STORIA APOLOGETICA DEL PAPATO – Introduzione (1)

STORIA APOLOGETICA DEL PAPATO DA SAN PIETRO A PIO IX

DI MONS. FÈVRE

Protonotario apostolico

I Papi non hanno bisogno che della verità

(J. DE MAISTRE, “du Pape”, lib. II, Cap. XIII)

TOMO PRIMO

PARIGI – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMBRE, 13 – 1878

DICHIARAZIONE  DELL’AUTORE.

Se, in questo libro, ho dato il nome di santo a qualche personaggio non ufficialmente canonizzato, dichiaro, conformemente al decreto di Urbano VIII, che ho parlato come storico e senza voler invadere il dominio della giurisdizione pontificia. Inoltre, se c’è in quest’opera qualche parola o frase di significato oscuro, equivoco od impreciso, protesto che la mia intenzione è che sia presa nel senso più ortodosso e più conforme al sentimento della Chiesa Romana, madre e padrona di tutte le Chiese. L’autore di questo libro, sacerdote per grazia di Gesù Cristo e prelato per autorità della Santa Sede, dichiara di essere cattolico, apostolico, romano, e adotta senza riserve le conseguenze di questa dichiarazione. Infine, sottoponiamo il nostro libro e tutte le nostre parole, così come le nostre opere precedenti e la nostra persona, alla censura della Santa Chiesa, il cui capo visibile ed infallibile è il Sovrano Pontefice Pio IX, il Papa dell’Immacolata Concezione, del Sillabo e del Concilio.

JUSTIN FÈVRE,   Protonotario.

A PIO IX PONTEFICE MASSIMO

INTRODUZIONE – 1 –

La pubblicazione di una Storia Apologetica del Papato risveglia nella mente una domanda preliminare: a cosa serve, dice il lettore devoto, e a quale scopo? Il Vicario di Gesù Cristo, depositario e propagatore della luce e dell’amore divino, avrebbe bisogno di scuse? E la storia dei suoi benefici millenari non ha forse una sua giustificazione? – Per il credente, senza dubbio, per il lettore cristiano, il Papato non ha bisogno di difesa; più lo si difende, più si deve anche temere di sembrare di dare ragione all’accusatore e di scuotere la fede dei buoni cattolici. Tuttavia, se si va al fondo delle cose, se si penetra nel mistero dell’istituzione pontificia, si vedranno scomparire queste delicatezze, e si capirà non solo che non c’è pericolo nel difendere i Papi, ma che c’è il dovere di difenderli se vengono attaccati, e che questa apologia, se è tanto decisiva quanto necessaria, deve essere, per le menti stanche o agitate, un raggio di grazia e di salvezza.

I. La Chiesa quaggiù è, secondo la grande dottrina di Mœhler, l’incarnazione permanente di Gesù Cristo, e il capo della Chiesa è il vicario di Gesù Cristo sulla terra, rappresentandolo, non del Dio della gloria, ma del Dio di Betlemme e di Nazareth, del Cedron e del Golgota, il continuatore mistico dell’Uomo-Dio, umiliato, perseguitato, crocifisso per redimere l’uomo dal peccato originale e per restituirlo, per quanto lo richiede l’economia della salvezza, all’ordine soprannaturale della grazia. Queste esigenze del peccato, da un lato, e, dall’altro, questa meta sublime e difficile della Redenzione, preannunciano il destino del Sovrano Pontefice. Se torno alla culla dell’umanità, vedo prima di tutto l’uomo posto in un giardino di delizie; poi vedo il paradiso perduto, l’uomo esiliato sulla terra, che scende la china della degradazione continua, e sepolto sotto le acque vendicatrici del diluvio. Non appena la razza umana rinasce dal sangue di Noè, dimentica la punizione provvidenziale, ritorna alla sua corruzione, cade nell’idolatria, al punto che, per impedire la dissoluzione degli insediamenti umani e la distruzione della specie, Dio è costretto a scegliere un piccolo popolo che sottopone alla verga della legge mosaica, mentre abbandona il resto alla frusta dei conquistatori, alla furia della guerra, alla durezza della schiavitù, a tutti i progressi dell’abiezione. L’uomo è creato per gli splendori della luce e non ama più. È chiamato all’onore delle virtù e si diletta nella bassezza del vizio; deve vivere in vista delle beatitudini eterne e, rinunciando alla speranza, non vuole più che le gioie fugaci e ingannevoli del tempo. Il suo peccato diventa come una seconda natura che soffoca la prima; la sua degradazione gli sembra preferibile ad ogni grandezza. Ora il Papa è sulla terra il sovrano dispensatore dei misteri di Dio; egli non deve badare solo all’integrità ed alla purezza dei mezzi di salvezza; deve ancora portarli alle ultime profondità della vita intellettuale e morale del genere umano, per rigenerare la natura caduta, per santificarla in tutte le sue relazioni ed in tutte le sue opere. – Non sarebbe conoscere la degradazione primitiva e le sue formidabili conseguenze se non si scoprisse in essa una fonte di opposizione permanente alla missione dei Sovrani-Pontefici. La missione del Papa è di applicare, come capo supremo della Chiesa, il merito e la luce della Redenzione all’umanità degradata. Il mondo, da parte sua, è sempre pronto a ribellarsi alla verità ed alla grazia, e si sforza costantemente di non limitare le deviazioni della sua ragione e le debolezze della sua volontà. Piuttosto essere contaminati che rivivere: questo è il sentimento segreto, spesso il grido pubblico di molti. Dalle passioni attaccate nelle loro ultime roccaforti ed evocate per mantenerne il possesso, nasce la guerra alla Santa Chiesa. Questa è la fonte primaria della lotta contro il Pontificato; la sua origine non deve essere cercata più in là. L’uomo è come un cavallo indomito che rifiuta il freno; la società è come un malato che rifiuta di essere curato; e nelle debolezze come negli eccessi di forza c’è sempre un sentimento di odio, uno scatto d’ira, un piano per attaccare il benefattore della razza umana, troppo felici quando l’attacco non arriva se non al crimine. Questo crimine, che sembra confondere i piani di Dio, al contrario, ne assicura il misericordioso compimento. Per la salvezza del mondo era necessaria una vittima; per mantenere intatta la luce della rivelazione, per preservare questo povero mondo dalla corruzione, bisognava aggiungere nuovi nomi al martirologio e offrire nuove vittime all’altare. Il Pontificato è la continuazione di Gesù Cristo; ora il Salvatore ha redento l’umanità, e se viene innalzato alla gloria, è dopo essersi costituito il principio e la fine della Redenzione morendo sulla croce. Non c’è redenzione o trionfo senza crocifissione. La vita, il sublime destino, l’augusta missione dei Papi, è una vita di lotte, un destino di sacrificio, una missione di dolore mortale e di angoscia senza fine. I Pontefici romani non sono elevati così in alto se non col fine di dominare, dal vertice della grandezza, l’immenso orizzonte in mezzo al quale essi hanno ad ogni passo, una lotta da sostenere contro i nemici di Cristo. Se non si vedessero in tutte le ore del giorno e della notte combattuti dall’errore dei figli deviati e dalle passioni dei figli corrotti, non sarebbero allo stesso grado riconoscibili come veri vicari di Gesù crocifisso, per compiere la missione ricevuta dal Padre celeste. Un Papa misconosciuto, perseguitato, crocifisso: questi è il vero Papa! Così profondo è questo piano, che Gesù Cristo ha stabilito l’Apostolo San Pietro come suo Vicario qui sulla terra solo dopo avergli offerto in spettacolo il grande esempio del Calvario, e che non ha affidato le pecore e gli agnelli alle sue cure se non dopo aver ottenuto tre volte la protesta del suo amore. Gesù Cristo chiese a Pietro di provargli che aveva la forza di soffrire, e la protesta di Pietro fu che, come amante di Gesù Cristo, sarebbe stato capace di prosciugare il calice della tribolazione fino alla fine. – Il Pontificato, dunque, è veramente il martirio o la via del martirio; è la battaglia o un luogo fortificato sempre pronto a sostenere il combattimento; è la morte o una continua disposizione dell’anima a sfidare la morte. Perché tutto questo bagliore di gloria, tutta questa grandezza di rispetto con cui il mondo pronuncia il nome dei Sovrani Pontefici? È perché il mondo sappia che il Papa è la seconda vittima del Calvario, sempre pronto a soffrire ed a morire, proprio quando sarà necessario che un uomo si voti alla morte per la salvezza del popolo. La Chiesa e il mondo cattolico vogliono circondare di grandezza e di gloria il trono, o, per meglio dire, la croce dei Sovrani Pontefici. Ma non è un trono di grandezza mondana che erge al successore  di San Pietro l’affetto dei popoli; è piuttosto una testimonianza di venerazione e di gratitudine per il sangue di un martire dell’anima. Il Pontificato, inoltre, non è annientato perché soffre persecuzione. La più grande prova, al contrario, della sua necessaria e riconosciuta esistenza, forte ed immortale, è la serie ininterrotta di attacchi che, ora in un modo, ora in un altro, si elevano contro la Santa Sede, senza che il Papa sia spaventato, nella sua lunga e gloriosa carriera, né dalle passioni ausiliarie sempre pressanti, né dalle idee false, né dalle idee solo in parte vere che accettano il concorso delle passioni. Non è di logica perfetta assicurare, come si fa oggi, che l’uomo decaduto non abbia bisogno della guida e dell’insegnamento dei Papi, e che la società pubblica possa distruggere il Sovrano Pontificato senza farsi alcun male. Trovo persino queste affermazioni volgari e puerili. Respingendo i Papi in nome delle proprie idee e passioni personali, gli uomini mostrano al contrario la necessità di una direzione suprema; e dichiarando una guerra implacabile al Pontificato, la società civile è meglio in grado di scoprire l’inadeguatezza delle sue leggi, l’impotenza delle sue forze ed il bisogno di un centro fissato da Dio. – Dal semplice punto di vista del senso comune, non è logico dire, perché un vigoroso destriero rifiuta il suo freno, che questo freno sia inutile; questo freno, che rifiuta con forza, gli è ancor più necessario. Questo è ciò che chiamiamo, nella società, bisogno pressante, desideri generali, fatalità di circostanze, cose che possono essere ammesse in una società puramente umana e variabile, purché rispondano ad interessi legittimi e siano suscettibili di una formula di applicazione. Nelle istituzioni divine, tale ragionamento non è applicabile. Chi ha più bisogno dell’autorità di un padre se non il figlio che rifiuta questa autorità? Nonostante queste illusioni infantili e queste lotte incessanti, il Pontificato continuerà, e non solo continuerà, ma il brillare dei suoi trionfi si misurerà con la grandezza delle sue lotte: ad ogni vittoria, il Pontificato appare più cattolico e la sua influenza diventa più universale. Noi non proviamo alcuna inquietudine per la sorte della Cattedra Apostolica, né da parte dei persecutori perché si chiamano Nerone, né da parte dei filosofi perché si chiamano Celso, né da parte degli eretici perché si chiamano Lutero o Giansenio, né da parte dei poeti perché si chiamano Voltaire o Béranger, né da parte dei socialisti perché si chiamano Mazzini o Proudhon, né dai politici perché si chiamano Cavour o Bismarck. Povere creature, che hanno creduto, con delle mani di carne, di fermare il carro di fuoco di Ezechiele! Il carro li ha schiacciati con il peso della sua forza ed eclissati con lo splendore della sua gloria. Non solo non mi preoccupo dei clamori, non ho paura degli attentati che si elevano contro la Santa Sede, ma, a questo spettacolo, sento nel mio cuore un non so che di gioia. Se il Pontificato romano non fosse una grande istituzione, un’istituzione più grande del mondo, non sarebbe scosso dalle passioni terrene, attaccato dalle ambizioni che ne congiurano la rovina. Perché allora queste grida di rabbia non si alzano contro i sovrintendenti del protestantesimo, contro i rabbini della sinagoga, contro gli interpreti del Corano, contro i poteri religiosi dei falsi culti? Poiché queste stesse idee, queste stesse passioni che combattono il Pontificato, lo considerano come un’istituzione potente, come l’unico nemico da temere, dimenticano naturalmente tutto il resto; esso non ispira loro alcun terrore. Inoltre, se temete il Pontificato, voi che vi proclamate padroni del mondo, è perché il Pontificato vi supera in potenza: così lo confessa il vostro cuore, così lo proclamano i vostri sforzi disperati. Cosa otterrete dunque immolando uno o due Papi? Voi farete diventare vera alla lettera la parola di Gesù Cristo; prenderete la vita di un uomo, ma darete nuova forza all’istituzione. Farete del Papa un martire, ma alla triplice corona aggiungerete nuove palme: in altre parole, fornirete le prove più persuasive a favore della divinità dell’istituzione apostolica. In poche parole, il Papa rappresenta la reazione contro il peccato originale ed il principio della Redenzione; l’individuo e la società si mostrano, al momento attuale, come sono sempre stati, degradati e refrattari. Il Papa può sempre essere crocifisso; i Giudei hanno potuto anche aver crocifisso Gesù Cristo, e se la società europea vuole spargere il sangue del giusto, potrà farlo; ma questo sangue ricadrà su di essa e sui suoi figli: sui suoi figli, che vagheranno senza legge, senza altare, nel mondo delle prevaricazioni, e saranno allora costretti a gridare dal profondo della loro miseria in mezzo a rivoluzioni senza fine: « Il vicario di Gesù Cristo era veramente il salvatore e il padre dell’Europa! » La persecuzione e il martirio sono dunque la condizione naturale della vita del Sovrano Pontefice. La forza dell’istituzione pontificia non viene meno dal fatto che sia nata sul Calvario e che, da questo monte cosparso di sangue, diffonda la luce sul mondo prostrato ai suoi piedi e che chiede misericordia. È in spirito di fede e di pietà che abbreviamo la storia del Papato in questa breve formula; primo, per consolare le anime che si lasciano turbare dal rumore delle tempeste; secondo, per mostrare agli attuali nemici della Santa Sede che non hanno il merito dell’originalità nella lotta. In questo concorso di persecuzione, al contrario, sono solo essi che sostengono una causa che è persa in anticipo, e questa sconfitta infallibile, che assicura la loro disgrazia nella storia, prepara per la Cattedra apostolica solo un supplemento di gloria e di potere.

II. Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è il Salvatore del genere umano, e il Sovrano Pontefice, successore di San Pietro, è, per la salvezza degli uomini, il Vicario di Gesù Cristo. L’opera storica dei Romani Pontefici è dunque, attraverso i secoli, l’estensione misteriosa dell’Incarnazione del Figlio di Dio e della nostra Redenzione attraverso la Croce: è un faro innalzato sulla montagna per illuminare i popoli; è un’istituzione di grazia per rigenerarli, e quindi un segno di contraddizione eterna. La guerra contro tutte le passioni dell’umanità è il comando che i Papi hanno ricevuto dall’alto; la resistenza spesso offensiva e gratuitamente aggressiva di tutte le passioni contro la Santa Sede è la risposta ordinaria dell’umanità. Benefici celesti, benefici poco conosciuti: questa, in poche parole, è la storia della Monarchia Pontificia. Questa guerra di passioni contro la Santa Sede ha attraversato tre fasi nella sua evoluzione bimillenaria: una fase di persecuzioni sanguinose, una fase di eresie e scismi, una fase di ipocrita oppressione della tirannia. Da tre secoli stiamo attraversando quest’ultima fase. L’obiettivo dei nemici del Papato è il suo annientamento. È scritto che non prevarranno; non solo essi vogliono prevalere, ma dominare tutto, e anche se non ci riescono mai, ci provano sempre. I loro attacchi abbracciano e imbarazzano tutta la storia dall’Età della Grazia, dice Rohrbacher, ma la imbarazzano solo in quanto rimandano la concessione e lo sbocciare di grandi benedizioni. Ora, in questa lunga guerra contro la Santa Sede, i suoi nemici hanno seguito quattro piani distinti: 1° rovesciarla con la violenza; 2° degradarla con l’umiliazione; 3° privarla di ogni appoggio esterno per lasciarlo solo di fronte alla rivolta; 4° asservirla a Roma o tenerla lontano da essa, per confinarla ad Avignone o a Gerusalemme (quest’ultimo è il piano attuale che ha coinvolto Gregorio XVII prima e poi Gregorio XVIII – ndr- ). Il piano di distruzione con la violenza risale a Nerone, che fece crocifiggere il primo Papa. I Cristiani, condannati allo sterminio, non potendo trovare riparo, si rifugiavano nelle catacombe. I successori di San Pietro, anche quando furono inseguiti in questi passaggi sotterranei, furono strappati dall’altare dove consacravano il pane della vita e dal pulpito da cui riversavano parole di speranza immortale. L’annientamento della loro opera e del loro potere fu perseguito con la stessa implacabilità dai Traiani e dai Domiziani, dai Diocleziani e dai Marco Aureli. L’odio della Cattedra Apostolica esasperava non meno gli uomini di Stato del Palatino e i giureconsulti del Foro che la vile moltitudine degli anfiteatri e dei carnefici del circo. Era persino diventato un assioma che era meglio tollerare un rivale con la porpora che un Papa a Roma. Diocleziano arrivò persino a trascurare la difesa dell’impero per sterminare con più efficacia i Cristiani. Nonostante l’energia dell’attacco, l’estensione delle sue risorse e gli scoppi progressivi della sua furia, cosa fecero i Cesari dopo due secoli e mezzo di guerra ad oltranza? Un’ammenda onorevole, un atto sfolgorante di omaggio e di sottomissione al Papato, nella persona di Costantino! Il tempio del Vaticano e la città del Bosforo sono ancora lì come due trofei che testimoniano di questa vittoria. – Il progetto di degradazione attraverso l’umiliazione segue il progetto di distruzione mediante la violenza: è il sistema dei degenerati successori di Costantino, dei re barbari e dei Cesari tristi di Bisanzio. Durante tutto questo periodo, il capriccio degli imperatori prolungò le vacanze della Sede apostolica. Il Papato è talmente asservito, che i Pontefici eletti non possono prendere possesso senza un placet dei governanti. Nell’esercizio delle loro funzioni, incontrano solo ostacolati e traversie. Le imprese di Costanza e Valente sono ben note. Odoacre, dopo la morte di Simplicio, dichiarò nulla ogni elezione fatta senza il suo consenso. Teodorico fece morire Giovanni I, rifiutò un’elezione legittima e scelse Felice a suo piacimento. Suo nipote, Atalarico, causò lo scisma tra Bonifacio e Dioscoro. Teodato fece accettare il suo prescelto, Papa Silverio, sotto pena di morte; Belisario e Teodora nominarono, allo stesso tempo, Vigilio a Costantinopoli. Nessuno ignora oggi gli attacchi di Luitprando, di Rachis, Astolfo, Didier, di Leone l’Isaurico e di Costantino Copronimo. Furono esaurite lungo tre secoli, quindi, tutte le risorse della brutalità e della perfidia; per tre secoli, i Papi furono perseguitati, spogliati dei loro beni, oltraggiati, assassinati. Certamente, se questo progetto non è riuscito, non è stata né per mancanza di zelo né per mancanza di perseveranza. – E il risultato? Carlo Magno dà gli ultimi ritocchi alla costituzione del potere temporale dei Papi. Se il piano di umiliare il Papato non riuscì meglio di quello di annientarlo, bisogna ora isolarlo, secolarizzarlo e lasciare che sia la rivoluzione ad agire contro di esso; questo è il sistema in vigore alla caduta dell’Impero Carovingio.

II. Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è il Salvatore del genere umano, e il Sovrano Pontefice, successore di San Pietro, è, per la salvezza degli uomini, il Vicario di Gesù Cristo. L’opera storica dei Romani Pontefici è dunque, attraverso i secoli, l’estensione misteriosa dell’Incarnazione del Figlio di Dio e della nostra Redenzione attraverso la Croce: è un faro innalzato sulla montagna per illuminare i popoli; è un’istituzione di grazia per rigenerarli, e quindi un segno di contraddizione eterna. La guerra contro tutte le passioni dell’umanità è il comando che i Papi hanno ricevuto dall’alto; la resistenza spesso offensiva e gratuitamente aggressiva di tutte le passioni contro la Santa Sede è la risposta ordinaria dell’umanità. Benefici celesti, benefici poco conosciuti: questa, in poche parole, è la storia della Monarchia Pontificia. Questa guerra di passioni contro la Santa Sede ha attraversato tre fasi nella sua evoluzione bimillenaria: una fase di persecuzioni sanguinose, una fase di eresie e scismi, una fase di ipocrita oppressione della tirannia. Da tre secoli stiamo attraversando quest’ultima fase. L’obiettivo dei nemici del Papato è il suo annientamento. È scritto che non prevarranno; non solo essi vogliono prevalere, ma dominare tutto, e anche se non ci riescono mai, ci provano sempre. I loro attacchi abbracciano e imbarazzano tutta la storia dall’Età della Grazia, dice Rohrbacher, ma la imbarazzano solo in quanto rimandano la concessione e lo sbocciare di grandi benedizioni. Ora, in questa lunga guerra contro la Santa Sede, i suoi nemici hanno seguito quattro piani distinti: 1° rovesciarla con la violenza; 2° degradarla con l’umiliazione; 3° privarla di ogni appoggio esterno per lasciarlo solo di fronte alla rivolta; 4° asservirla a Roma o tenerla lontano da essa, per confinarla ad Avignone o a Gerusalemme (quest’ultimo è il piano attuale che ha coinvolto Gregorio XVII prima e poi Gregorio XVIII – ndr- ). Il piano di distruzione con la violenza risale a Nerone, che fece crocifiggere il primo Papa. I Cristiani, condannati allo sterminio, non potendo trovare riparo, si rifugiarono nelle catacombe. I successori di San Pietro, anche quando furono inseguiti in questi passaggi sotterranei, furono strappati dall’altare dove consacravano il pane della vita e dal pulpito da cui riversavano parole di speranza immortale. L’annientamento della loro opera e del loro potere fu perseguito con la stessa implacabilità dai Traiani e dai Domiziani, dai Diocleziani e dai Marco Aureli. L’odio della Cattedra Apostolica esasperava non meno gli uomini di Stato del Palatino e i giureconsulti del Foro che la vile moltitudine degli anfiteatri e dei carnefici del circo. Era persino diventato un assioma che era meglio tollerare un rivale nella porpora che un Papa a Roma. Diocleziano arrivò persino a trascurare la difesa dell’impero per sterminare con più efficacia i Cristiani. Nonostante l’energia dell’attacco, l’estensione delle sue risorse e gli scoppi progressivi della sua furia, cosa fecero i Cesari dopo due secoli e mezzo di guerra ad oltranza? Un’ammenda onorevole, un atto sfolgorante di omaggio e di sottomissione al Papato, nella persona di Costantino. Il tempio del Vaticano e la città del Bosforo sono ancora lì come due trofei che testimoniano di questa vittoria. Il progetto di degradazione attraverso l’umiliazione segue il progetto di distruzione mediante la violenza: è il sistema dei degenerati successori di Costantino, dei re barbari e dei Cesari tristi di Bisanzio. Durante tutto questo periodo, il capriccio degli imperatori prolungò le vacanze della Sede apostolica. Il Papato è talmente asservito, che i Pontefici eletti non possono prendere possesso senza un placet dei governanti. Nell’esercizio delle loro funzioni, incontrano solo ostacolati e traversie. Le imprese di Costanza e Valente sono ben note. Odoacre, dopo la morte di Simplicio, dichiarò nulla ogni elezione fatta senza il suo consenso. Teodorico fece morire Giovanni I, rifiutò un’elezione legittima e scelse Felice a suo piacimento. Suo nipote, Atalarico, causa lo scisma tra Bonifacio e Dioscoro. Teodato fece accettare il suo prescelto, Papa Silverio, sotto pena di morte; Belisario e Teodora nominarono, allo stesso tempo, Viglio a Costantinopoli. Nessuno ignora oggi gli attacchi di Luitprando, di Rachis, Astolfo, Didier, di Leone l’Isaurico e di Costantino Copronymo. Furono esaurite lungo tre secoli, quindi, tutte le risorse della brutalità e della perfidia; per tre secoli, i Papi furono molestati, spogliati dei loro beni, oltraggiati, assassinati. Certamente, se questo progetto non è riuscito, non è stata né per mancanza di zelo né per mancanza di perseveranza. E il risultato! Carlo Magno dà gli ultimi ritocchi alla costituzione del potere temporale dei Papi. Se il piano di umiliare il Papato non riuscì meglio di quello di annientarlo, bisogna ora isolarlo, secolarizzarlo e lasciare che sia la rivoluzione ad agire contro di esso; questo è il sistema in vigore alla caduta dell’Impero Carovingio. La storia del Papato non ha un’epoca più disastrosa. L’Italia è attaccata da tutte le parti, dai Magiari, dai Normanni e dai Saraceni. La città eterna non è altro che un conglomerato di piazze fortificate con torri. Gli Stéfaneschi dominano il Gianicolo, i Frangipane il Palatino; qui i Conti, là i Massimi; ovunque formidabili fortini muniti di bastioni. La mole di Adriano, affacciata sull’unico ponte che collega le due sponde del Tevere, è la fortezza dei Cenci, saccheggiatori che depredano senza pietà tutti i passanti. Intorno a Roma, si vedono solo castelli abitati da briganti e campagne devastate da legioni di banditi. Cosa ne è stato del Papato? Nel 965, Rodfredo rapì il Papa e lo gettò in una fortezza della Campania. Otto anni dopo, Benedetto VI viene strangolato. Un antipapa deruba la tomba degli Apostoli… Dono II viene assassinato. Giovanni XIV muore di fame in un oscuro sotterraneo. Giovanni XV è rinchiuso in Vaticano (… nulla di nuovo anche oggi, sotto il sole – ndr.-). Poco dopo, le elezioni pontificie passano nelle mani degli imperatori tedeschi. Certamente, mai la barca di Pietro era stata assalita da una tempesta più violenta; mai era stata così vicina ad essere inghiottita in questo oceano oscuro, coperta dai resti delle istituzioni umane sgretolate. « Epoca nefasta – esclama Baronio, – in cui la Sposa di Cristo, sfigurata da una terribile lebbra, divenne la zimbella dei suoi nemici! » Fu un’epoca doppiamente nefasta, possiamo aggiungere, perché la società vedeva anche cadere i suoi principi e svanire le sue speranze. E il risultato? Il Papato risollevato da Ildebrando, che esercitava un potere incontrastato sulle nazioni cristiane e in tutte le sfere dell’attività sociale, da Gregorio VII a Bonifacio VIII. – Infine, rimane un ultimo progetto, più moderato degli altri, che non vuole né distruggere, né umiliare o secolarizzare il Papato, ma portarlo fuori dall’Italia: questo è il sistema scelto durante il soggiorno dei Papi ad Avignone. Questo soggiorno, chiamato dagli stessi italiani la cattività di Babilonia, non aggiunse nulla al prestigio del Papato e fu un elemento di durata per il grande scisma d’Occidente; Roma e l’Italia vi trovarono almeno prosperità? Ughelli risponde che « … le disgrazie degli italiani durante l’assenza dei Papi superavano di gran lunga quelle subite dalle orde barbariche ». Sfogliando Muratori, vediamo rinnovarsi e aggravarsi le disgrazie delle epoche passate. Famiglie potenti dominano o contendono nelle città principali; bande di predoni devastano le campagne: questo è il decimo secolo con gli elementi aggiuntivi di empietà e libertinaggio. Roma, tuttavia, è divisa tra gli Orsini e i Colonna. La popolazione diminuisce. La parte abitata della città presenta uno spettacolo rivoltante di abbandono e desolazione; le strade sono ingombre di detriti; le basiliche sono disadorne, gli altari spogliati, le funzioni senza maestà; niente più viaggiatori, nessun pellegrino; ovunque i furfanti commettono furti, rapine, omicidi ed ogni tipo di crimine. « Roma – dice Petrarca – tende le sue braccia smagrite verso il Papa, e il seno d’Italia, implorando il suo ritorno, è gonfio di singhiozzi di dolore. » – Siete felici, Romani? I rovi laddove i vostri padri incoronavano gli eroi; le vigne sul campo della vittoria; un giardino cresciuto nel Foro ed i banchi dei senatori nascosti dal letame: ecco i monumenti che ricordano i trionfi dei Colonna, degli Arnaldo da Brescia, dei Brancaleone e dei Rienzo. Ammirevole attenzione della Provvidenza e legge misteriosa della storia! In ogni prova del Papato, Dio tira fuori dai suoi tesori un grande uomo, e il grande uomo è grande solo quanto la sua devozione alla Cattedra Apostolica. Dopo le persecuzioni, Costantino; dopo le umiliazioni, Carlo Magno; dopo le lacrime, Gregorio VII, Innocenzo III, Gregorio IX e Bonifacio VIII; dopo la traslazione, Nicola V, Pio II, Giulio II, Leone X, San Pio V e Sisto V. Al contrario, coloro che si scontrano contro la pietra fondamentale della Chiesa si sfracellano nel loro potere, e immancabilmente si sviliscono agli occhi dei posteri.

