant: cum certissimum sit, non admitti pastoris excusationem, si lupus oves comedit, et pastor nescit. – [Sappiano poi, che non potranno adempierlo in nessun modo se, come mercenari, abbandoneranno i greggi loro affidati, e non attenderanno alla custodia delle loro pecore, del cui sangue il Giudice supremo chiederà conto alle loro mani. È certissimo infatti che non sarà accettata alcuna scusa per il pastore se il lupo ne divora le pecore e egli non se ne accorge.] »  Passa di poi il Concilio a rinnovare gli antichi canoni, e a decretare giuste pene ai Pastori, che non risiedono nella loro Diocesi. Ripete le stesse cose alla Sessione de reform. cap. 1; né  questo è un dovere, che possa in verun conto chiamarsi in questione. Passiamo adunque ad altro. – Al Vescovo spetta per ufficio proprio e inalienabile l’esaminare ed approvare quelli, che domandano d’entrare nel Santuario. La ragione è palpabile ed evidente. Il Pastore è il custode dell’ovile: tocca a lui lo scegliere i cani da mettervi in guardia. Il prelato è il Padre di famiglia: tocca a lui il deputare i custodi e i maestri de’ suoi figliuoli. Il Vescovo è il primo nella Casa di Dio: tocca a lui l’eleggere i ministri idonei al divino servigio (can. 24 dist. Concil. Carth. 3, c. 22). Quindi il Sacro Concilio di Trento inerendo agli antichi Canoni comanda ai Vescovi di esaminare insieme con altre persone esercitate nelle leggi Ecelesiastiche, e da lui scelte a tal fine, tutti quelli, che si accostano a domandare il Sacro Ministero: (Conc. Trid. Sess. XXIII de refor. cap. 7). « Sancta Synodus, antiquorum canonum vestigiis inhærendo, decernit, ut, quando Episcopus ordinationem facere disposuerit, omnes, qui ad sacrum ministerium accedere voluerint, feria quarta ante ipsam ordinationem, vel quando Episcopo videbitur, ad civitatem evocentur, Episcopus autem, Sacerdotibus, et aliis prudentibus viris peritis divinæ legis, ac in Eccelesiasticis sanctionibus exercitatis, sibi adscitis, ordinandorum genus, personam, ætatem, institutionem, mores, doctrinam, et fidem diligenter investiget, el examine. » E infatti avendo Iddio conferita ai Pastori podestà di creare i Ministri della Chiesa, deve anche aver loro conferito i mezzi necessari a questo fine, cioè l’autorità di esaminare i costumi e la fede. Quindi è, che S. Paolo a Tito, e non ad altri prescriveva alcune riflessioni da praticarsi nell’elezione de’ Sacerdoti (ad Tit. I., 2 et seq.): « Huius rei gratia reliqui te Cretæ, ut ea qua desunt, corrigas, et constituas per civitates Presbyteros, sicul et ego disposui tibi. – [Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato] » E quindi passa ad insegnargli, quali debbano esser le doti dei Ministri, che deve introdurre nel Santuario. Così pure prescrive a Timoteo (1 ad Timoth. III, 2 et seq.), e non solo per la scelta de’Sacerdoti, ma anche de’ Diaconi, e vuole, che da lui siano prima provati, e poi passino ad esercitare il lor ministero: « Et hi autem probentur primum: et sic ministrent, nullum crimen habentes. » – Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio. – Anche i Parrochi da lui dipendono: e spetta ad esso il distribuire il popolo in certe e proprie Parrocchie, affinché ognuno abbia il suo Parroco determinato, a cui ubbidire, e da cui ricevere i Sacramenti. Così comanda (c. Ecclesias. 