VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (4)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (4)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti.
Card. Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA FRANCESCO FERRARI 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

23. — Ritorno in Italia.

A Santa Sabina.

Il 25 Maggio del 1261 moriva Alessandro IV in Viterbo, ove si trovava allora il Patriarca di Gerusalemme, già Arcidiacono di Liegi e poi Vescovo di Verdun Giacomo Pantaleone, venuto per chiedere alla corte papale protezione in favore dei poveri Cristiani di Palestina. A lui si rivolse il pensiero dei Cardinali nel Conclave; ed eletto Pontefice, prese il nome di Urbano IV. – Uno dei primi pensieri del novello Papa fu di giovarsi della dottrina di Tommaso d’Aquino, che in breve aveva acquistato sì alta fama tra i dotti e che egli stesso aveva conosciuto in Francia al tempo della celebre lotta contro i religiosi, nella quale il savio Arcidiacono si era schierato tra i loro difensori. Lo volle presso di sé, e gli comandò di venire in Italia, respingendo ogni domanda che faceva con insistenza l’Università di Parigi per ritenere il suo Dottore. Ai primi del 1261, Tommaso dové sospendere le sue lezioni cedendo la sua cattedra a un suo illustre discepolo, Fra Annibale di Molaria, e mettersi in viaggio per l’Italia. Andò per diritta via ad Orvieto, ove si trovava il Pontefice, lietissimo di aver vicino a se l’uomo più dotto del tempo suo, che gli sarebbe stato di potente aiuto per attuare, a benefizio della Chiesa, quelle idee che occupavano tutta la sua mente. – D’altra parte i superiori della Provincia Romana, andarono lieti di riavere questo loro alunno, a cui senza indugio affidarono la cattedra di teologia nel celebre convento di Santa Sabina sull’Aventino. Lassù, ove si era rifugiato giovanetto, fuggito da Napoli e perseguitato dai parenti per aver preferito agli agi della vita del mondo la povertà dell’abito domenicano, tornava ora pieno di gloria, ma cresciuto nel basso sentire di sé dopo diciassette anni; e vi trovava più che altrove la pace, nel silenzio, nei colloqui con Dio e nelle care memorie del suo venerato Patriarca. – Il Convento di Santa Sabina, che già era stato sotto Onorio III palazzo pontificale, presso la Chiesa gloriosa che lo stesso Pontefice aveva dato all’Ordine, era il centro, a quel tempo, della Provincia Romana, a cui Tommaso apparteneva per esser figlio dei Convento di Napoli, estendendosi allora la vasta Provincia domenicana all’Etruria, all’Umbria, al Lazio e a tutta l’Italia inferiore. Così a lui poté affidare il P. Troiano del Regno, allora Provinciale, l’istruzione dei giovani studenti in quel glorioso convento. Questo periodo di dodici anni, durato fino alla morte, e interrotto, come vedremo, dalle sue gite a Londra, a Bologna e a Parigi pei Capitoli Generali, dobbiamo chiamarlo, nella vita del Santo Dottore, il più fecondo, se pensiamo al molteplice e arduo lavoro a cui egli si diede, oltre al soddisfare ai delicati incarichi a lui affidati dal Papa. Le pratiche religiose, a cui fu sempre fedelissimo, le orazioni lunghe e ferventi, da lui alternate alla predicazione quasi continua della parola di Dio ed alla fatica dell’insegnamento, non gli impedirono di meditare e scrivere opere meravigliose, che formano ora l’ammirazione del mondo. Basti ricordare la Somma contro i Gentili, la Catena d’oro e soprattutto la Somma Teologica. Ma questa vita gloriosa doveva tosto abbellirsi di una nuova e splendidissima luce: e a nessun altro che al Dottore Angelico aveva riservato la Provvidenza questa purissima gloria.

24. — Il Dottore e Poeta eucaristico.

