IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (7)

G Dom. Jean de MONLÉON

Monaco Benedettino

Il Senso Mistico dell’APOCALYSSE (7)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES

97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil ObstatA: Elie Maire Can. Cens. Ex. Off.

Imprimi potest: t Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur: LECLERC.

Lutetiæ Parisiorum die II nov. 194

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Terza Visione

LE SETTE TROMBE

TERZA PARTE

L’ANGELO ED IL PICCOLO LIBRO.

Capit. X. – (1- 11)

“E vidi un altro Angelo forte, che scendeva dal cielo, coperto d’una nuvola, ed aveva sul suo capo l’iride, e la sua faccia era come il sole, e i suoi piedi come colonne di fuoco: e aveva in mano un libriccino aperto: e posò il piede destro sul mare, e il sinistro sulla terra: e gridò a voce alta, come rugge un leone. E gridato ch’egli ebbe, i sette tuoni fecero intendere le loro voci. ”E quando i sette tuoni ebbero fatto intendere le loro voci, io stava per iscrivere: ma udii una voce dal cielo, che mi disse: Sigilla quello che hanno detto i sette tuoni, e non lo scrivere. ”E l’Angelo, che io vidi posare sul mare e sulla terra alzò al cielo la mano: e giurò per colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato il cielo e quanto vi è in esso: e la terra e quanto vi è in essa: e il mare e quanto vi è in esso, che non vi sarà più tempo: ma che nei giorni del parlare del settimo Angelo, quando comincerà a dar flato alla tromba, sarà compito il mistero di Dio, conforme evangelizzò pei profeti suoi servi. E udii la voce dal cielo che di nuovo mi parlava, e diceva: Va, e piglia il libro aperto di mano dell’Angelo, che posa sul mare e sulla terra. E andai dall’Angelo dicendogli che mi desse il libro. Ed egli mi disse: Prendilo, e divoralo: e amareggerà il tuo ventre, ma nella tua bocca sarà dolce come il miele. E presi il libro di mano dell’Angelo e lo divorai: ed era nella mia bocca dolce come miele: ma, divorato che l’ebbi, ne fu amareggiato il mio ventre: E disse a me: Fa d’uopo che tu profetizzi di bel nuovo a molte genti, e popoli, e re.”

 1. — L’Angelo che stava sulla terra ed il mare.

Dopo aver descritto nel capitolo precedente l’assalto delle potenze del male contro la Chiesa, sotto il regno dell’Anticristo, l’autore mostrerà ora l’aiuto fornito da Dio ai suoi servi contro questi terribili eventi. Da un lato, questo aiuto sarà l’assistenza speciale del Figlio di Dio e la rinnovata predicazione del Vangelo, di cui si parlerà nel presente capitolo; dall’altro, l’intervento di due misteriosi testimoni che consoleranno i fedeli di Cristo negli ultimi giorni, e la cui missione sarà descritta nel prossimo capitolo. E vidi un altro Angelo – dice San Giovanni – un Angelo molto diverso dai quattro di cui ho appena parlato. Infatti, questi sono usciti dalle profondità dell’abisso, dove erano incatenati, per devastare la terra; questo altro è sceso dal cielo per riparare le rovine del peccato. Era forte, era il Forte per eccellenza, a cui niente può resistere. Fu questa forza che gli permise di sopportare le terribili sofferenze della sua passione senza vacillare, di schiacciare la testa di satana e di strappare all’inferno tutti gli uomini che hanno voluto credere in lui. Scendeva dunque dal cielo avvolto in una nuvola, cioè nella carne immacolata di cui si era rivestito nel grembo della Beata Vergine Maria. Questa carne è paragonata ad una nuvola, perché la sua innocenza la mantenne sempre leggera e come immateriale, al di sopra delle affezioni terrene; infatti la sua ombra si interpose tra il cielo e la terra per proteggere gli uomini dagli ardori della collera divina; e portò con sé una pioggia abbondante di grazie, capace di fecondare tutta la terra. Isaia aveva già fatto uso della stessa immagine: « Ecco – dice – il Signore cavalcherà su una nuvola leggera ed entrerà in Egitto, cioè nel mondo » (XIX, 1). –  « Aveva, – continua San Giovanni – un arcobaleno intorno alla testa. » L’arcobaleno, come sappiamo, è il segno con cui Dio fece sapere agli uomini, dopo il diluvio, che la sua ira era placata. Dicendo che il suo capo ne era coperto, l’autore vuole farci capire che tutti i pensieri di Cristo, tutte le sue riflessioni erano volte a ristabilire la pace tra Dio e gli uomini. Il Suo volto era splendente come il sole, cioè la presenza della divinità in Lui si manifestava nel modo più brillante; e i Suoi piedi erano come colonne di fuoco. I piedi del Salvatore qui denotano i predicatori del Vangelo, che dovevano portare la Parola ai quattro angoli del mondo, come i piedi portano il corpo dove vuole andare. Il profeta Isaia aveva detto nello stesso senso: « Come sono belli i piedi di colui che annuncia la pace! » (LII, 7), Questi predicatori sono paragonati a delle colonne, per marcare sia la fermezza della loro fede, che la pazienza con cui sopportano tutte le contraddizioni, tutti gli insulti, tutti i tormenti. E queste colonne erano di fuoco, come le colonne che un tempo condussero gli Ebrei alla Terra Promessa, perché l’ardore della loro carità illuminava le menti e guidava i cuori verso la patria eterna. E l’Angelo teneva in mano un piccolo libro aperto: questo piccolo libro si riferisce al Vangelo, che non è più grande, come sappiamo da solo, di un grano di senape. È aperto perché è più facilmente accessibile a tutte le menti rispetto ai libri dell’Antico Testamento. Cristo lo tiene in mano perché non si è limitato a predicare la sua dottrina da un pulpito: l’ha praticata alla lettera e ne ha eseguito puntualmente tutti i precetti. – E pose il suo piede destro sul mare e il suo piede sinistro sulla terra; cioè, mandò i suoi discepoli sia sulla terra che nelle isole del mare, per predicarvi il Vangelo. Tuttavia, nella distinzione fatta tra il piede destro e il piede sinistro, possiamo vedere, con Ruperto di Deutz, un’allusione più sottile: il mare rappresenta talvolta nella Scrittura i gentili, abbandonati al movimento delle loro passioni, in opposizione al popolo giudaico, che era la terra scelta da Dio per far crescere il frutto più bello della creazione, Cristo Gesù. D’altra parte, il piede destro simboleggia gli Apostoli confermati nella fede dopo la Resurrezione; il piede sinistro, lo stesso, ma ancora debole e vacillante, perché, dice San Tommaso, “sinistra non ita nobilis et fortis est ut dextra pars“. Gli Apostoli, infatti, non erano sempre stati i pilastri di cui abbiamo parlato prima. Ricordiamo la loro esitazione davanti ai primi annunci dell’Eucaristia: « Molti dei suoi discepoli – dice il Vangelo – quando sentirono Gesù parlare loro della necessità di mangiare la sua carne e bere il suo sangue, dissero: questa è una parola dura, e chi può intenderla? E molti se ne andarono e non vennero più con Lui » (1(il Jov. VI. 61 – 67). E ci sovviene anche la loro fuga quando il loro Maestro fu arrestato, e la negazione di San Pietro. Finché erano in questo stato di debolezza spirituale, Nostro Signore li fece predicare solo in Giudea e proibì loro di andare oltre i suoi limiti: Non andrete – disse loro – per la via dei Gentili, né entrerete nelle città dei Samaritani; ma andate piuttosto dalle pecore che disperse della casa d’Israele (Mt., X, 5, 6). Ma quando, al contrario, lo Spirito Santo fu venuto e li confermò nella grazia, li rivestì della potenza di Dio e li rese uomini della sua destra, allora il divino Maestro li mandò ad evangelizzare il mondo intero: « Andate – disse loro – e ammaestrate tutte le nazioni, e battezzatele nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt. XXVIII, 19). Dal che possiamo dedurre che chi non è fermo nella fede e trasportato da uno zelo ardente, non deve impegnarsi per andare a convertire gli infedeli; ma può comunque lavorare per evangelizzare i suoi prossimi. In senso morale, i piedi rappresentano, come sappiamo, la misericordia di Nostro Signore. Questa misericordia è sentita da noi talvolta sotto forma di consolazioni: è il piede destro; talvolta sotto forma di prove, destinate a purificarci: è questo il piede sinistro. Il Salvatore mette il suo piede destro sul mare quando, con la dolcezza della sua visita, calma le agitazioni dell’anima e le dà pace; mette il suo piede sinistro sulla terra quando, con le prove che invia, preme sui punti malati, sulle affezioni troppo terrene da cui è infettata e li incide come ascessi.

§ 2 – I sette tuoni ed il giuramento dell’Angelo.

E l’Angelo gridò con una voce forte, come quella del leone quando ruggisce. Questa voce forte era quella che aveva risuscitato Lazzaro dal suo sepolcro, chiamandolo per nome; era quella che aveva pronunciato sulla croce quel grido straziante, capace di commuovere tutti i cuori fino alla fine del mondo: Eli, Eli, lamma sabactani! Come il ruggito del leone fa tremare tutti gli altri animali, come ci insegna il profeta Amos: « Il leone ruggisce – dice – chi allora non avrà paura? » (III, 8) Così la voce di Cristo aprì le tombe, spaccò la roccia, scosse gli inferi, terrorizzò i demoni e liberò i giusti che erano nel limbo. – E quando Egli ebbe gridato, i sette tuoni emisero le loro voci. I sette tuoni rappresentano qui tutte le profezie dell’Antico Testamento. Non è forse ogni profeta, come il tuono, una voce dal cielo? Prima della nascita di Cristo, grandi e piccoli tuonavano sul popolo d’Israele e pronunciavano minacce spaventose, il cui significato rimaneva incomprensibile, perché Colui che è la chiave delle Scritture non si era ancora mostrato. Quando è venuto, quando ha parlato Lui stesso, allora queste profezie hanno fatto sentire la loro voce; allora sono diventate chiare, almeno per coloro che avevano orecchie attente. E poiché San Giovanni era uno di questi, si mise a scrivere ciò che aveva sentito, per far uscire i Giudei dalla loro cecità. Ma il Signore glielo proibì: « Sigilla – gli disse – ciò che i sette tuoni hanno detto, e non scriverlo  ». Non è ancora arrivato il momento di rivelarlo al pubblico dominio. Il significato mistico della parola divina non deve essere dato a coloro che non sono in grado di ascoltarlo, perché se ne farebbero beffe e sprofonderebbero ancora di più nella loro incredulità. – San Giovanni conosceva indubbiamente, come tutti gli Apostoli, il significato occulto della Scrittura: molti passaggi nei Vangeli e nelle Epistole lo mostrano chiaramente. Ma non era il loro compito l’esporlo: la Chiesa era ancora troppo piccola, la sua fede era troppo vicina al paganesimo, perché la maggioranza dei nuovi convertiti potesse sopportarla. Questo doveva essere il compito dei Padri e dei Dottori nelle epoche successive. Per questo San Paolo ci dice: « Io ho posto il fondamento; un altro vi costruisce sopra » (I Cor., III, 19). – E l’Angelo che avevo visto in piedi sulla terra e sul mare alzò la mano al cielo: Nostro Signore, quando ebbe terminato l’opera di Redenzione, elevò la propria Umanità al cielo nel giorno della sua gloriosa Ascensione, come segno di richiamo per attirare tutti gli uomini al loro destino eterno. E giurò, cioè affermò nel modo più solenne, sotto la garanzia di Dio onnipotente, che vive nei secoli dei secoli, e che è dunque la fonte inesauribile di ogni vita; che creò il cielo e tutto ciò che contiene, cioè il sole, la luna, l’infinita varietà di stelle; la terra e tutto ciò che contiene, cioè gli animali, gli alberi, le piante, ecc. il mare e tutti i pesci che esso racchiude. Egli ha dunque affermato, da parte di questo Dio che è il Creatore e Maestro sovrano di tutte le cose, che dopo la tromba del settimo Angelo, il tempo cesserà di scorrere, vale a dire: non ci sarà più tempo per la penitenza. Allora si realizzerà ciò che l’apostolo San Paolo ha annunciato: che all’ultima tromba risorgeremo tutti in un batter d’occhio (I Cor. XV, 51, 52.). Allora non ci saranno più vicissitudini per gli eletti, non ci sarà più la notte che si alterna al giorno, non più l’inverno che succede all’estate, non più prove che minacciano la loro felicità. Saranno fissati per sempre in una beatitudine che nulla potrà mai più turbare. Questa immutabilità, tuttavia, non si estenderà ai reprobi, che continueranno a soffrire vari tormenti, e a passare, secondo Giobbe, dalle gelide acque della neve al calore eccessivo (XXIV, 19). Il Salmista ci dice che il tempo per essi durerà nei secoli, cioè per sempre (Ps. LXXX, 14). – Allora dunque, quando la settima tromba comincerà a suonare, quando si sentirà la voce dei predicatori degli ultimi giorni, allora il mistero di Dio sarà consumato; allora il giudizio supremo, che ora ci è nascosto, si compirà nella pienezza dei tempi; allora le ricompense che attendono i buoni saranno brillantemente rivelate, così come i castighi riservati ai malvagi, come Dio l’aveva così spesso predetto attraverso i suoi servi i Profeti.

§ 3 – Il libro che deve essere divorato.

E udii la voce dal cielo che mi parlava di nuovo, dicendo: “Va’ e ricevi il libro aperto dalla mano dell’Angelo, che sta sulla terra e sul mare“; cioè: « Va’ e chiedi a Cristo la comprensione della Sacra Scrittura, che ora domina tutte le potenze della terra e tutte le persecuzioni, perché è Lui che ne ha manifestato i segreti con la Sua vita, morte e risurrezione. » Queste parole non furono rivolte a San Giovanni in persona, poiché egli aveva già ricevuto la comprensione delle Scritture la sera di Pasqua, quando nostro Signore la diede a tutti gli Apostoli. (Lc, XXIV, 45). Ma Dio gli parlava in questo modo perché era la figura dei predicatori a venire, per far capire a tutti loro che la loro prima cura, prima di andare a predicare, doveva essere quella di dotarsi di una conoscenza approfondita dei Libri Santi, studiati alla luce della vita e della morte del Salvatore. –  San Giovanni se ne andò dunque verso l’Angelo, mostrando con questo gesto che l’uomo apostolico deve essere sempre pronto a lasciare tutto per seguire Cristo; e gli chiese il libro: cioè lo pregò, con fervente preghiera, di dargli quella misteriosa conoscenza della Scrittura che il lavoro dell’uomo è impotente a scoprire, ma che Dio concede ai cuori puri. E mi disse: Prendi il libro, cioè ricevilo così com’è, in spirito di fede e di obbedienza, senza pretendere di giudicarlo e interpretarlo a modo tuo. Poi mangialo: studialo attentamente, incidilo nella tua memoria, rimugina su di esso nelle tue meditazioni. Riempirà il tuo ventre di amarezza, ma sarà più dolce del miele nella tua bocca. La Sacra Scrittura è davvero amara per il nostro ventre, inteso in senso spirituale: per la nostra sensualità, per la parte inferiore della nostra anima; perché predica costantemente la rinuncia, la penitenza, la mortificazione; taglia tutte le piccole dolcezze della vita presente, ricorda che è per dura et aspera che si raggiunge il regno di Dio. Allo stesso modo Geremia gemeva: Ventrem meum, ventrem meum doleo, il mio ventre, il mio ventre soffre (IV, 19), esprimendo in questa forma originale la ripugnanza della natura umana di fronte al calice che Dio prepara per ciascuno dei suoi servi. Ma questa divina Scrittura è allo stesso tempo un favo di miele per la bocca, cioè per la parte superiore dell’anima, perché le dà una refezione infinitamente dolce: illumina la sua intelligenza, le rivela l’amore infinito di Dio per l’uomo, eccita il suo fervore e la fa fremere nel profondo di se stessa con tocchi profondi che il linguaggio umano non può imitare. Ecco perché anche il salmista ha cantato: « Quanto sono dolci le vostre parole per la mia gola! Esse sono più dolci del miele nella mia bocca (Ps. CXVIII, 103). – E presi il libro dalla mano dell’Angelo –  continua San Giovanni – e lo divorai; lo ricevetti con fede ardente, gli spalancai le porte del mio interiore assenso. Ed era nella mia bocca dolce come il miele; e quando l’ho divorato, il mio ventre si è riempito di amarezza. E l’Angelo mi disse: « Tu devi ancora profetizzare ai Gentili, ai popoli, alle lingue e a molti re. » Questo deve essere inteso così: « So bene che dopo aver gustato questo cibo celeste, il vostro desiderio più ardente sarebbe quello di essere liberati dai legami del vostro corpo e di andare a vedere faccia a faccia Colui che hai imparato a conoscere sotto il velo delle Scritture. Ma la tua missione non è finita: mentre sei in esilio a Patmos, il tuo gregge si rilassa, compaiono le eresie, si moltiplicano gli anticristi, i re vengono sedotti, abbandonano la vera fede ed i loro popoli li imitano. Devi istruirli di nuovo e ristabilire davanti a loro la sana dottrina. » – Infatti, San Giovanni tornò a Efeso dopo la sua prigionia. Vi insegnò per molti anni e, per difendere la divinità di Cristo e la sua generazione eterna contro gli errori emergenti, scrisse il Vangelo che si apre con questa solenne dichiarazione: « In principio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio », parole che dovevano essere tradotte in tutte le lingue e servire all’istruzione dei popoli e delle nazioni, dei re e dei loro sudditi, fino alla fine dei tempi.

Terza Visione

LE SETTE TROMBE

QUARTA PARTE

IL RITORNO DEI DUE TESTIMONI

Capitolo XI. – (1 – 18)

“E mi fu data una canna simile ad una verga, e mi fu detto: Sorgi, e misura il tempio di Dio, e l’altare, e quelli che in esso adorano. Ma l’atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte, e non misurarlo: poiché è stato dato alle genti, e calpesteranno la città santa per quarantadue mesi: ma darò ai due miei testimoni che per mille duecento sessanta giorni profetino vestiti di sacco. Questi sono i due ulivi e i due candelieri posti davanti al Signore della terra. E se alcuno vorrà offenderli, uscirà fuoco dalla loro bocca, e divorerà i loro nemici; e se alcuno vorrà loro far male fa d’uopo che in tal guisa sia ucciso. Questi hanno potestà di chiudere il cielo, sicché non piova nel tempo del loro profetare: e hanno potestà sopra le acque per cangiarle in sangue, e di percuotere la terra con qualunque piaga ogni volta che vorranno. Finito poi che abbiano di rendere testimonianza, la bestia, che viene su dall’abisso, loro muoverà guerra, e li supererà, e li ucciderà. E i loro corpi giaceranno nella piazza della grande città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il lor Signore è stato crocifisso. E gente d’ogni tribù, popolo, lingua, e nazione, vedranno i loro corpi per tre giorni e mezzo: e non permetteranno che i loro corpi siano seppelliti. E gli abitanti della terra godranno, e si rallegreranno sopra di essi: e si manderanno vicendevolmente dei presenti, perché questi due profeti hanno dato tormento agli abitatori della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo lo spirito di vita che viene da Dio entrò in essi. E si alzarono in piedi, e un grande timore cadde sopra coloro che li videro. E udirono una gran voce dal cielo che disse loro: Salite quassù. E salirono in una nuvola al cielo: e i loro nemici li videro. E in quel punto avvenne un gran terremoto, e cadde la decima parte della città: e nel terremoto furono uccisi sette mila uomini: e il restante furono spaventati, e diedero gloria al Dio del cielo. Il secondo guai è passato: ed ecco che tosto verrà il terzo guai. E il settimo Angelo diede fiato alla tromba: e si alzarono grandi voci nel cielo, che dicevano: Il regno di questo mondo è diventato del Signor nostro e del suo Cristo, e regnerà pei secoli dei secoli: così sia. E i ventiquattro seniori, i quali siedono sui loro troni nel cospetto di Dio, si prostrarono bocconi, e adorarono Dio, dicendo: rendiamo grazie a te, Signore Dio onnipotente, che sei, e che eri, e che sei per venire: perché hai fatto uso della tua grande potenza, e ti sei messo a regnare. – E le genti si sono adirate, ed è venuta l’ira tua e il tempo di giudicare i morti, e di rendere la mercede ai profeti tuoi servi, e ai santi, e a coloro che temono il tuo nome, piccoli e grandi: e di sterminare coloro che mandano in perdizione la terra. E si aprì il tempio di Dio nel cielo: e apparve l’arca del suo testamento nel suo tempio, e avvennero folgori, e grida, e terremoti e molta grandine.”

§ 1. – La canna della discrezione.

San Giovanni continua, in questo capitolo, il racconto della sua terza visione: la descrizione dei prodigi che accompagneranno l’avvento dell’Anticristo e precederanno la fine del mondo. Dio lo aveva informato in precedenza che presto avrebbe dovuto lasciare il suo ritiro a Patmos per ricominciare a predicare. Ma fu anche avvertito che prima di riprendere questo ministero avrebbe ricevuto una guida speciale, cosa che qui esprime dicendo che l’Angelo gli diede una canna, simile ad uno scettro. Questa canna rappresenta la virtù della discrezione, così cara a San Benedetto, e che segna con un timbro speciale la sua Regola, così come la sua opera; una virtù tanto necessaria a chiunque debba istruire gli altri, quanto la penna (o la canna) a chi scrive. Senza di essa, è impossibile far penetrare nei cuori la dottrina che si insegna. Ogni esortazione, anzi, ogni predicazione deve essere adattata alla capacità di coloro che l’ascoltano: le stesse verità non possono essere esposte indifferentemente ad ogni uditorio. Non si parla lo stesso linguaggio agli innocenti ed ai peccatori, ai bambini e agli uomini adulti, a coloro che hanno fede e a coloro che la cercano, a coloro che hanno abbracciato la vita perfetta e a coloro il cui ideale non va oltre l’osservanza del decalogo (Il famoso Uber pestoralis di San Gregorio Magno non è che uno sviluppo di questa nozione fondamentale di discrezione). Questa preziosa discrezione è paragonata sia a uno scettro che a una canna. Uno scettro, perché permette a chi lo possiede di dominare le proprie passioni e di governare gli altri uomini. Quando è presente in un’anima, tutto è ordinato e armoniosamente equilibrato. Quando è assente, tutti gli eccessi sono da temere e la rovina è fatale. Necessario per ogni persona per regolare la propria condotta, lo è doppiamente per coloro che hanno la responsabilità di istruire o comandare agli altri. Il re Salomone, che la Scrittura ci dà come modello di saggezza, lo capì bene quando la chiedeva a Dio preferendola alla ricchezza, alla gloria o a una lunga vita, per governare bene il suo popolo (3 Reg., III, 11). Ma questa virtù delicata è allo stesso tempo paragonata ad una canna, perché è leggera come il giogo di Cristo stesso; « essa si piega ma non si spezza », sa tenere conto delle circostanze, dei tempi e dell’ambiente, e applicare i principi della morale evangelica ai casi più diversi. Per rendere più chiaro il simbolismo di questa verga, l’Angelo dice a San Giovanni, e con lui a tutti i predicatori: Alzati: non accontentarti di stare seduto sul tuo pulpito; metti in pratica ciò che insegni, e questo sforzo personale renderà il tuo insegnamento più preciso, più sfumato, più efficace; misura il tempio, l’altare e coloro che vi adorano. Misura il tempio, cioè la Chiesa, e ricorda che Dio l’ha fatta per gli uomini, non per gli Angeli; misura l’altare, cioè l’Umanità di Gesù Cristo Nostro Signore, che è il centro della nostra liturgia, il propiziatorio sul quale devono essere poste tutte le nostre preghiere e tutti i nostri sacrifici, se vogliamo che siano accettati da Dio; ricordati della mitezza di questo Agnello, della sua pazienza, della sua dolcezza, della sua umiltà, della sua povertà, e basa il tuo insegnamento e la tua condotta sul suo esempio; misura coloro che vi adorano, che sono uomini di carne, soggetti all’errore e a mille debolezze; ricordati che non hanno tutti lo stesso temperamento, gli stessi bisogni, le stesse aspirazioni, le stesse risorse; parla loro in un linguaggio che sono in grado di sentire, e imponi a ciascuno solo il fardello che è in grado di portare. – Ma l’atrio fuori dal tempio, non lo considerare,  e non lo misurare. Ma coloro che appartengono solo esteriormente alla Chiesa, come il cortile appartiene alla casa senza farne realmente parte; coloro che, pur mantenendo simulacri esteriori di religione, non accettano né la fede né le leggi della Chiesa nella loro integrità, come fanno i peccatori incalliti e gli eretici, cacciali via, tagliali fuori dalla tua comunione; non discutere con loro, non misurarli affatto, non tenere alcun conto delle loro pretese. È del tutto inutile cercare di adattare la Verità rivelata alle esigenze di coloro che hanno deciso in anticipo di non ascoltarla. Ecco perché Nostro Signore, nell’ora della Sua Passione, non rispose nulla ai giudici che Lo interrogavano; ecco perché, anche oggi, la Chiesa rifiuta così fermamente qualsiasi “conversazione” , [… dialogo] che si proponga un compromesso tra la sua dottrina con quella delle sette dissidenti. Il dogma cattolico è un blocco di diamante da cui è impossibile rimuovere o cambiare una qualsiasi parte. Occorre prenderlo così com’è. Non misurate dunque il mio cortile, perché è dato ai gentili; infatti questi falsi Cristiani saranno dalla parte dei nemici della Chiesa nell’ora della prova. La calpesteranno per quarantadue mesi, cioè il tempo del regno dell’Anticristo. La calpesteranno, come si calpesta l’uva nel torchio, per far uscire il vino della carità; ma non potranno schiacciarla, perché sta scritto che le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. – Tuttavia, quest’ultima persecuzione sarà di una violenza inaudita; perciò Dio fornirà un aiuto straordinario ai suoi fedeli, per evitare che cadano nell’apostasia. A questo scopo, Egli susciterà le due misteriose figure di cui parlerà ora San Giovanni, e che avranno la missione di dare una testimonianza particolarmente eclatante a Cristo, alla sua dottrina, alla sua Chiesa.

§ 2 – I due testimoni.

E io darò ai miei due testimoni – continua l’autore sacro – la forza e la saggezza di cui avranno bisogno per combattere le battaglie degli ultimi giorni, per animare i fedeli, per convertire i miscredenti e per affrontare il martirio. Essi predicheranno la verità, annunciando come una certezza, e senza vacillare, la prossima rovina dell’Anticristo, nonostante i suoi incredibili successi, nonostante il suo potere, il suo genio, le sue ricchezze e gli stupefacenti prodigi che compirà. Vivendo nella più grande austerità, vestiti di sacco in segno di penitenza, profetizzeranno per milleduecentosessanta giorni, cioè circa tre anni e mezzo, che è la stessa durata promessa al regno dell’Anticristo. Chi sono questi due profeti che appaiono improvvisamente nella trama della narrazione apocalittica, e i cui nomi non sono rivelati? La tradizione cattolica li ha sempre visti come Enoch, vissuto prima del diluvio, ed il profeta Elia: entrambi, infatti, sono scomparsi in modo misterioso dal mondo dei vivi, e la Sacra Scrittura lascia intendere in modo velato che un giorno dovranno tornare. Leggiamo, per esempio, nella profezia di Malachia: « Ecco, io vi manderò il profeta Elia prima che venga il giorno grande e terribile del Signore » (IV, 5); e nel Vangelo di San Matteo, dalla bocca di Nostro Signore stesso: « Elia verrà ancora e restaurerà tutte le cose » (XVIII, 11). San Gregorio Magno insegna a questo proposito che il profeta del Carmelo, dopo essere stato portato via sulle rive del Giordano in un carro di fuoco, fu trasportato in una parte sconosciuta dell’universo, dove attende la fine del mondo, per riapparire allora, e pagare il tributo che ogni uomo deve alla morte (Hom. XXIX sul Vangelo). Questa opinione è stata seguita da tutti i dottori della Chiesa: Elia, secondo il loro comune sentire, non è in cielo; non gode, come gli eletti, della visione beatifica. Ma ha recuperato uno stato simile a quello dei nostri primi genitori prima della loro caduta. Temporaneamente liberato dalle condizioni ordinarie della vita umana, attende, in mezzo ad una grande pace del corpo e dell’anima, in uno stato di felicità continua che supera tutte le gioie della terra, il momento di tornare a confessare Cristo, e di versare il suo sangue a testimonianza della sua fede. – Per Enoch, la Tradizione si basa su un passo della Genesi, dove si dice di lui che scomparve, perché Dio lo portò via (V, 32.); e ancora di più sul testo seguente, « Enoch fu gradito a Dio e fu portato in paradiso per predicare la penitenza alle nazioni » (XLIV, 16.); vale a dire: fu posto in un luogo di riposo per tornare un giorno a predicare la penitenza alle nazioni. Alcuni commentatori, tuttavia, hanno pensato che qui si intendesse Mosè, in ricordo della scena della Trasfigurazione; ma la grande maggioranza ritiene che Enoch fosse il compagno di Elia. Questi due uomini sono la figura dei Santi che Dio manda alla sua Chiesa nei tempi della prova, per consolarla e difendere la sua dottrina. L’autore sacro, dunque, dopo aver annunciato il ritorno di questi due servi di Dio, li paragona a due ulivi, e poi a due candelabri: a due ulivi, perché saranno pieni dell’unzione dello Spirito Santo, e perché produrranno carità come l’ulivo produce l’olio; a due candelabri, perché porteranno in loro la luce della verità divina, e serviranno ad illuminare gli altri uomini. Staranno alla presenza del Padrone della Terra, cioè saranno sempre attenti alla presenza di Dio, cercando solo l’esecuzione della sua volontà, indifferenti alle attrazioni e alle minacce del mondo. Ma per compiere la missione di cui saranno incaricati, Dio fornirà loro un potere sovrumano. Se qualcuno cerca di far loro del male, il fuoco uscirà dalla loro bocca e divorerà i loro nemici. – Queste parole devono essere prese in senso figurato; esse significano che se qualcuno vuole tentare di sedurli e cercare di distoglierli dalla predicazione della verità, sentirà una tale saggezza e carità ardente nelle loro parole che sarà coperto di confusione. E se, rifiutando di essere convinto, si sforzasse di usare violenza contro di loro e di ferirli nel corpo, sappia che, per la giustizia divina, si condannerebbe a perire. I due testimoni avranno il potere di chiudere il cielo ed impedire la caduta della pioggia; il potere di trasformare le acque in sangue e di colpire la terra con qualsiasi piaga tutte le volte che lo desiderano. Leggiamo nella Sacra Scrittura che Elia, per fermare l’empietà di Achab, condannò la Palestina ad una siccità di tre anni (III Reg., XVII, 1); che Mosè, per liberare il popolo ebreo dall’oppressione del faraone, trasformò le acque in sangue e colpì l’Egitto con dieci piaghe (Ex., VII e seguenti). È naturale supporre che coloro che devono sottomettere l’Anticristo saranno dotati di un potere ancora maggiore. Tuttavia, alcuni commentatori pensano che, per lasciare all’ultima persecuzione tutta la sua violenza, Dio non concederà a nessuno il potere di fare miracoli. In questa ipotesi, le parole appena dette devono essere intese in senso figurato: Il potere di chiudere il cielo sarà quello di impedire ogni predicazione; gli eretici si sentiranno così dominati dalla saggezza dei due profeti che non oseranno più dire nulla pubblicamente; il potere di trasformare le acque in sangue darà ai due testimoni l’autorità necessaria per far vedere ai più ignoranti il carattere mortale delle perniciose dottrine che fino ad allora avevano bevuto come acqua; quello infine di colpire la terra con ogni sorta di piaghe permetterà loro di toccare i cuori e di imprimere loro la paura del castigo eterno. Quando avranno completato la missione affidata loro da Dio e avranno dato sufficiente testimonianza della divinità di Gesù Cristo, saranno a loro volta consegnati all’Anticristo per subire il martirio. Allora – dice San Giovanni – la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro e li vincerà, almeno in apparenza, e li metterà a morte. La bestia non è altro che l’Anticristo stesso, il quale, per la violenza delle sue passioni, assomiglierà ad una vera bestia selvaggia. Tuttavia, farà attenzione a non mostrare la crudeltà che sarà il fondo del suo carattere. Al contrario, si sforzerà di mostrarsi liberale e generoso, per sedurre gli uomini e rendersi accettabile per loro come capo e re. Ma in seguito, quando il suo potere sarà saldamente stabilito, la bestia risorgerà dall’abisso, la malvagità nascosta nel suo cuore sarà rivelata e si tradurrà in atti di inaspettata ferocia. Irritato dalla resistenza dei due profeti, dichiarerà una guerra feroce contro di loro e, vittorioso per un momento, li farà mettere a morte. E i loro corpi rimarranno insepolti nelle piazze della grande città. L’autore sacro dice qui: le piazze, al plurale, perché i corpi dei due martiri saranno portati a turno, si dice, nei luoghi principali della città, per mostrare a tutti il potere dell’Anticristo e per servire da monito a chiunque sia tentato di resistergli. La grande città dove il loro Maestro, cioè il Signore Gesù, fu crocifisso si chiama Gerusalemme. Questa è misticamente chiamata Sodoma o Egitto: l’Egitto è per eccellenza la terra dell’idolatria, il suo nome significa, in ebraico, « tenebre »; Sodoma è il tipo dell’abominio, il suo nome significa il muto o il cieco: con queste espressioni, l’autore vuole farci capire la cecità e la miseria morale in cui cadde la città santa, per non aver saputo riconoscere il suo Salvatore e per non aver voluto confessare le sue colpe. I corpi dei due martiri rimasero così esposti, senza sepoltura, per tre giorni e mezzo. Molti commentatori pensano che queste ultime parole non debbano essere prese alla lettera, ma che questo spettacolo durerà a lungo, poiché, secondo il resto del racconto, gli uomini di tutte le tribù, tutti i popoli, tutte le lingue, tutte le nazioni potranno contemplarli. Questa esecuzione sarà fonte di gioia per gli uomini che abitano la terra, cioè per coloro che sono interamente dedicati, anima e corpo, alle cose della terra, senza alcuna aspirazione ai beni eterni. In questa occasione faranno feste e doni gli uni agli altri in segno di gioia, lieti di vedere la fine del tormento di angoscia causato dai due profeti con i loro terribili avvertimenti e le loro continue minacce di castighi. Ma quando il termine fissato da Dio sarà scaduto, le anime dei due martiri ritorneranno nei loro corpi. (San Giovanni, a questo punto della sua narrazione, passa senza transizione dal futuro al perfetto, per mostrare che tutto, sia passato che futuro, è simultaneamente presente davanti a Dio, e che gli eventi qui annunciati sono così certi come se fossero già avvenuti. Tuttavia, abbiamo mantenuto il tempo futuro in questo commento per rendere il significato più chiaro). Improvvisamente saranno visti entrambi alzarsi e stare in piedi, e coloro che li avevano visti morti saranno pieni di gran terrore; non dubiteranno più, a questo segno, che i profeti abbiano detto la verità e che le loro minacce saranno presto eseguite. Ma essi, non avendo più niente da fare sulla terra, saranno chiamati da Dio. E saliranno al cielo in una nuvola, tra lo stupore dei loro nemici.

§ 3 – La settima tromba.

Subito dopo la loro ascensione, un terremoto tremenda scuoterà tutta la terra e la decima parte della città sarà distruttoa. La Chiesa ci insegna nell’Ufficio della Dedicazione (Cfr. Inno dei Vespri), che la Città di Dio è costruita, non con pietre ordinarie, ma con pietre vive, cioè con le anime dei giusti. Questi, come si ammette, vengono ad occupare, secondo un’opinione comune tra gli autori mistici, i posti lasciati liberi dagli angeli apostati. Così sono incorporati nelle gerarchie celesti e, secondo il grado della loro carità, sono divisi, come gli Angeli, in nove cori. La decima parte, di cui parliamo qui, sono coloro che non trovano posto in nessuno di questi cori, e che sono quindi condannati alla rovina eterna con i demoni. Questi includeranno nelle loro file un buon numero di servitori dell’Anticristo, ed è la perdita di questi ultimi che San Giovanni qui intravede simbolicamente, sotto la figura dei settemila uomini che allora morirono senza fare penitenza. Gli altri, spaventati da questi terribili eventi, si convertiranno e, tornando a Dio, gli renderanno grazie per averli voluti strappare al potere delle tenebre.

*

* *

Così finirà la seconda delle tre grandi tribolazioni che devono precedere la fine del mondo, cioè: la persecuzione dell’Anticristo. Ora ecco la terza, che sta per arrivare: e questo sarà il terrore-panico che assalirà l’umanità quando i segni del Giudizio cominceranno ad apparire nella natura. Ma sarà preceduta da un breve periodo di pace, annunciato dalla tromba del settimo angelo. Quest’ultima tromba rappresenta gli ultimi predicatori che si sentiranno nella Chiesa, per dire agli uomini dell’imminente avvento del Figlio di Dio, e dell’urgente necessità di convertirsi. Allo stesso tempo, un nuovo inno di gioia risuonerà in cielo: « Il regno di questo mondo – canteranno gli eletti – che per tanto tempo è stato l’impero del diavolo, ora è diventato il regno del Signore Dio nostro e del suo Cristo, ed Egli regnerà nei secoli dei secoli. Amen. » E i ventiquattro anziani che stanno sui loro seggi alla presenza di Dio, cioè tutti i Profeti, gli Apostoli e i Santi che serviranno come assistenti a Nostro Signore nel giorno del Giudizio, come Egli stesso ha promesso; San Giovanni vide prostrarsi tutti quanti con la faccia a terra, adorando Dio e dicendo: Ti rendiamo grazie, Signore, Sovrano Padrone di tutte le cose; Dio Onnipotente, al quale nulla può sfuggire, nulla può resistere; Tu che sei, che eri e che vieni. – Tu che sei, che eri e che vieni. Tu che sei, che sei immutabile nel tuo Essere eterno; Tu che eri presente, anche quando gli empi negavano la tua esistenza e ti deridevano; Tu che vieni incessantemente a giudicare l’universo. – Noi vi ringraziamo che vi degnate di usare il vostro potere per raccogliere la vostra Chiesa, per schiacciare i suoi nemici, e che avete hai stabilito il tuo regno nei nostri cuori. Le nazioni, cioè tutti coloro che sono rimasti nello stato di natura, che non sono stati rigenerati in Cristo, tutti gli ostinati servi del mondo, si sono adirati con voi invece di umiliarsi e fare penitenza davanti ai prodigi di cui sono stati testimoni. Perciò la misura è colma: l’ora della vostra giusta collera è arrivata. È giunta l’ora di giudicare i morti, di premiare i vostri servi, i profeti, i santi e coloro che temono il vostro nome, grandi e piccoli, perché Voi non dimenticherete nessuno; e sterminerete al contrario, coloro che hanno infettato il mondo con la loro corruzione.