III. La storia del Papato ci viene offerta sotto due aspetti diversi, uno terreno, l’altro celeste; da un lato le prove, dall’altro i trionfi. Il Papa è sempre perseguitato, egli è sempre vittorioso sulla persecuzione. Due forze, le uniche i cui successi sono durevoli, lo aiutano a conquistare questa vittoria perpetua: la forza di Dio e la forza dell’uomo, l’assistenza dall’alto e la fedele corrispondenza alle grazie che rafforzano la natura. Tra le qualità eminenti che sono state per la Santa Sede il risultato della sua fedeltà all’aiuto del cielo, ce ne sono due principali che spiegano quasi tutta la sua storia: la consumata prudenza e il coraggio passivo a tutta prova. Il mondo si muove lentamente, e nello sviluppo del suo destino è soggetto ad una doppia legge: da un lato, la materia deve servire alla santificazione dello spirito; dall’altro, gli eventi sulla terra devono coltivare i semi della creazione e della grazia, in modo da glorificare Dio. L’errore e la colpa degli uomini che sono a capo delle cose umane è quella di ignorare questa doppia legge e di voler precipitare il movimento dei secoli. Nell’impazienza del loro genio o nell’infermità delle loro passioni, vogliono piegare i fatti secondo le loro opinioni personali, concentrarsi sul benessere dell’attività dei popoli e creare chi la società, chi la religione, chi un partito, chi il futuro. Lavorando contro la volontà di Dio, tutti questi uomini consumano la loro vita in questo arduo lavoro, e quasi sempre, prima di morire, vedono le cose stesse che hanno arbitrariamente regolato, ridersi dei loro disegni. Leggete la storia: vedrete chiaramente questa contraddizione perpetua tra la volontà dell’uomo e il successo dei suoi sforzi. Alessandro, Cesare, Napoleone, grandi uomini e grandi popoli subiscono tutti le stesse vicissitudini. La forza può assicurare loro il successo per un giorno, ma la forza è solo una grande debolezza quando non è il braccio della verità. Il conquistatore scompare e con lui la sua opera. Solo sa quello che fa chi serve Dio nella sua Chiesa e che, volgendo le cose passeggere al trionfo dei principi permanenti, prende consiglio non dagli interessi transitori, ma dalle leggi che rimangono: questa è stata una virtù dei Pontefici ed il principio della loro prudenza. Durante i primi tre secoli della Chiesa, contenti del loro pane quotidiano e dei loro doveri, vissero poveri e morirono martiri. Estratti dalle catacombe da Costantino, arricchiti dalla pietà dei fedeli e degli imperatori, sono rimasti semplici nei loro desideri, l’anima umile e forte, le mani aperte. Alla caduta dell’impero, spesso minacciati, imprigionati, esiliati, colpititi, sostennero con la loro maestà la confusione del Basso Impero e attutirono l’urto delle invasioni. Nel IX secolo, l’indebolimento dell’Impero d’Oriente, la protezione dei re franchi contro gli attacchi dei re longobardi, e l’amore dei romani, sollevano il trono temporale dei Papi. – Infine, sempre tranquilli circa i piani di Dio, sempre impegnati a diffondere la vita, la luce e l’amore di cui hanno il deposito, i Sommi Pontefici non fanno violenza agli eventi; li ricevono dalla mano di Dio, che li produce o li permette, limitandosi, quando si compiono, a comportarsi nei loro confronti secondo le regole della sapienza cristiana. Questo non è il ruolo che piace all’orgoglio, l’azione che colpisce gli occhi distratti; ma poiché questa azione e questo ruolo sono conformi ai disegni della Provvidenza e alla natura delle cose, assicurano alla Cattedra Apostolica la situazione che le è propria, incomparabile per durata, legittimità e successo, a nessun’altra situazione. Quella pazienza così meritoria nei confronti del tempo, quella saggezza così perspicace alla presenza di principi, saggezza e pazienza che elevano così in alto la prudenza pontificia, diventano più degne di attenzione, se si considera che non solo richiedono una fede imperturbabile nel futuro, ma richiedono anche un coraggio eroico per resistere alla rapidità e alla violenza degli eventi. Il coraggio che i Pontefici romani devono mostrare non è quello del soldato che affronta la morte donandola, coraggio stimabile quando è giusto, comune tra gli uomini del resto. È un coraggio più difficile e più raro, quello che sopporta freddamente i risentimenti e le carezze dei principi e dei popoli; quello che, alieno da ogni esaltazione, senza speranza umana, sacrifica il riposo alla coscienza e affronta quelle tristi morti in prigione, nel bisogno e nell’oblio. C’è una difficoltà? I Papi negoziano, e nei loro negoziati spingono la condiscendenza fino ai suoi limiti. Dopo aver atteso, approfittando delle circostanze, giunta la preghiera alla rivendicazione dei diritti, se il persecutore persiste, i Papi presentano le mani alle catene e la testa al carnefice, offrendo in tutta la sua purezza lo spettacolo di una giustizia umile e spoglia alle prese con l’orgoglio della forza. Da Nerone a Diocleziano, restano nella capitale dell’impero, consci del tipo della loro morte perché avvertiti da quella dei loro predecessori, e tranne uno che fu sottratto dalla vecchiaia alla spada, tutti ebbero la gloria di essere colpiti sulla loro sede. Da Diocleziano a Michele Cerulario, passando per Costanza, Valente, Costantino Copronimo, Leon l’Isaurico, e tutta quella serie di principi codardi, di donne vili ed eunuchi ambiziosi, le cui bassezze inette hanno dato il loro nome alla storia di Costantinopoli, vediamo i Papi respingere inesorabilmente le sottigliezze greche, subire le pretese di un prefetto imperiale, prendere la via dell’esilio piuttosto che cedere, e resistere, se necessario, fino allo spargimento del loro sangue. Nel Medioevo, le guerre dei signori, i vincoli del feudalesimo tendenti ad imbrigliare la Chiesa nei pesi del vassallaggio, l’ambizione dei Cesari tedeschi, ci mostrano in Gregorio VII, Innocenzo III, Gregorio IX, Innocenzo IV, Bonifacio VIII, e, molti altri, il coraggio dei Papi sempre uguale a se stesso. Infine, ai nostri giorni, gli attacchi della rivoluzione fornirono a Pio VI, Pio VII e Pio IX l’opportunità di salire alle altezze di Leone, Gregorio ed Innocenzo. (Oggi l’infame setta dei massoni-kazari e dei finti-ecclesiastici falsi profeti, ha eclissato il Papa imprigionandolo e rendendolo impedito nelle sue funzioni ma … fino a quando vincerà la bestia e l’anticristo? … ma noi Cattolici lo sappiamo già dall’Apocalisse! – ndr. -). In breve, dall’epoca della grazia, la verità non ha avuto alcun difensore perpetuo se non il Vescovo di Roma. I vescovi greci hanno consegnato la Chiesa d’Oriente ai teologastri coronati di Bisanzio; i vescovi inglesi hanno venduto le chiese della Gran Bretagna ad Enrico VIII; alcuni vescovi del Nord hanno consegnato a Gustavo Wasa e a Cristiano le chiese dei regni scandinavi; i vescovi slavi abbandonarono le chiese della Russia allo zar Pietro: mai un Pontefice romano ha ceduto a nulla di simile. In questa lunga genealogia del Papato, non si è trovato nessuno che avesse permesso al potere secolare di invadere l’integrità del dogma, la purezza della morale e l’indipendenza del ministero apostolico. C’è, nel coraggio di subire la sorte attirata dalla propria inesperienza, una nobiltà che tocca i cuori e li dispone al perdono; ma quando una prudenza consumata ha preceduto un coraggio ferreo, e queste due virtù vengono ad unirsi sulla stessa fronte con l’alone dell’innocenza, la gravità degli anni e la maestà degli acciacchi, si produce un sentimento che muove le viscere, e nessuna gloria può controbilanciarne l’effetto infallibile sugli uomini.