13, g. 1, c. pœn. de iis, quæ fiunt a prælat. c.1, 13, q.1, cap. plures 16, qu. 1, cap.1, de paroch. Conc. Tolos. an. 843, c. 7) il Sacro Concilio di Trento sulla scorta delle antiche leggi (Sess. 14 de reform. c. 9, sess.24, c. 4 et sess. 24, c. 13). « Mandat Sancta Synodus Episcopis, pro tutiori animarum eis commissarum salute, ut distincto populo incertas propriasque parochias, unicuique suum perpetuum, peculiaremque Parochum assignent, qui eas cognoscere valeat, et a quo solo licite Sacramenta suscipiant, aut alio utitiori modo, prout loci qualitas exegerit, provideant. Idemque in iis civitatibus, ac locis, ubi nullac sunt parochiales, quam primum fieri curent: non obstantibus quibuscumque privilegiis, et consuetudinibus etiam immemorabilibus. » Aggiungo di più, che al Vescovo istesso spetta l’assegnare e ai Sacerdoti, e ai Parrochi il congruo loro sostentamento, e il regolare le tasse funerali, ed altri simili. Quindi è, che il Sacro Concilio di Trento ha ingiunto ai Vescovi di non promuovere (Sess. XXI de ref. c.2 et 3) nessuno agli ordini sacri, se non è bastantemente provveduto a vivere onestamente, e senza disonore del suo carattere. AI Vescovo ha ingiunto di fissare in tutte le Cattedrali, e Collegiate le quotidiane distribuzioni. A lui (ibid. e. 5) pure di unire più Chiese Parrocchiali, se divise non possono sussistere per la loro povertà. E il Concilio medesimo alle (sess. XXV de reform. c. 13) Cattedrali e Parrocchie ha voluto, che si paghi dai fedeli la tassa, che chiamasi la Quarta funerale. È facile il dire, che tutto questo si è fatto dal Concilio con intelligenza, e con dipendenza dalla secolar podestà; ma è impossibile il provarlo con argomenti positivi, poiché nell’ordinazioni del Concilio di Trento, e negli antichi canoni su tali materie, non si fa nessuna menzione del consenso dei Laici. Se nei capitolari dei Franchi, o anche nelle leggi degl’Imperatori si trovano alcune simili ordinazioni, abbiamo anche un’espressa accettazione dei Concili, da cui concludere, che questi ordini hanno avuto il lor vigore dall’approvazione della Chiesa; e si sono vedute tali sanzioni emanate privativamente dai Concili, ma non privativamente e impunemente dai Magistrati, in modo che la Chiesa o non abbia mai reclamato, o pure abbia confessato una vera e necessaria dipendenza dalle leggi del secolo. – In realtà per qual titolo devono avere i Sacerdoti dai fedeli il lor congruo sostentamento? per essere Ministri di Dio, per occuparsi della salute dell’anime, per il servigio dell’Altare. Ma la mercede degli operai della vigna spirituale, deve assegnarsi dai ministri del padron della vigna, i quali sono i depositari della volontà del Signore, conoscono l’abilità, le forze, e il lavoro degli operai, e devono render conto della vigna medesima. Dunque, non ha da farsi l’assegno di questa mercede da uomini non chiamati da Dio alla ispezione della sua vigna. Se questi tali, vorranno intromettersi in un ufficio non loro, non è forse troppo facile, che paghino gli operai senza discrezione di meriti e di lavoro? Essi non sanno e non devono sapere della coltura di una vigna spirituale: Come, dunque vorranno pagarne con dovuta misura i suoi coltivatori? Inoltre, chi sono questi stipendiati? sono i Ministri di Dio e della sua Chiesa. Ora domando, qual è in tutto il mondo quella casa privata, che non abbia né pur diritto di pagare di proprio arbitrio i suoi servi e i suoi ministri? E quel diritto, che ha ogni casa privata anche tra i barbari, non l’avrà la Casa di Dio in mezzo ai Cristiani? In fine di dove si trae questa mercede dei Ministri di Dio? Dalle decime, dalle primizie e dalle oblazioni; e queste sono di Dio medesimo (Concil. Trid. Sess. XXV de refor. c. 12, Exod. 22 et 23, Levit. 27, num. 12, Tob. 1, Malach. 3, c. decimas 16, q.1, c. decimas cum seq. 16, q. 7, c. parochianos c. ex transmissa. Conc. Matiscon. 