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (8)

LA SITUAZIONE (13)

LA SITUAZIONE (13):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

DOVERI

Lettera Decimaterza

Caro Amico

Sapere come il demonio, discacciato dal suo impero per opera del Figlio di Dio, abbia trovato modo di rientrarvi, e riprendervi autorità quasi tanto assoluta, com’era altre volte; è ciò dovere capitale dei Cattolici d’oggigiorno. Che da questa conoscenza dipende tutto il successo della lotta. Or come acquistarla? Interrogandone forse gli accademici, i sapienti, i letterati? no, per fermo. Chi dunque? la prima buona donna in cui v’incontriate; o, il vostro portiere, un lavoratore, un operaio qualunque, tanto solo che sia dotato della facoltà elementare di unire due idee. Domandate: come avviene che un campo si copre di zizania? Purché non prendano la vostra questione per celia, essi vi risponderanno; un campo si copre di zizania, perché vi si è seminata la zizania. Dite loro: Io ho viaggiato in un paese che si chiama l’Alemagna; questo paese è luterano. Sapete Voi, perché vi si professi il luteranismo, e non un’altra eresia? Ed e’ vi risponderanno ancora: Si professa il luteranismo in Alemagna, perché vi si è insegnato il luteranismo. Voi aggiungete: Io ho visitato un paese che professa una religione totalmente diversa; questo paese si chiama là Turchia: essa è maomettana. Perchè? Essi vi risponderanno sempre: L a Turchia professa il maomettanismo, perché vi si è insegnato il maomettanismo. – In questa risposta del più volgare buon senso sta quella che noi cerchiamo, e che tutti debbono cercar e con noi. Si domanda come il paganesimo, o il satanismo (poiché è tutt’uno) si trovi oggidì in piena fioritura nel campo d’Europa? E noi rispondiamo arditamente con tutte le buone donne di Francia e di Navarra: « L’EUROPA DI OGGIDÌ È PAGANA , PERCHÈ SI è SEMINATO IL PAGANESIMO ». Tutti gli assiomi di matematica sono meno certi di questa risposta dell’ignoranza. Che per verità, in fatto di idee, di costumi, di arti, di politica, di tendenze sociali, l’Europa d’oggidì sia già per metà paganizzata; che la rivoluzione che la domina miri a ricondurci agli splendori, alle glorie, alle ,libertà dei tempi antichi, vale a dire pagani, ben noi il vediamo cogli occhi nostri, il tocchiamo colle nostre mani, e Pio IX ne gitta solenne grida a tutto il mondo. Ma come si fanno in seno alle società le seminagioni del bene e del male, della verità e dell’errore? A mezzo dell’insegnamento. L’anima che viene al mondo, dice S. Tommaso, è tavola rasa, tabula rasa. Se vi scrivete il Cristianesimo, essa sarà cristiana; se scrivete il paganesimo, il giudaismo, il maomettanismo, sarà pagana, giudea, maomettana. Se ad un tempo vi scrivete il Cristianesimo e il paganesimo, essa sarà parte cristiana e parte pagana, sino a che, aiutando le passioni, essa non sia più niente di netto e riciso, o meglio tutto pagana. Per tal modo si rende manifesto che buono o cattivo, Cristiano o pagano, giudeo o maomettano, L’ UOMO È IN SOMMA UN ESSERE AMMAESTRATO; e non è altro, che questo. In qual tempo si dà l’insegnamento, i cui frutti vengono più abbondanti e più durevoli? Quando l’anima dell’uomo ancor fresca riceve con facilità, e ritiene con fedeltà tutto quello che le si gitta dentro: dai dieci ai venti anni, giustamente appellato dallo Spirito Santo il tempo decisivo della vita: adolescens (e non già puer) juxta viam suam, etiam cum senuerit non recedet ab ea. Quali poi sono le classi della società che tramandano alle altre ciò che esse ricevettero mediante l’insegnamento,e si le si fanno loro immagine? Un uomo che ben se ne intende, il sig. Thiers, ha detto: l’istruzione secondaria formar quelle che si chiamano le classi illuminate di una nazione. Or se le classi illuminate non sono la nazione intera, esse la caratterizzano. I loro vizi, le loro qualità, le loro inclinazioni buone o cattive, sono bentosto quelle della nazione intera; esse fanno tutto il popolo infetto del contagio delle loro idee e dei loro sentimenti. Da quello che è detto sin qui, nasce questa conseguenza irrepugnabile: il paganesimo abbondare in Europa, perché è stato seminato con abbondanza in cuore alla gioventù letterata. – Se inoltre vi prenda desiderio di sapere quando, come, e per cui opera ciò venne operato, vi dico che non è già una lettera che mi domandate, ma piuttosto un libro. (Questo libro esiste, scritto dall’autore; ed intitolato la Rivoluzione, ricerche istoriche sull’origine e la propagazione del male m Europa dall’epoca del rinascimento fino ai giorni nostri. 12. vol. in 8. Tradotta nelle principali lingue dell’Europa. Opera veramente classica, e degna di  essere letta e meditata). – Ma di quale maniera il paganesimo si è sì esteso da macchiare tutto, o si è allargato come il cancro da rodere fino alle parti vitali delle società cristiane? In altri termini: come l’antico principe di questo mondo, rientrato vittorioso nel suo impero, procede oggi al capo di una potente armata, per assalire e racquistare la sua antica città capitale, di cui spera e non senza ragione, di presto vedersi aprire le porte dinanzi? Si legge nell’istoria di un antico popolo che un re del paese venne spodestato e bandito in perpetuo. E bene egli sei meritava, essendo un Usurpatore, un libertino, un ipocrita, un despota senza fede né legge. Tutta la gente fece plauso alla rivoluzione; e giurò che il tiranno non rimetterebbe mai più piede nell’impero. Il principe legittimo, dotato di tutte buone qualità, era risalito sul trono, e formava la felicità dei suoi sudditi. Nessuno pensava più all’esule; quando un giorno certi amatori di curiosità artistiche e letterarie trovarono in sgombrando certe macerie, non so che statue ed alcuni manoscritti della data del suo regno. Ed e’ le riconobbero opere di artisti e letterati cortigiani del despota, e non meno corrotti di lui. Fra le statue, alcune lo ripresentavano cogli attributi della forza, del coraggio, e della saggezza; le altre ripresentavano le sue imprese, ed ancora le sue azioni più delittuose. Molte figuravano i membri della sua infame e numerosissima famiglia, una ai complici delle sue iniquità, sin nelle più turpi attitudini di voluttà! Tutte codeste statue furono giudicate degne di favore; trovate di lavoro squisito. Soli i vecchi avvisarono che quello che oltraggia il pudore non è mai bello né moralmente, né fisicamente. I vecchi vennero pertanto trattati da rimbambiti, dicendosi loro che la sensazione è il criterio del bello, e che il bello è ciò che piace ai sensi. Or come le sensazioni più vive sono quelle della carne e della voluttà, fu ammesso che la carne a nudo è il tipo del bello. Si propose al re di conservarle, ove altro non fosse, come oggetti di arte. Ed egli lasciò fare. Si collocarono adunque quelle statue nei palazzi reali, nelle abitazioni principesche. I manoscritti non furono meno ammirati che le statue. Si dichiarò solennemente che essi erano capi lavori inarrivabili di gusto e di stile; tesori di filosofia, di poesia e di eloquenza; che ivi solamente si trovava in tutta sua purità la lingua nazionale. Tutte queste opere, cantavano, è vero, la gloria del tiranno, la grandezza e prosperità del suo regno; ma si fece intendere al re non esservi alcunché di sconcio a conservarle come modelli di letteratura. E si aggiunse: purgandoli da certe oscenità, possono venir messi nelle mani della gioventù non solo senza danno, ma ancora con vantaggio. Sotto la direzione di maestri virtuosi e devoti alla monarchia, i giovani non prenderanno altro, che la forma, e ripugneranno la sostanza. Bene i vecchi scossero la testa; ma il principe lasciò fare. Mentre alcune legioni di giovani artisti copiavano le statue del tiranno, di cui si popolavano le case particolari, i giardini e le pubbliche piazze, altre legioni di scolari studiavano con ardore nei monumenti del suo regno. Ei bisogna dirlo! gli uomini più rispettabili del regno erano incaricati dell’educazione. Sino allora il loro insegnamento scritto o parlato, aveva avuto a scopo il glorificare, come meritava, il principe legittimo, facendone rilevare le buone qualità, e i benefizii. Al certo come ebbero essi a spiegare i libri nuovi, questi maestri onesti e dabbene non mancarono di dire ai loro allievi: « L’usurpatore era un miserabile, uno scellerato. I suoi artisti ed i suoi letterati non valevano di meglio. Ma ei fa d’uopo confessare che erano uomini di prim’ordine. Il regno del tiranno che essi hanno cantato, e sotto il quale hanno vissuto, è stato per molti riguardi l’epoca più brillante della nostra storia nazionale. Ed allora fu che si vide sorgere tutta una plejade di uomini grandi in ogni genere, fondarsi le instituzioni le più forti, apparire i caratteri più maschi, risplendere le virtù più eroiche. Egli è ben dispiacevole che il regno dei nostri principi legittimi non abbia prodotto nulla di somigliante soprattutto in poesia, in eloquenza, in belle arti. Ciò dicendovi, noi adempiamo ad un penoso dovere; ma voi avete diritto «alla verità. » – Questi eccellenti maestri insegnavano tutte queste cose colla migliore buona fede del mondo, fino al punto di trattare da barbari coloro che tenevano il contrario. I giovinetti intesero tali elogii giornalmente per lo spazio di dieci anni. Tutti impararono a mente la vita del tiranno, e le glorie del suo regno. Onde una delle loro grandi occupazioni fu ripeterle in verso ed in prosa. Ed affine d’identificarle colle idee, cogli usi, e cogli uomini di quell’età loro si insegnò a rappresentarle perfino nel teatro; il che essi fecero con applauso di numerosi spettatori. Sempre devoti al principe legittimo, i maestri avevano cura di ripetere ai loro allievi almeno una volta a settimana che essi dovevano ben ringraziare Iddio e del discacciamento del tiranno, e della cessazione del suo regno. Ma la gioventù, stimolata in senso contrario, accettò gli elogii, ed esaminò le eccezioni. E come essa non conosceva altrimenti i delitti dell’usurpatore che a detta di altri, pensò che, forse, si era voluto calunniarlo; e che in ogni caso, un regno sì fecondo in capi lavori ed in grandi uomini non era poi così tristo come si diceva. Questa opinione si sparse insensibilmente nel popolo, fattoglisi già familiare la fama di queste cose, mediante le statue, gli oggetti di arte, i teatri, ed i libri. – Si era a tale, quando improvvisamente il tiranno si appresenta alle frontiere. Egli lancia una grida, nella quale ricordando tutte le glorie del suo regno, annunzia che viene a riportare i lumi, le scienze, le arti, e la brillante civilizzazione, di cui i monumenti, ad onta delle calunnie dei suoi nemici, facevano ancora l’ammirazione di tutti. Di subito il re legittimo a capo dell’armata muove contro l’usurpatore. Ma l’armata tradisce: la gioventù acclama il tiranno: le città gli aprono le loro porte: e il tiranno risale sul trono, in quella che il sovrano legittimo in piccol corteggio di sudditi fedeli, ripiglia tristamente il cammino dell’esilio. – Se io non m’inganno, caro amico, quest’antica storia rende chiaramente ragione del come, che voi cercate. Meditatevi sopra; datela a leggere ai vostri vicini; e dite loro francamente, cento volte il giorno, se accade, che l’insegnamento è una seminagione, e che si raccoglie inevitabilmente quello che si semina. Ed affine di meglio applicare questa verità alle circostanze presenti aggiungetevi gli aforismi come appresso. La rivoluzione è un principio, un’idea, anzi un insieme di idee. La trasmissione di un principio, d’un’idea, di un cumulo d’idee, si opera mediante l’insegnamento. Dunque l’insegnamento considerato nel suo più largo concetto è quello che ha fatta la rivoluzione. Quello che l’insegnamento ha fatto, sol esso l’insegnamento può disfare. – Il Cattolicismo è la sola perfetta negazione della rivoluzione.Se l’Europa ha mai un avvenire di pace e di felicità,ella il dovrà al Cattolicismo applicato a tutto, ilpiù intimamente che si possa.Ma sarebbe veramente fanciullesco il pretendere diapplicare intimamente il Cattolicismo alla società, continuandoun sistema d’insegnamento, il quale, se nonha applicato il paganesimo all’Europa, non ha almeno impedito di applicarglielo sino a incancrenirla dentro alle ossa, e sì condurla all’agonia. Se i Cattolici accettano con grande serietà questi veri elementari; se ne fanno regola invariabile alla loro condotta, essi avranno compito il più grande dei doveri imposto loro dalle presenti occorrenze. Io so bene che a ciò fare, come per il resto, è tardi. Se la questione capitale del paganesimo nell’educazione cristiana, anziché esser messa da parte come disputatone inutile, dannosa, intempestiva, allorché fu proposta, fosse stata presa seriamente, e sì la riforma fosse stata prontamente applicata, saremmo noi forse ove siamo di presente? Quanti errori sarebbero stati prevenuti, quante false ammirazioni estinte, quante idee vere seminate nella società! in altri termini, quanti elementi di restaurazione preparati! Nel cataclismo, cui tutto il mondo ormai teme, noi vedremmo una tavola di salvezza che ci manca. Già si vedrebbe sorgere da servire di punto d’appoggio all’ordine sconcertato, e di addentellato all’avvenire, una generazione ben diversa da quella, che a nome delle rimembranze pagane, sconvolge oggidì l’Italia, ed in difetto di Inni a Giove, fa di entrare nelle Chiese di Roma a cantare i Te Deum in onore di Mazzini e di Garibaldi. Ma checché ne sia, gli è tempo di pentirsi; e sempre è bello l’abbracciare la verità, allorché si conosce. Da tutti i punti di veduta, la salvezza si vede essere a questo prezzo: Veritas liberabit vos.

Il vostro etc.

LA SITUAZIONE (14)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (6)

G Dom. Jean de MONLÉON Monaco Benedettino

Il Senso Mistico dell’APOCALYSSE (6)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat:; Elie Maire Can. Cens. Ex. Off.

Imprimi potest: t Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur: Lutetiæ Parisiorum die II nov. 194

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Terza Visione

LE SETTE TROMBE

PRIMA PARTE

LE PRIME QUATTRO TROMBE

Capitolo VIII. – (1- 13)

“E vidi i sette Angeli che stavano dinanzi a Dio: e furono loro date sette trombe. E un altro Angelo venne, e si fermò avanti l’altare, tenendo un turibolo d’oro: e gli furono dati molti profumi affinché offerisse delle orazioni di tutti i santi sopra l’altare d’oro, che è dinanzi al trono di Dio. E il fumo dei profumi delle orazioni dei santi salì dalla mano dell’Angelo davanti a Dio. E l’Angelo prese il turibolo, e lo empiè di fuoco dell’altare, e lo gettò sulla terra, e ne vennero tuoni, e voci, e folgori, e terremoto grande. E i sette Angeli, che avevano le sette trombe, si accinsero a suonarle. E il primo Angelo diede fiato alla tromba, e si fece grandine e fuoco mescolati con sangue, e furono gettati sopra la terra, e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi furono arsi, e ogni erba verde fu arsa. E il secondo Angelo diede fiato alla tromba: e fu gettato nel mare quasi un gran monte ardente di fuoco, e la terza parte del mare diventò sangue, e la terza parte delle creature animate del mare morì, e la terza parte delle navi perì. E il terzo Angelo diede fiato alla tromba: e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una fiaccola, e cadde nella terza parte dei fiumi e delle fontane: e il nome della stella si dice Assenzio; e la terza parte dell’acque diventò assenzio: e molti uomini morirono di quelle acque, perché diventate amare. E il quarto Angelo diede fiato alla tromba; e fu percossa la terza parte del sole, e la terza parte della luna, e la terza parte delle stelle, di modo che la loro terza parte fu oscurata, e la terza parte del giorno non splendeva e similmente della notte. E vidi, e udii la voce di un’aquila che volava per mezzo il cielo, e con gran voce diceva: Guai, guai, guai agli abitanti della terra per le altre voci dei tre Angeli che stanno per suonare la tromba.”

Questo capitolo si apre con un versetto che appartiene ancora alla seconda visione dell’Apocalisse, e che racconta la rottura dell’ultimo dei sette sigilli con cui il libro era segnato. Questa settima rivelazione mostra quale sarà lo stato della Chiesa dopo il regno dell’Anticristo, il cui terribile avvento è stato annunciato nel sigillo precedente; la cristianità godrà allora di una grande pace, durante la quale i maestri e i Santi saranno autorizzati a predicare il Vangelo come vogliono. Ma questa fase durerà poco: mezz’ora, dice San Giovanni. Se ci riferiamo alla profezia di Daniele, questa mezz’ora rappresenta circa quarantacinque giorni. Il profeta, infatti, dopo aver annunciato che l’abominazione della desolazione sarebbe durata milleduecentonovanta giorni, aggiunge: “Beato chi aspetta e arriva a milletrecentotrentacinque giorni“. (XII, 12). Parole che San Girolamo interpreta così: « Beato colui che, dopo la morte dell’Anticristo, avvenuta dopo duemiladuecentonovanta giorni, cioè dopo un regno di poco più di tre anni e mezzo, aspetterà altri quarantacinque giorni, fino alla venuta del Salvatore. »

§ 1 – La distribuzione delle trombe.

Subito dopo la promessa di questa pace, inizia, senza transizione, una nuova visione, la terza: il compimento della nostra salvezza e la storia della Chiesa vi sono riprese sotto simboli misteriosi, la cui successiva apparizione è provocata da sette Angeli, che suonano la tromba a turno. « E vidi – dice l’Apostolo – sette Angeli in piedi alla presenza di Dio, con il cuore rivolto a Lui con il fervore e la continuità della loro contemplazione, pronti a fare qualsiasi cosa e ad andare ovunque al suo servizio. Gli Angeli sono evocati perché i predicatori sappiano che hanno in sé un modello compiuto delle virtù che devono mettere in pratica. Vengono date loro sette trombe, per dire che nessuno può investire se stesso della missione di predicatore, ma che questa funzione gli deve essere affidata dalla legittima autorità della Chiesa. La predicazione è paragonata alla tromba, che è sia uno strumento di guerra che uno strumento di trionfo, perché consiste essenzialmente nel chiamare i Cristiani alla battaglia e nell’annunciare le vittorie di Cristo. E le trombe sono in numero di sette per ricordarci la parte essenziale svolta dal settenario dello Spirito nella conversione degli uomini.

§ 2 – L’incensiere d’oro.

E venne un altro Angelo, un Angelo di natura superiore, l’Angelo del grande consiglio, il Figlio di Dio stesso. Egli infatti, doveva venire prima, affinché gli Apostoli potessero poi predicare il Vangelo; Egli doveva rivestirsi di carne come la nostra, e stare davanti all’altare, offrendosi a Suo Padre come vittima espiatoria, pronto a fare la volontà divina fino alla morte, ed la morte di croce. – Egli aveva in mano un turibolo d’oro, simbolo di quella piccola Chiesa che aveva forgiato con il metallo della propria Sapienza, e nella quale aveva acceso il fuoco del suo amore; una fiamma incandescente di carità, l’unica degna, l’unica capace di far salire al cielo il profumo delle preghiere gradite a Dio. Questo turibolo d’oro, tuttavia, rappresenta anche l’anima o il Cuore del nostro Salvatore Gesù. Egli lo tiene in mano perché è stato sempre padrone dei suoi movimenti più segreti, non avendo nella sua carne la concupiscenza originale. È nello stesso senso che il profeta reale, parlando in suo nome, disse: L’anima mia è sempre nelle mie mani (Ps. CXVIII, 109.). Questo Cuore è veramente un cuore d’oro, che non ha mai conosciuto la minima macchia, la minima imperfezione, e che si identifica con la carità perfetta. Ad imitazione di Cristo, anche noi, quando vogliamo che le nostre preghiere siano esaudite, dobbiamo tenere in mano questo turibolo d’oro e depositare le nostre preghiere in questo Cuore, che solo è capace di piegare la giustizia divina ed ottenere tutto ciò che vuole. E gli portarono un gran numero di carboni ardenti, cioè delle preghiere ardenti dei giusti, perché scegliesse tra queste e offrisse a Dio un’oblazione fatta delle preghiere di tutti i Santi. Nostro Signore, infatti, presenta a suo Padre solo quelle preghiere che sono utili per la salvezza delle anime. E queste preghiere sono accettate dalla Maestà Divina solo se sono poste da Lui sull’altare d’oro, che simboleggia la Sua Passione, il cui ricordo è sempre presente davanti al trono di Dio. Come l’incenso, per sprigionare la sua fragranza, deve essere posto sul fuoco, così le nostre preghiere possono salire ai piedi della Maestà divina solo se sono versate sulle sofferenze di Gesù Cristo. La croce del Salvatore è veramente l’altare dell’eterna liturgia, sul quale è stata immolata la vera Vittima, di cui le altre non erano che la figura; altare scintillante come l’oro perché coperto del sangue di Cristo e costellato delle sue ferite; un legno prezioso tra tutti i legni, come canta la Chiesa (Inno della Passione alle Lodi: Crux fidelis inter omnes, Arbor una nobilis), proprio come l’oro è prezioso tra tutti i metalli. – E il fumo dei carboni ardenti, cioè il fervore delle preghiere dei Santi, salì a Dio dalla mano dell’Angelo, cioè per la virtù, l’intercessione ed i meriti di Gesù Cristo. E l’Angelo prese l’incensiere, la piccola chiesa che aveva forgiato durante la sua vita terrena, e lo riempì di fuoco dell’altare il giorno di Pentecoste, quando fece scendere lo Spirito Santo su di esso; e lo gettò sulla terra, mandando i suoi Apostoli in tutte le nazioni per accendere tra gli uomini il fuoco della carità divina. Allora si produssero tuoni, voci, fulmini, un grande terremoto; abbiamo già spiegato il significato di queste parole, che designano i miracoli ed i segni eclatanti con cui era accompagnata la predicazione apostolica (Cfr. Seconda Visione, IV, 5. – Tutto il passo che abbiamo appena commentato sull’Angelo con il turibolo d’oro è applicato dalla liturgia al Principe delle armate celesti, San Michele. Cfr. Offertorio della Messa del 29 settembre). – E i sette Angeli che avevano ricevuto le sette trombe si prepararono a suonarle. Questo particolare non è riportato invano: è destinato a far capire ai predicatori che anche loro devono prepararsi, prima di annunciare la parola di Dio, con la preghiera, con lo studio della verità e la pratica delle virtù.

§ 3 – La prima tromba.

E il primo Angelo suonò la tromba, o più esattamente: cantò dalla tromba. Le due parole non si accordano bene tra loro; ma il fatto che siano messe insieme deliberatamente insegna a coloro che predicano che, per conquistare il cuore dei loro ascoltatori, devono combinare la proclamazione delle più spaventose verità cristiane, come il rigore del Giudizio Universale, con una grande dolcezza nella forma del loro discorso. Al suono di questa prima tromba, che simboleggia la prima predicazione degli Apostoli, quella che fecero ai Giudei il giorno dopo Pentecoste, vennero la grandine e il fuoco, mescolati al sangue. La grandine rappresenta la violenta persecuzione che fu immediatamente scatenata; il fuoco, la carità dei primi Cristiani, che si infiammò nei tormenti, e si mescolò con loro nel sangue dei primi martiri. L’uccisione di Santo Stefano ci offre un’immagine quasi letterale di ciò che è detto qui: sotto la grandine di pietre con cui i Giudei lo colpirono, il martire fu incendiato dal fuoco della carità. Prega per i suoi carnefici, come aveva fatto Cristo sulla croce: Signore, implorava, non imputare loro questo peccato (Act., VII, 59). E dopo questo magnifico grido d’amore, morì, immerso nel suo sangue. E tutto questo fu mandato sulla terra. La notizia di questi eventi si è diffusa ovunque. E la terza parte della terra fu consumata, e la terza parte degli alberi fu bruciata, e tutta l’erba verde fu consumata. La terra qui si riferisce agli abitanti del nostro pianeta, l’intera umanità. La terza parte non deve essere intesa come il terzo numerico, ma così come il “Terzo Stato” che veniva identificato con il terzo effettivo della popolazione francese. Tuttavia, se consideriamo la totalità degli uomini dal punto di vista della loro salvezza, possiamo classificarli in tre categorie principali: 1° quelli che non hanno mai commesso colpe gravi e che cercano in ogni momento di soddisfare la legge di Dio; 2° quelli che, dopo gravi disordini, si convertono e fanno penitenza; 3° quelli che, al contrario, non vogliono fare penitenza e muoiono nel loro peccato. Le prime due specie sono sulla strada della salvezza, la terza parte è destinata al fuoco eterno. – Gli alberi rappresentano gli uomini che Dio ha piantato con cura speciale nel giardino della sua Chiesa, come i chierici, i prelati ed i religiosi, affinché crescano e portino frutti spirituali. Tra loro, alcuni si santificano nella vita contemplativa, altri nella vita attiva. La terza parte designa coloro che non portano frutto in nessuna di queste due aree e che saranno maledetti nel giorno del giudizio. Infine, l’erba verde si riferisce a coloro che vivono, per così dire, vicino alla terra, che seguono solo le inclinazioni della carne, senza mai elevarsi sopra il mondo presente. Qui non si tratta più solo di un terzo; sono tutti sulla via della dannazione.

§ 4 – La seconda tromba.

E il secondo Angelo suonò la tromba. Questa seconda predicazione è quella che gli stessi Apostoli hanno fatto, non questa volta ai Giudei, ma ai gentili, quando avevano diviso le province del mondo. E ci fu come una grande montagna che bruciante per il fuoco, che fu gettata nel mare; e la terza parte del mare divenne come sangue. Il mare, sempre in movimento, è il simbolo dei Gentili, cioè dell’umanità non rigenerata dal Battesimo, schiava della legge del peccato, sempre agitata dalla triplice concupiscenza degli occhi, della carne e dello spirito. Quando il diavolo, rappresentato qui dalla montagna in fiamme, vide gli Apostoli venire da essa, si gettò furiosamente in mezzo ai gentili per sobillarli contro la nuova dottrina. Nonostante questo, alcuni dei gentili abbracciarono la fede cristiana e furono battezzati; altri rimasero indifferenti. Solo la terza parte si infuriò contro i predicatori e diventò come il sangue nella crudeltà dei tormenti che loro infliggevano. E la terza parte della creatura, di quelli che avevano le anime nel mare, morì. La creatura in questo passo non designa l’insieme degli esseri in generale, ma solo coloro ai quali tutti gli altri sono ordinati e per i quali Dio ha fatto l’universo: coloro che vivono secondo la ragione. La stessa espressione si trova nella Lettera ai Romani (I, 20), quando San Paolo parla degli attributi invisibili di Dio, che la creatura del mondo – cioè l’uomo – può intravedere per mezzo delle cose create. San Giovanni precisa il suo pensiero aggiungendo: di coloro che hanno l’anima nel mare, in opposizione a quelli che vivono come se non ne avessero, e che vanno sempre di qua e di là, sballottati come corpi morti sulle onde, dalle fluttuazioni della loro concupiscenza. Di questi saggi, dunque, alcuni arrivarono quasi naturalmente al Cristianesimo col risultato delle loro riflessioni; altri si convertirono con la predicazione degli Apostoli; altri rifiutarono di arrendersi alla luce, e formano la terza parte di cui si parla, che muoiono spiritualmente, non accettando la Vita che veniva loro offerta. E la terza parte delle navi perì. Le navi simboleggiano misticamente i re, i principi, i capi, tutti coloro ai quali Dio dà autorità sugli uomini per condurli attraverso il mare di questo mondo al porto della salvezza. All’udire la parola degli Apostoli, alcuni si convertirono, altri furono solo tolleranti, e gli ultimi si trasformarono in persecutori, e affondarono nel loro destino eterno come una nave che affonda nelle onde.

§ 5 – La terza tromba.

E il terzo Angelo suonò la tromba. Questa terza predicazione è quella che fecero intendere i grandi Dottori del IV secolo, quando, grazie alla pace di Costantino, poterono sviluppare liberamente la dottrina degli Apostoli, e quando furono dichiarate le grandi eresie. Allora una grande stella cadde dal cielo, bruciando come una torcia. Smascherati da essi, i maestri dell’errore, come Ario, Pelagio, Nestorio, ecc., che all’inizio brillavano nel firmamento della Chiesa per lo splendore delle loro parole ed opere, caddero in rivolta, separandosi dalla comunione cattolica. Essi bruciavano come torce, perché continuavano, una volta cadute, a gettare una certa luce: ma questa luce non ha nulla della purezza di quella delle stelle. La stella brilla, sempre serena, sempre chiara, sempre uguale a se stessa; la torcia, invece, è consumata dalla sua stessa fiamma e divora tutto ciò che tocca. Così fanno gli eretici, che distruggono se stessi e gli altri col furore del loro zelo. – E cadde nella terza parte dei fiumi. I fiumi qui rappresentano le Sacre Scritture che irrigano l’anima, la fecondano e mantengono la sua vita spirituale. Di solito si distinguono solo due parti, il Vecchio e il Nuovo Testamento, ma l’autore ne conta tre, e questo per la nostra istruzione. Questa terza parte designa le esposizioni dei santi Dottori, che sono così strettamente legate, nello spirito della Chiesa, al testo sacro tanto da formare un corpo unico con quest’ultimo per costituire il blocco indeformabile ed inespugnabile della Tradizione cattolica. Abbiamo già menzionato la sua importanza (vedi prefazione), e San Giovanni la sottolinea qui. È su questa terza parte – non lo si ripeterà mai abbastanza – che cadono i teologi che perdono la strada. Gli eretici e coloro che seguono le loro orme accettano senza difficoltà l’autorità dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma rifiutano l’interpretazione autentica data dai santi Padri; pretendono di spiegarli con nuove luci. Così vanno alla loro rovina, trascinando con sé i loro discepoli. Ecco perché San Giovanni aggiunge che la stella cadde nelle sorgenti delle acque, avvelenando le sorgenti dove i Cristiani vengono a nutrire la loro sete e la loro pietà. Ed il nome della stella si chiama Assenzio, perché l’eresia rende amaro tutto ciò con cui è mescolata. Perciò, la terza parte delle acque fu cambiata in assenzio: cioè, secondo quanto abbiamo appena spiegato, il commento perverso dato alle Scritture da coloro che deviano dalla tradizione, ha cambiato in amarezza questo libro divino, la cui dolcezza lo Spirito Santo paragona al latte e al miele. E così infettata dall’errore, diventa una bevanda di morte per coloro che vogliono dissetarsi in essa, che è stata data agli uomini per attingervi da essa le acque vive della grazia.

§ 6 – La quarta tromba e l’annuncio dei tre “Væ”.

La tromba del quarto Angelo designa tutti i dottori che si sono succeduti nella storia della Chiesa, da quelli appena menzionati a quelli che precederanno immediatamente l’Anticristo. Attraverso i secoli, la loro missione è sempre la stessa: consiste nel denunciare gli errori ed i fallimenti che comprometteranno la salute morale del popolo cristiano. – La loro parola ha l’effetto di far cadere la terza parte del sole, della luna e delle stelle, cioè di smascherare i pastori negligenti che non fanno il loro dovere. Perché il sole, la luna e le stelle, che a loro volta illuminano la terra, sono la figura dei prelati, sacerdoti e religiosi, di tutti coloro che sono incaricati da Dio di illuminare la massa dei fedeli durante il tempo del mondo presente. Alcuni di loro sono veramente dediti al loro dovere e si santificano santificando gli altri: essi formano la prima parte; altri trascurano la propria santificazione, ma almeno assolvono correttamente il ministero loro assegnato: essi formano la seconda parte. Altri, infine, non hanno alcuna preoccupazione per le loro anime o per quelle sotto la loro cura: essi costituiscono la terza parte, quella che è oscurata, che perde tutto il suo splendore davanti alla predicazione energica dei servi di Dio. – E la terza parte del giorno non brillò, e così la terza parte della notte: con questo l’autore intende dire che, a causa della defezione di certi pastori, tutta una parte dell’umanità non aveva luce che la illuminasse nel suo lavoro durante il giorno, né luna o stella che la guidasse nella notte. Il lavoro del giorno rappresenta le buone opere che devono essere fatte per guadagnare il denaro della ricompensa eterna; il cammino nella notte simboleggia la ricerca di Dio, nell’oscurità della vita presente, alla sola luce della fede. Privati di coloro che dovevano illuminarli, gli uomini abbandonarono le buone opere e persero la loro fede. – Prima di affrontare la predicazione dei tre Angeli che restano, San Giovanni la annuncia con un breve preambolo, per sottolineare il carattere particolarmente terribile delle lotte che precederanno la fine del mondo: « E vidi – dice – e sentii la voce di un’aquila, che è il simbolo di tutti coloro che penetrano profondamente nei misteri divini. E volò in mezzo al cielo, molto al di sopra delle cose della terra, camminando dritto per la sua strada, senza lasciarsi voltare a destra o a sinistra. E disse con voce potente: “Guai, guai, guai a coloro che abitano la terra, non solo nel corpo ma anche nel cuore; a coloro che hanno come unico affetto e preoccupazione i beni, i piaceri e gli onori del mondo presente. Schiavi delle loro tre concupiscenze, sono minacciati di punizioni spaventose per ciascuna di esse, e gli Angeli che stanno arrivando ne daranno il dettaglio.

SECONDA PARTE

LA QUINTA E LA SESTA TROMBA

Capitolo IX, 1- 21

“E il quinto Angelo diede fiato alla tromba: e vidi una stella caduta dal cielo sopra la terra, e gli fu data la chiave del pozzo dell’abisso. E aprì il pozzo dell’abisso: e dal pozzo salì un fumo, come il fumo di una grande fornace: e il sole e l’aria si oscurò pel fumo del pozzo: e dal fumo del pozzo uscirono per la terra locuste, alle quali fu dato un potere, come lo hanno gli scorpioni della terra: E fu loro ordinato di non far male all’erba della terra, né ad alcuna verdura, né ad alcuna pianta: ma solo agli uomini, che non hanno il segno di Dio sulle loro fronti. E fu loro dato non di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi: e il loro tormento (era) come il tormento che dà lo scorpione, quando morde un uomo. E in quel giorno gli uomini cercheranno la morte, né la troveranno: e brameranno, di morire, e la morte fuggirà da loro. E gli aspetti delle locuste, simili ai cavalli preparati per la battaglia: e sulle loro teste una specie di corone simili all’oro; e i loro volti simili al volto dell’uomo. E avevano capelli simili ai capelli delle donne: e i loro denti erano come di leoni. E avevano corazze simili alle corazze di ferro, e il rumore delle loro ali simile al rumore dei cocchi a più cavalli correnti alla guerra: e avevano le code simili a quelle degli scorpioni, e v’erano pungiglioni nelle loro code: e il lor potere (era) di far male agli uomini per cinque mesi: e avevano sopra di loro per re l’angelo dell’abisso, chiamato in ebreo Abaddon, in greco Apollyon, in latino Sterminatore. Il primo guaì è passato, ed ecco che vengono ancora due guai dopo queste cose. “E il sesto Angelo diede flato alla tromba: e udii una voce dai quattro angoli dell’altare d’oro, che è dinanzi agli occhi di Dio, la quale diceva al sesto Angelo, che aveva la tromba: Sciogli i quattro Angeli che sono legati presso il gran fiume Eufrate. E furono sciolti i quattro angeli che erano preparati per l’ora, il giorno, il mese e l’anno a uccidere la terza parte degli uomini. E il numero dell’esercito a cavallo venti mila volte dieci mila. E udii il loro numero. E così vidi nella visione i cavalli: e quelli che vi stavano sopra avevano corazze di colore del fuoco, del giacinto e dello zolfo, e le teste dei cavalli erano come teste di leoni: e dalla loro bocca usciva fuoco, e fumo, e zolfo. E da queste tre piaghe; dal fuoco, dal fumo e dallo zolfo che uscivano dalle loro bocche fu uccisa la terza parte degli uomini. Poiché il potere dei cavalli sta nelle loro bocche e nelle loro code. Le loro code infatti sono simili a serpenti, hanno teste, e con esse recano nocumento. E gli altri uomini che non furono uccisi da queste piaghe, neppure fecero penitenza delle opere delle loro mani, in modo da non adorare i demoni e i simulacri d’oro, e d’argento, e di bronzo, e di pietra, e di legno, i quali non possono né vedere, né udire, né camminare, e non fecero penitenza dei loro omicidii, né dei loro veneficii, né della loro fornicazione, né dei loro furti.”

§ 1. — La quinta tromba ed il primo « Væ ».

La tromba del quinto Angelo rappresenta la lotta che la Chiesa dovrà condurre contro le eresie che precederanno la venuta dell’Anticristo: « Vidi – dice San Giovanni – una stella cadere dal cielo sulla terra e le fu data la chiave del pozzo dell’abisso. Questa stella a cui viene data una chiave rappresenta un essere vivente, e questo non può essere che il diavolo. Esso è paragonato ad una stella, perché è stato creato luminoso e puro, perché è stato fatto per adornare il cielo e cantare la gloria di Dio; ma a causa della sua ribellione fu cacciato dalla corte celeste e cadde sulla terra. In realtà, fu gettato giù nelle profondità dell’inferno, ma l’espressione “cadere sulla terra” è usata qui per significare che gli è permesso di rimanere sul nostro pianeta per tentare gli uomini fino alla fine dei tempi. San Giovanni non dice che lo vide cadere davanti ai suoi occhi: la parola cecidisse, in latino, al tempo perfetto, e, in greco, il participio passato “peptokuta” indicano che si tratta di un evento già realizzato: infatti, non è sotto gli accenti della quinta tromba che il demone cadrà. La caduta avvenne all’inizio del mondo, e nessun uomo ne fu testimone, tranne colui che dice nel Vangelo: Ho visto satana cadere dal cielo come un fulmine (Lc., X, 18). – E gli fu data la chiave del pozzo dell’abisso, cioè l’abilità necessaria per chiudere alla grazia ed aprire al peccato il cuore degli eretici. L’abisso, abyssus, designa propriamente un luogo in cui la luce non può penetrare; aggiungendo la parola “pozzo” che indica un buco profondo scavato dalla mano dell’uomo, l’autore vuole indicare che gli empi hanno fatto del loro cuore, per opera loro, un abisso profondo, in cui i raggi della saggezza divina non possono più penetrare.

§ 2 L’apertura del pozzo dell’abisso e le locuste

Ed aprì il pozzo dell’abisso: ha cioè spinse gli eretici a pubblicare all’esterno tutti gli errori ed i disegni perversi che nascondevano dentro di sé. E il fumo saliva da quella fossa come da una grande fornace, cioè la loro dottrina usciva da essa, accecando e soffocando come fumo denso tutti quelli che la respiravano; ed il fumo era come il fumo di una grande fornace, perché era come il fumo dell’Anticristo stesso. E il sole si oscurò; e la luce di Cristo, che illumina la sua Chiesa, era come velata; e l’aria, cioè la fede, poiché questa virtù è un mezzo necessario per la vita spirituale come l’aria lo è per la vita naturale; l’aria era oscurata, come da una nebbia, nella quale molti hanno perso la via della verità. E dal fumo del pozzo uscirono cavallette che si sparsero sulla terra: la dottrina degli eretici fece nascere una moltitudine di discepoli, che non riuscirono a rimanere in alto come aquile o colombe, cioè come i Santi, sulle ali delle loro virtù, ma si sforzarono vanamente di elevarsi con salti sgraziati e disordinati come cavallette, per poi ricadere sulla terra, sulle loro preoccupazioni materiali, e divorare tutto ciò che trovavano. – Dio ha permesso che fosse dato loro un potere come quello degli scorpioni… Lo scorpione non porta la sua arma velenosa nella testa, come il serpente, ma nella coda; non si getta sulla sua vittima con un atteggiamento minaccioso, ma si avvicina dolcemente, come se volesse accarezzarla; poi all’improvviso fa scattare il suo pungiglione inaspettatamente e le dà una ferita mortale. – Così questi eretici non cercheranno di guadagnare seguaci con le armi in mano; cercheranno prima di sedurre gli ignari, e quando questi saranno stati presi dai loro modi gentili, inoculeranno loro il veleno che li perderà. E fu loro proibito di danneggiare l’erba della terra, né alcuna cosa verde, né alcun albero: questi tre termini segnano i tre gradi classici della vita spirituale: l’erba, che emerge appena dalla terra, simboleggia lo stato degli incipienti; la pianta, che sorge sotto la spinta della linfa interiore, quello dei progrediti, che si sviluppano sotto l’azione della grazia; l’albero, quello dei perfetti, cioè degli uomini che, saldamente stabiliti nella virtù, portano i frutti abbondanti delle loro buone opere e coprono gli altri con la loro ombra. Agli eretici fu dunque proibito di nuocere a qualcuno di coloro che erano dediti alla vita spirituale; al contrario, fu loro concessa piena libertà nei confronti degli uomini che non hanno il segno di Dio sulla fronte, quelli di cui parla il profeta Ezechiele, e che non sono segnati con il thau (IX, 6), cioè con la croce di Cristo; che se ne vergognano, che non vogliono farsi suoi discepoli, né porre in esso la loro speranza; che non hanno né la carità né le opere. – Tuttavia, questo divieto di nuocere ai giusti deve essere inteso solo in ambito spirituale; è solo l’anima di questi ultimi che non può essere uccisa, cioè separata dalla sua Vita, separata da Dio; ma i malvagi avranno il potere di tormentarli nel loro corpo per cinque mesi, cioè di perseguitarli durante tutta la vita presente: il mese, infatti, è la durata della rivoluzione della luna, e questo simboleggia l’incostanza delle cose di quaggiù. Il numero cinque aggiunge l’evocazione delle cinque età della vita umana: infanzia, fanciullezza, adolescenza, età matura e vecchiaia. E la loro persecuzione sarà simile al modo in cui lo scorpione va ad uccidere un uomo, che prima accarezza, poi punge selvaggiamente e lentamente uccide. Sarà così violento che gli uomini, anche i giusti, cercheranno la morte, e non la troveranno: cercheranno la morte temporale, per evitare la morte eterna, temendo di apostatare sotto i rigori dei tormenti; e non la troveranno, perché Dio vuole che subiscano la loro prova; e desidereranno morire, come Elia nel deserto, annientato sotto il peso della tristezza che lo opprimeva (III Reg, XIX, 4); e la morte fuggirà da loro, affinché possano continuare la loro opera e la Chiesa non scompaia. – E queste sembianze di locuste, cioè questi eretici che mi sono apparsi sotto forma di locuste, erano anche come cavalli preparati per la battaglia; perché, contenendo con difficoltà il loro ardore, erano pronti a scattare in qualsiasi direzione, senza discernimento personale, mettendo tutta la loro irruenza e forza al servizio del loro cavaliere, il diavolo. Questa immagine delle locuste che pensano di essere cavalli ricorda anche la rana che pensava di essere un bue, e ci dà un’idea dell’alta opinione di se stessi che avranno gli empi. Sulle loro teste c’erano corone che sembravano d’oro, perché avevano l’aureola di una falsa immagine di saggezza e di comprensione delle Scritture; e i loro volti assomigliavano a quelli degli uomini, perché pronunciavano massime umanitarie e davano l’impressione di agire e parlare secondo ragione. Ma sotto quelle corone avevano capelli come capelli di donna, e sotto quei volti denti come denti di leone. Capelli di donna, perché questa falsa saggezza copriva solo pensieri molli ed effeminati; denti di leone, perché erano sempre pronti a strappare e divorare. – I loro cuori, pieni di pregiudizi e di falsi principi, erano assolutamente impenetrabili ai tratti della verità; ed il rumore delle loro ali era come il rumore dei cavalli dei carri che corrono in gran numero alla battaglia: cioè, incapaci di fornire argomenti ragionevoli per sostenere la loro dottrina, supplivano con il tumulto delle loro parole. L’autore paragona i loro discorsi alle ali, perché gli eretici pretendono di parlare di cose alte, e sembrano librarsi in alto nelle loro considerazioni; ma aggiunge che questi discorsi sono simili a quelli di una truppa di carri che corre alla battaglia. Perché quando una truppa si precipita in battaglia, fa ogni sorta di grida e rumori: il rotolare dei carri, il nitrito dei cavalli, lo squillo delle trombe, le chiamate dei capi, il clamore dei soldati, lo sferragliare delle armi, ecc…. Questo baccano, così prodotto da elementi discordanti, trae la sua unità solo dall’avversario contro il quale è diretto. Così i nemici della Chiesa fanno sentire le voci più eterogenee e contraddittorie: ma formano un blocco a causa del loro comune odio contro la Sposa di Cristo. E avevano code come code di scorpioni: si trascinavano dietro assiomi o principi, che eccellono nel sedurre gli uomini, ma che nascondono pungiglioni pieni di sofferenza e di morte. Questo è stato spesso il caso nella storia del nostro pianeta: le rivoluzioni si fanno con grande clamore e per principi generosi. Si riparano dietro le bandiere della libertà, dell’amore per l’umanità, della difesa dei deboli, ecc; ma dietro di loro c’è la coda dello scorpione: la persecuzione religiosa e l’odio per Cristo. – E avevano il potere di nuocere agli uomini per cinque mesi, cioè per tutto il tempo di questa vita, come abbiamo appena spiegato sopra. Ed essi avevano su di loro un re, il cui nome è chiamato in ebraico Abaddon, in greco Appollyon e in latino Sterminatore. –- Questo re non è altri, è facile da indovinare, che l’angelo dell’abisso. Il suo nome è dato qui in ebraico, greco e latino per far capire che vuole imitare Cristo, il cui titolo regale era iscritto allo stesso modo sulla cima della croce. Queste tre lingue, infatti, rappresentano tutte le altre. Essi mostrano che la sovranità di Cristo si estende a tutto l’universo e si esercita nei tre mondi ai quali l’uomo appartiene: il mondo visibile, unificato a quel tempo sotto la tutela di Roma, e quindi sotto quella del latino; il mondo dell’intelligenza, dove il pensiero greco regna come padrone indiscusso; il mondo soprannaturale, perché quando Dio parlava agli uomini per mezzo dei Profeti o del suo Figlio divino, lo faceva in ebraico. Il diavolo, che Sant’Agostino chiama la scimmia di Dio, ha quindi la pretesa di esercitare un’autorità universale in tutti i campi. Ma mentre Cristo è essenzialmente Re, cioè conduttore, perché tutta la sua attività è stata impiegata per condurre gli uomini al loro fine, che è Dio; il diavolo, invece, è chiamato sterminatore, cioè colui che distoglie dal fine, perché non ha altro disegno, in ogni cosa, che impedire agli uomini di raggiungere questo fine. Tutti devono sapere cosa aspettarsi da Lui. – La prima delle tre tribolazioni annunciate, quella che sarà causata dal precursore dell’Anticristo, finisce qui; ma ne arrivano altre due, con le trombe del sesto e del settimo Angelo: quella dell’Anticristo stesso e quella che accompagnerà il Giudizio Universale.

§ 3 – La sesta tromba: L’annuncio della persecuzione dell’Anticristo.

