UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO (ANCHE CON GREMBIULINO E CAZZUOLA, SQUADRA E COMPASSO): S. S. PIO IX – “EXORTÆ IN ISTA”

Ancora una volta il Santo Padre è costretto ad occuparsi della setta massonica (tentacolo della piovra demoniaca), infiltrata nelle fila di pii cattolici di alcune comunità brasiliane. La sinagoga di satana massonica aveva già da tempo iniziata l’opera di infiltrazione nella Chiesa onde abbattere i principali pilastri: la Dottrina soprannaturale e la Gerarchia divinamente costituita, mirando soprattutto al Sommo Pontefice romano. I risultati apparentemente sembrano aver dato loro ragione, dal momento che hanno estromesso ed impedito il Vicario di Cristo dalla sua Cattedra inserendovi una serie di usurpanti antipapi-burattini che hanno devastato e devastano tuttora la vigna di Dio. Ma l’uomo-Dio non si è lasciato distruggere la sua Chiesa, generata dal suo costato aperto sulla croce, e proprio quando sembrerà essere morta e chiusa nel sepolcro – come apparirà dopo la prossima imminente proclamazione della Religione unica mondiale, monoteista-luciferina governata dall’anticristo, il falso Messia della tribù di Dan – la ricostituira’ più gloriosa e regale che mai. Si tratterà di resistere alla feroce persecuzione dei nemici di Dio, mascherata da ignobile farsa sanitaria, ed attendere l’arrivo improvviso (non per il piccolo gregge) del Signore Giudice universale che brucerà con il soffio della sua bocca tutti gli adepti del “drago infame e maledetto” e dei falsi profeti modernisti del colle romano… E là sarà pianto e stridor di denti in eterno.

EXORTÆ IN ISTA

LETTERA

Ai Vescovi del Brasile riguardo alla Massoneria.

1. I disordini originati in questa giurisdizione negli anni passati da persone che, pur essendo seguaci della setta massonica, si sono infiltrate nelle comunità di pii Cristiani, hanno portato a voi, venerabili fratelli, soprattutto nelle diocesi di Olinda e Belém do Pará, grave tormento, oltre che grande inquietudine per noi. – Del resto, non si poteva rimanere indifferenti al fatto che la peste letale di quella setta si fosse diffusa fino a riuscire a corrompere le suddette comunità, e, di conseguenza, le istituzioni disposte a rafforzare il sincero spirito di fede e di pietà che, dopo la diffusione della funesta zizzania, precipitarono in una condizione miserabile. Noi, dunque, tenendo presente il nostro dovere apostolico e sotto l’impulso della carità paterna con cui seguiamo questa parte del gregge di Dio, considerammo nostro dovere affrontare questo male senza esitazione e con la lettera del 29 maggio 1873 facemmo sentire la nostra voce a te, venerabile fratello di Olinda, contro questa deplorevole perversione infiltrata nelle comunità cristiane, osservando tuttavia, un criterio di indulgenza e clemenza verso coloro che avevano aderito alla setta massonica perché ingannati o illusi, sospendendo temporaneamente le restrizioni delle censure in cui erano incorsi, volendo che si avvalessero così della nostra benignità per esecrare i loro errori e abbandonare – condannandole – le associazioni alle quali avevano aderito. – Ti abbiamo incaricato, venerabile fratello di Olinda, di sopprimere e dichiarare soppresse quelle comunità se, dopo quel periodo di tempo, non fossero state ricomposte e di ricostituirle integralmente con le modalità che avevano in origine, inserendo cioè nuovi membri immuni da ogni contaminazione con la massoneria. Noi, invece, volendo mettere in guardia – come è nostro dovere – tutti i fedeli contro l’astuzia e l’inganno dei membri delle sette, nella Lettera Enciclica del 21 novembre 1873, indirizzata ai Vescovi di tutta la Cattolicità, richiamammo chiaramente alla memoria dei fedeli in quella occasione, le disposizioni pontificie emanate contro le società corrotte di coloro che aderiscono alle sette, e proclamammo che nelle costituzioni erano colpite non solo le associazioni massoniche stabilite in Europa, ma anche tutte quelle in America e nelle altre regioni del mondo.

2. Non possiamo, poi, non meravigliarci grandemente del fatto, che, essendo stati sospesi, sulla nostra autorità e con decisioni che puntavano alla salvezza dei peccatori, gli interdetti ai quali in queste regioni erano state sottoposte alcune Chiese e comunità, composte per la maggior parte da seguaci della massoneria, si è preso lo spunto per diffondere tra il popolo la convinzione che la società massonica presente in queste regioni era esclusa dalle condanne delle regioni apostoliche, e, quindi, che le persone che aderivano alla setta potevano tranquillamente prendere parte alla comunità dei pii Cristiani. Tuttavia, quanto queste opinioni siano lontane dalla verità e dal nostro modo di sentire è chiaramente dimostrato sia dagli atti che abbiamo appena ricordato, sia dalla lettera scritta al serenissimo imperatore di queste regioni il 9 febbraio 1875, nella quale, pur assicurando che l’interdetto imposto ad alcune delle chiese di queste diocesi sarebbe stato revocato se voi, venerabili fratelli, ingiustamente tenuti in prigione a Para e Olinda, fosse stati liberati; abbiamo aggiunto, però, una riserva ed una condizione precisa, cioè che i seguaci della massoneria fossero rimossi dalle cariche che occupavano nelle comunità. E questa condotta suggerita dalla nostra prudenza non aveva e non poteva avere altro scopo che quello di offrire al governatore imperiale l’opportunità, una volta che i desideri dell’imperatore fossero stati esauditi da parte nostra e la pace degli animi fosse stata ristabilita, di riportare le pie comunità alla loro precedente condizione rimuovendo la confusione causata dalla massoneria, e allo stesso tempo di far sì che gli uomini della setta condannata, mossi dalla nostra clemenza nei loro confronti, cercassero di sottrarsi alla via della perdizione. – Affinché in una questione così grave come questa non ci sia alcun dubbio, né alcuna possibilità di inganno, non trascuriamo di dichiarare ancora una volta in questa occasione che tutte le società massoniche – sia di queste regioni, sia di altre che, per parte di molti, hanno ingannato o indotto all’inganno, dicendosi interessati solo all’utilità ed al progresso sociale, nonché alla pratica del mutuo soccorso – sono proscritte e colpite dalle costituzioni e dalle condanne apostoliche, e che coloro che si sono infelicemente iscritti alle stesse sette incorrono per questo nella più grave scomunica – specialissimamente riservata al Romano Pontefice. – Con non minore sollecitudine raccomandiamo al vostro zelo che in queste regioni la dottrina religiosa sia diligentemente trasmessa al popolo cristiano con la proclamazione della parola di Dio e con insegnamenti appropriati. Sapete, dopo tutto, quanta utilità deriva al gregge di Cristo se il ministero è ben esercitato, e quanto danno viene fatto se viene trascurato.