2 Ticin. versi in sacris); o pure dai fondi Ecclesiastici; e questi parimenti appartengono a Dio (Concil. Trident. Sess. XXIII de refor. c. 1, e l’Opuscolo dell’Immunità reale letter. prima). Dunque da’ suoi Ministri devono dispensarsi, e non già dagli stranieri. Dunque e per la qualità delle persone, che ricevono lo stipendio ecclesiastico, e per la situazione del campo, dove lavorano, e per la natura dei beni, dai quali ricavasi un tale stipendio, la distribuzione del congruo sostentamento ai Parrochi e agli altri Sacerdoti dipende privativamente dalla podestà Ecclesiastica. Il fare altrimenti sarebbe un invertire e sconvolgere tutte le idee, e i diritti comuni, e le pratiche universali, e specialmente il buon ordine della Chiesa. Questa confusione di cose non può essere da Dio. Dunque da Dio non può avere avuto la podestà secolare il diritto della distribuzione de’ beni ecelesiastici ai Ministri della stessa Chiesa. – In fatti negli Atti Apostolici noi leggiamo, che gli Apostoli eran quelli, che distribuivano le sostanze della Chiesa secondo il bisogno di ciascheduno; e’ che essi destinaron di poi (Act. IV et VI) alcuni Diaconi per questo Ministero. S. Paolo ingiungeva a Tito (ad Tit. V, 16 et sequ.) di non dispensare l’entrate ecclesiastiche a quelle vedove, che potevano essere mantenute da’ loro congiunti, ut non gravetur Ecclesia; e all’opposto voleva, che i Sacerdoti più degni ricevessero un doppio stipendio. Non sarà dunque mai giusto e lodevole, che la Chiesa resti priva di quella libertà, che godeva sotto Caligola e Nerone. – Quindi nel Concilio Lateranense quarto sotto Innocenzo III anno 1215, cap. 44 si proibisce ai Laici di fare costituzioni, che si chiamano piuttosto distruzioni, e colle quali si alienino e si vendano i beni ecclesiastici, e si usurpi la giurisdizion della Chiesa, anche sulle tasse funerali, o altre simili cose che sono annesse allo spirituale diritto, e si condannano i contravventori ad essere scomunicati. Così pure nella sessione 10 del Lateranese quinto sotto Leone X. (Labbé tom. 19, col. 911). Circa l’età e le disposizioni di quelli, che vogliono essere ammessi nel Santuario, il Concilio di Trento (Sess. XXIII de reform.) ha saggiamente prescritte ai Vescovi le regole più opportune secondo i sacri canoni. A loro dunque appartiene il riconoscere e le persone e l’età di quelli, che vogliono dedicarsi al divino servigio. Non può la secolar podestà impedire a veruno il mettersi fra le mani della Chiesa contro i decreti della Chiesa medesima. Se si trovano delle leggi Imperiali, che proibiscono ad alcuni occupati nei pubblici impieghi, o nella milizia di entrare nel Santuario e nel Chiostro; bisogna anche sapere due cose; Primo, che alcune di queste proibizioni erano conformi ai canoni stessi della Chiesa (Tomassini de Benefic. part. 4, lib. 3, c. 61) e perciò lecite anche al Principe Secolare difensore dei canoni. Per esempio il Concilio d’Orleans all’anno 1141 vieta di ascriversi al Clero a quelli, che non avessero licenza del Re, o dai Magistrati. Faceva la Chiesa questo divieto appunto per l’indennità dell’ordine civile che per quanto si può deve aversi presente dalle leggi Ecclesiastiche. Secondo, che quando gl’Imperatori promulgarono delle leggi su questo particolare contrarie alla volontà della Chiesa, i Papi e i Vescovi reclamarono, e non ubbidirono. Maurizio Imperatore e Carlo Magno fecero leggi in cui si vietava ai militari di entrare ne’ Monasteri. Ma S. Gregorio (Vit. S. Gregor. per Ioan. Diacon. l. 3, c.16, et S. Gregor. 