E il sesto Angelo suonò la tromba: questo sesto messaggero rappresenta i predicatori che dovranno combattere contro l’anticristo. – E ho sentito una voce dai quattro corni dell’altare d’oro, che è sempre alla presenza di Dio. L’altare qui rappresenta la Chiesa, sulla quale Dio veglia sempre. Si chiama “d’oro” perché è fatto dello stesso metallo del suo divino Fondatore. Come Lui, ella è tutta saggezza, carità, obbedienza, virtù che l’oro simboleggia con la sua brillantezza, purezza e duttilità. I quattro corni che la proteggono dall’errore sono i quattro Vangeli, e con essi tutta la legione di Dottori e difensori della fede. La voce che si leva da questi corni è quella della Tradizione. E questa voce era una sola, perché questa tradizione è unanime nell’avvertire i pastori che la persecuzione dell’Anticristo sarà particolarmente terribile. Ecco perché dice qui al sesto Angelo, cioè ai predicatori di quel tempo: Slegate i quattro Angeli che sono incatenati nel grande fiume Eufrate. Ascoltate: Annuncia agli uomini che i demoni, che erano incatenati fino ad ora, stanno per essere liberati nel mondo. – L’Eufrate, sul quale fu costruita la città di Babilonia, si segnala per la profondità del suo letto, la rapidità del suo corso, il colore limaccioso delle sue acque: è dunque la figura della corrente fangosa che va da Babilonia al mare, cioè delle passioni che portano dalla città del mondo agli Inferi. Sotto queste passioni, lo spirito del male è sempre presente, ma contenuto dalla misericordia di Dio entro limiti ristretti. Sopravviene un incidente, una guerra, una rivoluzione, una sommossa, eccolo che si agita con il permesso di Dio, e trascina gli uomini in ogni tipo di crimine. Al tempo dell’Anticristo, egli avrà potere contro la Chiesa (Per la spiegazione del numero 4, cfr. sopra, VII, 2), come lo ebbe contro Nostro Signore nell’ora della Sua Passione. E furono sciolti i demoni, che erano pronti per l’ora, per il giorno, per il mese, per l’anno. L’autore vuole mostrarci con questo che il demonio è sempre pronto a nuocere agli uomini, così da esortarci a stare sempre in guardia. E fu data loro licenza di uccidere, cioè di causare la morte spirituale, di precipitare nell’abisso del peccato, la terza parte della terra. Dal punto di vista della salvezza eterna, possiamo dividere gli uomini in tre categorie: gli innocenti, che non hanno mai commesso una colpa grave; i peccatori che si pentono delle loro colpe; e quelli il cui cuore indurito rifiuta di fare penitenza. È quest’ultima tipologia che viene discussa qui. Ma i quattro demoni non andarono in battaglia da soli. Dietro di loro, c’era una massa enorme di cavalieri: ventimila volte diecimila, dice il testo della Vulgata, cioè 200 milioni, una moltitudine immensa. Il testo greco dice semplicemente: miriadi di miriadi. E ho sentito il loro numero, aggiunge San Giovanni. L’apostolo conosceva davvero il numero dei dannati? Queste parole ci permettono di supporlo. In ogni caso, non ce l’ha rivelato. Molti commentatori antichi completano così questa frase: « E capii che il numero dei dannati era maggiore di quello degli eletti. » Questi cavalieri rappresentano sia i demoni inferiori, che obbediscono ai loro principi, sia gli uomini che, pienamente consapevoli di ciò che fanno, sposano la causa di questi spiriti maligni ed impiegano tutte le loro risorse nella lotta contro la Chiesa. Ed oltre ai cavalieri, ho visto in questa visione i loro cavalli. I cavalli, al contrario, designano gli uomini grossolani che, trascinati dalle loro passioni, servono da cavalcatura ai precedenti ed alle potenze infernali per diffondere i loro errori nel mondo. E quelli che li cavalcavano avevano corazze di fuoco, di giacinto e di zolfo: corazze, perché i loro cuori, racchiusi nella loro malizia, sono invulnerabili a tutti i colpi della grazia; e queste corazze sono fatte della triplice concupiscenza scatenata: sono di fuoco, perché ardono dal desiderio di conquistare l’universo, pronti incessantemente ad incendiarlo; sono di giacinto, perché si credono esseri celesti. Il giacinto è infatti una varietà blu cielo della pietra preziosa chiamata “Zirkon” dai naturalisti (Cf. S. Isidoro di Siviglia, Liber Originum, XVI, 9, 3; – S. Epifanio, nel suo Trattato sulle XII Pietre Preziose, VII, dove lo equipara al “Ligurion” dei Greci); sono di zolfo, perché diffondono intorno a loro l’odore fetido della lussuria, e soprattutto di ciò che è contro natura. – Anche se questo passo è direttamente rivolto ai demoni, l’autore ne parla come se fossero uomini, per marcare le passioni che eccitano in questi ultimi, quando essi fanno, per così dire, corpo con loro. Le teste dei cavalli, cioè i grandi eresiarchi e i capi di questo esercito di persecutori della Chiesa, erano come teste di leoni: perché sono orgogliosi, crudeli, pronti a divorare ogni cosa; – dalla loro bocca uscivano fuoco, fumo e zolfo; fuoco, perché la loro parola, a differenza di quella di Cristo, che la Scrittura paragona alla rugiada, è tutta piena di rabbia, odio ed eccitazione al crimine; fumo, perché la loro dottrina è senza coerenza, e acceca invece di illuminare; zolfo, perché i loro discorsi sono pieni di impurità. E sotto l’azione di queste tre piaghe, cioè le piaghe scatenate dal fuoco, dal fumo e dallo zolfo, che così procedevano dalla loro bocca, un terzo del genere umano fu ucciso. Perché di fronte alla persecuzione, alcuni si nasconderanno, altri confesseranno la loro fede e renderanno testimonianza a Cristo, ed un terzo Lo rinnegherà, ed è questo che perirà della seconda morte, della morte eterna. – Mentre la potenza degli apostoli è nella Parola e nella forza di Dio, la potenza di questi cavalli, cioè di questi messaggeri dell’errore, sarà nelle loro bocche, nella loro abilità nell’adulare e sedurre, e nelle loro code, cioè nella cura che hanno nel coprire la loro ignominia; poiché la coda nasconde la parte più vergognosa del corpo dell’animale. Il libro dei Proverbi dichiara che le labbra della cortigiana, cioè dell’anima che vuole condurre gli altri al peccato, sono come un favo di miele (V, 3); e quello di Isaia, che il profeta che insegna la falsità, quello è una coda (IX, 15.). Egli nasconde la corruzione della sua dottrina sotto la sua apparente onorabilità di profeta. Queste code sono come serpenti, come quel serpente che si insinuò nel Paradiso terrestre per far cadere i nostri primi genitori; ed hanno delle teste, hanno cioè al loro servizio i principi ed i potenti di questo mondo, ed è attraverso di loro che fanno male, è attraverso di loro che possono fare tanto male. Da queste parole vediamo che i nemici della Chiesa useranno sia l’astuzia che il potere secolare per raggiungere i loro fini. E tutti gli altri uomini che non furono uccisi da queste piaghe – cioè quelli che non dovranno soffrire la persecuzione dell’Anticristo – non fecero penitenza per le loro azioni malvagie, ma continuarono ad adorare i demoni e tutti quegli idoli che l’uomo si costruisce con qualsiasi cosa possa trovare: idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra, di legno, mentre Dio è puro spirito, invisibile ed immateriale; idoli che non possono vedere, sentire o camminare, e che quindi sono del tutto incapaci di rendere qualsiasi servizio ai loro adoratori. E non fecero penitenza per i loro omicidi, i loro avvelenamenti e la loro fornicazione – il peccato che popola l’inferno – né per i loro furti.

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (7)

LA SITUAZIONE (12)

LA SITUAZIONE (12):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

DOVERI

Lettera Duodecima

Caro Amico

È meno di un anno che apparve uno scritto avente a scopo il legittimare lo spogliamene del patrimonio di S. Pietro; e ciò che è più insultante, il non lasciare al Vicario di Gesù Cristo che uno scettro derisorio.mQuesto scritto è senza nome di autore. Per bocca del suo Capo il mondo cristiano dichiarollo « un insigne monumento d’ipocrisia, ed un ignobile quadro di contraddizioni ». Tale essendo, gli manca valore intrinseco, ed estrinseco. Ciò nulla ostante, quest’opuscolo di ottanta pagine ha messo l’Europa sossopra. Più di dugento scrittori, francesi e stranieri, preti e vescovi, reputarono bene di doverlo confutare. – Un sì grande effetto per una sì piccola causa! Vi è in ciò un mistero. Voi forse, caro amico, giudicherete che bene avrebbero dovuto di leggieri addarsene, e ciascuno domandarsi perché uno scritto assurdo in se stesso, ed impossibile in altre età destasse tanto rumore; perché il senso cristiano sembri così indebolito in Europa, che abbia dovuto temersi la seduzione di un gran numero, se non si fosse con tutta fretta cercato di dimostrare che la notte non è giorno! – Si sono messi dunque all’opera ; e conviene esser giusto dicendo che la difesa è andata più lungi dell’attacco. Nell’opuscolo alcerto non si è veduta altra cosa dall’opuscolo infuori. Sotto la maschera dell’anonimo si è riconosciuto non già l’autore, chiunque esso siasi, né il pensiero personale di un uomo isolato: ma una potenza terribile, contro la quale è paruto necessario il ricorrere a questo grande spiegamento di forze: ed in rispetto a ciò non si sono ingannati. Preso alla lettera, l’opuscolo è stato confutato in tutte le lingue. Onde agli occhi dell’Europa esso è stato, se si vuole, stritolato, polverizzato. Ma possiam dire la stessa cosa della potenza occulta, di cui esso è riguardato come il programma, e la prima prova? Si è detta la sua natura, la sua origine, il mistero della sua forza, e il mezzo di vincerla? Le frasi eloquenti, e gli argomenti perentorii indirizzati contro la figlia, hanno uccisa la madre? l’hanno essi convertita, arrestata? Guardale a quello che accade e succede in Europa da un anno in qua. L’hanno forse almeno illuminata? Pur questo meschino risultato è più che dubbioso. – Che si è fatto adunque? Si è provato, si è dimostrato fino all’evidenza di un assioma di geometria, che l’indipendenza territoriale della S. Sede è necessaria al libero esercizio della sua autorità spirituale;

che il Capo di dugento milioni di Cattolici sparsi per tutte le parti del mondo non può esser l’ospite, e molto meno il pensionato o il vassallo di un re qualunque;

Che il potere temporale del Papa è il più antico, il più sacro, il più paterno, il più utile, il più legittimo di tutti i poteri esistenti;

Che le leggi dello Stato Pontificio non si oppongono alle riforme ed alle libertà vere, non solo più, ma forse anche molto meno, di quello che fanno le leggi di certi paesi che presumono essere a capo della civilizzazione; Che violare il diritto di proprietà, e di sovranità nella persona del Santo Padre, è la stessa cosa che violarlo nella rappresentazione di tutti i proprietarii e di tutti i Sovrani; scuotere tutti i troni; preparare le vie alla democrazia, mettendo in effetto sopra un punto della terra il sogno anarchico che essa si promette di realizzare dappertutto; e commettere in ultimo un atto di demenza e di fellonia che pone ogni cosa a repentaglio, l’ordine sociale più ancora che non l’ordine religioso. – Ecco, mio caro amico, ciò che è stato provato senza replica nelle confutazioni del detto opuscolo, e di altri scritti del medesimo conio. Era ben dovere il ciò fare; e questo dovere è stato nobilmente adempito. I forti sono stati meglio armati, i deboli fortificati, taluni disertori forse illuminati e richiamati; tutti messi in guardia. – Ma che è della potenza contro la quale si è ragionato? Posto che n’avesse bisogno, è stata essa confermata nella sua maniera di vedere, dimostrandosi quel che già da pezza essa ha ben veduto: poiché tutto quello che si è procurato con tanta diligenza di provare, ben essa sel sa. Sel sa da molto tempo; e meglio di qualunque altro. Ma per ciò a punto che lo sa, essa lo vuole, e lo vuole con tale volontà che non hanno mai arrestato, ed è lecito temere, che non arresteranno giammai né le confutazioni, né le grida di allarme, né le protestazioni della giustizia e del buon senso.

Poniamo pure che si sia fatta dubbiosa, e che per poco essa sospenda il suo cammino, o lo rallenti! Tale potenza non però smetterà il suo intento. Sicché fino a quando esisterà sarà una minaccia senza posa contro alla Chiesa, allo Stato, a tutti gl’interessi costituiti ed esistenti. In tal guisa, io ridico, si è attaccato il male nelle sue manifestazioni, e si è ben fatto: ma ciò non basta; bisogna attaccarlo nella sua causa. A che giova tagliare i rami di un albero avvelenato, se lasciate sussistere il tronco e le radici? Il medico che dice all’ammalato: Il vostro stato è grave, gravissimo; può venirne la morte: e ciò provato sino all’evidenza, dipoi si ritira senza indicare né la natura del male, né la causa, né il rimedio; tal maniera di medico, foss’egli membro di tutte le accademie del mondo, dottore di tutte le università, punto non migliora lo stato dell’ammalato. Che cosa si è fatto insinora? Parole di eloquente indignazione furono scagliate dalla penna dei più abili scrittori, dalle labbra dei più grandi oratori. Esse hanno impresso ardenti stimmate in sulla fronte degli uomini che oggigiorno sconvolgono l’ordine sociale, i quali a fin d’arrivare il loro scopo calpestano egualmente le leggi divine ed umane, e senza vergogna, fanno della ingratitudine, della ipocrisia, e della viltà, loro ausiliarii e loro complici. Ma che? Non è questo un arrestarsi alla superficie, senza penetrare il fondo? Non è un prendere l’effetto per la causa, e lo strumento per la mano che lo muove? La rivoluzione guarda tutto ciò con compassione, e ci dice: «Voi sbagliate i vostri colpi. Nel 93, io non era né Marat, né Robespierre, né Babeuf; oggi io non sono né Vittorio Emmanuele, né Garibaldi, né Mazzini, né Kossutb, né alcun altro dei loro complici manifesti o secreti. Questi uomini sono miei figli e miei soldati; ma essi non sono me. Questi uomini sono manifestazioni passeggiere; ma io, io sono uno stato permanente. Essi sono alcuni fatti; io sono un principio ».

Si sono adunque ben vituperati con energia gli uomini della rivoluzione! Di nuovo ripeto: Si è ben fatto. Ma ancora una volta, caro Amico, ciò non basta. Che bisogna dunque fare, e qual è il dovere più imperioso dei Cattolici nelle occorrenze solenni, in cui noi versiamo? Ditemi: se un giorno vedeste i vostri figli, fin a ieri brillanti di salute, divenuti pallidi e languidi, che fareste voi? Di subito, ed a colpo certo voi cerchereste della causa di questo doloroso cangiamento. E tale sarebbe il vostro primo pensiero, poiché tale v’incomberebbe il vostro primo dovere. Conosciuta la causa del male, voi senza più ricorrereste al rimedio. – Or il gran dovere dei Cattolici sta nell’imitarvi. Facciano essi di esaminare seriamente e senza preoccupazione, davanti a Dio e davanti alla storia, come l’Europa, in altri tempi sì cristiana, sia uscita dalla sua via, sino a mettersi in sull’orlo d’abisso; e sì conosceranno quale veramente fosse stata la causa primiera e sempre attiva di questa fatale aberrazione. E conosciuta questa causa, bisogna armarsi di volontà irremovibile di schiantarla, e distruggerla. Or voi, ben sapete, come fuvvi nella vita dell’Europa un’età, in cui, ad onta del peccato originale e delle sue conseguenze inevitabili, l’ordine sociale intero poggiava sopra il Cristianesimo. Idee, leggi, istituzioni, arti, feste, linguaggio, il Cristianesimo informava ogni cosa del suo spirito, imprimeva il suo suggello a tutto. E questo è un fatto. Tutte le posizioni che il Cristianesimo teneva una volta, oggi tienle un nuovo padrone. E questo regna nelle idee, nelle leggi, nelle istituzioni, nelle arti, nelle feste, nel linguaggio. E questo è un altro fatto. – Di tale fenomeno quale n’è la causa? Primieramente chi è mai questo nuovo Padrone, questo Usurpatore audace che incalza il Cristianesimo colla spada alle reni, e tiene la società per la gola, minacciandola di soffocarla, con toglierle la respirazione della fede? Se e’ ricusa di nominarsi, e voi raffiguratelo alle sue opere. Esaminata da vicino l’Europa presente, l’Europa sulla quale egli regna, essa non è né luterana, né calvinista; non né protestante, né giudea, né maomettana: essa è qual cosa di più, o se volete, qual cosa di meno. Ma questo più o meno che è esso mai? Esso si definisce per se medesimo dai suoi grandi caratteri. Ai giorni della Chiesa nascente, satana regnava pienamente sopra il mondo; e ‘1 suo regno si compendiava in una triplice apoteosi.

– Apoteosi della ragione. Non v’erano più credenze stabili: anzi contraddizione universale; eguaglianza di tutte le religioni davanti alla legge; ammissione di tutti gli dei al medesimo Panteon; derisioni perpetue della fede, degli usi, dei costumi e delle tradizioni dei maggiori.

– Apoteosi della carne. Culto universale dei sensi, per il lusso delle vestimenta, delle abitazioni, del nutrimento, e di tutte sorte di voluttà; per una civilizzazione materiale raffinatissima, e messa al servigio di tutte le concupiscenze; per la letteratura e la poesia, pei teatri e per le arti, cantando, glorificando, e riproducendo in marmi, in bronzi, in statue ed in dipinture tutte le infamie degli dei e degli uomini, collocandole con onore dentro a’ palagi, in sulle pubbliche piazze, e nei giardini, e nelle case particolari, e sulle pareti, e nelle volte, e sul suolo, e dappertutto.

– Apoteosi della volontà. In alto, ogni potere temporale e spirituale concentrato in un uomo regnante a suo libero ed anche capriccioso talento, senza alcuno sindacato che avesse in terra, o temesse nel cielo. In basso, l’adorazione servile del Divus Imperatore. Dappertutto, odio del Cristianesimo, che predicava i diritti di Dio, e il principio di libertà; odio del Cristiano, servitore di Dio ed apostolo della libertà; odio del Cristianesimo e del Cristiano insieme, rivelantesi ad ogni modo, con l’ingiuria, e la calunnia, e non risparmiando le carneficine. – Tale fu, contrassegnato dei suoi grandi caratteri il regno di satana sopra il mondo pagano negli ultimi giorni di sua esistenza.

Or ripigliate, mio caro amico, ciascuno di cosiffatti caratteri; studiatevi sopra accuratamente; e vedete se la storia delle nazioni cristiane porga una sola età, eccetto la nostra, ove questa triplice apoteosi sia ricomparita nella pienezza delle sue manifestazioni. Che è tutto questo, se non l’antico paganesimo ritornato nel mondo; tale di certo a cui, per esser compito, non manca altro che la forma plastica? Ove non si voglia chiudere volontariamente gli occhi alla luce, non v’ha di che prendere abbaglio: e però diciamo che l’Usurpatore, che noi abbiamo a combattere, è quel desso che il Cristianesimo nascente trovò re e dio di questo mondo. In quanto a noi, come accadeva a’ nostri primi padri, la vera lotta non è contro uomini di carne e di sangue, sì bene contro le potenze dell’aria, contro gli spiriti del male, ritornati reggitori di questo mondo di tenebre. Non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates, adversus mundi rectores tenebrarum harum, contra spiritualia nequitiæ, in cælestibus (Ad Ephes. V. 12). Ciò posto, qual è la natura della guerra, che noi abbiamo a sostenere? Evidentemente la nostra si mostra dover essere una reazione anti-pagana. Ogni altra guerra è cieca, sterile, infelice: l’invasione del paganesimo è universale, incessante; dunque la reazione vuol essere universale, incessante. E questa è la grande, anzi unica necessità della nostra epoca. La società può vivere senza strade di ferro, senza telegrafi elettrici, senza giornali, senza cannoni rigati, ed anche senza Camere legislative, mute o parlanti; ma al punto in cui essa si trova, non può a meno di fare una reazione antipagana, più certo che non possa fare a meno sia di pane per nutrirsi, sia di aria per respirare. – Onde la è questa letteralmente, questione di vita o di morte. – Ma rimane a sapere per qual mistero l’antico tiranno dell’umanità, dopo mille anni di scacciamento, or si trovi vivissimo ed onnipotente in seno alle nazioni cristiane? Quest’altra questione fornirà argomento alla mia prossima lettera.

Tutto vostro etc.

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (5)

G Dom. Jean de MONLÉON

Monaco Benedettino

Il Senso Mistico dell’APOCALYSSE (5)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat: Elie Maire Can. Cens. Ex. Off.

Imprimi potest: t Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur: Lutetiæ Parisiorum die II nov. 194

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Seconda Visione

LA CORTE CELESTE

TERZA PARTE

L’APERTURA DEI SIGILLI

Capitolo VI, (1-17)

“E vidi come l’Agnello aveva aperto uno dei sette sigilli, e sentii uno dei quattro animali che diceva con voce quasi di tuono: Vieni, e vedi. E mirai: ed ecco un cavai bianco, e colui che v’era sopra aveva un arco, e gli fu data una corona, e uscì vincitore per vincere. E avendo aperto il secondo sigillo, udii il secondo animale che diceva: Vieni, e vedi. E uscì un altro cavallo rosso: e a colui che v’era sopra fu dato di togliere dalla terra la pace, affinché si uccidano gli uni e gli altri, e gli fu data una grande spada. E avendo aperto il terzo sigillo, udii il terzo animale che diceva: Vieni, e vedi. Ed ecco un cavallo nero: e colui che v’era sopra aveva in mano una bilancia. E udii come una voce tra i quattro animali che diceva: Una misura di grano per un denaro, e tre misure d’orzo per un denaro, e non far male al vino, né all’olio. E avendo aperto il quarto sigillo, udii la voce del quarto animale che diceva: Vieni, e vedi. Ed ecco un cavallo pallido: e colui che vi era sopra ha nome la Morte, e le andava dietro l’inferno, e le fu data potestà sopra la quarta parte della terra per uccidere colla spada, colla fame, colla mortalità e colle fiere terrestri. E avendo aperto il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di quelli che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testimonianza che avevano, e gridavano ad alta voce, dicendo: Fino a quando. Signore santo e verace, non fai giudizio, e non vendichi il nostro sangue sopra coloro che abitano la terra? E fu data ad essi una stola bianca per uno: e fu detto loro che si dian pace ancor per un poco di tempo sino a tanto che sia compito il numero dei loro conservi e fratelli, i quali debbono essere com’essi trucidati. E vidi, aperto che ebbe il sesto sigillo: ed ecco si fece un gran terremoto, e il sole diventò nero, come un sacco di pelo: e la luna diventò tutta come sangue: e le stelle del cielo caddero sulla terra, come il fico lascia cadere i suoi fichi acerbi quand’è scosso da gran vento. E il cielo si ritirò come un libro che si ravvolge, e tutti i monti e le isole furono smosse dalla sede: e i re della terra, e i principi, e i tribuni, e i ricchi, e i potenti, e tutti quanti servi e liberi si nascosero nelle spelonche e nei massi delle montagne: e dicono alle montagne ed ai massi: Cadete sopra di noi, e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello: perocchè è venuto il gran giorno della loro ira: e chi potrà reggervi?”

§ 1. — Il Cavallo bianco

Nel capitolo precedente, San Giovanni ha riportato la visione che ebbe di un libro sigillato contenente alcune profezie sul futuro del Cristianesimo. Ora l’Agnello aprirà il libro e rivelerà all’Apostolo qualcosa dei misteri in esso contenuti. Uno dopo l’altro i sette sigilli saranno aperti, e ognuno darà un’idea dello stato della Chiesa nei momenti più importanti del suo sviluppo: il primo la mostrerà alla sua nascita, e quando si lancia alla conquista del mondo; i tre successivi specificheranno le varie persecuzioni che l’assaliranno di volta in volta; il quinto manifesterà la gloria di cui godrà, fino al presente, nella persona dei suoi martiri; il sesto annuncerà il trionfo dell’Anticristo ed il settimo, l’inizio della beatitudine eterna. « E vidi – dice l’Apostolo – che l’Agnello aveva rotto uno dei sette sigilli, e sentii una dei quattro animali, cioè uno dei quattro Evangelisti, che diceva con voce simile il rumore del tuono, perché era impossibile non sentirla: « Vieni e vedi ». Vieni, cioè avvicinati, non fisicamente, ma in spirito; avvicinati ai misteri divini, invece di allontanarti da essi, come fa la maggior parte degli uomini, per occuparsi solo delle cose terrene; applicati a penetrarli e, illuminato dalla luce divina, vedrai, capirai ciò che è nascosto sotto questi simboli. » Ed io guardai, ed ecco, un cavallo bianco che avanzava. Questo primo cavallo, secondo l’opinione unanime dei commentatori, rappresenta i primi predicatori del Vangelo. Come quei nobili animali che sono stati compagni inseparabili dell’uomo in guerra per secoli, e che hanno messo tutta la loro velocità, tutta la loro forza, tutto il loro ardore al servizio del loro padrone con generosità smisurata, gli Apostoli ed i primi discepoli sono andati per il mondo, portando il Verbo alle nazioni, gettandosi a corpo morto, sotto la sua guida, nella lotta contro il male. Giobbe aveva già visto nel cavallo l’immagine del predicatore del Vangelo, quando diceva: « Il fiato orgoglioso delle sue narici sparge il terrore, egli colpisce la terra con il piede, si lancia in avanti con audacia, corre con ardore incontro agli uomini armati. Disprezza la paura e non ha paura delle spade. Le frecce gli fischiano intorno, le asce e gli scudi risuonano senza intimidirlo. Schiuma e trema, e sembra voler divorare la terra; è impavido al suono della tromba. Appena sente il suono della carica, dice: « Andiamo ». Sente la guerra da lontano, comprende l’incoraggiamento dei capi e le grida dei soldati » (XXXIX, 20-26). – Questo cavallo è bianco per evocare l’eccezionale purezza dei costumi di questi primi Cristiani, che avevano preso nelle fresche acque del Battesimo il candore della neve, e che conservavano, in mezzo ai pagani, una santità di vita immacolata. E colui che lo cavalcava, cioè il Cristo, che gli Apostoli portavano ai Gentili e che li dirigeva in tutte le loro imprese, teneva un arco in mano. Quest’arco non è altro che la Sacra Scrittura, le cui parole sono usate come frecce per mettere in fuga il diavolo, per confondere i nemici della Chiesa, o per trafiggere le anime sante con le ferite dell’amore che le fanno morire al mondo ed al peccato. Egli ha ricevuto la corona come segno del suo diritto al dominio universale. Questo diritto gli fu confermato dal Padre suo dopo la sua Resurrezione, anche se lo possedeva da tutta l’eternità a causa della sua natura divina. Ed uscì da quel popolo che, scelto da Dio per donare il Messia, era stato infedele alla sua missione, lo aveva rinnegato, disprezzato, crocifisso, e aveva fatto tutto ciò che poteva per soffocare la Chiesa nascente; esso uscì dalla Giudea, sconfiggendo il diavolo con la sua umiltà, il mondo con la sua povertà, la sensualità con il suo amore per la sofferenza.; uscì dunque per riportare altri trionfi, per conquistare gli uomini con la dolcezza penetrante dei suoi esempi, con la verità luminosa dei suoi insegnamenti, e così guadagnarli tutti al regno dei cieli.

§ 2 – Gli altri tre cavalli.

Ma il diavolo non si accontentò di essere sconfitto: sulle orme del cavallo bianco, lanciò altri tre cavalli, tre cavalli propri, che rappresentano le tre forme principali della lotta condotta contro la Chiesa nel corso dei tempi: il cavallo rosso simboleggia le persecuzioni sanguinose; il cavallo nero, le grandi eresie; il cavallo pallido, le ipocrisie e i tradimenti dei cattivi Cristiani. Quando il secondo sigillo fu aperto, San Giovanni vide uscire un altro cavallo, che era rosso, il colore del sangue. E colui che lo cavalcava, cioè il diavolo, i cui agenti sono i persecutori, ricevette il potere di distruggere la pace della terra. Dio ha permesso al diavolo di sollevare violente tempeste contro la Chiesa, così come aveva permesso che esercitasse la sua furia contro Giobbe in passato, non per distruggerla, ma per far risplendere la sua virtù. Gli ha dato una spada di grandi dimensioni, quando gli ha permesso di usare il potere romano a proprio vantaggio, per colpire la Chiesa nella sua carne viva e cercare di tagliarla fuori dal mondo. Non appena si scatena una persecuzione, gli uomini danno libero sfogo ai loro peggiori istinti: si scatenano, si inseguono, si uccidono l’un l’altro con la massima crudeltà. E questa lotta fratricida penetra anche nel seno delle famiglie, come aveva annunciato Nostro Signore: Sarete consegnati alla morte dai vostri genitori, dai vostri fratelli, dai vostri parenti, dai vostri amici. Ecco perché San Giovanni ha visto qui che le persone si consegnavano alla morte una ad una. Ma quando il sangue scorreva liberamente, il diavolo, vedendo che era inutile per lui fare martiri, e che, al contrario, la Chiesa usciva ogni volta più forte e vivace dalle persecuzioni con cui la affliggeva, il diavolo, dico, si risolse a cambiare tattica, e cercò di allontanare gli uomini dalla vera fede fomentando le eresie. Questa nuova forma di guerra è annunciata dal cavallo nero, che uscì all’apertura del terzo sigillo, ed il cui cavaliere teneva in mano una bilancia. Questo cavallo è nero perché, tra tutti i colori, questo è il più refrattario alla luce: ora, gli eretici sono, tra tutti i peccatori, i più incapaci di riflettere la luce della verità, cioè Cristo stesso. Il profeta Geremia aveva scritto nello stesso senso: I loro volti sono più neri dei carboni. Santa Teresa ha notato bene questo punto nel suo racconto della visione in cui la sua anima le fu mostrata in forma di specchio, in cui apparve Gesù Cristo: « Con l’aiuto della luce che mi è stata data – scrive – ho visto come, appena l’anima commette un peccato mortale, questo specchio si copre di una grande nuvola e rimane estremamente nero, così che Nostro Signore non può rappresentarsi in esso o essere visto in esso, sebbene sia sempre presente, in quanto dà l’essere. Per quanto riguarda gli eretici, è come se lo specchio fosse rotto; una disgrazia incomparabilmente più terribile che se fosse solo oscurato. – E il cavaliere che lo cavalcava aveva una bilancia in mano: cioè, pesava le cose nella sua mano, e questa gli serviva da bilancia. Questa è un’immagine di ciò che fanno gli eretici quando pretendono di giudicare tutte le cose, e specialmente il significato delle Scritture, secondo il loro proprio modo di vedere, senza tener conto delle regole che la Chiesa ha stabilito. Lutero aveva in mano una bilancia quando, disprezzando un insegnamento vecchio di quindici secoli, inventò la teoria del libero esame; e Calvino lo imitò quando osò stabilire la società cristiana su nuove basi, o quando spiegò la presenza di Cristo nell’Ostia Sacra in un modo fino ad allora sconosciuto. I veri Dottori, invece, e gli autentici maestri della fede cattolica, incatenando con San Paolo la loro mente alla sequela di Cristo, pesano ogni cosa nella bilancia della Tradizione, stando attenti a non esercitare la minima pressione per alterare i dati. Essi si attengono fedelmente alle spiegazioni elaborate dai santi Padri e, riesprimendole in forme più adeguate alle esigenze del loro tempo, le mantengono tuttavia nel medesimo quadro, secondo il consiglio del sacro autore: « Non oltrepassate i venerabili confini che i vostri padri hanno posto » (Deut., XIX, 4). Gli eventi degli ultimi anni mostrano che il cavaliere sul cavallo rosso non ha perso nulla della sua crudeltà e che è ancora pronto, oggi come in passato, ad esercitare la più sanguinaria violenza contro la Chiesa. Ma anche il guerriero sul cavallo nero non si è arreso. Armato delle sue false bilance, lavora instancabilmente per minare la fede viziando l’interpretazione autentica della Sacra Scrittura. È lui che spinge i commentatori ad abbandonare il significato mistico dell’Apocalisse, troppo spesso i pesi esatti stabiliti dai Padri, per sostituirlo con il loro giudizio personale o quello di autori eterodossi. Di fronte a questa devastazione, la Chiesa sente il bisogno di rassicurare i suoi fedeli, che sono allarmati e temono che la fede sia presto sommersa sotto la marea montante dell’ipercritica e del razionalismo. Dal mezzo dei quattro animali, cioè solidamente appoggiata sulla dottrina del Vangelo, fa sentire la sua voce: « Non temere – essa dice – piccolo gregge: la verità non ha nulla da temere dal progresso dell’errore ». Se saprete rimanere semplici come bambini; se porterete a Dio il danaro di una fede pura, fiduciosa, senza riserve, otterrete sempre, in cambio, una doppia libbra di grano, o tre doppie libbre di orzo, cioè la doppia comprensione della Scrittura, pesata col suo vero peso, nel suo senso letterale e nel suo senso mistico. » Il grano rappresenta il Nuovo Testamento, che è il cibo perfetto per l’anima, come il grano lo è per il corpo. L’orzo, un cibo più ruvido, simboleggia l’Antico Testamento, e ne servono tre misure: perché invece di avere l’unità del Nuovo, è suddiviso in tre parti ben distinte: la Legge, i libri storici ed i Profeti. Oggi, come venti secoli fa, Dio continua a rivelare all’umile e ai piccoli ciò che nasconde ai dotti e ai sapienti di questo mondo. La verità può essere oscurata dai figli degli uomini, ma non sarà occultata. Dio vigila e non permetterà che il significato autentico della Sua parola sia alterato nella Sua Chiesa. Per questo la voce profetica continua: Non toccate né vino né olio, indicando così che al diavolo e a coloro che lavorano per lui è proibito togliere alla Scrittura qualcosa della sua forza o della sua dolcezza. Alle persecuzioni sanguinose, alle eresie dichiarate, il principe delle tenebre aggiunge ora un nuovo nemico: sono gli ipocriti, gli uomini che si danno l’aspetto esteriore della santità e che, grazie al prestigio così ottenuto, seducono gli ignoranti, portandoli alla loro rovina. Questi sono quelli che furono mostrati a San Giovanni, all’apertura del quarto sigillo, sotto la figura di un quarto cavaliere: E vidi un cavallo pallido che avanzava; e colui che lo cavalcava si chiamava Morte, cioè il diavolo. Perché è il padre della morte più terribile, la vera morte, quella che separa l’anima da Dio per sempre. E l’inferno camminava dietro di lui, perché ovunque egli vada, trascina con sé fuoco, disordine e sofferenza. Questo cavallo pallido è dunque la figura degli ipocriti, di coloro che, conducendo apparentemente una vita santa e senza macchia, generano con il loro orgoglio segreto quelle innumerevoli eresie subdole, che rinascono continuamente in nuove forme. Hanno potere sulle quattro parti della terra, cioè sulle quattro categorie di uomini che condividono la fede in Dio: Cristiani, ebrei, pagani ed eretici. Infatti, questi seduttori si trovano in tutte le sette religiose, ma soprattutto nel Cristianesimo. Essi hanno il potere di distruggere le anime con la carestia, privandole della parola di Dio e dei sacramenti; con la spada, trafiggendole con le loro perfide suggestioni; con la morte, separandole dalla vita della Chiesa; con le bestie della terra, scatenando segretamente i loro istinti malvagi, che poi provocano un terribile caos.

§ 3 – Il quinto e sesto sigillo.

Questo è un riassunto dei nemici che devono perseguitare la Chiesa durante la sua esistenza sulla terra. Per incoraggiarci nell’attenderli, San Giovanni ci darà ora un assaggio delle consolazioni riservate a coloro che avranno sofferto per Gesù Cristo: E quando ebbe rotto il quinto sigillo, vidi l’altare, cioè, strettamente unite al Sacrificio del Salvatore, le anime di coloro che furono messi a morte per aver dato testimonianza alla Parola di Dio, ed esse gridarono per il pressante desiderio di ritrovare i loro corpi. Ma il desiderio di cui si parla qui, notiamo, non comporta nessuna impazienza, nessuna ansia: esso è solo quello di vedere il regno di Dio prendere la sua forma completa e perfetta il più presto possibile. Gridavano a gran voce: « Quanto tempo aspetterete, o Signore, Voi che siete santo in tutte le vostre opere e fedele nelle vostre promesse, per pronunciare il vostro giudizio e vendicare il vostro sangue? Quando punirete i nostri persecutori, che vivono in pace sulla terra, perfettamente felici, come se non avessero nulla da rimproverarsi, e che godono di tutti i beni passeggeri, senza desiderare altro? » Anche qui, guardiamoci dall’attribuire ai Santi pensieri di vendetta: il castigo che essi invocano sui loro persecutori non è una riprovazione definitiva, ma una prova temporale che porti questi sventurati a fare penitenza e ad evitare così la morte eterna.

E a ciascuno di loro fu data una veste bianca. Questa veste rappresenta la beatitudine che i teologi chiamano essenziale, e che le anime degli eletti godono fin d’ora,  attraverso la contemplazione dell’Essere di Dio, in attesa della gioia completa che risulterà loro dalla riunione con i loro corpi glorificati. E fu detto loro di pazientare ancora un po’: un po’, perché il tempo che ci separa dal Giudizio è poca cosa, se paragonato all’eternità; finché sia completato il numero di coloro che servono Dio con essi (cioè i confessori) e dei loro fratelli, che devono essere messi a morte come loro (cioè i martiri). Poi, quando gli eletti avranno raggiunto il loro numero finale, recupereranno i loro corpi; il male scomparirà dalla terra ed il regno di Dio sarà stabilito per l’eternità. Non siamo ancora arrivati a questo punto, e dopo questo sguardo verso il cielo, San Giovanni ci riporta al mondo presente: qui arriva l’ultima persecuzione, la più terribile di tutte, quella dell’Anticristo, segnata dall’apertura del sesto sigillo. Il terremoto che lo annuncia rappresenta lo sconvolgimento generale che deve preludere a questi giorni terribili. Il sole diventerà nero come tela di sacco; vale a dire, Cristo, il Sole di giustizia, sarà oltraggiato in mille modi; sembrerà ritirarsi dalla terra, mentre l’Anticristo moltiplicherà i suoi prodigi. Allora, secondo la parola di Nostro Signore, sorgeranno falsi profeti, capaci di ingannare, se si potesse, gli stessi eletti (Matth., XXIV, 24). Allora tutta la luna diventerà come sangue: la Chiesa sarà insanguinata dalla persecuzione più crudele. Le stelle cadranno dal cielo sulla terra: i prelati che dovrebbero servire da luce e guida agli altri uomini apostateranno, sedotti dai falsi miracoli dell’Anticristo, o scossi dalla violenza dei tormenti di cui saranno minacciati. E verranno a mancare in gran numero, e cadranno come cadono i primi fichi quando la ficaia viene scosso da un forte vento. – E il cielo è scomparso come un libro, cioè: la Scrittura diventerà un libro chiuso per la stragrande maggioranza degli uomini; nessun predicatore svilupperà più il senso della parola di Dio; e lo stesso culto della Chiesa, quel culto che, con i suoi canti, la sua pompa, i suoi riti, evoca la liturgia del cielo, scomparirà dalla faccia della terra: la persecuzione sarà così generale che il Santo Sacrificio non potrà più essere celebrato pubblicamente in nessun luogo; la vita cristiana non sussisterà che nascondendosi nel segreto. Un panico indescrivibile si impadronirà dell’umanità all’avanzare del giorno del giudizio: montagne e isole saranno scosse dai loro posti, perché coloro che sembravano fermi come una montagna, indipendenti di spirito come un’isola in mezzo al mare, fuggiranno o apostateranno davanti alla persecuzione dell’Anticristo. E quelli che si credevano padroni della terra: re, principi, tribuni, la cui eloquenza manipolava le folle a volontà, i ricchi e i potenti; e quelli che vivevano come se non avessero nulla da temere: gli schiavi del peccato e gli uomini che si sono liberati dalla legge di Dio, tutti loro si nasconderanno nelle grotte e nelle rocce dei monti. E diranno ai monti e alle rocce: « Cadeteci addosso e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello ». Poiché ecco, viene il gran giorno della loro ira, e chi potrà resistere? Perché tutti i tormenti, non eccetto quelli dell’Inferno, saranno, secondo i teologi, preferibili agli scoppi dell’indignazione del Giudice Sovrano. Giobbe aveva già detto nello stesso senso: a malapena avremo sentito una piccola goccia delle sue parole, chi potrà allora considerare il tuono della sua grandezza? (XXVI, 12).

QUARTA PARTE

LA CHIESA TRIONFANTE

Capitolo VII – (1- 17)

“Dopo queste cose vidi quattro Angeli che stavano sui quattro angoli della terra, e ritenevano i quattro venti della terra, affinché non soffiassero sopra la terra, né sopra il mare, né sopra alcuna pianta. E vidi un altro Angelo che saliva da levante, e aveva il sigillo di Dio vivo: e gridò ad alta voce ai quattro Angeli, ai quali fu dato di far del male alla terra e al mare, dicendo: Non fate male alla terra e al mare, né alle piante, fino a tanto che abbiamo segnati nella loro fronte i servi del nostro Dio. E udii il numero dei segnati, cento quaranta quattro mila segnati, di tutte le tribù dei figliuoli d’Israele. Della tribù dì Giuda dodici mila segnati:

della tribù di Ruben dodici mila segnati:

della tribù di Gad dodici mila segnati:

della tribù di Aser dodici mila segnati:

della tribù di Neftalì dodici mila segnati:

della tribù di Manasse dodicimila segnati:

della tribù di Simeone dodici mila segnati:

della tribù di Levi dodici mila segnati:

della tribù di Issacar dodici mila segnati:

della tribù di Zàbulon dodici mila segnati:

della tribù di Giuseppe dodici mila segnati:

della tribù di Beniamino dodici mila segnati.

Dopo questo vidi una turba grande che niuno poteva noverare, di tutte le genti, e tribù, e popoli, e lingue, che stavano dinanzi al trono e dinanzi all’Agnello, vestiti di bianche stole con palme nelle loro mani: e gridavano ad alta voce, dicendo: La salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli stavano d’intorno al trono, e ai seniori, e ai quattro animali: e si prostrarono bocconi dinanzi al trono, e adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione, e gloria, e sapienza, e rendimento di grazie, e onore, e virtù, e fortezza al nostro Dio pei secoli dei secoli, così sia. E uno dei seniori mi disse: Questi, che sono vestiti di bianche stole, chi sono? e donde vennero? E io gli risposi: Signor mio, tu lo sai. Ed egli mi disse: Questi sono quelli che sono venuti dalla grande tribolazione, e hanno lavato le loro stole, e le hanno imbiancate nel sangue dell’Agnello. Perciò sono dinnanzi al trono di Dio, e lo servono dì e notte nel suo tempio: e colui che siede sul trono abiterà sopra di essi: non avranno più fame, né sete, né darà loro addosso il sole, né calore alcuno: poiché l’Agnello, che é nel mezzo del trono, li governerà, e li guiderà alle fontane delle acque della vita, e Dio asciugherà tutte le lacrime dagli occhi loro.”

§ 1. — Il segno del Dio vivente

Dopo averci mostrato, nel capitolo precedente, qualcosa dei rigori del giudizio di Dio, l’autore, per ristabilire la nostra fiducia, solleverà ora un angolo del velo che nasconde alla terra la beatitudine degli eletti: « Vidi allora – ci dice – quattro Angeli ai quattro angoli della terra, che tenevano a freno i quattro venti della terra, per impedire che soffiassero sulla terra, sul mare e su qualsiasi albero. Questi quattro Angeli sono in realtà quattro demoni: il demone infatti, cadendo dal Paradiso, non ha perso la sua natura angelica. Continua persino, come gli spiriti beati, a servire Dio, anche se contro la sua volontà: la sua gelosia e il suo malcostume sono utilizzati dalla Sapienza divina a prova dei giusti. I quattro venti che si impedisce di soffiare sulla terra, rappresentano la predicazione della Chiesa, che diffonde la dottrina dei quattro Vangeli nel mondo. Egli sa bene che nulla è così utile alle anime come la conoscenza della parola di Dio: per questo cerca di ostacolarla con ogni mezzo. L’autore del Cantico dei Cantici usa la stessa immagine quando chiama questi venti sulla sposa per darle tutta la sua bellezza: « Alzati, Aquilone – dice – vieni, vento del sud, e soffia nel mio giardino, perché dia tutta la sua fragranza » (IV, 16.) Come la rosa dei venti, cioè tutta la varietà delle correnti atmosferiche che fecondano la terra, è determinata da quattro punti cardinali, così la predicazione che porta il seme divino alle anime è ordinata interamente intorno a quattro punti fondamentali: il cielo, l’inferno, la fuga dal peccato e la pratica della virtù. – Il diavolo cerca di impedire che questi venti benefici soffino sulla terra, sul mare e sugli alberi, cioè sugli uomini di tutte le condizioni; la terra rappresenta le anime di buona volontà, che sono capaci di lasciarsi solcare dal vomere della predicazione e di far fruttificare la parola ricevuta; il mare è l’immagine dei peccatori instabili ed inquieti; infine, gli alberi sono l’immagine dei giusti, perché, come loro, portano frutto, cioè le loro buone opere; lavorano continuamente per elevarsi verso il cielo, stendono intorno a loro i rami della loro carità, e riparano gli altri uomini all’ombra dei loro buoni esempi, dei loro consigli e delle loro consolazioni. Mentre i demoni cercavano di ostacolare la diffusione del Vangelo sulla terra, San Giovanni vide un altro Angelo apparire in direzione del Sol Levante. Questo era l’Angelo del Gran Consiglio, cioè Cristo in persona. È salito dall’Oriente, cioè è uscito dal seno della luce eterna, ed ha portato con sé, per imprimerlo nel suo popolo, il sigillo del Dio vivente, il segno che dà ogni potere sulla terra, nel cielo e negli inferi, il segno della croce. Allo stesso modo, vediamo nel profeta Ezechiele, un messaggero celeste che imprime il marchio del Tau, cioè della croce, sulla fronte dei giusti di Gerusalemme. Ma questo segno del Dio vivente è anche, in un senso più generale, la potenza che Cristo possedette quando viveva sulla terra, e con il quale manifestava chiaramente che Egli stesso era il Dio vivente, il vero Dio, uguale in tutto al Padre suo. San Pietro, che assisteva ogni giorno ai suoi miracoli, non si sbagliava: fu il primo a confessarlo pubblicamente a Cesarea: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. » E fu questo segno che il centurione aveva riconosciuto nei prodigi che seguirono la crocifissione e che gli fece gridare: « Veramente, questo era il Figlio di Dio. » Questa apparizione di Cristo, nella visione che stiamo analizzando, si riferisce più particolarmente al miracolo della risurrezione e a tutto ciò che seguì: fu allora, infatti, che Nostro Signore si manifestò ai suoi con tutta la sua potenza. – E gridò forte quando la predicazione dei suoi Apostoli si diffuse su tutta la terra. E fece sapere ai quattro angeli, ai quali era stato dato il permesso di perseguitare la terra e il mare, cioè i demoni, che i loro sforzi sarebbero stati vani, che non avrebbero ostacolato il progresso della nuova Religione, che non avrebbero impedito a Dio Onnipotente di realizzare i suoi piani di chiamare, giustificare, glorificare coloro che Egli ha predestinato a diventare conformi all’immagine di Suo Figlio (Rom. VIII, 29-30). È in questo senso che dobbiamo comprendere le seguenti parole: Non distruggete la terra, il mare e gli alberi, finché non segniamo sulla loro fronte i servi del nostro Dio. I servi di Dio sono segnati sulla loro fronte quando non arrossiscono per la loro fede o per la croce del loro Maestro. – Questo marchio non li esime dagli attacchi del diavolo e dalle persecuzioni dei peccatori, al contrario: dà loro solo la forza di superare tutte queste prove e di volgerle a loro vantaggio spirituale.