[Continua … ]

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLE INDULGENZE

Sulle Indulgenze.

Cum immundus spiritus exierit de homine, dicit:

Revertar in domum meam unde exivi.

(Appena uscito dall’uomo, dice: tornerò nella casa donde sono uscito)

(Luc. XI, 24)

Vi ho mostrato con queste parole quanto sia grande il furore del demonio contro di coloro che l’hanno cacciato dal loro cuore con una buona confessione. Questo dovrebbe eccitarli a vegliare continuamente su tutti i movimenti del loro cuore, perché il demonio non li faccia ricadere nel loro peccato; ciò che li metterebbe in uno stato più tristo di quello in cui erano prima della loro confessione. Ed è precisamente per preservarci da codesta sventura che la Chiesa ci impone delle penitenze quando ci confessiamo. Esse hanno due scopi: anzitutto soddisfare la giustizia divina pei peccati confessati; poi, preservarci dal ricadere nel peccato. Se abbiamo la sventura di non fare la penitenza che ci fu imposta, commettiamo peccato mortale, se le colpe da noi accusate erano gravi. Tuttavia, o miei Fratelli, bisogna pur confessare che, anche facendo la penitenza impostaci al santo tribunale, poiché essa non è affatto proporzionata alle nostre colpe, deve per necessità restarci qualche pena da scontare o in questo mondo o tra le fiamme del purgatorio. Ma giacché il buon Dio, o M. F., desidera vivamente di procurarci, subito dopo la nostra morte, la felicità di andarlo a godere; Egli ci offre pel ministero della Chiesa, un mezzo facilissimo e assai efficace per esimerci dalla pena che  dovremmo scontare. Questo mezzo sono le indulgenze che possiamo guadagnare mentre viviamo su questa terra. Tali indulgenze sono una diminuzione o una remissione intera delle penitenze che si imponevano in altri tempi ai peccatori, perché soddisfacessero, press’a poco, ciò che sarebbe loro necessarie per evitare il purgatorio.

Ma per meglio farvelo avere in stima io mostrerò:

1° Che cos’è un’indulgenza;

2° In che cosa essa consiste;

3° Quali sono le disposizioni necessarie per lucrarle.

I. — Io non voglio prendermi il diletto di provarvi che la Chiesa ha il potere di applicarci le indulgenze; sarebbe tempo perso. Voi sapete che Gesù Cristo ha detto agli Apostoli e nella lor persona a tutti i loro successori: « Io vi do le chiavi del regno dei cieli — tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato anche in cielo, tutto ciò che voi scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo. » (Matt. XVI, 19). E infatti noi vediamo che gli Apostoli stessi hanno cominciato a concedere indulgenze. La Chiesa non ha solamente il potere di imporre penitenze in espiazione dei nostri peccati; ma essa ha altresì quello di abbreviare le pene che noi dobbiamo soffrire in purgatorio. – Voi sapete, o M. F., che vi sono due sorta di peccati attuali: il peccato mortale ed il peccato veniale. Il peccato mortale merita una pena eterna; giacché è un articolo di fede che, se abbiamo la sventura di morire in peccato mortale, saremo dannati. Sì, quantunque i cattivi Cristiani osino dire che Dio non è così cattivo, come dicono i preti, le cose tuttavia non cambieranno. Quando abbiamo confessato i nostri peccati mortali, ci rimangono ancora o soddisfazioni da offrire in questo mondo, o pene da scontare nell’altra vita; perché se confrontiamo la gravità dei nostri peccati con le penitenze che ci sono imposte dal santo tribunale, vediamo subito che non c’è alcuna proporzione. Bisogna dunque necessariamente fare qualche cosa che possa aiutarci a soddisfare la giustizia divina. È vero che tutte le miserie della vita, le malattie, i dolori, le calunnie, la perdita dei beni, se abbiamo la buona ventura di offrirle in espiazione dei nostri peccati, ci aiutano a soddisfarli; ma tutto questo non basta. – Nei primordi della Chiesa si imponevano penitenze, così gravi e così lunghe, quanto pareva necessario perché potessero soddisfare la divina giustizia. Quando un peccatore voleva ritornare a Dio, andava a presentar al Vescovo in atto di penitente, confessando pubblicamente le proprie colpe, a piedi nudi, con le vesti lacere ed il capo coperto di cenere. Lo si faceva passare pei vari gradi della penitenza; il primo era quello dei piangenti, il secondo quello degli ascoltanti, il terzo quello dei prostrati, il quarto quello dei consistenti. Appena un peccatore rientrava in se stesso, lo si obbligava a star ginocchioni fuori della porta della chiesa, come indegno d’entrarvi e a raccomandarsi alle preghiere di quelli che arrivavano. Era questo il primo grado che durava talvolta lungo tempo, e si chiamava grado dei piangenti. Bastava vederli per sentirsi stimolati a piangere con essi; non avevano vergogna di confessare le loro colpe pubblicamente per eccitare i fedeli a pregare per loro. Compiuto questo primo grado di penitenza, erano fatti passare in un luogo presso la porta della chiesa, da cui potevano ascoltare le istruzioni che venivano fatte; ma appena l’istruzione era finita, venivano fatti ritirare, senza aver la soddisfazione di pregare insieme coi fedeli. Essi si ritiravano con sì viva afflizione di non poter pregare insieme, che il loro dolore bastava talvolta a convertire altri peccatori che non avevano rossore di unirsi ad essi per riconciliarsi con Dio. Passato quest’altro grado, si permetteva a questi penitenti di assistere alla S. Messa fino all’evangelo; poi venivano fatti uscire come indegni di partecipare ai santi misteri; ma prima di essere rimandati venivano recitate alcune preghiere su di essi, che stavano prostesi dinanzi a tutti. Era in questo momento che si vedevano scorrere lagrime in abbondanza. – Alla fine del terzo grado di penitenza si dava loro solennemente l’assoluzione: allora essi avevano la gioia di assistere a tutte le preghiere ed anche alla S. Messa, ma non avevano la facoltà di comunicarsi durante un certo tempo. Sappiamo altresì che durante il tempo della loro penitenza dovevano astenersi da ogni divertimento e da ogni festa pubblica, erano obbligati a vivere ritirati, a digiunare a pane e acqua, più volte la settimana, a far elemosine, per dare ad essi modo di soddisfare la giustizia divina. Per aver pronunciato invano il santo Nome di Dio, bisognava digiunare sette giorni ad acqua, e se uno ricadeva nella stessa, quindici giorni. Per aver bestemmiato Dio, la Ss. Vergine ed i Santi, bisognava stare in ginocchio, fuori della chiesa, con una corda al collo, e digiunare sette venerdì a pane ed acqua; esclusi durante questo tempo dall’entrare in chiesa. Per aver lavorato in giorno di Domenica bisognava digiunare tre giorni a pane ed acqua; per aver viaggiato senza necessità in giorno di Domenica si dovevano fare sette giorni di penitenza. Se una fanciulla o un giovane tornavano al ballo, erano minacciati di scomunica. Se si tralasciavano i digiuni della Quaresima, si doveva digiunare, dopo Pasqua, sette giorni per ogni digiuno omesso; per aver violato i digiuni delle Quattro Tempora si doveva digiunare quaranta giorni. Per aver disprezzato le istruzioni del proprio Vescovo o del proprio parroco, erano quaranta giorni di penitenza. Per aver vissuto coll’odio nel cuore contro alcuno, bisognava digiunare tanto tempo quanto se n’era trascorso col malanimo verso del prossimo. Pei peccati di impurità le penitenze erano grandi, secondo la diversa gravità di questo peccato. –  Ecco, F. M., in qual guisa si diporti Chiesa in altri tempi verso i Cristiani che volevano salvarsi. Voi vedete che non si impongono più, ai nostri dì, penitenze così dure; sebbene i nostri peccati non siano né meno orribili, né meno oltraggiosi per Iddio. Ora capirete quanto il Signore è buono e quanto Egli desidera la nostra salvezza presentandoci le indulgenze, le quali possono supplire alle penitenze che noi non abbiamo il coraggio di fare.