1.12, ep. 23), e gli altri Vescovi vi si opposero, e queste leggi furono distrutte. Basta leggere su tal proposito ciò, che scriveva Inemaro Arcivescovo di Reims a Carlo Calvo Re di Francia: « Tulianus, et postea Imperator Mauritius decreverunt, ut ei, qui semel in terrena militia signatus fuerit, nisi aut expleta militia, aut pro debilitate corporis repulsus in Monasterio recipi, et Christo eum militare non liceat. Quod religiosi Imperatores, et Sanctus Gregorius auctoritate Apostolica, et generali Episcoporum consensu, Ecclesiastico vigore, et Reipublicæ Christianæ cohibente religione destruxerunt; velut in eius epistolis ad Mauritium Imperatorem, et ad plurimos Episcopos directis ostenditur. Quod, et divæ memoriæ avo vesto Carolo surripuit, sicut maiorum traditione, et verbis, et scriptis discimus. Et in libro 1 Capitul. cap. 112 demonstratur de liberis hominibus ad servitium Dei sine sua licentia non convertendis. Quod Ecelesia, et Respublica non consentit, quodque postea correxit, sicut in eodem libro cap.134 monstratur (Spilic. tom. 2, pag. 823). » Così pure Giustiniano volle prefiggere al suddiaconato l’anno vigesimo quinto. Ma il canone Trullano non ostante la legge dell’Imperatore ordinò, che fosse sufficiente l’anno ventesimo. E Leone il sapiente inerendo ai canoni abrogò la (Novel. 123, constit. 16 ) legge di Giustiniano appunto come contraria ai decreti della Chiesa. Che se S. Gregorio dopo aver disapprovata la legge di Maurizio, nondimeno la promulgò, bisogna avvertire, che S. Gregorio non la credé affatto empia, ma (4b. 3, epist. 65), solo non conforme alla pietà; quia lex Deo minime concordat; e che quella legge poteva sostenersi col Concilio Gangrense can. 3, e molto più col canone 4 del Concilio Calcedonese. E nondimeno questa legge fu poi in seguito, come abbiam detto, del tutto abrogata. Niente dunque provano questi fatti contro l’autorità ecclesiastica. Mostrano solo, che la secolar podestà ha tentato talvolta d’invadere i confini del Santuario, ma che poco dopo si è pentita delle sue invasioni. – Per tale autorità il Sacro Concilio di Trento (Sess. XXV de regularib. c. 18), ha fulminato l’anatema contro tutti quelli, anche rivestiti di qualunque dignità, i quali sanctarum virginum vel aliarum mulierum voluntatem vel accipiendi, vel voti emittendi, quoquo modo sine iusta causa impedierint (che non impedirono con giusta causa il forzare la volontà delle sante vergini o di altre donne a di prendere o emettere voti). E certamente non può essere causa giusta quella, che espressamente combatte i decreti della Chiesa, come sarebbe nel nostro caso il motivo dell’età, dopo che l’istesso Concilio di Trento (ibid. cap. 15) ha fissato l’anno decimo sesto compito, come termine, dopo cui può ciascuno essere ammesso alla religiosa professione. In fine sarà tenuto il Vescovo ad invigilare sui costumi e sulla fede di tutti i suoi sudditi, perché per questo appunto si chiama Vescovo. Episcopus, dice Alcuino (de offic. divin. cap. de tons. Cleric.), dicitur superintendens, supervidens: quia ipse debet supervidere vitam subiectorum suorum, qualiter vivant, qualiter Dei præcepta custodiant. Al qual proposito si può anche vedereciò che ne serive Rabano Mauro (de Inst. Cleric. lib. 1, c. 5), eS. Isidoro (de Eccles. Offic. lib. 2, cap. 5); e Ugone da S. Vittore(Erudit. Theol. lib.1, cap. 40). Imperocchè se il Vescovo è ordinato a indirizzare i Cristiani alla vita eterna, non può ometterela vigilanza sulla loro fede, che è il principio della salute.Veduto adesso ciò, che spetta sempre ai Pastori per l’esercizio della loro giurisdizione, diamo un’occhiata a ciò, che a loro non appartiene senza l’intervento della Chiesa universale, o del Romano Pontefice. Non può per esempio il Vescovo ampliare i confini della sua diocesi, o lo faccia di propria autorità, o lo