§2. — Gli eletti di Israele.

E sentii il numero di coloro che erano stati segnati: centoquarantaquattromila di tutti i figli d’Israele. – Dio mostra ora all’amato Apostolo l’immenso esercito di coloro che, grazie a questo segno misterioso, saranno sfuggiti al dominio del diavolo. Sebbene in questa moltitudine non ci sia più alcuna distinzione, secondo San Paolo, tra Giudeo e Gentile, Barbaro e Scita, schiavo e uomo libero (Col. III, 11), San Giovanni separa nella sua descrizione i figli di Israele dalla massa degli eletti. Egli propone un doppio insegnamento. Da un lato, vuole far capire ai primi che non basta appartenere al popolo eletto e discendere da Abramo secondo la carne per essere salvati: bisogna ancora essere annoverati tra i segnati, bisogna essere stati segnati da Cristo con il segno della vita. – D’altra parte, vuole mettere in evidenza la gerarchia che esisterà in cielo tra i Cristiani che avranno seguito la via stretta dei consigli evangelici e quelli che si saranno accontentati della via più ampia e facile dei Comandamenti di Dio. I Giudei rappresentano qui i primi, cioè coloro che hanno praticato la circoncisione spirituale su se stessi, sul loro cuore, sui loro occhi, sulla loro lingua, attraverso l’abitudine alla mortificazione. Sono centoquarantaquattromila, come i vergini di cui si parlerà più avanti, che seguono l’Agnello ovunque vada. Questo numero ha ovviamente solo un valore simbolico. Senza cercare di seguire i Padri nelle spiegazioni che danno, che confondono un po’ le nostre nozioni moderne di aritmetica, riassumeremo solo il loro pensiero dicendo che, se lo analizziamo semplicemente secondo la sua enunciazione, contiene al suo interno la perfezione della carità (mille), quella delle opere (cento), quella della penitenza (quaranta), quella delle virtù evangeliche (quattro), indicando così gli elementi essenziali di ogni santità. Inoltre, questi beati sono raggruppati in dodici tribù, per mostrare prima di tutto che si ricollegano ai dodici Apostoli, come il popolo d’Israele discende dai dodici figli di Giacobbe; ma anche per farci capire che tutti i Santi non hanno seguito lo stesso cammino. Alcuni sono stati santificati nella vita attiva, altri nella vita contemplativa. Alcuni erano ammirevoli per le loro austerità, altri per il loro spirito di sacrificio, altri per la loro obbedienza, altri per la loro carità. I nomi delle dodici tribù, intesi secondo il loro significato mistico, specificheranno dodici punti la cui pratica diligente può condurci alla perfezione. – Notiamo subito che la tribù di Dan non appare nell’enumerazione che segue. La tradizione ha sempre attribuito questa omissione, certamente volontaria, al fatto che l’Anticristo debba provenire da questa tribù. Sant’Ireneo ce lo insegna con le sue stesse parole: « Geremia – scrive – ha mostrato non solo l’avvento improvviso dell’Anticristo, ma anche la tribù da cui verrà, quando dice: … Il rumore dei suoi cavalli si sente da Dan, e alla voce dei nitriti dei suoi soldati tutta la terra è scossa; ed essi sono venuti ed hanno divorato la terra e tutto ciò che è in essa, la città e coloro che vi abitano. Ecco perché questa tribù non è nominata nell’Apocalisse, insieme a coloro che saranno salvati. (Contra Hæreses, Lib. V, cap. 30, 2. – Pat. Pat. VII. – Jerem. VIII, 16.2). Questa opinione è anche dovuta al passo della Genesi, dove Giacobbe paragona questo figlio ad un serpente (XLIX, 17). Eliminata così la tribù di Dan, San Giovanni, per rimanere fedele al numero di dodici, divide quella di Giuseppe; ma, invece di nominare i due figli di questo patriarca, Efraim e Manasse, come ci si aspetterebbe, cita Giuseppe stesso, e poi Manasse: è perché gli ripugna menzionare Efraim tra i santi, perché fu un discendente di costui, Geroboamo, che commise l’orribile crimine di introdurre l’idolatria nel popolo di Dio, facendo fare due vitelli d’oro e stabilendo il culto sacrilego che sarebbe stato dato loro (III Re, XII). – Da questa doppia esclusione, non dobbiamo concludere che nessuno dei discendenti di Dan o di Efraim sarà salvato: il pensiero dell’autore non si limita, ripetiamo, al popolo giudaico; esso abbraccia tutta l’umanità; egli vuole farci capire che nessuno di coloro che avranno aderito al partito dell’Anticristo, così come nessuno di coloro che avranno condotto i Cristiani all’idolatria, potrà prendere posto tra i beati. – Torniamo ora all’enumerazione delle dodici tribù ed al loro significato mistico: 12.000 segnati della tribù di Giuda. Giuda è nominato per primo, anche se è solo il quarto dei figli di Giacobbe. L’autore vuole mostrarci, con questa apparente illogicità, che si tratta qui di generazione spirituale piuttosto che di discendenza naturale. Il nome di Giuda, infatti, significa “confessione”, e la confessione dei peccati è il primo atto da compiere nell’ordine della perfezione. È lì che si acquisisce la vera conoscenza di sé, che è la base indispensabile per l’ascesa in Dio. I dodicimila segnati della tribù di Giuda rappresentano dunque tutti coloro che, con l’umile confessione delle loro colpe, sono saliti, come il Santo Re Davide, Santa Maria Maddalena, Santa Thais e tanti altri, alla beatitudine eterna. 12.000 della tribù di Ruben. Dopo la conoscenza di sé, che è il fondamento dell’edificio spirituale, vedremo le tre virtù teologali. Ed ecco prima di tutto la fede, che San Paolo ci dice essere la sostanza delle cose (Ebr. XI). Essa è rappresentata da Ruben il cui nome significa: figlio della visione. Designa misticamente coloro che, vedendo Dio nell’oscurità della fede, si fanno figli di questa visione, cioè ne traggono il principio della loro vita. Ma, poiché la fede è l’oggetto principale degli attacchi del nemico delle anime, Ruben è seguito da Gad, che significa: cinto, equipaggiato, armato, perché chi abbraccia la fede deve allo stesso tempo – ci dice l’Apostolo – rivestirsi dell’armatura di Dio, per essere in grado di resistere agli agguati del diavolo (Efesini VI, 2). – La tentazione sopportata con coraggio dà origine alla fiducia ed alla gioia, come ci insegna San Giacomo: « Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché quando sarà stato messo alla prova, riceverà la corona della vita » (I, 12). E ancora: Considerate una perfetta gioia, fratelli miei, cadere in varie tentazioni (I, 1). Ecco perché Gad è seguito da Aser, che significa « felice », felice della gioia che porta la speranza. Ed ora ecco la carità: 12.000 dalla tribù di Neftali. Naphtali significa esteso, dilatato, e rappresenta coloro il cui amore abbraccia l’universalità del genere umano, e che vogliono il bene anche per i loro nemici. Ma la carità, una volta accesa nel cuore, lo riempie gradualmente del pensiero di Dio, fino a fargli dimenticare tutto il resto. Alla tribù di Neftali succede quella di Manasse. Questo nome viene interpretato come dimenticato, e raggruppa sotto il suo significato spirituale tutti coloro che, lasciandosi alle spalle le vanità del mondo presente, si applicano alla continua meditazione delle cose celesti. Sotto l’azione di questa meditazione, la durezza naturale del loro cuore si ammorbidisce impercettibilmente; un vero dolore li penetra al pensiero delle sofferenze sopportate da Gesù Cristo, della disgrazia eterna in cui sono precipitate le anime dei malvagi e, soprattutto, del male fatto a Dio dai nostri peccati. – Si passa così alla tribù di Simeone, il cui nome significa: Colui che avverte il dolore. Segue la tribù di Levi, cioè coloro che aggiungono, perché sotto la pressione di questo dolore, moltiplicano le opere buone, aggiungendo alla pratica dei precetti della Legge quella dei consigli evangelici, per raggiungere la perfezione della carità. – Dopo le virtù teologali vengono le virtù cardinali. La giustizia è rappresentata dalla tribù di Issachar. Questo nome è interpretato come ricompensa ed è adatto a tutti coloro che compiono coscienziosamente i loro doveri, per ottenere un giorno la ricompensa eterna. Poi viene la tribù di Zabulon, cioè coloro in cui risiede la forza – questo è il significato della parola – e che sono pronti a sopportare qualsiasi cosa per amore di Dio. La tribù di Giuseppe rappresenta la prudenza, in ricordo della condotta esemplare di questo patriarca in Egitto. E quella di Beniamino, la temperanza, perché questo nome, che significa figlio della mano destra, designa misticamente tutti coloro che sono figli della mano destra, cioè che si governano saggiamente e si lasciano guidare dalla loro ragione, a differenza di coloro che, come figli della mano sinistra, si abbandonano al capriccio dei loro istinti. (Spiegazioni molto più dettagliate del significato mistico delle Dodici Tribù si trovano nei Padri e nei Commentari del Medio Evo. Ci siamo limitati qui a quelle considerazioni che ci sono sembrate le più semplici, le più pratiche, le più adatte ad essere colte dalle menti moderne.)

§ 3. — Gli eletti venuti dalla Gentilità.

Dopo questo ho visto una folla enorme che nessuno poteva contare. Nessuno, cioè nessun uomo vivente su questa terra. Perché va da sé che Dio conosce ogni individuo uno per uno. Essa era composta da tutte le razze, da tutti le tribù, da tutti i popoli e da tutte le lingue. Questa enumerazione ha lo scopo di farci capire che Nostro Signore ha cancellato tutte le divisioni che separavano gli uomini: ha ristabilito l’unità del genere umano intorno alla Sua sacra Persona. Tutti questi eletti così raggruppati stavano in piedi, al contrario dei reprobi di cui il profeta Amos ci dice che cadranno, schiacciati dalla sentenza di dannazione, e non si rialzeranno (VIII, 14). Stavano così alla presenza di Dio, godendo dell’ineffabile felicità di vederLo, e alla presenza dell’Agnello: poiché la contemplazione della santissima umanità del Salvatore è per i beati la fonte di una gioia speciale. Essi erano vestiti con vesti bianche e tenevano le palme nelle mani: alcuni commentatori moderni si sono basati su questo doppio segno per sostenere che questo si riferisce solo ai martiri. Ma questa restrizione non è giustificata: la veste bianca è il simbolo della purezza recuperata nel sacramento del Battesimo, poi in quello della Penitenza. Le palme che più tardi, è vero, divennero l’emblema iconografico del martirio designano semplicemente le vittorie che gli eletti ottennero su se stessi, sul mondo, sul demonio; che ottennero non con belle parole, ma con le loro opere: per questo si specifica che le tenevano in mano, essendo queste il simbolo della loro attività. – E gridavano ad alta voce con voce piena di gioia e di amore: Ave al nostro Dio, cioè: « Se siamo stati salvati dal disastro in cui ci ha portato il peccato del nostro primo padre, è a Dio che lo dobbiamo; a Lui che siede sul trono e all’Agnello, che ha voluto pagare il nostro debito a prezzo del suo sangue. » Così i fedeli attribuiscono a Dio e all’Agnello, indivisibilmente, l’opera della loro salvezza. E tutti gli Angeli, quelli delle più alte gerarchie come quelli delle più basse, stavano in piedi intorno al trono ed ai vegliardi ed ai quattro animali, formando con loro una sola Chiesa; stavano come servi pronti a obbedire, come guardiani pronti a intervenire, come schiere che accolgono i viaggiatori alla fine del loro viaggio. E si prostrarono con la faccia a terra alla presenza del trono e adorarono Dio, celebrando il mistero della Redenzione. – Lungi dal provare la minima gelosia contro gli uomini, per la tenerezza che Dio mostra nei loro confronti, si rallegravano della loro felicità, mettendo in pratica il consiglio dato dal Vangelo al fratello maggiore del figlio prodigo: « Figlio mio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che ho è tuo; avresti dovuto rallegrarti che tuo fratello, che era morto, è tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato  » (Luca. XV, 32).  Essi dicevano: Amen, cioè, « è bene così, è da Dio solo che viene la salvezza; noi lo confessiamo con voi. A Lui dobbiamo ogni benedizione, gloria, sapienza, azione di grazia, onore, virtù e forza nei secoli. Così sia. » Sette parole, per esprimere l’universalità – poiché questo è il valore simbolico del numero sette – della gloria di Dio, e della lode che vogliono rendergli. Per benedizione, essi intendono lo stato di beatitudine in cui essi, che sono al vertice della gerarchia delle creature, sono stabiliti; per gloria, lo splendore di cui sono rivestiti e i beni di cui sono pieni; per sapienza, la conoscenza della verità di cui sono pieni; per azione di grazia, i sentimenti di gratitudine che li animano. Tutto questo lo devono a Dio, così come l’onore di appartenere alla sua corte, la virtù che permette loro di resistere al male, la forza che trovano nella grazia in cui sono confermati. Ma queste parole si applicano ugualmente agli eletti. A Dio devono anche la benedizione, cioè tutti i beni di cui godono nell’ordine temporale e spirituale; la gloria, cioè lo splendore di una vita pura; la sapienza, o conoscenza di Dio e di se stessi; il ringraziamento, invece del solito stato di ingratitudine in cui vive la maggior parte degli uomini e che deriva dai loro primi genitori; l’onore che rendono al loro prossimo con le loro buone azioni; la forza per resistere alle tentazioni e sopportare le prove.

§ 4 – Dove uno dei vegliardi parla a San Giovanni.

E uno dei vegliardi, parlando a nome di tutti ed indovinando le domande che mi ponevo, mi disse: « Quelli che sono vestiti di bianco, sai chi sono e da dove sono venuti? Sai per quale strada sono passati, per arrivare dalla misera condizione degli uomini che vivono sulla terra, ad una tale gloria? » E io risposi: « Mio signore, io non ne so nulla, voi lo sapete. Volete dirmelo? » Con questo, San Giovanni ci mostra come dobbiamo interrogare i testimoni della Tradizione per avere una comprensione delle visioni della Scrittura. Inoltre, non c’è bisogno di consultarli tutti: l’opinione di uno, quando non è in contrasto con gli altri, è sufficiente per darci un’interpretazione esatta. Ecco perché il dialogo è limitato solo ad uno dei vegliardi. – E questi mi rispose: « Questi sono quelli che sono venuti dalla grande tribolazione ». « Sono venuti da essa, cioè sono usciti da essa, sono stati modellati da essa. È essa che li ha fatti ciò che essi sono. Questa « grande tribolazione » designa l’insieme delle prove che devono essere sopportate – da parte del mondo, della carne e del diavolo – da ogni anima che cerca di espiare i suoi peccati. È doloroso per la natura, eppure è poca cosa rispetto alle sofferenze del Purgatorio o a quelle dell’Inferno. Per questo l’autore si accontenta di dire che essa è grande (magna), parola che suggerisce la seguente progressione: magna in mundo, major in Purgatorio, maxima in inferno. – Essi hanno – continua il vegliardo – lavato le loro vesti e le hanno rese bianche nel sangue dell’Agnello. Notiamo che non dice: nel loro stesso sangue, perché, come abbiamo appena dimostrato, non ci si riferisce solo ai martiri, ma a tutti gli eletti. Le due espressioni “lavate” e “rese bianche” non sono assolutamente sinonimi: la prima indica che le macchie sono state rimosse dal Battesimo o dalla Penitenza; la seconda, che queste anime, imitando le virtù di Nostro Signore, hanno assunto un bel colore bianco. Ecco perché sono davanti al trono di Dio: è perché sono così purificati, che gli eletti meritano di godere della visione beatifica. Ed essi Lo servono giorno e notte nel Suo tempio, celebrano perpetuamente la grande liturgia nella patria celeste. E Colui che siede sul trono, Nostro Signore Gesù Cristo in persona, li possederà eternamente: li proteggerà, li governerà e dividerà con loro tutti i suoi beni. Essi non avranno mai più fame, perché saranno nutriti dal Pane supersustanziale (Matth. VI, 11); né sete, perché berranno a volontà alle sorgenti dell’acqua viva. Avranno a disposizione tutto ciò che desiderano e niente li disturberà più. Il sole non cadrà più su di loro, né alcuna intemperia, né dovranno temere alcuna persecuzione o difficoltà. Perché saranno sotto lo scettro dell’Agnello, che è in mezzo al trono, cioè del Cristo, pieno di innocenza e di misericordia. È Lui che li manterrà nel bene, senza che nessuna caduta o errore li possa portare fuori da esso, e li condurrà alle sorgenti delle acque vive, cioè ai tesori della Sapienza, della Potenza e della Bontà divine. Lì troveranno una gioia incontaminata, che nulla potrà ormai togliere loro. Più si attinge a queste sorgenti, più esse appaiono profonde; più si beve da queste acque, più aumenta il desiderio di berne altre. Ma per raggiungerle, dobbiamo prima andare alle cinque fontane che i Giudei hanno aperto nella carne del Salvatore, a quelle cinque sacre piaghe da cui sgorga l’acqua meravigliosa che purifica l’anima, spegne i suoi cattivi desideri e le dà gioia. È di loro che parlava misteriosamente il profeta Isaia quando diceva: Attingerete alle sorgenti del Salvatore le acque della gioia (XII, 3). – E Dio asciugherà tutte le lacrime dai loro occhi. Come spiegare la dolcezza di queste parole? San Giovanni ci dice che le consolazioni divine e la beatitudine eterna andranno a coloro che versano lacrime di compunzione quaggiù, secondo le parole di Nostro Signore stesso: Beati quelli che piangono, perché saranno consolati (Matth. V, 5). L’Apostolo dice: tutte le lacrime, cioè tutti i tipi di lacrime, per mostrare che le cause che fanno piangere i Santi sono diverse: a volte piangono per la perdita delle anime che hanno disprezzato il sangue di Gesù Cristo; a volte sono i loro stessi peccati, o la lunghezza del loro esilio quaggiù, o le persecuzioni che devono soffrire. Ma tutte queste lacrime saranno asciugate, tutti questi dolori diventeranno sorrisi di felicità eterna.

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (6)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. CLEMENTE XIV – “DECET QUAM MAXIME”

Clemente XIV

… È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio … Così inizia questa lettera enciclica tutte dedicata ai prelati perché non abbiano a esercitare il loro ministero per lucro, ma solo animati dal desiderio di piacere a Dio e salvare le anime dei fedeli loro affidati. Ancora più oggi che in una finta apostatica chiesa, i mercenari in essa operante a dannazione dei fedeli, pensano a nutrire il loro ventre, come Gesù stesso li ha descritti, avvertendoci per tempo, nel capitolo X del Vangelo di S. Giovanni …  « … mercenarius autem, et qui non est pastor, cujus non sunt oves propriæ, videt lupum venientem, et dimittit oves, et fugit : et lupus rapit, et dispergit oves; mercenarius autem fugit, quia mercenarius est, et non pertinet ad eum de ovibus… ». Il richiamo del Santo Padre è poi seguito da una serie di indicazioni che pongono il clero in condizione di non approfittare della posizione raggiunta in seno alla Chiesa per fini economici, tradendo così il loro mandato. È quest’ultimo, infatti, uno di quei frutti dai quali siamo chiamati a giudicare la bontà dell’albero da cui provengono, o il suo marcire … apparentemente occulto. Quando la Chiesa Cattolica, in esilio nel deserto, nelle catacombe, nelle caverne, sarà nuovamente libera di operare, liberata dall’azione della sinagoga demoniaca spacciata per angelo di luce, rimetterà ben in vista questo documento infallibile che darà nuovo grande impulso all’azione vivificante e santificante dei prelati al servizio del divin Pastore, quello celeste, e quello “Vicario” in terra, il Santo Padre, Pontefice massimo. Così, nella preghiera, in attesa che il Signore foglia abbreviare questo periodo funesto di dominio del demonio e degli adepti dell’anticristo travestiti da buffoni in talare, leggiamo e meditiamo questa lunga ma utilissima lettera.


Decet quam maxime

1. È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio. Questo per primo raccomandò Gesù Cristo ai suoi discepoli quando li avviò a predicare il Vangelo con queste parole: “Gratis avete ricevuto e gratis donate” (Mt XVIII,8). In più occasioni (1Tm 3,8; Tt 1,7) Paolo l’ha specificamente raccomandato come carattere distintivo di coloro che dovevano essere chiamati al ministero dell’altare. Questo, infine, inculcò Pietro in coloro che furono preposti alla cura delle anime, dicendo: “Pascolate il gregge di Dio che vi è stato affidato, non per l’aspettativa di un turpe lucro, ma volontariamente” (1Pt V,2).

A questo divino mandato si debbono uniformare per primi, con diligenza e con cura, i pastori delle chiese, che debbono essere d’esempio ai fedeli nella predicazione, nella conversazione, nella carità, nella fede: impegno invero minimo se si mostreranno irreprensibili in prima persona. Compete loro inoltre di darsi da fare attivamente affinché nessuno dei ministri ai quali comandano, in nessun modo si permetta di condurre a termine azioni contrarie a tale dettame, tenendo sempre presente l’insigne frase di Ambrogio: “Non basta che tu non cerchi il vantaggio economico; anche le mani dei tuoi familiari devono essere tenute a freno. Dai dunque istruzioni alla tua famiglia, ammoniscila, custodiscila; e se un servitorello ti avrà ingannato, una volta scoperto dovrà essere ripudiato a titolo d’esempio” (S. Ambrogio, In Lucam, lib. IV, n. 52). – Partendo da queste ottime, saggissime leggi, sia i santissimi Concili sia i Romani Pontefici Nostri predecessori hanno ritenuto di dover rendere sempre più stretto il passaggio, affinché malvagi abusi in materia non s’introducano mai nella Chiesa di Dio, o – se per caso vi si fossero già introdotti – vengano radicalmente tolti di mezzo. C’è tuttavia da lamentare che presso alcune diocesi queste decisioni delle Costituzioni apostoliche e dei sacri Canoni (così opportune e così ricche di dignità religiosa) rimasero prive del loro effetto e risultarono senza forza e senza valore, impossibilitate a svellere dalle radici ogni comportamento ad esse contrario. Dunque venimmo a conoscere che ciò accadeva perché coloro cui competeva occuparsene con il massimo impegno mettevano avanti varie scuse, invocando antiche, inveterate consuetudini oppure la necessità di versare qualche ricompensa ai ministri della curia ecclesiastica, oppure persino la mancanza del denaro necessario per condurre una vita decente, onesta e dignitosa. – Rendendosi conto di tutto ciò, il Nostro predecessore Innocenzo XI, di venerabile memoria, per apportare un rimedio costruttivo e rendere vane e fuori di luogo tutte le scusanti di qualunque natura, nel 1678 comandò che venisse redatto un tariffario nel quale fossero raccolti tutti i tributi indicati qua e là nei sacri Canoni e opportunamente sanciti dal Concilio Tridentino, secondo l’interpretazione data dalle sacre Congregazioni del predetto Concilio, nonché secondo i pareri espressi dai Vescovi. – Ordinò inoltre che tutti gli interessi ecclesiastici fossero chiaramente individuati ed elencati analiticamente; in nome di essi non doveva assolutamente essere consentito ad alcuno, né nel foro ecclesiastico né nelle curie vescovili, percepire emolumenti, eccezion fatta per quel che va versato al banco del cancelliere e quel che va pagato per la necessaria mercede. Contemporaneamente fu assicurato che in questa materia la regola fosse uguale in tutte le curie ecclesiastiche ed identica, com’è giusto, fosse la disciplina, annullata ogni diversa consuetudine. Lo stesso sommo Pontefice Innocenzo XI il primo ottobre dello stesso anno approvò con la Sua autorità questo tariffario, lo controfirmò e ne dispose la promulgazione e l’osservanza. – Tuttavia neppure questo bastò a rinsaldare ovunque la disciplina ecclesiastica, ormai abbandonata, e a metter freno alle cattive usanze che già da tempo avevano preso piede in varie diocesi. Subito venne avanzata l’obiezione perché la citata tariffa non dovesse venire osservata anche dalle curie ecclesiastiche esistenti fuori d’Italia. Per altro non si poteva fingere di ignorare che tutti i decreti in essa contenuti derivavano dai sacri canoni ed in particolare dal Concilio Tridentino; di conseguenza era assolutamente necessario che tutte le diocesi li rispettassero con la massima religiosità.

2. Questi dunque furono i motivi, Venerabili Fratelli, per cui – non senza grave dolore ed afflizione dell’animo Nostro – Ci rendemmo conto che nelle vostre curie avevano trovato spazio molti abusi contro l’esercizio della potestà spirituale; abusi che sconvolgono profondamente la disciplina ecclesiastica, la snervano e recano sommo disdoro alla grandissima dignità della quale risplendete ed all’autorità che vi è stata trasmessa per realizzare la perfezione dei santi e i compiti del ministero per l’edificazione del Corpo di Cristo. Noi abbiamo ben presenti la vostra religiosità, la vostra santa pratica, la premura nei confronti delle Vostre chiese; sappiamo anche che gli abusi in materia di pagamenti individuati nel tribunale ecclesiastico delle vostre diocesi, introdotti in tempi passati da qualche ministro di secondaria importanza, per l’esempio di questi si sono poi propagati gradatamente di diocesi in diocesi, forse all’insaputa degli stessi Vescovi, ed in qualche caso si sono sviluppati persino in funzione di una più marcata dignità della Chiesa. O perché al problema veniva attribuita pochissima rilevanza, o perché i successori nel ministero seguirono incautamente la strada tracciata dai predecessori, si arrivò al punto che questi stessi abusi, ormai rafforzati dalla continua pratica, sembrarono meritevoli di essere convalidati da costituzioni sinodali su proposta degli stessi ministri. In nessun modo, assolutamente, queste colpe possono essere addebitate a voi, che anzi siete soprattutto degni di lode, in quanto abbiamo visto che voi siete colpiti dal più grande dolore per queste iniquità e più che mai desiderosi di estirparle. Tuttavia, rendendoci conto che perseguendo questo scopo vi sareste attirati contro l’odio più forte, e che ostacoli enormi sarebbero stati frapposti alla realizzazione dell’obiettivo, se la stessa autorità apostolica non si fosse affiancata, per questo motivo interveniamo; in particolare a proposito della diversità delle tariffe e dei diversi comportamenti vigenti nelle diverse diocesi, affinché non solo siano tutti riportati ad un’equa e giusta misura, ma perché assumano tutti una lodevole uniformità procedurale. Perciò confidiamo in Voi, nel nome del Signore, affinché osserviate con la massima cura i decreti che vi mandiamo con la Nostra autorità apostolica, su richiesta del Nostro carissimo figlio in Cristo Carlo Emanuele, illustre Re di Sardegna, di cui rilucono continuamente il singolare rispetto per Noi e per questa santa Sede apostolica, l’affetto e l’impegno religioso: provvedete che da tutti e da coloro cui compete essi siano osservati con grandissima diligenza.

3. In primo luogo per quanto riguarda le ordinazioni sacre, non vi possono assolutamente sfuggire le numerosissime ed altrettanto sante leggi della Chiesa, con le quali in qualunque tempo è stato vietato che i vescovi e gli altri collaboratori nel conferimento delle sacre ordinazioni, o comunque rappresentanti ufficiali trattenessero alcunché dai donativi degli ordini. Questo è stato chiaramente sancito nel sinodo ecumenico di Calcedonia nel 451 (canone 2); in quello di Roma sotto san Gregorio Magno nel 600 o nel 604 (canone 5, ovvero epist. 44, lib. 4, indiz. 13); nel secondo sinodo ecumenico Niceno dell’anno 787 (canone 5); in quello di Salegunstadt dell’anno 1022 (can. 3); nel quarto Lateranense, sotto Innocenzo III, nel 1215; in quelli di Tours, di Bracara, di Barcellona e di altri luoghi riferiti da Cristiano Lupo (dissert. 2, proemio De simonia cap. 9, tomo 4) e da Gonzalez (capitolo Antequam 1, De simonia, n. 9), e più recentemente dal Concilio di Trento (sess. 21, cap. 1, De reformatione), dal quale sono stati perfezionati gli antichi canoni, che permettevano che si potesse ricevere un’offerta spontanea, ed è stata ricondotta all’antica ed originaria purezza la disciplina ecclesiastica sulle sacre ordinazioni. – Il decreto del Concilio così recita: “Poiché ogni sospetto d’avarizia dev’essere lontano dall’ordine ecclesiastico, i vescovi, gli altri collaboratori nell’impartire gli ordini o i loro ministri non debbono per alcun motivo accettare alcunché – anche se spontaneamente offerto – in occasione dell’attribuzione di qualunque ordine: né per la tonsura clericale, né per lettere dimissorie o testimoniali, né per il sigillo, né in qualunque altra circostanza. I notai, per altro, soltanto in quei luoghi nei quali non vige la lodevole abitudine di non accettare compensi, a fronte di ciascuna lettera dimissoria o testimoniale, possono accettare soltanto la decima parte di un aureo, a patto che non sia fissata per loro alcuna ricompensa per il lavoro svolto. Al vescovo non può essere trasferito – direttamente o indirettamente – alcun emolumento proveniente dalle rendite che competono ai notai per il conferimento degli ordini; infatti egli sa di essere tenuto a prestar loro la propria opera assolutamente gratis. Le tariffe contrarie a questa norma, gli statuti e le consuetudini locali, per quanto d’immemorabile origine (che a buona ragione possono essere ritenuti piuttosto abusi e fonti di corruzione e colpa simoniaca)debbono essere assolutamente abolite e vietate; coloro che si comporteranno diversamente, sia dando sia ricevendo, oltre che nel castigo divino incorreranno immediatamente nelle pene fissate per legge“.

4. In linea con questi argomenti, vi ordiniamo e notifichiamo, Venerabili Fratelli, di non accettare alcuna offerta – nemmeno se spontaneamente donata – per il conferimento di qualunque ordine, nemmeno per la tonsura ecclesiastica; né per la lettera dimissoria o testimoniale o per il sigillo, o per qualunque altra ragione o causa o pretesto, eccezion fatta soltanto per l’offerta della candela di cera che suole esser fatta sulla base del pontificale romano; e tuttavia in modo tale che la qualità ed il peso della candela siano assolutamente lasciati all’arbitrio ed alla libera volontà di coloro che debbono ricevere gli ordini. Alla vostra disposizione dovranno uniformarsi anche i vicari generali o foranei, i cancellieri e gli altri ministri, i familiari e i servi, ai quali venne già specificamente vietato dal Sacro Concilio Tridentino di accettare o esigere qualunque remunerazione, offerta o regalo in occasione delle sacre ordinazioni.

5. Se però in codeste diocesi non è fissato per il cancelliere o per i notai della curia ecclesiastica alcuno stipendio o salario per le mansioni svolte, ad essi soltanto consentiamo che – per ogni lettera testimoniale di un ordine conferito, compresa la tonsura ecclesiastica, o per la lettera dimissoria relativa alla stessa tonsura, o per gli ordini da ricevere da un vescovo estraneo – possano esigere al massimo la decima parte di un aureo, ovvero dieci oboli di moneta romana, e se lo trattengano, purché non siano Regolari legati da uno strettissimo voto di povertà, ai quali non è assolutamente consentito maneggiare denaro. – Ordiniamo che sia osservata la stessa entità di remunerazione anche se la predetta lettera testimoniale o dimissoria riguarda una pluralità di ordini, e fa riferimento ad ordini già attribuiti o in via di attribuzione da parte di un altro vescovo; di conseguenza in nessun modo sarà consentito aumentare la predetta remunerazione di dieci oboli o moltiplicarla in funzione dei singoli ordini contenuti nella lettera testimoniale o dimissoria. Con queste norme non intendiamo certo indurre i cancellieri o i notai ad indicare in uno stesso documento testimoniale ordini diversi, conferiti in momenti distinti e con distinti dispositivi; in verità in passato abbiamo ordinato che ciò avvenisse; limitatamente a quegli ordini – cioè i minori – conferiti con una sola ordinazione. Quanto alla lettera dimissoria relativa a più ordini da conferirsi da un altro vescovo, vietiamo che vengano moltiplicate le scritture e che si richieda qualunque sovrapprezzo o donativo per la rogazione dell’atto di conferimento degli ordini o per l’accesso al luogo dell’ordinazione o per qualsiasi altro motivo.

6. Nel conferimento del suddiaconato, quando il cancelliere o il notaio siano costretti ad un maggior lavoro per comprovare la verità e l’idoneità del patrimonio e del beneficio al cui titolo l’ordinando aspira, occorre premettere necessariamente altre procedure per gli atti di conferimento del predetto ordine. In questo caso consentiamo loro di poter percepire una mercede proporzionata alla loro fatica, da stabilirsi dal vescovo a suo coscienzioso giudizio. Tuttavia, tenuto conto della redazione dell’atto, del sigillo e di tutto il resto, non si può superare la somma di un aureo, ovvero di sedici giulii e mezzo. Vogliamo inoltre che gli ordinandi e i loro parenti siano liberi di ricorrere a qualunque notaio abilitato alla sottoscrizione ed alla rogazione dell’atto, senza che possano essere costretti verso qualcuno; così pure per i testimoni necessari a presenziare nelle predette curie alla costituzione ed alla stipulazione del patrimonio ed al perfezionamento degli altri atti consueti. Il notaio della curia, cui venga affidata una pratica di questo tipo, non potrà a nessun titolo esigere alcuna altra somma oltre la mercede definita dal Vescovo – come sopra specificato – o la somma di un aureo o di sedici giulii e mezzo, sia per la stesura dell’atto, sia per qualunque altra incombenza; né potrà ricevere altro denaro per la pubblicazione del decreto o per la lettera pubblicatoria o per qualunque altra ragione, sotto qualunque pretesto, come si legge chiaramente nel citato decreto del Concilio di Trento e come venne dichiarato apertamente nella sacra Congregazione del Concilio a Vicenza il 7 febbraio 1602, nella sacra Congregazione dei Vescovi a Gerona il 25 ottobre 1588, come si legge nel Fagnani (De simonia, cap. sulle Ordinazioni, n. 32 ss.).

7. Tuttavia, consentiamo che dai notai o dal cancelliere possa essere richiesto un compenso, sempre nell’ambito della legge, purché sia sempre dichiarato, qualora non sia stato fissato per il loro lavoro alcun salario o stipendio; comunque, assolutamente, nulla dei loro emolumenti può pervenire, direttamente o indirettamente, a voi o a chiunque altro, ufficiale o ministro, che conferisce gli ordini, così come venne sancito dal Concilio Tridentino. Queste due disposizioni, che con questa nostra lettera stiamo fissando, vogliamo che siano sempre rispettate in ogni occasione.

8. Riteniamo che difficilmente possa sfuggire all’accusa di lucro turpe e al sospetto d’avarizia l’iniqua consuetudine, che abbiamo saputo aver preso piede in alcune di codeste curie, di esigere denaro per l’autorizzazione (che deve provenire da voi o dai vicari generali) affinché coloro che sono stati recentemente ordinati sacerdoti celebrino la prima Messa, ovvero per altra simile autorizzazione, come quella di ammettere agli uffici divini i sacerdoti stranieri, per quanto muniti di lettera commendatizia dei rispettivi Ordinarii. Disponiamo pertanto che sia assolutamente eliminata codesta consuetudine, per quanto mantenuta fin qui e conservata a titolo di stipendio o di mercede da garantire a chi è incaricato di verificare l’idoneità dei sacerdoti nelle cerimonie e nei sacri riti; essa infatti è contraria ai sacri canoni ed è stata più volte riprovata.

9. Quel che abbiamo detto precedentemente a proposito delle sacre ordinazioni dev’essere applicato con pari diritto nel conferimento, o assegnazione, dei benefici ecclesiastici; ciò vi apparirà chiaro ed evidente se terrete davanti ai vostri occhi i canoni della Chiesa, fissati proprio per svellere dalle radici gli abusi instauratisi in diversi tempi in questa materia (cap. Si quis, q. 3; cap. Non satis; 8 cap. Cum in ecclesiae; 9 cap. Jacobus; 44 cap. De simonia; Cristiano Lupo, dissert. De simonia, cap. 10). E sebbene il santo Concilio Tridentino non abbia stabilito niente di preciso a questo proposito, tuttavia la sacra congregazione del Concilio, con l’approvazione del sommo Pontefice Gregorio XIII, dichiarò che il decreto cap. 1, sess. 21 De ref., avesse un ruolo anche nel conferimento dei benefici, in particolare degli amministratori, e che non si dovesse ricevere alcunché in cambio del sigillo, nonostante qualunque antica consuetudine (Garz., De benef. part. 8, cap. 1, n. 76 e seg.; Fagnani nel cap. In ordinando de simonia, n. 31; Gallemart, nel cap. 1, sess. 21, De reform.). – Questa stessa sacra Congregazione, nella lettera inviata al vescovo di Melfi, con il parere favorevole del sommo Pontefice, giudicò, dichiarò e dispose che i conferitori di benefici – qualunque sia la loro dignità – non possano accettare od esigere alcunché per il conferimento o per qualunque altra pratica inerente i benefici, sotto qualunque forma o aspetto, direttamente o indirettamente, anche se il donativo sia presentato come frutto dell’annata o di qualunque altro frazionamento, nemmeno se dato spontaneamente come offerta. A queste norme debbono assolutamente attenersi anche i notai dei conferitori e tutti gli altri impiegati, per i quali tuttavia è previsto in altra parte un salario garantito; altrimenti, sia chi dona sia chi riceve sarà ritenuto colpevole ipso facto ed incorrerà nelle pene previste dai sacri canoni per i simoniaci; i notai, inoltre, e gli altri impiegati saranno sospesi dai loro incarichi (Garz., loc. cit.).

10. Abbiamo ritenuto di comunicarvi tutto ciò, Venerabili Fratelli, perché comprendiate quanto siano lontane dalla disciplina ecclesiastica le abitudini nel conferimento dei benefici che qua e là hanno preso piede nelle vostre diocesi, e con quanto impegno dobbiate sforzarvi affinché siano radicalmente rimosse. Sarà dunque vostro compito di ribadire per primi questa regola e di rispettarla santissimamente, affinché nei benefici ecclesiastici – di cura d’anime o residenziali, semplici o manuali, o di cappellania –che conferirete con procedura ordinaria non richiediate od accettiate alcun compenso, a qualunque titolo o forma, nemmeno di dono augurale, beneficenza o contribuzione volontaria, in particolare per l’approvazione, la preselezione del più degno nel concorso per le chiese parrocchiali ed il possesso dei benefici. Saranno vincolati alla stessa sanzione canonica anche tutti gli altri conferitori, vicari generali, cancellieri, vostri consanguinei, parenti e servi, ai quali vietiamo comunque di percepire alcunché.

11. A questa regola generale fanno eccezione soltanto i cancellieri o i notai per i quali – come altrove abbiamo accennato – non è fissato alcuno stipendio a fronte del loro lavoro. In questo caso il cancelliere, se l’atto sia per benefici con cura d’anime, per un editto o per la lettera con cui viene indetto un concorso pubblico potrà esigere dieci oboli, e cinque per ciascuna copia ed altri cinque per le affissioni di rito. Se la lettera dovrà essere affissa fuori città, le spese di viaggio e le altre derivanti saranno ripagate sulla base dei rimborsi giornalieri vigenti nelle rispettive diocesi. Per la spedizione della lettera di conferimento, sia dei predetti benefici con cura d’anime, sia di quelli semplici, il cancelliere riceverà per il suo lavoro una remunerazione adeguata, fissata a giudizio del vescovo: remunerazione che comunque, tenuto conto della scrittura, del sigillo e di tutto il resto, non potrà superare un aureo, ovvero dieci giulii di moneta romana, come più volte è stato fissato dalla sacra congregazione del Concilio, ed in particolare il 15 gennaio 1594 (Gallemart., loc. cit.) e a Vicenza l’8 marzo 1602 (Fagnani, loc. cit., n. 32) e dalla sacra congregazione dei Vescovi il 25 ottobre 1588 (Fagnani, ibid., n. 35). Infine per quanto si riferisce agli atti di possesso degli stessi benefici, riceverà tre giulii per la sottoscrizione del documento, se i benefici saranno dentro la città, quattro se nel suburbio; se più lontani ancora, saranno osservati i tariffari vigenti nelle rispettive diocesi per le diarie, come abbiamo spiegato sopra. Ma se nel luogo in cui è situato il beneficio risulterà operante un cancelliere del vicario foraneo, o un suo notaio, colui che sta per entrare in possesso del beneficio può avvalersi liberamente degli uffici di questi e per rogare l’atto di possesso non potrà in alcun modo essere obbligato a rivolgersi al cancelliere della curia vescovile. Per una lettera che testimoni l’esito favorevole in un concorso, secondo la relazione degli esaminatori, e della quale sono soliti valersi coloro che l’hanno richiesta per dimostrare la propria idoneità, permettiamo che il notaio riceva come compenso massimo due giulii.

12. Non ci sfugge certo che al cancelliere, o notaio, tocca una fatica tutt’altro che lieve nello svolgimento dei concorsi per le chiese parrocchiali, sia quando comincia l’esame dei testimoni che i concorrenti presentano per dimostrare le loro qualità, i meriti e le lodevoli azioni compiute al servizio della chiesa; sia quando inserisce negli atti del concorso i cosiddetti requisiti presentati dai concorrenti, e poi li riassume per iscritto e li trascrive in più copie per il vescovo, o per il vicario generale che interviene in sua vece, e per ciascuno degli esaminatori esterni del concorso, affinché possano formulare un giudizio sulla cultura, le abitudini, i comportamenti e le altre doti necessarie a reggere la Chiesa; quando risponde inoltre ai quesiti morali posti dagli stessi esaminatori, riporta il giudizio degli esaminatori stessi; stende l’atto di preselezione; rimane a custodia dei concorrenti per due e talora tre giorni ed in qualche caso presenzia anche allo scrutinio delle predette questioni morali. Abbiamo considerazione di quale possa essere la mole di tale impegno, affidando al giudizio ed alla coscienza del vescovo la determinazione della remunerazione, purché essa corrisponda soltanto all’entità della fatica.

13. Per quanto poi riguarda i benefici che vengono conferiti dalla Sede apostolica, poiché ad essa riservati: per i benefici “curati” per i quali è consuetudine presentare alla Dataria Apostolica una lettera testimoniale di approvazione e di preselezione nel concorso svolto secondo le norme fissate dal Concilio di Trento, ed ancora per i benefici non “curati”, in particolare quelli residenziali, per i quali parimenti è d’uso presentare alla Dataria Apostolica una lettera testimoniale sulla vita, le abitudini e l’idoneità di coloro che richiedono il beneficio, i cancellieri si guardino bene dall’esigere, per queste lettere, alcun emolumento o mercede, nemmeno un donativo spontaneo, eccetto che due giulii per la scrittura, la carta e il sigillo della lettera di idoneità e due giulii per la lettera testimoniale sullo stile di vita e sui costumi.