A Tommaso d’Aquino che Urbano IV, stando in Orvieto, fece venire a sé, manifestò un suo pensiero. Disse che essendo egli più di venti anni addietro, Arcidiacono di Liegi, aveva conosciuto nel convento di Mont-Carillon una serafica vergine, chiamata Giuliana, che professava la regola di Sant’Agostino, devotissima della Santa Eucaristia. Questa suora, fino dai suoi primi anni, ogni volta che orava, aveva una visione misteriosa: le sembrava vedere una luna piena, ma da un lato un po’ mancante; e chiestone a Dio con fervide preghiere il significato, aveva inteso che la luna significava la Chiesa, e il difetto che si vedeva era la mancanza in lei di una festa speciale del Santissimo Sacramento. Dopo molte esitazioni, ella aveva manifestato la cosa ad un canonico di Liegi, che l’aveva poi riferita a lui Arcidiacono e ad altri Dottori, tra i quali era il Domenicano Fra Ugo di San Caro, allora Provinciale di Francia, che là si trovava per la visita canonica ai conventi del suo Ordine. – Ma non eran mancate le critiche più acerbe contro la novità voluta dalla suora. Però quei sapienti si erano mostrati favorevoli in gran parte, specialmente il Domenicano; sicché il Vescovo, che era Roberto di Torota, aveva pensato nel 1246 di istituire nella sua diocesi la festa desiderata, ma fu prevenuto dalla morte. Quello che egli non aveva potuto fare, lo fece sei anni dopo lo stesso Fra Ugo da San Caro, che eletto Cardinale e Legato della Santa Sede in quelle regioni, istituì in Liegi, e per quanto si estendeva la sua legazione, la nuova festa, fissando per essa il giovedì dopo l’Ottava della Pentecoste. Egli stesso con gran solennità la celebrò in Liegi stessa nella cattedrale di San Martino. Ma le ostilità furon riprese con maggior furore dopo la partenza del Cardinale. La Beata Giuliana fu presa specialmente di mira e cacciata dal suo convento: e il 5 Aprile del 1258 erasene volata al cielo. Ma prima di morire, aveva fatto partecipe una povera reclusa, chiamata Èva, sua amica, ripiena dello spirito di Dio, dei suoi dolori e delle sue speranze. Aggiungeva il Pontefice come a lui, che era tuttora Arcidiacono, e soleva inviarle delle elemosine, aveva potuto la povera Èva far pervenire i suoi lamenti e ne aveva avuto conforto. Ed ora che la Provvidenza avevalo elevato sul più alto trono del mondo, voleva ad ogni modo che i voti di quelle candide anime fossero esauditi. – Egli ben sapeva che collo spirito della Beata Giuliana, la quale aveva ormai deposto il corpo nel suo sepolcro, e con quello della reclusa superstite, che gemeva nella sua povera grotta, tante e tante anime avevan comuni i desideri ed i voti; e tra queste anime era certamente quella del gran Dottore d’Aquino. – Tommaso non esitò un istante ad approvare il pensiero del Pontefice; e vide in tutto quel fatto l’opera di Dio. E pregato da lui di metter subito mano alla composizione del nuovo ufficio liturgico e della messa per la grande solennità, umilmente accettò. Quell’ufficio rimane; ed è un vero capolavoro di poesia e di scienza teologica. Possiamo dire che la mente ed il cuore del Dottore Angelico si rivelano a noi in quelle antifone, in quegli inni e in quei canti, in mirabile modo. E veramente conveniva che un Dottore, a cui la Chiesa avrebbe poi dato il nome di Angelico per la sua purissima vita e la celeste dottrina, ponesse sul labbro di lei le sue parole per celebrar la virtù e grandezza di quel dono, che è chiamato Pane degli Angeli. Come premio pel suo lavoro ebbe Tommaso da Urbano IV un prezioso dono, che fu ad un tempo un graziosissimo simbolo: una colomba d’argento. V’è chi aggiunge che Urbano volesse anche nominarlo cardinale, ma che non riuscisse a vincere le sue più vive resistenze. – La bella festa del Sacramento fu instituita il 2 Agosto del 1264 ed estesa a tutta la Chiesa. Con vari prodigi Iddio stesso aveva manifestato in varie parti che il tempo in cui sarebbesi tra gli uomini maggiormente glorificato il mistero di amore era vicino; specialmente nel celebre miracolo di Bolsena, avvenuto appunto in quei giorni. Un sacerdote alemanno, nel celebrarvi la santa Messa, ebbe fortissimi dubbi sulla presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Ma quando fu al momento di dovere spezzar l’Ostia che teneva nelle mani, egli vide uscirne vivo sangue in copia, sì che il corporale ne fu in varie parti macchiato. Lo stesso Urbano IV recò ad Orvieto colle proprie mani quel sacro corporale, che divenne insigne reliquia. Ad esso non solo la mirabile custodia d’argento e di gemme lavorata da Ugolino da Siena, ma la cattedrale stupenda, che sorse in quella città, sarebbe rimasta solenne monumento. Intanto il decreto del 2 Agosto veniva pubblicato per tutte le diocesi, e destava nel popolo cristiano il più vivo entusiasmo. – La sollecitudine per il bene della Chiesa universale non aveva cancellato nella mente del Pontefice sommo il ricordo della povera reclusa di Liegi. A lei egli mandò con una sua lettera una copia tanto del decreto quanto del nuovo ufficio composto da San Tommaso. Meraviglioso esempio in faccia al mondo, che così spesso tra il grande ed il piccolo, tra gli alti intelletti e le menti degli umili innalza muri di divisione!