faccia per intervento, e per comando della podestà secolare. La ragione è non, solo chiara, ma evidente. La giurisdizione di un Vescovo è spirituale; dunque non può essere conferita, né ampliata dai secolari magistrati. La giurisdizione di un Vescovo è stata limitata o dalla Chiesa, o dal Capo della Chiesa a un territorio determinato; dunque non può il Vescovo usurparsi alcuna maggior estensione senza l’intervento della podestà ecclesiastica. – Molto meno potrà un Vescovo permettere, che i suoi Chierici frequentino scuole sospette, o studino libri infetti e condannati dalla Chiesa. Se a tutte le pecore è obbligato il Pastore d’interdire i pascoli nocivi, molto più a quelle, che devono un giorno divenir guide delle sua greggia. Non solo la podestà secolare, ma neppur qualunque ecclesiastica podestà. può dispensarlo da questo suo dovere, inerente per natura e per divina istituzione al suo pastoral ufficio, Questo sarebbe un permettere espressamente, e tacitamente acconsentire, che la sua greggia fosse divorata dai lupi. Che se mai avesse il Pastore nella sua Diocesi alcuno o maestro in privata scuola, o lettore in pubblica Università, che insegnasse dottrine eretiche, o sospette, non potrà per verun modo dissimulare con lui, ma dovrà resistere, ed opporsi con tutto il vigore Apostolico. – Che sarebbe mai, se un Pastore vedesse il lupo in mezzo alla greggia, e non alzasse la verga per discacciarlo? Questi sarebbe peggiore di un mercenario, perché il mercenario vedendo accostarsi il lupo fugge per timore, ma questo tale avrebbe il coraggio di vedersi scannare senza dolore sotto degli occhi tutta la greggia. Io confesso, che quasi quasi mi ha fatto tremare il leggere negli Atti dei Concilii di Milano quello, che si prescriveva due secoli fa contro il commercio degli eretici, e l’obbligo, che s’ingiungeva ai Parrochi d’invigilare sulla loro condotta in ogni ora, e per così dire in ogni momento: È da sperarsi (Concil. Province. 5 part. 1, edit. Lugdun. 1862 tom. 1, pag. 167) dice il Concilio, che i Principi e i Magistrati pel loro dovere di difendere la Fede cattolica, e pel loro amore verso la religione, non permetteranno mai, che vengano in questi paesi soggetti al lor dominio soldati di diversa fede da quella della Cattolica Romana Chiesa, né pure a riposarvi di passaggio; essendo cosa certa e ben sperimentata, che nessuna cosa offende tanto gravemente Iddio, né tanto provoca la sua collera, quanto la peste dell’eresia: e inoltre, che non v’è cosa, la quale tanto cooperi alla rovina dei Regni e delle Provincie, quanto questa spaventosa infezione. Ma se ciò mai accadesse (il che tenga Iddio lontano), metta il Vescovo tutta la diligenza dell’animo suo, e tutta l’industria del pastoral ufficio, e si adoperi in ogni maniera, affinché le pecorelle redente col Sangue di Gesù Cristo, e a lui commesse, non restino in verun modo attaccate da questo contagio. Primieramente per tanto si porti egli stesso in persona a quei luoghi, ne’ quali saranno alloggiati questi uomini pestilenti; avvisi con tutto calore, e diligenza il popolo fedele, che non prenda mai norma dai loro costumi; che non dia mente, né orecchio alle loro parole; che non conversi in nessuna maniera con loro; che non imiti la loro dissolutezza e la libertà del loro vivere; ma che perseverando con timore e con tremore nella Fede ortodossa, e nella grazia del Signor nostro Gesù Cristo, si mantenga nell’unità ed obbedienza della santa Romana Cattolica Chiesa, e negli esercizi di Cristiana pietà. Passa indi a prescrivere ai Parrochi, « … che osservino, se è possibile non solo ad ogni ora, ma anche ad ogni momento, che essi