14. Per l’esecuzione delle lettere apostoliche, quando queste siano spedite in forma – come si dice – graziosa, né il vescovo, né gli altri prelati Ordinarii dei luoghi, né i loro vicari, i cancellieri e gli impiegati ritengano di poter rivendicare a sé l’incarico di esecutori; dipenderà completamente dalla volontà di coloro che saranno stati dotati del beneficio la scelta dell’esecutore o del notaio cui affidare l’atto per l’entrata in possesso del beneficio stesso. Se il provvisto di un beneficio sceglierà l’Ordinario e il suo cancelliere, ovvero se la lettera apostolica sarà stata mandata nella cosiddetta forma dignum, indirizzata all’Ordinario, o al suo cancelliere o vicario, al quale compete l’obbligo di eseguirla; in entrambi i casi, se mancherà un legittimo contraddittore, in modo che l’esecutore sia uno solo, il cancelliere (esclusi comunque da qualunque emolumento, dono e volontaria offerta il vescovo o altro prelato, il suo vicario, l’impiegato, i familiari e i servi, come abbiamo disposto sopra a proposito dei benefici di libero conferimento), per la stesura di questa lettera apostolica e per la sua trascrizione negli atti, così come per tutti gli adempimenti consueti inerenti la pratica, potrà ricevere la remunerazione che il vescovo, a proprio giudizio e secondo coscienza, riterrà congrua: essa non potrà comunque superare la somma di uno scudo d’oro o di sedici giulii e mezzo. Se invece fosse presente un contraddittore, in modo che si debba istituire un processo giudiziario, parimenti lasciamo all’arbitrio ed alla coscienza del vescovo, che graviamo anche di questo peso, di fissare la mercede che corrisponda all’impegno ed alla fatica del notaio o del cancelliere addetto; purché niente di quanto riscuote il cancelliere o il notaio sia trasferito al vescovo o agli altri, come abbiamo detto prima, direttamente o indirettamente. Per l’atto di presa di possesso del beneficio, debbono osservarsi le stesse norme che abbiamo indicato sopra.

15. Per i benefici di giuspatronato, se sorge il dubbio – con il promotore fiscale o con colui che avrà richiesto il beneficio – sull’esistenza del predetto giuspatronato e qualcuno si oppone al conferimento gratuito, dovranno essere rispettate tutte le norme che abbiamo fissato in precedenza a proposito dei benefici di libero conferimento con contraddittore favorevole. Per un editto contro il contraddittore – o i contraddittori – il cancelliere riceverà due giulii; per ogni copia dieci oboli; per la pubblicazione di detto editto si dovrà osservare quanto abbiamo disposto per i benefici con cura d’anime; inoltre, per una lettera d’istituzione, un aureo ovvero sedici giulii e mezzo. Se invece non vi sia alcun dubbio sull’esistenza del giuspatronato, e tuttavia nasca una lite sulla competenza fra gli avvocati o fra coloro che da questi sono rappresentati, allora s’instaurerà una causa profana e per essa potranno essere pretesi emolumenti che corrispondano alle tariffe vigenti in ciascuna curia.

16. Procedendo analiticamente, del pari vietiamo che i vescovi, o gli altri prelati, o i loro vicari o comunque incaricati possano esigere alcunché sia in quelle che chiamano “cappellanie mobili”, sia nelle nuove fondazioni e nelle istituzioni di benefici, cappellanie, confraternite e congregazioni, ovvero nelle fondazioni, benedizioni, consacrazioni, visite ed approvazioni di chiese e di oratori derivanti da autorità apostolica o vescovile. Il cancelliere potrà ricevere soltanto una paga commisurata all’impegno, fissata dal vescovo a suo giudizio e coscienza, purché non superi i sedici giulii e mezzo.

17. Per quel che riguardai matrimoni o comunque le attività propedeutiche alle nozze, vi suggeriamo di osservare ciò che hanno disposto i sacri canoni (cap. Cum in ecclesia 9; cap. Suam nobis 29, De simonia), San Gregorio Magno nella lettera a Gennaro, vescovo di codesta sede cagliaritana (lib. 4, indict. 12, epist. 27), ed altri ancora, come riferisce lo spesso lodato Cristiano Lupo nella citata dissertazione (cap. 7) e, da ultimo, il Concilio Tridentino (sess. 22, cap. 5, De reformat. matrimon.). I vescovi, naturalmente, i loro vicari, tutti gli incaricati, i loro familiari e gli addetti devono prestare gratuitamente la loro attività in questa materia e non pensare di ricevere alcuna remunerazione o premio od offerta volontaria, né per il decreto di dispensa matrimoniale ottenuto dalla Sede Apostolica, né per l’impegno ad esaminare i testi in merito o per il completamento delle certificazioni connesse, sia per la lettera di attestazione di stato libero e di mancanza di qualunque impedimento canonico, sia per la dispensa dalle pubblicazioni previste dal Concilio di Trento (in chiesa, per tre giorni festivi consecutivi, fra le messe solenni), da effettuarsi dal parroco dei contraenti, sia per la facoltà di celebrare il matrimonio a casa, o altrove, o in tempo non consueto e vietato, oppure di fronte ad un sacerdote diverso dal parroco, sia infine per qualunque atto che di necessità o d’abitudine si deve compiere, come è stato disposto dalla sacra Congregazione del Concilio, con l’approvazione del sommo Pontefice, nonostante qualunque precedente consuetudine, anche antichissima, come riferiscono Garzonio (De benefic. part. 8, cap. primo, n. 102 seg.) e Fagnani (cap. Quoniam ne proelati vices suas, n. 30).

18. Questo atteggiamento va mantenuto soprattutto in relazione alle deroghe che i vescovi sogliono concedere ai parroci, sia in relazione alla pubblica comunicazione, in chiesa, in tre giorni festivi, dei matrimoni imminenti, sia per presenziare alla celebrazione degli stessi matrimoni, quando sappiano che non vi sono impedimenti. D’ora in avanti sarà necessario non solo che le licenze di questo tipo siano concesse gratuitamente; ma anche che si controlli che, prima della celebrazione dei matrimoni, non venga reso più complicato il contratto nuziale con la richiesta indiscriminata della predetta deroga, sulla base di una presunta necessità; cosa questa che sarebbe fonte di parecchi disagi. La sacra Congregazione dei Vescovi riunita a Gerona il 25 aprile 1588 (cf. Fagnani, cap. In ordinando de simonia, n. 41) ritenne necessario opporsi ad entrambi i mali. Quando infatti i canonici e il capitolo di Gerona posero la questione in merito all’editto con il quale il vescovo aveva proibito ai parroci di unire gli sposi in matrimonio – pur avendo espletato tutte le norme solenni imposte dal Concilio di Trento – se non avessero la deroga scritta, che veniva concessa solo dopo il pagamento di mezzo giulio, la stessa sacra Congregazione rispose così: “Il vescovo non deve emettere alcun provvedimento scritto, se per qualche ragione proibisce che i parroci possano congiungere le persone in matrimonio secondo gli usi fissati da detto Concilio. Infatti, rispettata assolutamente la sostanza della norma conciliare, quel che riguarda le cerimonie è affidato soltanto alla coscienza del vescovo ed al suo stile. Allo stesso modo, infatti, in qualche villaggio o città è opportuno proibire ciò che tuttavia, sulla base di qualche urgente necessità, si dovrebbe fare. Così il vescovo deve impegnarsi a fondo perché non si celebrino matrimoni senza le predette procedure, ma deve anche stare attento affinché non siano resi più complicati i contratti di matrimonio, con l’aggiunta di nuove esigenze infondate. Se vi sarà bisogno di qualche licenza, il notaio non sarà pagato per questo. Ma se, per antica – forse anche scritta – consuetudine, quasi in segno di letizia, ci sia l’abitudine di fare un regalo al vescovo, non ci pare affatto che questo sia da contestare“.

19. Soltanto al cancelliere per il quale non sia fissato uno stipendio garantito, sarà lecito ricevere, a titolo di pagamento del suo impegno e per il necessario sostentamento, un emolumento calcolato con questo parametro: per l’esecuzione della lettera apostolica sulla dispensa matrimoniale, se egli compia in prima persona l’escussione dei testi per accertare la veridicità delle affermazioni esposte nel libello di supplica, potrà esser pagato più o meno, in funzione del numero dei testimoni e della gravosità dell’impegno, ma comunque non più di cinque giulii. Se invece questo esame sarà affidato ad un’altra persona, avrà soltanto due giulii per la lettera di delega e assolutamente null’altro per il decreto, per il sigillo o a qualunque altro titolo. Per la lettera testimoniale di stato libero, tenuto conto della stesura, della carta, del sigillo e del resto, avrà due giulii. Per l’esame dei testimoni per l’accertamento dello stesso stato libero e per dimostrare la mancanza di qualunque impedimento canonico, dieci oboli per ogni testimone; per il riconoscimento della lettera testimoniale di stato libero di persone nate altrove, dieci oboli se non ci sia bisogno dell’esame di un secondo testimone per eliminare tutti i dubbi. Se per caso ciò occorresse, ed infine per la dispensa dalle pubblicazioni, ogni volta che occorra l’escussione di testimoni, dieci oboli soltanto per tale escussione.

20. A buon diritto è sempre stata ritenuta detestabile – e figlia dell’avarizia e della cupidigia – l’esazione di denaro o di qualunque altro bene a fronte della distribuzione dei sacramenti. Perciò i sacri canoni bollarono spesso questa azione come intrisa di malvagità simoniaca e si preoccuparono di eliminarla con le dovute pene e con le censure ecclesiastiche (cf. Cum in ecclesiae corpore, 9, cap. Ad apostolicam, 42, De simonia)e in numerosi decreti conciliari riferiti da Cristiano Lupo (loc. cit., cap. 7 e 8). Confermando con ogni fermezza questa convinzione, la sacra congregazione del Concilio non ha mai tollerato che per l’amministrazione dei sacramenti venisse preteso alcunché. Per tacere di tutti gli altri, il 20 febbraio 1723, nel giorno dei funerali del Vescovo di Albano, quando fu sottoposto ad esame se si dovesse permettere che i parroco accettasse la patena, cioè il disco del quale egli si serviva nell’amministrare l’estrema unzione, al quesito: “Potrà essere accettata l’offerta del disco?“, la stessa sacra Congregazione rispose che “non si dovesse permettere di accettare tale offerta” (Thes. resolut. tomo 2, p. 280). Allo stesso modo, quando il Vescovo di Vaison, nel sinodo del 1729, aveva stabilito una tassa da rispettare nella sua diocesi, in base alla quale, oltre ad altre procedure relative al battesimo, veniva stabilito che: “Il padrino o la madrina, per la cerimonia del battesimo forniranno almeno un cero ed un telo di lino candido e brillante, a meno che non preferiscano per tutto ciò e per la registrazione negli atti pubblici dei battezzati pagare cumulativamente cinque assi“, fu allora proposto il dubbio se la tassa prescritta in questo sinodo dovesse essere rispettata. La sacra Congregazione, nella riunione di Vaison del 6 febbraio 1734 rispose di no. (per maggiori informazioni cf. Thes. resolut., tomo 6, p. 209).

21. Fra le altre materie, che più di frequente o con maggior rigore sono state riprovate dai sacri canoni e dai concilii, una delle principali riguarda l’abitudine – qua e là invalsa in passato – di riscuotere denaro per il ricevimento del crisma e dell’olio santo, che i vescovi cercavano invano di giustificare presentandola sotto vari nomi: a titolo cattedratico, quale prestazione pasquale, quale consuetudine episcopale (cap. Non satis, 8 cap. Eaquae, 16 cap. Ad nostram, 21 cap. In tantum, 36 De simonia, ed altri ancora come indicato da Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 7, paragrafo Secundum sacramentum). Di conseguenza, quando il patriarca dei Maroniti di Antiochia prese l’abitudine, quando distribuiva gli olii sacri, di esigere un’offerta in denaro, sebbene fosse evidente che il denaro non veniva certo dato e ricevuto con lo spirito di mercanteggiare gli olii sacri, ma per sostentamento del patriarca e per far fronte agli oneri che incombono all’ufficio e alla dignità patriarcali, tuttavia, per cacciare ogni sospetto di simonia, tale consuetudine fu disapprovata dalla particolare Congregazione alla quale è demandata la competenza per gli affari dei Maroniti. Benedetto XIV confermò tale sentenza (Constit. Apostolica 43, Bullar. tomo 1).

22. Ci pare che questo basti ed avanzi, Venerabili Fratelli, perché comprendiate a perfezione quali sono i vostri compiti nell’amministrare i sacramenti e li perseguiate con ogni cura, applicandovi totalmente affinché sia eliminata ovunque la malvagia consuetudine, vigente in alcune diocesi, in base alla quale per la distribuzione degli olii viene richiesto denaro o da parte del vescovo o dal prefetto della sagrestia. Già in precedenza la sacra Congregazione del Concilio lo aveva prescritto spesso, in particolare nella riunione di Amalfi del 18 luglio 1699, ribadendolo il 6 febbraio 1700, a proposito del quesito 12: “Se l’arcivescovo sia obbligato a garantire che l’olio santo sia consegnato gratuitamente dalla cattedrale alle chiese parrocchiali. Ad esso fu risposto affermativamente. Identico orientamento prese la sacra Congregazione dei vescovi nella riunione di Acerenza, cioè di Matera, il 18 marzo 1706 (Ad. 2 apud Petram, Comment. ad constitut. 5 Innocentii IV, n. 38).

23. Per quanto riguarda poi l’offerta della candela, che abbiamo sentito viene fatta, in diverse diocesi di codesto regno, al vescovo che amministra la Confermazione, in primo luogo non va taciuto che a tal proposito nel libro pontificale non c’è nemmeno una parola. Inoltre, la sacra funzione del sacerdozio vincola tutti i ministri, i quali, nell’accettare le offerte, si devono regolare con moderazione e senso della misura, per evitare che, incorrendo nell’accusa di avarizia e di turpe negozio, il ministero stesso non finisca vituperato e si svilisca la riverenza dovuta ad un così grande sacramento. C’è da guardarsi bene che l’offerta della candela non degeneri in un’esazione sospetta, dalla quale derivi che i fedeli, specialmente i poveri, si ritraggano dal ricevere il sacramento, o ne rinviino più del giusto la somministrazione. Perciò c’è soprattutto da augurarsi che questa consuetudine sia completamente abolita e che si mantenga soltanto in quei casi in cui dipenda esclusivamente dalla decisione dell’offerente.

24. Le stesse norme impongono che tanto i vescovi quanto i loro cancellieri o notai debbano esercitare gratuitamente il loro ministero, sia quando – previo esame ed approvazione – concedono a qualcuno la facoltà di raccogliere le confessioni sacramentali, di amministrare i sacramenti e di esercitare ogni ministero ecclesiastico, sia quando giudicano l’idoneità dei vicari – sia perpetui, sia rimovibili ad nutum –, degli economi e dei coadiutori, come si legge nel capitolo Ad nostrum de simonia e come fu disposto nelle spesso citate assise di Vicenza (7 febbraio e 8 marzo 1602) e di Gerona (25 ottobre 1588, Ad. 7), in cui comunque si rigetta anche la remunerazione per la lettera che formalizza la concessione dei predetti ministeri e l’esercizio degli incarichi.

25. Riteniamo che nessuno di voi ignori quanto frequenti e quanto severe leggi vietino di esigere denaro per le sepolture e per le esequie funebri (cf. Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 12 e Van Espen in Jus eccles. univ., par. 2, tit. 38, cap. 4). Basterà comunque citarvi San Gregorio Magno, che, scrivendo a Gennaro, vescovo di Cagliari (lib. 9, indict. 2, epist. 3, e lib. 7, indict. 2, epist. 56), così si duole: “La famosissima signora Nereida si è lamentata con noi del fatto che vostra fraternità non si è vergognato di chiederle cento solidi per la sepoltura della figlia. Se è vero, è davvero troppo grave e distante dalla dignità sacerdotale chiedere un prezzo per la terra concessa alla putrefazione e voler trarre un utile dal lutto altrui. Nella nostra chiesa noi l’abbiamo vietato, e non abbiamo mai consentito che la malvagia consuetudine si ripristinasse. Attenzione, a non ricadere in questo vizio dell’avarizia o in altri!“.

Nessuna legge mai ha vietato la lodevole e pia abitudine, invalsa nella Chiesa fin dai primi secoli, di fare offerte a favore dei morti durante i funerali; né nell’accettarle, veniva meno la libertà dei sacerdoti. Perciò il sommo Pontefice Gregorio aggiunse tosto: “Se qualche parente del morto, congiunto o erede desidera offrire spontaneamente qualcosa per l’illuminazione, non vietiamo di accettare. Proibiamo invece che venga chiesto o preteso alcunché” (Pontificale Romanum). Analogo ordine impartì, con parole chiare, Innocenzo III nel concilio Lateranense (cap. Ad Apostolicam, 42 De simonia).

26. In verità, venendo a mancare le decime personali e quelle, sia reali sia miste, a favore dei monasteri e dei capitoli dei canonici, fu in un certo senso necessario che i laici venissero quasi costretti alle pie offerte, fin qui consuete, con le quali si provvedeva alle necessità dei parroci e delle chiese parrocchiali. Tuttavia si tenne sempre presente la santità della disciplina ecclesiastica per garantire che non ci si allontanasse troppo da queste lodevoli consuetudini: i chierici per eccesso, i laici per difetto. Tra l’altro fu sancito in particolare che esequie, funerali e sepolture di defunti – sia cittadini sia stranieri – non dovessero essere impediti o ritardati per poter ottenere il denaro derivante da questa pia consuetudine; inoltre, che non si dovesse pretendere niente per il permesso di trasferire i cadaveri e seppellirli in un luogo piuttosto che in un altro.

27. Da ciò dunque avrete compreso, Venerabili Fratelli, che è intollerabile che nelle vostre diocesi si accetti denaro, al di là delle consuete offerte collegate alle pietose incombenze che si prestano al cadavere ed in suffragio dell’anima. Né il parroco – attuale o abituale – dev’essere pagato in funzione della condizione del morto, della distinzione del grado, ovvero in relazione alla posizione favorevole ed al decoro dei luoghi nei quali i cadaveri devono essere inumati, sia in chiesa, sia in luogo più prestigioso della chiesa. È inoltre aberrante per i sacri canoni che il Vescovo pretenda o riceva denaro per seppellire qualcuno, sia adulto, sia bambino, in qualsiasi chiesa diocesana o anche delle comunità religiose. La sacra Congregazione del Concilio, intervenendo contro il Vescovo vicentino e la sacra Congregazione dei Vescovi riunita a Gerona (Ad. 10, Fagnani., cap. In ordinando de simonia, n. 32 ss.) hanno espresso chiara condanna nonostante qualunque consuetudine contraria, anche antichissima.

28. Nella visita pastorale alla diocesi, eviterete con poca fatica qualunque sospetto di avarizia e sarà chiaro a tutti facilmente che voi chiedete non nel vostro interesse ma in quello di Gesù Cristo, se vi atterrete scrupolosamente a quanto raccomandarono in materia i Padri del Concilio Tridentino: “Si curino i vescovi in visita di non essere onerosi per nessuno con inutili spese; né personalmente né attraverso qualcuno del seguito, accettino alcunché: né per aver in qualche modo propiziato la visita, né per le pietose abitudini dei testamenti, eccetto quel che deriva per legge dai lasciti pii. Non accettino, dunque, né denaro né doni di qualunque tipo né a qualunque titolo offerti, nemmeno se in tal senso esistano abitudini, anche antichissime. Restano esclusi soltanto gli alimenti, che verranno forniti al vescovo ed al suo seguito in misura frugale, e soltanto per il tempo necessario alla visita e non oltre. Coloro che ricevono la visita possono decidere se preferiscono consegnare una somma di denaro predeterminata, come solevano fare in precedenza, oppure fornire le citate vettovaglie (Sess. 24, cap. 3, De ref.).

29. Su questo decreto vennero prodotte diverse dichiarazioni e decisioni della sacra Congregazione del Concilio, alcune delle quali è qui opportuno riportare. Il primo argomento del quale si discusse più volte fu se il vescovo potesse esigere le cosiddette “provvigioni” in occasione della visita alla cattedrale ed al clero della città – o altro luogo – in cui risiede abitualmente. Quando fu chiaro che la “provvigione” era stata istituita dal Concilio di Trento per la visita alla diocesi, e che non si faceva alcuna menzione della città; inoltre che lo stesso Concilio aveva imposto la somministrazione di vettovaglie “soltanto per il tempo necessario“, e che pareva pertanto non ce ne fosse alcuna necessità quando il vescovo visita luoghi nei quali è tenuto a risiedere ovvero nei quali trascorre parte dell’anno; la sacra Congregazione stabilì che gli antichi canoni di diverso avviso ed ogni usanza contraria erano stati rimossi dal decreto del citato Concilio di Trento, e pertanto rispose costantemente in modo negativo al dubbio proposto (in particolare per la “provvigione” nel caso di Castres del 17 novembre 1685, per quella di Alife del 18 luglio 1705, per quella di Policastro del 1 giugno 1737 e recentemente per quella di Valenza del 30 gennaio 1768). Di identico parere era stata la Congregazione dei Vescovi, come emerge dalla lettera al Patriarca di Venezia datata 26 maggio 1592, nonostante gli usi e qualunque motivazione contraria.

30. Oltre a ciò che è sancito nel citato decreto del Concilio di Trento (in relazione alla materia trattata anche nel cap. Si episcopus de off. Ordinarii, 6) si presti specifica attenzione affinché né il vescovo né chiunque del suo seguito, invocando la “provvigione”, accetti denaro o doni di qualunque natura, anche se spontaneamente offerti, eccezion fatta soltanto per le vettovaglie, o per l’offerta corrispondente ad esse, se coloro che vengono visitati avranno preferito questa forma di contribuzione. Nondimeno, alcuni ritennero che fosse loro lecito ricevere, oltre che il denaro delle vettovaglie o le vettovaglie stesse, anche vetture a cavalli per sé e per il proprio seguito ed anche qualcos’altro, con qualche motivazione non religiosa. Essi tuttavia furono sempre condannati dalla sacra Congregazione del Concilio ed il loro comportamento costantemente contestato, in quanto contrario sia ai sacri canoni sia al Concilio Tridentino. Nella visita pastorale di San Marco, tra gli altri vennero proposti questi due quesiti: “V) Se il clero sia obbligato a pagare qualcosa ai ministri ed agli altri rappresentanti del vescovo in visita; VI) Se lo stesso clero sia tenuto a pagare al vescovo in visita la vettura a cavalliIl 7 luglio 1708 questa fu la risposta: “Si doveva tener conto dei decreti già precedentemente pubblicati ed in particolare, per il V quesito, della sessione Amalfitana del 18 luglio 1699 (lib. 3, Decr. 49, p. 252); per il VI, di quella Abruzzese del dicembre 1784 (lib. 4, Decr. p. 10)”. Il senso che derivava dalla risposta e che si desume anche dagli altri decreti citati è chiaramente questo: per il quesito V, l’obbligo riguarda soltanto le vettovaglie, secondo la norma conciliare; per il quesito VI, la risposta è negativa.

Si ritornò in argomento in un’altra causa di San Marco il 16 gennaio 1723, al III quesito: “Se la predetta provvigione abituale sia da pagare per intero, nella solita quantità di denaro, secondo gli usi di ciascun luogo che viene visitato, quando al vescovo ed al suo seguito vengono offerti anche tre pranzi, le vetture, l’alloggio e tutto il resto necessario, secondo l’invocata, antichissima consuetudine“. Il IV quesito proponeva: “Se al vescovo ed al suo seguito debbano essere assicurati i cibi e tutto il necessario per tutto il tempo della visita“. Al III quesito la sacra Congregazione rispose che “dipendeva da coloro che ricevevano la visita pagare la provvigione in natura o in denaro, esclusi comunque i tre pranzi nel caso che si sia scelto il denaro; quanto alle vetture con cavalli si facesse riferimento al decreto del 7 luglio 1708, in sancti Marci ad VI“.Per il IV quesito valeva quanto risposto al terzo. Analogamente, per la “provvigione” di Policastro, quando fu presentato il II dubbio “se il predetto vescovo possa pretendere dallo stesso arciprete e dai chierici, oltre alla provvigione di 15 ducati, pagati in moneta, anche le vettovaglie e le carrozze per sé e per il suo seguito, nel caso che, ecc.“, il giorno 1 giugno 1737 giunse il responso al II dubbio: “Negativo“”.

31. Si discusse anche se il vescovo e i suoi ufficiali potessero pretendere ed esigere qualche emolumento qualora, durante la visita pastorale, convalidassero testamenti per cause pie e legati pii, e curassero di avviarne l’esecuzione. In questa materia la sacra Congregazione del Concilio deliberò nella seduta di Maiorca del 7 agosto 1638, asserendo che il vescovo e i suoi ufficiali non possono ricevere pagamenti per i decreti emessi durante la visita, e nemmeno per le delibere di esecuzione dei legati pii, anche se in tal senso esistano consuetudini antichissime. Questione non dissimile sorse nel 1645 fra il vescovo di Vicenza da una parte ed i giurati del re della città di Minorissa Pratorum dall’altra. Sottoposta la materia alla stessa santa Congregazione, la risposta giunse sotto la data del 18 marzo dello stesso 1645 e fu del seguente tenore: “La sacra Congregazione ha stabilito che il vescovo in visita e i suoi incaricati non possono ricevere alcunché per i decreti o per le delibere di esecuzione dei testamenti o dei legati, ma debbono compiere il tutto gratuitamente, nonostante qualunque precedente consuetudine, anche antichissima. Al di fuori della visita, il vescovo ed i suoi incaricati possono ricevere denaro per decreti di questo tipo e per le delibere, ma solo quel tanto che verrebbe pagato – senza sprechi – al notaio per la stesura e per l’impegno, così come affidato alla coscienza del vescovo, nonostante qualunque consuetudine, anche antichissimaCiò fu deliberato anche ad Elnen il 28 marzo 1648, al quesito VIII.

A questo non sarà superfluo aggiungere quel che leggiamo essere stato sapientemente fissato nel consiglio provinciale di Milano V: “Il notaio o il cancelliere non esiga alcunché durante la visita pastorale da parte di coloro che sono visitati e non accetti doni di alcun tipo, nemmeno piccolissimi, offerti in qualunque modo; niente neppure per la emanazione dei decreti e delle ordinazioni effettuata durante la visita, per la scritturazione o per la riproduzione delle copie, né da singoli, né da chiese, né da sacerdoti, né dagli altri che ricevono la visita, come dispone l’editto di visita. È invece consentito che sia pagato (secondo il tariffario vigente o da fissare nel tribunale ecclesiastico) per la fatica e l’impegno profusi nel trascrivere le copie di cui – in tempo successivo – qualcuno interessato avrà fatto domanda.

32. Queste norme debbono essere rispettate anche nella ricognizione dei libri che contengono i legati pii e il loro adempimento, nonché nella resa dei conti delle amministrazioni ecclesiastiche, delle confraternite, dei monti di pietà, e delle altre istituzioni pie, per il cui sviluppo sia il vescovo sia i suoi rappresentanti debbono impegnarsi gratuitamente, come si evince da quanto detto precedentemente e come ha dichiarato la sacra congregazione nel concilio di Vicenza del 27 giugno 1637, affermando: “Né al vescovo né ai suoi rappresentanti è lecito accettare alcunché per l’amministrazione delle opere pie o per l’esecuzione dei testamenti e delle volontà pie, ma tutto dev’essere fatto gratuitamente, nonostante qualunque consuetudine, anche contrariaIl 20 settembre 1710, durante la confraternita di Lanciano, al X dubbio, nel quale si chiedeva “Se l’arcivescovo debba valersi, per la stesura dei bilanci, di sindaci ovvero di persone esperte elette dai confratelli, oppure possa rivolgersi a chi gli pare megliola sacra Congregazione rispose “negativo“al primo quesito ed “affermativo” al secondo, ma gratuitamente (tomo 6, Thes. resolut., p. 164). Nonostante il vescovo debba darsi da fare affinché la revisione dei libri sia effettuata gratuitamente e la relazione sia stesa dal suo notaio o da un economo di casa o da chiunque altro addetto al suo servizio; tuttavia può accadere talvolta che per gravi ed urgenti motivi sia opportuno designare a pagamento un estraneo che non abbia alcun obbligo. Ogni volta che ciò accada, il vescovo stabilirà secondo giudizio e coscienza la congrua remunerazione per il revisore, commisurata al puro e semplice impegno, come sancì la sacra Congregazione a Veroli il 30 gennaio 1682 (lib. 35, Decret. f. 283), a Benevento il 7 giugno 1683 ed a Pesaro l’11 dicembre dello stesso anno.

33. A fronte di queste affermazioni della sacra Congregazione, solidamente basate sui sacri canoni, e dei decreti del Concilio Tridentino, non possono assolutamente essere accettate alcune consuetudini, che hanno più l’aspetto di corruzione, in forza delle quali alcuni vescovi e loro rappresentanti, mentre effettuano le sacre visite, ricevono qualche pagamento per l’esame di alcuni testamenti, oppure per la relazione contabile che esigono dagli amministratori di chiese o luoghi pii; oppure approfittano per tutto il tempo della visita della carrozza a cavalli o di qualche pranzo; oppure cercano di ottenere i lumini o le candele collocate sull’altare principale del tempio o anche su altri altari. Tutte queste abitudini, e le analoghe che sussistano, contrarie alle predette sanzioni, debbono essere assolutamente abolite: lo disponiamo ed ordiniamo!

34. Sebbene, sulla base della citata decisione della sacra Congregazione, adottata in Vicenza il 18 marzo 1645, il vescovo o il suo rappresentante, sia durante la visita sia al di fuori, non possa accettare alcunché per i decreti o le deliberazioni di esecuzione testamentaria di legati, ma debba svolgere ogni incarico gratuitamente, tuttavia durante le sacre visite può accettare la parte dovuta dei legati pii, delle offerte e delle altre beneficenze che vengono fatti alla chiesa in occasione dei funerali; tale quota parte viene popolarmente definita come “quarta canonica“, come fu risposto dalla stessa sacra Congregazione nelle riunioni di Urgel il 25 gennaio 1676 ed il 14 febbraio 1693 all’ottavo dubbio. I vescovi traggono questo diritto dai sacri canoni (cap. Officii 14, e Requisiti 5 de testamentis) che il Concilio Tridentino volle mantenere in vigore, come dimostra il fatto che proibì severamente ai vescovi di accettare alcunché per la visita, nemmeno in funzione dei pii usi dei testamenti, “eccetto ciò che per diritto è dovuto per i legati pii” (cit. sess. 24, cap. 3 De ref.). Ovviamente i vescovi devono mantenersi moderati nell’esigere questa parte, ossia la “quarta canonica“, e osservare i limiti fissati dagli stessi sacri canoni nel capitolo finale De testamentis, dove così si legge: “La parte canonica non deve essere dedotta da quelle offerte che vengono fatte alla chiesa, o alle altre strutture ecclesiastiche, per ornamenti, per l’edificio, per le luminarie, o in occasione di un anniversario, di un settimo giorno, di un vigesimo o di un trigesimo, o in modi diversi per la prosecuzione del culto divino“. Analoghi concetti si leggono nel capitolo “Ex parte de verb. signif.. Inoltre non si deve operare alcuna deduzione dai legati per il matrimonio delle fanciulle – come dispose la sacra Congregazione dei Vescovi nella riunione di Nocera dei Pagani il 14 Settembre 1592 – né da quelli per la celebrazione delle messe (come stabilì la Sacra Congregazione del Concilio in un’altra seduta a Nocera dei Pagani, con il decreto Quartae canonicae, 13 gennaio 1714, lib. 64), sebbene a tempo immemorabile al vescovo venisse versata la quarta parte da tutti i legati pii.

35. Per quanto riguarda i monasteri delle monache o le case religiose nelle quali le donne vivono come monache, solitarie e lontane dagli impegni del mondo, è stato spesso ribadito dalle Costituzioni apostoliche e dalla sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari (con il parere favorevole e l’autorevole approvazione dei sommi Pontefici) che né i vescovi, né altri prelati o loro vicari generali, delegati speciali, rappresentanti, ministri, consanguinei o addetti possano assolutamente esigere o accettare emolumenti in denaro o in altra natura per l’ammissione delle fanciulle all’abito monastico; per l’approvazione del deposito della dote; per la verifica della volontà e della disposizione d’animo ad assumere l’impegno della vita regolare; per la pronuncia della professione; per l’accesso delle fanciulle al beneficio dell’educazione; per la rinuncia prima dell’ammissione alla professione; per l’elezione della badessa o di altra superiora; per l’autorizzazione a far entrare in monastero il medico, il chirurgo od altri operatori; per la facoltà di parlare alle monache o alle altre persone che vivono entro i chiostri del monastero; per la delega dei confessori, dei cappellani, dei procuratori, degli amministratori dei beni temporali e degli altri ministri, ed in generale per ogni atto necessario al regime monastico.

36. Da questa regola generale fanno eccezione soltanto le vettovaglie, che possono essere offerte al vescovo o ad altro prelato, in occasione di alcuni dei predetti atti; purché ciò sia l’unico introito e donativo e non ecceda quel che può loro servire per il tempo di tre giorni. Il cancelliere, per il documento delle rinunzie e per l’atto di deposito della dote, riceverà un onorario adeguato al lavoro e comunque non superiore a dieci giulii.

37. Oltre a queste, in molte altre situazioni che appartengono all’esercizio della potestà spirituale (dalla quale dev’essere assolutamente assente ogni retribuzione umana) e che competono al vescovo (per il cui sostentamento e per la cui gestione sono destinati gli introiti della mensa), ai vescovi non è consentito accettare nessun ulteriore emolumento, diretto o indiretto, a qualunque titolo e proposto con qualunque motivazione, nemmeno se spontaneamente donato; analogamente, ciò non è consentito ai loro vicari, né a qualunque rappresentante o impiegato.

Qui elenchiamo, Venerabili Fratelli, le voci principali, desunte dai sacri canoni, dalle Costituzioni apostoliche e dai decreti delle sacre Congregazioni, delle quali più frequente e nota è la menzione presso i dottori.

38. Per le cosiddette lettere patenti, cioè per il permesso di predicare in quaresima e in avvento, o in altro tempo e luogo (Conc. Trid., sess. 5, cap. 2, De reform.).

Per la licenza di dedicarsi a lavori servili, per gravi motivi, nei giorni festivi (Urbano VIII, Constit. Universa e numerose sacre Congregazioni del Concilio e dei vescovi, apud Ferrar. verb. festa, n. 31 seg.), anche se il denaro derivante dall’autorizzazione venga destinato a scopi pii.

Per la resa dei conti dell’amministrazione delle chiese e dei luoghi pii e per la revisione dei libri della stessa amministrazione, sia che sia fatta dal vescovo, sia da un altro incaricato del vescovo con delega generale o speciale, con l’eccezione, tuttavia, indicata precedentemente. – Per il riconoscimento, l’approvazione e la promulgazione delle reliquie, delle indulgenze e degli altari privilegiati.

Per l’autorizzazione a chiedere elemosine ed altro, anche se concessa a forestieri.

Per la nomina dei custodi delle chiese, i cosiddetti eremiti.

Per la lettera testimoniale di povertà o di qualche altro requisito. Il cancelliere tuttavia potrà percepire complessivamente dieci oboli.

Per la lettera con la quale si attesta che uno non ha ricevuto alcun ordine, nemmeno la tonsura clericale. Al cancelliere tuttavia potranno essere dati al massimo dieci oboli.

Per l’atto di rinuncia allo stato clericale, e per la sua ammissione, o anche per la lettera o attestazione della rinuncia stessa. Per questa lettera tuttavia il cancelliere potrà esigere dieci oboli.

Per la consultazione dei libri parrocchiali già trasferiti nell’archivio vescovile: libri nei quali sono indicati i battezzati, i cresimati, gli sposati e i morti. Per ciascuna consultazione su domanda, il cancelliere potrà ricevere al massimo venti oboli ed altrettanti per l’autenticazione del dato richiesto, a meno che la dignità della persona richiedente oppure l’uso della lettera testimoniale oltre i confini della diocesi o del regno non consentano un onorario maggiore.

Nel caso in cui la certificazione richiesta non risulti dai libri parrocchiali, e per ricavarla sia necessario mettere a confronto dei testimoni, oltre la mercede nella misura stabilita per l’escussione dei testi e per la redazione dell’atto, al cancelliere sarà consentito ricevere altri quindici oboli per la pubblicazione della lettera testimoniale; al vicario generale saranno pagati trenta oboli per i decreti con i quali avrà disposto la raccolta di informazioni e – dopo averle assunte e verificate personalmente – avrà ordinato la spedizione della lettera testimoniale.

Per l’autorizzazione a lasciare la chiesa o il beneficio (Conc. Trid. sess. 23, cap. 1 De ref.). Inoltre per le lettere commendatizie che vengono consegnate ai sacerdoti, ai chierici e a coloro che sono in partenza per altre diocesi.

Per le lettere ammonitorie di scomunica che palesino segreti, autorizzate dalla curia vescovile e dall’Ordinario, o quando si tratti di pubblicare lettere ammonitorie apostoliche. Il cancelliere riceverà dieci oboli per l’impegno della stesura. Lo stesso cancelliere sarà gratificato di un ulteriore compenso da parte del vescovo, che ne fisserà anche l’importo, per completare la trascrizione delle notizie che vengono rivelate, previo decreto del vicario.

Per la trascrizione di un’ammonizione, di una sentenza o della dichiarazione di censure nelle quali sia incorso qualcuno per avere percosso degli ecclesiastici o per qualsiasi altra causa, anche nel caso di sentenza assolutoria e della stessa assoluzione dalle censure (cap. Ad aures de simonia). Il cancelliere potrà ricevere al massimo venti oboli in pagamento della stesura, purché non si tratti di lettere provenienti dalla sacra Penitenzieria apostolica; per quelle che si riferiscono alla predetta assoluzione, il cancelliere non potrà ricevere alcun compenso. Venti oboli spetteranno al cancelliere anche per le schede di censura – i cosiddetti “cedoloni” – e per la loro affissione come d’abitudine. Analoga norma sarà applicata per la liberazione da un giuramento, con l’avvertenza che se essa sarà concessa nella curia ecclesiastica il cancelliere potrà ricevere per l’attestazione soltanto venti oboli; se essa verrà concessa fuori curia, per la lettera di delega allo stesso cancelliere verranno pagati altrettanti oboli.

Per l’autorizzazione a tenere pontificali.

Per dar corso alle lettere apostoliche che impartiscono benedizioni o assoluzioni; per le lettere con le quali la stessa facoltà viene attribuita ai parroci o ad altri, con l’inserimento di dette lettere apostoliche, al cancelliere saranno pagati, tutto compreso, soltanto trenta oboli. – Per l’esecuzione delle lettere apostoliche relative all’autorizzazione impetrata presso la sacra Congregazione ad alienare o permutare i beni delle chiese e dei luoghi religiosi, oppure ad imporre censi, il cancelliere riceverà un compenso proporzionato alla fatica compiuta per completare la pratica e le scritture. Comunque esso non supererà i dieci giulii. Se la Santa Sede avrà incaricato l’Ordinario di accertare la veridicità di quanto esposto nella supplica, allora al cancelliere toccheranno dieci oboli per ogni teste sottoposto ad esame. Tenuto conto della mole del lavoro, gli si potrà anche assegnare un certo compenso, secondo il giudizio e la coscienza del vescovo, per gli editti, ogni volta che siano prescritti; per l’esame dei testimoni teso ad accertare l’utilità dell’alienazione; e per tutti gli altri adempimenti che – come di consueto occorre portare a termine in questa materia. – Per il decreto d’alienazione che, in base al cap. Terrulas 12, q. 2, viene emesso solo dall’autorità ordinaria.

39. Infine le multe o le pene pecuniarie – quando saranno rese necessarie dalla natura del reato o dalle caratteristiche di chi lo commette – saranno devolute a scopi pii e per l’attuazione della giustizia, in modo che nulla torni a vantaggio personale del vescovo o dei suoi vicari o di chiunque dei suoi rappresentanti, né direttamente né indirettamente. Per eliminare ogni dubbio o sospetto di non corretta applicazione delle multe, sarà meglio – e perciò lo riteniamo necessario – che nelle sentenze stesse siano designate le istituzioni religiose o le chiese a favore delle quali devono essere destinate le predette pene pecuniarie, tenendo sempre conto, in ciò, di quelle che hanno maggior bisogno ed anche del domicilio di coloro che hanno commesso il reato.

40. Bisognerebbe aggiungere a questo punto alcune note sul foro del contenzioso, affinché la disciplina ecclesiastica anche sotto questo profilo riconquisti la dignità e lo splendore originari. Di questo, tuttavia, converrà deliberare dopo un giudizio più approfondito e una volta assunte informazioni complete sulle consuetudini in uso in codeste diocesi. Vi è un principio, per ora, sulla quale non possiamo mantenere il silenzio e che anzi vogliamo trasmettervi ed inculcarvi con forza: gli ecclesiastici impegnati nell’emettere sentenze nelle cause spirituali svolgano il loro compito santamente, pietosamente e religiosamente, in modo che in loro non appaia nulla che offuschi con la minima ombra il candore della purezza ecclesiastica. Ne discenderà in primo luogo che i giudici ecclesiastici delle vostre diocesi non richiederanno o accetteranno alcun pagamento né per gli atti né per le sentenze pronunciate nelle cause spirituali; in particolare in quelle che riguardano la religione (come quelle contro i sospetti di eresia e i colpevoli di superstizione) o i fidanzamenti, i matrimoni, le censure, eccetera. Per questo motivo, “Ricordatevi (sono parole di Innocenzo III ai prelati e ai sacerdoti della Lombardia, nel cap. Cum ab omni, sui comportamenti e l’onestà dei religiosi) che le entrate ecclesiastiche sono destinate a favore vostro e degli altri chierici, perché con esse dobbiate vivere onestamente e non vi sia necessario stendere la mano verso turpe lucro, oppure abbassare gli occhi verso impegni non corretti. Poiché le vostre opere debbono essere di luminoso esempio ai laici, non vi sia lecito cogliere l’occasione di fare turpe commercio del diritto, come fanno i civili. Perciò ordiniamo e disponiamo che – astenendovi per il futuro da esazioni di questo tipo – individuiate come trasmettere gratuitamente ai litiganti il vigore della decisione giudiziaria, nonostante ciò che viene proposto fraudolentemente da alcuni, secondo i quali la stessa cifra venga pretesa a favore degli assistenti, poiché al giudice non è lecito commerciare un giudizio equo, e le sentenze a pagamento sono vietate anche dalle leggi civili“.

41. Questi sono, Venerabili Fratelli, gli obiettivi che abbiamo ritenuto giusto sottoporvi, in favore della causa apostolica, per la quale siamo impegnati, e per gli obblighi assunti. Se, come è giusto e come speriamo in Dio, voi li realizzerete, tutto ciò gioverà allo splendore della disciplina ecclesiastica, alla tranquillità delle vostre coscienze e soprattutto al benessere del gregge a voi affidato. – Riteniamo che questi adempimenti non vi risulteranno né onerosi né molesti, quantunque vediamo che con queste norme verrà meno una parte dei vostri consueti emolumenti. Un sospetto di questo tipo nei vostri confronti ci è comunque impedito dalla vostra attenta devozione, dalla vostra ben nota religiosità e dall’impegno per mantenere la disciplina ecclesiastica, sulla base dei quali giudicherete certamente un danno per Cristo ciò che finora rappresentava per voi un vantaggio economico. Individuerete come autentico motivo di guadagno esclusivamente il fatto che nelle vostre diocesi cresca sempre più l’adorazione per Dio ottimo e massimo, e che i popoli affidati alla vostra fede e alla religione si nutrano più facilmente e più felicemente della vostra parola e del vostro esempio.

Inoltre siamo stati pienamente informati da coloro che ben conoscono le vicende ecclesiastiche di codesta isola, ed in particolare a nome del re, che per voi rappresentano un vantaggio coloro che, ritagliandosi piccoli compensi (che non vi sarà consentito d’ora in avanti esigere), si curano del decoro e della dignità del vescovo e provvedono alle necessità delle chiese. Per non sperare di ricevere alcun aiuto da coloro ai quali vi siete appoggiati fin qui per antichissima consuetudine, converrà che vi ricordiate la famosa frase di Alessandro III (cap. Cum in ecclesia, de simonia)con la quale quel sommo Pontefice rimproverava coloro che inopportunamente si tenevano attaccati alle loro abitudini: “Molti ritengono che ciò sia loro lecito, poiché pensano che la legge della mortesi sia rafforzata per la lunga consuetudine, non riflettendo a sufficienza – accecati come sono dalla cupidigia – che quanto più gravi sono i peccati tanto più a lungo le loro anime saranno incatenate.

Dunque rigettiamo e condanniamo queste abitudini, anche se antichissime e persino immemorabili; anche se corroborate e confermate da costituzioni sinodali o da qualunque altra autorità, anche apostolica. Dichiariamo, stabiliamo ed ordiniamo che debbano essere considerate come abusi e fonte di corruzione. Animati da sollecitudine per le vostre chiese, come questa lettera ampiamente dimostra, abbiamo in Noi saldissima la speranza che voi non lesinerete impegno, diligenza ed attenzione.

Frattanto, in pegno del Nostro amore paterno nei vostri confronti e della Nostra benevolenza, vi impartiamo la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, in Santa Maria Maggiore, il 21 settembre 1769, nel primo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA II DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA II DOPO PASQUA (2021)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è chiamata la Domenica del Buon Pastore (Questa parabola fu da Gesù pronunziata il terzo anno del suo ministero pubblico allorché, alla festa dei Tabernacoli, aveva guarito a Gerusalemme il cieco nato. Questi è dai Giudei cacciato dalla Sinagoga, ma Gesù gli offre la sua Chiesa come asilo e paragona i farisei ai falsi pastori che abbandonano il loro gregge). Infatti, San Pietro, che Gesù risuscitato ha costituito capo e Pastore della sua Chiesa, ci dice nell’Epistola che Gesù Cristo è il pastore delle anime, che erano come pecore erranti. Egli è venuto per dare la propria vita per esse ed esse gli si sono strette intorno. Il Vangelo ci narra la parabola del Buon Pastore che difende le pecore contro gli assalti del lupo e le preserva dalla morte (Or.), e annunzia pure che i pagani si uniranno agli Ebrei dell’Antica Legge e formeranno una sola Chiesa e un solo gregge sotto un medesimo Pastore. Gesù le riconosce per sue pecorelle ed esse, come i discepoli di Emmaus « i cui occhi si aprirono alla frazione del pane » (Vang., 1° All., S. Leone, lezione V), riconoscono a loro volta, all’altare ove il sacerdote consacra l’Ostia, memoriale della passione, che Gesù « il Buon Pastore che ha dato la sua vita per pascer le pecorelle col suo Corpo e col suo Sangue » (S. Gregorio, lezione VII). Levando allora il loro sguardo su Lui (Off.), esse gli esprimono la loro riconoscenza per la sua grande misericordia (Intr.). « In questi giorni, dice S. Leone, Io Spirito si è diffuso su tutti gli Apostoli per l’insufflazione del Signore e in questi giorni il Beato Apostolo Pietro, innalzato sopra tutti gli altri, si è sentito affidare, dopo le chiavi del regno, la cura del gregge del Signore » (2° Notturno). È questo il preludio alla fondazione della Chiesa. Stringiamoci dunque intorno al divino Pastore delle anime nostre, nascosto nell’Eucarestia, e di cui il Papa, Pastore della Chiesa universale, è il rappresentante visibile.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúja: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum.

[Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle anime vostre]. –

In queste due parole « mors et vita » si compendia tutta la storia dell’umanità, individua e sociale. Due parole che si integrano a vicenda pur sembrando diametralmente contrarie, parole la cui sovrana importanza dal campo fisiologico si riverbera nel mondo spirituale. Che cosa è il Cristianesimo? Dottrina di vita, o dottrina di morte? Amici e nemici hanno agitato il problema, delicato e difficile anche per la varietà dei suoi aspetti, grazie ai quali quando fu imprecato al Cristianesimo dai neo pagani, come a dottrina velenosa e deprimente di morte, si poté rispondere e si rispose da parte nostra, rivendicando al Cristianesimo l’amore, il culto della vita; e quando invece da noi si esalta la dinamica vitale del Cristianesimo, si poté e si può dagli avversari rammentare tutto un insieme cristiano di austere parole di morte. La soluzione dell’enigma ce la dà San Pietro nella Epistola odierna. Il Cristianesimo è tutto insieme un panegirico di vita e un elogio di morte; ci invita a respirare la vita a larghi polmoni, ci invita ad accettare quel limite immanente della vita che è la morte. Tutto sta nel determinare bene: a che cosa dobbiamo morire per essere Cristiani? e a che cosa dobbiamo rinascere? Ce lo dice San Pietro in due parole dopo averci rimesso davanti l’esempio di N. S. Gesù Cristo, che prese sopra di sé i nostri peccati, espiandoli in « corpore suo super lignum. » Noi Cristiani dobbiamo morire al peccato, vivere alla giustizia. Morire al peccato, come chi dicesse morire alla morte, negare la negazione. Negare la negazione è la formula scultoria della affermazione. Morire alla morte è formula di vita…. e noi dobbiamo morire al peccato, cominciando dal convincerci che il peccato è morte, e che quindi si vive davvero morendo a lui. Purtroppo, il grande guaio è la riputazione che il peccato si è venuto usurpando. Il male morale si è usurpato una fama di cosa viva e vivificatrice. Noi viviamo, dicono con orgogliosa e fatua sicurezza quelli che si godono la vita e cioè la sfruttano, la sciupano, quelli che lasciano la briglia sciolta a tutte le passioni, non escluse le più vergognose e mortifere. Noi viviamo, dicono i seguaci del mondo; i loro divertimenti, le loro dissipazioni, i loro giochi, i loro folli amori, le loro vanità gonfie e vuote, tutto questo chiamano vita, esaltano come se fosse veramente tale. E della vita tutto questo simula le apparenze. Ma è febbre, calore sì, ma calore morboso; troppo calore… anche il precipitare è un moto, ma chi vorrebbe muoversi a quel modo? chi vorrebbe considerare come forma classica di moto il precipitare, la corsa pazza d’una automobile priva dei suoi freni? Così si muovono, così vivono i mondani. A guardar bene, sono come quei prodighi che vivono mangiando il capitale. Bella forma di economia! Il peccato ci logora, ci sciupa; è usura, logoramento delle nostre risorse più vitali. Così in realtà chi vive nel peccato, muore ogni giorno più alla vera vita. Chi folle, persegue l’errore, atrofizza, a poco a poco, quella capacità di rintracciar il vero che solo merita il nome di intelligenza, di vita intellettuale. Chi ama il fango, la materia, paralizza, a poco a poco, quella capacità di amare spiritualmente che è la vera forma di amare. Il programma della nostra vita cristiana deve essere un altro, tutt’altro; vivere per la giustizia. Gesù Cristo voleva che la giustizia fosse per noi cibo e bevanda. Beati quelli e solo quelli che hanno fame e sete di giustizia. Questo ardore per la giustizia è nell’uomo vita vera e duratura. Parola sintetica quella parola giustizia: tutto ciò che è diritto, che è vero, che è alto, che è dovere nostro, volontà di Dio. In questo mondo superiore devono appuntarsi le nostre volontà, dirigersi i nostri sforzi. Lì è vita, la forza, l’entusiasmo, la gioia vera, umana. Il cristianesimo ci ha fatto sentire la nostra vocazione autentica. Siamo una razza divina. Le razze inferiori possono vivere di cose basse: le superiori solo di cose alte. Razza divina, noi abbiamo bisogno proprio di questo cibo divino che è la giustizia. Di questo, con questo viviamo. Senza di esso, fuori di esso è la morte.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV: 35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja

[I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja.

[Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X: 11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

(“In quel tempo Gesù disse ai Farisei: Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle. Il mercenario poi, o quei che non è pastore, di cui proprie non sono le pecorelle, vede venire il lupo, e lascia lo pecorelle, e fugge; e il lupo rapisce, e disperde le pecorelle: il mercenario fugge, perché è mercenario, e non gli cale delle pecorelle. Io sono il buon Pastore; e conosco le mie, e le mie conoscono me. Come il Padre conosce me, anch’io conosco il Padre: e do la mia vita per le mie pecorelle. E ho dell’altre pecorelle, le quali non sono di questa greggia: anche queste fa d’uopo che io raduni: e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo gregge e un solo pastore”.)

OMELIA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla Perseveranza.

“Qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit”       

(chi pervererà fino alla fine sarà salvo)

(MATTH. X, 22).

Chi combatterà e persevererà fino alla fine dei suoi giorni, senza lasciarsi vincere, ci dice il Salvatore del mondo; oppure, caduto, si sarà rialzato e persevererà, sarà coronato, cioè sarà salvo: sono parole, F. M., che dovrebbero farci tremare ed agghiacciare dallo spavento, se consideriamo da una parte i pericoli a cui siamo esposti e dall’altra, la nostra debolezza ed il numero dei nemici che ci circondano. Perciò non meravigliamoci, se i più grandi santi hanno abbandonato parenti ed amici, ricchezze e piaceri per andare gli uni a nascondersi nelle foreste, gli altri a piangere nelle grotte; altri ancora a chiudersi fra quattro mura per passare nelle lacrime il resto della loro vita, ed essere più liberi e sciolti da tutti gli impacci del mondo, per non occuparsi che di combattere i nemici della loro salute, convinti che il cielo sarebbe dato solo alla loro perseveranza. — Ma, mi direte, cosa vuol dire perseverare? — Ecco. Esser pronti a sacrificare tutto: le ricchezze, la volontà, la libertà e la stessa vita, piuttosto che dispiacere a Dio. — Ma, mi direte ancora: cos’è il non perseverare? — Eccolo. Ricadere nei peccati che già abbiamo confessati, seguire le cattive compagnie che ci hanno portato al peccato, il più grande di tutti i mali, poiché con esso abbiam perduto il nostro Dio, abbiamo attirato su di noi tutta la sua collera, strappiamo la nostra anima al cielo e la condanniamo all’inferno. Volesse Iddio che i Cristiani che hanno la ventura di riconciliarsi con Dio per mezzo del sacramento della Penitenza, lo comprendessero bene! E per darvene un’idea, vi mostrerò i mezzi che dovete usare per perseverare nella grazia che avete ricevuto nel sacro tempo pasquale. Io ne trovo cinque principali, cioè: la fedeltà nel seguire i movimenti della grazia di Dio, la fuga delle cattive compagnie, la preghiera, la frequenza dei Sacramenti ed infine la mortificazione. Veramente oggi potrete dire che quello che sentirete non vi riguarda; almeno, un buon terzo di voi. Io, parlarvi della perseveranza? ma sono dunque un falso pastore? non lavoro dunque che alla vostra rovina spirituale? Il demonio si servirà di me per affrettare la vostra dannazione? dunque farò io tutto il contrario di ciò che Dio mi ha comandato di fare: Egli non mi manda in mezzo a voi che per salvarvi, e la mia occupazione sarà quella di trascinarvi nell’abisso? che io sia il crudele carnefice delle vostre anime! Dio mio! Quale disgrazia! Parlarvi della perseveranza! Ma questo linguaggio non conviene che a coloro che hanno abbandonato risolutamente il peccato, e che hanno stabilito di perdere mille vite piuttosto che tornare a commettere la colpa; dire ad un peccatore di perseverare! Dio mio! non sarò io la più disgraziata creatura che la terra abbia portata? No, no, non è questo il linguaggio che dovrei tenere, ma piuttosto: cessa, amico mio, di perseverare nel tuo stato deplorevole, altrimenti ti perderai. Io, dire di perseverare a quest’uomo che da parecchi anni non fa più Pasqua o la fa male? No, no, amico, se perseveri, sei perduto; il cielo non sarà mai per te! Io, dire a quella persona, che si accontenta di fare la Pasqua, di perseverare? ma non sarebbe questo il metterle una benda davanti agli occhi e trascinarla all’inferno? Io, dire di perseverare a quei padri e a quelle madri che fanno Pasqua e rallentano il freno ai loro figli? Ah! no, non voglio essere il carnefice della loro povera anima. Io, dir di perseverare a quelle giovani che hanno fatto la Pasqua col pensiero ed il desiderio di tornare ai balli ed ai piaceri? Oh! povero me! che orrore! che abbominazione! che catena di delitti e di sacrilegi! Io, dire di perseverare a quelle persone che frequentano cinque o sei volte all’anno i Sacramenti e non fanno apparire alcun cambiamento nel loro modo di vivere? gli stessi lamenti nelle loro pene, gli stessi impeti di collera, la stessa avarizia, la stessa noncuranza dei poveri; sempre pronti a calunniare e a denigrare la fama del prossimo… Dio mio! quanti Cristiani ciechi e venduti all’iniquità! Io, dire di perseverare a quelle persone che, senza inquietarsi o per rispetto umano, mangiano di grasso nei giorni proibiti, e lavorano senza scrupolo nei giorni di domenica? Dio mio! che disgrazia! A chi dunque mi volgerò? Non ne so nulla. Ah! no, no, F . M., non della perseveranza nella grazia avrei oggi dovuto parlarvi! Avrei piuttosto dovuto dipingervi lo stato spaventoso e disperato di chi non ha fatto Pasqua o l’ha fatta male, e persevera in questo stato. Ah! volesse Dio che mi fosse permesso di descrivervi la disperazione d’un peccatore davanti al tribunale del Giudice divino, e farvi sentire quei torrenti di maledizioni: “Va, maledetto dannato, va, peccatore indurito, va a piangere la tua vita peccaminosa ed i tuoi sacrilegi. Ah! non ti basta l’avervi marcito durante la tua vita… „ Bisognerebbe trascinarli sino alle porte dell’inferno, prima che il demonio ve li precipiti per sempre, e far loro sentire le grida, le urla di quegl’infelici dannati, e mostrare a ciascuno il posto a lor riservato. Dio mio! potrebbero vivere ancora?!!! Un cielo perduto… Un inferno… un’eternità.. Essi hanno disprezzato i dolori… che dico i dolori? la morte d’un Dio… Ecco la ricompensa della perseveranza nel peccato; sì, ecco il soggetto di cui avrei dovuto trattare oggi. Ma parlarvi della perseveranza, la quale suppone un’anima che teme più il peccato che la morte, che passa i suoi giorni nell’amor del suo Dio; un’anima spoglia di ogni affetto terreno e i cui desiderii non sono che pel cielo …Ebbene, dove volete ch’io mi rivolga? Dove io potrei trovarla quest’anima? Ah! dov’è? Qual è il paese fortunato che la possiede? Ahimè! io non ne ho trovato; od almeno, ne ho trovate ben poche. Dio mio! forse voi ne vedete alcuna ch’io non conosco. Io vi parlerò dunque come se fossi sicuro che ve ne fossero almeno più una o due, per mostrar loro i mezzi ch’esse devono usare per continuare la via fortunata che hanno cominciata. Ascoltate bene, anime sante, se pure ve n’ha alcuna tra quelli che mi ascoltano, ascoltate ciò che Iddio vi dirà per bocca mia.

I. — Anzitutto, il primo mezzo di perseverare nella via che conduce al cielo, è d’esser fedele nel seguirla, e nell’approfittare dei movimenti della grazia che Dio vuol accordarci. Tutti i santi non sono debitori della loro felicità che alla loro fedeltà nel seguire i movimenti operati in essi dallo Spirito Santo, ed i dannati non possono attribuire la loro disgrazia che al disprezzo che ne hanno fatto. Questo solo può bastare per farvene sentire tutto il valore, e la necessità d’esservi fedele. — Ma, mi direte, come, in qual modo possiamo conoscere se corrispondiamo a ciò che la grazia vuole da noi, oppure se vi resistiamo? — Se non lo sapete, ascoltatemi un momento e ne saprete ciò che è essenziale. In primo luogo la grazia è un pensiero il quale ci fa sentire la necessità d’evitare il male e di fare il bene. Entriamo, in qualche particolarità familiare, perché possiate meglio comprendere, e vedrete quando le resistete, oppure quando le siete fedeli. La mattina, quando vi svegliate, il buon Dio vi suggerisce il pensiero di offrirgli il vostro cuore, di offrirgli il vostro lavoro, di fare tosto in ginocchio la vostra preghiera: se lo fate subito e di buona volontà, seguirete le ispirazioni della grazia; e se non lo fate, ovvero lo fate male, non le seguite. Vi sentite ad un tratto il desiderio d’andarvi a confessare e di correggervi dei vostri difetti, di non rimanere nello stato in cui siete; pensando che se aveste a morire vi dannereste. Se seguite queste buone ispirazioni che vi dà Iddio, siete fedeli alla grazia. Ma voi lasciate passare tutto questo senza il pensiero di fare qualche elemosina, qualche penitenza, d’andare a messa nei giorni feriali, di mandarvi i vostri servi: non lo fate. Ecco F. M., che cos’è seguire la grazia o resistervi. Questo è ciò che si chiama la grazia interiore. Quelle che sono chiamate grazie esteriori, sono per esempio, una buona lettura, una conversazione con una persona dabbene, che vi fa sentire la necessità di cambiar vita, di meglio servir il buon Dio, il rimorso che proverete se non lo fate, in punto di morte: è un buon esempio che vi si presenta dinanzi e che sembra stimolarvi affinché vi abbiate a convertire; è infine un’istruzione che vi insegna i mezzi che bisogna usare per servire Dio e adempiere i vostri doveri verso di Lui, verso noi stessi e verso il prossimo. Badate bene, da qui dipende la vostra salvezza o la vostra dannazione. I santi non si sono santificati che con la loro grande attenzione nel seguire tutte le buone ispirazioni, che Dio mandava loro; ed i dannati non sono caduti nell’inferno se no perché le hanno disprezzate; e ne vedrete la prova. Vediamo nell’Evangelo che tutte le conversioni, operate da Gesù Cristo durante la sua vita, hanno fondamento sulla perseveranza! Come S. Pietro è stato convertito, F . M.? Sappiamo, è vero, che Gesù Cristo lo guardò, che S. Pietro pianse il suo peccato, ma che cosa ci assicura della sua conversione, se non l’aver egli perseverato nella grazia, e mai più peccato? (Luc. XXII, 61, 62). Come è stato convertito S. Matteo? Sappiamo, è vero, che Gesù Cristo, avendolo visto al suo banco, gli disse di seguirlo, e che egli lo seguì, ma ciò che ci assicura che la sua conversione fu vera è il fatto che egli non si sedette più a quel banco, e non commise più ingiustizie; è il fatto che dopo aver cominciato a seguire Gesù Cristo, non lo lasciò più. (Luc. V, 27, 28) La perseveranza nella grazia, la rinuncia per sempre al peccato, furono i segni certissimi della sua conversione. Sì, F. M., quand’anche aveste vissuto venti o trent’anni nella virtù e nella penitenza, se non perseverate, tutto è perduto per voi. Sì, dice un santo vescovo al suo popolo, quand’anche aveste dato ogni vostro avere ai poveri, lacerato il vostro corpo e ridottolo tutto una piaga, sofferto, da solo, quanto tutti i martiri assieme, foste stato scorticato come S. Bartolomeo, segato tra due tavole come il profeta Isaia, arrostito lentamente come S. Lorenzo; se, per disgrazia, non perseverate, cioè se ricadrete nel peccato che già avete confessato, e la morte avesse a sorprendervi in questo stato, tutto sarebbe perduto. Chi di noi si salverà? Forse chi avrà combattuto quaranta o sessant’anni? No, F. M. Forse chi sarà invecchiato nel servizio di Dio? No, F. M., se non persevera. Salomone, di cui lo Spirito Santo dice, parlando di lui, che fu il più saggio dei re della terra (III Reg. IV, 31); quantunque paresse sicuro della propria salute, pure ci lasciò a questo riguardo in una grande incertezza. Saul ce ne presenta un’immagine ancor più spaventosa. Scelto da Dio stesso per reggere il suo popolo, colmato di tante benedizioni, muore riprovato. (I Reg. XXXI, 6) Ah! disgraziato! ci dice S. Giovanni Crisostomo, guardati bene, dopo aver ricevuto la grazia del tuo Dio, di non disprezzarla. Io tremo allorquando considero con quanta facilità il peccatore ricade nel peccato già confessato; come oserà domandare perdono?„ Sì, F. M., vi basterebbe per non ricadere mai più nel peccato, vi basterebbe coll’aiuto della grazia, confrontare lo stato disgraziato in cui vi aveva ridotto il peccato con quello! in cui v’ha messo la grazia. Sì, F. M., un’anima che ricade nel peccato, abbandona il suo Dio al demonio, fa opera di carnefice e lo crocifigge sulla croce del suo cuore; strappa la sua anima dalle mani del suo Dio, la trascina all’inferno, l’abbandona a tutto il furore ed alla rabbia dei demoni, le chiude il cielo, e rivolge a sua condanna tutti i patimenti del suo Dio. Ah! Dio mio, chi potrebbe tornare a commettere il peccato, se si facessero tutte queste riflessioni? Ascoltiamo, F. M., le terribili parole del Salvatore: “Chi avrà combattuto fino alla fine sarà salvo. „ E poi tremiamo ad ogni momento. Non vi sarà più cielo per noi se non siamo più fermi di quanto siamo stati fino ad ora; ma non è ancora tutto. Giacche potete perseverare nella pratica della virtù e dannarvi. Le vostre confessioni sono ben fatte? Avete prese tutte le precauzioni che dovevate usare per ben fare le vostre confessioni e comunioni? Avete ben esaminata la vostra coscienza prima di avvicinarvi al tribunale della penitenza? Avete confessato tutti i vostri peccati come voi li conoscevate senza dire, forse, che non è male, che non è nulla, oppure: lo dirò un’altra volta? Avete vero dolore dei vostri peccati? L’avete domandato a Dio andando al confessionale? Avreste preferito la morte piuttosto che tornare a commettere i peccati che avevate appena confessati? Siete nella ferma risoluzione di non più frequentare quelle persone con cui avete fatto del male? Protestate al buon Dio che se doveste ancora offenderlo, preferireste ch’egli vi faccia morire? Eppure, anche con tutto questa disposizioni, tremate sempre; vivete una specie di speranza e di diffidenza. Oggi siete nell’amicizia di Dio, tremate che, forse domani, non siate in odio a Lui, e riprovato. Ascoltate S. Paolo, quel vaso d’elezione, che era stato scelto da Dio per portare il suo nome davanti ai principi e re della terra, che ha condotte tante anime a Dio, i cui occhi si offuscavano ad ogni momento per l’abbondanza delle lagrime ch’egli spargeva; egli esclamava ad ogni momento: “Ahimè! non cesso di mortificare il mio corpo e di ridurlo in servitù, e temo che dopo aver predicato agli altri i mezzi d’andare in cielo, non sia io stesso cacciato e dannato (I Cor. IX, 27)„ In un altro punto sembra avere un po’ più di confidenza; ma su che è fondata questa confidenza? “Sì, mio Dio, esclama, io sono come una vittima pronta per essere immolata, ben presto il mio corpo e la mia anima saranno separati, vedo che non vivrò più a lungo; ma la mia confidenza sta in ciò che ho sempre seguito le ispirazioni che la grazia di Dio m’ha dato. Da quand’ebbi la ventura di convertirmi, ho condotto tante anime a Dio quanto m’è stato possibile, ho sempre combattuto, ho fatto una guerra continua al mio corpo. Ah!quante volte ho domandato a Dio la grazia di disfarmi di questo miserabile corpo, che mi conduceva verso il male (II Cor. XII, 8); finalmente, grazie a Dio, riceverò la ricompensa di chi ha combattuto e perseverato fino alla fine (II Tim. IV, 8).„ O mio Dio! quanto son pochi quelli che perseverano, e per conseguenza, quanto pochi si salvano! Leggiamo nella vita di S. Gregorio che una dama romana gli scrisse per domandargli l’aiuto delle sue preghiere, affinché Dio le facesse conoscere se i suoi peccati le erano stati perdonati e se, un giorno, riceverebbe la ricompensa delle sue buone opere.”Ah! diceva ella, temo che Dio non m’abbia perdonata. „ — ” Ahimè! le dice S. Gregorio, mi domandate una cosa difficilissima; pure vi dirò che, se perseverate, potete sperare che Dio vi perdonerà e che andrete in cielo; ma se non perseverate, malgrado tutto ciò che avrete fatto, vi dannerete. „ Quante volte non teniamo lo stesso linguaggio, tormentandoci per sapere se ci salveremo o ci danneremo! Pensieri inutili, F. M.! Ascoltate Mosè che, vicino a morire, fece radunare le dodici tribù d’Israele. “Sapete, disse loro, che vi ho teneramente amati, che non ho cercato se non la vostra salute e la vostra felicità; ora che vado a render conto a Dio di tutte le mie azioni, bisogna vi avverta che vi raccomando di non dimenticare questo: servite fedelmente il Signore, ricordatevi di tante grazie, di cui vi ha colmati; ed a qualunque costo non separatevi mai da Lui. Vedrete nemici che vi perseguiteranno e faranno il possibile per farvi abbandonare, ma fatevi coraggio, siete sicuri di vincerli se siete fedeli a Dio (Deuter. XXXI). Ahimè! F. M., le grazie che Dio ci accorda sono ben più numerose ed i nemici che ci circondano sono ben più potenti. Io dico: le grazie, poiché essi non avevano ricevuto che qualche ricchezza e la manna; e noi abbiamo avuto la fortuna di ricevere il pendono dei nostri peccati, di strappare le nostre anime dall’inferno e d’esser nutriti non della manna, ma del Corpo e del Sangue adorabile di Gesù Cristo!… Dio mio! che fortuna! Non bisogna dunque rivolgerci indietro, e lavorare continuamente per non perdere questo tesoro. Si quanti non perseverano, perché temono il combattimento!  Leggiamo nella storia che un santo prete incontrò un giorno un cristiano che era in continua apprensione di soccombere alla tentazione. ” Perché temete? gli dice il prete. — Ahimè! padre, disse, temo d’esser tentato, di cadere, di perire. Ah! esclama piangendo, non ho forse di che tremare se tanti milioni di angeli soccombettero in cielo, se Adamo ed Eva sono stati vinti nel Paradiso terrestre, se Salomone, che era considerato il più saggio dei re, e che era giunto al più alto grado di perfezione, ha insozzato i suoi bianchi capelli coi delitti più vergognosi e disonoranti; se quest’uomo, dopo essere stato l’ammirazione del mondo ne è diventato l’orrore e l’obbrobrio; quando considero un Giuda che cadde ed era in compagnia di Gesù Cristo stesso; se tanti lumi fulgidi si sono spenti, che devo pensare di me che non sono che peccato? Chi potrebbe contare il numero delle anime che sono nell’inferno e che, senza le tentazioni, sarebbero in cielo? Dio mio! chi non può tremare e avere speranza di perseverare? — Ma, amico, gli dice il santo prete, non sapete ciò che ci dice S. Agostino, che cioè il demonio è simile ad un grosso cane incatenato, che abbaia e fa grande strepito, ma non morde se non chi gli si avvicina troppo? Abbiate confidenza in Dio, fuggite le occasioni di peccato, e non soccomberete. Se Eva non avesse ascoltato il demonio, se quand’egli le proponeva di trasgredire l’ordine di Dio, ella fosse fuggita, non sarebbe caduta. Quando sarete tentato, scacciate subito la tentazione e, se potete, fate devotamente il segno della croce, pensate ai tormenti che sopportano i dannati per non aver saputo resistere alla tentazione; alzate gli occhi al cielo e vedrete la ricompensa di chi combatte; chiamate in aiuto il vostro buon Angelo custode, gettatevi prontamente nelle braccia della Madre di Dio, invocando la sua protezione; sarete sicuro allora d’esser vittorioso dei vostri nemici, e ben presto li vedrete coperti di confusione.„ Se soccombiamo, F. M. , è dunque perché non vogliamo usare i mezzi che il buon Dio ci offre per combattere. Bisogna soprattutto esser convinti che, da soli, non possiamo che perderci; ma che con una grande confidenza in Dio possiamo tutto. S. Filippo Neri diceva spesso a Dio: “Ahimè! Signore, custoditemi! bene, io sono così cattivo che mi sembra a ogni momento di tradirvi; io sono sì poca cosa che, anche quand’esco per fare una buona opera, dico tra me: tu esci cristiano di casa e forse entrerai pagano, dopo aver rinnegato il tuo Dio. „ Un giorno, credendosi solo in una solitudine, si mise a gridare: ” Ahimè! sono perduto, sono dannato! „ Uno che lo senti venne da lui, dicendogli: “Amico, perché disperate della misericordia di Dio? non è essa infinita? — Ah! gli disse il gran santo io non dispero, anzi spero molto; ma dico che sono perduto e dannato se Dio m’abbandona a me stesso. Quando considero quante persone hanno perseverato fino alla fine e che per una sola tentazione si sono perdute; questo mi fa tremare notte e giorno, nel timore d’esser del numero di quei disgraziati. „ Ah! F. M., se tutti i santi hanno tremato per tutta la loro vita nel timore di non perseverare, che sarà di noi che, senza virtù, quasi senza confidenza in Dio, dal canto nostro carichi di peccati, non facciamo attenzione a metterci in guardia per non lasciarci prendere nelle insidie che il demonio ci tende? noi che camminiamo come ciechi in mezzo ai più grandi pericoli, che dormiamo tranquillamente tra una folla di nemici i più accaniti per trarci a perdizione? — Ma, mi direte, che bisogna dunque fare per non soccombere? — Eccolo: bisogna fuggire le occasioni che ci hanno fatto cadere altre volte; ricorrere incessantemente alla preghiera, e finalmente frequentare spesso e degnamente i Sacramenti; se fate questo, se seguite questa via, siete sicuri di perseverare; ma se non prendete queste precauzioni, avrete bel fare e prendere tutte le vostre misure; ma non sfuggirete per questo la dannazione.

II. — In secondo luogo, per quanto vi è possibile, dovete fuggire il mondo, perché il suo linguaggio ed il suo modo di vivere sono interamente opposti a ciò che deve fare un buon Cristiano; cioè una persona che cerca i mezzi più sicuri per andare in cielo. Domandatelo a S. Maria Egiziaca che abbandonò il mondo e passò la vita in fondo ad un orrido deserto: essa vi dirà ch’è impossibile poter salvare la propria anima e piacere a Dio, se non si fugge il mondo; perché dappertutto non vi si trova che lacci e agguati; e siccome è contrario a Dio, bisogna assolutamente disprezzarlo ed abbandonarlo per sempre. Dove avete sentito cattive canzoni e infami discorsi, che vi fanno nascere un’infinità di cattivi pensieri e di cattivi desideri? Non fu quando vi siete trovato in quella compagnia di libertini? Chi v’ha fatto fare giudizi temerari? Non fu il sentire parlare male del prossimo in compagnia di quei maldicenti? Chi v’ha dato l’abitudine di osare sguardi e contatti abbominevoli su voi o su altri? Non fu dopo aver frequentato quell’impudico? Qual è la causa per cui voi non frequentate più i Sacramenti? Non è forse da quando siete andato con quell’empio, che ha cercato di farvi perdere la fede, dicendovi che erano bestialità le cose che vi diceva il prete; che la religione serviva solo per tener in freno i giovani; che si era imbecilli andando a raccontare ad un uomo le proprie azioni; che tutti coloro che sono istruiti si ridono di tutto questo, fino alla morte,… allora poi confesseranno che si sono ingannati? (S. Gregorio Magno. — S. Leone Magno. — S. Agostino. — Massillon. — È vero che Voltaire ed altri, in punto di morte hanno confessato che si sono ingannati: cioè, sono vissuti da empi e sono morti nella loro empietà. (Nota del Beato). – Il Beato è d’accordo col libro della Sapienza che ci mostra gli empi nel giorno del giudizio parlare cosi dei giusti: “Ecco quelli che altre volte noi abbiamo derisi, e di cui ci siamo burlati. Noi, insensati, consideravamo la loro vita come una follia e la loro morte come disonorante. Ma ora essi sono annoverati nel numero dei figli di Dio, ed hanno la loro eredità tra i santi „ (Sap. v, vers. 3 e seg.). Ebbene! amico, senza quella cattiva compagnia, avreste avuto tutti questi dubbi? No, certo. Ditemi, sorella, da quanto tempo provate tanto diletto per i piaceri, le danze, i balli, gli appuntamenti, gli ornamenti mondani? Non forse da quando avete frequentato quella giovanotta mondana che non è ancora contenta d’aver perduta la sua povera anima e che ha perduta la vostra? Ditemi, amico, da quanto tempo frequentate i giuochi, le osterie? Non fu da quando avete conosciuto quel libertino? Da quando vi si sente vomitare ogni sorta di bestemmie e d’imprecazioni? Non forse dacché siete a servizio presso quel padrone, che grida continuamente e la cui bocca non è che una sorgente d’abbominazione? – Sì, F. M., nel giorno del giudizio, ogni libertino vedrà l’altro libertino domandargli la sua anima, il suo Dio, il suo paradiso. Ah! disgraziato, si diranno l’un l’altro, rendimi la mia anima che m’hai rovinata, rendimi il cielo che m’hai rapito. Disgraziato, dov’è la mia anima? Strappala dunque dall’inferno in cui deve piombare. Ah! senza di te non avrei certo commesso quel peccato che mi danna! Io non lo conoscevo neppure. No, io non avrei mai avuto quel pensiero; ah! il bel cielo che mi hai fatto perdere! Addio, bel cielo che m’hai rapito! Sì, ogni peccatore si getterà su chi gli ha dato cattivo esempio e l’ha portato per la prima volta al peccato. “Ah! dirà, avesse Iddio voluto ch’io non t’avessi conosciuto mai! Ah! se almeno fossi morto prima di vederti, ora sarei in cielo; e non andrei mai più… Addio, bel cielo, per ben poco io t’ho perduto!… „ No, F. M.,  non persevererete mai nella virtù se non fuggite le compagnie del mondo; potreste ben volervi salvare, ma fatalmente vi dannerete. O l’inferno o la fuga: non c’è via di mezzo. Scegliete ciò che preferite. Da quando un giovane od una giovane seguono il loro talento… sono giovani riprovati… Avrete un bel dire che non fate male, che forse io sono scrupoloso. Io vi dico che sarà sempre così, che, se non cambiate, un giorno sarete nell’inferno; e non solo lo vedrete, ma, di più, lo proverete. Tiriamo un velo, F. M., e passiamo ad un altro argomento.

III. — In terzo luogo per aver la fortuna di perseverare nella grazia di Dio dopo aver ricevuto il sacramento della Penitenza, è assolutamente necessaria la preghiera. Colla preghiera potete tutto, siete, per così dire, passi la frase, padroni della volontà di Dio; e senza la preghiera, non siete capaci di nulla, e questo solo basta per mostrarvi la necessità della preghiera. Tutti i santi hanno cominciato la loro conversione colla preghiera e con essa hanno perseverato; e tutti i dannati si sono perduti per la loro negligenza nella preghiera. Per perseverare la preghiera è assolutamente necessaria. Ma distinguo: non una preghiera fatta dormendo, appoggiati ad una sedia, o sdraiati sul letto; non una preghiera fatta vestendosi o spogliandosi o camminando; non una preghiera fatta accendendo il fuoco, sgridando i figli ed i servi; non una preghiera fatta girando tra le mani il cappello od il berretto; non una preghiera fatta baciando i figli, od accomodando il fazzoletto od il grembiule; non una preghiera fatta colla mente attenta a cose estranee; non una preghiera fatta a precipizio come una cosa che ci annoia, e della quale non vediamo che il momento di liberarci; tutto questo non è più una preghiera, ma un insulto che facciamo a Dio. Lungi dal trovarvi i mezzi per garantirci dalla caduta nel peccato, questa preghiera stessa ci è un argomento di caduta; perché invece di attingere un nuovo grado di grazia, Dio ci ritira quella che ci aveva già data, per punire il disprezzo che noi facciamo della sua augusta presenza. Invece d’indebolire i nostri nemici li rendiamo più forti; invece di strappar ad essi le armi che avevano per combatterci ne procuriamo loro di nuove; invece di mitigare la giustizia di Dio, l’irritiamo sempre più! Ecco, F. M., il profitto che abbiamo dalle nostre preghiere. Ma la preghiera di cui vi parlo, preghiera che è sì potente presso Dio, che attira su noi tante grazie, che sembra quasi legare la volontà di Dio, che sembra, per così dire, obbligarlo ad accordarci ciò che gli domandiamo, è una preghiera fatta in una specie di diffidenza e di speranza. Diffidenza, considerando la nostra indegnità ed il disprezzo che abbiamo fatto di Dio e delle sue grazie, riconoscendoci indegni di comparire davanti a Lui e di osare domandar grazia, noi che tante volte l’abbiamo già ricevuta, e l’abbiamo sempre contraccambiato con ingratitudini, il che deve condurci in ogni momento della nostra vita, a credere che la terra s’aprirà sotto i nostri piedi, che tutti i fulmini del cielo sono pronti a colpirci, e che tutte le creature gridano vendetta in vista degli oltraggi da noi arrecati al loro Creatore; perciò tremanti davanti a Lui aspettiamo se Dio lancerà la sua folgore per annientarci, o se vorrà perdonarci ancora una volta. Col cuore spezzato dal rimorso d’aver offeso un Dio sì buono, lasciamo scorrere le nostre lagrime di pentimento e di riconoscenza: il nostro cuore ed il nostro spirito sono compresi dell’umiltà del nostro nulla, e della grandezza di Colui che abbiamo offeso e che ci lascia ancora la speranza del perdono. Lungi dal considerare il tempo della preghiera come un momento perduto, lo consideriamo come il più felice ed il più prezioso della nostra vita, perché un Cristiano peccatore, non deve avere in questo mondo altra occupazione che quella di piangere ai piedi del suo Dio. Lungi dall’occuparsi anzitutto dei suoi affari temporali, e di preferirli a quelli della sua salute, li considera come inezie, anzi ostacoli alla propria salvezza, e non ha per essi che quelle cure ed attenzioni che Dio gli comanda, convinto che se non li compie lui vi penseranno altri; ma che, se non ha la fortuna di ottenere la grazia e di rendersi Dio favorevole, tutto è perduto per lui, e nessuno vi penserà per lui. Non abbandona la preghiera che a gran pena; i momenti in cui si trova alla presenza di Dio, sono un nulla, o meglio passano come un lampo; se il suo corpo lascia la presenza di Dio, il suo cuore ed il suo spirito sono fissi in lui. Durante la preghiera non pensa più al lavoro, né a sedersi, né a coricarsi… Un Cristiano deve essere tra la diffidenza e la speranza. La speranza, cioè ricordando la grandezza della misericordia di Dio, il desiderio ch’egli ha di renderci felici, e ciò che ha fatto per renderci degni del cielo. Animati da un pensiero sì consolante ci indirizzeremo a Lui con grande confidenza, e diremo con san Bernardo: “Dio mio, quello che vi domando non l’ho meritato, ma voi l’avete meritato per me. Se m’esaudite, è solo perché voi siete buono e misericordioso. „ Con questi sentimenti che fa un Cristiano? Eccolo. Penetrato dalla più viva riconoscenza, prende la ferma risoluzione di non più oltraggiare il suo Dio, che gli ha accordata la grazia. Ecco, F. M., la preghiera di cui vi voglio parlare, e che ci è assolutamente necessaria per ottenere il perdono dei nostri peccati ed il prezioso dono della perseveranza.

IV. — In quarto luogo per aver la fortuna di conservare la grazia di Dio dobbiamo aggiungere la frequenza dei Sacramenti. Un Cristiano che usa santamente della preghiera e dei Sacramenti, è così terribile pel demonio come un soldato sul suo cavallo, cogli occhi fulminei, armato di corazza, sciabola e pistola, davanti al nemico disarmato la sua sola presenza lo spaventa e lo mette  in fuga. Ma se scende dal cavallo ed abbandona le sue armi; subito il suo nemico gli si getta addosso, lo schiaccia sotto i piedi e se ne rende padrone; mentre, quand’era armato, la sua sola presenza sembrava annientarlo. Vera immagine questa d’un Cristiano munito delle armi della preghiera e dei Sacramenti. No, no, un Cristiano che prega, e che colle disposizioni necessarie frequenta i Sacramenti è più terribile pel demonio che quel soldato di cui v’ho parlato. Che cos’era che rendeva S. Antonio sì terribile alle potenze dell’inferno se non la preghiera? Ascoltate il linguaggio che gli teneva un giorno il demonio, chiedendogli perché lo faceva tanto soffrire, egli che era il suo più crudele nemico. “Ah! quanto siete dappoco; gli disse S. Antonio, io che non sono che un povero solitario, che non posso tenermi in piedi, con un solo segno di croce vi metto in fuga. „ Considerate ancora ciò che disse il demonio a S. Teresa, egli che per il grande amore di lei per Iddio e la frequenza dei Sacramenti, non poteva nemmeno respirare dov’ella era passata. Perché? Perché i Sacramenti ci danno tanta forza per perseverare nella grazia di Dio, che non s’è mai visto un santo allontanarsi dai Sacramenti e perseverare nell’amicizia del Signore; nei Sacramenti essi hanno trovato la forza per non lasciarsi vincere dal demonio: eccone la ragione. Quando preghiamo, Dio ci dà degli amici, ci manda or un santo od un angelo per consolarci; come fece con Agar, la serva di Abramo, (Gen. XXI, 17), col casto Giuseppe quand’era in prigione; e così con S. Pietro… ; ci fa sentire con più abbondanza le sue grazie per fortificarci ed incoraggiarci. Ma nei Sacramenti, non è un santo od un Angelo, è Lui stesso che viene colle sue folgori per annientare il nostro nemico. Il demonio, vedendolo nel nostro cuore, si precipita come un disperato negli abissi; ecco precisamente perché il demonio fa ogni cosa possibile per allontanarcene e farceli profanare. Sì, F. M., dal quando una persona frequenta i Sacramenti, il demonio perde tutta la sua potenza. Però bisogna distinguere: sono terribili al demonio quelli che frequentano i Sacramenti colle necessarie disposizioni, che hanno veramente in orrore il peccato, e che usano tutti i mezzi che Iddio ci dà per non più ricadervi ed approfittare delle grazie ch’Egli ci fa. Non voglio parlarvi di quelli che oggi si confessano e domani ricadono nel loro peccato; non voglio parlarvi di quelli che s’accusano dei loro peccati con poco rimorso e pentimento, come se narrassero una storia dilettevole; né di quelli che non hanno disposizioni o quasi, che vengono a confessarsi forse senza fare l’esame di coscienza, e che dicono quello che capita loro in mente; s’accostano alla sacra Mensa senza avere scrutato i nascondigli del proprio cuore, senza aver domandato la grazia di conoscere i propri peccati e di sentirne il dolore, e senza aver presa alcuna risoluzione di non più peccare. No, no, questi non lavorano che alla loro rovina. Invece di combattere contro il demonio, essi si mettono dalla sua parte e si gettano da sé nell’inferno. No, no, non è di costoro che voglio parlarvi. Se tutti quelli che frequentano i Sacramenti fossero ben disposti, quantunque il numero ne sia piccolo, pure vi sarebbero assai più eletti che non vi siano. Ma parlo di quelli che si allontanano o dal tribunale di penitenza, o dalla sacra Mensa, per comparire con grande confidenza davanti al tribunale di Dio, senza timore d’esser condannati per le mancanze di preparazione nelle loro confessioni o comunioni. Dio mio! quantunque siano rari, quanti Cristiani si sono perduti!

V. — In quinto luogo per avere la somma ventura di conservare la grazia che abbiamo ricevuta nel sacramento della Penitenza, dobbiamo praticare la mortificazione: è la via che hanno tenuto tutti i santi. O castigate questo corpo di peccato, o presto cadrete. Vedete il santo re Davide, per domandare a Dio la grazia di perseverare, mortificò il suo corpo per tutta la sua vita. Vedete S. Paolo che vi dice ch’egli trascinava il suo corpo come un cavallo. Innanzi tutto non dobbiamo mai lasciar passare un pasto senza privarci di qualche cosa, affinché possiamo in fine di ogni pasto offrire a Dio qualche privazione. Riguardo al sonno, di quando in quando, diminuiamolo un po’. Nella nostra fretta di parlare quando abbiamo qualche cosa da dire, priviamocene per il buon Dio. Ebbene, F. M., chi sono quelli che prendono tutte queste precauzioni di cui vi ho mostrato l’importanza? Dove sono? Ahimè! non ne so niente! Quanto sono rari! e quanto ne è piccolo il numero! Ma, e dove sono quelli che avendo ricevuto il perdono dei loro peccati, perseverano nello stato fortunato in cui li ha messi la penitenza? Ahimè! Dio mio, e dove bisogna cercarli? Tra quelli che mi ascoltano vi sono dei Cristiani tanto fortunati? Ahimè! non ne so nulla. Che dobbiamo dunque concludere, F. M. Ecco. Se ricadiamo, come prima, quando occasioni ci si presentano, è perché non prendiamo migliori risoluzioni, non aumentiamo le nostre penitenze, e non raddoppiamo le  nostre preghiere e le nostre mortificazioni. Tremiamo per le nostre confessioni, che all’ora della nostra morte non abbiamo a trovare che dei sacrilegi, e per conseguenza, la nostra rovina per tutta l’eternità. Felici, mille volte felici, quelli che persevereranno fino alla fine, poiché il cielo è per essi!…

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat.

[O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja.

[Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur.

[Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA PERSEVERANZA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: Sulla Perseveranza

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla Perseveranza.

“Qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit”  

(MATTH. X, 22).

Chi combatterà e persevererà fino alla fine dei suoi giorni, senza lasciarsi vincere, ci dice il Salvatore del mondo; oppure, caduto, si sarà rialzato e persevererà, sarà coronato, cioè sarà salvo: sono parole, F. M., che dovrebbero farci tremare ed agghiacciare dallo spavento, se consideriamo da una parte i pericoli a cui siamo esposti e dall’altra, la nostra debolezza ed il numero dei nemici che ci circondano. Perciò non meravigliamoci, se i più grandi santi hanno abbandonato parenti ed amici, ricchezze e piaceri per andare gli uni a nascondersi nelle foreste, gli altri a piangere nelle grotte; altri ancora a chiudersi fra quattro mura per passare nelle lacrime il resto della loro vita, ed essere più liberi e sciolti da tutti gli impacci del mondo, per non occuparsi che di combattere i nemici della loro salute, convinti che il cielo sarebbe dato solo alla loro perseveranza. — Ma, mi direte, cosa vuol dire perseverare? — Ecco. Esser pronti a sacrificare tutto: le ricchezze, la volontà, la libertà e la stessa vita, piuttosto che dispiacere a Dio. — Ma, mi direte ancora: cos’è il non perseverare? — Eccolo. Ricadere nei peccati che già abbiamo confessati, seguire le cattive compagnie che ci hanno portato al peccato, il più grande di tutti i mali, poiché con esso abbiam perduto il nostro Dio, abbiamo attirato su di noi tutta la sua collera, strappiamo la nostra anima al cielo e la condanniamo all’inferno. Volesse Iddio che i Cristiani che hanno la ventura di riconciliarsi con Dio per mezzo del sacramento della Penitenza, lo comprendessero bene! E per darvene un’idea, vi mostrerò i mezzi che dovete usare per perseverare nella grazia che avete ricevuto nel sacro tempo pasquale. Io ne trovo cinque principali, cioè: la fedeltà nel seguire i movimenti della grazia di Dio, la fuga delle cattive compagnie, la preghiera, la frequenza dei Sacramenti ed infine la mortificazione. Veramente oggi potrete dire che quello che sentirete non vi riguarda; almeno, un buon terzo di voi. Io, parlarvi della perseveranza? ma sono dunque un falso pastore? non lavoro dunque che alla vostra rovina spirituale? Il demonio si servirà di me per affrettare la vostra dannazione? dunque farò io tutto il contrario di ciò che Dio mi ha comandato di fare: Egli non mi manda in mezzo a voi che per salvarvi, e la mia occupazione sarà quella di trascinarvi nell’abisso? che io sia il crudele carnefice delle vostre anime! Dio mio! Quale disgrazia! Parlarvi della perseveranza! Ma questo linguaggio non conviene che a coloro che hanno abbandonato risolutamente il peccato, e che hanno stabilito di perdere mille vite piuttosto che tornare a commettere la colpa; dire ad un peccatore di perseverare! Dio mio! non sarò io la più disgraziata creatura che la terra abbia portata? No, no, non è questo il linguaggio che dovrei tenere, ma piuttosto: cessa, amico mio, di perseverare nel tuo stato deplorevole, altrimenti ti perderai. Io, dire di perseverare a quest’uomo che da parecchi anni non fa più Pasqua o la fa male? No, no, amico, se perseveri, sei perduto; il cielo non sarà mai per te! Io, dire a quella persona, che si accontenta di fare la Pasqua, di perseverare? ma non sarebbe questo il metterle una benda davanti agli occhi e trascinarla all’inferno? Io, dire di perseverare a quei padri e a quelle madri che fanno Pasqua e rallentano il freno ai loro figli? Ah! no, non voglio essere il carnefice della loro povera anima. Io, dir di perseverare a quelle giovani che hanno fatto la Pasqua col pensiero ed il desiderio di tornare ai balli ed ai piaceri? Oh! povero me! che orrore! che abbominazione! che catena di delitti e di sacrilegi! Io, dire di perseverare a quelle persone che frequentano cinque o sei volte all’anno i Sacramenti e non fanno apparire alcun cambiamento nel loro modo di vivere? gli stessi lamenti nelle loro pene, gli stessi impeti di collera, la stessa avarizia, la stessa noncuranza dei poveri; sempre pronti a calunniare e a denigrare la fama del prossimo… Dio mio! quanti Cristiani ciechi e venduti all’iniquità! Io, dire di perseverare a quelle persone che, senza inquietarsi o per rispetto umano, mangiano di grasso nei giorni proibiti, e lavorano senza scrupolo nei giorni di domenica? Dio mio! che disgrazia! A chi dunque mi volgerò? Non ne so nulla. Ah! no, no, F . M., non della perseveranza nella grazia avrei oggi dovuto parlarvi! Avrei piuttosto dovuto dipingervi lo stato spaventoso e disperato di chi non ha fatto Pasqua o l’ha fatta male, e persevera in questo stato. Ah! volesse Dio che mi fosse permesso di descrivervi la disperazione d’un peccatore davanti al tribunale del Giudice divino, e farvi sentire quei torrenti di maledizioni: “Va, maledetto dannato, va, peccatore indurito, va a piangere la tua vita peccaminosa ed i tuoi sacrilegi. Ah! non ti basta l’avervi marcito durante la tua vita… „ Bisognerebbe trascinarli sino alle porte dell’inferno, prima che il demonio ve li precipiti per sempre, e far loro sentire le grida, le urla di quegl’infelici dannati, e mostrare a ciascuno il posto a lor riservato. Dio mio! potrebbero vivere ancora?!!! Un cielo perduto… Un inferno… un’eternità.. Essi hanno disprezzato i dolori… che dico i dolori? la morte d’un Dio… Ecco la ricompensa della perseveranza nel peccato; sì, ecco il soggetto di cui avrei dovuto trattare oggi. Ma parlarvi della perseveranza, la quale suppone un’anima che teme più il peccato che la morte, che passa i suoi giorni nell’amor del suo Dio; un’anima spoglia di ogni affetto terreno e icui desiderii non sono che pel cielo …Ebbene, dove volete ch’io mi rivolga? Dove io potrei trovarla quest’anima? Ah! dov’è? Qual è il paese fortunato che la possiede? Ahimè! io non ne ho trovato; od almeno, ne ho trovate ben poche. Dio mio! forse voi ne vedete alcuna ch’io non conosco. Io vi parlerò dunque come se fossi sicuro che ve ne fossero almeno più una o due, per mostrar loro i mezzi ch’esse devono usare per continuare la via fortunati che hanno cominciata. Ascoltate bene, anime sante, se pure ve n’ha alcuna tra quelli che mi ascoltano, ascoltate ciò che Iddio vi dirà per bocca mia.

I. — Anzitutto, il primo mezzo di perseverare nella via che conduce al cielo, è d’esser fedele nel seguirla, enell’approfittare dei movimenti della grazia che Dio vuol accordarci. Tutti i santi non sono debitori della loro felicità che alla loro fedeltà nel seguire i movimenti operati in essi dallo Spirito Santo, ed i dannati non possono attribuire la loro disgrazia che al disprezzo che ne hanno fatto. Questo solo può bastare per farvene sentire tutto il valore, e la necessità d’esservi fedele.

— Ma, mi direte, come, in qual modo possiamo conoscere se corrispondiamo a ciò che la grazia vuole da noi, oppure se vi resistiamo? — Se non lo sapete, ascoltatemi un momento e ne saprete ciò che è essenziale. In primo luogo, la grazia è un pensiero, il quale ci fa sentire la necessità d’evitare il male e di fare il bene. Entriamo, in qualche particolarità familiare, perché possiate meglio comprendere, e vedrete quando le resistete, oppure quando le siete fedeli. La mattina, quando vi svegliate, il buon Dio vi suggerisce il pensiero di offrirgli il vostro cuore, di offrirgli il vostro lavoro, di fare tosto in ginocchio la vostra preghiera: se lo fate subito e di buona volontà, seguirete le ispirazioni della grazia; e se non lo fate, ovvero lo fate male, non le seguite. Vi sentite ad un tratto il desiderio d’andarvi a confessare e di correggervi dei vostri difetti, di non rimanere nello stato in cui siete; pensando che se aveste a morire vi dannereste. Se seguite queste buone ispirazioni che vi dà Iddio, siete fedeli alla grazia. Ma voi lasciate passare tutto questo senza il pensiero di fare qualche elemosina, qualche penitenza, d’andare a messa nei giorni feriali, di mandarvi i vostri servi: non lo fate. Ecco F. M., che cos’è seguire la grazia o resistervi. Questo è ciò che si chiama la grazia interiore. Quelle che sono chiamate grazie esteriori, sono per esempio, una buona lettura, una conversazione con una persona dabbene, che vi fa sentire la necessità di cambiar vita, di meglio servir il buon Dio, il rimorso che proverete se non lo fate, in punto di morte: è un buon esempio che vi si presenta dinanzi e che sembra stimolarvi affinché vi abbiate a convertire; è infine un’istruzione che vi insegna i mezzi che bisogna usare per servire Dio e adempiere i vostri doveri verso di Lui, verso noi stessi e verso il prossimo. Badate bene, da qui dipende la vostra salvezza o la vostra dannazione. I santi non si sono santificati che con la loro grande attenzione nel seguire tutte le buone ispirazioni, che Dio mandava loro; ed i dannati non sono caduti nell’inferno se no perché le hanno disprezzate; e ne vedrete l prova. Vediamo nell’Evangelo che tutte le conversioni, operate da Gesù Cristo durante la sua vita, hanno fondamento sulla perseveranza.! Come S. Pietro è stato convertito, F. M.? Sappiamo, è vero, che Gesù Cristo lo guardò, che S. Pietro pianse il suo peccato, ma che cosa ci assicura della sua conversione, se non l’aver egli perseverato nella grazia, e mai più peccato? (Luc. XXII, 61, 62). Come è stato convertito S. Matteo? Sappiamo, è vero, che Gesù Cristo, avendolo visto al suo banco, gli disse di seguirlo, e che egli lo seguì, ma ciò che ci assicura che la sua conversione fu vera è il fatto che egli non si sedette più a quel banco, e non commise più ingiustizie; è il fatto che dopo aver cominciato a seguire Gesù Cristo, non lo lasciò più. (Luc. V, 27, 28) La perseveranza nella grazia, la rinuncia per sempre al peccato, furono i segni certissimi della sua conversione. Sì, F. M., quand’anche aveste vissuto venti o trent’anni nella virtù e nella penitenza, se non perseverate, tutto è perduto per voi. Sì, dice un santo vescovo al suo popolo, quand’anche aveste dato ogni vostro avere ai poveri, lacerato il vostro corpo e ridottolo tutto una piaga, sofferto, da solo, quanto tutti i martiri assieme, foste stato scorticato come S. Bartolomeo, segato tra due tavole come il profeta Isaia, arrostito lentamente come S. Lorenzo; se, per disgrazia, non perseverate, cioè se ricadrete nel peccato che già avete confessato, e la morte avesse a sorprendervi in questo stato, tutto sarebbe perduto. Chi di noi si salverà? Forse chi avrà combattuto quaranta o sessant’anni? No, F. M. Forse chi sarà invecchiato nel servizio di Dio? No, F. M., se non persevera. Salomone, di cui lo Spirito Santo dice, parlando di lui, che fu il più saggio dei re della terra (III Reg. IV, 31); quantunque paresse sicuro della propria salute, pure ci lasciò a questo riguardo in una grande incertezza. Saul ce ne presenta un’immagine ancor più spaventosa. Scelto da Dio stesso per reggere il suo popolo, colmato di tante benedizioni, muore riprovato. (I Reg. XXXI, 6) Ah! disgraziato! ci dice S. Giovanni Crisostomo, guardati bene, dopo aver ricevuto la grazia del tuo Dio, di non disprezzarla. Io tremo allorquando considero con quanta facilità il peccatore ricade nel peccato già confessato; come oserà domandare perdono?„ Sì, F. M., vi basterebbe per non ricadere mai più nel peccato, vi basterebbe coll’aiuto della grazia, confrontare lo stato disgraziato! in cui vi aveva ridotto il peccato con quello! in cui v’ha messo la grazia. Sì, F. M., un’anima che ricade nel peccato, abbandona il suo Dio al demonio, fa opera di carnefice e lo crocifigge sulla croce del suo cuore; strappa la sua anima dalle mani del suo Dio, la trascina all’inferno, l’abbandona a tutto il furore! ed alla rabbia dei demoni, le chiude il cielo, e rivolge a sua condanna tutti i patimenti del suo Dio. Ah! Dio mio, chi potrebbe tornare a commettere il peccato, se si facessero tutte queste riflessioni? Ascoltiamo, F. M., le terribili parole del Salvatore: “Chi avrà combattuto fino alla fine sarà salvo. „ E poi tremiamo ad ogni momento. Non vi sarà più cielo per noi se non siamo più fermi di quanto siamo stati fino ad ora; ma non è ancora tutto. Giacche potete perseverare nella pratica della virtù e dannarvi. Le vostre confessioni sono ben fatte? Avete prese tutte le precauzioni che dovevate usare per ben fare le vostre confessioni e comunioni? Avete ben esaminata la vostra coscienza prima di avvicinarvi al tribunale della penitenza? Avete confessato tutti i vostri peccati come voi li conoscevate senza dire, forse, che non è male, che non è nulla, oppure: lo dirò un’altra volta? Avete vero dolore dei vostri peccati? L’avete domandato a Dio andando al confessionale? Avreste preferito la morte piuttosto che tornare a commettere i peccati che avevate appena confessati? Siete nella ferma risoluzione di non più frequentare quelle persone con cui avete fatto del male? Protestate al buon Dio che se doveste ancora offenderlo, preferireste ch’egli vi faccia morire? Eppure, anche con tutto questa disposizioni, tremate sempre; vivete una specie di speranza e di diffidenza. Oggi siete nell’amicizia di Dio, tremate che, forse domani, non siate in odio a Lui, e riprovato. Ascoltate S. Paolo, quel vaso d’elezione, che era stato scelto da Dio per portare il suo nome davanti ai principi e re della terra, che ha condotte tante anime a Dio, i cui occhi si offuscavano ad ogni momento per l’abbondanza delle lagrime ch’egli spargeva; egli esclamava ad ogni momento: “Ahimè! non cesso di mortificare il mio corpo e di ridurlo in servitù, e temo che dopo aver predicato agli altri i mezzi d’andare in cielo, non sia io stesso cacciato e dannato (I Cor. IX, 27)„ In un altro punto sembra avere un po’ più di confidenza; ma su che è fondata questa confidenza? “Sì, mio Dio, esclama, io sono come una vittima pronta per essere immolata, ben presto il mio corpo e la mia anima saranno separati, vedo che non vivrò più a lungo; ma la mia confidenza sta in ciò che ho sempre seguito le ispirazioni che la grazia di Dio m’ha dato. Da quand’ebbi la ventura di convertirmi, ho condotto tante anime a Dio quanto m’è stato possibile, ho sempre combattuto, hofatto una guerra continua al mio corpo. Ah!quante volte ho domandato a Dio la grazia di disfarmi di questo miserabile corpo, che mi conduceva verso il male (II Cor. XII, 8); finalmente, grazie a Dio, riceverò la ricompensa di chi ha combattuto e perseverato fino alla fine (II Tim. IV, 8).„ O mio Dio! quanto son pochi quelli che perseverano, e per conseguenza, quanto pochi si salvano! Leggiamo nella vita di S. Gregorio che una dama romana gli scrisse per domandargli l’aiuto delle sue preghiere, affinché Dio le facesse conoscere se i suoi peccati le erano stati perdonati e se, un giorno, riceverebbe la ricompensa delle sue buone opere.” Ah! diceva ella, temo che Dio non m’abbia perdonata. „ — “Ahimè! le dice S. Gregorio, mi domandate una cosa difficilissima; pure vi dirò che, se perseverate, potete sperare che Dio vi perdonerà e che andrete in cielo; ma se non perseverate, malgrado tutto ciò che avrete fatto, vi dannerete. „ Quante volte non teniamo lo stesso linguaggio, tormentandoci per sapere se ci salveremo o ci danneremo! Pensieri inutili, F. M.! Ascoltate Mosè che, vicino a morire, fece radunare le dodici tribù d’Israele. “Sapete, disse loro, che vi ho teneramente amati, che non ho cercato se non la vostra salute e la vostra felicità; ora che vado a render conto a Dio di tutte le mie azioni, bisogna vi avverta che vi raccomando di non dimenticare questo: servite fedelmente il Signore, ricordatevi di tante grazie, di cui vi ha colmati; ed a qualunque costo non separatevi mai da Lui. Vedrete nemici che vi perseguiteranno e faranno il possibile per farvi abbandonare, ma fatevi coraggio, siete sicuri di vincerli se siete fedeli a Dio (Deuter. XXXI) Ahimè! F. M.,le grazie che Dio ci accorda sono ben più numerose ed i nemici che ci circondano sono ben più potenti. Io dico: le grazie, poiché essi non avevano ricevuto che qualche ricchezza e la manna; e noi abbiamo avuto la fortuna di ricevere il pendono dei nostri peccati, di strappare le nostre anime dall’inferno e d’esser nutriti non della manna, ma del Corpo e del Sangue adorabile di Gesù Cristo!… Dio mio! che fortuna! Non bisogna dunque rivolgerci indietro, e lavorare continuamente per non perdere questo tesoro. (Si quanti non perseverano, perché temono il combattimento!  Leggiamo nella storia che un santo prete incontrò un giorno un cristiano che era in continua apprensione di soccombere alla tentazione. ” Perché temete? gli dice il prete. — Ahimè! padre, disse, temo d’esser tentato, di cadere, di perire. Ah! esclama piangendo, non ho forse di che tremare se tanti milioni di angeli soccombettero in cielo, se Adamo ed Eva sono stati vinti nel Paradiso terrestre, se Salomone, che era considerato il più saggio dei re, e che era giunto al più alto grado di perfezione, ha insozzato i suoi bianchi capelli coi delitti più vergognosi e disonoranti; se quest’uomo, dopo essere stato l’ammirazione del mondo ne è diventato l’orrore e l’obbrobrio; quando considero un Giuda che cadde ed era in compagnia di Gesù Cristo stesso; se tanti lumi fulgidi si sono spenti, che devo pensare di me che non sono che peccato? Chi potrebbe contare il numero delle anime che sono nell’inferno e che, senza le tentazioni, sarebbero in cielo? Dio mio! chi non può tremare e avere speranza di perseverare? — Ma, amico, gli dice il santo prete, non sapete ciò che ci dice S. Agostino, che cioè il demonio è simile ad un grosso cane incatenato, che abbaia e fa grande strepito, ma non morde se non chi gli si avvicina troppo? Abbiate confidenza in Dio, fuggite le occasioni di peccato, e non soccomberete. Se Eva non avesse ascoltato il demonio, se quand’egli le proponeva di trasgredire l’ordine di Dio, ella fosse fuggita, non sarebbe caduta. Quando sarete tentato, scacciate subito la tentazione e, se potete, fate devotamente il segno della croce, pensate ai tormenti che sopportano i dannati per non aver saputo resistere alla tentazione; alzate gli occhi al cielo e vedrete la ricompensa di chi combatte; chiamate in aiuto il vostro buon Angelo custode, gettatevi prontamente nelle braccia della Madre di Dio, invocando la sua protezione; sarete sicuro allora d’esser vittorioso dei vostri nemici, e ben presto li vedrete coperti di confusione.„ Se soccombiamo, P. M. , è dunque perché non vogliamo usare i mezzi che il buon Dio ci offre per combattere. Bisogna soprattutto esser convinti che, da soli, non possiamo che perderci; ma che con una grande confidenza in Dio possiamo tutto. S. Filippo Neri dicev spesso a Dio: “Ahimè! Signore, custoditemi! bene, io sono così cattivo che mi sembra a ogni momento di tradirvi; io sono sì poca cosa che, anche quand’esco per fare una buona opera, dico tra me: tu esci cristiano di casa e forse entrerai pagano, dopo aver rinnegato il tuo Dio. „ Un giorno, credendosi solo in una solitudine, si mise a gridare: ” Ahimè! sono perduto, sono dannato! „ Uno che lo senti venne da lui, dicendogli: “Amico, perché disperate della misericordia di Dio? non è essa infinita? — Ah! gli disse il gran santo io non dispero, anzi spero molto; ma dico che sono perduto e dannato se Dio m’abbandona a me stesso. Quando considero quante persone hanno perseverato fino alla fine e che per una sola tentazione si sono perdute; questo mi fa tremare notte e giorno, nel timore d’esser del numero di quei disgraziati. „ Ah! F. M., se tutti i santi hanno tremato per tutta la loro vita nel timore di non perseverare, che sarà di noi che, senza virtù, quasi senza confidenza in Dio, dal canto nostro carichi di peccati, non facciamo attenzione a metterci in guardia per non lasciarci prendere nelle insidie che il demonio ci tende? noi che camminiamo come ciechi in mezzo ai più grandi pericoli, che dormiamo tranquillamente tra una folla di nemici i più accaniti per trarci a perdizione? — Ma, mi direte, che bisogna dunque fare per non soccombere? — Eccolo: bisogna fuggire le occasioni che ci hanno fatto cadere altre volte; ricorrere incessantemente alla preghiera, e finalmente frequentare spesso e degnamente i Sacramenti; se fate questo, se seguite questa via, siete sicuri di perseverare; ma se non prendete queste precauzioni, avrete bel fare e prendere tutte le vostre misure; ma non sfuggirete per questo la dannazione.

II. — In secondo luogo, per quanto vi è possibile, dovete fuggire il mondo, perché il suo linguaggio ed il suo modo di vivere sono interamente opposti a ciò che deve fare un buon Cristiano; cioè una persona che cerca i mezzi più sicuri per andare in cielo. Domandatelo a S. Maria Egiziaca che abbandonò il mondo e passò la vita in fondo ad un orrido deserto: essa vi dirà ch’è impossibile poter salvare la propria anima e piacere a Dio, se non si fugge il mondo; perché dappertutto non vi si trova che lacci e agguati; e siccome è contrario a Dio, bisogna assolutamente disprezzarlo ed abbandonarlo per sempre. Dove avete sentito cattive canzoni e infami discorsi, che vi fanno nascere un’infinità di cattivi pensieri e di cattivi desideri? Non fu quando vi siete trovato in quella compagnia di libertini? Chi v’ha fatto fare giudizi temerari? Non fu il sentire parlare male del prossimo in compagnia di quei maldicenti? Chi v’ha dato l’abitudine di osare sguardi e contatti abbominevoli su voi o su altri? Non fu dopo aver frequentato quell’impudico? Qual è la causa per cui voi non frequentate più i Sacramenti? Non è forse da quando siete andato con quell’empio, che ha cercato di farvi perdere la fede, dicendovi che erano bestialità le cose che vi diceva il prete; che la religione serviva solo per tener in freno i giovani; che si era imbecilli andando a raccontare ad un uomo le proprie azioni; che tutti coloro che sono istruiti si ridono di tutto questo, fino alla morte,… allora poi confesseranno che si sono ingannati? (S. Gregorio Magno. — S. Leone Magno. — S. Agostino. — Massillon. — È vero che Voltaire ed altri, in punto di morte hanno confessato che si sono ingannati: cioè, sono vissuti da empi e sono morti nella loro empietà. (Nota del Beato). – Il Beato è d’accordo col libro della Sapienza che ci mostra gli empi nel giorno del giudizio parlare cosi dei giusti: “Ecco quelli che altre volte noi abbiamo derisi, e di cui ci siamo burlati. .Noi, insensati, consideravamo la loro vita come una follia e la loro morte come disonorante. Ma ora essi sono annoverati nel numero dei figli di Dio, ed hanno la loro eredità tra i santi „ Sap. v, vers. 3 e seg.). Ebbene! amico, senza quella cattiva compagnia, avreste avuto tutti questi dubbi? No, certo. Ditemi, sorella, da quanto tempo provate tanto diletto per i piaceri, le danze, i balli, gli appuntamenti, gli ornamenti mondani? Non forse da quando avete frequentato quella giovanotta mondana che non è ancora contenta d’aver perduta la sua povera anima e che ha perduta la vostra? Ditemi, amico, da quanto tempo frequentate i giuochi, le osterie? Non fu da quando avete conosciuto quel libertino? Da quando vi si sente vomitare ogni sorta di bestemmie e d’imprecazioni? Non forse dacché siete a servizio presso quel padrone, che grida continuamente e la cui bocca non è che una sorgente d’abbominazione? – Sì, F. M., nel giorno del giudizio, ogni libertino vedrà l’altro libertino domandargli la sua anima, il suo Dio, il suo paradiso. Ah! disgraziato, si diranno l’un l’altro, rendimi la mia anima che m’hai rovinata, rendimi il cielo che m’hai rapito. Disgraziato, dov’è la mia anima? Strappala dunque dall’inferno in cui deve piombare. Ah! senza di te non avrei certo commesso quel peccato che mi danna! – Io non lo conoscevo neppure. No, io non avrei mai avuto quel pensiero; ah! il bel cielo che mi hai fatto perdere! Addio, bel cielo che m’hai rapito! Sì, ogni peccatore si getterà su chi gli ha dato cattivo esempio e l’ha portato per la prima volta al peccato. “Ah! dirà, avesse Iddio voluto ch’io non t’avessi conosciuto mai! Ah! se almeno fossi morto prima di vederti, ora sarei in cielo; e non andrei mai più… Addio, bel cielo, per ben poco io t’ho perduto!… „ No, F. M.,  non persevererete mai nella virtù se non fuggite le compagnie del mondo; potreste ben volervi salvare, ma fatalmente vi dannerete. O l’inferno o la fuga: non c’è via di mezzo. Scegliete ciò che preferite. Da quando un giovane od una giovane seguono il loro talento… sono giovani riprovati… Avrete un bel dire che non fate male, che forse io sono scrupoloso. Io vi dico che sarà sempre così, che, se non cambiate, un giorno sarete nell’inferno; e non solo lo vedrete, ma, di più, lo proverete. Tiriamo un velo, F. M., e passiamo ad un altro argomento.

III. — In terzo luogo per aver la fortuna di perseverare nella grazia di Dio dopo aver ricevuto il sacramento della Penitenza, è assolutamente necessaria la preghiera. Colla preghiera potete tutto, siete, per così dire, passi la frase, padroni della volontà di Dio; e senza la preghiera, non siete capaci di nulla, e questo solo basta per mostrarvi la necessità della preghiera. Tutti i santi hanno cominciato la loro conversione colla preghiera e con essa hanno perseverato; e tutti i dannati si sono perduti per la loro negligenza nella preghiera. Per perseverare la preghiera è assolutamente necessaria. Ma distinguo: non una preghiera fatta dormendo, appoggiati ad una sedia, o sdraiati sul letto; non una preghiera fatta vestendosi o spogliandosi o camminando; non una preghiera fatta accendendo il fuoco, sgridando i figli ed i servi; non una preghiera fatta girando tra le mani il cappello od il berretto; non una preghiera fatta baciando i figli, od accomodando il fazzoletto od il grembiule; non una preghiera fatta colla mente attenta a cose estranee; non una preghiera fatta a precipizio come una cosa che ci annoia, e della quale non vediamo che il momento di liberarci; tutto questo non è più una preghiera, ma un insulto che facciamo a Dio. Lungi dal trovarvi i mezzi per garantirci dalla caduta nel peccato, questa preghiera stessa ci è un argomento di caduta; perché invece di attingere un nuovo grado di grazia, Dio ci ritira quella che ci aveva già data, per punire il disprezzo che noi facciamo della sua augusta presenza. Invece d’indebolire i nostri nemici li rendiamo più forti; invece di strappar ad essi le armi che avevano per combatterci ne procuriamo loro di nuove; invece di mitigare la giustizia di Dio, l’irritiamo sempre più! Ecco, F. M., il profitto che abbiamo dalle nostre preghiere. Ma la preghiera di cui vi parlo, preghiera che è sì potente presso Dio, che attira su noi tante grazie, che sembra quasi legare la volontà di Dio, che sembra, per così dire, obbligarlo ad accordarci ciò che gli domandiamo, è una preghiera fatta in una specie di diffidenza e di speranza. Diffidenza, considerando la la nostra indegnità ed il disprezzo che abbiamo fatto di Dio e delle sue grazie, riconoscendoci indegni di comparire davanti a Lui e di osare domandar grazia, noi che tante volte l’abbiamo già ricevuta, e l’abbiamo sempre contraccambiato con ingratitudini, il che deve condurci in ogni momento della nostra vita, a credere che la terra s’aprirà sotto i nostri piedi, che tutti i fulmini del cielo sono pronti a colpirci, e che tutte le creature gridano vendetta in vista degli oltraggi da noi arrecati al loro Creatore; perciò tremanti davanti a Lui aspettiamo se Dio lancerà la sua folgore per annientarci, o se vorrà perdonarci ancora una volta. Col cuore spezzato dal rimorso d’aver offeso un Dio sì buono, lasciamo scorrere le nostre lagrime di pentimento e di riconoscenza: il nostro cuore ed il nostro spirito sono compresi dell’umiltà del nostro nulla, e della grandezza di Colui che abbiamo offeso e che ci lascia ancora la speranza del perdono. Lungi dal considerare il tempo della preghiera come un momento perduto, lo consideriamo come il più felice ed il più prezioso della nostra vita, perché un Cristiano peccatore, non deve avere in questo mondo altra occupazione che quella di piangere ai piedi del suo Dio. Lungi dall’occuparsi anzitutto dei suoi affari temporali, e di preferirli a quelli della sua salute, li considera come inezie, anzi ostacoli alla propria salvezza, e non ha per essi che quelle cure ed attenzioni che Dio gli comanda, convinto che se non li compie lui vi penseranno altri; ma che, se non ha la fortuna di ottenere la grazia e di rendersi Dio favorevole, tutto è perduto per lui, e nessuno vi penserà per lui. Non abbandona la preghiera che a gran pena; i momenti in cui si trova alla presenza di Dio, sono un nulla, o meglio passano come un lampo ; se il suo corpo lascia la presenza di Dio, il suo cuore ed il suo spirito sono fissi in lui. Durante la preghiera non pensa più al lavoro, né a sedersi, né a coricarsi… Un Cristiano deve essere tra la diffidenza e la speranza. La speranza, cioè ricordando la grandezza della misericordia di Dio, il desiderio ch’egli ha di renderci felici, e ciò che ha fatto per renderci degni del cielo. Animati da un pensiero sì consolante ci indirizzeremo a Lui con grande confidenza, e diremo con san Bernardo: “Dio mio, quello che vi domando non l’ho meritato, ma voi l’avete meritato per me. Se m’esaudite, è solo perché voi siete buono e misericordioso. „ Con questi sentimenti che fa un Cristiano? Eccolo. Penetrato dalla più viva riconoscenza, prende la ferma risoluzione di non più oltraggiare il suo Dio, che gli ha accordata la grazia. Ecco, F. M., la preghiera di cui vi voglio parlare, e che ci è assolutamente necessaria per ottenere il perdono dei nostri peccati ed il prezioso dono della perseveranza.

IV. — In quarto luogo per aver la fortuna di conservare la grazia di Dio dobbiamo aggiungere la frequenza dei Sacramenti. Un Cristiano che usa santamente della preghiera e dei Sacramenti, è così terribile pel demonio come un soldato sul suo cavallo, cogli occhi fulminei, armato di corazza, sciabola e pistola, davanti al nemico disarmato la sua sola presenza lo spaventa e lo mette  n fuga. Ma se scende dal cavallo ed abbandona le sue armi; subito il suo nemico gli si getta addosso, lo schiaccia sotto i piedi e se ne rende padrone; mentre, quand’era armato, la sua sola presenza sembrava annientarlo. Vera immagine questa d’un Cristiano munito delle armi della preghiera e dei Sacramenti. No, no, un Cristiano che prega, e che colle disposizioni necessarie frequenta i Sacramenti è più terribile pel demonio che quel soldato di cui v’ho parlato. Che cos’era che rendeva S. Antonio sì terribile alle potenze dell’inferno se non la preghiera? Ascoltate il linguaggio che gli teneva un giorno il demonio, chiedendogli perché lo faceva tanto soffrire, egli che era il suo più crudele nemico. “Ah! quanto siete dappoco; gli disse S. Antonio, io che non sono che un povero solitario, che non posso tenermi in piedi, con un solo segno di croce vi metto in fuga. „ Considerate ancora ciò che disse il demonio a S. Teresa, egli che per il grande amore di lei per Iddio e la frequenza dei Sacramenti, non poteva nemmeno respirare dov’ella era passata. Perché? Perché i Sacramenti ci danno tanta forza per perseverare nella grazia di Dio, che non s’è mai visto un santo allontanarsi dai Sacramenti e perseverare nell’amicizia del Signore; nei Sacramenti essi hanno trovato la forza per non lasciarsi vincere dal demonio: eccone la ragione. Quando! preghiamo, Dio ci dà degli amici, ci manda or un santo od un angelo per consolarci; come fece con Agar, la serva di Abramo, (Gen. XXI, 17), col casto Giuseppe quand’era in prigione; e così con S. Pietro… ; ci fa sentire con più abbondanza! le sue grazie per fortificarci ed incoraggiarci. Ma nei Sacramenti, non è un santo od un Angelo, è Lui stesso che viene colle sue folgori! per annientare il nostro nemico. Il demonio, vedendolo nel nostro cuore, si precipita come un disperato negli abissi; ecco precisamente perché il demonio fa ogni possibile per allontanarcene e farceli profanare. Sì, F. M., dal quando una persona frequenta i Sacramenti, il demonio perde tutta la sua potenza. Però bisogna distinguere: sono terribili al demonio quelli che frequentano i Sacramenti colle necessarie disposizioni, che hanno veramente in orrore il peccato, e che usano tutti i mezzi che Iddio ci dà per non più ricadervi ed approfittare delle grazie ch’Egli ci fa. Non voglio parlarvi di quelli che oggi si confessano e domani ricadono nel loro peccato; non voglio parlarvi di quelli che s’accusano dei loro peccati con poco rimorso e pentimento, come se narrassero una storia dilettevole; né di quelli che non hanno disposizioni o quasi, che vengono a confessarsi forse senza fare l’esame di coscienza, e che dicono quello che capita loro in mente; s’accostano alla sacra Mensa senza avere scrutato i nascondigli del proprio cuore, senza aver domandato la grazia di conoscere i propri peccati e di sentirne il dolore, e senza aver presa alcuna risoluzione di non più peccare. No, no, questi non lavorano che alla loro rovina. Invece di combattere contro il demonio, essi si mettono dalla sua parte e si gettano da sé nell’inferno. No, no, non è di costoro che voglio parlarvi. Se tutti quelli che frequentano i Sacramenti fossero ben disposti, quantunque il numero ne sia piccolo, pure vi sarebbero assai più eletti che non vi siano. Ma parlo di quelli che si allontanano o dal tribunale di penitenza, o dalla sacra Mensa, per comparire con grande confidenza davanti al tribunale di Dio, senza timore d’esser condannati per le mancanze di preparazione nelle loro confessioni o comunioni. Dio mio! quantunque siano rari, quanti Cristiani si sono perduti!

V. — In quinto luogo per avere la somma ventura di conservare la grazia che abbiamo ricevuta nel sacramento della Penitenza, dobbiamo praticare la mortificazione: è la via che hanno tenuto tutti isanti. O castigate questo corpo di peccato, o presto cadrete. Vedete il santo re Davide, per domandare a Dio la grazia di perseverare, mortificò il suo corpo per tutta la sua vita. Vedete S. Paolo che vidice ch’egli trascinava il suo corpo come un cavallo. Innanzi tutto non dobbiamo mai lasciar passare un pasto senza privarci di qualche cosa, affinché possiamo in fine di ogni pasto offrire a Dio qualche privazione. Riguardo al sonno, di quando in quando, diminuiamolo un po’. Nella nostra fretta di parlare quando abbiamo qualche cosa da dire, priviamocene per il buon Dio. Ebbene, F. M., chi sono quelli che prendono tutte queste precauzioni di cui vi ho mostrato l’importanza? Dove sono? Ahimè! non ne so niente! Quanto sono rari! e quanto ne è piccolo il numero! Ma, e dove sono quelli che avendo ricevuto il perdono dei loro peccati, perseverano nello stato fortunato in cui li ha messi la penitenza? Ahimè! Dio mio, e dove bisogna cercarli? Tra quelli che mi ascoltano vi sono dei Cristiani tanto fortunati? Ahimè! non ne so nulla. Che dobbiamo dunque concludere, F. M. Ecco. Se ricadiamo, come prima, quando occasioni ci si presentano, è perché nonprendiamo migliori risoluzioni, non aumentiamo le nostre penitenze, e non raddoppiamo le nostre preghiere e le nostre mortificazioni. Tremiamo per le nostre confessioni, che all’ora della nostra morte non abbiamo a trovare che dei sacrilegi, e per conseguenza, la nostra rovina per tutta l’eternità. Felici, mille volte felici, quelli che persevereranno fino alla fine, poiché il cielo è per essi!…

LO SCUDO DELLA FEDE (153)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (22)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XVIII

Le Indulgenze.

118. Prot. Ammetto dunque ancor io, nel senso cattolico, la Sacramental Confessione, e se di questa si contentasse la Chiesa Cattolica per rimettere a nome di Dio gli umani reati, nulla avrei più che dire, saremmo interamente d’accordo. Se non che avida di temporali guadagni, ha tolto qualche cosa alla virtù del Sacramento della Penitenza, per formare un altro mezzo di perdonare, o per dir meglio, una bottega di traffico, che chiama indulgenza. Per arrivar poi al suo intento, professa ed insegna i seguenti errori: 1.° Che Dio perdonando le colpe, non sempre perdona tutta la pena temporale, ma esige dai peccatori una qualche temporale soddisfazione. 2.° Che essa ha in deposito un tesoro inesauribile composto dei meriti infiniti di Gesù Cristo e dei Santi, i quali meriti sono (dice) applicabili a’ peccatori riconciliati con Dio, a sconto di quella pena. 3.° Che a lei ha dato Gesù Cristo amplissima potestà di applicar tali meriti a’ fedeli per modo d’Indulgenza, a sconto totale, o parziale (secondo che le piace) della medesima pena! Ed ecco stabilite le Indulgenze: « le quali altro neon sono che sordidezze, imposture, furti, rapacità, una profanazione del Sangue di Cristo, un ludibrio di Satanasso, pel cui mezzo ritirano il popol cristiano dalla grazia di Dio, dalla vita che è in Gesù Cristo, e lo fanno traviare dal retto sentiero della salute. » (Calvino, lib. 4, Instit. cap. 5. §.2).

Bibbia. È scritto: « E Mosè disse al Signore:… Perdona, ti prego, secondo la misericordia tua grande, il peccato di questo popolo…. E disse il Signore: Ho perdonato secondo la tua parola. Coututtociò tutti quelli che hanno veduto la mia maestà… e non hanno obbedito alla mia voce, non vedranno la terra promessa da me con giuramento ai padri loro » (Nim. XIV, 11 e segg.) – Ecco dunque che Iddio perdona bensì agli Israeliti la colpa commessa, ma non perdona loro tutta la pena temporale dovuta per quella colpa. Tralascio per brevità altri chiarissimi esempj. Dipoi è scritto:

« Basta questo tale questa riprensione fatta da molti: onde al contrario voi usiate piuttosto indulgenza, e lo consoliate, affinché non sia per disgrazia assorto da eccessiva tristezza questo tale…. Or con chi avete usato indulgenza, la uso ancor io: imperocché io pure dove ho usato indulgenza, se qualcuna ne ho usata, per amor vostro l’ho usata IN PERSONA DI CRISTO (II Cor. II, 2 e segg.). In questo fatto espressamente dichiarato si vede quanto crede ed insegna la Cattolica Chiesa in ordine alle Indulgenze. Imperocché, l.° Qui vedi un peccatore già riconciliato con Dio, quanto alla colpa sua, e talmente pentito del fallo commesso, che ha bisogno di esser consolato per non essere oppresso da eccessiva tristezza. 2.° Un peccatore a cui restava ancora da scontare una parte della pena temporale dovutagli per quella colpa. 3° Un peccatore a cui S. Paolo rimette quel resto di pena per via d’indulgenza; e dichiara che la rimette IN PERSONA DI CRISTO – ἐν προσὼπῳ  Χριςου (en prosopo Xrisou-Vi ho aggiunto l’originale perché i protestanti non potendo rispondere a questo passo, lo hanno corrotto traducendo – AL COSPETTO DI CRISTO – invece d’ – IN PERSONA DI CRISTO). Con le quali parole, due cose espressamente dichiara, cioè: I. che gli rimette non già la soddisfazione dovuta alla Chiesa, (a cui avea già soddisfatto, come è chiaro dalla supplica fatta per lui, ma bensì quella dovuta a Dio; II. che gli concede quella Indulgenza per l’autorità ricevuta da Gesù Cristo, dicendo – IN PERSONA DI CRISTO, – indica una potestà più assoluta, più grande che se avesse detto – a nome o per autorità di Cristo. Indica insomma una potestà pienissima, amplissima, illimitata. Avendo di più premesso che altre volte concessa aveva simile indulgenza, con ciò apertamente dichiara che tal potestà non è straordinaria, ma è assolutamente ordinaria nella Chiesa di Dio, e perciò può farne uso ogni qual volta le piace.  – Ora essendo di fede che davanti a Dio non può rimettersi né colpa, né pena senza l’applicazione dei meriti, ossia soddisfazioni di Gesù Cristo, è parimente di fede che avendo Egli dato alla sua Chiesa tal potestà, le ha dato per conseguenza in deposito l’infinito tesoro delle sue medesime inesauribili soddisfazioni.

Prot. Se qui terminasse la cosa, nulla avrei più che ridire. Ma che vi hanno che fare le soddisfazioni dei Santi? I Santi hanno bisogno di soddisfare per sé: nulla loro avanza da dare agli altri.

119. Bibbia. Ascolta il Santo Giobbe.

« Volesse Dio che si pesassero sulla bilancia i miei peccati, pei quali ho meritato l’ira, e la miseria che sopporto! si vedrebbe questa più pesante che l’arena del mare. » (Giob. IV, 2) – Vedi dunque che i Santi soddisfano assai più di quello che han di bisogno; che per conseguenza molte soddisfazioni loro avanzano, singolarmente poi alla Madre Divina che tanto ha patito senza avere alcun bisogno di soddisfare per sé.

Prot. Sia pur vero; ma è vero ancora che le soddisfazioni de’ Santi giovano unicamente ad essi, né possono ad altri applicarsi. Questa è la mia ferma credenza.

Bibbia. Se questa è la tua ferma credenza, affrettati, condanna il Santo Giobbe, il quale

« alzandosi innanzi giorno offeriva olocausti per ciascuno di essi (dei suoi figliuoli). Perocché diceva: Chi sa che i miei figliuoli non abbian fatto del male? » (I, 5). Condanna S. Paolo, che dice:

« Ogni cosa sopporto per amor degli eletti, affinchè eglino pure conseguiscano la salute » (II Tim. II, 2 – Col. I, 24). Condanna finalmente Dio stesso, il quale disse a Salomone: « Perché questo (peccato) è stato in te…. io squarcerò e spezzerò il tuo regno, e darollo al tuo servo. Ma nol farò, vivente te, per amor di Davide tuo padre » (3 Reg. IX, 11, 12) Ma per venire più da vicino al caso nostro, sta scritto:

« E tu (disse il Signore al Profeta Ezechiele) dormirai sul tuo fianco sinistro, e porterai su di questo le iniquità della casa d’Israele per quel numero di giorni, nei quali dormirai su di quello, e porterai le loro iniquità. Or io ti ho’ dato il numero di trecento novanta giorni per tanti anni della loro iniquità … un dì per anno; perché ho assegnato a te un dì per un anno » (Ezech. IV: 4, 5, 6). Ecco, dunque che Dio dichiara di applicare al popolo d’Israele le soddisfazioni del Profeta Ezechiele, il quale colla penitenza di trecento novanta giorni soddisfa tutta la pena temporale che quel popolo subir doveva per il lungo spazio di trecento novant’anni.

Prot. Non so che rispondere a questo testo; ma so esser fuor di dubbio che i Santi ricevon per sé in Paradiso l’intera mercede dei meriti delle buone opere loro.

Bibbia. È scritto: « La limosina libera dalla morte, ed essa è che purga i peccati. » (Tob. XII, 9).

«Prendete possesso del regno a voi preparato,… imperocché ebbi fame e mi deste da mangiare, etc. » (Matth. XXV, 34-35). – Or vedi che in ambedue questi testi si parla della limosina: nel primo è dichiarata soddisfattoria delle colpe, nel secondo, meritoria di vita eterna. Dal che resta deciso che le opere buone sono meritorie e soddisfattorie. Ora in quanto sono meritorie è certo che i Santi ne ricevono per sé l’intera mercede; ma in quanto sono soddisfattorie, cosa possibile, perché, quando hanno soddisfatto per sé quanto basta, il di più non può esser loro applicabile a titolo di soddisfazione.

Prot. a Anche qui non ho che rispondere, ma contuttociò non mi arrendo: poiché è sempre certo che tali soddisfazioni non possono unirsi, nel tesoro delle indulgenze, a quelle di Gesù Cristo, senza fare a Lui gravissima ingiuria, quasiché le sue non siano di valore infinito, non siano sufficienti, se unite non vi sono anche quelle dei Santi.

Bibbia. Dopo averti fatto conoscere che Dio medesimo è questo che fa tale unione, avresti dovuto almeno tacere, e non contradire.  Sappi pertanto, che le soddisfazioni de’ Santi unite sono a quelle di Gesù Cristo non perché ve ne sia di bisogno, ma, 1° perché Dio vuole anche in esse onorati i suoi Santi: « Dice il Signore,  Io glorifico chiunque mi avrà glorificato » (3 Reg. II, 30). 2° perché tali soddisfazioni hanno il loro valore dai meriti infiniti di Gesù Cristo: « Senza, di me nulla potete fare:» (Giov. XV, 5). 3° finalmente, danno maggior risalto agli stessi meriti di Gesù Cristo: come quelli che sono di tanta efficacia, che anche alle soddisfazioni dei Santi possono conferire la forza, la virtù di soddisfare per altri. Onde tali soddisfazioni unite alle sue, anzi che essergli d’ingiuria gli sono piuttosto di gloria, di onore grandissimo.

Hai ben capito?

120 Prot. « Sull’anima mia vi assicuro, che quando intrapresi a contrastar le Indulgenze, io non sapeva cosa fosse un’indulgenza più di coloro che venivano a consultarmi su tal materia » (Lutero: Ved. Audin, Storia della vita di Lutero; Milano 1812, T. 1. P. 30). Promisi ancora di ritrattanni; ma poi me ne tirai fuori dicendo: « Le mie dottrine hanno penetrato troppo profondarne ne’ cuori, perché sia possibile cancellarne le tracce. La Germania fiorisce in giornata di uomini d’ingegno, di erudizione, di criterio. Se voglio onorare la Chiesa Romana, è meglio nulla rivocare. (Il medes. Epist, ad Albert. Mogunt, 1518)

« Mai ho disprezzato, né insegnato che debbano disprezzarsi le indulgenze. » (Lutero, Disput. Lipsica, Thes. T. 3. 1318)

« Se alcuno vi ha che neghi la verità delle Indulgenze del Papa, sia ANATEMA. » (Il medes. Epist. ad Albert. Mogunt. an. 1518.)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (4)

G Dom. Jean de MONLÉON

Monaco Benedettino

Il Senso Mistico

dell’APOCALYSSE (4)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat Elie Maire Can. Cens. ex. off.

Imprimi potest: t Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur: A. LECLERC. Lutetiæ Parisiorum die II nov. 194

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Seconda Visione

LA CORTE CELESTE

PRIMA PARTE

IL TRONO DI DIO

Capitolo IV- 1-11

“Dopo di ciò vidi, ed ecco una porta aperta nel cielo, e quella prima voce che udii come di tromba che parlava con me, dice: Sali qua, e ti farò vedere le cose che debbono accadere in appresso. E subito fui rapito in ispirito: ed ecco che un trono era alzato nel cielo, e sopra del trono uno stava a sedere. E colui che stava a sedere era nell’aspetto simile a una pietra di diaspro e di sardio e intorno al trono era un’iride, simile d’aspetto a uno smeraldo. E intorno al trono ventiquattro sedie: e sopra le sedie sedevano ventiquattro seniori, vestiti di bianche vesti, e sulle loro teste corone di oro: e dal trono partivano folgori, e voci, e tuoni: e dinanzi al trono sette lampade ardenti, le quali sono i sette spiriti di Dio. E in faccia al trono come un mare di vetro somigliante al cristallo: e in mezzo al trono, e d’intorno al trono, quattro animali pieni di occhi davanti e di dietro. E il primo animale (era) simile a un leone, e il secondo animale simile a un vitello, e il terzo animale aveva la faccia come di uomo, ed il quarto animale simile a un’aquila volante. E i quattro animali avevano ciascuno sei ale: e all’intorno e di dentro sono pieni d’occhi: e giorno e notte senza posa, dicono: Santo, santo, santo il Signore Dio onnipotente, che era, che è, e che sta per venire. E mentre quegli animali rendevano gloria, e onore, e grazia a colui che sedeva sul trono, e che vive nei secoli dei secoli, i ventiquattro seniori si prostravano dinanzi a colui che sedeva sul trono, e adoravano colui, che vive nei secoli dei secoli, e gettavano le loro corone dinanzi al trono, dicendo: Degno sei, o Signore Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore, e la virtù: poiché tu creasti tutte le cose, e per tuo volere esse sussistono, e furono create.”

§ 1. — Dio è comparato ad una pietra preziosa.

Dopo aver invitato i suoi ascoltatori a riformare la loro condotta, in modo da poter penetrare i segreti di Dio, San Giovanni inizia a rivelare loro i misteri ai quali è stato iniziato nella sua estasi a Patmos. Egli dice loro: « Ecco, una porta è stata aperta nel cielo. » Questa porta rappresenta la Passione di Gesù Cristo, attraverso di essa, e solo attraverso di essa, gli uomini possono di nuovo entrare nel recinto del regno dei cieli, dal quale il peccato di Adamo li aveva esclusi. Ma questa Passione divina è allo stesso tempo la chiave delle Scritture; è essa che dà il loro vero significato alle figure ed alle profezie dell’Antico Testamento, e che sola ce le rende intelligibili. Ecco perché, la sera della sua uscita dal sepolcro, Nostro Signore cominciò a spiegare ai discepoli sulla strada di Emmaus i libri di Mosè e dei Profeti (Lc, XXIV, 27). E quando, poche ore dopo, apparve ai fedeli riuniti nel Cenacolo, una delle sue prime cure fu quella di aprire le loro menti, ci dice San Luca, affinché comprendessero le Scritture (Id., 45.). Non c’è dunque contraddizione da ammettere con certi commentatori (Cfr. per esempio Riccardo di San Vittore, In Apoc. libri septem. L., II, cap. I. Pat. Lat. t. CXCVI, col. 744 C) che la porta aperta intravista da San Giovanni indica, contemporaneamente alla Passione del Salvatore, il significato spirituale dei Libri Santi, attraverso i quali è possibile per lo spirito umano intravedere qualcosa delle realtà celesti. – Mentre questo spettacolo era davanti a lui, San Giovanni sentì di nuovo la voce che aveva già risuonato nelle sue orecchie nella prima visione, dirgli: « Vieni su. Sali qui, cioè elevati alla comprensione delle cose divine – non si tratta di un movimento del corpo, ma di un’ascesa dello spirito – separati dalle cose della terra, rivolgiti alla vita contemplativa, e io ti mostrerò ciò che dovrà presto accadere, cioè le tribolazioni che la Chiesa dovrà affrontare alla fine del mondo, ma anche le consolazioni che riceverà ed i progressi che non cesserà di realizzare. » – La parola ben presto abbraccia tutta la durata del tempo che trascorrerà fino alla fine del mondo, e ne sottolinea la brevità, se la paragoniamo all’eternità che deve seguire. L’apostolo continua: « Subito fui rapito in spirito, ed ecco, un trono era posto nel cielo, e sul trono c’era uno seduto. E Colui che sedeva sul trono aveva uno splendore come lo splendore della pietra di diaspro e della cornalina. In senso anagogico, San Giovanni vuole, con questa immagine folgorante, designare Dio stesso. Poiché Dio non ha una figura o forma corporea, non lo paragona da un uomo o a qualsiasi altra creatura; ma dice, in termini meravigliosamente espressivi, che era come lo splendore che scaturisce da una gigantesca pietra preziosa, avendo sia il tono del diaspro che quello della cornalina (la corniola, sardix, o pietra di Sardis, è una varietà di calcedonio, che varia dal rosso sangue al rosso carne tenue). Il diaspro è verde, la cornalina è rossa. Attribuendo a Dio il colore verde, l’autore ci fa capire che Egli è il Vivente per eccellenza, perché questo è il segno della vita nella natura: quando la terra rinasce, alla fine dell’inverno, essa lo mostra adornandosene nei prati, nei campi, nei boschi, con tutta la gamma dei toni verdi. Ora Dio è la Vita da cui tutta la vita procede. «Tutta la vita, ogni movimento vitale – scrive San Dionigi – emana da questo focolare posto al di là di ogni vita e di ogni principio vitale… È da questa vita originale che gli animali e le piante ricevono la loro vita ed il loro sviluppo. Ogni vita, sia puramente intellettuale (come quella degli Angeli), razionale (come quella dell’uomo), animale o vegetativa; ogni principio di vita, ogni essere vivente, prende in prestito la sua vita e la sua attività da questa vita sovreminente e preesistente nella sua feconda semplicità. Essa è la vita suprema, primitiva, la causa potente che produce, perfeziona e distingue tutti i germi della vita. Ed a causa dei suoi molti e vivi effetti, può essere chiamata vita multipla ed universale, e può essere considerata e lodata in ogni vita particolare; perché non manca nulla ad Essa, anzi, possiede la pienezza della vita; vive di per se stessa e d’una vita trascendente, ha un sublime potere di vivificare, e possiede tutto ciò che l’uomo può dire di glorioso riguardo a questa vita inesprimibile (De divinis nominibus, cap. VI).  Questa verità fu in parte scoperta dai filosofi pagani. Aristotele, per esempio, ha scritto: l’atto dell’intelligenza è una vita. Ora Dio è questo stesso atto allo stato puro. Egli è dunque la sua stessa vita: questo atto sussistente in se stesso, tale è la sua vita eterna e sovrana. Per questo si dice che è un Vivente eterno e perfetto, perché la vita che dura eternamente, esiste in Dio, poiché Egli è questo: la vita stessa (Metafisica, I. XII, cap. IX.1). – Tuttavia, questi saggi erano arrivati solo ad una nozione molto incompleta di Dio; non conoscevano la grande verità rivelata dalla Parola, il Deus caritas est, di San Giovanni. Non avevano capito che Dio è carità. Ecco perché l’autore ha mescolato la brillantezza della cornalina con quella del diaspro: la cornalina è rossa, e come tale simboleggia la carità. In questo modo, vuole farci capire che Dio non è solo la Vita per eccellenza, ma che è anche, ed essenzialmente, l’Amore. In senso allegorico, Colui che siede sul trono è Cristo. Nostro Signore è paragonato ad una pietra preziosa, cioè ad una pietra brillante e durissima, a causa della brillantezza della sua divinità, e anche per l’invincibile fermezza che gli permise di sopportare senza vacillare le terribili torture della sua Passione. È nel Suo nome ed in questo senso che il profeta Isaia ha detto: Ho posto la mia faccia come una pietra durissima (L, 7). – Questa pietra è sia verde che rossa. Il verde simboleggia qui la vita divina, sempre fiorente in Lui, mentre il rosso evoca il ricordo di quel sangue di cui fu ricoperto da capo a piedi nell’ora della Sua Passione, e la cui vista suscitò negli Angeli questo grido di stupore: Perché la tua veste è rossa come quella dei vignaioli quando pigiano il torchio? (Is. LXIII, 2). I due colori brillano simultaneamente nella stessa pietra, come le due nature, quella divina e quella umana, nell’unica persona di Gesù Cristo. E un arcobaleno circondò il trono, come una visione di smeraldo. L’arcobaleno, che fu dato agli uomini dopo il diluvio come segno di pace, è il simbolo della misericordia di Dio, che avvolge la Chiesa, rappresentata dal trono. I sette colori di cui è formato, e che procedono dalla luce bianca del sole, sono una graziosa immagine dei sette sacramenti, che scompongono in varie sfumature il raggio del Sole di Giustizia, la virtù redentrice del Cristo. L’autore aggiunge che questo arcobaleno era simile ad una visione di smeraldo, il che può sembrare, a prima vista, molto strano. Ecco cosa intende: lo smeraldo era considerato dagli antichi la più bella di tutte le pietre verdi. La sua brillantezza ha qualcosa di morbido e caldo allo stesso tempo, penetrante e calmante, che incanta l’occhio. Ecco perché Nerone, si dice, amava osservare gli spettacoli che lo interessavano attraverso uno smeraldo (S. Isidoro di Siviglia, Originum Lib., XVI, VII,1). Dicendo che l’arcobaleno era come una visione di smeraldo, San Giovanni lascia intendere che nulla è così dolce e così riposante da vedere, per gli occhi della nostra anima, come la misericordia di Dio che si manifesta a noi attraverso l’opera redentrice di Cristo. E tutto intorno al trono c’erano ventiquattro posti. E sui sedili sedevano ventiquattro anziani. Questi anziani rappresentano tutti i Santi che assisteranno Cristo al Giudizio Universale. Nostro Signore, infatti, ha promesso ai Suoi Apostoli di farli sedere su dodici seggi intorno a Lui in quel giorno. Ma questo numero non può, naturalmente, essere preso alla lettera, perché allora, secondo l’osservazione di Sant’Agostino, non ci sarebbe posto nemmeno per San Paolo, che non è annoverato nel collegio dei Dodici (Enarrat super Ps. LXXXVI, 4). Le parole del Maestro Divino indicano chiaramente che tutti coloro che hanno seguito Cristo, ad imitazione degli Apostoli, avranno una parte in questo privilegio e verranno al Giudizio, non come accusati, ma come assessori. Se San Giovanni ha raddoppiato il numero dato nel Vangelo, è per farci capire che i giusti dell’Antico Testamento non saranno esclusi da questo favore, e che siederanno davanti al Giudice Sovrano con i dodici Profeti, come i Santi del Nuovo Testamento con i dodici Apostoli. – Questi uomini sono chiamati vegliardi, perché i Santi sono pieni di prudenza e di saggezza; sono seduti, perché godono del riposo e della stabilità eterna; le loro vesti bianche segnano l’innocenza di cui sono adornati, e le corone d’oro che portano sul capo sono la ricompensa che hanno ricevuto da Cristo per le loro fatiche e lotte. – L’autore descrive poi l’apparato terrificante di questo trono, dal quale provenivano, dice, lampi, voci e tuoni. Cosa significa questo? Il trono, come abbiamo appena detto, è la figura della Chiesa, in mezzo alla quale Dio siede sulla terra. I lampi sono i miracoli con cui questa Chiesa non cessa di proclamare al mondo il suo carattere divino. Come è impossibile, a meno che uno non sia cieco, non vedere il fulmine che taglia improvvisamente l’ombra della notte, così non è possibile, a meno che uno non sia murato nei suoi pregiudizi, non vedere il carattere trascendente della Chiesa e lo splendore luminoso che essa proietta in mezzo alle tenebre del mondo presente. Le voci sono gli appelli che essa fa costantemente attraverso i suoi Pontefici, Dottori, Santi e predicatori, invitando gli uomini a seguire Cristo. I tuoni sono gli avvertimenti che essa dà ai peccatori e gli anatemi che pronuncia senza paura, senza temere alcun potere umano, contro tutti coloro che mettono in pericolo la salvezza delle anime. Quanto alle sette lampade che brillano davanti al trono, San Giovanni stesso spiega il loro simbolismo, dicendo che sono i sette spiriti di Dio, cioè i sette doni dello Spirito Santo, che illuminano la Chiesa, e aggiunge che sono ardenti, perché questi doni hanno l’effetto non solo di dare luce alle anime, ma anche di infiammarle con il fuoco dell’amore. Il narratore continua: Alla presenza del trono c’era un mare di vetro come cristallo, e intorno al trono c’erano quattro bestie piene di occhi davanti e dietro. In senso allegorico, il mare di vetro rappresenta il sacramento del Battesimo e, per estensione, le anime purificate in questo sacramento. Il Battesimo è paragonato ad un mare perché distrugge la massa dei nostri peccati, senza lasciarne uno solo, come il Mar Rosso inghiottì l’ultimo soldato dell’esercito di Faraone. Si dice: di vetro, perché rende l’anima trasparente, permettendo così alla luce divina di raggiungerla e penetrarla; e si dice ancora: come il cristallo, per la purezza e la limpidezza che le dà. Le anime così lavate nel sangue di Cristo sono alla presenza del trono, perché sono l’oggetto costante della sollecitudine della Chiesa, che non perde di vista per un momento gli interessi della loro salvezza. I quattro animali designano i quattro Evangelisti, e con loro l’insieme dei Santi, che sono tutti, in un certo senso, “evangelisti”, perché tutti hanno lavorato per far conoscere Gesù Cristo e la sua dottrina. La posizione occupata da questi animali, sia al centro che intorno al trono, è straordinaria: è abbastanza inutile scervellarsi per cercare di tradurla sulla carta, come cercano di fare alcuni commentatori. Come abbiamo già detto, San Giovanni usa deliberatamente immagini irrealizzabili affinché, andando oltre il significato letterale delle parole, possiamo cercare il loro significato misterioso. I quattro Evangelisti sono allo stesso tempo al centro del trono, cioè della Chiesa, come torce per illuminarla; e tutto intorno, come un muro per difenderla. Sono pieni di occhi davanti e dietro, perché le insegnano a guardare attentamente sia il passato che il futuro, per regolare la sua condotta. Il primo assomiglia ad un leone, il secondo ad un bue, il terzo ad un uomo, l’ultimo ad un’aquila. Il leone è solitamente attribuito a San Marco, per aver sottolineato, più degli altri, la vittoria riportata da Gesù sui suoi nemici e sulla morte. Il bue, figura del sacrificio, è attribuito a San Luca, che pose particolare enfasi sulle sofferenze del Salvatore; l’uomo, a San Matteo, per aver redatto la genealogia umana di Cristo; e l’aquila, a San Giovanni, che rivelò i più alti misteri della sua divinità. Queste attribuzioni, tuttavia, non sono né assolute né esclusive: come ciascuno dei quattro Vangeli contiene in sé la dottrina degli altri tre, così si può dire qui che ciascuno dei quattro animali possiede sia la propria forma, sia quella degli altri tre (Questa considerazione ci farà capire perché troviamo talvolta delle variazioni nell’attribuzione dei quattro animali ai diversi Evangelisti: Così, per esempio, Sant’Agostino e San Beda attribuiscono il leone a San Matteo, l’uomo a San Marco. Ma la distribuzione fatta sopra è di gran lunga la più comune). Ciò diventa chiaro se confrontiamo questo passo con quello in cui il profeta Ezechiele descrive i quattro animali fantastici che gli furono mostrati, e ognuno dei quali ricordava insieme il volto dell’uomo, il volto del leone, il volto del bue e il volto dell’aquila (Ez. I, 6, 10). Ma prima di essere quelli degli Evangelisti, questi attributi sono quelli di Cristo stesso, che è nato come un vero uomo, che ha combattuto come un leone, che si è lasciato offrire come vittima come un bue, e che è salito al cielo più alto come un’aquila. A sua volta, ogni Cristiano deve cercare di farli suoi: sarà un uomo obbedendo alla sua ragione piuttosto che alle sue passioni, e mostrandosi “umano” verso i suoi simili; un leone, attaccando risolutamente i nemici della sua salvezza; un bue, accettando l’immolazione; un’aquila, vivendo in cielo piuttosto che in terra, con la costanza della sua preghiera.

§ 3. — Liturgia celeste.

E ognuno dei sei animali aveva sei ali. Le ali, che sollevano l’uccello sopra la terra, sono la figura delle virtù, che sollevano l’anima sopra le contingenze del mondo presente. Il numero sei è quello dei gradi successivi che si devono attraversare per raggiungere il possesso della pace. Forse nessuno ha espresso il simbolismo meglio di San Bonaventura nel meraviglioso trattato intitolato Itinerario dall’anima a Dio. Come Dio dedicò sei giorni alla creazione dell’universo e si riposò nel settimo, così il mondo inferiore deve essere condotto al riposo perfetto della contemplazione passando attraverso sei gradi successivi di illuminazione. Questo ordine era rappresentato dai sei gradi che portavano al trono di Salomone. Allo stesso modo, i Serafini che Isaia vide avevano sei ali; allo stesso modo, Dio non chiamò Mosè dal mezzo della nuvola se non dopo sei giorni; e fu anche sei giorni dopo averli avvertiti che Gesù Cristo condusse i suoi discepoli sul monte, dove fu trasfigurato in loro presenza. Secondo questi sei gradi di elevazione a Dio, la nostra anima possiede sei gradi o poteri per ascendere dalle cose più basse a quelle più alte, dalle cose esterne a quelle interne, dalle cose temporali a quelle della eternità. Questi sono: i sensi, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, il vertice dello spirito… Chi vuole ascendere a Dio deve, dopo aver rinunciato al peccato che sfigura la sua natura, esercitare le potenze di cui abbiamo appena parlato, per acquisire con la preghiera la grazia che riforma, con una vita santa la giustizia che purifica, con la meditazione la conoscenza che illumina e con la contemplazione la sapienza che rende perfetti. (Op. cit. c. 1). Dicendo che ognuno degli animali aveva sei ali, l’autore implica che in ogni Vangelo o anche nelle opere di ogni Santo, si trova tutto ciò che è necessario sapere per elevarsi alla più alta virtù. Questo è il pensiero espresso da San Benedetto alla fine della sua Regola, quando dice: Quale pagina, o quale parola dell’autorità divina, nell’Antico o nel Nuovo Testamento, non è una regola rettissima per la vita umana? O qual è il libro dei santi Padri ortodossi che non ci insegna a raggiungere il nostro Creatore con un percorso retto? (Cap. LXXIII). Gli animali sono pieni di occhi sia fuori che dentro, perché i Santi si osservano con grande attenzione, sia nelle loro azioni esterne che nei loro pensieri. Non si riposano giorno e notte, perché la loro vita è una lode continua al loro Creatore. Tutto ciò che fanno, ed anche il riposo che si concedono di notte, lo ordinano alla gloria di Dio, penetrati come sono dal desiderio di compiere la sua volontà e di piacergli in ogni cosa. Ecco perché la sposa del Cantico diceva: Io dormo, ma il mio cuore veglia (V. 2.), mostrando così che anche durante il tempo del sonno non cessava di cercare Dio. In senso mistico, la notte rappresenta le prove e le sofferenze, in opposizione al giorno, che simboleggia la prosperità. I Santi, dunque, non cessano di lodare Dio né di giorno né di notte, perché cantano la sua gloria nella buona e nella cattiva sorte. Come Giobbe, ringraziano per tutto quello che loro succede, sia buono che cattivo. Proclamano la sua infinita perfezione, la sua sovrana bontà, ripetendo il canto dei Serafini, già ascoltato da Isaia: Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era da tutta l’eternità, che rimane sempre uguale a se stesso, e che verrà a giudicare i vivi e i morti. E mentre gli animali, cioè la moltitudine dei Santi, davano così gloria a Dio, i ventiquattro anziani, che rappresentavano i dottori dei due Testamenti, si prostrarono in umiltà; e adorando Colui che sedeva sul trono, deposero ai suoi piedi le loro corone, cioè i meriti delle loro opere, dicendo: « La gloria non è nostra, ma solo tua, Signore nostro Dio…. ». Notate che essi dicono: il nostro Dio. Sebbene Dio sia il padrone di tutte le creature, Egli è in modo speciale il padrone di coloro che si sono dati a Lui con la rinuncia, e che fanno di Lui l’unico oggetto del loro amore: « A Te solo, dunque – cantavano – è giusto attribuire gloria, onore e potenza, poiché Voi avete creato tutte le cose. È per la Vostra volontà che sono esistiti nella vostra intelligenza prima di essere realizzati in atto, così come un’opera esiste nella mente dell’artigiano prima di essere portata alla luce nella materia. È dunque liberamente, volontariamente, senza essere pressato da alcuna necessità, che li avete concepiti, ed è ancora volontariamente che li avete creati, cioè: che li avete fatti passare da questo essere ideale alla loro esistenza materiale. Così è giusto che tutto ciò che c’è di bello e di buono sulla terra sia attribuito a Voi e rivolto alla vostra gloria, poiché tutte le cose sono uscite da Voi, e Voi siete allo stesso tempo il Principio e la Fine di tutto ciò che esiste. »

SECONDA PARTE

IL LIBRO SIGILLATO

Capitolo V. (1-14)

“E vidi nella mano destra di colui, che sedeva sul trono, un libro scritto dentro e di fuori, sigillato con sette sigilli. ‘E vidi un Angelo forte, che con gran voce gridava: Chi è degno di aprire il libro, e di sciogliere i suoi sigilli? E nessuno né in cielo, né in terra né sottoterra, poteva aprire il libro, né guardarlo. E io piangeva molto, perché non si trovò chi fosse degno di aprire il libro, né di guardarlo. ‘E uno dei seniori mi disse: Non piangere: ecco il leone della tribù di Giuda, la radice di David, ha vinto di aprire il libro, e sciogliere i suoi sette sigilli. E mirai: ed ecco in mezzo al trono, e ai quattro animali, e ai seniori, un Agnello sui suoi piedi, come scannato, che ha sette corna e sette occhi: che sono sette spiriti di Dio spediti per tutta la terra. E venne: e ricevette il libro dalla mano destra di colui che sedeva sul trono. E aperto che ebbe il libro, i quattro animali, e i ventiquattro seniori si prostrarono dinanzi all’Agnello, avendo ciascuno cetre e coppe d’oro piene di profumi, che sono le orazioni dei santi: E cantavano un nuovo cantico, dicendo: Degno sei tu, o Signore, di ricevere il libro, e di aprire i suoi sigilli: dappoiché sei stato scannato, e ci hai ricomperati a Dio col sangue tuo di tutte le tribù, e linguaggi, e popoli, e nazioni: E ci hai fatti pel nostro Dio re e sacerdoti: e regneremo sopra la terra. E mirai, e udii la voce di molti Angeli intorno al trono, e agli animali, e ai seniori: ed era il numero di essi migliaia di migliaia, I quali ad alta voce dicevano: È degno l’Agnello, che è stato scannato, di ricevere la virtù, e la divinità, e la sapienza, e la fortezza, e l’onore, e la gloria, e la benedizione. E tutte le creature che sono nel cielo, e sulla terra, e sotto la terra, e nel mare, e quante in questi (luoghi) si trovano: tutte le udii che dicevano: A colui che siede sul trono e all’Agnello la benedizione, e l’onore, e la gloria, e la potestà pei secoli dei secoli. E i quattro animali dicevano: Amen. E i ventiquattro seniori si prostrarono bocconi, e adorarono colui, che vive pei secoli dei secoli.”

§ 1. — Apparizione del libro.

Il libro che appare in primo piano in questa descrizione rappresenta prima di tutto, in senso letterale, la profezia che San Giovanni dettaglierà nelle scene seguenti, ed i cui sette sigilli saranno successivamente enumerati. Ma simboleggia anche, in un senso più ampio, la Bibbia, il « libro » per eccellenza, di cui Dio stesso è l’autore; un libro scritto fuori, perché tutti possono decifrare il suo significato letterale; un libro scritto dentro, perché gli occhi dei profani non possono discernere il suo significato mistico. I sette sigilli, che rinchiudono l’intelligenza di ogni mente non iniziata, sono i sette misteri fondamentali della missione redentrice di Cristo, che troviamo enumerati nel Credo: la concezione miracolosa del Salvatore, la sua nascita, la sua passione, la sua discesa agli inferi, la sua resurrezione, la sua ascensione, la sua venuta nell’ultimo giorno per giudicare i vivi e i morti. Nessuno può capire il vero significato della Scrittura se la fede non ha rotto i sigilli che Dio ha posto sul decreto della nostra redenzione e che lo rendono impenetrabile agli sforzi della ragione umana lasciata a se stessa. In senso allegorico, il « libro » designa la santa Umanità di Gesù Cristo Nostro Signore, che contiene in sé tutti i tesori della sapienza e della conoscenza divina. C’è forse un’opera più eloquente, più capace di farci conoscere Dio come è, del Salvatore sulla croce? San Tommaso d’Aquino, la cui erudizione era prodigiosa, diceva che aveva imparato più nella contemplazione del suo Crocifisso che in tutti i trattati che aveva letto. Questo libro è scritto all’esterno: tutti coloro che lo vedono non hanno difficoltà, se sono disposti a considerarlo per un momento, a decifrare la parola Amore, scritta a grandi lettere nelle ferite dei piedi e delle mani, nella testa teneramente inclinata, nella ferita aperta del fianco. Ma sarà un’altra cosa per coloro che, illuminati dalla sua grazia e guidati dallo Spirito settimo, saranno in grado di leggere dentro e penetrare i segreti del suo Cuore. – « E vidi – continua l’Apostolo – un Angelo potente che proclamava a gran voce: Chi è degno di aprire il libro e di romperne i sigilli? » – Questo Angelo, che alcuni autori hanno voluto identificare con San Gabriele, a causa del titolo di Angelum fortem, che la liturgia attribuisce a quest’ultimo, rappresenta in realtà tutti i Dottori della Legge antica. Questi sono chiamati “forti” perché hanno sopportato con coraggio la lunga attesa del Messia, invocando all’unanimità la sua venuta con tutti i loro desideri. « Chi dunque –  chiedevano – è degno di aprire il libro, cioè di renderlo intelligibile? Chi è degno di adempiere le misteriose promesse della Legge? Chi potrà offrire a Dio la vittima pura, la vittima santa, la vittima senza macchia che i Profeti hanno predetto, che i Patriarchi hanno sacrificato come figura nei loro sacrifici, e che sola potrà assicurare la salvezza del genere umano? » – Notiamo che l’autore dice: aprire il libro e rompere i sigilli, il che è contrario all’ordine naturale: perché è evidentemente necessario rompere i sigilli prima, per aprire il libro dopo. Ma la Scrittura eccelle nel moltiplicare le improbabilità apparenti in questo modo, per costringerci ad ascendere al significato spirituale che nasconde sotto la lettera. Cristo, infatti, ha aperto il libro prima, quando ha adempiuto nella sua Persona le profezie della vecchia Legge; poi ha rotto i sigilli, quando ha dato la comprensione di questi misteri ai suoi discepoli, inviando loro lo Spirito Santo. – Tuttavia, alla domanda angosciosa dell’umanità, che aspettava il suo liberatore, nessuno poteva rispondere finché non fosse venuto Lui stesso, né tra gli Angeli, né tra i vivi, né tra i morti, né tra i Patriarchi e i Profeti che erano scesi nel Limbo; Nessuno, nemmeno San Giovanni Battista, il più grande dei profeti; nemmeno la Beata Vergine, la più saggia di tutte le creature, che resterà meravigliata davanti all’annuncio dell’Incarnazione, non vedendo come questa si possa fare, poiché non conosce nessun uomo (Lc. I). Nessuno, come aveva dichiarato il profeta Isaia, potrà spiegare la sua generazione (LIII, 8) e scoprire i modi segreti in cui Dio aveva deciso di operare la salvezza del mondo! Nessuno poteva capire come Dio, che è uno Spirito, e uno spirito senza limiti, potesse racchiudersi interamente nel grembo di una Vergine. E di fronte a questo mistero inesorabilmente sigillato, di fronte a questi ritardi che si prolungavano senza mai realizzare la speranza del genere umano, San Giovanni cominciò a scoppiare in lacrime. Io piangevo abbondantemente, egli dice. Parla in prima persona, perché il suo cuore, pieno di carità, lo rende partecipe, immediatamente e profondamente, di tutte le sofferenze di cui è testimone. E lui conosceva il segreto del libro e la chiave del suo linguaggio misterioso; aveva visto il Salvatore morto, lo aveva visto risorto; aveva ricevuto, nella sua pienezza, nel giorno di Pentecoste, l’effusione dello Spirito. Ma, trasportato dalla sua estasi, San Giovanni dimentica se stesso; si incorpora a quella moltitudine di uomini che vissero e morirono prima che il Messia fosse venuto; si associa a quei re e profeti dell’Antico Testamento, che tanto desideravano vedere ciò che gli Apostoli vedevano, e che non lo vissero (Lc., X, 24); piange con Davide, che fece delle sue lacrime il suo pane quotidiano, gemendo giorno e notte per non vedere il suo Dio (Ps. XLI, 4). Davanti a questo dolore gli anziani si lasciarono toccare, ed uno di loro, parlando a nome di tutti, venne a ripetere a San Giovanni la promessa che ciascuno dei Profeti, in forma differente, aveva portato agli uomini in forma diversa: Non piangere. Ecco, il leone di Giuda viene come un conquistatore, per aprire il libro e rompere i suoi sigilli. Il leone è il simbolo del coraggio: tra gli altri segni della sua imtrepidezza, dà questo che, quando ha scelto la sua preda, le salta addosso e la porta via senza lasciarsi spaventare o fermare da nulla. È così che Cristo agirà con l’umanità: vuole strapparla al diavolo, vuole introdurla in cielo con sé, e niente potrà spezzare il suo slancio. Isaia aveva già usato questa immagine quando diceva: Come il leone e il leoncello, quando salta con un ruggito sulla sua preda e la moltitudine dei pastori gli corre incontro, non sono spaventati dalle loro grida, né intimiditi dal loro numero, così il Signore degli eserciti scenderà a combattere sul monte Sion e sul suo colle (Is. XXXI, 4).

§ 2 – Apparizione dell’Agnello.

Mentre il vegliardo annunciava a San Giovanni l’arrivo prossimo dell’eroe, che sarebbe nato nella tribù di Giuda e nella famiglia di Davide, l’Apostolo, guardando in alto, vide un agnello in piedi in mezzo al gruppo che circondava il trono. In questo animale innocente non abbiamo difficoltà a riconoscere Cristo, pieno di dolcezza e di mitezza, in piedi in mezzo alla sua Chiesa. Ma anche qui, quale apparente incoerenza è presentata dalla narrazione ispirata: è annunciato un leone, ed è un agnello che appare! Ci viene promessa la bestia impavida come nostro Salvatore, che fa tremare tutti gli altri, e vediamo arrivare una bestiolina indifesa, destinata a finire sul banco di un macellaio! Perché? Perché queste incongruenze, se non sempre per farci pensare e condurci a verità più profonde? Se non per farci capire che Cristo, il leone di Giuda, ha sconfitto i suoi nemici, non con la forza e la violenza, ma con la pazienza e la dolcezza! I Giudei si aspettavano un Messia conquistatore, un monarca la cui gloria avrebbe eclissato quella di Davide e Salomone: e Dio mandò il figlio di un falegname, che fu condannato a morte e morì su un patibolo. Troppo spesso, come loro, è al genio, al potere, alla fortuna, che chiediamo il trionfo del Cristianesimo: e dimentichiamo l’Agnello che sta in piedi, come ucciso … Notate che l’antinomia continua tra queste due espressioni, perché non è usuale che coloro che vengono uccisi stiano in piedi. Ma se l’Agnello è visto in piedi, è per farci sapere che opera e combatte; e se sta in piedi come ucciso, è per farci capire che è con la sua morte che ha ottenuto la vittoria. Dicendo che è: “come ucciso”, e non: ucciso, l’autore non intende implicare che la morte di Cristo sia stata solo una morte apparente. Il nostro Salvatore è effettivamente morto sulla croce, e questo è uno degli articoli fondamentali della fede cattolica. Ma si dice “come ucciso” perché, nella sua morte, è rimasto padrone della morte: la morte non poteva tenerlo in pugno. Si è arreso ad essa quando ha voluto, ma è anche sfuggito quando ha voluto. Nessuno – aveva detto [Gesù] ai suoi Apostoli – può togliermi la vita: Io la depongo da me stesso e ho il potere di deporla e di riprenderla (Jo., X, 18). – L’Agnello aveva sette corna e sette occhi. San Giovanni aggiunge subito la spiegazione di questo fenomeno: Questi, dice, sono i sette spiriti di Dio inviati sulla terra, cioè i sette doni dello Spirito Santo, che l’Agnello ha meritato per il mondo con la sua morte. Questi doni sono paragonati a delle corna perché si drizzano sopra l’anima come armi formidabili contro i sette peccati capitali; ed essi rendono lo stesso servizio che gli occhi, perché permettono di discernere i sentieri che portano alle diverse virtù. – Ed egli venne – continua l’Apostolo – e ricevette il libro dalla mano destra di Colui che sedeva sul trono. Così l’Agnello predetto dai Profeti, atteso così a lungo dalla razza umana, finalmente venne. E prese carne nel grembo della Beata Vergine Maria, e la Sua Umanità ricevette da Dio la piena conoscenza del mistero della nostra salvezza. Egli ha aperto il Libro, adempiendo, con la sua sofferenza e morte, tutte le profezie riguardanti l’opera della redenzione. Questo è ciò che ha espresso sulla croce quando ha detto: Tutto è consumato. – Allora gli animali ed i ventiquattro anziani, che rappresentavano la moltitudine dei Santi, caddero ai suoi piedi e scoppiarono in azioni di grazia. Ognuno di loro gli offriva le cetre e le coppe d’oro piene di profumi, che tenevano in mano. Questo doppio simbolo rappresenta i due strumenti essenziali usati dai Santi per avanzare nella virtù, cioè: la mortificazione e la preghiera. I loro cuori, largamente aperti dalla carità, come le coppe d’oro a cui si fa riferimento qui, sono costantemente traboccanti di suppliche, adorazioni e ringraziamenti; e queste salgono verso Dio come profumi di un odore piacevole, come spiega San Giovanni stesso. Per quanto riguarda le cetre, non se ne dà il suo significato mistico, ma questa figura è così comune nei Libri Sacri che non ci possono essere dubbi sul pensiero dell’autore. Quando si mostra Davide che canta i salmi con uno strumento a corda, arpa, cetra o salterio, la tradizione cattolica vuole farci capire che l’anima che canta le lodi di Dio deve accompagnare i suoi canti con una vita mortificata. Le corde rigorosamente tese sul legno della cetra, e che vibrano armoniosamente sotto i colpi con cui vengono percosse, ricordano la carne del Verbo disteso sulla croce, e rispondono ai soprusi, agli affronti, agli insulti con cui lo si carica con le parole dell’amore più sublime. A sua immagine, il discepolo fedele deve cercare di inchiodare la sua sensibilità, i suoi desideri, i suoi affetti, le sue apprensioni sulla croce che la Volontà divina ha preparato per lui, e pronunciare, sotto la pressione della sofferenza, solo parole di gratitudine, sottomissione ed adorazione.

§ 3 – Il cantico nuovo.

E cantavano un cantico nuovo, quello del rinnovamento del mondo per mezzo del Vangelo: « Voi siete degno – dicevano – Signore Gesù Cristo, Voi siete degno, per la vostra incomparabile innocenza, di ricevere il libro e di scioglierne i sigilli. Nessuno avrebbe potuto realizzare, come Voi, gli scopi segreti di Dio e assicurare l’adempimento delle profezie. Perché Voi avete mostrato una virtù incredibile: avete accettato di essere messo a morte a dispetto di ogni giustizia, di sopportare sofferenze indicibili, e così ci avete riscattato; Voi ci avete restituito a Dio a prezzo del vostro sangue, noi che il nostro peccato aveva reso schiavi del diavolo. E non avete posto limiti alla vostra generosità: avete pagato il prezzo della salvezza per tutti gli uomini, per tutte le razze, tutte le lingue, tutti i popoli, tutte le nazioni. Avete così permesso a Dio di regnare su di noi, fin d’ora per la sua grazia e più tardi, nell’eternità, per la sua gloria. Voi ci avete resi sacerdoti al suo servizio, capaci di offrirgli i sacrifici che Egli ama; e, grazie ai meriti che avete acquisito per noi, ci avete permesso di disprezzare i beni di questo mondo, di dominare le inclinazioni della carne, e così di regnare al di sopra di questo mondo. » A questo punto, una moltitudine di Angeli apparve intorno al trono e unì le sue voci a quelle dei Santi. Il loro numero era al di là di ogni stima: ce n’erano miriadi di miriadi. Poiché l’intelligenza umana non è in grado di contare tutti gli spiriti beati; cosa che Giobbe espresse in termini lapidari, quando disse: “C’è dunque un numero ai suoi soldati? (Giob. XXV, 3). Ce n’è, senza dubbio, per la Divina Intelligenza, che ha concepito ciascuno di questi spiriti distinti l’uno dagli altri, con la propria specie, il suo peso e la sua misura (Sap. XI, 21): ma questo numero supera la mente umana. Ce ne sono – scrive San Dionigi (Gerarchia Celeste, cap. XIV), – mille volte mille e diecimila volte diecimila », la Scrittura raddoppia e moltiplica così l’una per l’altra le cifre più alte che abbiamo, e fa così capire che è impossibile per noi esprimere il numero di queste creature beate. Perché le file delle schiere celesti sono foltissime, e sfuggono al debole e limitato apprezzamento dei nostri calcoli materiali; e l’enumerazione di esse può essere fatta abilmente solo in virtù di quella conoscenza sovrumana e trascendente che il Signore comunica loro così liberalmente, sapienza increata, conoscenza infinita, principio superessenziale e causa potente di tutte le cose, forza misteriosa che governa gli esseri e li limita abbracciandoli. – Tutti questi Angeli, dunque, cantando ora con i Santi, dicevano a gran voce: Egli è degno, l’Agnello che è stato messo a morte, di ricevere dagli uomini la lode, la virtù, la divinità, saggezza, forza, onore, gloria e benedizione. (Il testo greco riporta qui: ricchezza, invece di: divinità. Allo stesso modo alcuni manoscritti latini dicono: divitias. Dobbiamo seguire questa lezione se vogliamo tradurre, senza errore teologico, accipere, in: ricevere da Dio. Ma, se si vuole rimanere fedeli al testo della Vulgata, che riporta: divinità, bisogna seguire i commentatori che intendono: ricevere dalla lode degli uomini). Ora che il Suo sacrificio è stato compiuto e ne vediamo i meravigliosi effetti per l’umanità, l’odiosa ingiustizia di cui fu oggetto deve essere riparata. È Egli degno di far proclamare la sua virtù, Lui che fu messo a morte come bestemmiatore e rivoluzionario; la sua divinità, Lui che i Giudei condannarono per essersi chiamato Figlio di Dio; la sua sapienza, lui che fu vestito con la veste degli stolti; la sua forza, lui che si lasciò schiacciare come un verme. Egli è degno di onore, per gli insulti da cui fu investito, gli schiaffi e i colpi che ricevette, gli sputi di cui fu ricoperto; di gloria, per essere stato trascinato al patibolo come l’ultimo dei malfattori; di benedizione di tutti i popoli, per colui che i Giudei respinsero da loro come un essere maledetto. E tutte le creature, quelle del cielo, quelle della terra e quelle del sottosuolo, i flutti del mare e le creature che vi si trovano, le sentii dire: A Colui che siede sul trono (cioè a Dio Onnipotente, Uno e Trino) e all’Agnello (cioè all’Umanità di Cristo), benedizione, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli. (Queste ultime parole sono molto difficili da tradurre. La Vulgata dice: et quæ sunt in mari, et quæ sunt in eo, cioè letteralmente: le cose che sono nel mare, e quelle che sono in esso…. I migliori commentatori pensano che la prima espressione si riferisca al mare stesso; la seconda, agli esseri animati che contiene. Altre versioni dicono anche: mare, et quæ sunt in eo. – Il testo greco è appena più chiaro: ogni creatura che è nel cielo, e sulla terra, e sotto la terra, e sul mare, e tutti gli esseri che sono in esso, li ho sentiti, ecc. (R. P. Âllo.). – Così gli esseri privi di ragione, e quelli stessi che sono inanimati, benedicono il loro Creatore a modo loro. Non lo fanno con una voce articolata, come la nostra. Ma dalla loro bellezza, dalla loro varietà, dalla loro gerarchia, dall’ordine che presiede a tutti i loro movimenti, sorge un magnifico concerto che canta la gloria di Dio. Fu questa voce che Sant’Agostino percepì quando, spinto dal fuoco di cui era infiammato il suo cuore, andò a chiedere al sole, alla terra, alla luna, alle stelle e a tutti gli esseri che incontrava, a turno, di parlargli di Dio, e li sentì esclamare tutti insieme: « È lui che ci ha fatti (Solil. Cap. 3). » E i quattro animali dicevano: Amen, riconoscendo così la validità di questa lode universale. E i ventiquattro anziani caddero con la faccia a terra e adorarono Colui che vive nei secoli dei secoli.

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (5)