25. — La Somma contro i Gentili.

Un altro grande pensiero del Pontefice Urbano IV era la conversione di tanti poveri infedeli, a molti dei quali mancava il benefizio di una parola apostolica, che togliesse dalla loro mente i pregiudizi e li guidasse per sicura via alla verità. Egli aveva visto coi propri occhi quante anime si perdevano per questa funesta ignoranza e il poco frutto, o piuttosto il danno che si faceva a tanti popoli d’Oriente andando contro di loro colle armi e con mire ambiziose piuttosto che colla parola di pace e colla buona novella del Vangelo. Nei missionarii che si recavano nelle terre dei Saraceni e dei Giudei e in mezzo ad altre nazioni separate dalla Chiesa, due cose essenzialissime spesso mancavano: la conoscenza delle lingue ed una sufficiente istruzione religiosa per catechizzare quelle genti. E spesso si trattava non di ammaestrare turbe di neofiti nelle verità della fede, ma di piegare intelletti traviati da un falso cristianesimo, e specialmente quelli che si davan per dotti, in cui da secoli si eran fatte strada le più assurde dottrine. – L’Ordine di San Domenico aveva un uomo che viveva di questa idea: un dotto spagnolo, il Padre Raimondo da Pennafort, che la Chiesa avrebbe poi iscritto nel catalogo dei Santi. Egli che aveva fatto per varii anni, prima di entrare nell’Ordine, la vita di missionario, di 46 anni aveva vestito l’abito, e nel 1238 era stato eletto Maestro Generale, succedendo al Beato Giordano di Sassonia. Una forte debolezza a lui sopravvenuta, dopo soli due anni, lo aveva costretto a lasciar quella carica; ma poi, riacquistate le forze, erasi dato ad una vita laboriosissima dedicata soprattutto alla conversione degli infedeli. Presso i Generali dell’Ordine a lui succeduti, e specialmente presso Fra Giovanni Teutonico, aveva fatto premure per la fondazione di varie scuole di arabo e di caldeo in alcuni Conventi dell’Ordine, e sollecitato l’invio di alcuni frati spagnoli a Tunisi e nella Murcia, allo scopo di apprender quelle lingue. Essi avevan portato con sé il testo autentico della Bibbia, con cui si erano studiati di palesar gli errori di cui eran piene le versioni falsate dei dottori arabi. All’opera di evangelizzazione già aveva cercato Fra Raimondo di unire quella della carità più eroica, colla fondazione dell’Ordine della Mercede per la redenzione degli schiavi, che imponeva ai suoi membri di restare in pegno nelle mani degli infedeli per ottener la liberazione dei cristiani fatti prigionieri. – Il Capitolo Generale di Parigi del 1256 si era reso conto di questa necessità, ed aveva encomiato l’opera intrapresa dal generoso Fra Raimondo. Ma non bastò. Egli vide quanto sarebbe stata necessaria per una soda educazione dei missionari, sia di quelli che in Spagna vivevano a contatto cogli Arabi che l’avevano invasa, sia di quelli che per cagione delle crociate si trovavano allora in Oriente, ed erano anche provocati a difficili dispute, un’opera che facesse conoscere le verità divine a cui può giungere l’umana ragione e insieme confutasse tutti gli errori e le superstizioni dei nemici della fede, fossero essi Ebrei, o Maomettani, o semplicemente Pagani; e mettere in mano all’Apostolo di Cristo valide armi per combatterli; e pensò che nessuno avrebbe meglio di Tommaso d’Aquino compiuto un tale lavoro. Al desiderio di Fra Raimondo si aggiunse quello del Pontefice e la volontà del Capo dell’Ordine; e San Tommaso pose mano al poderoso lavoro. – Così si ebbe la celebre Somma contro i Gentili, che egli cominciò a scrivere, a quanto pare, in Parigi e a cui pose termine in Roma nel 1261 dopo l’esaltazione di Urbano IV, e che così bene corrispondeva ai generosi intenti del grande Pontefice. San Raimondo l’ebbe come un dono a lui venuto dal cielo. Le verità naturali a cui l’uomo può giungere colla ragione e per la via delle creature, e quelle che, pur essendo contenute nei limiti della facoltà intellettiva, ci vengono insegnate dalla fede che sovviene alla debolezza nostra, sono da Tommaso illuminate con tal forza di ragionamento, che più oltre non è dato salire ad umano intelletto. E quanto alle verità superiori, che i Cristiani ritengono per fede, a lui basta mostrare che contro di esse nulla può opporre la ragione umana, e che sono invece con essa in mirabile armonia. Tutto ciò che dai sistemi filosofici dei vari tempi, dalla negazione giudaica e dalle false dottrine degli eretici, specialmente dalle sottigliezze degli Arabi e dalla perfidia dei Manichei viene opposto contro di loro, non è che vano sofisma o gratuita negazione. – Con quest’opera meravigliosa, tradotta’ subito in greco, in arabo ed in siriaco, a cui solo fanno riscontro i famosi libri della città di Dio di Sant’Agostino, non solo S. Tommaso giovò allo scopo voluto da S. Raimondo e meritò l’ammirazione del Pontefice, ma fu utile a tutti i tempi, restando essa guida sicura ai forti intelletti per giungere ad una chiara visione della cattolica verità e per conoscere i solidi fondamenti su cui essa è basata.