 3. Ma oltre agli argomenti qui trattati, siamo costretti a deplorare l’abuso di potere da parte di coloro che presiedono le suddette comunità, i quali, come abbiamo già detto, annullando tutto a loro discrezione, pretendono di attribuirsi la legittima autorità sui beni e sulle persone sacre e sulle cose spirituali, cosicché gli stessi ecclesiastici e parroci sono completamente soggetti ai loro poteri nello svolgimento dei compiti del loro ministero. Tale comportamento è contrario non solo alla legge ecclesiastica, ma anche all’ordine costituito da Cristo Signore nella sua Chiesa. Dopo tutto, i laici non sono stati posti a capo del governo ecclesiastico, ma per la loro utilità e salvezza devono essere soggetti ai legittimi pastori, la loro funzione è quella di offrirsi come assistenti del clero in situazioni particolari, e non devono interferire in quelle cose affidate da Cristo ai sacri pastori. Per questo motivo riteniamo urgente che gli statuti delle suddette comunità siano redatti secondo il giusto ordine, e che quanto è fuori ordine e incoerente in qualsiasi aspetto sia perfettamente conforme alle regole della Chiesa e della disciplina canonica. Per raggiungere questo scopo, Venerabili Fratelli, in vista degli scambi che avvengono tra le comunità e il potere civile in ciò che riguarda la loro costituzione e ordinamento nelle cose temporali, abbiamo già concesso al nostro Cardinale Segretario di Stato i dovuti mandati per agire con il governo imperiale, cercando di unire con lui gli sforzi utili per ottenere i risultati desiderati. Confidiamo che l’autorità civile unisca il suo sollecito interesse al nostro; perciò chiediamo a Dio, da cui viene ogni bene, con tutte le nostre forze, di degnarsi di accompagnare e sostenere con la sua grazia questa iniziativa di tranquillizzazione della religione e della società civile. Anche voi, Venerabili Fratelli, unite le vostre preghiere alle nostre, affinché questi desideri si realizzino, e come pegno del nostro sincero amore, ricevete la benedizione apostolica, che impartiamo, con il cuore nel Signore, a voi, al clero e ai fedeli affidati alla cura di ciascuno di voi.

Roma, dato a San Pietro, il 20 aprile 1876, XXX del Nostro Pontificato.

PAPA PIO IX

DOMENICA QUARTA DI QUARESIMA (2021)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). La riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì. –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mose, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. E dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta coi nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è la Domenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia, e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

“Fratelli: Sta scritto che Àbramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Arabia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati” .

LA SCHIAVITÙ DELLA LEGGE E LA LIBERTA’ DI GESÙ CRISTO.

p. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Bihil obstat sac. P. de Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch.)

Colla Epistola di questa domenica noi tocchiamo, fratelli, un punto fondamentale nella dottrina di San Paolo, non oserei dire famigliarissimo oggi ai nostri Cristiani. La ragione è, in parte nelle mutate condizioni religiose dell’età nostra di fronte a quella che fu davvero l’età di San Paolo. Fervevano allora le dispute fra i Giudei e i Cristiani, quelli attaccati alla loro legge, la legge di Mosè e questi fieri della Religione nuova, la Religione del Vangelo di Cristo. La Legge era la sintesi del giudaismo, di quella che oggi chiamiamo la Sinagoga; essa abbracciava tutto l’insieme, per allora, poderoso di aiuti che per secoli e millenni la religione dei Patriarchi e dei Profeti fornì agli ebrei per portarli a Dio. Per allora, ho detto: perché noi sappiamo che quella economia religiosa era un’economia passeggera, transeunte. Un altro ordine di cose doveva inaugurare Iddio nella pienezza dei tempi. Infatti, quando venne N. S. Gesù, e parlò Lui il Verbo suo nuovo, e operò e patì, allora l’umanità accettò il Vangelo, sentì la povertà (relativa) del precedente regime; come chi riesce ad andare oggi in automobile sente la povertà (relativa) delle vecchie carrozze, anche le più veloci e famose. In Paolo questo sentimento fu acutissimo, quasi spasmodico. Aveva respirata con orgoglio l’atmosfera della legge negli anni del suo bollente nazionalismo religioso; dalla chiusa torre della legge aveva guardato con orgoglio il resto dell’umanità, si era irritato fino alla crudeltà quando degli Israeliti come lui, avevano cominciato a parlare di un’altra cosa che non era più la legge e che la superava e si proponeva di sostituirla. E un bel giorno egli Paolo, fece la esperienza di quella novità che aveva fino allora odiata e bestemmiata. – Amò Gesù, ne accettò il Vangelo, la novella buona: buona e nuova. L’accettò con tutta la sua anima. E fu un senso di liberazione. Non la liberazione da un appoggio, che ti fa cadere più in basso; no; liberazione, invece, da un peso, la vera liberazione che ti fa ascendere più in alto, dal mondo della luce, pura e fredda, la sua anima era passata nel mondo del calore. Il mondo della luce era la legge. Proprio così. – La legge, qualunque essa sia, divina od umana, religiosa e civile, ti fa vedere la strada: ecco tutto. Non ti aiuta a percorrerla. In questo la legge somiglia alla filosofia, antica e moderna, anche le filosofia morale ci fa vedere il bene ed il male, ma l’anima ripete col vecchio sapiente: vedo il meglio e l’approvo’ come tale con la mente, seguo il peggio con la mia volontà. Mancano le forze, l’energia. Gesù ha portato questo al mondo: l’energia che si chiama amore, carità. Il bene non pesa più. Il giogo, senza cessare di essere severo, anzi essendolo diventato anche di più, si è alleggerito. Gesù aveva detto: Il mio giogo è soave, il peso ne è più leggero… in confronto, si intende, del vecchio giogo legale. Lo aveva detto Gesù e lo ripete sotto altra forma e lo corrobora con ragionamenti adatti a quei Farisei con i quali Egli discuteva: sottili, sofistici, disquisitori ai quali Paolo tiene testa bravamente. E noi dobbiamo riprendere questo insegnamento di libertà non per liberarci dalla Legge morale, ma per sentirci liberi dalla legge per liberarci dalla perfidia, non per amare me né la legge Divina, ma per amarla di più, per osservarla più generosamente e più liberamente. È  la libertà vera dei figli di Dio.

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis.

[V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem.

[Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI: 1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese le grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, finché ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte”.