II. — Ma in che cosa consistono queste indulgenze, che ci possono tanto giovare? M. F., ascoltatemi bene, e ritenete ciò che sto per dirvi; perché, chi arriva a capirlo bene, non fare può a meno di benedire Iddio, e di giovarsene più largamente che gli sia dato. Quale fortuna è la nostra, o M. F., di potere con alcune preghiere riparare a secoli di pene nell’altra vita! Le indulgenze sono l’applicazione fatta a noi dei meriti infiniti di Gesù Cristo e dei meriti sovrabbondanti della Vergine e dei Santi, che hanno sofferto e fatto penitenza assai più che non avessero peccati da espiare. Questi meriti formano un tesoro inesauribile, a cui la Chiesa fa partecipare i suoi figli, cioè i Cristiani. Le indulgenze sono la remissione delle pene che i nostri peccati, sebbene perdonati nel tribunale di penitenza, ci hanno meritato di dover soffrire. – Per comprendere meglio questa cosa bisogna distinguere l’offesa e la pena: l’offesa è l’oltraggio che il peccato reca a Dio, oltraggio per il quale il peccatore merita di essere punito eternamente; ora questa pena eterna non può essere rimessa che nel sacramento della Penitenza. – Per purificarci completamente dei nostri peccati, già perdonati nel sacramento, noi lucriamo le indulgenze; perché, dopo esserci confessati, bisogna fare penitenze maggiori di quelle che il confessore ci ha imposte, se vogliamo liberarci dalle pene del purgatorio. Vediamo infatti che anche ai Santi, quantunque fossero certi del perdono ottenuto, Dio ha imposto l’obbligo di castigare se stessi.  Vedete Davide, vedete la Maddalena, S. Pietro e tanti altri. In altri tempi si imponevano lunghe penitenze, che duravano dieci, vent’anni e talora tutta la vita. Bisognava alzarsi di notte per pregare e per piangere i propri peccati, bisognava dormire sulla terra, portare il cilicio, fare molte elemosine. –  Ed ora potete capire come hanno cominciato le indulgenze. Nei primi tempi, la Chiesa era quasi sempre perseguitata; e i martiri andando a morire facevano dire al loro Vescovo di abbreviare la penitenza di qualche peccatore d’un certo numero di giorni, mesi o anni. Ecco quelle che noi chiamiamo indulgenze parziali, che sono di quaranta, duecento, trecento giorni. Altre volte i martiri pregavano il Vescovo di condonare ad un peccatore tutta la penitenza impostagli; ed è questa quella indulgenza che vien detta plenaria, perché rimette tutta la pena temporale che dovremmo scontare dopo la morte. – Ecco, M. F., gli effetti e i vantaggi delle indulgenze: esse ci aiutano a soddisfare la giustizia divina, e sono la soddisfazione delle penitenze che noi dovremmo fare e che invece non facciamo. Se fin qui non mi avete ben compreso; ascoltate di nuovo. E come se parecchie persone avessero debiti, e fossero nell’impossibilità di pagarli, e un signore assai ricco dicesse loro: voi non potete pagare; ebbene, prendete nel mio scrigno quello che v’occorre. Ecco quello che le indulgenze fanno per noi, a riguardo della giustizia divina; perché noi siamo sempre nell’impossibilità di soddisfare a questa giustizia, non ostante tutte le penitenze che ci è dato di fare. Quale fortuna per noi, o M. F., di avere a nostra portata un mezzo così facile, come quello delle indulgenze, che ci liberano dalle pene del purgatorio, così lunghe e così dure! Sì, M. F., un peccatore che abbia la bella sorte di lucrare in tutta la sua pienezza un’indulgenza plenaria, si trova totalmente sdebitato dinanzi a Dio. Egli apparisce agli occhi di Lui così puro e così mondo, come se dal fonte battesimale; e possiede, per accolto nel cielo, le stesse disposizioni che avevano i martiri alla loro morte. Non c’è, M. F., differenza alcuna a questo riguardo fra il Battesimo, il martirio ed una indulgenza plenaria lucrata in tutta la sua pienezza. O grazia preziosa, ma ignorata dal maggior numero dei Cristiani, e trascurata da coloro hanno la fortuna di conoscerla! – Ah! M. F., quante povere anime sono in purgatorio per non aver voluto profittare delle indulgenze, e che forse vi resteranno sino alla fine del mondo! – Ma per meglio sentire il bisogno che abbiamo di lucrare le indulgenze, che ci aiutano  a soddisfare la divina giustizia, consideriamo da un lato il numero e l’enormità dei peccati e dall’altro le penitenze che noi facciamo per espiarli. Paragoniamo i nostri debiti con ciò che abbiamo fatto per soddisfarli. Ah! M. F., secoli interi di penitenza sarebbero sufficienti per espiare un solo peccato! E dove sono le penitenze che eguagliano i nostri peccati? Riconosciamolo, M. F., a che punto ci troveremmo noi, se la Chiesa non venisse in nostro soccorso? Quand’anche morissimo convertiti, la giustizia divina reclamerebbe i propri diritti, un fuoco vendicatore ci castigherebbe rigorosamente, e questo per molti anni. Ah! M. F., chi potrà capire il nostro accecamento di voler andar a soffrire durante tanti anni, per non saper profittare delle grazie che Dio vuole elargirci? – Ma quando cessano le indulgenze, cioè in quali casi non si può più guadagnarle? Nel caso, p. e., che la chiesa di Fourvière fosse in parte rovinata; e così dite nel caso che una croce, una medaglia, un crocifisso fossero spezzati o guasti; se ad un rosario mancassero molti grani o fosse interamente sfilato; le indulgenze allora non sono più annesse a codesti oggetti; ma purché, quando si rinnovano, non cambino forma, non perdono la indulgenza annessavi. Per lucrare le indulgenze è necessario che la corona sia benedetta a questo scopo; se non lo fosse si farebbe, è vero, una preghiera assai gradita a Dio, ma non si acquisterebbe indulgenza alcuna. Gli ascritti alla Confraternita del Rosario, recitando ogni settimana le tre corone, guadagnano tutte le indulgenze concesse per le feste della Madonna e per le grandi solennità, purché si confessino e ricevano la Ss. Comunione. Chi appartiene alla Confraternita del Rosario può guadagnare parecchie indulgenze plenarie. Al momento della morte coloro che stanno attorno al letto d’un infermo, devono star bene attenti, e, se il sacerdote non vi badasse, far impartire al malato l’indulgenza plenaria. L’infermo può lucrare un’indulgenza plenaria: 1° quando riceve gli ultimi sacramenti, 2°quando gli viene impartita l’assoluzione del S. Rosario, 3° pronunciando colle labbra, o almeno col cuore il nome di Gesù, 4° recitando la Salve Regina e tenendo in mano una candela benedetta pel S. Rosario. Le croci, medaglie, le corone non possono essere date ad altri, perché acquistino anch’essi le indulgenze; giacché le indulgenze non possono essere lucrate che da coloro pei quali oggetti sono stati benedetti, o ai quali la prima volta furono donati. Prestando un Rosario, le indulgenze non si perdono per colui che presta; quando egli lo riprende torna a guadagnarle. – Sentite ora come sono numerose queste indulgenze. In tutte le Confraternite vi è indulgenza plenaria pel giorno della festa patronale; cosicché chi fosse a scritto a parecchie Confraternite, se si confessa e fa la Santa Comunione, può lucrare tutte le indulgenze plenari e annesse a quelle feste, così se appartenete a quattro o a cinque Confraternite guadagnate una indulgenza per voi e le per le anime del purgatorio. Vi sono altre indulgenze, che si acquistano anche con essere ascritto ad alcun pio sodalizio, e sono quelle annesse ai rosari detti di S. Brigida. Questo nome imposto a tali rosari risale a S. Brigida, che fu fondatrice del monastero al quale il S. Padre aveva concesso facoltà di largire simili grandi indulgenze. Chi possiede uno di tali rosari acquista per ogni grano della corona che fa scorrere fra le dita, cento giorni d’indulgenza. Questa è appunto la differenza che esiste fra il Rosario di santa Brigida e l’altro Sacro Rosario, che con questo si guadagna l’indulgenza a preghiera finita, con quello invece si lucra l’indulgenza di cento giorni ad ogni grano. Ma per guadagnare queste indulgenze, bisogna tenere fra le mani la corona e posar le dita sul grano del quale si vuole guadagnare l’indulgenza. Si possono guadagnare le indulgenze quando il rosario si recita in due, e ciascuno dice la sua parte: l’uno: Ave, Maria, l’altro: Sancta Maria. Molte indulgenze sono annesse all’esercizio della Via Crucis. Le indulgenze annesse alla Via Crucis possono lucrarsi più volte al giorno. Questo pio esercizio può farsi in vari modi e per guadagnare le indulgenze annessevi anche plenarie, non si ricerca la Confessione e la Comunione. Se non si è in istato di grazia non si possono guadagnare indulgenze per sé: ma per le anime del purgatorio può acquistarle anche chi si trovasse in peccato (Fra i teologi è questione controversa se lo stato di grazia è necessario per lucrare le indulgenze a favore delle anime del purgatorio. Nullameno sembra più probabile che lo stato di grazia sia necessario; tale è il sentimento di S. Alfonso de’ Liguori. Gury parimente raccomanda quest’opinione, tom, II). – Certamente è cosa assai rara per un Cristiano il poter guadagnare nella sua pienezza una indulgenza plenaria; tuttavia, questo è certissimo che noi lucriamo le indulgenza in proporzione delle nostre disposizioni. Più le nostre disposizioni sono perfette, e più ci accostiamo alla possibilità di poterle lucrare interamente. Quando applichiamo ai defunti le indulgenze che noi acquistiamo, non bisogna applicarle per tutte le anime in genere; ma è bene designare nella nostra intenzione quelle a cui desideriamo applicarle: il padre, la madre o altri. – Le indulgenze annesse alle medaglie, croci, ai crocifissi, benedetti dal S. Padre e da un sacerdote, che ne abbia facoltà, ordinariamente, parziali; quando un Vescovo benedice questi oggetti di sua autorità vi annette solo l’indulgenza di cinquanta giorni. È da notare che la confessione settimanale offre opportunità di guadagnare tutte le indulgenze che è possibile lucrare attraverso settimana. Coloro che si confessano e si comunicano alla vigilia d’una festa, in cui vi è indulgenza, possono egualmente lucrarla senza tornare a confessarsi il dì seguente. Vi è un’indulgenza parziale di due anni per chi bacia con divozione il crocifisso della propria corona benedetta; v’è un’indulgenza plenaria per chi viene ad adorare Gesù Cristo crocifisso il Venerdì santo; v’è un’indulgenza plenaria per la festa del santo Patrono di ogni chiesa. — Facendo devotamente la genuflessione si possono lucrare cento giorni d’indulgenza; così pure preparandosi bene ad ascoltare la S. Messa; vi è altresì un’indulgenza per chi fa ogni sera l’esame di coscienza. –  Molte sono, a dire il vero, le indulgenze che si potrebbero acquistare e che noi non conosciamo. Ebbene, ecco ciò che, ogni mattina, bisogna fare per lucrarle: recitare cinque Pater e Ave, secondo l’intenzione di S. Madre Chiesa, allo scopo di acquistare tutte le indulgenze che durante la giornata si potrebbero guadagnare; e in tal maniera, quand’anche noi non vi pensassimo, giunto il momento, le lucreremo egualmente. Vi sono pure molte indulgenze: p. e. recitando le litanie della beatissima Vergine si acquistano trecento giorni d’indulgenza e trecento giorni altresì recitando quelle del Ss. Nome di Gesù; per gli atti di Fede, Speranza e Carità vi sono pure trecento giorni d’indulgenza, e, annesse a queste tre devote pratiche di pietà, un’indulgenza plenaria ogni mese, confessandosi e comunicandosi in un giorno di nostra scelta. Vi sono cento giorni d’indulgenza per coloro che istruiscono gli ignoranti. I genitori, i maestri che mandano i loro figli, scolari o dipendenti alla spiegazione della dottrina cristiana acquistano sette anni d’indulgenza, ogni volta. Coloro che accompagnano il Ss. Viatico, quando viene portato ai moribondi, acquistano un’indulgenza di sette anni e sette quarantene se tengono un lume acceso, chi l’accompagna senza lume, guadagna egli pure un’indulgenza di cinque anni e cinque quarantene. Quando non ci è dato d’accompagnarlo, si possono lucrare trecento giorni d’indulgenza recitando in ginocchioni un Pater ed un’Ave. Vi sono trecento giorni d’indulgenza per coloro ripetono le giaculatorie: Gesù, Giuseppe Maria, vi dono il cuore e l’anima mia; Giuseppe e Maria, assistetemi nell’ultima agonia; Gesù, Giuseppe e Maria, spiri insieme con voi l’anima mia. Per coloro che appartengono alla Confraternita del S. Cuore di Gesù, vi è indulgenza plenaria il giorno dell’ascrizione, ogni primo Venerdì, ed ogni prima domenica di ciascun mese, ed una volta nel giorno che ad essi meglio piace, purché confessati e comunicati, preghino secondo l’intenzione del Sommo Pontefice, possono lucrare indulgenza plenaria. Vi sono, oltre a quelle, numerosissime altre indulgenze; ma io ho creduto di ricordarvi quelle soltanto che voi potete con miglior agio acquistare. Non so se avete compreso bene quanto sono venuto esponendovi. Se non avete capito, interrogatemi pure, senza alcun rispetto umano. Il sacerdote c’è precisamente per istruirvi intorno a ciò che non conoscete e che pure è necessario sappiate, se volete salvarvi. Ah! M. F., se noi ci perderemo, o andremo a soffrire per lunghi anni nel purgatorio, la colpa sarà tutta nostra; giacché abbiamo tanti mezzi per assicurarci il cielo. Voi avete sentito quali grandi tesori sono messi a nostra disposizione.