26. — La Catena d’oro.

Un altro lavoro appartenente a questo periodo, è la Catena d’oro. Fu la posterità che diede questo bel titolo alla preziosissima opera che S. Tommaso compose sui quattro Vangeli per espresso comando, come egli dice, del Vicario di Gesù Cristo, a cui egli dedicò la prima parte, cioè il Vangelo di S. Matteo, e che dopo la morte del Papa, avvenuta solo due anni dopo l’elezione, egli condusse a termine. L’incarico di distendere un commento completo del Santo Vangelo riunendo insieme le molte testimonianze dei Padri Greci e Latini aveva pensato il Pontefice di affidarlo ai due grandi Dottori S. Tommaso e S. Bonaventura, che, dividendosi l’arduo e lungo lavoro, lo avrebbero condotto a termine con maggior sollecitudine. Ma S. Bonaventura, allora Generale del suo Ordine, si scusò; e il lavoro rimase al solo Tommaso. Nella Catena d’oro il testo sacro viene a noi attraverso la mente dei suoi più grandi conoscitori, quali furono i Santi Padri, i Dottori della Chiesa e gli antichi interpreti, di cui vengono riportate, quasi sempre a lettera, le testimonianze, così bene accordate, da farne come un concerto di voci solenni. Ventidue Padri e scrittori Greci e venti Latini, appartenenti a dodici secoli, cioè tutto il fiore dei commenti fino allora conosciuti, noi lo abbiamo in quest’unico libro, che, oltre al procurarci un risparmio immenso di tempo e di studio, ci presenta il testo sacro in una mirabile e divina unità, e ne espone lucidamente tanto il senso letterale quanto lo spirituale o mistico, con quell’autorità che tutta la Chiesa riconosce in tali espositori. Sono essi soli che parlano; S. Tommaso tace; ma la luce di quell’intelletto angelico rifulge in ogni pagina del libro, ed è essa che congiunge gli anelli della preziosa catena. – I biografi videro quasi un miracolo nel fatto che, con tanta penuria di codici quale eravi in quel tempo, potesse S. Tommaso unire insieme tante testimonianze; e dicono che, percorrendo per vari monasteri, facesse suo molto materiale colla sua prodigiosa memoria. Comunque sia, e tenuto conto anche del ricco contributo di cui poté far tesoro, stando specialmente a fianco del Pontefice, il lavoro meritò l’ammirazione di tutti i dotti al tempo suo e le lodi di tutta la posterità. Scrivendo al Cardinale Annibaldo, a cui, dopo la morte di Urbano, dedicò i tre volumi dei Vangeli di S. Marco, di S. Luca e di S. Giovanni, S. Tommaso dice di aver durato in questo lavoro molta fatica e di avervi posto uno studio amoroso. Questo studio è principalmente nella scelta dei testi, dai quali sono tolte via le sottili e inutili questioni e che sono stati messi ingegnosamente a raffronto, prendendone veramente il fiore. In tal modo le più belle pagine di S. Giovanni Crisostomo, di Sant’Agostino, di S. Gregorio, di Sant’Ambrogio, di Tertulliano, di Origene, così calde, così ricche di vera eloquenza, illustrano nel più mirabile modo la parola divina del Vangelo.