OMELIA

[DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS,

VOL. II, Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

RITARDO DELLA CONVERSIONE

Ego vado et quæretis me, et in peccato vestro moriemini

Io vado e mi cercherete, ma morrete nel vostro peccato

 (S. Jean, VIII, 21)

Sì, Fratelli miei, è per noi grande miseria e umiliazione, l’essere stati concepiti col peccato originale, perché nasciamo figli di maledizione; è senza dubbio miseria ancor più grande vivere nel peccato: ma morirvi è il colmo d’ogni sventura. E vero, F . M., noi non abbiamo potuto evitare di contrarre il primo peccato, che è il peccato di Adamo; ma possiamo facilmente sfuggire quello in cui cadiamo volontariamente; o dopo esservi caduti possiamo, colla grazia di Dio, ritrarcene. Ma possibile che noi vogliamo restare in uno stato che ci espone a così grandi sventure per l’eternità? Chi di noi, F. M., non tremerà, sentendo dire da Gesù medesimo che un giorno il peccatore lo cercherà, ma non lo troverà, e morrà nel suo peccato? Lascio pensare a voi in quale stato riposi colui, che vive tranquillo nel peccato, mentre la morte è così sicura, e ne è invece tanto incerto il momento. Lo Spirito Santo ha detto dunque giustamente che gli empi camminano affatto fuor di strada, che i loro cuori sono accecati, che le loro menti sono avvolte di tenebre le più fitte, e che la loro malizia ha finito per ingannarli e rovinarli (Sap. V. 6).Hanno rimandato il loro ritorno a Dio ad un tempo che non sarà loro concesso; hanno sperato di fare una buona morte, pur vivendo nel peccato; ma si sono ingannati, perché la loro morte sarà pessima al cospetto di Dio. Ecco precisamente qual è, F. M., la condotta della maggior parte dei Cristiani ai nostri giorni. Essi vivono nel peccato sperando sempre di fare una buona morte e si cullano nel pensiero che lasceranno la colpa, faranno penitenza, e ripareranno, prima di comparire al giudizio, le colpe commesse. – Ma il demonio li ha ingannati: essi non usciranno dal loro peccato che per essere precipitati nell’inferno.

Per meglio farvi intendere l’accecamento del peccatore vi mostrerò:

1° Che più ritardiamo ad uscire dal peccato ed a tornare a Dio, più ci mettiamo a pericolo di morirvi; perché, se volete saperne la ragione, riesce più difficile rompere le nostre cattive abitudini;

2° Che ad ogni grazia che disprezziamo, Dio si allontana da noi; noi diventiamo più deboli, mentre il demonio prende su di noi maggior dominio. Da ciò ne concludo che più noi restiamo nel peccato e più ci mettiamo a pericolo di non convertirci mai.