III. — Ma che cosa dobbiamo fare per trarne vantaggio? Quando un medico ha conosciuto la malattia dell’infermo, ordina le medicine, ed insegna il modo di prenderle; perché senza questa precauzione le medicine gli riuscirebbero piuttosto nocive che salutari. La stessa cosa devesi dire per riguardo ai mezzi che dobbiamo impiegare per giovare le anime nostre. So benissimo che vi sono alcuni che ascoltano queste cose con una specie di trascuranza e di disprezzo; ma compiangiamoli, sono poveri ciechi che credono di veder molto chiaro, mentre il peccato ha messo loro una benda agli occhi. Giacché vogliono perdersi, nonostante tante grazie che Dio ha loro concesso, lasciamoli fare; avranno più tardi abbastanza tempo per piangere, e dire anzi: “Voi fortunati, che avete obbedito alla grazia che viguidava! „ Camminiamo alla luce della fiaccola della fede; cerchiamo di adoperare i mezzi che Dio ci dà per assicurarci il cielo. Ma, penserete voi, che cosa dobbiamo per guadagnare tutte le indulgenze di cuI ho parlato? M. F., eccovelo. Anzitutto essere in grazia di Dio e detestare tutti i propri peccati; in secondo luogo compiere esattamente lo preghiere e le opere prescritte. Questa seconda condizione è assolutamente necessaria.