27. — Prodigi e celesti favori.

Colla preziosa opera della Catena d’oro sono da ricordarsi altri dotti commenti della Sacra Scrittura, come quelli sui libri di Giobbe e d’Isaia, sui primi cinquanta salmi, sui Vangeli di San Matteo e di San Giovanni e sulle quattordici Epistole di San Paolo; minuta analisi del pensiero del grande Apostolo delle Genti, che riesce una perfetta esposizione di tutta la dottrina cattolica. – Fu concesso da Dio al nostro Santo uno specialissimo lume per entrare nei secreti del testo sacro, che egli sempre interpretò dopo lunghe orazioni, alle quali aggiungeva il digiuno quando si presentavano a lui speciali difficoltà. Lo vedevano spesso in chiesa starsene lunghe ore col capo appoggiato al Tabernacolo, ove si conservava la Santa Eucaristia. E in quei momenti ripeteva le parole di Sant’Agostino: « Possa io ottenere l’aiuto da te, fonte dei lumi; e mentre batto alla tua porta, mi sia rivelato il segreto dei tuoi sermoni. » – Ricordano i processi un fatto attestato dal fedele compagno di Tommaso, Fra Reginaldo. Era andato il Santo al suo notturno riposo; e Fra Reginaldo, che dormiva nella cella accanto, si destò al rumore di alcune voci che si udivano in quella di Tommaso. Poco dopo, il Santo lo chiamò dicendo: Portatemi il lume e la carta, ove abbiamo scritto sopra Isaia. Il frate obbedì, e scrisse quanto il Santo Dottore gli venne dettando. Era la spiegazione di un passo difficilissimo del Profeta. Com’ebbe terminato di scrivere, Fra Reginaldo si gettò in ginocchio presso il letto del Santo, e lo scongiurò a dirgli con chi avesse parlato: « Non mi partirò di qui, »esclamava, finché non me lo avrete detto! Alfine il Santo condiscese, c disse che gli erano apparsi i Santi Apostoli Pietro e Paolo e gli avevano spiegato il difficile passo, Ma insieme gli impose di non far parola della cosa a nessuno prima della sua morte. – Altri prodigi confermarono la santità della sua vita e dei suoi insegnamenti. Uno di essi accadde nella Basilica Vaticana ove predicò una quaresima. Nel Venerdì Santo parlò dei dolori del Redentore con tanta devozione che mosse tutti al pianto. E nella Pasqua vi fu gran concorso; ed egli esortò tutti ad esultare nel Signore e celebrare la sua resurrezione. Nell’uscir dalla Chiesa, una donna che pativa un flusso di sangue, avvicinatasi a lui tutta piena di fede, gli toccò il lembo della cappa e rimase d’un tratto sanata. – Un altro prodigio avvenne nel castello della Molara, nelle colline Tu- sculane, ove San Tommaso fu un giorno invitato dal Cardinale Riccardo di Sant’Angelo. Vi andò col suo amato Fra Reginaldo, che si ammalò gravemente e si mise in letto con altissima febbre; sicché era quasi disperato dai medici. Tommaso aveva una specialissima devozione verso la Vergine e Martire Romana Sant’Agnese, e ne teneva continuamente appesa al collo una piccola reliquia. Se la tolse e l’accostò al petto del povero Fra Reginaldo, che si alzò subito dal letto perfettamente guarito. Tommaso, attribuendo tutto all’intercessione della beata verginella, mostrò desiderio che ogni anno se ne facesse la festa nel convento, ove si trovava, con letizia speciale. Tra gli altri favori celesti che gli furon concessi furono le rivelazioni che egli ebbe intorno ai suoi due fratelli Landolfo e Rinaldo. Di Landolfo, allorché morì, seppe che era andato in purgatorio, e ne sollecitò con ardenti preghiere la liberazione, e che Rinaldo, il quale, come vedremo, per una santa e nobile causa aveva dato la vita, toltagli dai sicari di Federico II, era salito alla gloria celeste. E gli fu mostrato un libro, ove il nome di Rinaldo era scritto a caratteri d’oro ed azzurro. Allo stesso modo fu accertato dell’eterna salute della sua sorella Marotta, Badessa del monastero di Santa Maria di Capua, ov’era vissuta in santità di vita e che alcuni anni innanzi era morta.