I. — Parlare della morte sciagurata di un peccatore, che spira nel peccato, a Cristiani, i quali hanno assaporato tante volte la gioia di amare un Dio così buono e conoscono, coi lumi della fede, la grandezza de’ beni che Gesù Cristo prepara a quelli che serberanno l’anima loro libera dal peccato! Questo discorso dovrebbe tenersi a pagani, che non conoscono Dio, né la ricompensa da lui promessa a’ suoi figli. O mio Dio, quanto è cieco l’uomo che perde tanti beni e s’attira tanta copia di mali restando nel peccato! Se io domandassi ad un fanciullo: « Perché Iddio ti ha creato e ti conserva ? » mi risponderebbe: « Per conoscerlo, amarlo, servirlo e andarlo a godere nell’altra vita. » Ma se io gli dicessi: « Perché i Cristiani non fanno quello che devono por meritare il cielo? » — « Perché, mi soggiungerebbe, hanno dimenticato i beni del cielo e credono di trovare la loro felicità nelle cose create. » Il demonio li ha ingannati e ancora li ingannerà: vivono nell’accecamento e v i morranno, quantunque nutrano speranza di staccarsi, un giorno, dal peccato. Ditemi, M. F., non si vedono ogni dì persone che vivono nel peccato, disprezzano tutte le grazie che Dio loro manda: buoni pensieri, buoni desideri, rimorsi di coscienza, buoni esempi, e la divina parola? Sperando sempre che Dio li accoglierà, quando vorranno far ritorno a Lui, costoro, ciechi, non vedono che il demonio intanto prepara ad essi un posto nell’inferno. Funesto accecamento! Quanti Cristiani esso ha piombati nell’inferno, e quanti ancora ne farà piombare sino alla fine del mondo! E poi questa considerazione deve far tremare un peccatore che vive nella colpa e spera di uscirne. Difatti, voi non siete così poco istruiti da non sapere che un solo peccato mortale, se si viene a morire senz’averlo confessato e senz’averne ottenuto il perdono, basta a dannarci l’anima per sempre. Per questo Gesù Cristo ci ha detto di stare sempre pronti, perché ci farà uscir da questo mondo quando meno vi penseremo, e che se non abbandoniamo il peccato prima ch’esso ci abbandoni, ci punirà senza misericordia. O mio Dio! è possibile vivere in uno stato che ci mette a rischio, ad ogni momento, di precipitare nell’abisso dell’inferno? Se questa riflessione, o F. M., non è capace di scuotervi, ascoltatemi un istante, o piuttosto aprite il Vangelo, e vedrete, se potete vivere tranquilli nel peccato, come fate. – Sì, M. F., tutto annunzia che se non vi affrettate ad uscire dal peccato, perirete: gli oracoli, le minacce, le similitudini, le figure, le parabole, gli esempi, tutto vi dice che, o non potrete o non vorrete più convertirvi. Udite Gesù Cristo che di sua bocca grida al peccatore: « Camminate fino a che la luce della fede brilla dinanzi a voi » (Jov. XII, 35) per timore di uscire di strada per sempre, se disprezzate questa guida. E in un altro luogo dice: « Vegliate, vegliate continuamente » (Marc. XIII, 83) perché il nemico della vostra salute lavora alla vostra rovina. E pregate, pregate senza interruzione per attirare su di voi gli aiuti del cielo, poiché i vostri nemici sono molto astuti e molto potenti. A che posseder tanto, dice ancora, e vivere occupati delle cose temporali e dei vostri piaceri, se tra poco avrete abbandonato ogni cosa? Ma nulla, o M. F., è più spaventoso che la minaccia fatta da Gesù Cristo ai peccatori quando dice loro che se non ritornano a Lui, allorché Egli offre loro la sua grazia, verrà giorno in cui lo cercheranno e gli domanderanno misericordia, ma alla sua volta li disprezzerà; e per timore che le loro lagrime e le lor preghiere lo commuovano si chiuderà le orecchie e sfuggirà da loro. O mio Dio, quale sventura l’essere abbandonati da voi! Ah! M. F., possiamo noi pensarvi e non morirne di dolore? Sì, M. F., se voi siete insensibili a questa parola, siete già perduti. Ah! povera anima, piangi anticipatamente i tormenti che ti si apparecchiano nell’altra vita! Andiamo innanzi, F . M., ascoltiamo Gesù Cristo medesimo e vedremo, se possiamo dirci al sicuro vivendo nel peccato. « Sì, Egli dice, come di notte il ladro, viene e cerca di cogliere il padrone di casa nel momento in cui dorme più profondamente (Matth. XXIV, 43), » così verrà la morte a troncare il filo della vita colpevole del peccatore; verrà nel momento appunto in cui egli avrà la coscienza carica di peccati ed avrà preso la bella risoluzione di staccarsene, senza poi averlo fatto. In un altro luogo ci dice che la nostra vita passa « colla stessa rapidità del lampo che guizza da oriente ad occidente » (Matt. XXIV, 27); così noi vediamo oggi il peccatore pieno di vita e di sanità, colla mente ripiena di mille progetti; e domani le lagrime dei suoi annunzieranno che non è più di questo mondo, che ne è uscito senza sapere perché vi fosse e per qual fine. Questo insensato visse cieco e morì com’era vissuto. – Gesù Cristo ci dice ancora che la morte è l’eco della vita, per dimostrarci che chi vive in peccato è quasi sicuro di morirvi, salvo un miracolo della grazia. Questa è cosa tanto vera che si legge nella storia d’un uomo che aveva fatto del denaro il suo dio e che essendo caduto gravemente infermo, si fece portare un cassetto pieno d’oro per avere il piacere di contarlo, e quando non ne ebbe più la forza v’immerse la mano finché morì. Un altro a cui il confessore presentò  il crocifisso per eccitarlo a contrizione delle sue colpe, uscì a dire: « Se questo crocifisso fosse d’oro, costerebbe tanto. » Ah! no, F. M., il cuore del peccatore non abbandona il peccato così facilmente come si crede. « Vita di peccatore, morte da riprovato. » Che vuol insegnarci, F . M., Gesù Cristo, colla parabola delle vergini prudenti e delle vergini stolte, di cui le une furono così bene accolte, perché entrarono collo sposo, e le altre invece trovarono chiusa la porta? Voleva insegnarci quale fosse la condotta della gente del mondo: le vergini prudenti rappresentano i buoni Cristiani che si tengono sempre preparati a comparire dinanzi a Dio, in qualunque momento Egli li chiami; le vergini stolte sono la figura dei cattivi Cristiani, che credono di aver sempre tempo per prepararsi alla morte e convertirsi, uscir dal peccato e fare opere buone. In questo modo passano la vita; la morte arriva, ma essi non hanno fatto che male e nulla di bene. La morte li colpisce, Gesù Cristo li chiama al suo tribunale per domandare ad essi conto della loro vita; vorrebbero, è vero, mettere un po’ di ordine nella loro coscienza, si affannano, tentano di lasciare il peccato, ma sciaguratamente non ne hanno né il tempo, né la volontà, e fors’anche la grazia necessaria. Quando domandano a Dio di aver pietà di loro e di usare misericordia, Dio risponde che non li conosce, e chiude loro la porta, cioè li precipita nell’inferno. Ecco, M. F., la sorte di un gran numero di peccatori che vivono così tranquilli nel peccato. – Ah! povera anima, quanto sei infelice, dovendo abitare in questo corpo che con tanto furore ti trascina all’inferno. Ah! amico mio, perché vuoi perdere questa povera anima? Che male t’ha fatto per condannarla a tanta sciagura? O mio Dio, quanto è mai cieco l’uomo! – F. M., nella condotta di Esaù, noi abbiamo il vero ritratto di un uomo che si perde vendendo la propria felicità per un piatto di lenticchie. Per qualche tempo Esaù visse quasi insensibile alla sua perdita « (Gen. XXV, 34) non pensava che a divertirsi e a darsi ai piaceri, tuttavia giunse il momento in cui si ricordò del fallo commesso e rientrò in sé medesimo; ma più vi pensava e più scopriva la gravità del suo accecamento. Desolatissimo della sua sventura, cerca, se gli è possibile, di rimediarvi, adopera preghiere, lagrime, singhiozzi, per tentar di commuovere il cuore del padre, ma troppo tardi; il padre ha dato ad un altro la sua benedizione, le preghiere di Esaù non sono prese in considerazione e le sue sollecitazioni