1° Io dico anzitutto che bisogna essere in grazia di Dio; perché le indulgenze sono grazie che il Signore non concede che ai giusti, a coloro, cioè, che hanno la grazia santificante. Per questo appunto la Chiesa ci comanda di confessarci e di comunicarci e vuole che detestiamo il peccato con tutto il cuore. E poiché è necessario essere in grazia di Dio, bisogna quindi rinunciare di cuore al peccato; voi sapete, al pari di me, che peccato e grazia non possono stare insieme. Sì, o M. F., Dio può, è vero rimettere il peccato e non la pena, ma non rimette mai la pena della colpa, finché il cuore rimarrà ad essa attaccato. È vero che Dio è sempre pronto a ricolmarci di ogni specie di beni; ma vuole che il nostro cuore si distacchi dal peccato per consacrarsi a Lui senza condizioni e riserve di sorta. Bisogna che il nostro cuore si pieghi esclusivamente verso Dio, e rivolga contro il peccato tutto l’odio di cui è capace. Stando così le cose, voi comprendete benissimo, insieme con me, che finché non abbiamo confessato i nostri peccati, e non li abbiamo sinceramente lasciati, non possiamo ottenere la grazia dell’indulgenza. Inoltre dico che per guadagnare le indulgenze bisogna rinunciare a tutti i peccati che abbiamo commessi. Basterebbe aver sulla coscienza una sola colpa grave, perché tutte queste grazie siano vane per noi. Aggiungo inoltre che quando fossimo attaccati col cuore anche ad un solo peccato veniale, noi non potremmo guadagnare le indulgenze in tutta la loro pienezza. Se non si ha vero pentimento d’un peccato veniale commesso, non si può lucrare l’indulgenza per la pena ad esso dovuta. Ecco l’ordine stabilito da Dio, il quale è pieno di giustizia e non rinuncia ai suoi diritti quanto alla pena dovuta ai nostri peccati se non in proporzione del nostro distacco dall’offesa che gli abbiamo recata. Dobbiamo detestare i nostri peccati ed essere veramente pentiti delle nostre colpe. Il Sommo Pontefice nel concedere le indulgenze dice: “Se siete veramente pentiti. „ Non dice soltanto di confessare le proprie colpe, ma che il peccatore deve essere assai dispiacente di aver offeso Dio, e risoluto di abbracciare secondo le sue forze i rigori della penitenza; bisogna insomma che egli pianga i propri peccati. — Ma, direte voi, si ha sempre dispiacere di aver fatto il male. — Vi ingannate; se foste spiacenti d’aver offeso Dio coi vostri peccati, non ricadreste così presto nelle medesime colpe. Ditemi, M. F.: se, passando per una strada, foste minacciati della vita, vi ripassereste il giorno dopo? No, certamente, il pericolo che avete corso vi renderebbe molto cauti; parimente, se avessimo vero dispiacere d’aver offeso Dio, saremmo cauti, e non ricadremmo tanto presto; e forse, alla prima occasione. Ah! quanti temono il peccato piuttosto perché bisognerà accusarsene, e non perché offende il Signore. Mio Dio, quante cattive confessioni! Esaminate bene questo punto e vedrete che il maggior numero dei Cristiani temono più ed hanno maggior dispiacere di aver fatto il peccato, perché paventano l’umiliazione che dovranno subire accusandolo, che per l’oltraggio che esso ha fatto a Dio. Ah! quanti Cristiani per tal guisa si dannano; essi confessano, è vero, la loro colpa, ma non ne ottengono il perdono. Lo si tocca abbastanza con mano dinanzi a tante cadute, le quali rivelano ben chiaro che tante confessioni non sono altro che sacrilegi! – Ripeto dunque che per lucrare le indulgenze bisogna essere in grazia di Dio e detestare sinceramente le proprie colpe; nessuna eccettuata, fosse anche un minimo peccato veniale.

2° La seconda condizione è questa: compiere tutte le preghiere e le altre opere che il Sommo Pontefice prescrive e fare ogni cosa, nel tempo assegnato. Bisogna pronunciare colle labbra le preghiere vocali, come le preghiere che ci sono imposte quale penitenza al sacro tribunale; non basta dirle col cuore, ma bisogna altresì pronunciar le parole, in mancanza di ciò non compiremmo la nostra penitenza in modo da sperarne il perdono. – Bisogna recitare le preghiere che ci sono imposte, per guadagnare le indulgenze con spirito di penitenza; perché esse ci sono assegnate per supplire le penitenze che non possiamo fare. Lo ripeto una volta ancora, o M. F., ecco le opere che si devono fare per lucrare le indulgenze: Confessione, comunione e preghiera. Se l’indulgenza esige la Confessione e la Comunione, si deve cominciare sempre dalla Confessione. Avendo qualche peccato sulla coscienza, non si può guadagnar le indulgenze. Dobbiamo fare questa confessione e questa Comunione come se fosse l’ultima della nostra vita; poiché l’effetto immediato delle indulgenze è quello di metterci in condizioni di poter godere, senza ritardo, la gloria di subito dopo la morte. In secondo luogo, bisogna comunicarci santamente, perché nella Ss. Comunione è Gesù Cristo che viene in noi e domanda per noi grazia. In terzo luogo, bisogna pregare, fare cioè tutte le preghiere imposte per ottenere la grazia dell’indulgenza. E sapete per chi si deve pregare quando si fa orazione allo scopo di acquistare le indulgenze? La Chiesa vuole che si preghi per conversione dei peccatori e per la perseveranza dei giusti. Quando per guadagnare un’indulgenza le preghiere non sono state determinate, si possono recitare cinque Pater e cinque Ave; quando è imposta qualche opera buona bisogna compierla con vero spirito di penitenza, cioè con gran desiderio di ottenere la grazia che domandiamo. Bisogna convincersi che le indulgenze si lucrano in proporzione delle disposizioni che abbiamo, sicché tanta maggiore grazia riceviamo, quanto più perfette sono le nostre disposizioni. Ditemi, possiamo noi non ammirare la bontà di Dio nell’offrirci mezzi così facili per sfuggire le pene del purgatorio? Davvero che tutti codesti pii Sodalizi, cui sono annesse tante indulgenze, sono cosa assai consolante per un Cristiano. Il fine per cui sono stabilite è sì prezioso, e deve essere di stimolo così potente di ascriverci che, se vi riflettiamo attentamente, non ci riesce di comprendere come mai un Cristiano, che desideri di salvarsi e di piacere a Dio, possa restarsene fuori. Su questo proposito dirò ancora una breve parola. Perché è stabilita la Confraternita del Ss. Sacramento? Per ringraziare Dio di aver istituito questo grande Sacramento d’amore, e per chiedergli perdono del poco conto che si fa della sua santa presenza. E quella del santo Rosario? Per onorare la vita nascosta, dolorosa e gloriosa di Gesù Cristo, e per onorare altresì i privilegi della Ss. Vergine. E quella del Sacro Cuore di Gesù? Per onorare questo Cuore adorabile, che ci ha tanto amato e ci ama tanto. E quella del Sacro Scapolare? Perché consacrandoci alla Vergine Ss. per tutta la vita, Ella ci promette di aver cura particolare delle anime nostre, e ci assicura che non ci perderà di vista, neppure un solo momento. E quella della Madonna Addolorata? Per onorare la Vergine Maria nel tempo della Passione di Gesù Cristo, in cui ha versato tante lagrime. Vi lascio pensare, F. M., quanto tutte codeste Confraternite possano aiutarci a conseguire la nostra salute; giacche non v’è un istante della giornata in cui sulla terra si preghi per noi. Quante preghiere, quante buone opere compiono gli ascritti a questi Sodalizi! Nel cielo, quanti che vi hanno appartenuto, chiedono a Dio tutte le grazie che ci abbisognano! Dirò ancor di più, è assai difficile che Cristiano, sia pur cattivo, si danni, se ha la fortuna di appartenere a qualche Confraternita, e se egli prega qualche poco. Quando vedo un Cristiano non ascritto ad alcun Sodalizio, io non so su che cosa appoggiarmi per sperare perdono per lui; ma se un peccatore ha la bella sorte di appartenere ad una Confraternita, io nutro sempre speranza, anche se è cattivo, che presto o tardi le preghiere dei suoi confratelli otterranno da Dio la grazia della sua conversione. – Concludo, M. F., col dire che non solamente possiamo arricchirci partecipando ai meriti delle preghiere dei nostri confratelli; ma possiamo, con minimo sforzo, metterci nelle disposizione di garantirci il cielo. Ciò che vi auguro di cuore.