28. — I due Rabbini.

Stando a Roma, Tommaso fu di nuovo invitato dal Cardinale Riccardo al detto castello della Molara, perché passasse in sua compagnia la festa del Santo Natale. Vi andò, e trovò che stavano presso il Cardinale due Rabbini, padre e figlio, uomini ricchi e di forte ingegno, molto conosciuti in Roma. Al Santo Dottore disse molto famigliarmente il Cardinale: Fra Tommaso, dite qualcuna delle vostre buone parole a questi Ebrei indurati. E il Santo: Dirò quel che potrò, purché mi vogliano ascoltare. Entrarono in discorso; ed era bello udir questi Ebrei esaltare, in tono di vittoria, la loro religione, come la più antica del genere umano, la custode fedele della divina rivelazione, l’erede delle più sante promesse, e specialmente di quella a loro fatta da Dio, del dominio su tutti i popoli della terra con l’assicurazione di un’eterna durata. Chi avesse udito quei vanti, avrebbe forse crollato il capo e pensato ad opporre altre grandezze da parte della nostra fede; ma Tommaso tutto approvò, e si unì ai suoi interlocutori in quegli elogi. Anzi, continuando, mostrò che quelle grandezze avrebbero potuto conservarsi e avrebbe dovuto compiersi quel grande destino, né mai interrompersi tradizioni così gloriose. E con la profonda cognizione che aveva delle Sacre Scritture, mostrò come tanti simboli sarebbero ora senza alcun significato, tante predizioni non si sarebbero verificate, se non si fosse ammesso quanto i Cristiani ritengono di Gesù Cristo e della sua Chiesa; il solo regno spirituale veduto dai Profeti, che avrebbe esteso i suoi domini fino ai confini della terra. – I due Rabbini rimasero stupiti, ma non si diedero per vinti. Allora la parola del Santo Dottore divenne più accesa; e veramente usciva da un cuore pieno di desiderio della salute di quelle anime, anch’esse redente da Cristo; e parlava di Cristo, solo erede delle promesse di Abramo, di Isacco, di David e di tutti i Patriarchi e Profeti, di Cristo, a cui i dolori e le pene non tolsero nulla della sua divina grandezza, anzi aumentarono la sua virtù riparatrice dei nostri falli, consolatrice dei nostri cuori. E il suo volto manifestava l’interno desiderio, e già da esso traspariva la letizia per la conquista che egli era per fare di queste due anime. – Si separarono quella sera: i Rabbini ridotti al silenzio, erano ancora ostinati. Tommaso non andò al consueto riposo: ma si trattenne per tutta la notte in devota preghiera. Era appunto la notte del Santo Natale: il suo Dio doveva in quei cuori versare la sua luce; Tommaso chiedeva questa grazia al suo Dio, che era disceso nel mondo fra il canto degli Angeli a recar la vera pace. Riferiscon gli storici dal processo, che il Santo Dottore, devoto com’era di quell’ineffabile mistero, era solito ogni anno, nella festa di Natale, aver qualche visione del Santo Bambino e della sua divina Madre ed ottener qualche grazia da lui desiderata; e che quest’anno la grazia che chiese fu la conversione di queste due anime. – I Rabbini passarono la notte nella più viva agitazione. Alzatisi innanzi giorno, si recarono come per istinto nella cappella del castello, e udirono la voce di due che cantavano. Erano Fra Tommaso e Fra Reginaldo, che avevano intuonato il Te Deum, A quella voce erano accorsi i cappellani e familiari del Cardinale, e il Cardinale stesso, sebbene incomodato dalla podagra, si fece portare nella chiesa. Finito il canto, che gli stessi accorsi avevano compiuto, i due Ebrei si prostrarono davanti al Santo colle lacrime agli occhi. Non avevano altre ragioni da opporre, né ebbero altro da domandare se non la grazia del santo Battesimo. – Nel giorno stesso, che era la Solennità del Natale, furono battezzati con gran letizia del Cardinale e gran festa in tutto il palazzo, e vi presero parte molti nobili venuti da Roma, dove presto fu divulgata la cosa con grande ammirazione di tutti.

29. — Al Capitolo di Londra.

Fra Umberto de Romanis, il venerando uomo che aveva per nove anni governato l’Ordine domenicano con sapienza e fortezza e ne aveva difesi validamente i diritti, e veduta la crescente prosperità ed anche indovinata la futura grandezza e gli alti destini a cui Iddio lo chiamava, specialmente col concedere ad esso un uomo come il Dottore d’Aquino, aveva passato il sessantesimo anno, ed era risolutamente deciso di rinunziare al suo ufficio nel prossimo Capitolo che doveva tenersi a Londra. Egli pensò che l’arduo peso poteva bene esser sostenuto da più giovani spalle, e che a lui era utile tornare alla condizione di umile suddito ed alla vita di orazione e di ritiro nella pace della sua cella. Varie infermità, del resto, lo avevano visitato di quando in quando, e ne avevano allentato l’attività mirabile. – La città di Londra era stata scelta nel Capitolo tenuto in Bologna nella Pentecoste del 1262; e San Tommaso era stato eletto Definitore della Provincia Romana. Ai Padri capitolari che non potevano opporre ragioni assolute di impossibilità, non era permesso dispensarsi; e Tommaso considerò come un sacro dovere l’intervenirvi, sebbene il lunghissimo viaggio costasse a lui assai tempo e molto disagio. Partì da Roma alla fine dello stesso anno 1262 con alcuni compagni. Ci fu conservata  la cara memoria della sosta che fece nel celebre convento di Sant’Eustorgio in Milano, ove il Beato Giovanni da Vercelli, allora Provinciale, aveva istituito una scuola di logica. Ma la pietà di Tommaso eravi attratta soprattutto dalle memorie del gran martire suo confratello, San Pietro da Verona. – Questo eroe della fede, dieci anni innanzi, era caduto vittima dell’odio dei Manichei nella foresta di Barlassina, tra Como e Milano, e morendo aveva scritto la parola Credo nel terreno col dito intriso nel proprio sangue. Non ancora spirato l’anno da quella morte gloriosa, Innocenzo IV lo aveva ascritto nel catalogo dei Santi ed alla sua tomba erano continui i miracoli e le grazie. – Dinanzi a quelle sacre reliquie si prostrò il Santo Dottore, che volle lasciarvi il prezioso ricordo di otto versi, che furono poi incisi sulla tomba. In essi è esaltato lo spirito apostolico del difensore di Cristo e del popolo fedele, caduto sotto il ferro dei Catari, e vien resa testimonianza dei prodigi che Cristo compiva a gloria di lui ed a vantaggio della fede. – Dinanzi ai Padri Capitolari il Beato Umberto, dopo di avere esattamente reso conto del suo governo, domandò umilmente d’esser prosciolto dall’ufficio. Invano si opposero i Padri, che sapevano essere egli specchio di pietà, amato da tutti e venerato, zelante al sommo del bene dell’Ordine. Ma furon così vive le sue istanze, che essi pensaron meglio di non contristarlo ed appagarono il suo desiderio. Trattavasi però della nomina di un successore, alla quale molti, in verità, non erano preparati. Ed era affare di molta importanza, in quel momento specialmente, la scelta del novello Generale, e cosa assai ardua dare un degno erede al Beato Umberto. Fu molto opportuno il consiglio suggerito dal Santo Dottore d’Aquino. Con altri Capitolari egli pensò doversi dare ai Padri un anno di tempo per tale scelta; e propose frattanto l’elezione di un Vicario. E forse si deve a lui se, per il bene dell’Ordine, accettò quell’incarico il suo caro condiscepolo sopra ricordato, Fra Pietro da Tarantasia, allora Provinciale di Francia, uomo santissimo, che avrebbe saputo in quell’intervallo, con prudenza e forza, calcare le orme del beato Umberto, per poi tornare alla sua cattedra di Parigi e agli altri ministeri che lo tenevano legato. Quel consiglio fu di somma utilità, perché da un lato si provvide assai bene al bisogno del momento; dall’altro poté poi scegliersi un uomo veramente degno di quell’altissima carica. Infatti, spirato l’anno, i voti dei Padri capitolari si raccolsero sul nome del Beato Giovanni da Vercelli, che fu veramente l’uomo della Provvidenza, eletto a conservare la famiglia domenicana nelle sue tradizioni gloriose ed avviarla ai nuovi destini in difficili tempi. – A Fra Pietro da Tarantasia era riservata una più gloriosa carriera, che, come vedemmo, lo condusse al più alto soglio della terra. Terminato il Capitolo di Londra, il Santo Dottore riprese il suo viaggio per l’Italia.

30. — La rinunzia all’Arcivescovato di Napoli.

Tornato in Italia, ebbe Tommaso assai presto il dolore di perdere un amico ed un padre, il Pontefice Urbano IV. A lui succede, col nome di Clemente IV, il Cardinale Vescovo di Sabina, Guido Fulcodi, di Linguadoca, che sembrò avere ereditato da Papa Urbano i sentimenti di stima e di affezione sincera verso il nostro grande Dottore, a cui però, col pensiero di premiarne i meriti, procurò le angustie più vive. – Era rimasto vacante l’Arcivescovato di Napoli; e il novello Pontefice giudicò che a nessuno meglio che a Tommaso d’Aquino poteva affidar quella sede. I Napoletani, giustamente orgogliosi di lui, desideravano unanimi quella nomina; e il Pontefice, in segno di predilezione verso il Santo, aveva pensato di aggiungere alle rendite dell’Arcivescovato quelle del Monastero di San Pietro ad Aram. In questa decisione era compreso anche un nobile intento, secondo il suo parere: quello, cioè, di dare il modo a Tommaso di rialzare la famiglia d’Aquino, assai decaduta per le vicende politiche di quei tempi. Federigo II imperatore, divenuto crudele e ribellatosi alla Chiesa, era stato scomunicato da Gregorio IX nel 1239. Allora molti Signori d’Italia lo abbandonarono, né vollero prender più parte alle sue guerre ingiuste. Furon tra questi i Conti d’Aquino, fratelli di San Tommaso, Landolfo e Rinaldo, che si unirono ai Conti di Sora, fattisi difensori del Papa. Per vendicarsi di loro, Federigo II nel 1250 fece smantellare la città di Aquino e privò la illustre famiglia di tutti i suoi beni. E non bastò; perché Rinaldo fu ucciso a tradimento e Landolfo mandato in esilio. Ma Tommaso, che già sotto Urbano IV, a quanto sembra, aveva saputo sottrarsi all’onore della porpora, poté evitare anche il nuovo pericolo. Tutto ormai era disposto per l’elezione, ed egli ancora nulla sapeva. Ma quando la cosa gli giunse all’orecchio, rimase così colpito, che più non si sarebbe addolorato per una grave sventura che gli fosse ad un tratto piombata addosso. Il motivo d’aiutare i parenti non valse: quanto a loro egli aveva altre idee: se la Provvidenza avesse voluto ricondurli a prospera condizione, non sarebbero a lei mancati i mezzi; ma le rendite della Chiesa, egli pensava, non dovevano servire a questo. Tra il desiderio del Santo di voler restare nell’umiltà del suo abito religioso e il volere del Papa di esaltarlo ad ogni costo, la lotta si continuò alquanto; e Tommaso tutto sperò dalle preghiere che giorno e notte rivolse a Dio in quei momenti. Alfine il Pontefice depose quel pensiero, con grande allegrezza del Santo Dottore. – Quanto alla famiglia d’Aquino Iddio provvide a suo tempo, perché da Carlo d’Angiò, eletto dopo cinque anni re delle Due Sicilie, essa fu restituita nel pieno godimento di tutti i suoi beni. Napoli non ebbe in Tommaso il suo Arcivescovo. Ma se lo avesse avuto, dobbiamo certo pensare che l’attività scientifica di Tommaso, in altri ministeri occupato, si sarebbe troncata, e forse la Chiesa non avrebbe avuto da lui la Somma Teologica.