non trovano ascolto. Può ben affannarsi, conviene che si rassegni a rimanere nella miseria e a morirvi. Ecco precisamente, F. M., ciò che accade ogni giorno al peccatore. Egli vende Dio, l’anima e il posto in cielo per meno di un piatto di lenticchie, cioè per un piacere momentaneo, per un pensiero di odio, di vendetta, per uno sguardo o un atto disonesto sopra se stesso o sopra altri, per un pugno di terra, per un bicchiere di vino. Oh! anima che sei tanto bella, in cambio di quali cose vili sei ceduta! Vediamo poi che questi peccatori vivono durante qualche tempo così tranquilli e così in pace, almeno apparentemente, come se in tutto il corso della loro vita non avessero fatto che opere buone. Gli uni pensano ai loro piaceri, gli altri ai beni di questa terra; ma, simili ad Esaù, viene il momento in cui riconoscono il loro errore e vorrebbero porvi rimedio; ma troppo tardi. Gemono, versano lagrime, scongiurano il Signore di restituire loro i beni che hanno venduto, cioè il cielo; ma il Signore fa con essi quello che fece il padre di Esaù, dice loro che ha dato a un altro il loro posto. Ah! quel povero peccatore ha un bel gridare e domandare misericordia; bisogna che si rassegni a rimanere nella miseria e precipitare nell’inferno. O mio Dio, quanto è disgraziata la morte del peccatore agli occhi del Signore! – Ah! quanti fanno come l’infelice Sisara, che una donna perfida addormentò dandogli da bere un po’ di latte, e mentre dormiva repentinamente lo uccise, senza dargli tempo di piangere il suo accecamento nell’essersi fidato di quella sleale (Jud. IV). Allo stesso modo, quanti peccatori la morte rapisce repentinamente senza dar loro tempo di piangere il proprio accecamento d’essere rimasti nel peccato. Quanti altri fanno come l’empio Antioco, riconoscono i loro delitti, li piangono e supplicano misericordia senza poter nulla ottenere, e chiedendo misericordia precipitano nell’inferno. È questa, F. M., la fine dei peccatori che differiscono la loro conversione. Senza dubbio nessuno di noi, o cari, vorrebbe fare una morte cattiva, e abbiamo ragione, ma ciò che mi angustia è il vedervi vivere nel peccato ed esporvi così audacemente al pericolo di morirvi. Non sono soltanto io che ve lo dico, ma è Gesù Cristo medesimo che ve lo assicura. Non è vero, che voi pensate: lasciamo dire il prete, e tiriamo innanzi per la nostra strada? — Sapete, che cosa vi avverrà, se lasciate dire il prete? — E che volete che ci accada? — Eccovelo: voi sarete dannato. — Spero di no, pensate voi, vi è tempo per tutto. — Miei cari, forse avremo tempo di piangere e di soffrire, ma non lo avremo di convertirci. E per dimostrarvelo voglio narrarvi un terribile esempio. Si racconta nella storia che un uomo di vita allegra, che aveva vissuto per lungo tempo nei disordini, tardi convertitosi, per qualche tempo perseverò; ma poi ricadde, e non pensava più a tornare a Dio. I suoi amici lo pregavano continuamente, ma egli non faceva conto di quanto gli si diceva. In quel tempo fu annunciato che tra breve sarebbesi dato un corso di esercizi spirituali. Si credette quella una circostanza opportuna per indurre quel peccatore a profittare dell’occasione, che Dio gli dava di rientrare nel cammino della salute. Dopo molte preghiere e insistenze fattegli dagli amici, dopo molte resistenze e rifiuti da parte sua, acconsentì e diede parola di partecipare cogli altri agli esercizi. Ma che cosa avvenne, o F. M.? O giudizi di Dio, come siete impenetrabili e terribili! Proprio la mattina, in cui era aspettato e nella quale dovevano cominciarsi gli esercizi, fu annunciato che quell’uomo era stato trovato morto in casa sua; senza che nessuno si accorgesse, senza soccorsi, senza Sacramenti. Comprendete una buona volta, F. M., che cosa sia restarsene nel peccato, colla speranza d’uscirne un giorno? Ah! M. F., noi abusiamo del tempo, mentre l’abbiamo, disprezziamo le grazie mentre il buon Dio ce le offre; ma spesso Iddio ce le toglie, per punirci, quando vorremmo profittarne. Se adesso non pensiamo a far bene, forse, quando vorremo, non lo potremo. Voi pensate, nevvero, che un giorno vi confesserete, abbandonerete il peccato e farete penitenza? — Sì, è ben questa la mia intenzione. — È la intenzione vostra, ma io vi dirò che cosa sarete e che sarà di voi. Al presente voi siete in peccato, questo non me lo negate, nevvero? Ebbene dopo la vostra morte sarete dannato. — Ma, e che ne sapete voi? — Se non lo sapessi non ve lo direi. D’altra parte vi proverò che, vivendo nel peccato, pur conservando la speranza di abbandonarlo, non lo farete mai, quand’anche lo bramaste con tutto l’animo; e comprenderete che cosa sia il non curarci del tempo e delle grazie che Dio ora ci offre. Si racconta nella storia il caso di un forestiere che passando per Donzenac (il forestiere era un lorenese ed esercitava la professione di libraio) si rivolse ad un sacerdote perché ne ascoltasse la confessione; ma il sacerdote, non so perché, vi si rifiutò. Di là andò in una città che si chiama Brives, e presentatosi al procuratore del re gli disse: « Signore, io vi prego di mettermi in carcere, perché mi sono venduto al diavolo qualche tempo fa ed ho sempre sentito dire che egli non ha alcun potere su quelli che sono tra le mani della giustizia. » — « Mio caro, gli rispose il procuratore del re, voi non sapete che cosa sia essere tra le mani della giustizia; se vi si cade una volta, non se ne esce poi, quando si vuole. » — « Non importa, signore, fatemi imprigionare. » — Il procuratore lo credette matto, e pensò che, mettendolo in prigione, si sarebbe attirato gli scherni di tutti; anzi che non valeva la pena di spendere parole con lui. Vide passare per via un sacerdote, che conosceva, lo chiamò e gli disse: « Reverendo, di grazia, abbiate cura dell’anima di quest’uomo. » — E a lui: « Mio caro, andate con questo buon prete e fate tutto quello che vi dirà. „ — Il sacerdote, dopo che gli ebbe parlato, credette anch’egli come il procuratore del re, che avesse la mente sconvolta e lo pregò di rivolgersi altrove, perché egli non poteva addossarsi il peso della sua direzione. Quel disgraziato, non sapendo che cosa fare, andò in due conventi a chiedere un religioso sacerdote, che volesse usargli la carità di ascoltarlo in confessione. Presso di uno gli si disse che i Padri erano già ritirati nelle loro celle, dovendo alzarsi a mezzanotte; quando ebbe bussato alla porta dell’altro ebbe la fortuna di parlare con un padre, ma questi rimandò ogni cosa al giorno dopo. Ma quel povero sventurato si mise a piangere, dicendo: « Se non avete compassione di me, io sono rovinato; mi sono venduto al diavolo, e l’ora mia giunge stanotte. » — « Andate, amico mio, gli rispose il padre, e raccomandatevi alla Ss. Vergine; » gli diede una corona del Rosario e lo licenziò. Mentre passava per la piazza e piangeva per non aver trovato un confessore fra tanti religiosi sacerdoti che erano in quei conventi; vide parecchi abitanti che conversavano insieme, e domandò se alcuno di loro avesse la cortesia di dargli alloggio. Un macellaio gli rispose che volentieri gli usava questa gentilezza. Condottolo a casa sua, quel disgraziato gli narrò come aveva avuto la sventura di vendersi al diavolo, che egli sperava di aver tempo di confessarsi, lasciare il peccato e far penitenza; ma che nessun sacerdote aveva voluto confessarlo. Il macellaio trovò che era cosa ben strana la poca cura di quei preti. —- « Ah! signore, vedo bene che Dio l’ha permesso per punirmi del tempo e delle grazie di cui ho abusato. » — « Mio caro, gli disse il macellaio, ciò non ostante, bisogna pur ricorrere a Dio. » — « Ah! signore, io sono rovinato, questa notte il demonio deve uccidermi, e portar via la mia anima. » — Il macellaio, a quanto pare, non andò a dormire per vedere se quell’uomo aveva perduto il ben dell’intelletto