facciano, che cosa si pensi, e si macchini intorno alla Fede: che tengan lontane le insidie di satana, e per quanto possono impediscano ogni sforzo degli avversarii. » Vuole inoltre il Concilio, che i detti Parrochi informino ogni giorno il Vescovo dello stato delle cose, e che il Vescovo non sia contento di tutte queste diligenze, ma ne studi sempre delle nuove, e mandi in que’ luoghi de’ zelanti Predicatori per conservare la sua greggia; e ch’egli (ibid. p. 169, col. 1) medesimo invigili di continuo secondo le costituzioni de’ Sommi Pontefici, e specialmente d’ Innocenzo III, e di Martino V per impedire ed estirpare l’eresia. . Chi non ha da tremare vedendo, che tanto sono mutati i tempi, non essendo per altro mutata la dottrina di Gesù Cristo, e della Chiesa? Oggi tra i Cattolici sono mescolati senza necessità non solo gli eretici, ma persino gl’increduli; e che diligenza si usa per preservare i sani Cattolici da questo veleno? Oggi una buona parte dei libri, che vengono alla luce del mondo dalle tenebre dell’inferno, insegnano espressamente, o tacitamente l’empietà e la dissolutezza; e a questa ingratitudine infernale, che riparo si oppone? Oggi nelle Cattedre dell’Università cattoliche siedono impunemente maestri di proscritta dottrina; e chi alza la voce per farli tacere? Oggi persin quelli, che devono entrare nel Santuario si fanno prima discepoli in questa scuola di satana, e chi li respinge? Chi renderà conto di tanta infezione della greggia, e di tante pietre di scandalo, che s’incastrano persin nelle mura del Santuario e del Tempio? Questa digressione veniva più opportuna, quando parleremo di poi della giurisdizione de’ Vescovi in tempo di persecuzione; ma non si può aspettar troppo a spremere il proprio dolore sulle piaghe esacerbate della Chiesa Cattolica. Torniamo al filo del nostro esame. – Per queste istesse ragioni non può un vero Pastore servirsi di ministri sospetti nell’esercizio della sua giurisdizione; e i ministri saranno sospetti, quando gli saranno proposti dai nemici della Chiesa; molto più se, per pubblica fama fossero già notoriamente mal costumati, o poco Cattolici. Molto meno potrà assegnar alle Chiese vacanti qualche Parroco di cattiva dottrina, o tollerarlo nell’attuale esercizio, s’egli sia tale; e tale sarà, se si vedrà, che stringa lega cogli uomini dichiarati contro la Chiesa. In fine, per accorciare questa materia, non può il Vescovo di propria autorità dispensare da quelli impedimenti, che al matrimonio appose la Chiesa. Solo la Chiesa stessa, e il di lei Capo, cioè il Vicario di Gesù Cristo in terra, possono dispensare da questi impedimenti, che per comune consenso vi furono apposti. Se un Vescovo intraprendesse un qualche attentato contro i canoni della Chiesa, sarebbe lo stesso, come se un privato volesse disfar le leggi del suo Monarca. Non v’è podestà civile, che possa al Pastore conferire questa autorità negl’impedimenti del matrimonio. Imperocchè la Chiesa può mettere nuovi impedimenti al Sacramento del matrimonio, che non solo lo rendano illecito, ma anche invalido. Questo è di fede (Concil. Trid. Sess. XXIV, can. 3). Ma le leggi si devono dispensare solo da quella legittima potestà che le ha stabilite. Dunque, alla Chiesa tocca il dispensare da quelli impedimenti, ch’Ella «medesima ha fissati nel Sacramento del matrimonio. Ogni altra dispensa non solo è illecita, ma anche invalida. Come, dunque, potrebbe un Pastore prevalersene per la sua greggia senza delitto?

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (7) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (IV)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.