o se pur diceva il vero. Difatti verso mezzanotte udì un orrendo fracasso e grida spaventose, come di due persone di cui l’una strangolasse l’altra. Accorse il macellaio e vide il demonio che trascinava verso il cortile quell’infelice. Egli fuggì e si chiuse in casa. Il giorno dopo, quell’uomo fu trovato appeso come un vitello a un chiodo della beccheria. Il demonio gli aveva strappato un pezzo del mantello e con esso l’aveva strangolato e appeso. Vedete, M. F.. che rimandando la nostra conversione, ci esponiamo al pericolo di non convertirci mai. Non è forse vero che, quando eravate malato avete chiamato un prete per confessarvi? Durante la vostra malattia non avete voi detto che è troppo grande cecità aspettare la morte per amare Dio, e che, se Egli vi restituiva la salute, avreste fatto meglio che per il passato, e che sareste stato più accorto? Ma, cari miei, non siete persuasi che il vostro pentimento non viene da Dio, né dal dolore delle vostre colpe, ma soltanto dal timor dell’inferno? Fate come Antioco, il quale piangeva i castighi, che gli attiravano i suoi peccati; ma il suo cuore non era mutato. Carissimi, Dio vi ha restituito la sanità che avete implorato con tanto ardore, promettendogli che avreste fatto meglio. Ditemi, dopo ricuperata la sanità, avete messo giudizio? Avete offeso meno Iddio? Vi siete corretti di qualche difetto? Andate con maggior frequenza ai Sacramenti? Volete che vi dica ciò che siete diventati? Eccolo: prima della vostra malattia vi confessavate ancora, di tanto in tanto, ma, da quando Dio vi ha restituita la salute, a mala pena fate Pasqua. E quanti fra coloro che mi ascoltano appartengono a questa categoria. Ma non prendetevi troppo fastidio, vedrete che alla prima malattia Dio vi farà uscire da questo mondo, o, per essere più chiaro, vi precipiterà nell’inferno. Ora potete concludere finalmente, io penso, che restando nel peccato, non ostante la speranza di abbandonarlo un giorno, voi vi fate giuoco di Dio. Ma per farvi capire ancor meglio che voi scherzate presumendo che Dio vi perdonerà quando voi gli domanderete il perdono, voglio citarvi un esempio che sopra ogni altro conviene al nostro argomento. – Si racconta di un tale che era grandemente buono. Aveva un servitore che non lasciava mai passare occasione di offendere il suo padrone, e suo maggior diletto era di farlo quando molti erano presenti. Gli rubò parecchie cose di gran valore, gli sedusse una sua figliuola, e alla fine fuggì di casa temendo di essere arrestato. Passato qualche tempo andò a trovare un sacerdote che sapeva molto stimato dal suo padrone. Il sacerdote si assunse l’incarico di pregare il padrone perché volesse perdonare le colpe di quel domestico. Quel signore, pieno di bontà rispose: « Farò come desiderate, ma voglio però che mi dia qualche soddisfazione; altrimenti sarebbe come dar mano libera a tutti gli scellerati. » Il sacerdote, pieno di gioia, va dal domestico e gli dice: « Il vostro padrone ha avuto la carità di perdonarvi; ma vuole, com’è giusto, una piccola soddisfazione. » E il domestico a lui: « E quale soddisfazione vuole, e in che tempo? » Il sacerdote gli soggiunse: « Andate subito in casa sua e prostratevi dinanzi a lui col capo scoperto. » — « Ah! il mio padrone esige tanto onore! per conto mio sono disposto soltanto a domandargli scusa; egli vuole che io faccia questo in casa sua e a capo scoperto, ed io invece voglio farlo nella mia stanza e adagiato sul mio sofà. Egli desidera che io lo faccia subito; la mia intenzione invece è quella di farlo fra dieci anni, quando, forse, sarò vicino a morire. » Che pensate, F. M., e che ne dite di questo domestico? Quale consiglio voi avreste dato a quel signore? Non gli avreste detto: « Il vostro domestico, signore, è uno sciagurato; merita di esser cacciato in fondo a un carcere e di uscirne solo per essere mandato sulla forca. » Ebbene, F . M., vedete voi in questo esempio il vostro modo di comportarvi con Dio? Non è forse vero che adoperate con Lui lo stesso linguaggio quando dite che vi è tempo ancora, che non c’è premura, che non siete ancora morto? Ah! quanti poveri peccatori sono accecati sullo stato dell’anima loro, e sperano di fare ciò, che diventerà loro impossibile, quando crederanno tempo di farlo!… – Ma andiamo innanzi, e vedremo che più voi differite di uscire dal peccato e più vi mettete nell’impossibilità di uscirne. Non è forse vero che qualche tempo fa la divina parola vi toccava il cuore, vi faceva pensare e che parecchie volte avevate risoluto di lasciare il peccato e di darvi a Dio? Non è forse vero che il pensiero del giudizio di Dio e dell’inferno vi ha fatto piangere, e che ora tutto ciò non vi commuove punto, né vi fa fare alcuna riflessione? Perché questo, o F. M.? Ah! perché  il cuore è indurito e Dio vi abbandona; sicché più restate nel peccato e più Dio s’allontana  da voi, e più non sentite il danno della vostra perdizione. Ah! se foste morti alla prima malattia, almeno non dovreste essere così profondamente immersi nell’inferno! — Ma se volessi ora tornare a Dio, Egli mi riceverebbe volentieri ancora! — Su questo proposito non vi dico niente. Se non avete ancora messo il colmo ai peccati, che Dio ha stabilito di perdonarvi; se non avete ancora calpestate le grazie che egli decretava di elargirvi, fatelo pure: ma se la misura dei peccati e delle grazie è piena, tutto è perduto per voi; avrete un bel fare le più belle risoluzioni. D’altra parte, l’insegnamento pratico dovete raccoglierlo dall’esempio che ho narrato poc’anzi. Ah! mio Dio, è possibile pensare a ciò seriamente e non fare quanto è in nostro potere per tentare se Dio voglia ancora avere pietà di noi? — Ma, penserete, forse, in cuor vostro, dobbiamo dunque abbandonarci alla disperazione? — Ah! miei cari, vorrei condurvi a due dita dalla disperazione, perché, colpiti dall’orribile stato in cui siete, usiate dei mezzi che Dio vi offre, anche in questo momento, per uscirne. — Ma, direte forse, quanti si sono convertiti sul letto di morte; il buon ladrone è tornato a Dio proprio qualche ora prima di morire. — Il buon ladrone, anzitutto, F. M., non aveva mai conosciuto Iddio. Appena lo conobbe, si diede a Lui; e poi, esso è l’unico esempio che la S. Scrittura ci fornisce per non farci interamente disperare in quel momento. — Ma vi sono pure molti altri che si sono convertiti, quantunque avessero vissuto a lungo nel peccato. — Badate bene, credo che vi inganniate: dovete dire che molti si sono pentiti, ma quanto all’essersi convertiti è un’altra cosa. Questo precisamente farete anche voi; e l’avete già fatto nelle vostre malattie; voi avete fatto chiamare un prete, perché eravate impressionati di sentirvi male. Ebbene, non ostante il vostro pentimento, vi siete convertiti? Tutt’altro, siete divenuti più ostinati. Ah! M. F., tutti questi pentimenti valgono ben poca cosa. Saul s’è pur pentito, poiché ha pianto i suoi peccati (I Reg. XV, 24-30); tuttavia è dannato; Caino s’è pentito, poiché, dopo avere ucciso suo fratello (La Genesi nulla dice circa il pentimento di Caino; al contrario riferisce queste sue parole di disperazione: « La mia iniquità è troppo grande per meritare d’essere perdonata. » Gen. IV, 13), ha levato al cielo grida strazianti; eppure è all’inferno. Giuda si è pentito anch’egli, poiché andò a restituire il prezzo del tradimento; ma poi si è impiccato (S. Matt. XXVII,3). Se ora mi chiedete dove tutti questi pentimenti hanno condotto quei peccatori, vi risponderò: all’inferno. Verrò sempre alla mia conclusione che se vivete nel peccato, morirete nel peccato e sarete dannati; ma spero di no, voi non arriverete fino a questo punto. – In terzo luogo, proseguendo, vi dimostrerò che voi non avete nulla, nel vostro modo di vivere, che vi dia qualche sicurezza; al contrario tutto deve spaventarvi, come vedrete.

1° Sapete che da voi stessi non potete uscire dal peccato, siete perfettamente convinti che è necessario l’aiuto della grazia di Dio, poiché S. Paolo ci insegna che « senza la grazia di Dio non siamo neppur capaci di fare un sol pensiero (II Cor. III, 5). » Sapete altresì che il perdono potete ottenerlo soltanto da Dio. Approfondite bene, o M. F., queste due riflessioni e vedrete che siete ciechi, o, per parlare più francamente, che siete perduti se non uscite prontamente dal vostro peccato. Ma, ditemi, forse conculcando le grazie di Dio potete sperare d’aver maggior forza per rompere le catene delle cattive abitudini? O non è vero invece il contrario? Più andate innanzi e più meritate che Dio si ritiri da voi e vi abbandoni. Da ciò io concludo che, più voi tardate a ritornare a Dio e più vi mettete in pericolo di non convertirvi mai. Ho detto che da Dio soltanto possiamo ottenere il perdono. Ebbene, ditemi, forse moltiplicando i vostri peccati sperate che Dio debba più facilmente perdonarvi? Lasciate che ve lo dica, voi siete cieco; vivete in peccato per poi morirvi ed essere dannato. Ecco, dove vi condurrà la vostra maniera di pregare e di vivere: « Vita di peccatore, morte da riprovato. » Ma per meglio farvelo intendere, portiamoci col pensiero a quel momento, che è l’ultimo della vita.

II. — So benissimo che voi avete risoluto di fare una buona morte, convertirvi e abbandonare il peccato. Accostiamoci dunque al letto di un moribondo: vi troveremo steso un uomo, che in tutta la sua vita ha fatto quello che fate voi: ha vissuto nel peccato, ma sempre colla speranza di staccarsene prima di morire. Esaminatelo bene, osservate attentamente il suo pentimento, la sua conversione, la sua morte. Poi pensate quel che siete adesso e vedrete ciò che sarete un giorno. Non allontaniamoci, F. M., dal letto di questo moribondo finché non sia fissata per sempre la sua sorte. Anch’egli s’è ripromesso sempre pur vivendo nel peccato e nei piaceri, di fare una buona morte, di riparare a tutto il male che aveva fatto durante tutta la sua vita. Imprimetevelo bene nel cuore, per non dimenticarlo mai, e aver continuamente dinanzi agli occhi quale sarà la vostra sorte. – Vi dirò anzitutto che durante tutta la sua vita fu trattenuto da ostacoli, che gli parevano insormontabili. Primo fra tutti, pensare di non poter lasciare le abitudini cattive; in secondo luogo, credere di non avere forza o grazia sufficiente. Egli capiva benissimo, quantunque si trovasse in peccato, quanto costi e come sia difficile fare una buona confessione e rimediare ad una vita che fu tutta una catena di colpe orrende. Ma il tempo prosegue rapido il suo corso, esso ormai stringe; bisogna cominciare a fare ciò che non si volle far mai, scendere in quel cuore che è un abisso di vergogne, simile ad un cespuglio irto di spine così orribili che non si sa da qual parte pigliarlo e si finisce col lasciarlo stare. Di quando in quando perde la conoscenza, pure non vuol morire in quello stato, vuol convertirsi, cioè lasciare il peccato prima di morire. So bene che morrà, ma quanto al convertirsi non gli credo affatto: bisognerebbe che facesse ora quello che doveva fare quando era sano. Nell’impossibilità di farlo, colle lagrime agli occhi, fa le stesse promesse che fece ogni volta che si vide vicino a morire; ma Dio non ascolterà più queste menzogne e queste falsità. Bisognerebbe perciò distruggere il peccato, il quale ha approfondito talmente le sue radici che egli non ha più la forza di svellerlo; avrebbe bisogno di una grazia straordinaria, ma Dio, in pena del disprezzo in cui tenne quelle che gli aveva largito durante la sua vita, gliela nega, e gli volge le spalle per non vederlo, si tura le orecchie per non lasciarsi commuovere dalle sue grida e dai suoi singhiozzi. Deve morire, e la conversione diventa sempre più impossibile; perde la conoscenza, delira, risponde una cosa per l’altra. Il sacerdote si lamenta; bisognava chiamarlo un giorno prima; quel malato non ha cognizione abbastanza e non può confessarsi. Reverendo vi ingannate, egli ha tutta la cognizione che deve avere prima di morire; se foste venuto ieri per confessarlo Dio gli avrebbe tolto egualmente la conoscenza; è rimasto nel peccato calpestando il tempo e le grazie che Dio gli aveva date e, come vuole la divina giustizia, deve morire nel peccato. Abbiate un po’ di pazienza e non tarderete a vederlo trascinato nell’inferno dai demoni, ai quali durante la sua vita ha così bene obbedito; non torcete lo sguardo da lui e lo vedrete esalare all’inferno l’anima sua dannata. Ma prima di questo terribile momento consideriamo, o M. F., il suo agitarsi, domandategli se vuole confessarsi, se è dolente di aver offeso Iddio, e vi farà segno di sì; vorrebbe confessarsi, ma non lo può. Bisogna morire; e niente conversione, niente conoscenza! Accostatevi, vedete quel vecchio peccatore indurito, che ha disprezzato ogni cosa, che si è beffato di tutto, e credeva che dopo morto tutto fosse finito per lui. Vedete quel giovane libertino, che quindici giorni or sono faceva risonare le osterie delle più infami canzonacce; vedete quella giovane mondana portata sulle ali della vanità, che credeva di non mai arrestarsi, e morire. O mio Dio, bisogna morire! Quale mutazione! bisogna morire e andare dannata. Vedete quegli occhi invetrati, che annunciano vicinissima la morte: il morente vede tutti in gran faccende, che lo osservano e piangono. Mi conoscete? gli chiedono. A mala pena apre gli occhi spaventati, che mettono terrore a tutti quelli che lo circondano, e lo guardano tremanti, a capo chino. Uscite di là, lasciatelo morire come è vissuto. No, m’inganno, venite, F. M., che da tanti anni rimandate ad altro tempo la vostra conversione. Vedete le sue labbra fredde e tremanti che non possono più muoversi e gli annunziano che deve morire e andare dannato. Amico mio, lasciate un momento quell’osteria, venite e osservate quelle guance pallide e livide, quei capelli bagnati dal sudore della morte. Osservate i capelli che gli si drizzano sul capo. Pare che provi già gli orrori della morte. Ah! per lui tutto è finito, bisogna morire e andar dannato. Venite, sorella mia, lasciate per un momento quel suonatore e quel ballo; venite e vedrete che cosa sarete un giorno. – Vedete quei demoni che lo circondano e lo gettano nella disperazione? Vedete quelle orribili convulsioni? No, M. F., non vi è più speranza. Quell’anima deve uscire dal proprio corpo; o mio Dio, dove andrà? Ah! sua dimora sarà l’inferno! No, no, M. F., un momento; gli restano ancora alcuni minuti di vita per abbracciare con uno sguardo tutta la sua sciagura. Vedete s’avvicina la sua fine… gli astanti e il sacerdote si mettono in ginocchio per tentare se Dio vuol avere pietà di quella povera anima. « Anima cristiana, gli dice il sacerdote, parti da questo mondo. » E dove volete che vada, poiché ha vissuto solo pel mondo, ed ha pensato soltanto al mondo? E poi, a giudicare dal modo con cui è vissuta, credeva di non doverne uscire mai. Voi le augurate il cielo, ma essa neppure lo conosce. Vi sbagliate, ditele piuttosto: « Uscite da questo mondo, anima colpevole, e andate a bruciare fra i tormenti; poiché per questo solo avete lavorato durante tutta la vita. » — « Anima cristiana, le dice il sacerdote, andate a riposarvi nella celeste Gerusalemme. » E che? voi mandate in quella bella città un’anima coperta di peccati, il cui numero è maggiore di quello delle ore di sua vita? un’anima la cui vita fu una catena di impurità, volete collocarla in compagnia degli Angeli, in compagnia di Gesù Cristo che è la purezza in persona? Quale orrore, quale abbominazione! Mandatela all’inferno, poiché quello è il luogo che le è fissato. « Mio Dio – continua il sacerdote – Creatore di tutte le cose, riconoscete quest’anima che è opera delle vostre mani. » E che, voi osate presentare a Dio come opera sua, un’anima che è un cumulo d’iniquità, un’anima che è tutta putridume? cessate, di rivolgervi al cielo, volgete gli sguardi all’abisso, e vedete i demoni che anelano di averla in lor possesso: gettate loro quest’anima dannata, poiché essa non ha lavorato che per loro. « Mio Dio, forse aggiungerà ancora il sacerdote, accogliete quest’anima, che vi ama come Creatore e Salvatore. » Essa ama Iddio? E dove ne sono i segni? Dove sono le sue preghiere ben fatte, le sue buone confessioni, le sue fervorose comunioni? O meglio diciamo dove sono le sue Pasque? Tacete, udite il demonio, il quale grida che quell’anima gli appartiene, che s’è data a lui da lungo tempo. Hanno fatto il cambio: egli le ha dato denaro, modo di vendicarsi, le ha procurato occasioni di soddisfare i suoi infami desideri; no, no, non gli parlate più del cielo. Del resto essa non vuol saperne; preferisce andar a bruciare negli abissi e coperta d’iniquità, che di andare in cielo, alla presenza di un Dio sì puro. Fermiamoci ora un momento prima che il demonio si impadronisca di questo riprovato. Egli ha conoscenza sol quanto gli basta per scorgere gli orrori del passato, del presente e dell’avvenire, che sono altrettanti torrenti dell’ira di Dio, che gli si rovesciano sopra per compire la sua disperazione. Dio permette che a quell’infelice, il quale tutto ha disprezzato, si affaccino in quell’istante al pensiero tutti i mezzi che Egli gli offriva per salvarsi l’anima: vede che aveva bisogno di tutto quello che Dio gli aveva messo innanzi, e che non gli ha giovato a nulla. Dio permette che in quel momento egli ricordi, ad uno ad uno, tutti i buoni pensieri che durante la vita gli ha mandato; e comprende quanto grande fu la sua cecità di non salvarsi. O mio Dio, quale disperazione in quel momento vedendo che poteva così facilmente salvarsi, e invece s’è dannato. Poi il presente e l’avvenire completeranno la sua disperazione. Egli è ben persuaso che fra pochi minuti sarà all’inferno, per non uscirne mai più… Il sacerdote vedendo che per la confessione non v’è più nulla a fare, gli presenta il crocifisso per eccitarlo a dolore e a confidenza, dicendogli: « Amico mio, ecco il vostro Dio, morto per redimervi; abbiate fiducia nella sua misericordia che è infinita. » — Ma non vedete che voi non fate che accrescere la sua disperazione? Vi pare?… Un Dio coronato di spine fra le mani di una creatura leggera e mondana, che durante tutta la sua vita non ha cercato che di abbigliarsi e di piacere al mondo? Un Dio spoglio di tutto, perfino degli abiti, fra le mani di un avaro? quale orrore!… Un Dio coperto di piaghe fra le mani di un impudico? Un Dio che muore per i suoi nemici fra le mani di un vendicativo? Ma si può mai pensare a una cosa simile e non morirne di orrore? Oh! no, no, non gli presentate più questo Dio inchiodato su di una croce, tutto è finito per lui, la sua dannazione è sicura. Ah! morire e andar dannato, dopo aver avuto tanti mezzi per salvarsi! O mio Dio, quale rabbia, durante tutta l’eternità, per questo cristiano! F. M., ascoltatelo dare il suo triste addio. Quel povero disgraziato vede i suoi parenti e amici staccarsi da lui, lasciarlo e dire piangendo: « È fatta: muore. » Invano egli si sforza di prendere da loro congedo: « Addio, papà, mamma,… figli miei, addio!… Ahimè! non ha ancora esalato l’estremo respiro e già si vede separato da tutti, nessuno l’ascolta più… Ahimè! muoio e sono dannato Ah! siate più assennati di me! Dovevate, gli si dice, far bene durante la vostra vita ! — Oh ! triste consolazione. Ma non sono questi addii che lo amareggiano maggiormente; sapeva bene che un giorno abbandonerebbe tutto questo. E, prima di precipitare nell’inferno alza gli occhi moribondi al cielo, che non sarà suo per sempre, e dice: Addio, bel paradiso, lieta dimora che ho perduto per sì poca cosa; addio, bella compagnia degli Angeli; addio, mio buon Angelo custode che Dio m’aveva dato perché m’aiutasse a salvarmi; malgrado le vostre cure io mi sono dannato; addio, Vergine santa, mia tenera madre, se avessi voluto implorare il vostro soccorso, mi avreste ottenuto il perdono! Addio, Gesù, Figliuolo di Dio, voi avete patito tanto per salvarmi, ed io mi sono perduto, pur essendo nato in una religione così consolante e così facile a osservarsi; addio, mio pastore, vi ho recato tanti dispiaceri disprezzando voi e tutto ciò che il vostro zelo vi suggeriva per farmi intendere che vivendo come vivevo non potevo salvarmi, addio, addio per sempre… Ah! quelli che sono sulla terra possono almeno sfuggire la disgrazia che è toccata a me; ma per me tutto è finito: non più Dio, non più cielo, non più felicità! Piangerò sempre, sempre starò nei tormenti, senza speranza che venga la fine! … O mio Dio, quanto è terribile la vostra giustizia. O eternità quante lacrime fai versare, quante grida strappi… a me che ho vissuto sperando sempre di lasciare un giorno il peccato e convertirmi. Ma la morte mi ha sorpreso e non ho avuto il tempo! O fratel mio, dice S. Girolamo, vorrai tu rimanere nel peccato, ora che temi di morirvi? Un giorno, ci narra questo gran santo, chiamato per andar a visitare un povero moribondo, vedendolo tutto angustiato, gli domanda che cosa lo conturbasse tanto:  Ah! Padre mio, sono dannato. » E così dicendo esalò l’ultimo respiro. Quale terribile sorte è quella di un peccatore che visse nel peccato! Quanti il demonio ne ha trascinati all’inferno colla lusinga che un giorno si sarebbero convertiti! F. M., quale risoluzione prenderete dunque, voi, che non fate né preghiere, né confessioni, e non avete neppure il pensiero di convertirvi? Ma è possibile restare in uno stato, che ad ogni momento ci mette al pericolo di cadere nell’inferno?… O mio Dio, dateci la fede che ci faccia conoscere, quale grave sventura sia il dannarsi e ci renda impossibile rimanercene nel peccato. – Questa è la felicità che v’auguro.

CREDO …

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra.

[Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine.

[Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA