I SERMONI DEL CURATO D’ARS: LA PAROLA DI DIO

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

[Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, ed. Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

La parola di Dio.

Beati qui audiunt verbum Dei, et custodiunt illud.

(Luc. XI, 28).

Noi leggiamo nel Vangelo che il Salvatore del mondo istruiva il popolo, diceva loro cose così meravigliose e così stupefacenti, che una donna dal mezzo della folla alzò la voce e gridò: “Beato è il seno che ti ha portato e il latte che ti ha nutrito. „ Ma Gesù Cristo tosto soggiunse: ” Più avventurato è colui che ascolta la parola di Dio e che osserva quello che essa comanda. „ Ciò forse desta la vostra meraviglia, che Gesù Cristo ci dica che colui che ascolta la parola di Dio con un vero desiderio di approfittarne è più accettevole a Dio che colui che lo riceve nella santa comunione; sì, certo noi non abbiamo mai ben compreso quanto la parola di Dio sia un dono prezioso. Ah! se noi l’avessimo ben compreso con quale rispetto, con quale amore dovremmo ascoltarla! M. F., non inganniamoci: necessariamente la parola di Dio produrrà in noi frutti buoni o cattivi; saranno buoni, se vi recheremo delle buone disposizioni, con altre parole, un vero desiderio di approfittarne e di fare tutto quello che essa prescriverà; saranno cattivi, se noi la ascolteremo con indifferenza, con disgusto, forse con disprezzo; o questa parola santa ci illuminerà, ci farà conoscere i nostri doveri, o ci accecherà e produrrà il nostro induramento. Ma per meglio farvelo comprendere, tolgo a dimostrarvi:

1° quanto sono grandi i vantaggi che ci provengono dalla parola di Dio;

2° in qual modo i Cristiani hanno l’abitudine di riceverla;

3° le disposizioni che dobbiamo recare per avere la ventura di approfittarne.

I . — Per farvi comprendere quanto è grande il prezzo della parola di Dio, io vi dirò che tutto lo stabilimento e i progressi della Religione cattolica sono l’opera della parola di Dio associata alla grazia che sempre l’accompagna. Sì, M. F., noi possiamo ancora dire che dopo la morte di Gesù Cristo sul Calvario, e il santo Battesimo, non occorre grazia che noi riceviamo nella nostra santa Religione che le stia alla pari; ciò che è facile a comprendere. Quante persone che sono state assunte in cielo senza aver ricevuto il sacramento della Penitenza! Quante altre senza aver ricevuto quello del Corpo adorabile e del Sangue prezioso di Gesù Cristo! E quante altre che sono in cielo, che non hanno ricevuto quello della Confermazione né quello dell’Estrema Unzione! Ma per l’istruzione che è la parola di Dio, dal momento che abbiamo l’età capace di farci istruire è tanto difficile andare in cielo senza essere istruiti, come senza essere battezzati. – Ah! M. F., noi vedremo sventuratamente al giorno del giudizio che il più gran numero dei Cristiani dannati, lo saranno perché non hanno conosciuto la loro religione. Andate, interrogate tutti i Cristiani riprovati, e domandate loro perché sono nell’inferno. Tutti vi risponderanno che la loro sventura proviene perché non hanno voluto ascoltare la parola di Dio o perché l’hanno disprezzata. — Ma, forse mi direte voi, che cosa opera in noi questa santa parola? — Ecco: essa è somiglievole a quella colonna di fuoco la quale conduceva i Giudei quando erano al deserto, che additava loro la via che dovevano battere, che si fermava quando il popolo doveva fermarsi e proseguiva il suo viaggio, quando si doveva andare innanzi; di guisa che questo popolo non aveva che a restar fedele nel seguirla ed era sicuro di non smarrire la via. (Exod. XIII, 21, 22; XL, 84, 35). Sì, M. F., essa opera la stessa cosa a nostro riguardo: essa è una face che brilla dinanzi a noi, che ci conduce in tutti i nostri pensieri, nei nostri disegni, nelle azioni nostre (lucerna pedibus meis verbum tuum. Ps. CXVIII, 105); è lei che accende la nostra fede, che fortifica la nostra speranza, che fa divampare l’amor nostro per Dio e per il prossimo; è lei che ci fa comprendere la grandezza di Dio, il fine beato per il quale siamo creati, la bontà di Dio, l’amor suo per noi, il prezzo dell’anima nostra, la grandezza e la ricompensa che ci è promessa; sì, è lei che ci dipinge la gravezza del peccato, gli oltraggi che reca a Dio, i mali che ci prepara per l’altra vita; è lei che ci incute spavento alla vista del giudizio che è riservato ai peccatori, colla dipintura spaventevole che ella ce ne fa; sì, M. F., è questa parola che ci muove a credere senza nulla esaminare tutte le verità della nostra santa Religione nella quale tutto è mistero, e ciò risvegliando la nostra fede. Ditemi, non è dopo una istruzione che si sente il cuore commosso e pieno di buone risoluzioni? Ah! colui che disprezza la parola di Dio è ben da compiangere, poiché rigetta e disprezza tutti i mezzi di salute che il buon Dio ci presenta per salvarci. Ditemi, di che cosa si sono serviti i patriarchi e i profeti. Gesù Cristo medesimo e tutti gli Apostoli, come tutti coloro che li hanno secondati, per stabilire ed aumentare la nostra santa Religione, non è della parola di Dio? Vedete Giona, quando il Signore lo mandò a Ninive; che fece egli? Null’altro che annunciarle la parola di Dio, dicendole che fra 40 giorni tutti i suoi abitanti perirebbero. Non è questa parola santa che cangiò i cuori degli uomini di quella grande città, che, di grandi peccatori ne fece grandi penitenti (Gion. III, 4)? Che fece S. Gio. Battista per cominciare a far conoscere il Messia, il Salvatore del mondo? Non lo fece annunciando loro la parola di Dio? Che fece Gesù Cristo medesimo percorrendo le città e le campagne, continuamente circondato dalle turbe di popolo che lo seguivano fino nel deserto? Di qual mezzo si serviva per insegnare la religione che voleva stabilire, se non di questa santa parola? Ditemi, M. F., chi ha mosso tutti quei grandi del mondo ad abbandonare i loro beni, i loro parenti e tutti i loro agi? Non è ascoltando la parola di Dio che hanno aperto gli occhi dell’anima e compreso la poca durata e la caducità delle cose create, che si sono volti a cercare i beni eterni? Un S. Antonio, un S. Francesco, un S. Ignazio… Ditemi chi può muovere i figli ad avere un grande rispetto verso il loro padre e la loro madre, facendoli loro considerare come quelli che occupano il posto di Dio medesimo? Non sono le istruzioni che hanno ricevuto nei catechismi, tenuti dal loro pastore, facendo loro vedere la grandezza della ricompensa che è annessa ad un figlio savio e obbediente? E quali sono i figli che disprezzano i loro genitori? Ah! quanti poveri figli ignoranti, e che dall’ignoranza sono condotti nell’impurità e nel libertinaggio, e che spesse volte finiscono col far morire i loro poveri genitori o di crepacuore o in qualche altro modo più miserando! Chi può muovere un vicino ad avere una grande carità verso il suo vicino, se non una istruzione che avrà ascoltata, nella quale gli sarà stato addimostrato quanto la carità è un’opera aggradevole a Dio? Chi ha mossi tanti peccatori ad uscire dal peccato? Non fu qualche istruzione che hanno udita, nella quale si è loro dipinto lo stato infelice di un peccatore il quale cade nelle mani d’un Dio vendicatore? Se voi ne bramate la prova, ascoltate un istante e ne sarete convinti. È raccontato nella storia che un vecchio ufficiale di cavalleria passava, in uno dei suoi viaggi, per un luogo dove il padre Bridaine dava una missione. Curioso di udire un uomo d’una grande riputazione e che egli non conosceva, egli entra in una chiesa dove il padre Bridaine faceva la descrizione spaventosa dello stato infelice di un’anima nel peccato, l’accecamento nel quale era il peccatore di perseverarvi, il mezzo facile che il peccatore aveva di uscirne con una buona confessione generale. Il militare ne fu siffattamente commosso, i suoi rimorsi di coscienza furono cosi forti, o piuttosto gli diventarono sì insopportabili, che nell’istante medesimo formò il proposito di confessarsi e di fare una confessione di tutta la sua vita. Egli aspetta il missionario al piede della cattedra pregandolo per grazia di fargli fare una confessione di tutta la sua vita. Il padre Bridaine lo ricevette con una grande carità: “Mio Padre, gli disse il militare, io resterò finché voi vorrete; io ho concepito un gran desiderio di salvare l’anima mia. „ Egli fece la sua confessione con tutti i sentimenti di pietà e di dolore che si poteva aspettare da un peccatore che si converte; egli medesimo diceva che ogni volta che accusava un peccato, gli pareva di togliersi un peso enorme dalla propria coscienza. Quando ebbe finito la sua confessione, egli si ritirò dietro il Padre Bridaine, piangendo a calde lagrime. La gente meravigliata di vedere questo militare piangere dirottamente, gli domandavano qual era la causa del suo rammarico e delle sue lagrime: “Ah! amici miei, quanto è dolce il versare lagrime d’amore e di riconoscenza, io, che sono vissuto per sì lungo lasso di tempo nell’odio del mio Dio! „ Ah! quanto l’uomo è cieco di non amare il buon Dio e di vivere da suo nemico, mentre che è cosa così dolce l’amarlo! Questo militare si reca a trovare il Padre Bridaine che era nella sagrestia, e qui, alla presenza di tutti gli altri missionari, volle metterli a parte dei suoi sentimenti: “Signori, disse loro, ascoltatemi, e voi, Padre Bridaine, richiamatevelo alla memoria; io non credo in tutta la mia vita di aver gustato un piacere così puro e così dolce, come quello che io gusto dacché ho la sorte di essere in istato di grazia; no, io non credo che Luigi XV che ho servito per 36 anni, possa essere così felice come io lo sono; no, io non credo che, nonostante tutti i piaceri che lo attorniano e tutto lo splendore che lo circonda egli sia contento come io lo sono in questo momento. Dopoché io ho deposto l’orribile peso dei miei peccati, nel mio dolore e nel disegno di fare penitenza, io non cangerei ora la mia sorte per tutti i piaceri e per tutte le ricchezze del mondo. „ A queste parole egli si getta ai piedi del Padre Bridaine, gli stringe la mano: ” Ah! mio Padre, quali azioni di grazie potrò io rendere al buon Dio per tutta la mia vita, di avermi condotto come per mano in questo paese! Ah! mio Padre, io non pensava di fare quello che voi avete avuto la carità di farmi fare. No, mio Padre, mai potrò dimenticarvi; di grazia, io vi prego di domandare al buon Dio per me che tutta la mia vita non sia più che una vita di lagrime e di penitenza.„ Il Padre Bridaine e tutti gli altri missionari che erano testimoni di questa avventura, proruppero in lagrime, dicendo: “Oh! che il buon Dio ha delle grazie per coloro che hanno un cuore docile alla sua voce! Oh! quante anime si dannano e che, se avessero avuto la sorte di essere istruite, sarebbero salve! „ Il che faceva che il Padre Bridaine domandava al buon Dio, prima dei suoi discorsi, che accendesse siffattamente il suo cuore che le sue parole fossero simili al fuoco divoratore che fa divampare d’amore i cuori dei peccatori più indurati e più ribelli alla grazia. Or qual fu la causa della conversione di questo soldato? Null’altro che la parola di Dio che ascoltò e che trovò il suo cuore docile alla voce della grazia. Ah! quanti Cristiani si convertirebbero se avessero la sorte di recare delle buone disposizioni ad ascoltare la parola di Dio! Quanti buoni pensieri e buoni desideri ella farebbe nascere nel loro cuore, quante buone opere farebbe loro compiere per il cielo! – Prima di procedere innanzi, è necessario che io vi rechi un fatto accaduto al medesimo Padre Bridaine, mentre faceva una missione ad Aix in Provenza; fatto che ha qualche cosa di singolare. Il missionario si metteva a sedere a mensa con un confratello, quando un ufficiale batté fortemente alla porta dove si trovavano i missionari: tutto ansante, domanda con un viso alterato il capo della compagnia. Il Padre Bridaine essendosi accostato: “Padre Bridaine, „ gli dice all’orecchio l’ufficiale con una certa emozione e con un tono severo che dimostrava come la sua anima fosse agitata. Il missionario essendo entrato con lui, l’ufficiale chiude la porta, si leva gli stivali, getta lontano il cappello, e sfodera la sua spada. “Io vi confesso, diceva poscia il Padre Bridaine ai suoi compagni, ciò mi incusse spavento: il suo silenzio, il suo occhio truce, la sua stretta di mano, la sua precipitazione e il suo turbamento, mi fecero giudicare che fosse un uomo al quale avessi strappato l’oggetto della sua passione, e che per vendicarsene venisse sicuramente per togliermi la vita; ma fui ben presto tolto d’inganno vedendo questo militare gettarsi ai miei ginocchi colla faccia rivolta a terra, pronunciando con sicurezza queste parole: “Non è questione di lasciarmi, mio Padre, né di differire più oltre, voi vedete ai vostri piedi il più grande peccatore che la terra abbia potuto portare dal principio del mondo; io sono un mostro. Io vengo di lontano per confessarmi a voi e adesso; senza di che io non so più che cosa divento.„ Il Padre Bridaine gli disse con bontà: “Amico mio, un istante, io tosto ritorno. „ — “Mio Padre, gli risponde il soldato piangendo a calde lagrime, rispondete voi dell’anima mia durante questo indugio? Sappiate, Padre mio, che ho percorso in posta 27 leghe; volge molto tempo che io non vivo e che il cuore mi scoppia; io non posso più resistere; la mia vita e l’inferno sembrano non essere che una medesima cosa; il mio tormento dura da quando vi ho udito predicare in un tal luogo, dove avete così egregiamente dipinto lo stato dell’anima mia, che mi è stato impossibile di non credere che il buon Dio non vi abbia fatto tenere quella istruzione che per me solo; tuttavolta quando entrai in questa chiesa nella quale voi predicavate, non era per curiosità, fu appunto qui che il buon Dio mi aspettava. Quanto sono felice, Padre mio, di potermi liberare da questi rimorsi di coscienza che mi straziano! Prendete il tempo che sarà necessario per ascoltare la mia confessione, io resterò qui quanto bramate; ma è necessario che voi mi solleviate all’istante, perché la mia coscienza è un carnefice che non mi lascia alcun riposo né il giorno né la notte; in una parola, Padre mio, io voglio veramente convertirmi; lo comprendete, Padre mio? Voi non uscirete di qui che non abbiate sollevato il mio cuore. Se voi volete negarmi ciò, io credo che morrò ai vostri piedi di crepacuore. „ – “Ma egli disse ciò, soggiunge il Padre Bridaine, versando copiose lagrime. Io fui così tocco da una scena tanto commovente, che lo abbraccio, lo benedico, mescolo le mie lagrime alle sue; non pensai più di recarmi a mangiare; lo incoraggiai, per quanto mi fu possibile, di tutto sperare nella grazia del buon Dio il quale si era già dimostrato verso di lui in un modo affatto particolare; io restai quattro ore di seguito per ascoltare la sua confessione; sembrava bagnarmi delle sue lagrime, ciò che mi moveva a contenere le mie; io non lo lasciai che per recarmi ad annunciare la parola di Dio. „ – Questo generoso militare rimase alcun tempo presso il Padre Bridaine, per ricevere gli avvisi che gli erano necessari per avere la sorte di perseverare. Prima di congedarsi dal Padre Bridaine, lo pregò di perdonargli lo sgomento che gli aveva cagionato: ” Tuttavolta, mio Padre, gli disse il militare, il vostro era nulla in confronto del mio. Io tremava tutti i giorni che la morte mi togliesse nello stato nel quale mi trovava, parevami che la terra stesse per aprirsi sotto i miei piedi per inghiottirmi vivo nell’inferno. Pensate, Padre mio, che quando si hanno nemici tali che vi assediano e che vi si riflette seriamente, non si può restar tranquillo, quand’anche si avesse un cuore di bronzo. Ora, Padre mio, io vorrei morire, tanta è la gioia che provo d’essere in pace col buon Dio. „ Egli non poteva più lasciare il Padre Bridaine, gli baciò le mani, l’abbracciò. Il Padre Bridaine vedendo un tal miracolo della grazia, non poté dalla sua parte trattenere le sue lagrime: gli ultimi addii facevano versar lagrime a tutti coloro che ne furono testimoni. “Addio, mio Padre, disse il militare al Padre Bridaine, dopo il buon Dio, a voi io sono tenuto del cielo. „ Ritornato nel suo paese non poteva contenersi di parlare quanto il buon Dio fosse stato buono verso di lui; chiuse la sua vita nelle lagrime e nella penitenza e morì da santo sei mesi dopo la sua conversione. – Ora, qual fu la causa della conversione dì questo soldato? Ah! ciò che voi udite tutte le domeniche nelle istruzioni, è ciò che udì quegli dalla bocca del Padre Bridaine, dove certamente presentava lo stato deplorevole d’un peccatore che compare davanti al tribunale di Gesù Cristo colla coscienza carica di peccati. Ah! mio Dio, quante volte il vostro pastore non vi ha fatto questo ritratto desolante? Chi ne è stato più commosso di voi medesimi? E perché dunque ciò non vi ha scossi e convertiti? Forse che la parola di Dio non ha più lo stesso potere? No, M. F., questa non è la vera causa per cui siete restati nel peccato. Forse, perché questa santa parola vi è annunciata da un peccatore, che non vi ha commossi? No, no, non è questa ancora la vera ragione; ma eccola: gli è perché i vostri cuori sono indurati, e volge lungo tempo che voi abusate delle grazie che il buon Dio vi concede colla sua santa parola; è perché il peccato vi ha strappato gli occhi della povera vostra anima, ed ha finito di farvi perdere di vista i beni ed i mali dell’altra vita. O mio Dio! quale sventura per un Cristiano d’essere cacciato dal cielo per tutta l’eternità ed essere insensibile a questa perdita! O mio Dio! Quale frenesia d’essere precipitati nelle fiamme dell’inferno e restare tranquilli in uno stato che fa fremere gli angeli e i santi! O mio Dio! a qual grado di sciagura è condotto colui al quale la parola di Dio … ! Avvegnaché la parola di Dio più non commuove, tutto è perduto, non occorre più alcun altro spediente se non in un grande miracolo, ciò che accade ben rare volte. O mio Dio! essere insensibili a tante sventure, chi potrà mai comprenderlo? Tuttavolta, senza essere più prolissi, ecco lo stato di quasi tutti coloro che mi ascoltano. Voi sapete che il peccato regna nei vostri cuori; voi sapete che fino a che il peccato vi regna, voi non avete nessun’altra cosa da aspettarvi se non tutte queste sventure. O mio Dio! questo solo pensiero non dovrebbe farci morire di spavento? Ah! il buon Dio vedeva anticipatamente quanto sarebbero pochi coloro che approfitterebbero di questa parola di vita, quando ci propone nel Vangelo questa parabola: “Un seminatore esce di gran mattino per seminare il suo grano, e quando lo seminava, una parte cadde sulla via e fu calpestata dai viandanti e mangiata dagli uccelli del cielo; una parte cadde sulle pietre e tosto disseccò; un’altra cadde fra le spine, che la soffocarono; e finalmente un’altra cadde nel buon terreno, e rese il centuplo di frutto. „ Voi vedete che Gesù Cristo dimostra che, di tutte le persone che ascoltano la parola di Dio, solo un quarto ne trae profitto; ancora troppo avventurati se di tutte quattro le persone ne occorresse una che ne approfittasse. Quanto il numero dei buoni Cristiani sarebbe più grande che non è! Gli apostoli, meravigliati di questa parabola, gli dissero: “Spiegateci quello che significa.„ Gesù disse loro colla sua ordinaria bontà: – Il cuore dell’ uomo è somiglievole ad una terra che recherà frutto secondo che sarà bene o mal coltivata; questa semente, disse loro Gesù Cristo, è la parola di Dio: quella che cade lungo la via, sono coloro che ascoltano la parola di Dio, ma che non vogliono cangiar vita, né imporsi i sacrifici che Dio vuole da essi per renderli buoni e aggradevoli a lui. Gli uni sono coloro che non vogliono abbandonare le cattive compagnie o i luoghi nei quali hanno tante volte offeso il buon Dio; sono ancora coloro che sono trattenuti da un falso rispetto umano, il quale li fa abbandonare tutte le buone risoluzioni che avevano formate ascoltando la parola di Dio. Quella che cade nelle spine, sono coloro che ascoltano la parola di Dio con gioia; ma non fa loro praticare alcuna buona opera: essi amano di ascoltarla, ma non di fare quello che comanda. Per quella che cade sulla pietra, sono coloro che hanno un cuore indurato ed ostinato, coloro che la ascoltano per disprezzarla o per abusarne. Finalmente quella che cade nella terra buona, sono coloro che desiderano di ascoltarla, che abbracciano tutti i mezzi che il buon Dio loro inspira per bene approfittarne, ed è in questi cuori che reca copiosi frutti, e questi frutti sono l’allontanamento da una vita mondana e le virtù che un Cristiano deve praticare per piacere a Dio e salvare la propria anima. „ Voi vedete, M. F., giusta la parola di Gesù Cristo, come sia esiguo il numero di coloro che approfittano della parola di Dio, perché di quattro occorre un solo che rende questa semente atta a recar frutto, ciò che è molto facile a dimostrarvi, come vedremo più innanzi. Ma se ora mi domandate quello che vuol dire Gesù Cristo per questo seminatore il quale esce di gran mattino per gettare la sua semente nel suo campo, il seminatore è il buon Dio medesimo, che ha cominciato a procurare il nostro salvamento dal principio del mondo, per questo mandando i profeti suoi prima della venuta del Messia per insegnarci quello che era necessario di fare per essere salvi; non si è accontentato di mandare i suoi servi, è venuto Egli medesimo, ci ha tracciata la via che dobbiamo battere, Egli è venuto ad annunziarci la santa parola.

II. — Ma esaminiamo piuttosto, M. F., quali sono coloro che recano delle buone disposizioni per ascoltare questa parola di vita. Ah! voi avete udito dalle parole stesse di Gesù Cristo che pochissimi recano le disposizioni necessarie per trarne vantaggio. Sapete voi che sia una persona la quale non è nutrita di questa santa parola o che ne abusa? essa è somiglievole ad un ammalato senza medico, ad un viaggiatore smarrito e senza guida, ad un povero senza alcun mezzo di sussistenza; diciamo meglio, che è affatto impossibile di amar Dio e di piacere a lui senza essere nutriti di questa parola divina. Che cos’è che può muoverci ad affezionarci a Lui, se non perché lo conosciamo? E chi può farcelo conoscere con tutte le perfezioni sue, la sua bellezza e il suo amore verso di noi, se non la parola di Dio, che ci insegna tutto quello che ha fatto per noi, e i beni che ci prepara per l’altra vita, se noi non cerchiamo che di piacere a Lui? Chi può muoverci ad abbandonare e piangere i nostri peccati se non la descrizione spaventosa che lo Spirito Santo ci fa nella santa Scrittura? Chi può muoverci a sacrificare tutto quello che abbiamo di più caro al mondo, per avere la sorte di conservare i beni del cielo, se non i quadri stessi che ci mettono sott’occhio i predicatori? Se voi ne dubitate, domandate a S. Agostino ciò che ha cominciato a farlo arrossire fra le sue infamie: non è il quadro spaventoso che fece S. Ambrogio in un sermone nel quale dimostrò tutto l’orrore del vizio d’ impurità, come degradava l’uomo, e come l’oltraggio che recava a Dio era orribile? (Conf. lib. VI, cap. III e IV) – Che cos’è che mosse S. Pelagia, questa famosa cortigiana, l a quale colla sua bellezza e maggiormente coi disordini della propria vita, aveva perduto tante anime, che cos’è che la mosse ad abbracciare la più dura penitenza per tutto il resto della sua vita?… Un giorno che era seguita da una schiera di giovani premurosi di farle la corte, essendosi magnificamente abbigliata, ma di un’aria che non respirava che la mollezza e la voluttà, in questa ostentazione di mondanità, le avvenne di passare dinanzi alla porta di una chiesa, nella quale si trovavano parecchi Vescovi che si intrattenevano degli affari della Chiesa. I santi prelati, mossi a sdegno alla vista di questo spettacolo, volsero altrove lo sguardo; tuttavolta uno di essi, chiamato Nono, guardò fissamente questa commediante e disse gemendo: “Ah! che questa donna che mette tanto studio per piacere agli uomini sarà la nostra condanna, contro di noi che prendiamo sì poca sollecitudine per piacere al buon Dio! „ Il santo prelato avendo preso per mano il suo diacono, lo condusse nella sua cella; quando vi furono arrivati, egli si gettò col volto a terra e disse battendosi il petto e piangendo amaramente: ” O Gesù Cristo, mio maestro, abbiate pietà di me; è d’uopo che nel corso della mia vita io non abbia messo tanto studio ad adornare la mia anima che è tanto preziosa, che tanto vi è costata, quanto questa cortigiana ne ha posto per adornare il suo corpo e per piacere al mondo! „ Il domani, il santo Vescovo essendo salito in pulpito, dipinse in modo così spaventevole i mali che recava questa cortigiana, il numero delle anime che la sua vita perversa trascinava nell’inferno… il suo discorso fu recitato con copiose lagrime. Pelagia era appunto nella chiesa, che ascoltava il sermone che teneva il santo Vescovo; ella ne fu siffattamente commossa, o piuttosto spaventata, che risolse tosto di convertirsi. Ella si reca a trovare il santo prelato senza porre indugio, ella si getta ai piedi del santo Vescovo alla presenza di tutta l’assemblea, gli domanda con grandi istanze e piangendo il Battesimo, che il Vescovo, vedendola così pentita, le amministrò non solo il Battesimo, ma anche la Confermazione e la Comunione. Dopo ciò, Pelagia distribuì i suoi beni ai poveri, concesse la libertà a tutti i suoi schiavi, si coprì d’un cilicio, abbandonò segretamente la città di Antiochia e andò a chiudersi in una grotta sulla montagna degli Ulivi, vicino a Gerusalemme. Il diacono del santo Vescovo desiderava di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme; il suo Vescovo gli disse, prima della sua partenza, di chiedere se là trovavasi una giovane nascosta in una grotta da quattro anni. Infatti, il diacono arrivato a Gerusalemme, domandò se sapevasi di una giovane chiusa da quattro anni in una grotta nei dintorni della città. Il diacono la trovò sopra la montagna in una cella che non aveva altra apertura che una piccola finestra quasi sempre chiusa. La penitenza spaventevole che faceva Pelagia, l’aveva siffattamente cangiata, che il diacono non poté riconoscerla; le disse che veniva a renderle visita dalla parte del Vescovo Nono; ella rispose semplicemente versando lagrime, che il Vescovo Nono era un santo e che ella si raccomandava alle sue preghiere; e tosto chiuse la finestra come fosse indegna di vedere il giorno dopo di aver tanto offeso il buon Dio e perduto tante anime. I solitari gli dissero tutti che ella esercitava sopra il suo corpo tormenti tali che facevano fremere i solitari più austeri. Il diacono, prima di partire, volle ancora avere una volta la sorte di vederla, ma la trovò morta 1(Vita dei Padri del deserto, vol. VI, cap. XVIII). Ora, M. P., chi trasse questa infelice dalle sue infamie per farne una così grande penitente? Una sola istruzione operò in essa quel cangiamento. Ma, di nuovo, donde procede ciò? Perché la parola di Dio trovò il suo cuore ben disposto a ricevere questa semente, perché questa parola cadde in buon terreno. Sapete chi siamo noi? Noi siamo quei grandi del mondo, i quali, nell’abbondanza di tutto ciò che il cuore può desiderare, esauriscono la loro conoscenza nel produrre nuove invenzioni per trovare nuovi gusti nelle vivande che loro si ammanniscono, e nonostante ciò nulla trovano che sia buono. Se una persona che soffre la fame fosse testimonio di ciò, non direbbe piangendo: “Ah! se io avessi quello che essi disprezzano tanto, quanto sarei felice!„ Ah! noi possiamo ripetere la stessa cosa: se dei poveri idolatri e dei pagani avessero la metà o il quarto di questa parola che si distribuisce a noi sì di spesso e che teniamo in così poco conto o disprezziamo, che noi ascoltiamo con noia e con disgusto, ah! quante lagrime spargerebbero, quante penitenze, quante buone opere e quante virtù avrebbero la sorte di praticare! Sì, questa parola santa è perduta per questi peccatori che sono abbandonati in balia della dissipazione, che non hanno alcuna regola di vita, il cui spirito e il cui cuore sono somiglievoli ad una grande strada da tutti battuta, che non sanno neppure che cosa significhi rigettare un cattivo pensiero. Un momento, è un buon pensiero o un buon desiderio che li occupa; un altro momento, è un cattivo pensiero e un cattivo desiderio; ora voi li udite cantare le lodi di Dio nella Chiesa; in un altro momento, voi li udite cantare le canzoni più infami nelle bettole; qui voi li vedete dir bene dei loro vicini, e là li vedete con coloro che straziano la loro riputazione; un giorno essi daranno dei buoni consigli, domani spingeranno altri a vendicarsi. Posto ciò, se essi ascoltano la parola di Dio, è per abitudine e forse con cattivo intendimento, per criticare colui che è tanto caritatevole di annunciarla. Ma essi l’ascoltano come si ascolta una favola o una cosa affatto indifferente. Ah! qual frutto può produrre la parola di Dio in cuori così mal disposti, se non indurarli sempre più? Mio Dio, come la vostra santa parola, la quale non ci è data che per aiutarci a salvarci, precipita delle anime nell’inferno! Io vi ho detto, da principio, che la parola di Dio reca sempre frutto buono o cattivo, secondo le disposizioni nostre. Ecco lo stato di una persona la quale non combatte le sue inclinazioni, la quale non cerca di premunirsi contro le sue passioni che la padroneggiano; a grado che la parola di Dio cade, passa l’orgoglio, la mette sotto dei piedi; passa il desiderio di vendetta, la soffoca; sopravvengono i vani pensieri e i cattivi desideri a gettarla nel fango; dopo di che, il demonio che regna in questo povero cuore, alla prima occasione, cancella il resto dell’impressione che ha potuto produrre in noi la parola di Dio. Ecco, M. F., quello che dice primieramente il Vangelo: io non so se voi l’avete ben compreso, ma per me io tremo quando sento S. Agostino dirci che noi siamo tanto colpevoli di udire la parola, di Dio senza un vero desiderio di approfittarne, come i Giudei quando flagellavano Gesù Cristo. Ah! M. F., noi non abbiamo mai pensato che commettiamo una specie di sacrilegio quando non vogliamo approfittare di questa santa parola. Tuttavia, non sono positivamente le vostre disposizioni, almeno per un gran numero: noi prendiamo ancora delle belle risoluzioni di cambiar vita; quando noi udiamo predicare, noi diciamo in noi medesimi: è necessario assolutamente operare bene. Ecco una buona risoluzione; ma dal momento che il buon Dio ci sottopone a qualche prova, noi dimentichiamo le nostre risoluzioni e continuiamo il nostro sistema di vita. Noi abbiamo risolato di essere meno attaccati ai beni di questo mondo; ma il più piccolo torto che ci si rechi, noi cerchiamo di vendicarci; noi parliamo male delle persone che ci hanno recato qualche ingiuria e conserviamo l’odio; noi soffriamo di mal animo di vedere queste persone, non vogliamo più render loro servizio. Noi pensiamo che ora vogliamo praticare l’umiltà, perché abbiamo udito in una istruzione quanto l’umiltà sia una bella virtù, come ci rende aggradevoli a Dio; ma alla prima occasione che si presenta, che noi siamo disprezzati, noi ci muoviamo a sdegno, parliamo male dei nostri contradditori, e se qualche volta abbiamo loro procurato alcun bene glielo rinfacciamo. Ecco, M. F., quello che noi facciamo. Molte volte noi abbiamo risoluto di operar bene, ma tosto che l’occasione si presenta, non ci poniamo più mente e continuiamo la nostra vita ordinaria. – In tal modo trascorre tutta la nostra povera vita, nelle risoluzioni e nelle cadute continue, di guisa che noi ci ritroviamo sempre gli stessi. Ah! questa semente è dunque perduta per il gran numero dei Cristiani e non può contribuire che alla loro condanna! — Ma forse mi direte voi, che altra volta la parola di Dio era più potente, o coloro che l’annunciavano erano più eloquenti. — No, la parola del buon Dio ha tanto potere ora quanto negli altri tempi, e coloro che la annunciavano erano semplici come ai giorni nostri. Ascoltate S. Pietro nelle sue predicazioni: “Ascoltatemi, loro dice questo santo Apostolo, il Messia che voi avete fatto soffrire, che avete mandato alla morte, è risuscitato per la felicità di tutti coloro che credono che il salvamento procede da lui.„ Appena ebbe detto ciò, che tutti coloro che erano presenti ruppero in pianto, e mandarono alte grida, dicendo: “Ah! grande Apostolo, che faremo noi per ottenere il nostro perdono?„ — “Miei figli, dice loro S. Pietro, se voi bramate che i vostri peccati vi siano perdonati, fate penitenza, confessate i vostri peccati, più non peccate, e il medesimo Gesù Cristo che voi avete appeso alla croce, che è risuscitato, vi perdonerà (Act. III, 19). „ In un solo discorso, tre mila si diedero a Dio e abbandonarono il loro peccato per sempre (ibid. II, 41). In un altro, cinquemila rinunciarono alla loro idolatria per abbracciare una religione la quale non domanda che sacrifici continui (ibid. IV, 4); essi batterono coraggiosamente la via che Gesù Cristo aveva loro tracciata. Di qual segreto si sono valsi gli Apostoli per cangiare la faccia del mondo? — Ecco: “Volete voi, dissero gli Apostoli, piacere a Dio e salvare l’anima vostra, che colui che si abbandona al vizio dell’impurità vi rinunci e conduca una vita pura e aggradevole a Dio; che colui che ha il bene del suo prossimo lo restituisca; che colui che odia il suo prossimo si riconcili con lui.„ Ascoltate S. Tommaso: “Io vi avverto dalla parte di Gesù Cristo medesimo che gli uomini subiranno un giudizio dopo la loro morte, intorno il bene ed il male che avranno fatto, i peccatori passeranno la loro eternità nel fuoco dell’inferno, per patirvi per sempre; ma colui che sarà stato fedele ad osservare la legge del Signore, la sua sorte sarà affatto diversa; all’uscire da questa vita, entrerà in cielo per godervi ogni sorta di delizie e di felicità. „ Ascoltate san Giovanni, il discepolo prediletto: “Miei figli, amatevi tutti come Gesù Cristo vi ha amati, siate caritatevoli gli uni verso gli altri, come Gesù Cristo lo è stato per noi, Lui che ha sofferto e che è morto per la nostra felicità; sopportatevi gli uni cogli altri, perdonatevi le vostre debolezze come Egli perdona a tutti (I Joan. II-IV).„ Ditemi, possiamo trovare qualche cosa che sia più semplice ? Ora, non vi si dicono le medesime verità? Non vi si dice, come S. Pietro, che Gesù Cristo è morto per voi, che è ancora pronto a perdonarvi se volete pentirvi ed abbandonare il peccato? Tuttavolta furono queste parole che fecero versare tante lagrime e convertirono tanti pagani e tanti peccatori! Non vi si dice, come S. Giovanni Battista, che se voi avete il bene del prossimo, è necessario restituirlo (Luc. III, 11-14), senza di che mai entrerete in cielo? Non vi si dice che se vi abbandonate in preda al vizio dell’impurità, è necessario lasciarlo e condurre una vita tutta pura? Non vi si dice che, se voi vivete e restate nel peccato, voi cadrete nell’inferno? E perché dunque queste parole non producono più i medesimi effetti, vo’ dire che questa parola santa non ci converte? Ah! diciamolo gemendo: non è perché abbia minor potere che altra volta, ma perché questa divina semente cade in cuori indurati e impenitenti, e appena vi è caduta il demonio la soffoca. Come questa divina parola non parla che di sacrifici, di mortificazioni, di distacco dal mondo e da se medesimo, e d’altra parte non si vuol fare tutto ciò, si rimane nel peccato, vi si persevera, vi si muore. – Convenite con me quanto sia necessario essere indurato per restare nel peccato, sapendo benissimo che, se dovessimo morire in questo stato, non abbiamo che l’inferno per retaggio! Ci è ripetuto continuamente, e nonostante ciò, noi restiamo peccatori come lo siamo, benché siamo certissimi che la nostra sorte non può essere che quella d’un riprovato. O mio Dio! quale stato infelice è quello di un peccatore che non ha più la fede!

III. — Ma, mi direte voi, che cosa dunque bisogna fare per approfittare della parola di Dio, affinché ci aiuti a convertirci? — Ecco: Voi non avete che da esaminare la condotta di quel popolo che accorreva ad ascoltare Gesù Cristo; egli vi accorreva da lontano, con un vero desiderio di praticare tutto quello che Gesù Cristo loro avrebbe comandato; essi abbandonavano tutte le cose temporali, non pensavano neppure ai bisogni del corpo, ben persuasi che colui che nutriva la loro anima, nutrirebbe il loro corpo; essi erano mille volte più solleciti di cercare i beni del cielo che quelli della terra; essi tutto dimenticavano per non pensare che a praticare quello che loro diceva nostro Signore (Luc. IX, 12). Vedeteli in atto di ascoltare Gesù Cristo o gli Apostoli: i loro occhi e i loro cuori sono tutti rivolti a questo oggetto; le donne non pensano alla loro famiglia; il mercante perde di vista il suo commercio; l’agricoltore dimentica i suoi campi; i giovani mettono sotto dei piedi i loro abbigliamenti; essi ascoltano con avidità le sue parole, e fanno quanto possono per imprimerle profondamente nel loro cuore. Gli uomini più sensuali abborrono i loro piaceri sensuali per non più pensare che a far soffrire il loro corpo, la santa parola di Dio forma tutta la loro occupazione; vi fermano il pensiero, la meditano, amano di parlarne e di udirne parlare. Ora, M. F., vedete se tutte le volte che ascoltate la parola di Dio, voi vi recate le medesime disposizioni. M. F., siete venuti ad ascoltare questa santa parola con sollecitudine, con gioia, con un vero desiderio di approfittarne? Così essendo, avete dimenticato tutti i vostri affari temporali, per non pensare che ai bisogni della vostra anima? Prima di ascoltare questa santa parola, avete domandato al buon Dio, di imprimerla profondamente nei vostri cuori? Avete considerato questo momento come il più avventurato della vostra vita, poiché Gesù Cristo medesimo ci dice che la sua santa parola è preferibile alla santa comunione? Siete stati pronti a praticare quanto ella vi comanda? L’avete ascoltata con attenzione, con rispetto, non come la parola di un uomo, ma come la parola di Dio medesimo? Dopo l’istruzione avete ringraziato il buon Dio della grazia che vi ha concesso di istruirvi Egli medesimo per la bocca dei suoi ministri? Ah! mio Dio, se son pochi quelli che recano queste disposizioni, non saremo meravigliati che questa santa parola produca sì poco frutto. Ah! quanti che sono qui con pena, con noia! che dormono, che sbadigliano! quanti che sfoglieranno un libro, e ciarleranno! E non si veggono altri che spingono più innanzi la loro empietà, i quali, con una specie di disprezzo, escono di chiesa tenendo in nessun conto la santa parola e colui che la annuncia? Quanti altri i quali, anche essendo fuori, dicono che il tempo loro pesa e che più non ritorneranno! E finalmente altri i quali, ritornando alle loro case, invece di occuparsi di ciò che hanno udito e di meditarlo, lo dimenticano affatto e non vi tornano sopra col pensiero che per dire che non è mai finito, o per criticare colui che ha avuto la carità di annunciarla! Chi sono coloro i quali, essendo tornati in famiglia, facciano parte a coloro che non hanno potuto intervenire di ciò che hanno udito? Quali sono i padri e le madri che domandino ai loro figli quello che hanno ritenuto della parola santa che hanno udita, e che spieghino loro quello che non hanno compreso? Ma, ah! si tiene la parola di Dio in sì poco conto, che quasi non si accusano di non averla ascoltata con attenzione. Ah! quanti peccati dei quali la maggior parte dei Cristiani non si accusano mai! Mio Dio! quanti Cristiani dannati! Chi sono coloro che abbiano detto a se medesimi: Quanto questa parola è bella! quanto è vera! ecco tanti anni che io l’ascolto e che mi fa vedere lo stato della mia anima, e, come toccare con mano che, se la morte mi colpisse, io sarei perduto! Tuttavolta io resto sempre nel peccato. O mio Dio, quante grazie disprezzate, quanti mezzi di salvamento dei quali ho abusato sino a quest’ora! ma è cosa decisa, io voglio sinceramente cangiar vita, io voglio domandare al buon Dio la grazia di non mai ascoltare questa santa parola senza esservi ben preparato. No, io non voglio più dire in me medesimo, come ho fatto fino a quest’ora, che ciò è per il tale o per la tale, ma dirò che è per me che la si annuncia; io voglio porre ogni studio per approfittarne per quanto lo potrò. Che conchiudere da tutto ciò? Che la parola divina è uno dei più grandi doni che il buon Dio possa concederci, perché senza l’istruzione, è impossibile di salvarci. Che se noi vediamo tanti empi in questi tristi giorni nei quali viviamo, non è che perché non conoscono la loro Religione, perché ad una persona che la conosca, le è impossibile di non amarla e di non praticare quello che essa prescrive. Quando voi vedete qualche empio che disprezza la Religione, voi potete dire: “Ecco un ignorante che disprezza quello che non conosce, „ perché questa parola divina ha convertito tanti peccatori. – Studiamoci di ascoltare sempre con un piacere tanto più grande in quanto vi è annesso il salvamento dell’anima nostra e che per essa noi scopriremo quanto il nostro destino è felice, quanto la ricompensa che ci promette è grande, perché dura tutta l’eternità. È la felicità che io vi ….

LO SCUDO DELLA FEDE (146)

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P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (12)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XIV – 2

PUNTO II.

Alla sola Chiesa appartiene la dogmatica interpretazione della Santa Scrittura.

77. Bibbia. Essendo dunque sì oscura, inintelligibile, anche per tua confessione, la Scrittura Santa; evidentemente ne segue che non può né deve essere interpretata da qualunque individuo; che non è lecito ai fedeli il seguirla quale unica regola di lor fede e costumi, nel senso che da ciascuno è privatamente intesa; ma che alla sola Chiesa ne appartiene la dogmatica interpretazione, la quale dev’esser da tutti seguita. Ciò è precisamente quanto in ogni tempo Iddio ha voluto e rigorosamente ordinato. Ascolta.

« Se in qualche negozio che penda dinanzi a te, vedrai della difficoltà e ambiguità tra sangue e sangue, tra causa e causa, tra lebbra e lebbra, e vedrai che vari sono i sentimenti de’ giudici della tua città: … ti porterai a’ sacerdoti della stirpe di Levi, e dal giudice che risiederà in quel tempo: e li consulterai, ed eglino ti proferiranno la sentenza secondo la verità. E tu farai tutto quello che ti avranno detto, .e non torcerai a destra, né a sinistra. Chi poi si leverà in superba, e non vorrà obbedire al comando del Sacerdote, che è in quel tempo il ministro del Signore Dio tuo, né al decreto del giudice, costui sia messo a morte, e toglierai il male da Israele.(Deuter. XVII, 8 e segg.) e Nota qui che il giudice era lo stesso Sacerdote Sommo Pontefice; poiché egli solo, secondo la legge, (Lev. XIII.) discerner poteva e sentenziare tra lebbra e lebbra. Ciò vedrai confermato ne’ testi seguenti. – « In Gerusalemme Iosaphat nominò dei Leviti, e dei Sacerdoti, e dei capi di famiglia d’Israele, e intimò loro e disse: In qualunque lite tra famiglia e famiglia,… la quale [lite) sia portata a voi, ogniqualvolta che si tratti della legge, dei comandamenti, delle cerimonie e dei precetti, voi l’istruirete, affinché non pecchino contro il Signore…. Amaria Sacerdote e Pontefice vostro avrà giurisdizione in tutto quello che spetta al Signore: e Zabadia figliuolo d’Ismael principe della casa di Giuda, presiederà a tutti gli affari riguardanti l’officio del re? » (II Paralip. XIX, 8 e segg) – « Queste cose dice il Signore degli eserciti: Interroga i sacerdoti intorno la legge » (Agg. II, 12). – « Le labbra del sacerdote hanno il deposito della scienza, e dalla bocca di lui si ha da cercare la legge; perché egli è l’Angelo del Signore degli eserciti.1 » (Malac. II, 7). – « I sacerdoti, e i Leviti figliuoli di Sadoc,… insegneranno al mio popolo a discernere tra il santo e il profano, tra il mondo e l’immondo; E ove accadano liti, sederanno nei miei tribunali, e giudicheranno.- » (Ezech. XLIV, l5, 23, 24). Questa è la legge: vediamone adesso la pratica.

« Fece Mosè come aveva ordinato il Signore:… e spiegò tutti gli ordini del Signore. (Num. XXVIII, 18, e seg.) » – « E parimente disse (Iosia) a’ Leviti :… per le istruzioni de’ quali tutto Israele era santificato al Signore. » (2 de’ Paralip. XXXV, 3) – « Esdra ancora rivolto il suo cuore a far ricerca dellca legge del Signore, e ad eseguire, ed insegnare ad Israele i precetti di essa, e gli insegnamenti? » (1.° di Esd. VIII, 10) – « Portò dunque Esdra sacerdote la legge dinanzi alla moltitudine, e lesse in quel libro a voce chiara…. dalla mattina sino a mezzodì, in presenza degli uomini, delle donne, e dei sapienti…. Andò pertanto tutto il popolo, etc … perché avevano inteso le parole che erano state loro spiegate. E il secondo giorno si congregarono i capi delle famiglie di tutto il popolo, i sacerdoti e i Leviti presso Esdra scriba, affinché esponesse loro le parole della legge » (2.° di Esd. VII. 3. 12, 13.)

Passiamo adesso al Nuovo Testamento.

78. « E allora Gesù parlò alle turbe e a’ suoi discepoli, dicendo: sulla Cattedra di Mosè si assisero gli Scribi e i Farisei: tutto quello pertanto, che vi dicono, osservatelo e fatelo » (Matt. XXIII, 2,3). – Ma Gesù accostandosi parlò loro [agli Apostoli], dicendo: Andate, istruite tutte le genti,… insegnando loro di osservare tutto quello che vi ho comandato » (IVI, XXVIII, 18 e seg.). – « Se non ascolta la Chiesa, abbilo come per un pagano e per pubblicano » (ivi, XVIII, 17). –  « Chi ascolta voi, ascolta me: e chi disprezza voi, disprezza me. » (Luc. X, 16). Or vedi che anche il Divin Redentore, quantunque venuto fosse per dar nuova legge al mondo, per ciò che riguarda il caso nostro, conferma, e rinnova quanto era già stabilito nell’Antico Testamento. Questa gran verità ti si renderà anche più manifesta dalla pratica costante tenuta dai Santi Apostoli su questo proposito. Ascolta.

« Alcuni venuti dalla Giudea insegnavano a’ fratelli : Se voi non vi circoncidete secondo il rito di Mosè, non potete esser salvi. Essendovi dunque stato non piccol contrasto di Paolo e di Barnaba contro di essi, fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni dell’altra parte andassero per tal questione a Gerusalemme dagli Apostoli e da’ seniori…. E si adunarono gli Apostoli e i seniori per disaminar questa cosa. E mentre ferveva la disputa, alzatosi Pietro disse loro: Uomini fratelli perché tentate voi Dio per imporre sul collo dei discepoli un giogo, che né i Padri nostri, né noi abbiam potuto portare? Ma per la grazia del Signore Gesù Cristo CREDIAMO ESSER SALVATI NELLO STESSO MODO CHE ESSI. E tutta la moltitudine si tacque…. –  Gli Apostoli e i seniori…. ai fratelli gentili che sono in Antiochia…. Poiché abbiamo udito che alcuni partiti da noi, a’ quali non ne abbiamo dato commissione, vi hanno turbati con parole, sovvertendo le anime vostre…. è parso allo Spirito Santo, ed a noi di non imporre a voi altro peso, etc. » (Act. XV, 1 e segg.).   – Qui hai ben potuto vedere: 1.° Che la controversia tra i cristiani di Antiochia riguardava l’intelligenza della Scrittura; poiché trattavasi di sapere, se loro era necessaria la circoncisione al conseguimento della salute. 2° Che nessuno, neppur dei primarii loro pastori, osò attribuirsi la potestà di decidere su tal controversia dogmaticamente. – 3.° Che tutti convennero di unanime consenso esser necessario ricorrere per la definitiva decisione alla suprema autorità della Chiesa. 4.° Che S. Pietro, a cui ciò singolarmente apparteneva, pronunziò l’inappellabile sentenza, per cui tutta la moltitudine si tacque, perché le sentenze di Pietro sono infallibili. – E parso allo Spirito Santo, ed a noi – 5.° Che riprovati furono e condannati come perturbatori coloro, che preteso avevano di sentenziare dogmaticamente in materia di Scrittura, indipendentemente dall’autorità della Chiesa – A’ quali non ne abbiamo dato commissione.

79. Affinché poi nessuno in seguito adducesse il pretesto che tal sentenza non riguardava che un caso particolare; lo stesso S. Pietro promulgò a tutta la Chiesa la seguente dogmatica dichiarazione: « Abbiamo più ferma la parola profetica, a cui fate bene di attendere, ponendo mente prima di tutto a questo (N.B.) che nessuna profezia della Scrittura è di privata interpretazione; imperocché (eccone la ragione) non per umano volere fu portata una volta la profezia, ma ispirati dallo Spirito Santo parlarono i santi uomini dì Dio.1 » (II Piet. I, 19 e segg.). –  Da queste ultime parole è ben chiaro, che qui per profezia non s’intendono soltanto le predizioni profetiche, ma (siccome spesso si usa nella parola di Dio) tutte le Sante Scritture. Quindi il medesimo Apostolo seriamente avverte tutti i fedeli a guardarsi da coloro che pretendono decidere circa il senso della Scrittura, secondo la privata loro interpretazione. « Voi adunque , o fratelli, istruiti per tempo state in guardia, affinché non cadiate, trasportati dall’errore degli stolti, dalla vostra fermezza. » (ivi, III, 16).

80. Con forza non minore detestati sono e condannati tali pretendenti dall’Apostolo S. Paolo, e acremente ripresi sono i fedeli che a quelli danno retta.

« Vi seno ancora molti disobbedienti, vaniloqui e seduttori, massimamente quelli della circoncisione, a’ quali debbesi turar la bocca, i quali mettono a soqquadro tutte le cose, insegnando cose che non convengono » (Tit. I, 10, 11).

« La fine del precetto è la carità di puro cuore, di buona coscienza, di fede non simulata. Dalle quali cose alcuni avendo deviato, hanno dato in vani cicalecci, volendo farla da dottori della legge, senza intender le cose che dicono, né quelle che danno per certe. » (I Tim. I, 5 e segg.). – «Altri ha (Gesù Cristo) costituiti Apostoli, altri profeti, altri pastori e dottori, per il perfezionamento de’ santi, per l’opera del ministero, per la edificazione del corpo di Cristo:… onde non più siamo fanciulli vacillanti, e portati qua e là da ogni vento di dottrina per raggiri degli uomini, per le astuzie onde seduce l’errore » (Ephes. IV, 11 e segg.). – « Forse tutti Apostoli? Forse tutti profeti.? Forse tutti dottori? Forse tutti interpreti? (I Cor. XII, 29, 30).  Mi stupisco come così presto fate passaggio da colui che vi chiamò alla grazia di Cristo ad un altro Vangelo, il quale non è un altro, ma vi sono alcuni che vi conturbano, e vogliono pervertire il Vangelo di Cristo. Ma quand’anche noi, o un Angelo del cielo evangelizzi a voi oltre quello che abbiamo a voi evangelizzato, sia anatema. » (Gal. I, 6 e segg.) Cioè, sia maledetto. Ecco adunque che tanto nel Vecchio che nel Nuovo Testamento è assolutamente comandato di ricorrere all’autorità della Chiesa per l’intelligenza della Santa Scrittura: e coloro che pretendono d’interpretarla dogmaticamente di privata loro autorità, ossia che vogliono averla per regola della lor fede e costumi nel senso da essi intesa, indipendentemente dall’autorità della Chiesa, nel Vecchio Testamento sono condannati a morte, e nel Nuovo non solo condannati sono come disubbidienti, perturbatori, e seduttori; ma è fulminato contro di essi l’ANATEMA, ossia la più terribile, la più spaventosa delle maledizioni; a cui è sempre unita la più gran pena cioè la scomunica.

81. Prot. A tutte le vostre ragioni i miei seguaci lungamente opposero, e molti oppongono ancora i seguenti passi:

1.° « Non avete bisogno che alcuno vi ammaestri, ma siccome l’unzione di lui (dello Spirito Santo) insegna a voi tutte le cose, ed è verace, e non bugiarda. E siccome vi ha insegnato, stativi in Lui. » ( I Giov. II, 27)

2. ° « Porrò tutti i figliuoli tuoi ammaestrati dal Signore. » ( Isa. LIV, 13 )

3. ° « Darò la mia legge nelle lor viscere, e nel cuor loro la scriverò, e niuno insegnerà più al suo prossimo, con dire, conosci il Signore: imperocché tutti dal primo all’ultimo mi conosceranno. » (Gerem. XXXI, 33, 34).

4. ° « Io non ricevo testimonianza dall’ uomo. » (Giov. V, 34)

5. ° « Chi vorrà adempire la volontà di Lui, conoscerà se la dottrina sia di Dio. » (ivi, VII, 17 )

6. ° « Le mie pecore ascoltan la mia voce: e io le conosco, ed elleno mi tengon dietro. » (ivi, X, 27)

7. ° « Perscrutate le Scritture: perché credete di avere in esse la vita eterna. » (ivi, V, 39 )

8. ° « L o spirituale giudica tutte le cose, ed ei non è giudicato d’alcuno. » (I Cor. II, 15)

9. ° « Disaminate tutto, attenetevi al buono. » ( I Tess. V, 21)

Con questi passi credevan vinta la causa; ma in verità non sono punto a proposito. Imperocché il 1.° non contiene, che un ammonimento di precauzione che dà Giovanni ai fedeli, affinché si guardino dai falsi maestri, i quali sotto pretesto di una più estesa istruzione, ingannavano molti. Onde gli avverte di non dar loro ascolto, essendo essi fedeli abbastanza istruiti nelle cose necessarie a sapersi per la eterna salute. » (Rosenmuller, ne’ suoi Scolii sopra questo passo.).

Il secondo ed il terzo altro non significano che « una maggior diffusione del monoteismo presso gli Ebrei reduci dalla captività babilonese. » (Ivi, Op. cit. sopra questi passi).  Oppure, « una maggior facilità di conoscere e praticare la legge di Dio. » (Cosi altri protestanti nell’Opera: Critici Sacri) Nel quarto, « Gesù volle dire: non ho detto queste cose come avido di onore che apporta la lode umana. Non mi appiglio alla testimonianza di alcun uomo, né perciò di Giovanni da voi ripudiato; ma ho detto queste cose, ho fatto menzione di Giovanni, affinché ne siate capacitati : non vado in cerca di umana commendazione. » Riguardo al quinto: « Aveva Gesù affermato – v. 16. – che la sua dottrina era divina. Ora egli porta sopra questa cosa due argomenti: il primo interno, preso dall’indole dell’eccellenza della medesima dottrina: l’altro – v. 17. – esterno, preso dalla stessa ragione di agire, colla quale insegna che Egli non ha in mira la propria gloria, ma quella unicamente di Dio. » (Kuinoel, Gàmlimat. e Rosenmuller, Op. cìt. sopra questo passo)  Nel 6.° – Non tratta Gesù che della sua dignità di Messia, riconosciuta dai suoi seguaci; onde a lui obbediranno e presteranno ossequio. (c. s.) – Quanto al settimo, « Quel perscrutate le Scritture, non è adoperato da Cristo nel modo imperativo, ma nell’indicativo, come è manifesto non solo dall’autorità dei Dottori, che così l’intesero, ma dallo stesso contesto che l’esige. Oltre a ciò, queste parole erano dirette ai Farisei, cioè ai Dottori della legge; onde nulla hanno di comune con la presente questione. » L’ottavo (lo spirituale ec.) altro, non è che un antitesi, che fa l’Apostolo tra l’uomo spirituale e l’uomo carnale, dicendo che il carnale non è atto a portar giudizio nelle cose spirituali, di cui nulla intende; e che lo spirituale e perfetto giudica tutte le cose come sono ; ma non dice già che egli possa arrogarsi autorità intorno i dogmi di fede nel decider le controversie, al quale uffizio, secondo lo stesso Apostolo, Dio ha lasciati nella sua Chiesa i Pastori e i Dottori? » (Questa sentenza è inesatta, ma può passarsi ad un protestante quanto allo scopo dell’attual controversia). Finalmente quel – Disaminate – etc. appartiene alla discrezione degli spiriti. Così i testi (che citano) della prima a’Corinti – XII. 10. 14. 29. – così quello della I . di Giovanni, – IV. 1. – Dunque quel – tutte le cose, – ristringer si deve, secondo l’antecedente, a quelle cose che si dicono da coloro che profetizzano. » (Ugone Grozio: Opp. edit. Amstelod, 1670, T. 2. vol. 2 , pag. 916.). Convengo dunque che su questo punto ha piena ragione la Cattolica Chiesa; ma nel tempo stesso non so perdonarle l’inaudita durezza e ingiustizia che fa ai fedeli, negando loro il libero uso di quella Santa Scrittura data per tutti da Dio; onde profittarne pel loro bene spirituale.

82. Bibbia. L a Chiesa Cattolica concederà certamente ai fedeli l’uso della Santa Scrittura data da Dio, ma però con quelle condizioni che vuole Iddio, cioè:

I. Che facciano uso di quella sola Scrittura, che come vera e genuina è loro assegnata da essa Chiesa, giusta quel divino comando : « Egli (il re) scriva per suo uso un doppio esemplare di questa legge in un volume, copiandola dall’originale datogli da’ sacerdoti. »  (Deut. XVII, 18)

II. Che nessuno pretenda di farsi giudice indipendente del senso di essa, avendo Dio dichiarato che – non è di privata interpretazione; perché è parola divina.

III. Che in ogni dubbio, o questione ricorrer debbano per la sua intelligenza alla medesima Chiesa, né mai allontanarsi dalla sua sentenza, come è chiaro dai vari testi sopraccitati.

IV. Che essendo ai fedeli per ogni evento moralmente impossibile tale ricorso, abbiano una Scrittura munita delle necessarie Note; onde non manchi loro, in un modo o nell’altro, il magistero della Santa Chiesa – Colonna e sostegno della verità! – e così preservati siano dal cadere in errore.

83. Prot. « La Chiesa protestante benché pretenda di stabilire per sua base la Sacra Scrittura , contuttociò ella s’innalza sopra un fondamento assai debole e leggiero. » (F. F. Delbraeck. Filippo Melantone, ossia maestro della fede, ec. 1826,)

« Lutero, Calvino, Zuinglio ben fecero della Bibbia il fondamento della fede; ma gli oracoli della Scrittura debbono entrare nell’intelletto, ed essere dalla mente compresi: e affinché questo si avveri, quelli debbono essere spiegati…. Presupposto che Dio abbia parlato, che dinanzi agli occhi si vegga e si oda la parola di Dio, la quale deve là menare dove si ritrova la vera felicità dell’uomo, chi potrebbe così facilmente salire in audacia di volerla ad ogni guisa spiegare, e per entro conoscere? Non sarebbe questo il luogo in cui sarebbe necessaria una dichiarazione autentica ed autorevole, non potendosene far senza? Sopra questo punto ha perfettissimamente ragione la Chiesa Cattolica? » (5 Wienland, Opere varie, X. 1, p. 186). – « Se Dio ha discoperto, mediante la sua rivelazione, alcune di cui non si può far senza, e le quali sono per la beatitudine eterna onninamente necessarie, già si vede bene che la spiegazione delle medesime è da aggiudicarsi a coloro soltanto chesono da ciò, ossia a quell’Istituto che guidato di continuo dallo Spirito Santo non può dare nel fallo, ma dee essere INFALLIBILE » (Zimmermann, nella Gazzetta Letteraria di Lipsia, 1829, n. 171).

« Bene a ragione la Bibbia deve giudicare il protestante come in suprema istanza; ma non mai esclusivamente. Quest’ultimo carattere è peculiare agli eretici di tutti i secoli, e perciò sopra ogni altro da fuggirsi e da combattersi da una Chiesa, la quale, siccome la nostra, possiede pochissimi mezzi ecclesiastici per porre un freno a riparare l’arbitraria esposizione della Bibbia, e le innumerevoli fazioni, che indi ne nascono. Il vero protestantismo riprova e condanna (sic) tutti quei tentativi, che in antico e recentemente si son fatti per isviluppare i dogmi dalla sola Scrittura Sacra. Conciossiachè un tal metodo è contrario all’antica Chiesa, e non giovò ad altro che ad alimentare ogn’ora novelle e crescenti discordie, e straordinarie sette, che usano molti maltrattamenti e angherie.- » (Glanzow, Il ripristinamento del vero protestantismo, p. 89.). – « Nel vero non può negarsi che sieno quasi pochissimi que’ testi, i quali sì delle cose contenute nell’antico, come di quelle racchiuse nel nuovo Testamento, ingenerino nelle menti dei lettori le medesime idee. Per il che ne nasce di presente un dubbio, se le idee, le quali fanno per avventura al nostro proposito, sieno piuttosto queste che quelle. Chi monterà in cattedra, e parlando scioglierà la questione? Se da noi protestanti che siamo, si accetta e si riceve la Bibbia come regola ed ordine di fede, ne avverrà per conseguenza che tutte le verità anche di fede avranno, a così dire, le radici e le fondamenta loro nel campo delle disputazioni esegetiche? » (Lessing, Storoa della Letteratura, T. 6. p. 38.). « Infino a tanto che i Riformatori difendevano all’aperto la Sacra Scrittura, come quella che conteneva in sé tutto ciò che era necessario al conseguimento della beatitudine eterna, ed insegnavano non doversi giammai da chicchessia prestar credenza, quasi fossero articoli di fede, a verità, le quali non si leggessero, o almeno non venissero dalla Bibbia dimostrate; oh! allora essi non si avvedevano che sarebbe alla perfine venuto un tempo, in cui gli uomini di ogni fatta avrebbero presa tanta baldanza, che con sola la Bibbia alla mano si sarebbero creduti adatti, o a dir meglio, chiamati a cercare una fede tutta loro peculiare, e tener per falso, e rigettare ciò che per avventura non si fosse conformato alle proprie opinioni. Cotesta baldanza è oggidì tanto cresciuta e diffusa, che gli stessi, articoli principalissimi della fede cristiana vengono contraddetti e negati da coloro medesimi i quali, a malgrado di tutto questo, si chiamano discepoli del mite ed umile Gesù! » (Wix, Sull’opportunità … Heidelberg. 1829, p. 62). – « Laddove ciascuno, i divisati principii seguitando,, potesse a suo bell’agio crearsi una religione tutta peculiare, certamente non mai gli sarebbe dato di rinvenire un solo elemento capace di effettuare una qualsiasi unione, e molto meno una Chiesa. » (La Gazzetta ecclesiastica-prot.) di Darmstadt, Supplemento Letterario, 1831. n. 34). « Chi ciò concede è necessario conceda che potranno formarsi tante religioni quante sono le teste. » (Il Mosemio, Hinstit. Hist. Christ. Recent. Sæc. XVI Sect. 3, cap. 4§ . 1). – « Certamente que’ mostri di errori e di eresie che in oggi s’intendono, non sono che ruscelli dedotti da quel fonte della privata interpretazione delie Sacre Scritture. » (Calvino, Epistolæ, et responsi (Calvini), p. 47, col. 1.) – Che però io diceva a certi miei avversarii: « È necessario consultare la Chiesa, e chiuder l’orecchio alle passioni ed ai pregiudizi. L’intelligenza delle Scritture non appartiene né a voi, né a me, ma alla Chiesa: ad essa spettano le Chiavi ed il potere delle Chiavi. (Zwinglio, nella sua disputa con un Anabattista. Vedi Audin, Storia della vita di Lutero: .Milano 1812, vol. 1, p. 153.)

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (5)

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (5)

2. EdizioneEDITRICE A. V. E. ROMA – 1943

V. – Lo Stato

Che cosa è lo Stato? Per definire occorre rivolgersi, allorché si tratta di idee complesse, all’uso ed al buon senso comune, ma non sempre si conclude. Qui è il caso: nell’uso comune l’idea di Stato non è troppo definita. Esso è « la nazione organizzata », è « l’elemento reale rappresentativo della nazione », è l’una e l’altra cosa, è « il gestore della pubblica cosa », è « il complesso dell’autorità e dei suoi organi » o « il soggetto giuridico della sovranità » o, addirittura il governo. Evidentemente l’idea è dilatabile a seconda dei postulati filosofici o della superficialità con cui la si considera. Per chi ama il monismo idealistico, nell’idea di Stato entra tutto, nazione non esclusa, e questo tutto non è affatto articolabile in distinzioni precise. Ma non è il caso di arenarsi in questo margine di dilatabilità dell’idea. C’è pur qualcosa di indiscutibile in tutte le accezioni: lo Stato è quello che detiene ed usa dell’autorità, ne è il soggetto giuridico, contiene e rappresenta tutti gli interessi della comunità. Il rimanente non ci interessa, mentre stiamo per discutere quello che lo Stato può fare proprio a proposito dell’autorità. Nessun dubbio lo si debba concepire coma « ente morale o giuridico » ben distinto dalle persone fisiche che ne gestiscono la funzione sotto l’uno a l’altro titolo. governo. Tanto basta per individuare di chi si parli appresso; senza pericolo di equivocare sulle cavillazioni filosofiche e giuridiche. – Ma è perché qui si parla dello Stato? Come c’entra? È  esso che ha i primi doveri verso l’ordine sociale di cui è depositario: il rispetto alla persona, la soluzione dei problemi del lavoro, l’integrità dell’ordine giuridico dipendono dalla fisionomia che esso assume, dalla dottrina cui esso si informa.

1. – Il pensiero del Papa sullo Stato

Il continuo richiamo fatto nel Messaggio papale al diritto di natura è già di per sé una chiara indicazione sul pensiero del Pontefice intorno allo Stato: indica infatti donde si attinge. Ma ecco alcune affermazioni più specifiche e scultoree.

l) « Lo Stato e il suo potere » debbono essere « ricondotti al servizio della società, al pieno rispetto della persona umana e della sua operosità per il conseguimento dei suoi scopi eterni ». Dunque: lo Stato è per servire e completare la persona umana, inoltre la sua concezione ed impostazione è connessa col raggiungimento dell’ultimo fine dell’uomo. Cioè: lo Stato non è un fine, ma un mezzo, uno dei tanti mezzi.

b) Occorre « sperdere gli errori che tendono a deviare dal sentiero morale lo Stato e il suo potere e scioglierli dal vincolo eminentemente etico che li lega alla vita individuale e sociale, e a far loro rinnegare o ignorare praticamente l’essenziale dipendenza, che li unisce alla volontà del Creatore ». Dunque lo ‘Stato non è signore della legge morale obbiettiva, ma ne è suddito; dunque poiché la legge morale è quella del Creatore vale per lo Stato la norma che vale per l’individuo; dunque non ci sono due morali; dunque non esiste lo Stato etico indipendente. Machiavelli è servito.

c) Lo Stato « promuova il riconoscimento e la diffusione della verità che insegna anche nel campo terreno come il senso profondo e l’ultima morale universale legittimità del regnare è il servire ». Dunque lo Stato ha dei doveri anche verso la verità, quel complesso di verità, quell’ordine di verità che gli fa da inquadramento, da base e da titolo di legittimo uso del potere..

d) Finalmente esiste un « potere dello Stato » che impone una « servitù », detta tale e quindi condannata, allorché impone all’operaio « una dipendenza economica » analoga a quella « del prepotere del capitale »; quella « servitù » o « pressione » si ha quando « lo Stato tutto domina e regola l’intera vita pubblica e privata penetrando fin nel campo delle concezioni e persuasioni della coscienza ». Dunque rimane proscritto il socialismo di Stato, cosa del resto che il Papa affermò esplicitamente il 13 giugno 1943 nel celebre discorso tenuto agli operai. Ci accingiamo ora ad esporre quell’organismo logico nel quale diventa pienamente comprensibile il pensiero del Papa, raggiungendone la possibilità di un maggiore sviluppo in dettaglio.

2 – Come sorge lo Stato

Non si tratta qui di una questione storica, bensì filosofica. Vogliamo sapere cioè donde tragga quello per cui lo Stato vale, ossia la sua autorità. Giacché è di quella che ci interessa discorrere. Questa ricerca si impone, poiché tanto vale l’autorità e la legge in ordine a creare l’obbligazione morale, quanto vale la sorgente da cui deriva. Ed è questione di vita, per una società fatta d’uomini intelligenti, che esista l’obbligazione morale. Se non potessi giustificare con un principio valevole il comando di fronte alla mia coscienza, salvo il soggiacere alla violenza, avrei tutto il diritto di disobbedire e fare il comodo mio. Dunque, donde deriva l’autorità dello Stato?

Prima sorgente: la natura

Seguiamo un procedimento obbiettivo e non polemico. Esiste la natura e attraverso essa un diritto naturale. Ciò fu dimostrato (Cfr. cap. I). La natura esprime la volontà divina, contiene quindi una indicazione autorevole di norme, cioè crea un « diritto », quanto essa afferma e postula è tutelato dalla sanzione divina: al suo dettame è unita, proprio per la sua sorgente che è Dio, la piena obbligazione morale. Della natura noi consideriamo l’espressione massima: l’uomo. L’analisi di questo che cosa può rivelare?

L’uomo individuo

Quest’uomo ha un’autonomia, una personalità (Cfr. cap. II), ciò che gli assegna dei diritti. I quali, procedendo dalla natura, ossia da Dio autore di quella, limitano qualsivoglia altra iniziativa e capacità. Sono una legge. L’uomo ha inoltre per natura un complesso di istinti, i quali vanno considerati non in quanto possono farlo prevaricare moralmente, ma in quanto sono elementi perfettivi posti dalla sua stessa costituzione. Questi istinti sono una indicazione della volontà del Creatore.

La famiglia

Di tali istinti consideriamo quelli sociali. Sono diversi ed hanno sfumature svariatissime. Se noi teniamo conto di alcuni di essi, i più forti, li vediamo convergere

ad un punto preciso: la famiglia. L’uomo vi è portato come ad un suo complemento e perfezionamento. Sicché la famiglia è nettamente voluta dalla natura. L’analisi dei lineamenti naturali che vi giocano porta a determinare i rapporti che la legano e i diritti e doveri dei suoi membri. La famiglia dunque, come istituto di diritto naturale, ben definito, limita qualsiasi altra iniziativa: voluta da Dio e voluta così, bisogna rispettarla. Eccoci alla terza tappa.

La società

Ma non tutti gli istinti e le possibilità sociali che la natura ha assegnato all’uomo si esauriscono nella famiglia. Essa pur costituendo il nido più caldo, più sentito e più amato, non dà tutto all’uomo. Egli è spinto dai suoi stessi istinti naturali ad uscirne per incontrarsi cogli altri uomini, far incontrare famiglia con famiglia, iniziare su un piano più grande la dimestichezza ed i rapporti che non lo hanno esaurito e definitivamente completato nella sua famiglia. È ancora la natura, ossia Dio, che vuole quell’incontro e quella vita più ampia: da essa ridondano tutti gli istinti eccitatori della socievolezza nell’umanità. Quell’incontro dà origine alla società, che sorge allora come l’ultimo completamento terreno tanto dell’individuo che della famiglia; sorge per diritto divino: è lo sviluppo di un disegno riposto da Dio in seno alla natura.

L’autorità

Questa società non sorge vaga ed alla rinfusa. Gli elementi contenuti in natura ne determinano i profondi lineamenti fisionomici. Gli uomini sono istintivamente e cioè naturalmente portati ad una vita di relazione complessa di diritti e doveri, di coordinazioni, di complementi quindi di finalità e di subordinazioni. Ne nasce un ordine intero, che, trattandosi di esseri liberi ed intelligenti, legati e distinti ad un tempo da rapporti morali, deve essere moralmente unificato. Nasce da tutto ciò l’organizzazione sociale. Essa ha come fulcro, senza del quale non risponde alle esigenze tra esseri intelligenti e liberi, l’autorità. – Così anche questa sorge dalle esigenze chiaramente poste dalla natura dell’individuo: ossia anche essa è postulata dalla natura, quindi da Dio. È lui che, mediante la fisionomia impressa alle cose, ha notificato volere gli uomini fossero retti dall’autorità. Qui si comprende il valore del famoso effato: « Non est auctoritas nisi a Deo ».

La legge

L’autorità fa precetti, detta leggi. Che valore hanno? Poiché sorgono dall’autorità voluta tale dalla natura, ossia da Dio, il sottrarsi ad essi equivale alla violazione di un istituto divino. Dio autore dell’autorità è quegli che avalla, tutela la legge da essa proveniente in modo legittimo; con questo dà alla legge la sua più necessaria caratteristica: essa obbliga moralmente in coscienza. Ecco come sorge lo Stato, quanto a valore capace di imperare e porre dei diritti. Questa via è obbiettiva: non c’è che da analizzare quanto si vede; è unica poiché ogni altra via che non rimonti a Dio farebbe dello Stato un’istituzione di fatto e non di diritto, una istituzione incapace di obbligare in coscienza quindi moralmente nulla; né lo spiegherebbe, né lo sosterrebbe. Con ciò si ha la grande e vera religiosa concezione dell’autorità e dello Stato: la sola che incuta un sentimento di venerazione cosciente, quella però che porta altresì con sé, e chiaramente designati, i limiti del potere statale. Essa salva dai due spaventosi eccessi: quello dell’anarchia sprezzante e quello della tirannia opprimente, quello dello Stato puro funzionario e quello dello Stato totalitario. – Dona un trono e mette dei limiti: per uomini grandi nella loro natura occorre un’autorità di splendore divino; per gli stessi uomini dotati di libertà occorre che il comando non dilaghi oltre un inderogabile margine. Allora è l’equilibrio. D’ordine sociale non si salva rispettandone un elemento solo (alternativamente autorità e libertà), esso chiede l’integrità di tutti i suoi valori.

3. – I limiti dello Stato

Che lo Stato abbia pur esso dei limiti è stato sopra dimostrato. Continuando la pura deduzione logica dobbiamo ora determinare quali siano i limiti.

Primo limite; la legge divina

Se l’autorità dello Stato deriva da Dio mediante il diritto di natura, pena il non aver alcuna forza moralmente obbligante in coscienza, tanto può quanto Dio gli dà di fare. Ossia: ha un limite nella Volontà Divina, che appunto si esprime mediante la legge tanto naturale che rivelata. È ridicolo pensare che, derivando il suo valore proprio da Dio, possa mettersi contro Dio. Questa conclusione è gravissima per le conseguenze. Infatti non esiste allora per lo stato una amoralità: anch’esso è tenuto dalla legge morale. Neppure ha una legge diversa da quella da cui sono legati i singoli uomini: è innanzi a Dio nella stessa situazione di questi. Neppure ha elementi scusanti o espedienti di evasione dalla legge divina più di quanto ne abbiano gli individui; ciò significa non esistere affatto una cieca ragione di Stato in contrasto con la morale. Un’altra volta: Machiavelli è servito. Al contrario l’azione dello Stato deve essere contenuta ed ispirata dalla legge di Dio. Non è dunque illimitato, né a discrezione il campo della giurisdizione statale; non è ammissibile il « sit pro lege voluntas ». – La legge naturale diventa la cinta delimitante le competenze dello Stato e, siccome proprio essa impone doversi accettare una legge positiva rivelata da Dio, quando questa consti, tiene non meno lo Stato che i privati e diviene pur essa un altro limite alla libertà di iniziativa. – È innegabile che la dottrina dello Stato regge logicamente se connessa con Dio; ma, proprio in Lui, mostra col limite, il vindice, il criterio del dominio umano.

Secondo limite: le istituzioni di diritto naturale

Lo Stato sorge dalla comunità, dalla famiglia, dall’individuo. Questi dunque, famiglia ed individuo, sono anteriori logicamente e cronologicamente allo Stato. Non solo: essi sono posti, indipendentemente da quello, dalla legge di natura (si è visto), ossia dalla Volontà Divina. Da loro esistenza pertanto, la loro fisionomia, il complesso dei loro diritti, non sono più campo di arbitrio per parte dello Stato, che li deve rispettare. Essi costituiscono un limite per lo Stato, il quale non li può abolire, violare, manomettere, ridurre. – Il diritto di associazione fa parte del complesso dell’individuo sociale; lo Stato potrà, sì, moderarlo, ma non sopprimerlo. Tutte le libertà e tutti i diritti della persona e della famiglia potranno esser ulteriormente definiti dalla legge, ma non abrogati da quella. È proprio questo « limite » che assicura al mondo degli esseri razionali la sua bellezza e varietà, impedendo la riduzione di tutto al grigio denominatore comune. In realtà questo sopravvivere della persona e della famiglia nello Stato, impedisce che tutto diventi « numero », mentre mantiene inviolabili i volumi diversi da cui risulta l’architettura sociale. È con senso di liberazione che si pensa come lo Stato non può portar via i figli ai genitori, non metter il naso nelle faccende interne della famiglia, non stornar mariti, mogli e soprattutto la pace e la serenità domestica. Non è meno giocondo il saper che lo Stato non può ridurre il cittadino ad esser per sempre un militare mal riuscito od uno sguattero da coreografie o un eterno numero da comparsa, non gli può impedire di viver come crede, di iniziare ciò che vuole purché non contrario al bene comune, e, finalmente di associarsi, entro gli stessi limiti, con chi gli talenta. È soprattutto questo secondo « limite » che fa dello Stato una cosa umana, non spaventevole.

Il terzo limite: la complementarietà dello Stato

Lo Stato sorge — si è visto anche questo — perché  gli istinti sociali dell’uomo non sono esauriti e pienamente corrisposti nella famiglia. Sorge così per « compiere », ossia ha essenzialmente una funzione complementare\. In ciò sta un nuovo limite, perché il completare, esclude di natura sua il sostituire, lo schiacciare, l’asservire ed il distruggere. Sicché lo Stato non può fare nessuno di queste brutte cose. Ciò dal punto di vista negativo. Inoltre complementare include l’idea di « servizio reso » di « beneficio » di « dono ». Sicché — dal punto di vista positivo — lo Stato deve essere benefico, deve servire, deve esser paterno. E il dovere è sempre un limite alla propria indipendente iniziativa. – L’autorità deve avere il volto del padre. Complementare in che cosa? È facile vederlo: in tutto quello che l’individuo e la famiglia non possono avere da soli nel loro sviluppo, nei loro rapporti vicendevoli e colla società, nei loro doveri, nella necessità di concorrere equamente al bene comune coll’armonia della legge. Il completamento diviene secondo i casi: tutela giuridica, stimolo, iniziativa, assistenza, intervento paciere, moderazione dell’armonia, remora energica, necessario, moderato e ragionevole controllo, uso della potestà coattiva, condanna, amministrazione e cura del patrimonio comune. – Tutte le iniziative dello Stato debbono essere ispirate, giudicate ed, occorrendo, respinte da questo criterio. Lo Stato non può mirare alla guerra per la guerra, che questa, se non è dura necessità imposta, non completa nessuno e rovina tutti. – La complementarità dello Stato, toglie ad esso la fisionomia dell’odioso dominio, dell’asservimento a qualche utile privato, dello sfruttamento personalistico.

I poteri dello Stato

È proprio la complementarità dello Stato quella che ne determina le capacità. I diritti si estendono tanto quanto i doveri; lo Stato « può » dunque, tutto quello che occorre per adempiere quanto « deve ». In altri termini lo Stato ha i diritti che occorrono per provvedere al bene comune. Ciò che è soprattutto notevole, è il fatto per cui il diritto gli discende dalla sua complementarità, questa gli è donata dal diritto di natura, quindi da Dio. È dunque per diritto divino che lo Stato può procedere a quanto richiede il bene comune. In nome di esso, e soltanto quanto e per quanto esso lo richiede, lo Stato può limitare i diritti della persona e della famiglia, p. es. quello di dominio. È solo un diritto divino che può inibire un altro diritto parimenti divino. Qui si ha il principio per risolvere una grave questione. È possibile socializzare determinate industrie aggiudicandone la proprietà allo Stato, dopo averle sottratte ai privati cittadini? Se si tratta di trasferimento di proprietà effettuato nelle solite e legittime forme, niente da dire. Ma se si tratta di forzata sottrazione ed esclusiva gestione il giudizio è ben diverso; non è intatti consentito per sé allo Stato di limitare arbitrariamente diritti e di ridurre la capacità di iniziativa dei cittadini, imponendo settori proibiti ed inibiti a questi. Però tutto diventa lecito nella misura in cui è necessario per il bene comune. Non di più. Il rimedio è però estremamente pericoloso e se si intende combattere efficacemente l’esagerazione capitalistica è più saggio, finché si può, battere altre vie. Di queste si è a suo tempo parlato. Nessuno nega che in tempi ed in circostanze eccezionali occorrano rimedi parimenti eccezionali; ma questi non possono essere suggeriti da manie innovatrici, da sfoghi puramente reazionari o da cerebralità ingenue.

Questi limiti escludono il socialismo di Stato

Il socialismo di Stato può essere anche molto annacquato, ma mantiene più o meno il suggello d’origine. Nella sua applicazione pura lo Stato o chi per esso (con qualunque palliativo nome lo si chiami) viene ad assorbire un complesso di diritti che la legge naturale assegna alle persone individue, alle famiglie ed alle consociazioni minori: proprietà e gestione dei mezzi di produzione, iniziativa. Il tutto magari per sottrarlo a veri e presunti dilapidatori capitalistici. L’assorbimento di quei tre diritti implica l’incameramento logico o di altri diritti connessi, poiché l’uomo è troppo legato con i beni soggetti alla proprietà cui aspira, è troppo necessario ai mezzi della produzione che senza di esso sono inerti, è troppo competitore sul terreno dell’iniziativa. Rimane cioè, sia pure per opposte ragioni, così legato all’esercizio di quei tre diritti che ne è trascinato, sicché incamerati quelli è incamerato pur lui, ossia la sua persona, la sua dignità, la sua libertà. Ineluttabilmente. Con tale prestigiosa ingestione lo Stato diventa pletorico ed onnipotente a danno di coloro cui dovrebbe invece servire e con tutte le conseguenze che già abbiamo studiato nei capitoli sulla personalità e sul lavoro. Ma non meno chiaro è che in tal caso i tre limiti posti dalla natura al suo potere sono perfettamente violati. Il che equivale a dire che quei diritti appunto e la forza a loro derivante dall’altissima ed evidente origine lo condannano e lo escludono. – Tale asserto equivale ancora ad un altro: il socialismo di Stato è innaturale; innestato sull’uomo, che non cambia, entra in contrasto con lui e prima fa di questo una vittima; poi il logorio sotterraneo svuota lo Stato. La nostra età ha ormai assistito ad esuberanza al progressivo e già totale svuotarsi di regimi innaturali. Che in questa rispondenza alla natura sta il segreto di ogni solidità politica e sociale. – Ciò vale per il socialismo di Stato assoluto, ma non si creda di poter avallare gli annacquamenti, ossia le forme di socialismo moderato.

Le facili illusioni

Infatti i contemperamenti sono sempre più o meno dettati da ragioni estrinseche, mentre rimane il fondamentale motivo ispiratore. Il quale è il materialismo, negazione dell’anima umana e di quanto le è connesso: spiritualità, moralità, libertà. Per il materialismo l’uomo non è spirito, quindi non è persona, dato che la persona è l’autonomia razionale; non ha libertà perché la libertà è solo in una potenza spirituale. – L’uomo è sostanzialmente e semplicemente un tubo digerente. Nel socialismo temperato queste cose forse neppure si dicono, ma rimangono contenute sempre nel principio ispiratore. Di là possono sempre svolgersi, intese alle ultime e logiche conseguenze. Si parlerà di libertà e di proprietà, magari d’altre cose: il tutto si tollererà e concederà non per una ragione intrinseca, bensì in contraddizione colla logica dei principi e per un opportunismo politico o tattico. In realtà il socialismo tollerante è illogico. La facile illusione sta nel non vedere che cosa si nasconde sotto opportune ed abili manovre di adattamento, nelle quali si troverà modo di assicurare ai pavidi borghesi che la proprietà privata resta, agli uomini dabbene che la libertà è salva, ai creduli cattolici che la religione continua ad accogliere rispetto. Ma con tutto questo, si dica o non si dica in buona fede, lo Stato rimane un perenne attentato al diritto di natura ed alle sue istituzioni fondamentali.

4 – Giudizio sul comunismo

Il comunismo è l’estrema logica espressione del socialismo. Esso posto il suo principio materialistico deve negare coll’anima la persona, la sua autonomia la proprietà, la libertà, ogni elemento della vita spirituale, quindi la morale e la religione. Se su uno di questi punti finge di ritirarsi, mente a se stesso ed a più forte ragione mente agli altri. Che cosa se ne debba pensare di fronte alla coscienza umana e cristiana si è visto nei capitoli precedenti, in cui appunto furono dimostrati i valori che esso impugna. Si tratta di una dottrina filosofica negatrice dell’umanità, che per farsi accogliere si ammanta di umanità, coscrivendo sotto questa insegna la fede e l’entusiasmo di molti uomini onesti. Il comunismo ha una zona reale e profonda: è quella che abbiamo descritta or ora; un’altra superficiale ed è la volontà di stabilire la supremazia ed il benessere del proletariato. La povera gente crede a questa volontà di giustizia sociale e vi si affida, non avvertendo come invece si fa toglier la dignità e molto della possibilità di salire a situazioni migliori, succuba di uno Stato innaturale e poliziesco. Di questo e della logicità con cui s’arriva a questo si è detto nei capitoli sulla personalità, sul lavoro e sull’ordine giuridico. Qui dobbiamo fermarci su alcune gravi considerazioni.

L’applicazione storica del comunismo

Anzitutto il comunismo nel senso pieno non si è avverato mai, il che dimostra la sua natura utopistica ed irreale, poiché, dove il tentativo fu fatto, nulla mancò alla sua totale attuazione. Dove in qualche modo fu dichiaratamente assunto per norma di regime è già andato incontro a mutazioni e svuotamenti progressivi. Il cammino fu compiuto, da un certo punto in poi in senso abbastanza contrario alla sua totale realizzazione. Il che conferma il suo carattere di innaturalità. La proprietà è parzialmente rientrata, la politica religiosa e nazionalista ha subito variazioni, alcuni difetti dell’aborrito capitalismo (sperequazioni, favoritismi, ghenghe, accentramenti personalistici soprattutto) hanno fatto la ricomparsa; la guerra è divenuta una meta principale, il popolo, escluso in gran parte dal partito unico e dominante, è libero a parole, in realtà serve, senza alcun decoro della sua pretesa sovranità. I poveri con poche variazioni son rimasti poveri, i deboli vigliacchi, gli arruffoni e gli arrivisti si sono fatti strada, gli ossequi aulici a qualche gran personaggio hanno di gran lunga sorpassato le smancerie solite in tempi monarchici, le congiure di palazzo e le repressioni feroci hanno drammatizzato la stanchezza di situazioni false. Lo Stato comunista è diventato per necessità totalitario e poliziesco. Quelli che sotto etichette inverse hanno già fatto esperienza di totalitarismo e di polizia dovrebbero essere ormai ben edotti. La innaturalità o non consonanza colla obbiettiva natura è di per se legata (fu già dimostrato) con quei due effetti, avvenga essa sotto l’una o l’altra etichetta.

L’inganno del comunismo economico

Oggi si parla molto di puro comunismo economico. Attenzione: questo è il cavallo di Troia! Infatti: vorrebbe applicare i suoi sistemi unicamente nel settore economico, collettivizzando per regolare il flusso della ricchezza, inibire il capitalismo, assicurare una giustizia e soprattutto potenziare al massimo lo sviluppo dell’industria. Non si occuperebbe di vita privata, di coscienza, di famiglia e di religione. Ciò è vero a parole. Il fatto solo di accentrare mezzi di produzione e capacità finanziarie nelle mani dello Stato, strapperebbe alla persona umana una gran parte della sua iniziativa. L’operaio più che del salario ha bisogno di pensare che forse lui o i suoi figli potranno un giorno salire ad una condizione superiore. Sopprimere queste « superiori posizioni » è togliergli il respiro più necessario alla sua speranza ed alla sua gioia. Ma c’è ben altro. L’uomo è talmente legato e talmente necessario alla macchina economica, che quando questa è organizzata sia pur solo nel settore produttivo secondo i princìpi del puro socialismo, egli ne è travolto. Lo abbiamo già visto. Sicché il comunismo che con l’appellativo di « economico » sembrerebbe aver l’aria di non voler violare la persona, di fatto se la asserve e la asserve alla macchina, l’asserve al rigido principio della immutabilità del suo sistema sul quale veglia il plotone di esecuzione; finisce allora col combattere anche la Religione, che gliene contesta il dominio dell’anima e dell’intelligenza. – Gli elementi della vita sociale sono così connessi che, lasciandone uno solo nell’alone di una ideologia mala, trascina a poco a poco il rimanente nella sua stessa direzione. Quelli che pensano facile ed onesto compromesso l’accedere al puro comunismo economico nella speranza di salvare il rimanente, sbagliano. Dietro al comunismo economico verrà il totalitarismo. Ciò, lo ripetiamo, è logico. Questi sistemi sorgono sempre da un partito, mai dalla massa per generazione spontanea. Per riuscire hanno bisogno di un « conformismo » che è difficile. Ciò induce un sistema di rigidità esterna, magari di violenza e di terrore. Tutto deve essere cintato perché nessuno fugga. Ecco l’assorbimento totalitario. Quando decade, la linea della natura, non c’è che da sostituire la forza. È essenziale che tutti s’accorgano di questo sviluppo fatale. Col comunismo economico entra nelle città del mondo il comunismo più o meno integrale. Alla chetichella; come nel cavallo di Troia! De presentazioni raddolcite che fanno molti moderni comunisti devono essere riguardate o come una senilità del sistema che risente degli svuotamenti subiti in qualche esperienza, oppure vanno ritenuti una manovra preparatoria e subdola. Quali delle due interpretazioni sarà prevalentemente vera? Ci riesce molto difficile il dirlo. Con ciò abbiamo coscienza di aver valutato il comunismo economico sotto un aspetto solo. Certo si tratta dell’aspetto principale, di quello « umano » e « morale ». Una condanna in questa sede non ammette appello anche se vi fossero dei vantaggi dal punto di vista strettamente economico, poiché tra l’uomo-persona e le cose noi dobbiamo decisamente stare per l’uomo (vedi cap. II). Meglio questo salvo, che un accresciuto potenziale di industria. Ma è poi vero che il comunismo economico dà in questo settore economico un vantaggio? Nessuno vorrà negare che l’esperienza comunista abbia insegnato qualcosa di cui occorre tener conto. Ciò però non basta a far dare in sede economica un giudizio complessivamente buono sull’intero sistema. – Ammettiamo pure di non possedere, ora soprattutto nell’arrossata psicologia di guerra, tutti gli elementi statistici assoluti e soprattutto comparativi (è proprio il dato relativo che qui da troppi si dimentica) per emettere in merito dei giudizi dettagliati e perentori. È tuttora lecito dubitare del valore economico di questo sistema, pur riconoscendo qualche filone puro nella ghenga, e la possibilità di qualche maggiore immediato risultato in certe circostanze. Infatti la più che relativa riuscita del comunismo in economia è legata alla rigidità sociale per cui viene eliminato ogni attrito disturbatore, e per cui senza la iniziativa privata, si realizza la colossalità dell’impresa. Finalmente l’abolizione della concorrenza e, della « resistenza » privata nella stessa rigida disciplina rappresentano un minimizzare le dispersioni ed un accelerare l’organizzazione. – Riteniamo bene: eliminazioni di attriti, colossalità nell’impresa, abolizione di concorrenza e di resistenza privata, diminuzione delle dispersioni e celerità di organismo dipendono da un punto solo di cui bisogna valutare il prezzo di fronte alla resa: rigida, macchinosa ed assolutistica disciplina sociale. Prima di valutare il prezzo riconosciamo che qualunque economia non comunista potrà utilmente riflettere su tali elementi per cavarne utili ritocchi a se. – Ora valutiamo bene il prezzo con cui tutto questo si compera nel sistema comunista. La rigida disciplina, causa ultima e vera, significa la caserma imposta a tutto un popolo; forse la bella, ma ignobile caserma, la prigione,. Nessun uomo normale, nessun popolo, nella sua ordinaria vita e fuori del momento d’eccitazione misticoide, desidera o può desiderare una gabbia d’oro. Neppure gli uccelli la amano. Siamo al punto: si tratta di scegliere tra l’uomo e qualche ipotetico guadagno materiale. Il prezzo è troppo alto. E tuttavia è illusorio quello che si compera. Infatti: caserma, prigione, poiché l’uomo non muore mai definitivamente nel senso della sua dignità, libertà e felicità, significano in un secondo momento al più tardi la rivolta psicologica. La rivolta psicologica contrae la capacità, intossica, sclerotizza, avvelena proprio l’elemento dal quale, ad onta della colossalità della macchina, la macchina stessa trae il suo primo necessario potenziale: uomo. Allora la meravigliosa organizzazione, la sesquipedale struttura è colpita nei suoi organi e nei suoi tessuti costitutivi; il gigante possente dà segni di malessere, i suoi sbandamenti suscitano e subiscono reazioni politiche, rotazioni di mentalità, tremendi disagi ed infine arresti mortali o marasmi non meno fatali. – Se l’uomo d’addormentasse, quella macchina progredirebbe forse indisturbata; ma l’uomo non s’addormenta. Quando la grande macchina dai mirabili ingranaggi diventa sua nemica egli diventa il nemico della macchina. Nella lotta l’uomo è il più forte. In altri termini, se pur c’è qualche vantaggio economico nel comunismo, questo vantaggio è effimero, chimerico e fatalmente cozza contro una resistenza di natura che finisce col neutralizzarlo e trascinarlo in perdita. Il comunismo economico e tutti coloro che ne sono invasati fanno i conti senza l’oste. – Non basta ancora, sebbene gli elementi per la scelta risultino ormai evidenti. Fin qui abbiamo pur dato e non del tutto concesso, il qualche temporaneo valore della colossale macchina comunista, negli elementi cioè sopra enumerati. Ma è poi reale questo, anche ridotto valore, o non è piuttosto frutto di considerazioni unilaterali? Osserviamo: quei tali elementi rappresentano proprio un bene assoluto nel quadro complessivo del benessere umano e della civiltà? Non lo parrebbe. La eliminazione degli attriti non rappresenta forse anche la morte dell’iniziativa, della volontà costruttiva? Il mondo ha certo più bisogno di questa che di qualche fabbrica e di qualche magazzeno di più. La colossalità dell’impresa non può forse essere ottenuta diversamente (vedi ad esempio l’economia americana) senza schiacciare nessuno e, d’altra parte, è proprio desiderabile che in un mondo fatto di cose grandi e piccole, dove talvolta le piccole hanno più forza delle grandi, sia proprio tutto colossale? La natura sempre e solo colossale sarebbe estremamente brutta. Forse che l’uomo può sottrarsi a quella indicazione che lo incontrerà sempre fintantoché è uomo? Del resto la colossalità non è pane pei piccoli denti: è inutile parlarne come di cosa ordinaria pei paesi poveri, ai quali sarà sempre impossibile concorrere con la grande industria straniera. – La concorrenza può senza dubbio esagerare, ma non è forse uno dei più potenti stimoli umani alla azione, una dei più sicuri motivi dell’ingegno, una fatela, una legge di equilibrio? La concorrenza è in se stessa una, fremito di vita e, se val la pena dedicare una grande parte dell’industria per apportare un nuovo comodo alla vita, varrà anche più la pena sacrificarne qualche piccolo incremento per non strapparle il fremito della stessa vita. È questione di aver del mondo un’idea umana. Le « resistenze » private, se possono esser da una parte un peso, dall’altra significano il gioco di molte responsabilità, di molti ingegni, di molti interessi stimolanti l’azione. Se hanno come tutte le cose umane il loro lato meno brillante, sono esattamente l’opposto, di quella facile morta gora in cui agisce l’anonimo senza controllo, trionfa la burocrazia e può allignare l’incoscienza: cose tutte facili dove è responsabile soltanto lo Stato o qualcosa di simile. Ciò fa vedere essere ben problematico il parlar con serietà assoluta di diminuzione delle dispersioni e di celerità di organismo in un’economia comunista. È certo questo: che il polmone libero e senza pesi respira meglio e permette il fluire d’una vita più sana e più intensa. Le lodi che non possono essere tributate al comunismo economico per il suo fondamentale antagonismo al diritto di natura e per le fatalità sociali che seco porta, non pare gli possano essere rivolte seriamente neppure sul pretto terreno economico: appare esattamente il contrario. Quando la revisione di una tale esperienza storica potrà farsi con più serena informazione, tutto ciò — crediamo — apparirà in maggior luce. In fondo, a guardarci bene, l’economia comunista è uno sforzo da barbari, non una nobile equilibrata fatica da uomini, è un parossismo, non una civiltà. E questo basterebbe: l’interesse materiale vi è criterio e meta per tutto, sostituisce delittuosamente tutto: lo spirito vi muore. Le cose materiali non sorridono più. Ciò è tetro, è spaventevole!

Stato comunista e Cristianesimo

Questi due estremi sono inconciliabili. Nell’ordine dei princìpi il materialismo dell’uno, lo spiritualismo dell’altro scavano un abisso incolmabile. Nel campo delle applicazioni, magari più temperate, il riverbero dei princìpi mantiene non solo la diffidenza, ma pone ancora un antagonismo irriducibile. Il comunismo economico, a meno non sia talmente epurato da non rimaner più tale, sia a guardarlo come manovra preparatoria, sia a rilevarne i contrasti col diritto di natura, non può venire accettato dalla coscienza cattolica. Sappiamo che taluni suoi lati danno a qualcuno le vertigini; ma sappiamo altresì che in stato di vertigini si stravede e si sragiona. La utilizzazione dei buoni elementi messi in rilievo dall’esperienza comunista è altra questione, sulla quale ogni mente equilibrata mai avrà dubbi: il bene lo si prende dovunque lo si trova. – Non c’è dubbio che il sistema sociale economico del mondo e in modo speciale di talune nazioni subirà dopo l’immane conflitto rotazioni profonde. Ma è troppo corrivo il credere alla ineluttabilità del comunismo. Questa sarebbe una fuga precoce né seria, né onorevole. Ragioniamo. Il comunismo ha torto ed ha delle gravi crepe. Tutto sta che l’opinione pubblica, fuori di ogni incantesimo misticoide e d’ogni reazione forsennata, ne prenda cognizione, se ne investa in funzione critica. Osserviamo panoramicamente questo bilancio conclusivo.

Le grandi crepe dello Stato comunista

Non parliamo più delle grandi dottrine cattoliche sulla spiritualità, sulla personalità, sul diritto di natura, sulla proprietà, sulla società, dottrine che evidentemente condannano il comunismo. Ecco quello che ora ognun può vedere.

a) Il comunismo è innaturale. Ciò significa la posizione prima e poi disagiata con tutte le conseguenze di Stato poliziesco, repressione, ecc.

b) Il comunismo è tetro. Toglie la varietà al mondo, distrugge i piani cui può puntare l’ascesa ed i suoi sogni; per mantenere il suo apparato industriale deve sacrificare l’uomo e condannarlo a fare il collegiale per tutta la vita. Iniziativa, emulazione, audacia, come patrimonio di tutti, sono votati al decadimento ed alla morte. Il mondo dello spirito e le sue consolazioni sono chiusi al pari del cielo. La libertà deve sacrificarsi alla gran macchina.

c) Il comunismo essendo innaturale non può contare (come già fu detto) sulla cospirazione costante e libera delle volontà: diventa dunque di necessità totalitario, al fine di presidiare e inibire tutto, e poi assolutistico.

d) Il comunismo se lo si osserva bene è piuttosto una, e non felice, soluzione industriale che non una soluzione sociale, poiché l’uomo vi fa tutte le spese a vantaggio della gran macchina e non vi ha nessun guadagno. Ciò è evidente nella comparazione tra quello che al lavoratore dà Marx e quello che dà Cristo. Per Cristo il lavoratore ha tutto: giustizia, salario, personalità, amore, possibilità anche materialmente di ascendere a situazioni economiche e sociali migliori, tutela contro l’assolutismo e lo Stato anonimo; Marx al lavoratore in realtà toglie tutto, togliendogli l’anima e di conseguenza la libertà vera e la personalità, trasferendo il primato ad un ordinamento esteriore all’uomo, anche se è animato da pietà per il proletario. Per Cristo l’uomo è uomo; per Marx è semplicemente un tubo digerente, cui si deve dare del pane e verso il quale non si hanno obblighi di doni spirituali. In Cristo il lavoratore può avere una vita indipendente e può variarla; in Marx il lavoratore viene cristallizzato al servizio del proletariato e della sua macchina nell’obbedienza all’interesse di un tutto anonimo e panteistico. Per Cristo non è solo il lavoratore, c’è tutto il vario e fecondo respiro della civiltà; per Marx la società si riduce a questa monotonia esasperante, la monotonia della materia senza sorriso e senza vita. Cristo fa un mondo di cose profonde e di rispondenza profonda alle vibrazioni dell’anima umana; Marx fa un mondo superficiale dove l’anima neppure ha la cittadinanza. La bontà e l’amore esulano dalla macchina tetra e spaventevole mentre l’uomo li invoca soprattutto. Senza Dio, chi proteggerà il lavoratore contro lo Stato, contro la piovra di un’organizzazione che lo avvinghia, contro l’ideologia che lo riguarda un semplice pezzo di macchina? Il comunismo ha un dramma intimo e terribile. La sua idea è così quale l’abbiamo descritta, fredda, calcolatrice, atea, senza cuore, con una logica spaventosa; i suoi uomini, che rimangono tali, sono mossi spesso, forse nella maggior parte dei casi, da un sentimento umano ed onesto, buono e benefico in pieno contrasto con l’idea, illogico di fronte all’idea. Allorché questo prevale, si hanno le mostruosità fatte magari col cuore a pezzi e chiusi a forza in una ingessatura misticoide a difesa contro gli stessi umani sentimenti erompenti dall’anima; quando prevale l’umanità, in verità non è più il comunismo che agisce, ma un’altra cosa, rimane però l’inganno per cui ad esso si attribuisce il merito indebito. Questo dramma diventa così equivoco, che l’ignoranza e il pregiudizio spingono all’errore fatale. Il comunismo comunque lo si annacqui, riduce l’uomo a meno della metà e il mondo ad una questione di stomaco. Dio ha creato il mondo giardino, il comunismo lo fa deserto. Non è per questa via che si risolvono le ingiustizie; non è per questa via che il lavoratore avrà il suo bene.

Conclusione

Lo Stato ha pur esso una legge da Dio: essa sola lo preserva dall’ingiustizia; ha da Dio dei limiti, questi soli lo preservano dalla tirannia; ha nella verità sull’uomo e sulla vita illuminata in Cristo il senso giusto della sua finalità, quindi dei suoi doveri e dei suoi criteri. Lo Stato non è un automa, si concreta in uomini; come questi che lo gestiscono non può essere né agnostico, né scettico, né ladro, né peccatore. Come questi è debole ed ha bisogno della luce, del consiglio e, soprattutto, della grazia di Dio. Non è divino, non è infallibile, non è supremo, non è impassibile, non è immobile, è come tutte le cose umane una grandezza ed una miseria a seconda dei casi. La via della sua grandezza è quella per cui passò l’Unico che fu Grande: servire!

VI. – Rilievi e conclusioni

Ci siamo fin qui accompagnati meditando, coll’augusta parola del Messaggio papale 1942. A questo punto occorre rilevare, sottolineare, applicare, giacché la trattazione dei puri princìpi può talvolta far supporre si rimanga lontani dalla realtà. Ormai ci appare chiaro: il punto a cui bisogna rifarsi per giudicare, assumere, rigettare e costruire è la natura obbiettiva, il diritto naturale. Esso non è una opinione. Qualunque idea e sistemazione che urti contro questo criterio sarà sempre falsa, dannosa, effimera. È necessario volgersi all’uomo come è, al mondo come è, al flusso delle cose e dei rapporti come sono, senza pregiudizi, senza unilateralità, senza miopie e senza interessi particolaristici. Non è e non sarà mai questione di guardare al cielo se mai ne scenda qualche prodigioso segnale o a qualche grande uomo perché distilli i suoi personali elucubrati, ma semplicemente, piamente, umilmente ricercare l’indicazione che le cose, tutte le cose, in tutti gli aspetti danno. In questo occorre evitare soprattutto l’unilateralità; se io vedo un elemento e annullo gli altri la mia conclusione è falsa. Noi abbiamo visti parecchi dettami di questo diritto naturale, li abbiamo anche applicati. Naturalmente molti sono spinti a guardare ed a scegliere tra i diversi orientamenti politici e sociali che hanno avuto od hanno un’importanza storica. Il criterio per giudicarne è quello esposto sopra: sono accettabili in quanto hanno coerenza col diritto naturale obbiettivo; sono da condannarsi in quanto se ne allontanano. Misuriamo dunque su questo criterio. Le correnti liberali hanno eccellenti punti di vista, ma sono affette da manchevolezze gravi. Esse curano qualcosa e trascurano troppo. Dell’uomo e sue questioni l’interessano solo certi aspetti; per il rimanente, pur necessario e compromettente, pur salutare o fatale nel gioco dei fatti, non hanno sollecitudini e soluzioni. Di più peccano di eccessivo ottimismo: credono che le forze immanenti nell’economia, nelle masse agiscano da sé equilibrandosi ad un certo punto automaticamente (lasciar fare). Ora ciò è falso perché quelle forze non sono puramente tali per avere un percorso prestabilito e ragionevolmente finalistico; sono in gran parte libere e per questa libertà non possono dare mai un vero e serio affidamento di automatico equilibrio. In verità nulla va bene tra gli uomini lasciando vada da sé. Il peccato del liberalismo è di credere ad un uomo ed ad un mondo o ad una specie di ordine prestabilito che di fatto non esiste. Non è in regola, per questa parte, colla natura. Di qui i suoi numerosi guai e le sue fatali reazioni. Le correnti socialiste dalle più temperate alle più estreme sono già state lumeggiate: esse più o meno peccano contro la natura e contro il suo diritto, pur mescolando ai princìpi materialistici molti e degni propositi umanitari e pur convogliando spesso nei loro uomini eccellenti e rettissime energie morali. I termini « radicale » e « democratico » possono non avere alcun significato e possono essere sposati con tutti i significati accompagnandosi a tutta la gamma liberale e socialista. Non si giudicano quindi per sé, ma dall’epesegetico che vi è aggiunto, il quale li fa ricadere nel raggio delle tendenze suddette. Le tendenze nazionaliste esagerate, peccano contro il naturale senso di solidarietà che è in tutto il genere umano ed in genere poggiano sulla aggressività, sui sogni troppo grandiosi e sul fanatismo. Più che correnti sociali, sono politiche; anzi sono talmente tali, da dimenticare per lo più le questioni sociali e da pascersi più delle faccende esterne che non occuparsi delle esigenze intime. Sono più movimenti, che non correnti ideologiche. Per il loro tono prevalentemente agonistico, polemico e sognatore sono da guardarsi con diffidenza. Il nazionalismo giusto non è un partito, è una dote che ogni partito può avere e forse deve avere. Le correnti razziste partono talmente da un presupposto falso sulla pretesa diversità tra i popoli, hanno un principio così materialista, vantano una morale così invertita, da essere non per un solo motivo perfettamente innaturali. – Tutte queste correnti sono delle filosofie applicate alla vita, ossia sono delle interpretazioni soggettive applicate alla realtà. Ciò non ha senso come abbiamo già avvertito. In fondo tutti questi sistemi procedono così: io penso l’uomo e il mondo a questo modo e o agisco o organizzo di conseguenza o cambio l’uno e l’altro per ridurli secondo la mia idea. La prima conclusione è stolta perché se il mio modo di concepire le cose non combacia colla obbiettiva realtà io non faccio che un contrasto per lo meno inutile e forse rovinoso con quella. La seconda conclusione è anche più stolta: né l’uomo né il mondo si cambiano con l’artificio. Di filosofia applicata alla politica ed alla sociologia non ve ne può essere che una: quella del buon senso umano, quella intonata alla natura delle cose e a tutte le sue vere esigenze. La politica non deve creare il mondo lo deve semplicemente governare ed amministrare. Per questo solo logici dei partiti amministrativi, non sono affatto logici dei partiti a sfondo filosofico e con peregrine concezioni della vita. Per un popolo è sempre segno della più alta maturità il passare da questi a quelli. – Le vere soluzioni politiche e sociali si trovano — ormai lo sappiamo — nel solco del diritto di natura. Questo diritto di natura puro ed inviolato ha avuto un patrono ed un difensore integerrimo nel Cristianesimo, che l’ha assunto completamente, innalzandolo e completandolo con le massime della morale evangelica. Sicché, se le buone soluzioni possono essere, per sé, trovate anche fuori del Cristianesimo su una base naturale che è patrimonio comune, in pratica ciò è ben difficile oltre la dottrina sociale garantita dalla Tradizione cristiana. La soluzione va cercata qui. Il Papa nel suo Messaggio ce ne ha dato gli elementi. La eliminazione che di sua forza ci ha portato a questa conclusione va accettata e difesa con coraggio e con fiducia, integralmente. Non è detto che tutti i cattolici possano dirsi nella loro attività politica, interpreti sicuri e perfetti della tradizione sociale cristiana: lo saranno quanto più la loro azione sarà illuminata dal Magistero della Chiesa, dal pensiero teologico, filosofico e giuridico del Cristianesimo. La soluzione cristiana di cui sulla scorta del Messaggio papale, sono stati qui abbozzati gli elementi, è coerente alla natura, evita gli estremi unilaterali, salva l’uomo senza sacrificare alla sua dignità, né la società, né il progresso, né le giuste evoluzioni reclamate dai tempi. Per l’avvenire molti si affannano a stilare programmi. Non sarà inutile ricordare qui alcuni criteri. I programmi deducono i princìpi alle applicazioni ed ai dettagli, organizzando quelle e questi secondo una accorta rispondenza alle esigenze dei tempi.

a) Nessun dubbio quindi che vadano redatti con assoluta fedeltà ai princìpi. Ciò esclude nel modo più categorico che abbiano ad accogliere elementi dubbi e forse inconsiderati, unicamente per entrare in concorrenza con estremisti o per presentare offe simpatiche alle masse. No, i programmi debbono avere tanta sincerità quanta ne debbono avere gli uomini.

b) Per quello che toccano del campo tecnico, devono emergere dalle considerazioni condotte con metodo rigorosamente scientifico. Nella tecnica della finanza, dell’economia, della stessa questione sociale, nessuno si improvvisa e nulla è pili deleterio di chi dalla sua incompetenza stila direttive in merito. Bisogna anche avvertire che il dato puramente ed obbiettivamente tecnico è frutto, anche se è coscienzioso, di una considerazione particolare e va pertanto sempre illuminato ed eventualmente completato dall’universale prestanza dei grandi princìpi. Come non basta il puro teorico, neppur è sufficiente il puro tecnico: l’uno e l’altro possono essere per opposti motivi fuori della verità.

c) Quelli che studiano a comporre programmi devono ricordare che i tempi si legano e non si oppongono. È falso credere che o tutto il nuovo o tutto il vecchio sia perfettamente buono. Chi oggi credesse di non dover tener alcun conto né della esperienza comunista, né di quella opposta sarebbe lontano dal vero. Un quarto o un quinto di secolo non passano mai indarno ed anche i tentativi falliti contengono elementi preziosi ed utili. Un ritorno puro e semplice al passato costituirebbe un regresso. Le diverse esperienze sociali e politiche deh nostro secolo hanno sottolineato qualcosa, hanno messo in evidenza aspetti quasi ignorati, hanno prospettato metodi, espedienti e risorse che non possono venir senz’altro gettati via. Anche se non è giunta l’ora della serenità e quindi della visibilità perfetta per estrarre il filone d’oro dalla ghenga, è d’uopo mettersi onestamente al lavoro in questo senso, senza rispetti umani e con coraggio.

d) Il valore utile dei programmi è dato dalla intuizione con cui, degli elementi compatibili coi princìpi, sanno presentare chiaramente, brevemente e plasticamente quello che è insieme più importante, più rispondente alle condizioni psicologiche, più dettagliato, concreto, immediato ed attuabile. La rispondenza alla psicologia, ai bisogni; la semplicità intuitiva del mezzo per raggiungere un fine voluto, dà ragione del trionfo. Astruserie, lungaggini, elementi vaghi e generici sono la rovina dei programmi anche semplici per contenuto e per sante intenzioni. Un programma serio non può esimersi dal presentare i più gravi e semplici provvedimenti legislativi ed amministrativi che ha in postulato. Le grandi guerre lasciano tracce tremende. Quella che grava su di noi è frutto di una situazione immorale. È ingiusto si incolpino esclusivamente uomini e regimi: tutti gli uomini sono peccatori e colpevoli. Al fondo di ogni questione esaminata appare il suo nucleo morale. – La vera soluzione è la restaurazione di tutto in Cristo. È terribile la responsabilità di quelli che o lo portano agli uomini o sono un velo sulla Sua faccia sicché non sia visto! Un’altra volta la Chiesa deve curvarsi sulla civiltà nell’atteggiamento del buon Samaritano!

F I N E

IL SACRO CUORE DI GESÙ (39)

IL SACRO CUORE (39)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE SECONDA.

Spiegazioni dottrinali. (3)

CAPITOLO VII.

OGGETTO PER ESTENSIONE: L’INTERIORE DI GESÙ

Il cuore di Gesù, emblema del suo amore, ci ricorda, nello stesso tempo, tutto l’essere intimo di Gesù: la vita del suo cuore, le sue virtù, ecc. — Da qui viene una prima estensione della divozione.

Una prima serie di divergenze, nelle spiegazioni di alcuni autori, ci hanno permesso di meglio spiegarci i due elementi essenziali della divozione al sacro Cuore, l’amore e il cuore, il cuore amante e l’amore del cuore. Ma la questione si presenta ora sotto un altro aspetto. È l’amore o, almeno, è unicamente l’amore che pretendiamo onorare? – La questione è risolta, almeno in parte. Infatti, i documenti ci dimostrano chiara una cosa; che la divozione al sacro Cuore, cioè, si presenta, prima di tutto, come la divozione al cuore amante di Gesù, all’amore del sacro Cuore. I testi che abbiamo citato, lo dicono il più chiaramente possibile; e se ne potrebbero accumulare all’infinito, che ci ridirebbero sempre la stessa cosa. Ma ce sono altri — e spesso sono i documenti medesimi — che indicano pure altra cosa, come oggetto della divozione, che la estendono a tutta la vita intima di Gesù, qualche volta a tutta la sua persona, ai suoi lavori, alle sue sofferenze, alle sue virtù, ai suoi sentimenti, alla sua presenza eucaristica, a Gesù tutto intero, designato sotto il nome di sacro Cuore. Per rendersene conto, basta leggere un trattato sul sacro Cuore ed esaminare qualcuna delle pratiche in onor suo. – Nessuno, meglio del P. Galliffet, ha dato l’idea vera e precisa della divozione. Esaminiamo ciò che egli dice sull’eccellenza della divozione al sacro Cuore di Gesù. « Se ne deve giudicare, dic’egli, dal suo oggetto, dal suo fine, dagli atti e pratiche di virtù che contiene, dal frutto che produce ». E sviluppa questi quattro punti. Che cosa dice dell’oggetto? « È precisamente dall’oggetto che una divozione ritrae la sua eccellenza, come ne ritrae il vero carattere. L’oggetto di questa, è il Cuore di Gesù». Il P. Galliffet continua col considerare questo cuore in sé stesso (L, II, c. I, art. 2, p. 72), e constata l’eccellenza:

a) « delle proprietà naturali del cuore », b) della sua unione con l’anima più perfetta e eccellente che sia mai stata, c) della sua unione col Verbo eterno, d) della funzione divina per cui fu formato e che non è altro che ardere incessantemente delle fiamme più pure e più ardenti dell’amor divino, e) della santità che gli è propria, f) « delle virtù di cui è sorgente ». Tutte cose, si vede bene, che sono indubitatamente in rapporto col cuore. E s’intravvede che il P. Galliffet forza un poco questo rapporto, presentando il cuore come « la sorgente » delle virtù e dei sentimenti. L’autore studia, in seguito, il cuore di Gesù, in rapporto agli uomini. « Considerate, dice egli, che questo Cuore divino vi si presenta tutto infiammato dell’amore che vi porta e tutto pieno di quei generosi sentimenti di bontà a di misericordia, ai quali siete debitori della vostra redenzione, e ricordatevi che è questo medesimo Cuore che ha risentito, così vivamente, tutte le vostre miserie, che è stato così crudelmente afflitto dai vostri peccati, e nel quale si sono formati tanti desideri ardenti della vostra felicità. Ma consideratelo, soprattutto nei dolori sofferti, per amor vostro nella sua passione ». – Qui, senza dubbio, l’amore è messo in prima linea, ma per quanto l’autore s’inganni vedendo meno il simbolo che il principio, l’amore non è solo, in vista. Vi è, pertanto, qualche considerazione ancora più chiara. Riassumendo, alla fine del cap. IV, libro I, la sua dottrina, sull’oggetto della divozione al sacro Cuore per darne un’idea « netta e perfetta », il padre Galliffet dice: « Molti vi prendono inganno. Sentendo pronunziare questo sacro nome: Cuore di Gesù, limitano i loro pensieri al cuore materiale di Gesù Cristo; non riguardano questo Cuore divino che come un pezzo di carne, senza vita e senza sentimento, come farebbero, presso a poco, di una reliquia santa, ma tutta materiale. Ah! come l’idea che si deve avere di questo sacro Cuore, è differente, è ben altrimenti magnifica! ». – Egli vuol dunque che si consideri, da prima, « come cuore unito intimamente e indissolubilmente all’anima e alla persona adorabile di Gesù Cristo…, cuore pieno di vita, di sentimento e d’intelligenza ». In secondo luogo, « come l’organo principale e più nobile delle affezioni sensibili di Gesù Cristo, del suo amore, del suo zelo, della sua obbedienza, dei suoi desideri, dei suoi dolori, delle, sue gioie, delle sue tristezze; come il principio e la sede di queste medesime affezioni e di tutte le virtù dell’Uomo-Dio ». In terzo luogo, « come il centro di tutti i dolori interni che ha sofferto per la nostra salute, e di più come cuore ferito crudelmente dal colpo di lancia, che ricevé sulla croce; infine come santificato dai doni più preziosi dello Spirito Santo e per l’infusione di tutti i tesori di grazia di cui è capace ». – « Tutto questo, continua l’autore, appartiene realmente a questo Cuore divino; tutto questo forma parte dell’oggetto della divozione al Cuore di Gesù ». E, come se questo non fosse abbastanza chiaro, conclude: « Si consideri dunque questo composto mirabile che risulta del cuore di Gesù, dell’anima e della divinità che gli sono unite, dei doni e delle grazie che racchiude, delle virtù e degli affetti di cui è il principio e la sede, dei dolori interni di cui è il centro, della ferita che ricevé sulla croce; ecco l’oggetto completo, per così esprimermi, che si propone all’amore e all’adorazione dei fedeli » (loc. cit. pag. 53, 54). Si faccia pur grande quanto si vuole la parte ad una fisiologia inesatta, ciò non potrà mai niente, lo vedremo, contro la divozione. Non è forse vero che onesto oggetto, sì ampio e sì esteso, scaturisce naturalmente dalla definizione ricevuta: « il culto del cuore di carne come emblema dell’amore di Gesù per noi » ? E quello che dice il P. Galliffet vien ripetuto, quasi parola per parola, dai postulatori del 1765, in un passo da cui abbiamo già estratto un brano ripetuto da molti altri in termini equivalenti. Gli autori moderni sono più circospetti nella scelta delle loro espressioni, nel definire l’oggetto proprio della divozione. Ma quando, nei loro svolgimenti, sono meno circospetti, arrivano a dire lo stesso. E bisogna ben riconoscere che l’idea viva della divozione trabocca da ogni parte, per confermare questa formula del cuore come emblema d’amore, e va a ricercare nel cuore di Gesù tutta la vita intima di Dio fatto uomo, tutte le ricchezze nascoste nella sua umanità e, per parlare come i Sulpliziani, tutto « l’interiore di Gesù ». Si leggano le litanie del sacro Cuore e vi si troverà conferma di ciò. E fu così fin dal principio. Ecco come si esprime il P. de la Colombière nella sua spiegazione « della offerta al sacro Cuore di Gesù ». « Quest’offerta, egli dice, si fa per onorare questo Cuore divino, la sede di tutte le virtù, la sorgente d’ogni benedizione, il rifugio di tutte le anime sante. Le principali virtù che si vogliono onorare in lui sono: in primo luogo, un amore ardentissimo per Iddio, suo Padre, unito con un profondissimo rispetto e con la .più grande umiltà che fosse mai; in secondo luogo, una pazienza infinita; e, in terzo luogo, una compassione sensibilissima per le nostre miserie, ecc. ». « Questo Cuore è sempre animato, per quanto gli è conveniente di esserlo, dagli stessi sentimenti, e soprattutto sempre infiammato d’amore per gli uomini ». Si potrebbero citare mille pagine dello stesso genere nella beata Margherita Maria. Come spiegasi questa anomalia, questa specie di sproporzione fra la definizione e l’uso, fra la teoria e la realtà? Senza porsi di fronte esplicitamente alla questione, gli autori la risolvevano praticamente in due sensi. Dapprima cercando di riferire tutto all’amore intimo di Gesù. La sua vita affettiva, non è forse tutta amore? E le varietà di questa vita affettiva, che cosa sono se non lo stesso amore, diversificato secondo le condizioni dell’oggetto?  È quello che già aveva detto sant’Agostino; quello che hanno ripetuto san Tommaso, Bossuet e tutti i discepoli di questi grandi maestri. Quello che non è amore in Gesù, è però sempre sotto l’influenza dell’amore. Perché i suoi dolori? Egli ha amato. Che cosa sono i suoi miracoli? Effetti della sua bontà e del suo amore. Se san Tommaso concepisce tutti gli atti buoni dell’uomo retto come prodotti sotto l’impero dell’amore (egli intende però l’amore per Iddio), non si potrebbe forse dire che tutta la vita di Gesù si compendia nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo? Tutta la sua vita non è stata forse per il prossimo, come per Iddio? Questo ci dà certo una bella idea della divozione al sacro Cuore. Bisogna convenire, pertanto, che questa idea non esaurisce tutte le ricchezze della divozione, come la troviamo negli scritti del P. Galliffet, (potrei ben dire in tutti quelli della beata Margherita Maria) e come pur la constatiamo nella pratica dei fedeli. – Pur essendo essenzialmente quale lo abbiamo definito, il culto del sacro Cuore va ancor più lungi. Si può e si deve concepirlo come la divozione all’amore del sacro Cuore per noi. Perché ne è ben questa la sostanza secondo la parola già citata di Pio VI. Ma va anche più lungi; essa è la divozione al cuore vivente di Gesù, perché considera il cuore di Gesù secondo le condizioni in cui ci troviamo a riguardo del cuore umano. – Il cuore è soprattutto l’emblema d’amore. Ma il cuore vivo e vero non è solo questo. Di qui viene che la divozione al cuore vivo e vero di Gesù non vi onora solamente l’amore. Tutta la nostra vita intima e profonda ha i suoi rapporti col cuore; i nostri sentimenti vi si ripercuotono; tutta la nostra vita affettiva vi trova come un centro di consonanza per il quale ci si manifesta sensibilmente (Si sa che l’amore di volontà, come tutti gli atti della vita spirituale, non ha organo materiale per parlare propriamente. Ma qui non si fa questione d’organo o di principio, si tratta di concorso e di risonanza. Ora si sa bene che anche l’amore spirituale, quando è veramente e primamente un amore umano, si riversa sulla parte sensibile dell’uomo; ha il suo contraccolpo nell’organismo). – Ora, la nostra vita affettiva e la nostra vita morale, sono strettamente unite, tanto da non potersi dire se sono distinte l’una dall’altra. Così il linguaggio corrente, che è espressione delle realtà profondamente sentite, collega col cuore tutta la vita morale e affettiva dell’uomo; le virtù come i sentimenti, il primo impulso all’azione e i moventi intimi. Non si arriva perfino a dire che i grandi pensieri vengono dal cuore, e che il cuore ha delle ragioni che la ragione stessa non conosce? Non è forse vero che, quando Pascal parla di « Dio sensibile al cuore », traduce una realtà profonda e che « Dio sensibile al cuore » è altra cosa che la conoscenza puramente astratta e fredda del filosofo? Gesù stesso non si è forse rivelato a noi come dolce e umile di cuore e non vediamo noi forse, in ciò, una manifestazione del suo sacro Cuore? Ma, si dirà, non si tratta forse qui del « cuore metaforico » contro il quale ci si metteva in guardia, allorché si definiva la divozione al sacro Cuore? No. È al cuore reale che va il nostro pensiero. E non solamente come simbolo dell’amore, come un’eco interna che rivela coi suoi palpiti la vita affettiva, ma in quel modo che l’uso popolare, fondato su di una esperienza vaga ma sicura, riferisce al cuore la nostra vita intima, di cui vediamo in esso il simbolo e l’espressione, nello stesso tempo che scorgiamo la ripercussione del nostro stato affettivo e delle nostre divozioni morali. – Prima estensione della nostra divozione. Estensione, come si vede, legittima e naturale non appena si concepisce la divozione come riferentesi al cuore vivo e vero di Gesù, per onorare in esso tutto quello che è, tutto quello che fa, tutto quello che ricorda e rappresenta allo spirito. Considerata da questo punto di vista la divozione al sacro Cuore, non è solo la divozione all’amore del Cuore di Gesù, ma essa diviene la divozione a tutta la vita interiore del Salvatore, in quanto che quanta vita ha nel cuore vivente un centro di ripercussione, un simbolo o un segno di richiamo. – Vi è pure un’altra idea della divozione, idea ugualmente naturale e consacrata del pari dall’uso e fondata sul linguaggio corrente. È il passaggio dal cuore alla intera persona.

VIII.

OGGETTO PER ESTENSIONE: LA PERSONA DI GESÙ

Nuova estensione del culto. — Come e in qual senso il cuore significa e riassume la persona.

È sempre la persona che si onora quando si onora il cuore; come è la persona che si onora quando le si bacia rispettosamenté la mano. È la condizione del culto; né v’ha bisogno d’insistervi qui. Pio VI ha fatto giustizia delle accuse formulate a questo riguardo dal Giansenismo, come se i fedeli, onorando il sacro Cuore di Gesù, l’onorassero facendo astrazione della sacra Persona del Verbo incarnato. Sino dai primi giorni della divozione, la dottrina fu molto chiara a questo riguardo. Abbiamo già veduto il P. Galliffet insistere sempre più sull’unione del cuore alla persona divina del culto del sacro Cuore. Si può, diceva egli, rivolgere a questo Cuore divino delle preghiere, degli atti, degli affetti, delle lodi, in una parola tutto quello che si può rivolgere alla persona stessa, poiché infatti è la persona unita al cuore che lo riceve realmente. – Margherita Maria aveva già detto, con una perfetta chiarezza, che Gesù si compiaceva molto di essere onorato sotto la figura di questo cuore di carne. Il culto, in questo caso non è d’altronde puramente relativo, come quello che si rende a una immagine, come quello, pur anco, che si rende alla vera croce; perché il cuore fa parte della persona e ha in sé la dignità della persona di cui fa parte. Basta ricordare queste nozioni, perché non vi ha nulla in questo che sia proprio al culto che esaminiamo. La stessa cosa si applica in special modo al culto delle cinque piaghe, di cui una ci riconduce al cuor di Gesù. Che cosa è infatti, diceva il cardinale Gerdil (Animadversiones, § I, Opere t. V, p. 174, Napoli 1855), che cosa è la piaga del cuore, senonché il cuore piagato? Ma nella divozione al sacro Cuore, così come è accettata nella Chiesa, si trova un passaggio speciale dal cuore alla persona, che merita attenzione. Col trascurare di farne oggetto di nota: si confondono qualche volta le nozioni, e non si sa più come spiegare né il linguaggio della beata Margherita Maria, né il movimento del culto. Nel linguaggio abituale, la parola cuore è usata spesso per una figura che i grammatici chiamano sinedoche per disegnare una persona si dice: « È un gran cuore, è un buon cuore », per dire: È una grande, è una bell’anima. E quando diciamo: « Che cuore »! è la persona che designiamo direttamente, non è già il suo cuore. Ciò avviene, naturalmente, nella divozione al sacro Cuore. Margherita dice: Questo sacro Cuore, come direbbe: Gesù. Nei due casi, ella ha in vista direttamente la persona. E l’uso è divenuto ormai familiare di designare Gesù col nome di sacro Cuore. Non già, notiamole bene, che i due nomi siano sinonimi. Non si può dire, indifferentemente Gesù o sacro Cuore. Non si designa sempre la persona per il suo cuore. Per farlo bisogna avere in vista la persona nella sua vita affettiva e morale, nel suo intimo, nel suo carattere, nei principi della sua condotta. L’idea del cuore non sparisce, ma domina la frase; il cuore non designa la persona che sotto gli aspetti rappresentati dal cuore. Ma questo passaggio dal cuore alla persona, questo riguardar la persona nel cuore, dà alla divozione un andamento più libero, una importanza maggiore. Di qui segue che il sacro Cuore mi ricorda Gesù in tutta la sua vita affettiva e morale, l’interiore di Gesù, amabile e amante, Gesù modello e virtù. La vita di Nostro Signore può così concentrarsi tutta sul cuore: in tutti i suoi stati posso studiare quanto vi ha di più profondo, di più intimo, di più personale. Gesù si riassume tutto e si esprime nel sacro Cuore, attirando sotto questo simbolo espressivo il nostro sguardo e il nostro cuore sul suo Cuore e sulla sua amabilità. Gesù non è forse, in tutto e per tutto, amantissimo e amabilissimo? E Gesù non è forse tutto cuore? Eravamo già arrivati a constatare ciò per altra via, per quella del simbolo e della cooperazione del cuore alla vita affettiva di Gesù. Ma ora ci troviamo più a nostro agio nella divozione, grazie a questa specie di comunicazione d’idiomi fra ciò che conviene al cuore e quel che conviene alla persona stessa di Gesù riguardata in ciò che ha di più profondo e di più personale. Che cosa è per noi una statua del sacro Cuore ? Una statua nella quale Gesù, mostrandoci il suo cuore, cerca tradurre ai nostri sguardi tutta la sua vita intima, la sua amabilità e soprattutto il suo amore. – Grazie a questa nuova estensione, possiamo descrivere la divozione al sacro Cuore come la divozione a Gesù che si rivela a noi rivelandoci il suo cuore, nella sua vita intima e nei suoi sentimenti più personali, che, infine, non ci ripetono che amore e amabilità. Questa divozione, se così posso esprimermi, ci scopre il fondo di Gesù. Non è già che il cuore sparisca in questa nuova accettazione. È la persona stessa di Gesù che ce la dischiude, ripetendoci, come già alla beata Margherita Maria: « Ecco questo cuore ». E noi riguardando il cuore che ci viene dischiuso dinanzi, impariamo a conoscere la persona nel suo fondo. Così tutto Gesù si riassume nel sacro Cuore, come tutto il resto, secondo i divini disegni, si riassume in Gesù (Cf. RENÉ DU BOUAYS DE LA BÉGASSIÈRE, Notre culte catholique français du sacre Cœur, p. 7, Lyon 1901).

IX.

UN CARATTERE DISTINTIVO. L’AMORE MISCONOSCIUTO

L’idea dell’amore misconosciuto e oltraggiato. — Il suo posto nella divozione.

La divozione al sacro Cuore è dunque soprattutto la divozione all’amore, all’amabilità di Gesù, la divozione a Gesù così amabile e così amante. Si può ben dire che tutto è là, e che tutto viene di là. Ma vi è un tratto che la divozione mette in tal special rilievo e che le dà il suo carattere particolarmente commovente. Gesù non si accontenta di mostrare il suo cuore ferito d’amore, con la sua tenerezza squisita, con la sua generosità, che va « sino a esaurirsi e consumarsi per dimostrar loro (agli uomini) il suo amore ». Ci mostra pure questo amore misconosciuto, oltraggiato da quelli stessi da cui aveva maggior diritto di aspettarsi la corrispondenza e che per vocazione avrebbero dovuto amarlo di più. Dopo aver detto: « Ecco questo cuore che ha tanto amato gli uomini ». aggiunse: « E per riconoscenza, non ricevo, dalla maggior parte, che della ingratitudine, e con le loro irriverenze e i loro sacrilegi, con la freddezza, il disprezzo che hanno per me in questo sacramento d’amore. Ma quello che mi è ancor più sensibile, è che vi siano dei cuori a me consacrati che agiscon così » (Mémoire nella Vìe et Oeuvres, t. II, p. 355, 2.» edizione, p. 413; G. n. 92, p. 102). Commentando queste parole il P. Galliffet scrive: « Bisogna osservare ancora un punto essenziale della natura della nostra divozione, ed è che l’amore da cui è infiammato il suo divin Cuore deve essere considerato come un amore disprezzato e offeso dall’ingratitudine degli uomini…. Il Cuore di Gesù Cristo deve esser dunque considerato qui sotto due rapporti: da una parte come infiammato d’amore per gli uomini; dall’altra come offeso crudelmente dall’ingratitudine di questi uomini stessi. Questi due motivi, uniti insieme, devono produrre in noi due sentimenti ugualmente essenziali alla divozione verso questo sacro Cuore: cioè, un amore che risponda al suo e un dolore che ci muova a riparare le ingiurie che si son fatte dalla durezza degli uomini » (T. I, cap. IV, P . 43). Il primo grido della divozione al sacro Cuore è: Quale amore! Il secondo : L’amore non è amato! È  questo che spiegano a lungo i postulatori del 1765: « Bisogna notare, dicono essi, che il sacro Cuore deve essere considerato sotto due aspetti; dapprima come traboccante d’amore per gli uomini…. ; poi come crudelmente ferito dall’ingratitudine degli uomini, satollato d’oltraggi e reso degno così non solo del nostro amore, ma della nostra compassione pur anco » ( Memorie n. 34, 38; NILLSE, t. I, p. 117, 120). – Gesù non soffre più; non può più soffrire, ma l’oltraggio, da parte degli uomini, non è meno reale; essi farebbero tutto quello che dipenderebbe da loro per farlo soffrire, se per la sua condizione attuale non fosse al sicuro dei loro colpi! V ha ancor di più ; tutti questi oltraggi piombarono veramente sul suo cuore ; Egli ne soffrì, quant’era possibile soffrire. Nella sua passione, non risenti solo le ingiurie dei Giudei e dei Romani; non seppe solo dell’ingratitudine dei suoi concittadini e dell’abbandono dei suoi amici. L’avvenire e il passato ebbero il contraccolpo nei suoi dolori e vi si concentrarono. Se dunque Gesù non soffre più nel presente, ha però sofferto del presente; e i fedeli non hanno torto di rappresentarselo sofferente, perché ha veramente sofferto per le offese del presente. Senza contare che ci è sempre permesso di trasportarci nel passato per compatire Gesù, poiché l’avvenire d’allora è il presente d’oggi. È possibile che qualche volta il modo di esprimere di tutto ciò non sia rigorosamente esatto. Ma è ben certo che l’esattezza dell’espressione potrebbe correggersi senza toglier nulla alla verità profonda delle cose e all’impressione che devono produrre. È sempre vero, in ogni modo, che la beata Margherita Maria ha veduto il sacro Cuore coronato di spine e sormontato dalla croce, e lo ha spiegato molto bene vedendovi il segno di una grande realtà: « Era circondato, il sacro Cuore da una corona di spine, a significare le punture che i nostri peccati gli facevano, e aveva una croce al disopra a significare che, non appena questo sacro Cuore fu formato, vi fu piantata la croce » (Lettres inédites, IV, p. 141; riveduto su G. CXXXIII, p. 567). La Chiesa conosce bene queste maniere psicologiche di sopprimere il tempo e lo spazio; la sua liturgia è piena di questi riflessi della eternità divina proiettati sul nostro mondo passeggiero e incostante. – Queste spiegazioni erano necessarie per far comprendere come la divozione al sacro Cuore può rappresentarci Gesù oltraggiato. Ma questo rapporto del presente con la passione non è la sola, né  probabilmente la principale ragione dello stretto rapporto che esiste tra la devozione al sacro Cuore e il ricordo dei dolori di Gesù.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (4)

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (4)

2. Edizione – EDITRICE A. V. E. ROMA – 1943

IV. – L’ordine giuridico

Pio XII ha nel Messaggio natalizio una singolare insistenza allorché tratta dell’ordine giuridico. Quest’osservazione è doveroso farla a proposito dei messaggi precedenti. Essa costituisce un motivo molto forte, perché studiamo con accuratezza l’ordine giuridico ed indaghiamo quanto è possibile la ragione profonda di quella insistenza. Si ha, anche prima di ogni esame, l’impressione e forse l’intuizione, che qui si contenga l’indicazione suprema per il retto ordinamento interno degli stati e per la garanzia degli altri elementi studiati: personalità e lavoro. Vedremo se impressione superficiale e giudizio a ragion veduta coincidano.

1. – Il pensiero del Papa su l’ordine giuridico

Per rimanere ancorati ad una guida sicura è giusto esponiamo anzitutto i punti salienti del Messaggio a proposito dell’ordine giuridico. Ne diamo un prospetto, che per maggiore perspicuità condensiamo in sette punti.

Sette punti

I. — « Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla vita sociale, collabori ad una profonda reintegrazione dell’ordine giuridico».

2 . — « II risanamento di questa situazione diventa possibile a ottenersi quando si ridesti la coscienza di un ordinamento giuridico riposante nel sommo dominio di Dio e custodita da ogni arbitrio umano ».

3. — « Le ultime, profonde, lapidarie fondamentali norme della società (diritto di natura) non possono essere intaccate da intervento di ingegno umano… si potranno… mai abrogare con efficacia giuridica ».

4. — Per questo, anche se « mutano le condizioni dì vita… non si dà mai manco assoluto, né perfetta discontinuità tra il diritto di ieri e quello di oggi », poiché « lo scopo di ogni vita sociale resta identico, sacro, obbligatorio ».

5. — « I legislatori (si tratta qui dunque del diritto positivo) si asterranno dal seguire quelle pericolose teorie e prassi infauste alla comunità ed alla sua coesione le quali traggono la loro origine e diffusione da una serie di postulati erronei ». Questi sono: « il positivismo giuridico…, la concezione la quale rivendica a particolari nazioni o stirpi o classi l’istinto giuridico quale ultimo imperativo e inappellabile norma, …le ideologie… che s’accordano nel considerare lo Stato o un ceto che lo rappresenti, come entità assoluta e suprema, esente da controllo e da critica, anche quando i suoi postulati teorici e pratici sboccano e urtano nell’aperta negazione di dati essenziali della coscienza umana e cristiana ».

6. — Lo Stato « ha la responsabilità di fronte all’Eterno giudice »; non è quindi l’ultima sorgente del diritto.

7. — L’ordine giuridico suppone « nel tribunale.:., chiare norme giuridiche che non possano essere stravolte con abusivi richiami ad un supposto sentimento popolare e con mere ragioni di utilità; riconoscimento del principio che anche lo Stato e i funzionari e le organizzazioni da esso dipendenti sono obbligati alla riparazione o al ritiro di misure lesive della libertà, della proprietà, dell’onore, dell’avanzamento e della salute dei singoli . … Scopo dell’ordine giuridico non è dominare ma servire, tendere a sviluppare ed accrescere »

Ristretto dei sette punti

Cerchiamo ora di arrivare ad una espressione più schematica del pensiero del Papa. Essa permette una visione molto più limpida ed utile. È condannato l’arbitrio nel fare, nel disfare, nell’applicare la legge, nel derogarvi. La evasione dall’arbitrio è legata all’imporsi di una coscienza morale nella società. Il diritto naturale è intoccabile da qualsiasi autorità umana, che è tenuta a seguir certe fondamentali direttive: anche nel diritto positivo, sicché mai sia « pro lege voluntas ». – Le norme giuridiche non possono esser formulate su ideologie balzane, unilaterali ed arbitrarie che è come dire su favole. Di fronte alla legge tutti sono uguali e nelle debite proporzioni tanto i cittadini che l’autorità sono tenuti all’ordine giuridico. – In breve, l’ordine giuridico ha tre caratteristiche:

a) è superiore a tutti poiché il legislatore stesso se è superiore alla legge da sé fatta è però tenuto dall’insieme dell’ordine giuridico, ossia, nella debita proporzione, gli è suddito.

b) è continuo, perché basandosi sul diritto di natura ha una continuità pari à quella della natura, sì da emettere evoluzioni accidentali, ma non mutamenti sostanziali di fisionomia; sì da escludere un comportamento a reazioni, improvvisazioni, strattoni, sbalzelloni.

c) è universale perché tutto ne è sostenuto, ordinato, purificato, garantito.

2. – Che cosa è l’ordine giuridico

Non è possibile capire il pensiero del Papa senza rendersi conto della natura, complessità e logica interna dell’ordine giuridico. Tanto più se si vuol giungere a spiegare la singolare insistenza di questo accortissimo appello alla sua restaurazione.

Idea di ordine giuridico

Astrattamente considerato l’ordine giuridico è il complesso di doveri e diritti, quindi di norme espresse da leggi; più in breve è il sistema delle leggi che ordinano la comunità umana. Esso sorge da questo fatto: che la persona deve fare, deve dare, può esigere. Le leggi che lo impongono hanno una doppia provenienza: quelle fondamentali sono espresse dalla natura (diritto naturale), quelle di ulteriore precisazione sono formulate ed imposte dall’autorità legittima (diritto positivo). Le seconde completano nell’adattamento e nel dettaglio le prime. Insomma l’ordine giuridico sta nella « legge ». – Ma in concreto, per essere cioè attuale ed efficace, l’ordine giuridico coinvolge diversi altri elementi:

1) Il senso giuridico. Si tratta di un cimento che sta nella mente e nella coscienza degli uomini singoli e nell’abito mentale della massa. È fatto dell’intuizione intorno al valore che le cose hanno sotto l’aspetto di diritto e di dovere, di bene e di male; contiene il discernimento e, soprattutto, la stima sul valore della legge e la coscienza della sua obbligazione morale. Senza questo senso giuridico è più o meno inutile esistano leggi. Esso è come l’anima ed il criterio dell’ordine giuridico. Senza la coscienza della legge, la legge muore.

2) I mezzi per redigere, applicare la legge e giudicare della sua osservanza, difenderla contro le lesioni. Appaiono qui gli uomini investiti di autorità legislativa, esecutiva, giudiziaria, ossia i capi, gli ufficiali dello Stato e la magistratura con quanto essa suppone e richiede (polizia, tribunali, corpi armati, luoghi di pena, etc.). Se portiamo l’ordine giuridico dal piano nazionale a quello internazionale questi « mezzi » prendono modalità e varietà speciali.

3) Le condizioni della legge. Essa deve essere veramente norma direttiva chiara; deve essere conformata secondo le esigenze della retta ragione, non può quindi peccare contro l’intima armonia delle cose e il buon senso; deve esser per il bene comune, anche se il suo soggetto è qualche persona particolare; deve esser promulgata debitamente da chi ha l’autorità legittima, quindi diversi elementi, che sono insieme costitutivi della legge e sue condizioni, definiscono lo « spirito » nel quale essa va concepita e rispettata. – Che cosa sia il bene comune — norma della legge — è definito dalla natura stessa e dal complesso di umane esigenze, di costumi normali e rette aspirazioni che la rivelano; ha quindi una presentazione obbiettiva, non è oggetto di arbitrio. Se questo spirito fosse pervertito, se molti credessero alla legge irrazionale e al gesto di puro arbitrio, se il bene comune fosse definibile nella sua sostanza a capriccio, a seconda dei gusti e delle tesi interessate, che cosa si salverebbe dell’ordine giuridico? Nient’altro che l’apparenza. Con ciò s’arriva a vedere che l’ordine giuridico ha l’ultimo suo appoggio in una chiarezza e sodezza profonda di idee sane, provate, dimostrate, umane, ispirate, al pretto buon senso. Ossia: l’ordine giuridico suppone una normalità morale nel pensiero e nel costume. – Le considerazioni che seguono possono essere riguardate come indicazioni d’altri elementi effettivi dell’ordine giuridico in concreto.

La sorgente dell’ordine giuridico

Il centro dell’ordine giuridico è la legge. La sorgente di quello è dunque la sorgente di questa. Donde deriva la legge? Per il diritto naturale — ce ne siamo già occupati — la risposta è ovvia: sorgente è Dio, mezzo rivelatore la natura. Ma, e per il diritto positivo? Sono gli uomini. – Donde traggono essi il potere di fare la legge? Ancora: dal diritto di natura in quanto questo esige e pone famiglia, società, autorità. La sorgente ultima della legge in quanto norma obbligante, anche nel diritto positivo, è Dio. – Vedremo tra poco non potersi dare altra concezione per sostenere la legge. Essa vi acquista una maestà potente e serena.

L’obbligazione morale e l’ordine giuridico

La dote più interessante della legge — anche la più necessaria — è che essa genera una obbligazione di coscienza. L’ordine giuridico è essenzialmente poggiato su questo mondo interiore, su questo vincolo profondo Senza di esso non esisterebbe un vero ordine giuridico, ma solo un ordine meccanico, coattivo. Tutti vedono che nell’ordine giuridico si parla all’intelletto e alla volontà, nei quali soltanto ha senso il diritto e il dovere; esso spinge cioè ad un piano morale, impone ed ottiene ordinariamente per una via che non è quella della mozione meccanica e della costrizione violenta. – Che è questa obbligazione morale di coscienza senza della quale è praticamente nullo l’ordine giuridico? Essa è un vincolo indeclinabile, morale e non fisico, che esige l’obbedienza al di fuori di qualsiasi controllo e sanzione esterna. È essa un puro fatto psicologico od è una realtà? Nel primo caso si riduce a qualcosa di immanente di cui la persona può essere l’arbitra: bisognerebbe trattarla come una malattia, una fisima. Nel secondo caso, per esser cioè qualcosa di veramente obbligante, chiama in causa una Realtà esterna e trascendente. – Vediamo meglio di che è composta questa obbligazione morale nell’anima dell’uomo. C’è la percezione forte di una Superiorità della quale non ci si sottrae. Tale Superiorità è sentita presente, profonda, capace di imporsi; soprattutto è sentita nell’intimo, per quanto perfettamente distinta. Sentirsi vincolato suppone sempre una « alterità ». Questa Superiorità potente, presente, attingente l’intimo forte, che solo così crea il senso dell’obbligazione, se è reale, è solo Dio. Se non si può pensare a Dio e non è reale ma chimerica, non meno chimerica è l’obbligazione di coscienza; crolla tutto l’ordine giuridico. Chiunque comanda, se non appella a Dio, deve contare per l’ubbidienza o sulla debolezza, o sulla ignoranza, o sulla suggestione, o sulla vigliaccheria, o su tutte queste cose insieme.

Caratteristiche dell’ordine giuridico

L’ordine giuridico vive di un mondo interiore più ancora che del mondo esterno, e questo s’appoggia a Dio. L’ordine giuridico o ha una base religiosa o è una servitù imposta agli uomini. L’ordine giuridico ha per centro la legge, per questo ne mutua in qualche modo le caratteristiche. La legge, anche umana, è riflesso della legge Eterna che è Dio; per questo, in una forma certo solo analogica ossia limitata e parziale, ne mutua alcuni tratti solenni. La legge, nel suo nucleo naturale, è immutabile, come è immutabile l’ordine divino. Anche la legge positiva è di per sé perpetua. La legge è universale: in ciò sta l’esser uguale per tutti. La legge ha qualcosa di trascendente in quanto è oltre le persone e tutti i privati interessi, come quella che si appoggia all’autorità derivata da Dio e solo serve al bene comune. Ancorata a sostegni solenni, essa acquista una maestà che ispira a tutto l’ordine giuridico un senso di contegno, di misura e di responsabilità, avvolgendolo in un grave e criteriato riserbo.  La legge, per la sua distinzione tra naturale e positiva, ha, colla immutabilità della prima e colla contingenza della seconda la possibilità di una rotazione e di un adattamento nella continuità: non quindi effimera e neppur vitrea. Può servire tutti i tempi senza staccarli violentemente l’uno dall’altro. Per le sue gravi caratteristiche la legge non si improvvisa mai; per la sua universalità ha bisogno di adattarsi a tutti, quindi di sorgere (allorché è positiva) da tutta l’intelligenza, tutta la ponderazione, tutta l’onestà, tutta l’esperienza; per la sua stabilità esclude l’abuso del semplice provvedimento, del decreto legge, non va ad esperimenti, a strattoni, a sbalzelloni; per il suo stesso valore non può essere moltiplicata e spinta alla faciloneria pletorica, tomba della serietà, dell’utilità e del prestigio. In antagonismo si leva la visione di un ordinamento in cui il senso giuridico rimane per forma, mentre è svuotato nella sostanza; in cui tutto è tentativo, estro, arbitrio, frenesia e finalmente rovina. L’ordinamento giuridico si raccoglie invece in linee interiori austere; difende e si difende dalle brillanti false e fatali incrostazioni di fantasie sbrigliate, tese all’irrazionale, al soggettivo, al chimerico e, più facilmente, al morboso. La storia contemporanea è in grado di documentare tristemente la verità di tutto questo.

3. – Nell’ordine giuridico sta la soluzione dei gravi problemi

L’abbiamo già detto: il reiterato, accorato appello del Papa in favore dell’ordine giuridico non è solo un’accentuazione da giurista. Anche se non tutto è detto esplicitamente, questo costante puntare il dito verso quella parte, ha il preciso valore di indicare qualcosa di grande, non solo, ma di indicare che in seno all’ordine giuridico va ricercato il vero principio equilibratore della vita interna nazionale. Ci pare che in questo gesto stia forse il punto saliente dell’intero Messaggio. E non si tratta solamente di un gesto, perché l’analisi così profonda delle qualità dell’ordine giuridico contiene precise indicazioni sui frutti; questi a lor volta costituiscono una intera concezione teorica e pratica del compaginamento sociale e politico. Pur essendo netto in questo concetto centrale, il pensiero del Papa — per ben ovvie ragioni — è molto discreto. Esso vuole affermare senza condannare; la verità non vuol sopprimere la paternità. Sicché il dettaglio, la determinazione ultima di questa indicazione possente è lasciata all’esegesi dell’attento ed intelligente ascoltatore. Le considerazioni che seguono sono in ordine ad applicare con pienezza il pensiero del Papa, nonché ad appoggiare veramente l’importanza centrale che Egli annette all’ordine giuridico.

Il problema politico dei nostri tempi

Problema politico è quello sul come reggere la società moderna, questa specie di ragazzo in genere indisciplinato e qualche volta contumace, torbido, lazzarone e falso. Reggere, comandare, anche per chi agogna al potere, non è davvero un gioco. Anche se la si vuol riguardare come un carro lussuoso pei propri trionfi, questa insidiosa compagine può sempre esser minata, travolgere, schiacciare. Un tempo, sotto questo punto di vista, il problema politico era meno grave, meno penoso e più circoscritto. Minori, più difficili, più frammentari, meno complessi i rapporti fra gli uomini, era troppo arduo si stringessero in fascio temibile le forze della irragionevolezza e della anarchia. I veicoli conducenti l’errore, la sobillazione, il contagio, il male esempio erano più ridotti ed incomparabilmente più lenti. La scienza di organizzazione ed orchestrazione delle manifestazioni civili e soprattutto della buona fede, della mala fede, della ignoranza, della anormalità, della vigliaccheria e della cretineria, in fondo non esisteva. C’è altro. Se stabiliamo un confronto tra il nostro secolo e, ad esempio, il secolo antecedente, dobbiamo pur rilevare che il costume morale è declinato e che il processo di disorganizzazione del pensiero e della vita, iniziato dall’umanesimo pagano e della pseudo-riforma protestante, ha fatto notevoli progressi coi bei risultati che ognun vede. Il senso cristiano insegnava una forza interiore (e la sussidiava coi suoi mezzi soprannaturali), nella quale soltanto erano contenute concupiscenze di orgoglio ed egoismo di sensualità, che dilagando poi nel costume privato e pubblico sovvertono profondamente e l’uno e l’altro. Nei quali, la magniloquenza farisaica e la retorica vuota servono niente più e niente meno del Kantiano imperativo categorico. Gli animi sono aperti sinistramente a tutte le sobillazioni del proprio comodo; subiscono il fascino della divisione, dell’antagonismo, del chimerico e dello strano per spingere il tutto alla passionalità partigiana e reazionaria. Tutti gli errori del passato ribollono nei sotterranei del mondo come fenomeni di un sinistro plutonismo, che può ad ogni momento innalzare pennacchi di fumo e rovesciare lapilli e lave. Le tossine del peccato portano la maledizione di una spaventosa setticemia. È il marasma senile di una vita superbamente costruita nella vantata oblivione dei diritti eterni e del soprannaturale dono di Cristo. I bubboni di quella invecchiata ed avvelenata costruzione si chiamano: odio, guerra, morte. La sola scienza esalta e non calma; la tecnica esaspera e non lenisce; noi al 1943 possiamo dire che le più audaci esperienze, quelle che ebbero tutto favorevole per tutto fare, sono ormai o di fatto o potenzialmente svuotate dopo (alla più lunga) un quarto di secolo. La Russia che non fu mai veramente quella di Marx, non è più quella di Lenin e forse neppure più quella di Stalin. Quanto agli altri esperimenti… la cosa è anche più evidente. Su questo straordinario dato di fatto, che ha il potere di far tremare le più ardite chimere e i più audaci sogni, è d’uopo si fermino le intelligenze, per considerare con verità ed onestà. – Questo stato di cose è nel mondo intero, ma accentua i suoi effetti rovinosi là ove è minore la maturità politica e dove lo stesso temperamento è più incline alle manifestazioni irriflessive e torbide. Il tutto, sarà potenziato dalla sensibilità che segue alle guerre e ai dolori immani, sensibilità esasperata, ammalata, capricciosa, estrosa, incontrollabile. Questa è la vera impostazione de’ problema politico del domani. È con un sentimento indecifrabile, ma nel quale fa capolino l’apprensione e l’incredulità, che si guarda ai futuri responsabili dei poteri. Essi si chiederanno: ma come possiamo contenere nell’ordine e nella ragionevole evoluzione il popolo; come affrontiamo una simile marea; come dominare tanti istinti scatenati?

Guardare all’ordine giuridico

Il problema politico permane grave. Ma per quanto possa esser di tale gravità non sarà mai un rimedio serio ed efficace, ricorrere a violazioni della natura. Essa si vendica. La socialità è insita per natura negli uomini; essa ha istinti il cui punto di incontro è formato dalla convivenza civile. Questa a sua volta ha da essi fisionomia ben definita: deve completare l’uomo e deve fondere tra loro gli uomini. Una soluzione del problema politico che riduca anziché completare, che metta l’uomo contro l’uomo anziché unire, è soluzione innaturale, violenta, effimera, fatale. – Rimane una via: la soluzione del problema politico, occorre cercarla in ciò che è naturale, ossia nei mezzi che la società ha naturalmente. Tale lapalissiano principio è evidente e semplice quanto la fatale esperienza del suo contrario. Non farò mai vivere un uomo se gli dico: togliti il tuo polmone, quello che t’ha dato natura; che io te ne dono uno brevettato d’acciaio. Certi sistemi sono dipinti esattamente in questa immagine. Ma la società vive solo con polmoni naturali. Quali dunque sono gli elementi naturali, i primi e forse i soli, nei quali la società può sperar di risolvere il suo terribile problema politico? La società è cospirazione di uomini liberi; essa poggia dunque sugli elementi per cui uomini liberi s’uniscono tra loro. Tali sono l’autorità, i diritti, i doveri, la cui azione si sviluppa anzitutto e soprattutto mediante intelletto e volontà, cioè per via « morale ». Tutti gli altri elementi organizzativi sono l’appoggio materiale dell’autorità dei diritti e dei doveri. Ma: autorità da cui emana la legge positiva ed in cui si dettaglia quella naturale, diritti e doveri creati, fissati e tutelati dalla legge, costituiscono appunto l’ordine giuridico. – Sicché la risoluzione del problema politico, tanto quanto va cercata nell’ambito della natura e fuori dell’artificio, altrettanto si inquadra nell’ordine giuridico. Che significa ciò in pratica? L’ordine giuridico in concreto l’abbiam descritto sopra: esso comprende anche tutti i mezzi e tutti gli strumenti della legge. La risoluzione naturale del problema politico sta nel trasferire all’ordine giuridico, legge e suoi elementi sussidiari, quella stima, quella fiducia, quella potenza, quel valore che si è cercato di dare allo Stato nello Stato, ecc. Ciò significa:

1. Invece dell’esaltazione di ideologie misticoidi, creare il senso morale e il rispetto della legge.

2. Dare alla ponderata, legittima e cosciente elaborazione della legge, quanto si può tentar di demandare a iniziative personali, subitanee, incontrollate.

3. Trasferire il processo delle giuste e necessarie notazioni dalla incomposta dinamica di partito all’uso della serena ed universale opinione pubblica in quanto può esser informatrice ed ispiratrice della legge e, più ancora, agli organi tecnici, rappresentativi, legislativi, in una severità che escluda precipitazioni, personalismi e avventure.

4. Riportare l’incombenza di sorvegliare e tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, ai pubblici ed onesti mezzi, agli organi di polizia che agiscono nella sfera della legge e nel fondamentale rispetto dei cittadini, senza alcuna violenza al loro pensiero, alla loro coscienza ed alla loro dignità.

5. Riportare l’azione dei cittadini sul terreno del chiaro e rispettato uso dei loro onesti diritti, attraverso gli organi definiti dalla legge; al di fuori degli abusi di gerarchia, di partito, di espediente traverso, di sopraffazione occulta, di asservimento di enti sociali o sedicenti tali, a privati interessi, di delazione e, soprattutto, fuori dell’aborrito costume di ricattare in politica colla calunnia, la mistificazione e la violenza.

6. Riportare tutta la responsabilità delle azioni giudiziarie alla legittima magistratura, che agisca nella luce della legge e non negli oscuri corridoi di partito.

7. Trasferire, quando occorra, per l’ordine e il risanamento del contegno sociale, ogni forza coattiva, ogni missione energica, da qualsiasi formazione militare partigiana all’esercito o comunque a rappresentanti armati del pubblico potere, perfettamente apolitici.

8. Potenziare nella loro funzione, magari aumentandoli ove occorra, tutti questi organi agenti nell’orbita della legge. Essi rispondono a tutte le esigenze e sono in grado di liberarsi dalle fatali debolezze. Insomma la fiducia e la forza deve essere trasferita da questa parte, ove non si contamina di interesse passionale e personalistico, ove, nella severa dignità della legge tutto rimane intento al bene comune. Il mondo non vive di spettacoli e neppur di vicende or comiche or tragiche, ma sempre altisonanti. Ritrova sempre nelle vecchie risorse il farmaco della sua vecchiaia.

Applicazioni

C’è senza dubbio il bisogno di una evoluzione: l’economia non è sana, la situazione sociale non è giusta. Sono tre i modi nei quali può attuarsi la onesta e seria evoluzione: uno Stato nello Stato, la rivoluzione, ossia la piazza, l’ordine giuridico. Il primo finisce coll’essere di necessità una negazione del bene comune. Come è possibile attui efficacemente e durevolmente una evoluzione verso il miglior bene comune? Il secondo è violento. La violenza dà sfogo alla passione e non alla ragione; simpatizza più con le allucinazioni che con le larghe e sicure visioni; è per natura sua unilaterale, sì da infilare con facilità vicoli ciechi; ama più distruggere che costruire, più l’avventura che il metodo; è guidata dall’odio misticoide e si esaurisce in stanchezze di cui beneficiano i profittatori, gli arrivisti e i tiranni. Ordinare il mondo è frutto di intelligenza e di moralità, non dei colpi di forza. La storia dimostra che se le rivoluzioni possono accelerare la fine di situazioni cattive, a conti fatti, lavorano molto più in perdita che in guadagno. Come tutte le cose cui manca il senno, la rivoluzione è sempre bestiale. La piazza poi non esprime mai il bisogno e il pensiero del popolo; del popolo, che è tale quando sta a casa sua tra sollecitudini e affetti domestici, al lavoro tra l’emulazione e il godimento dei frutti sudati, nell’ordinaria serenità dell’esistenza, nella lucidità del sano criterio e del buon senso. La piazza esprime solo l’accozzaglia che non ragiona, che si guida coll’istinto, anzi coi peggiori istinti e che è supinamente guidata da tribuni e, più ancora, da occulti diabolici mestatori. La piazza è feconda di vittime, non di leggi. – Quello che passa attraverso i mezzi descritti fin qui, vi assorbe il personalismo, l’interesse privato, l’impeto irragionevole, la partigianeria. Con tutto ciò non si fa né società né civiltà. Per una giusta evoluzione non rimane che l’ordine giuridico. In esso le mutazioni avvengono colla legge, non coll’arbitrio e gli incomposti strattoni dello zelo inconsiderato e della precipitazione; la legge a sua volta sorge da una trafila di forze intellettuali concorrenti ed organizzate, che via via limitano l’errore, le sconvenienze e filtrano gli interessi particolari, i personalismi. La legge diviene ferrea norma, oltre ogni discussione ed iniziativa privata, della magistratura e degli ufficiali dello Stato. Essa ha una procedura anche nella sua applicazione, tale da far sbollire gli impeti e ridurre al minimo l’errore sulle circostanze di fatto. Essa ha, per la sua impersonalità, la calma necessaria a discernere, conciliare i diritti e, nel caso di evoluzione, liquidare il passato senza ingiustizie, inutili amarezze e troppo violenti trapassi. – Non si comprende che l’incarico delicatissimo del bene comune, della tutela del diritto, ossia degli uomini, debba esser affidato a specie di comitati sorti dalla strada, a conventicole di fanatici, a clubs ove in fondo non si fa differenza tra il divertimento ed il gioco politico, a piccoli ras dalla voce tonante e dalla nessuna competenza, con i caratteri della occasionalità, dell’estro, della mutazione e della spensieratezza. In questi sistemi possono esserci persone degne e di buona fede, ma l’ambiente è generalmente più forte di loro e delle loro buone intenzioni, appunto perché è « ambiente », fatto di persone e di cose anonime, senza un filtro delle passioni umane, sufficientemente spersonalizzato e preso da incantesimi misticoidi. L’ordine giuridico è obbiettivo, non soggettivo nel senso che, per la sua fisionomia, agisce oltre l’interesse personale.

L’ordine giuridico e la evoluzione del domani

Dopo la guerra ci sarà trisma di popoli, rotazione di mentalità, trauma psichico. Tutto ciò aggiunto alla dolorosa maturazione di molte esperienze nel periodo pre-bellico e bellico significa evoluzione della società. È infantile pensare che si sarà al punto di prima. Questa evoluzione deve venir assolutamente sottratta alle passioni, all’ignoranza, all’imbroglio e all’avventura. Essa dovrà colpire i nuclei che sono la vera causa della esagerazione capitalistica. Alcuni dei nuclei visibili, forse i principali, stanno o in leggi superate o in carenza di leggi. Facciamo un esempio. La società anonima è un capolavoro se la si considera dal punto di vista puramente economico: ha una fungibilità meravigliosa. Non è altrettanto dal punto di vista sociale per una ragione molto semplice: al possessore del cinquantuno per cento delle azioni aggiudica la capacità di manovra del cento per cento. È uno squilibrio, fonte principale degli accentramenti. Il domani dovrà preoccuparsi di questa riforma legislativa, che tolga anche i più lontani intralci alla giustizia sociale. L’eventuale partecipazione temperata agli utili, intesa come elemento della stessa giustizia sociale, le modalità di contributi per dare al lavoro quanto ha il diritto di attendersi, dovranno essere fissati per via legislativa. Lo stesso dicasi per nuove forme di cooperativa, di condominio, di iniziativa, nonché per tutte le provvidenze atte a garantire una più fluida circolazione della ricchezza. Da sistemazione di tutti questi punti su cui si attuerà l’evoluzione può esser fatta a calci o in modo umano. Farla a strattoni, senza filtri di ponderazione, in balia dell’entusiasmo accordandole a «Movimenti » più o meno disciplinati mentalmente, è farla a calci. Il mondo non si governa così. – Il « modo umano » è quello della esperienza, della ponderazione, della riprova e, infine, della verità e giustizia secondo la disciplina della logica e nella tutela degli interessi personali: è quello insomma dell’ordine giuridico. – Gli stadi dell’evoluzione potrebbero temporaneamente esigere che certe attività industriali vengano sottratte alla iniziativa ed all’interesse privato: ciò non potrà avvenire per imposizioni di forza e reazioni tribunizie. Anche qui dobbiamo partire dal principio purtroppo dimenticato, che è l’ordine quello che salva le istituzioni. Ora la misura in tali provvedimenti, si ha quando tutto passa attraverso il filtro dell’ordine giuridico. In tale ipotesi quello che è fatto per legge è sacro, quello che è sacro per legge è nel dominio pubblico; è esso, non il favoritismo di parte, il criterio per giudicare; è in esso che è possibile appellare, protestare, insorgere senza dover rimaner schiacciati sotto il tenebroso maglio di forze cieche e di tirannie inafferrabili. È solo nell’ordine giuridico inviolato che rimane questa chiarezza, questa possibilità e libertà di appello, questa capacità di difesa, e lo è solo in esso poiché solo esso è completo e impersonale. La caratteristica di qualunque ordine giuridico è che l’azione dei cittadini non ha né norme, né diritti inderogabili. Solo l’ordine giuridico, persino fosse inquinato da leggi inique, ha la capacità di mettere un « limite », giacché l’iniquità legale dovrebbe sempre essere fatta legalmente, dovrebbe essere in grado di giustificare il proprio operato e urto ciò è ben altra cosa dal puro arbitrio. – L’ordine giuridico è tutt’altro che ripugnante colle evoluzioni razionali; solo garantisce ad esse di non venir trasformate in pazzia ed in strumenti di tirannia. La partecipazione agli utili, il controllo sulle sorgenti della ricchezza, magari qualche onesta remora messa in tali sorgenti allo scopo di far defluire li benessere in modo più giusto, sono altrettante questioni degne di studio ed alle quali, per i motivi ormai ripetuti, si può dare soluzione degna solo in sede di ordine giuridico.

Conclusione

Guardiamo in scorcio questo grande ordine giuridico. L’analisi condotta fin qui lo permette agevolmente. L’ordine giuridico è (quanto ciò può venir realizzato nelle cose umane) esente di per sé dallo spirito di parte, dall’interesse particolare, dal pregiudizio soggettivo, dalla foga sentimentale e passionale, dalla sbrigativa contingenza degli estri; è quindi il solo capace di tutelare adeguatamente il bene comune, senza del quale non esiste la società umana. – L’ordine giuridico, basato come è completamente su chiare norme legislative escludendo ogni altro rimedio d’arbitrio e di fortuna, stabilisce dei punti fermi, dei confini definiti e irremovibili alla libertà e al dovere. Permette quindi ad ogni uomo di sapere quanto può e quanto non deve, senza improvvisi arresti, senza contraddizioni, senza imboscate e ricatti. Dà, in questa certezza dei propri margini, la possibilità di disporre di sé nel vero spirito sociale; dà insomma il respiro alla dignità dell’uomo libero eppur sottomesso alle leggi. Dove l’ordine giuridico non impera, non si sa mai quello che si deve, poiché per una superficiale esigenza possono valer nulla tutti i codici e può essere invece spaventevole dovere l’ossequio al più sciocco ed inconfondibile capriccio dell’ultimo uomo investito di qualche autorità. L’ordine giuridico per il suo procedimento « filtrato » nel fare ed applicare la legge, per la fermezza che gli deriva dalla sua impersonalità sta tra due estremi di prudenza e di forza che gli permettono di non dover chiedere cento per aver uno, di non dover spaventare e terrorizzare; che gli permettono insomma di essere discreto. Ossia: non esagera. – La discrezione dell’ordine giuridico è degna d’essere attentamente considerata. Equivale alla negazione di una autorità vera e rabbiosa, in quanto lascia il ragionevole e non esagerato margine alla persona ed alle istituzioni, perché liberamente dispongano di sé, possano legittimamente reagire, difendersi e porre quegli atti, che, senza ingiuria al diritto, evitino il cristallizzarsi di situazioni sorpassate e preparino le necessarie e giuste rotazioni di cose. La discrezione dell’ordine giuridico lascia il passaggio per cui non si è in prigione, ma si può reagire alle eventuali corruzioni dell’ordine stesso. È per questi che solo un regime impregnato di ordine giuridico può curarsi radicalmente e ringiovanire senza tragedie, guerre e rivoluzioni. È per questo che solo nel vero ordine giuridico si evita la cristallizzazione senza cadere in dinamismi forsennati e deleteri. È per questo che se un regime ha degli errori, è basato magari su ideologie imperfette, ma ha e mantiene sano ad ogni costo l’ordine giuridico, può ancora raddrizzarsi, convertirsi e salvarsi. – Riteniamo che tutte queste considerazioni possono far intendere perché il Papa abbia richiamato con tanta forza l’attenzione del mondo sull’ordine giuridico. Bisogna uscire dalla teatrale mentalità che per ordinare lo « Stato » occorra proprio trovare qualcosa di estremamente nuovo, estremamente originale, estremamente strano. La cosa che si deve ordinare — il mondo — è assai vecchia, ha tutti i suoi vecchi costumi, ma ha pure mi vecchio tesoro sempre nuovo, cui occorre attingere: il patrimonio di luce naturale, che il Creatore gli ha rimesso in dotazione allorché l’ha fatto.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (5)

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (3)

GREGORIO XVII: – IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (3)

2. Edizione, EDITRICE A. V. E. ROMA – 1943

III. –  Il lavoro

Non è possibile staccare il concetto del lavoro da quello della personalità. Ciò per due motivi fondamentali. Anzitutto: perdendo di vista la persona che genera di per sé il diritto di proprietà, come s’è visto al capitolo precedente, il lavoro può apparire come l’unica sorgente della proprietà stessa, l’unico titolo per aver diritto a vivere. Il che è falso, non solo perché  i diritti personali sono anteriori al lavoro, ma perché questo equivarrebbe ad affermare un mondo meccanico, materialistico e senz’anima. Si vede qui dove abbia origine la celebre affermazione: essa parte dalla misconoscenza della personalità. – In secondo luogo il lavoro, anche agli effetti del salario, il trattamento adeguato al lavoratore non potrà mai esser valutato con verità e giustizia se non su questo criterio: il lavoratore è persona. Fuori di questo punto di vista la questione del salario è — a voler esser logici — la questione del quanto di biada da darsi al cavallo o all’asino.

1. – Il pensiero del Papa sui problemi del lavoro

Ecco i punti salienti dedicati al lavoro nel Messaggio papale:

a) Il lavoro è « il mezzo indispensabile al dominio del mondo, voluto da Dio per la sua gloria (fine immediato o relativo e fine ultimo o assoluto). Ogni lavoro possiede una dignità inalienabile e in pari tempo un intimo legame col perfezionamento della persona ».

b) Dalla « nobiltà morale del lavoro » derivano « conseguenze pratiche. Queste esigenze comprendono OLTRE un salario giusto, sufficiente alle necessità dell’operaio e della famiglia, la conservazione ed il perfezionamento di un ordine sociale che renda possibile una sicura se pur modesta proprietà privata a tutti i ceti del popolo, favorisca una formazione superiore per i figli delle classi operaie particolarmente dotati di intelligenza e di buon volere, promuova l’attività pratica dello spirito sociale nel vicinato, nel paese, nella provincia, nel popolo e nella nazione, che mitigando i contrasti di interesse e di classe, toglie agli operai il sentimento della segregazione con l’esperienza confortante di una solidarietà genuinamente umana e cristianamente fraterna ».

c) « Il progresso e il grado delle riforme sociali improrogabili dipende dalla potenza economica delle singole nazioni ». Ma oltre questo si impone « uno scambio di forze intelligente e operoso tra forti e deboli » in modo si abbia a compiere « una pacificazione universale ». Questo è un chiaro richiamo alla necessità di risolvere le questioni del lavoro anche cogli accordi internazionali, in quanto solo una certa omogeneità può garantire efficacia ed evitare pericolosi sbilanci.

d) « L’operaio…. non venga condannato ad una dipendenza e servitù economica, inconciliabile con i suoi diritti di persona. Che questa servitù derivi dal prepotere del capitale privato o dal potere dello stato, l’effetto non muta, anzi sotto la pressione di uno stato che tutto domina e regola l’intera vita pubblica e privata, penetrando fino nel canapo delle concezioni e persuasioni della coscienza, questa mancanza di libertà può avere conseguenze ancora più gravose come l’esperienza manifesta e testimonia ». Con ciò è ben chiara una cosa: l’economia del socialismo di stato non favorisce l’operaio, bensì lo deprime e lo degrada.

e) Oggi, nel mondo operaio « è calma apparente ». Analizzando accuratamente tutto il Messaggio nella questione che riguarda il lavoro, un punto emerge: i problemi del lavoro non investono semplicemente delle bocche da sfamare, ma tutto l’uomo con tutti i suoi diritti. Anche qui il pensiero del Santo Padre dà indicazioni ben gravi sulle quali è necessario riflettere e che occorre sviluppare.

2. – L’idea del lavoro

Quest’idea diventa piena, vigorosa e umana nel Messaggio papale. Vediamolo.

Il lavoro non è solo uno sforzo cerebrale e muscolare (concezione materialistica), ma è attuazione di una persona, è mezzo al dominio del mondo, è perfezionamento del lavoratore, è base — non unica e non prima — di una serie di diritti, i quali ne fanno elemento cosciente, operante e rispettabile della compagine sociale. Il lavoro ha una finalità immediata e trascendente nella gloria di Dio. Pertanto esso non fa parte solo di un ordine economico, ma ed a più forte ragione, di un ordine morale ed eterno. Così non è solo oggetto di considerazioni economiche, ma è oggetto di considerazioni morali ed umane. Il lavoratore non è solo una cosa che produce e consuma, ma un uomo completo che vive ed ha diritto di vivere. Non tutto del lavoro si traduce con delle cifre; il più trascende la materiale aridità delle cifre. Questo è il concetto umano del lavoro. Tale considerazione adeguata (complessiva) di tutta la realtà dell’uomo. Da tale concetto umano discendono importanti conseguenze:

a) Il lavoro non è una pura espressione materiale valutabile al par delle pietre o dell’energia elettrica; esso ha qualcosa di più, precisamente quanto gli deriva dalla dignità spirituale della persona. Non è quindi una pura « merce », né può esser soltanto soggetto ad un computo di resa materiale.

b) Di conseguenza — e cioè per la presenza di un elemento trascendente la materia — il lavoro umano non può essere considerato dal solo punto di vista utilitario. Tale punto di vista è l’espressione economica del concetto materialistico del lavoro. Sicché non è possibile imporre indefinitamente taglie e sforzi al lavoro col puro intento di ottenere di più. Esiste un limite che è segnato dai diritti della persona reclamato dall’umanità.

c) Non può allora tollerarsi il lavoro che abbrutisca l’uomo. Neppure è morale un’idea di lavoro in cui l’uomo sia semplice strumento.

d) Non è l’uomo per il lavoro, ma è il lavoro per l’uomo ed il suo perfezionamento. Il criterio a giudicare del trattamento non può essere unicamente l’incremento della produzione e del guadagno: tale criterio va contemperato — e quanto! — col criterio dell’umanità. – È ovvio che tutto il concetto umano del lavoro dipende dall’idea dignitosa della persona umana. Il senso cristiano accoglie ed eleva quel concetto, dopo averlo strenuamente difeso: gli mette accanto la dolce figura del Cristo lavoratore, per cui la redenzione del mondo e la sua fecondità si lega al lavoro, lo nobilita con un’umiltà che ha tutto e solo il fastigio della verità; lo impreziosisce coll’amore; gli dona una capacità nuova ed universale per la dottrina del merito e della comunione dei Santi; lo attrae in una vita interiore dai fulgori intensi e dalle indefinite possibilità. –

Il concetto materialistico del lavoro

Di contro all’idea umana e cristiana del lavoro, sta quella materialistica. Non c’è soffio d’anima nell’uomo, non c’è dignità corrispondente nel lavoro, al quale rimane d’esser misurato in questi due soli parametri: sforzo e resa. – Gli uomini che parlano da tale angolo di visuale sono o incoscienti o ipocriti quando elogiano il lavoro e ne fanno l’apologia. Esso non è diverso dal lavoro dei muli, dei buoi o degli animali abilmente ammaestrati. Se riescono a parlare del lavoro in modo attraente, ciò è perché dinnanzi alla reazione spontanea degli uomini, capiscono di dover pel momento non manifestare l’ispirazione materialistica, di doverla invece orpellare. Ma si dovrebbe pur essere logici: perché aver per gli uomini più attenzioni di quante se ne abbiano ai muli ed ai buoi, se in fondo il loro lavoro è considerato alla pari del lavoro di questi? È vero però che là differenza si salva nelle parole: in realtà il trattamento che le concezioni e i regimi materialistici fanno al lavoratore, si salva dalla crudeltà unicamente per la forza della paura. Le conseguenze del concetto materialistico del lavoro sono chiare. – L’organizzazione scientifica del lavoro in cui F. W. Taylor fu un grande teorico, nelle conclusioni e nelle applicazioni di molti diventò tutt’insieme una caccia all’uomo e un maglio persecutorio per la vessazione e la distruzione della persona umana. L’America diede l’esempio: qualcuno imitò anche in Italia. Nella concezione materialistica del lavoro la massa operaia finisce con l’essere una massa da manovra; qualora le esigenze industriali lo imponessero, il lavoro non conoscerebbe più né regole di umanità, né trattamento di giustizia. Poiché il freno è rappresentato solo dall’interesse, dalla convenienza, dalla paura. E tutti sanno che i deboli hanno poco da fidarsi di tali protezioni. – Le due concezioni morali del lavoro stanno di fronte: sono due mondi inconciliabili, la prima vuole l’uomo nobilitato nel lavoro, la seconda non sa che farsi dell’uomo e vuole solamente il lavoro. Nella seconda tutto fatalmente si oscura, salute, diritti, famiglia, dignità, libertà, perché una mostruosa elezione ha scelto l’utile, puramente l’utile. – La questione sociale in fondo si riduce a tutto questo. Il marxismo o rinnega i suoi principi materialistici o deve ricadere in teoria ed in pratica nella concezione materialistica del lavoro, la quale, anche se si parla di benessere del popolo, strappa al popolo l’unica vera, solida e costante ragione per cui deve essere trattato bene; e non vede nell’uomo in fondo qualcosa da retribuirsi oltre lo sforzo fisico e null’altro da rispettarsi che i diritti, del suo stomaco e del suo corpo. Si cerca di mascherare la dura realtà d’una concezione materialistica del lavoro con molti eufemismi e con discorsi sviati, ma è necessario accorgersi per tempo del giocO.

Conclusioni dal concetto cristiano di lavoro

Posto che nel lavoro c’è l’aspetto materiale più quello, ben maggiore, derivante dalla realtà e dignità della persona umana, si hanno alcune conseguenze:

a) Il salario va proporzionato oltre che allo sforzo ed al rendimento anche ai bisogni della persona.

b) Oltre il salario, altri diritti vanno riconosciuti alla persona dell’operaio, il quale col suo lavoro non solo provvede alle necessità, ma è parte viva dell’organismo sociale. Vedremo subito e meglio il valore di queste conclusioni.

c) Sorgente del diritto dell’operaio è allora non solo il lavoro, ma ancora e più la personalità sua. Ciò che basta a dimostrare non essere unico titolo giuridico per la proprietà il lavoro, come taluni si affannano a vociare; aversi bensì degli altri titoli contenuti nell’autonomia della persona (occupazione, accessione, ecc.). – Quanto è vera questa, altrettanto è vero che è legittima la proprietà sorgente dal lavoro, come sorgente da altre forme di acquisizione. Del resto non ci vuol molto a comprendere che col solo titolo del lavoro una parte del genere umano (i bambini e gli inabili ad esempio) mai avrebbe il diritto di mangiare e che una gran parte della ricchezza dovrebbe o rimanere senza padrone od essere preda dello Stato. Sulla quale nefasta ipotesi abbiamo più innanzi espresso il parere del buon senso umano.

Le questioni del lavoro

Fin qui ci siamo preoccupati di fissare nell’adeguata idea di lavoro il principio ed il criterio atto a risolverne le questioni. Senza un principio teorico ben saldo (la concezione umana di lavoro), sarebbe ben difficile discernere ed ancor più difficile risolvere con saggezza e giustizia. – I massimi problemi del lavoro dal punto di vista sociale sono tre: la retribuzione al lavoro stesso, la partecipazione agli utili e la considerazione sociale in cui va tenuto e secondo la quale va trattato il lavoratore. I tre problemi si affacciano da se anche solo per l’umana idea di lavoro esposta sopra. Data l’indole del nostro studio ci fermeremo a questa indagine. Ma è doveroso ricordare che il lavoro o sotto punti di vista diversi da quello che ci preoccupa (che è morale e sociale) o per integrazione di questi stessi, pone altri e non trascurabili problemi. – Dal punto di vista del rendimento del lavoro, sorge il problema della sua organizzazione scientifica, in cui si tende a minimizzare lo sforzo e lo sperpero, spingendo al massimo il frutto e ingegnosamente sfruttando quanto rimarrebbe altrimenti inutile. Certo, come si è prima osservato, questa organizzazione scientifica va contemperata dall’umanità. – Dal punto di vista della protezione efficace dei diritti del lavoro e del lavoratore si impone il problema sindacale e l’altro complementare dell’organizzazione internazionale del lavoro. C’è infatti una interdipendenza tra le varie comunità, che come può essere sfruttata ai danni del lavoratore, deve essere usata in sua tutela. Questo problema fu affrontato a Leeds nel 1916, a Stoccolma nel 1917, a Berna nel 1918; se ne occupò la parte XIII del trattato di pace nel 1919, sicché ne fu costituito l’« Ufficio internazionale del lavoro » a Ginevra. Sarebbe ingiusto negare i benefici — per quanto relativi — di questa istituzione. L’argomento dei contratti di lavoro può rientrare nel problema sindacale. L’igiene del lavoro, il lavoro delle donne e dei ragazzi, l’eccessivo afflusso della donna al lavoro non domestico, costituiscono serie apprensioni per quanti amano i propri simili. La divisione del lavoro invece — problema già prospettato da Platone fino a Beccaria e a Smith — interessa più l’aspetto tecnico che non quello strettamente sociale. – Modernamente una non disprezzabile corrente di studiosi afferma che il lavoro ha bisogno di indipendenza, di miraggio, di speranza e di conforto. Ciò è evidente nell’ampia ed umana idea che del lavoro dà Pio XII; ciò dovrebbe esser intuitivo per tutti; per alcuni a veder una verità tanto perspicua è stato necessario contemplar — e lungamente — i resoconti e le statistiche sul lavoro degli schiavi. I quali rendono meno. In realtà le due concezioni di lavoro che abbiamo messo a riscontro potrebbero esser qualificate così: lavoro da uomini, lavoro da schiavi. Oltre tutte le belle parole, in regimi materialistici il lavoro diviene sempre cosa da schiavi.

3. – La retribuzione al lavoro

Si pensa per lo più alla retribuzione dovuta all’operaio — salario —, ma è doveroso pensare pure a quella dovuta all’impiegato — stipendio —. La classe impiegatizia sta entrando in una crisi che forse non è minore della crisi economica e morale nella classe operaia. Va da sé che quanto diremo del salario deve essere esteso pure allo stipendio.

Criteri per il salario

Quali criteri per stabilire il salario? Essi sono enunciati con chiarezza nei documenti pontifici. Ma è bene richiamare prima la ragione intima. Il salario segue il concetto del lavoro. Nell’idea materialistica del lavoro, gli elementi che formano criterio della retribuzione sono solamente lo sforzo fisico e mentale, nonché il rendimento. Nell’idea umana e cristiana la retribuzione va calcolata oltreché su quelli elementi anche sul valor e, sul diritto e sulle esigenze della persona. Che l’idea di lavoro si commensura anche e soprattutto da questa. – Rimandiamo a quanto è stato sopra scritto. Ora è facile vedere l’intima ragionevolezza dei criteri stabiliti nel Messaggio papale.

A) Il salario deve essere « giusto ». In che consiste questa giustizia? Essa è salva quando corrisponde a tutti i diritti, i quali possono essere nativi e generati da fatti. Gli elementi di tale duplice natura da tenersi in conto sono diversi. Lo sforzo, la qualità e le circostanze dello sforzo, il volume e la natura del rendimento figurano certamente tra essi. Ma non sono i soli. L’insegnamento delle due grandi encicliche Rerum novarum e Quadragesimo anno ci conduce a tener conto di altri elementi e ciò a buon diritto, poiché in ogni questione tutti gli aspetti debbono esser tenuti presenti. Si tratta anzitutto delle possibilità dell’azienda, in quanto anch’essa deve vivere e deve garantirsi di che sopravvivere per non abbandonare, l’operaio alla disoccupazione. Si tratta in secondo luogo della ragione sociale, pei cui il salario vien considerato come un elemento collegato a tutto l’equilibrio dell’economia, sulla quale può influire in senso benigno ed in senso maligno, mentre proprio essa colla sua stabilità e sanità assicura l’ordine di benessere all’operaio. È in vista di questa giusta ragione sociale che i salari, come non debbono essere tenuti troppo bassi, neppure possono essere computati troppo alti. Infatti il salario troppo alto e cioè eccellente i criteri detti sopra, è fittizio, provoca incapacità, anemie, arresti e collassi, i quali, se vanno a danno di tutti, si risolvono in un danno ben maggiore proprio per l’operaio. Frutto dei salari troppo alti sono infatti la crisi industriale, lo scompenso finanziario e la disoccupazione.

b) Il salario deve essere « sufficiente alle necessità dell’operaio e della famiglia ». Notiamo anzitutto che questa « sufficienza » fa parte della giustizia del salario, poiché corrisponde ad un chiaro e preciso diritto esistente nella persona umana. Infatti il valore del salario « lo si misura » — lo abbiamo visto — anche da essa. Ora il lavoro è il mezzo « di perfezionamento » indi di sviluppo e di soddisfazione di tutta la personalità. La quale è protesa verso la formazione della famiglia, la esige, la contiene in germe. Le esigenze della persona non sono solamente quelle del puro individuo, ma ancora quelle espresse dal raggio in cui l’individuo completa se stesso. Il lavoro è il mezzo con cui l’uomo provvede a sé ed ai suoi in questo suo naturale sviluppo. L’esser « naturale » fa di tutto ciò un « diritto » inalienabile. Ecco perché il salario deve tener conto anche della famiglia. Ciò corrisponde al fatto che il lavoro è il mezzo con cui l’uomo provvede a tutto se stesso, anche al « se stesso » possibile padre e capo famiglia. – Il salario famigliare — è bene ricordarlo — fu affermato e difeso ben prima che dagli altri, dalla morale e dalla sociologia cristiana. – Quando si asserisce la giustizia del salario famigliare, non si afferma che ogni operaio anche celibe deve essere retribuito come se avesse dieci figli. Si arriverebbe a delle conseguenze e a delle applicazioni paradossali. Infatti tutti vedono che qui il « diritto teorico al trattamento famigliare » va contemperato col « fatto » ossia colla reale situazione dell’operaio. In essa si terrà conto che anche, se non ha tuttavia famiglia, ha il diritto di prepararsela economicamente; che, anche se l’ha e minuscola, ha il dovere di lasciarla aumentare secondo Dio vuole ed ha il diritto di prevenirne i casi avversi. Con ciò si comprende la necessità di graduare sotto questo aspetto gli stipendi col criterio di un minimo famigliare aumentabile per assegni supplementari. – Quest’idea è già opportunamente entrata in più nazioni nel diritto e nella prassi.

Il complemento del salario giusto

Tra le corresponsioni dovute al lavoro, oltre al salario, Pio XII mette « la conservazione ed il perfezionamento di un ordine sociale che renda possibile una sicura se pur modesta proprietà privata a lutti i ceti del popolo, favorisca una formazione superiore per i figli delle classi operaie particolarmente dotati di intelligenza e buon volere, promuova lo spirito sociale… ». Notiamo che non si parla di salario, bensì di ordine sociale; ne vedremo presto il perché. Quest’ordine sociale deve portare all’operaio tre benefici, che complessivamente considerati, significano la possibilità aperta di migliorare indefinitamente la propria posizione sociale. È veramente questo il massimo respiro che si possa dare all’operaio: crescere. È questo tra i massimi incentivi morali che possono essergli inculcati, giacché possibilità non è realtà, mentre il passaggio dall’uno all’altro è legato all’intelligenza, al buon volere, alla sobrietà, all’economia, al buon senso, alla virtù. Che sarebbe mai dare all’operaio un buon salario e farne però un prigioniero del suo stato? Fate che tatti possano tanto Stimare la virtù che innalza a non inutilmente tentare la crescita: nessuno odierà l’esistenza di situazioni superiori, poiché esse gli diventano « meta » e nel movimento ascendentale conferiscono il sano e gioioso dinamismo dell’esistenza. Bella consolazione quella del comunismo nel sentirsi tutti uguali, ma tutti ugualmente prigionieri di tale uguaglianza! – I benefici auspicati dall’ordine sociale sono dunque tre.

a) La sicura se pur modesta proprietà privata per tutti. La natura stessa delle cose la postula: intatti la destinazione primigenia di tutti i beni terreni, quella anteriore alla occupazione fatta da qualche singolo, è per tutti gli uomini. Tale destinazione rimane in qualche modo anche dopo l’occupazione legittima del singolo, tanto che nell’uso della proprietà privata quello deve sempre ricordarsi del carattere sociale di questa. Di qui si leva una potente indicazione della natura a richiedere per tutti, fin dove è possibile, un posto al sole. – Abbiamo già detto esser questa proprietà privata aperta a tutti, il miglior stabilizzatore della pace sociale: nessuno vorrà rovesciare un ordine quando da tale ordine ha una porzione di beneficio che invece avventura fosca ed ignota non gli può assicurare. Ma è doveroso ricordare che il permanere della proprietà privata, non meno del suo acquisto, è legato alla sobrietà, all’economia, all’equilibrio spirituale, ossia ad un complesso morale.

b) La formazione per i poveri che possono rendere di più. Tutto ciò richiede una quantità di provvidenze che toccano il regime fiscale privandolo di cespiti normali ed aggravandolo di contribuzioni per la scuola. Non si tratta di cosa semplice, anche se l’iniziativa privata in regime di libera scuola può realizzare molto. Però non basta questo, anzi questo è l’aspetto più materiale del problema. È  necessario che la scuola oltre che un compito formativo e culturale, assolva un compito sociale; assumendo criteri severi ed irriducibili di eliminazione progressiva, che chiudano implacabilmente delle porte ai meno capaci ed agli inetti, qualunque sia la loro posizione sociale, e tutte le aprano ai valorosi della mente, del cuore, della volontà, dell’azione. È questo, forse, a conti fatti il solo mezzo per contemperare le eccessive fortune dovute all’eredità, le quali pur essendo — almeno talvolta — oneste in se stesse, da sole sono manchevoli, in quanto consolidano troppe ed indebite situazioni di privilegio, congelano le diversità sociali, stimolano la lotta di classe ed inibiscono quel sano movimento della fortuna, per cui tutti possono animosamente operare e volonterosamente agire, senza lasciare ai più che la disperazione d’esser prigionieri della miseria. Riteniamo che proprio il senso d’esser dei prigionieri dell’umiliazione sia la molla più forte dell’odio di classe. Non è la sola scuola, che porta il peso, di tale miglioramento nei figli delle classi operaie.

c) L’attività pratica dello spirito sociale. Si tratta della comprensione e della fiducia che apre la via alla effettiva collaborazione di tutti gli uomini onesti nella vita civile, nell’attività politica, nello sviluppo culturale.

Legislazione, educazione, sano tono di stampa e di propaganda, buona volontà di quei che stanno meglio, istituzioni: tutto è coscritto all’impresa di rifare unospirito sociale in cui anche il povero possa sentire di essere « qualcosa » e « qualcuno »..

Perché «ordine» e non «salario»

Può fare una certa impressione — l’abbiamo già notato — che Pio XII chieda una serie di benefici per l’operaio non al salario, ma all’« ordine sociale » da instaurarsi, promuoversi e perfezionarsi. Osserviamo intanto che il Papa quei benefici non li chiede direttamente al salario, però non esclude neppure il salario dal concorrere ad apportarli. Ecco le ragioni del linguaggio usato dal – Santo Padre.

a) L’ampiezza di questi benefici è tale che non può esser garantita dal solo salario. Naturalmente anche esso ha la sua parte — ove è possibile secondo i criteri esposti sopra — a far sì che s’arrivi alla proprietà privata ed alle migliori realizzazioni pei figli valenti.

b) Commettere il raggiungimento di tali finalità al solo salario, sarebbe annullare altre forze che nella compagine sociale possono e debbono, a seconda dei casi, utilmente agire: tipi diversi di partecipazione agli utili delle classi più agiate, forme assicurative, libere forme cooperative, contributi statali, mutue, ecc. – Perché mai sul lavoro dell’operaio devono convergere oltre che il suo salario altre provvidenze la cui

radice non sta nella sola azienda privata, ma in tutto l’ordine »? Perché egli è fattore d’incremento non solo della sua azienda, ma di tutto l’« ordine » stesso; perché come le cresciute possibilità della tecnica moderna hanno aumentato il raggio d’azione del capitale e le mete del benessere comune, così hanno parallelamente e proporzionalmente aumentato l’influsso, la necessità, il valore del lavoro. Lo scambio va dal lavoro a tutta la società; la restituzione deve essere da tutta la società al lavoro. È questo concetto a noi pare essenziale per la giusta impostazione di tutti i problemi dell’operaio.

c) Più o meno tutte le finalità in causa non sono raggiungibili che attraverso elementi spirituali e morali, che il salario, umile della sua realtà materiale, assolutamente non comporta. – Da tutte queste considerazioni una cosa si fa chiara: che la questione della retribuzione al lavoratore non è semplice e, soprattutto, non è solo questione materiale. Ciò basta vedere il latente marasma sotto tutte le soluzioni ad ispirazione materialistica, ossia marxistica.

4. – La partecipazione agli utili

Questa parola viene spesso pronunciata come quella che indica una integrazione del salario. Ma non pare sia sempre pronunciata con sufficiente cognizione di causa. Per tale motivo è più che opportuno chiarire alcuni punti.

La dottrina dei Papi

Non è difficile che in tema di partecipazione agli utili si faccia dire a Pio XII, soprattutto, quello che in realtà non ha detto. Pio XII non tratta direttamente l’argomento nel Messaggio natalizio 1942, ma continua talmente in tema di salario il pensiero del Suo Antecessore che non possiamo qui prescindere appunto da quello. Ora le affermazioni della Quadragesimo anno di Pio XI a proposito di partecipazione agli utili si riducono a due. Le riportiamo testualmente. Esse riprendono e dattagliano l’argomento toccato da Leone XIII nella Rerum Novarum. « Per questa legge di giustizia sociale non può una classe escludere l’altra dalla partecipazione degli utili ». « E da prima, l’affermazione che il contratto di offerta e di prestazione d’opera sia di sua natura ingiusto e quindi si debba sostituire col contratto di società, è affermazione gratuita e calunniosa contro il Nostro Predecessore (Leone XIII), la cui Enciclica “Rerum Novarum” non solo lo ammette, ma tratta a lungo sul modo di disciplinarlo secondo le norme di giustizia. Tuttavia nelle odierne condizioni sociali stimiamo sia cosa più prudente che, quanto è possibile il contratto del lavoro venga temperato alquanto col contratto di società come già si è cominciato a fare in diverse maniere con non poco vantaggio degli operai stessi e dei padroni. Così gli operai diventano cointeressati o nella proprietà o nella amministrazione e compartecipi in certa misura dei lucri percepiti ».

La lettura di questi testi impone alcuni rilievi.

a) Non si enuncia come principio generale la necessità di una specifica partecipazione degli operai o impiegati agli utili dell’azienda; ma solo l’esigenza di una generica partecipazione delle classi meno abbienti agli utili, ai profitti ed al benessere delle classi più agiate. – Ora la diversità tra « specifica partecipazione ad una determinata azienda » e « generica partecipazione all’utile e benessere delle classi più ben fornite » è molto grande; tanto grande che è pericoloso ed erroneo confondere l’una con l’altra.

b) La diversità sta in questo: con l’affermazione generica io ammetto molteplicità di mezzi per far partecipare agli utili, mentre non ne escludo nessuno e mi riservo di selezionare tra essi secondo giustizia ed opportunità, come pure di dosarli e di contemperarli; con l’affermazione specifica io ne eleggo uno soltanto e non ho mezzo d’evadere se questo è imperfetto o almeno in determinate circostanze assolutamente sconveniente. Nel primo caso ho il mezzo, ne ho la scelta senza correre l’alea; nel secondo caso io rimango impegnato dall’alea stessa. È davvero il caso di ammirare la preveggenza e la prudenza con cui la Chiesa tratta tali questioni, gravi non solo dal punto di vista morale, ma altresì dal punto di vista tecnico. Ma è bene spiegarsi meglio: lo faremo tra breve.

c) L a partecipazione agli utili in senso specifico,, non è enunciata come legge generale, ma solo come « cosa prudente… quanto è possibile » e non da sola, ma come contemperamento tra contratto di lavoro, e contratto di società. Contratto di società è appunto quello che determina la partecipazione agli utili in senso stretto e specifico.

Che pensare del contratto di società

La partecipazione agli utili in senso stretto implica questo: i dipendenti hanno diritto a dividersi una quota parte del profitto netto dell’azienda; hanno di conseguenza il diritto di inquisire e conoscere il bilancio per sorvegliare e tutelare l’integrità delle loro spettanze; diventano praticamente, almeno in un certo senso, dei soci del padrone. – Ci sono molti elementi da osservare con attenzione,

a) Anzitutto, in linea di giustizia, esiste un diritto che renda legittimo il partecipare ai profitti? L’esistenza di un certo diritto parrebbe attestata dal fatto che Pio XI consente di contemperare il contratto di lavoro (sul salario) col contratto di società (partecipazione ai profitti). Questo aliquale diritto pare sostenuto in vigore di giustizia da buone ragioni. Il lavoro infatti dà al prodotto qualcosa che non è giustificato solo dalla materia prima e dalla macchina (cose del padrone), ma sta ben oltre; sicché non pare doversi qui applicare unicamente in favore del padrone il principio « res fructificat domino » (la cosa fruttifica per il padrone), dato che c’è un’altra « res » che dà qualcosa di specifico al prodotto. E quella « res » è almeno di alcuni, di molti operai. – Inoltre, anche a prescindere da sottili ragionamenti, in molte delle industrie appare enorme la sproporzione tra il benessere che va comodamente al capitale, sì da farlo elefantiasi, e il sufficiente necessario che, sudato, scende al lavoratore. Questa sproporzione avverte una anormalità innaturale. – Finalmente l’industria ed il suo capitale appaiono sempre più legati alla compagine sociale, in quanto senza lavoro non si attuerebbe e senza consumatori morirebbe; questo essenziale vincolo alla compagine sociale fa sempre più ripugnante il concepire l’industria in funzione smisuratamente egoistica. Questo rilievo non condanna né industria né capitale; avverte solo che si è certamente andati un po’ troppo dalla parte dell’interesse ristretto dei pochi. È il « troppo » che si deve correggere, non la cosa che deve essere abolita.

b) Ma perché abbiamo cautamente parlato di un « certo » diritto, di un « aliquale » diritto? O è diritto o non è diritto. Certamente. Ma tutti ammettono che le espressioni debbono usare degli epesegetici prudenziali, finché il loro contenuto non è ben chiarito scientificamente in tutti i punti. Ora se la luce pare fatta abbastanza nel senso generico di poter esser legittimo un partecipare direttamente ai profitti, non è — a nostro modesto giudizio — altrettanto fatta su diversi punti e cioè: se le ragioni addotte (soprattutto la prima) valgono nella stessa misura proprio per tutti i salariati (manovali e braccianti ad esempio); se sempre costituiscano un titolo di stretta giustizia o non piuttosto una ragione di semplice equità; se valgano sempre e solo nei confronti colla propria azienda o non piuttosto in rapporto a questa e alla società intera; se non possano esser soddisfatte in un veramente congruo e generoso salario. La questione come si vede è ancor delicata; molto se ne è parlato, poco se ne è scientificamente inquisito. Siccome dinnanzi a Dio noi possiamo fare applicazioni nell’ambito dei principi certi, si vede quanta prudenza occorre qui, dove il sufficientemente sicuro è mescolato ancora coll’incerto. Ciò che, ripetiamolo, fa stimare la prudenza del linguaggio dei Papi, e stimola l’indagine degli studiosi. In certe questioni, col sentimento si correrebbe molto, ma non può essere questo l’arbitro, per quanto esso dia spesso il presentimento e l’intuito della verità. Certo è questo: verificandosi le debite condizioni, il contratto di società in contemperamento col contratto di lavoro è onesto, quindi si salda senza dubbio con una ragione di giustizia; è anzi secondo s’esprime Pio XI « cosa più prudente che, quanto è possibile, il contratto del lavoro venga temperato alquanto col contratto di società ».

c) Altra questione è: se il contratto di società in sé e per sé sia universalmente opportuno. Si noti che il Papa ne parla invece solo come di un contemperamento. Se noi lo vogliamo studiare nel nostro presente ordinamento sociale ed economico, c’è da dubitarne.

d) Finalmente l’uso esteso del semplice contratto di società, può provocare una sperequazione e porre una nuova questione. La sperequazione sta nel fatto che i profitti delle aziende non sono gli stessi: accanto ad aziende dall’enorme giro di affari con pochi dipendenti, stanno le aziende con enormi masse operaie, dinnanzi al cui numero si ridurrebbe a quote irrisorie il profitto dividendo. Ne nascerebbero categorie privilegiate e categorie praticamente diseredate, senza meriti o demeriti capaci di giustificare una tale violenta discriminazione. Ed ecco il nuovo problema: si dovrebbe andar alla ricerca di un metodo per livellare. Metodo e suoi strumenti non sarebbero realizzabili — il che è evidente — nell’ambito della singola azienda, occorrerebbe cercarli in istituzioni intermedie di raggio più vasto (Stato, sindacati ecc.), a mezzo di casse di conguaglio e di compensazione.

Concludiamo:

— il contratto di società è onesto e « più prudente » in contemperamento al contratto di lavoro, purché si verifichino le necessarie condizioni;

— può anche esser, quanto è possibile consigliabile;

— non appare realizzabile in modo universale sia per i facili inconvenienti, sia perché dovrebbe essere completato da istituzioni intermedie.

— nessun dubbio può esserci — là dove sono possibili — sulla opportunità di tutte le forme cooperative.

La generica partecipazione agli utili

Eppur nessun dubbio può rimanere su questo punto: che le classi meno abbienti abbiano il diritto di partecipare agli utili delle classi più agiate. Ecco le questioni: poiché qualcuno dovrà « dare », chi potrà essere questo «qualcuno »? Quali sono i modi con cui può avvenire questa devoluzione di benessere?

a) Se è al bene delle classi abbienti che i poveri debbono partecipare, sono dunque le classi elevate quelle cui incombe l’onere di « dare ». Il « dare » ha ragione d’essere là ove il capitale s’alimenta del lavoro. Anche fuori d’ogni contratto di società, pare dunque giusto che le aziende (con qualunque nome si chiamino) devolvano qualcosa del loro profitto a tale scopo, sempre nel limite del possibile e delle generali esigenze dell’economia. In altri termini la partecipazione agli utili potrebbe forse attuarsi intanto sotto la forma di contributi sull’utile netto delle aziende. Non si può escludere a priori che il convoglio del benessere ai meno abbienti, prenda la forma di tassazione qualora si verificassero tutte le condizioni entro le quali lo Stato può imporre tasse ad uno scopo determinato. Lo Stato stesso, nella misura in cui viene a disporre della ricchezza e secondo i criteri della giustizia distributiva, non può venir escluso dall’onere di aiutare le classi più misere. – In via generale è chiaro che le sorgenti della linfa da condurre alla zona economicamente anemica debbono essere fissate più o meno nell’ambito indicato, poiché non dà se non chi ha. Naturalmente in concreto tutto questo va fatto osservando col massimo scrupolo le leggi della giustizia commutativa, distributiva e legale, nonché badando bene all’esistenza di un vero titolo giuridico obbligante al contributo. Non è qui ancor questione del « modo » con cui si possa fare, ma del fatto che « si debba fare ». – Questo è importante: poiché nessuno parteciperà se nessuno darà, qualcuno dovrà pur dare. E se è giusto, che qualcuno partecipi è giusto altrettanto, che qualcuno dia; anche se noi abbiamo indicato in via di ipotesi soltanto chi potrebbe essere chiamato a dare. Il difficile sta nel creare la mentalità che qualcuno deve essere meno egoista; posto che nessuno Stato ha il tocco di Mida sicché non può certo raggiungere l’ideale del benessere dei poveri, chiedendo niente a nessuno. È necessario preparare colla convinzione molta gente a qualche sacrificio, che potrà essere negato solo nella sciocca incoscienza dei pericoli e dei rivolgimenti sociali forse incombenti.

b) La questione sul come realizzare la ricchezza da devolvere è ben diversa dall’altra sul come devolvere. Nell’ipotesi in cui non si generalizzi il contratto di società — e in tutti i modi moltissimi, specialmente nelle nazioni ad economia parzialmente industriale, ne rimarrebbero fuori — è chiara la necessità di ricorrere a istituzioni intermedie le quali facciano da collettori e distributori. Tale istituzione potrebbe essere lo Stato; è difficile però pensare sia esso solo in un regime sano e democratico. È preferibile la concorrenza armonizzata dello Stato (per la parte che esso solo può fare) e di altri enti minori (corporazione, sindacato, ecc). Quanto alla forma di devoluzione degli utili, diversi possono essere i criteri: si può adottare il mezzo diretto fungibile delle comodità (contributo in danaro); si possono senz’altro fornire le comodità (case, opere d’assistenza, opere d’utilità pubblica, di istruzione ed educazione, assicurazioni e pensioni). Criteri di assegnazione possono essere il titolo di lavoro, il merito, gli infortuni, il bisogno. Tutto sarà dato colla coscienza di assolvere un debito; sarà ricevuto colla coscienza di avere un diritto. Senza questa correlativa coscienza è inevitabile la divisione dell’umanità in boriosi e forzati benefattori e umiliati, fatalisti, mendicanti, parassiti. Tant’è vero che tutte le questioni sfociano sul terreno morale! È chiaro: elemento massimo è questo: si deve al lavoro una retribuzione, al povero un patrimonio morale.  – La partecipazione agli utili comunque avvenga dovrà attuarsi avendo innanzi il principio che là ove l’educazione, la sobrietà e l’economia fanno difetto è assai meglio fornire le comodità e il benessere, che non dare il mezzo per liberamente farselo. Nessuno ignora che molti, troppi, con più danaro in mano scialerebbero, rimanendo impenitenti al punto di prima.

Nuovi compiti

Il dovere della partecipazione degli utili nasce essenzialmente da un fatto. La civiltà meccanica e la tecnica moderna hanno collettivamente moltiplicata la ricchezza, ma mentre tutti in modo diverso hanno concorso a questa moltiplicazione, mentre tutto quanto era destinato al benessere dell’intera umanità ha apportato la realtà prima, relativamente pochi ne hanno avuto un notevole e proporzionato miglioramento di condizione. Il problema non ci mette solo innanzi ad alcuni che stanno bene e ad altri che stanno male, bensì al mistero per cui l’umanità, sebben fatta di persone, costituisce qualcosa di « uno » , sì da avere una insopprimibile esigenza di riversibilità dall’uno all’altro non solo del male, ma anche, e soprattutto, del bene. Questa voce profonda occorre sentirla e meditarla. – Il problema in quanto determinato da condizioni nuove e proprie della nostra età è anch’esso nuovo. Avvertire .questo è avvertire nuovi compiti:

a) Per la concezione e lo studio morale sociologico, economico.

b) Per lo Stato, che sorto in funzione essenziale di complemento, deve dare tutta la sua attenzione all’attuazione di un simile equilibrio.

c) Per l’opera legislativa, alla quale s’apre un campo immenso, dato che le sistemazioni sociali non si debbono raggiungere a strattoni ed a slanci occasionali, ma coll’opera severa, solida ed impersonale della legge. L’ordine giuridico non acquista solo un compito oggi e domani, un corpo di leggi, ma vede ribadito un concetto che per molto tempo e sotto certi aspetti gli era rimasto lontano, concetto essenzialmente ontologico, ma anche morale, per cui il genere umano viene considerato come una realtà unita e vivente anche in profondità. – Forse se da duemila anni il mondo non fosse stato anche a sua insaputa arato dal dogma della comunione dei Santi, sublimazione soprannaturale della comunità naturale, gli uomini non si sarebbero mai accorti a sufficienza dell’esistenza di questa.

5. – Il massimo debito morale verso il lavoro

Quand’anche si fosse dato al povero il migliore dei salari o degli stipendi, quando lo si fosse pure chiamato con un retto ordine sociale ad assidersi, partecipando agli utili, al banchetto della ricchezza, non si sarebbe affatto abolita la lotta di classe, l’odio tra gli uomini, l’irrequietezza dell’ordine civile. Mancherebbe ancora qualcosa e questo « qualcosa » senza del quale nulla varrebbe al benessere ed alla pace, col quale soltanto l’uno e l’altra si raggiungono, ha pertanto il diritto di essere ritenuto l’elemento massimo. Chi pensa di sistemare il mondo solo satollando stomachi e sensualità, spersonalizzando e rimpastando ricchezze, non conosce affatto gli uomini i quali « non vivono di solo pane ». Il torto massimo del socialismo sta nel suo materialismo, che ad onta degli eufemismi, considerando l’uomo un tubo, quand’anche arrivasse a dargli quello che conclama, gli darebbe soltanto il pane. Mentre l’uomo, spirito, cuore, libertà ed attesa di cose migliori, non vive affatto di solo pane. In questo tragico errore sono caduti troppi sociologi moderni. Là dove è stato fatto il massimo per la soddisfazione materiale dell’operaio, l’operaio non è stato contento. – Tale idea è fondamentale tanto nell’enciclica « Rerum novarum », nella « Quadragesimo anno », nel Messaggio 1942 di Pio XII, quanto nella concezione sociale del Vangelo, per cui anche all’ultimo degli uomini si deve quell’immenso dono morale che è contenuto nientemeno che nella parola « fraternità », fatta di visioni soprannaturali e di amore. Si può dire che fuori dall’influsso del Vangelo e della dottrina della Chiesa c’è sempre stata scarsa o addirittura nulla sensibilità per questo aspetto del problema. – Quali gli elementi di questo patrimonio morale che si deve rivendicare al povero? Qualche cosa già è stata detta parlando dell’ordine sociale che il Papa vorrebbe instaurato ed i cui benefici vengono da Egli presentati come un complemento del salario. Quei benefici stanno tutti in una parola: dare al povero delle possibilità di progresso, aprirgli una speranza ed una ascesa. È bene tener presenti quegli elementi. Ma il patrimonio morale non consta solamente di essi. Il Papa qua e là nel suo Messaggio li enumera.

a) « Uguaglianza intellettuale e differenza funzionale ». È come dire: gerarchia nei doveri, sostanziale identità nei valori. È come riconoscere ad ogni uomo, anche all’ultimo, che non ha nella sua natura nulla di sostanzialmente minore dei più grandi e fortunati tra gli uomini. Questa parte del patrimonio morale la si dà a chi va, col contegno, col rispetto, con l’abitudine individuale e collettiva d’una finezza profonda. È una realtà quando nulla nel gesto, nel calcolo, nella inflessione della voce, nello stile, nel difetto di cortesia rivela che si stima un altro inferiore a sé, solo perché non ha un bel nome, belle abitudini, agiatezza e cultura. Fintantoché il povero sarà messo in grado di temere a porger la sua mano al ricco, il dipendente dovrà tremare innanzi alla maestà del denaro, la persona modesta essere sbalordita e intimidita dall’esibizione del signore, l’uomo del popolo svergognato, sfuggito ed escluso da troppi ambienti; fintantoché la nessuna finezza spirituale, la mancanza di carità e di buon senso, servite magari dal disprezzo, dal sogghigno, dall’alterigia e dalla licenza, incideranno tutte le odiose discriminazioni, sarà negato all’operaio, all’uomo modesto la miglior parte del suo salario morale; egli si sentirà paria, non gli basterà la sua libertà, egli odierà ancora; la lotta di classe arrosserà ancora gli animi e poi la vita pubblica e poi, finalmente, la strada. Solo una educazione cristiana che incida il senso del quanto siano contingenti e secondari il denaro, la fortuna, il prestigio e il potere, del quanto sia comune il bisogno d’amore, di bontà, di compatimenti e di perdono innanzi agli uomini e a Dio, può instaurare la vera uguaglianza nel valore umano senza nulla defraudare alla gerarchia dei doveri e degli uffici sociali. – Il povero domanda soprattutto questo: di essere considerato uomo, persona, al pari degli altri, di averne il rispetto, di goderne il riguardo. È questione essenzialmente spirituale che solo in sede morale e religiosa può essere risolta. L’uomo deve arrivare a non dover aver paura del bene dell’altro uomo, della superiorità funzionale del suo simile. Il vecchio mondo, ipocrita in quasi tutti i suoi programmi, o si converte su questo punto o si condanna a morte. Non basta l’uguaglianza giuridica, è necessaria quella effettiva della coscienza e del costume.

b) « Amore e diritto ». Questo amore parte con un minimo di senso sociale, per cui i più forti non badano solo a sé ed al proprio interesse, ma tengono conto dell’esistenza degli altri, non misurano le cose dal proprio provento, ma anche dal quanto influenzino in bene o in male la felicità pubblica. La parola « amore » ha in questo caso infinite altre traduzioni ed applicazioni di cui si vede il catalogo più completo nella storia dei Santi, veri e puri benefattori dell’umanità. L’amore delle classi migliori ha creato per i più bisognosi tutta l’organizzazione dell’assistenza, della supplenza, del multiforme soccorso. La Chiesa ha tradotto il suo amore al popolo — sola in questo — con falangi di anime che vivono per la carità ed il servizio. Molti ordini religiosi, sono per la questione sociale una risoluzione, una dimostrazione della sua solubilità, un simbolo delle sue capacità. – Il « diritto » che va dato al povero è essenzialmente l’abolizione delle condizioni di privilegio, sia provengano da regimi da cui forza è creare una casta dominante, sia discendano dalla legislazione, sia s’attuino in una esagerata capacità di influenza attribuita al denaro.

c) Garanzia di una « piena responsabilità personale, quanto all’ordine terreno, come quanto all’eterno ». Responsabilità nell’ordine temporale suppone la partecipazione ad esso. Ciò suppone una collaborazione di pensiero, di volontà e di opera aperta a tutti. L’operaio, il piccolo stipendiato devono avere la possibilità di entrare nella vita pubblica come tutti gli altri, nell’ambito, si intende, del loro valore e della loro cultura. Tutto questo non sarà possibile senza la indipendenza economica di cui abbiamo parlato, ma la sola indipendenza economica non darà mai all’operaio la soddisfazione di essere « un uomo ». Necessita dargli quanto occorre perché sia e si senta « persona ». Prima che dalla miseria, deve essere redento dall’avvilimento. – I sistemi filosofici e politici, che uccidendo lo spirito, riducono l’uomo ad essere un « tubo », perpetrano l’assassinio del suo benessere. – Perché io lasci parlare l’uomo debbo prima credere che egli pensi; per credere che pensi debbo prima ammettere che ha un’anima spirituale. Perché io lo lasci agire liberamente devo pensarlo libero, e per stimarlo tale io debbo ancor una volta ricordarmi che egli è spirito. Se io gli prometto la libertà di parola e di azione, ma gli nego lo spirito come fa Marx, io gli prometto l’America e gli strappo il passaporto per andarvi. Tutte quelle libertà si riconoscono sempre nella fase preparatoria, per allettare ed invischiare; si rinnegano sempre quando lo scopo dell’asservimento è raggiunto.

La questione sociale verte sull’uomo completo, non su di un animale.

6. – Dare al lavoratore la fede

Chiediamoci: quando avremo dato al lavoratore il suo giusto salario, quando avremo creato un ordine che gli completi il salario stesso in molte ed opportune provvidenze, quando gli avremo data una posizione morale in cui egli si senta persona, avremo davvero eliminati gli attriti fra le classi, saranno contenti gli operai? C’è da dubitarne profondamente, almeno se ci si mette da un certo punto di vista. Infatti anche a queste favorevoli condizioni il lavoratore dovrebbe contemplare altri, intesi a più nobili e delicati uffici, altri dotati di più agiata condizione, altri più fortunati di lui. Non è possibile livellare tutto al mondo, per la stessa sua varietà e per la varietà delle esigenze, degli umori, dei valori e dei temperamenti. Egli, il lavoratore, sarebbe costretto a rilevare d’essere inferiore. – Supponiamo che questo modesto uomo fosse sicuro del paradiso in terra, supponiamo gli mancasse la certezza di un’altra vita in cui tutto viene pareggiato secondo giustizia e secondo merito, supponiamo egli si senta stretto in tale piccola cerchia, alla quale tutto si deve strappare e nulla rinunciare, dopo della quale più nulla sopravvive, più nulla compensa dell’attuale miseria. Come sarà possibile che questo uomo si rassegni ad essere inferiore? Come potrà egli rinunciare sotto l’istinto insopprimibile d’una felicità completa, a tollerare altri più agiati; come riuscire a respingere la proterva sobillazione d’invidia, la fanatica tentazione dei mezzi più orrendi per sostituire se stesso a chi giudica fortunato? Senza la visione d’una vita e d’una compensazione eterna, come è sopportabile l’esistenza senza il delitto, la rapina, la ferocia? E, quello che è più grave, in tal caso, in tali efferate applicazioni, l’uomo della strada sarebbe perfettamente logico! – Gli illogici sono coloro che gli chiudono il cielo o gli infangano così il volto e gli occhi colla loro erronea cultura e il loro allettamento sensuale, da non fargli più vedere il cielo, pretendendo poi che il povero « uomo » stia a posto. Che c’è di più logico, in un poveraccio, sicuro di non sopravvivere, del volere assolutamente aver tutto, disporre di tutto, dominare su tutto, e vendicarsi della natura da cui trasse tali inumani desideri e sì angusti confini? Un uomo può capire ragionevolmente — il che è peraltro ineluttabile — esser necessario al mondo una diversità di stato, doversi accettare senza quiescenza fatalistica l’umiltà di una condizione colla sua speranza di miglioramento nella volontà e nel lavoro, solo se ha una fede in Dio e nella vita futura. Se non l’ha, accetta il mondo, il suo ordine qualunque sia, per abulia, per debolezza, per fatalismo, per disperazione. Ma allora non c’è più un uomo! L’ordine sociale, che ha per inderogabile substrato la natura e tutte le sue varietà, sì da esser necessariamente multiplo nei diversi elementi (è utopia ogni concetto diverso), non sta insieme senza la fede in Dio, senza l’ordine religioso. – Questa verità domina tutta la triste esperienza dei nostri tempi. Della questione sociale si vuol fare una questione essenzialmente ed assolutamente laica, agnostica per lo meno. Il risultato è che non è mai stata composta, neppure nelle più libere e sfrenate esperienze scientificamente condotte (bolscevismo), perché là è diventata assassinio sistematico dell’uomo intelligente e libero; né sarà mai risolta, finché l’uomo sarà capace di pensare, di peccare, di invidiare e di scegliere tra il meglio e il peggio. La sistemazione dell’operaio va fatta anzitutto sul piano spirituale. È inutile ribellarsi per dispetto a tale obbiettiva verità. Senza religione l’operaio sarà sempre infelice. Senza religione arderà sempre di odio e di invidia. Senza religione non avrà né speranze, né protettori. – Senza religione mai gli basterà lo stipendio, la casa, il club.  Scristianizzarlo è assassinarlo, dopo il lento avvelenamento di tutte le cose che son fresche di sorriso solamente nel sole di Dio. Prima ancora che lo stipendio ed un ordine sociale giusto dobbiamo dare all’operaio la sua religione L’oro e il diamante stesso non brillano, se manca il raggio almeno dell’umile lucerna. Con ciò la questione sociale è collocata al punto giusto.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (4)

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (2)

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (2)

2. Edizione EDITRICE A. V. E. ROMA 1943

II. – Personalità

Nel messaggio di Pio XII la personalità è una idea grande, è una realtà concreta, è un punto di riferimento generale per tutte le questioni inerenti all’ordine interno degli stati. La personalità umana (il suo valore, i suoi diritti, la sua qualità di « metro») è l’affermazione potente e lucida del diritto di natura, in nome del quale se ne parla e dalle indicazioni del quale, viene definita.

1. – Quello che il Papa afferma

E’ utile avere innanzi agli occhi un prospetto riassuntivo delle affermazioni del Santo Padre intorno alla personalità. Possono esprimersi in cinque punti.

1) “Origine e scopo essenziale della vita sociale vuol essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della vita umana, aiutandola ad attuare rettamente le norme e i valori della religione e della cultura segnati dal Creatore a ciascun uomo e a tutta l’umanità, sia nel suo insieme, sia nelle sue naturali ramificazioni ” .

2) La pace è subordinata al “ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio”.

3) Ci si deve opporre “all’eccessivo aggruppamento degli uomini “ed al considerarli “masse senz’anima”; proprio per questo è necessario che gli uomini-persone abbiano una “consistenza economica, sociale, politica, intellettuale e morale”, nonché “una, responsabilità personale, così quanto all’ordine terreno, come quanto all’eterno”.

4) L’operaio non deve venir “condannato ad una dipendenza e servitù economica inconciliabile con i suoi diritti di persona”; inoltre le forme sociali debbono essere tali da garantire una libertà personale.

5) Si deve sostenere “il rispetto e la pratica-attuazione dei seguenti fondamentali diritti della persona: diritto a mantenere e sviluppare la vita corporale, intellettuale e morale e particolarmente il diritto ad una formazione ed educazione religiosa; il diritto al culto di Dio privato e pubblico, compresa l’azione caritativa religiosa; il diritto in massima al matrimonio e al conseguimento del suo scopo; il diritto alla società coniugale e domestica; il diritto di lavorare come mezzo indispensabile al mantenimento della vita familiare; il diritto alla libera scelta dello stato, quindi anche dello stato sacerdotale e religioso; il diritto ad un uso dei beni materiali, cosciente dei suoi doveri e delle limitazioni sociali”. È chiaro: la persona umana è il principio, il criterio, la misura, il soggetto ed il punto di riferimento di tutte le questioni umane; è il centro da cui tutto parte, in cui tutto si colora, cui tutto confluisce; il suo rispetto è la base di una costruzione umana e non mostruosa. – Tale rispetto ha per oggetto immediato una serie di diritti, i quali scaturiscono solo se si riconosce la « persona », muoiono se quella divien chimera; diritti che l’aspirazione umana ha sempre profondamente, totalmente invocati come assolute condizioni di vita, sì da apparire una morte la loro brutale negazione. – La « centralità » della persona umana è una delle più gravi affermazioni del Messaggio. Ad intenderla è necessario portare l’attenzione su diversi concetti.

2 . – Che è la “persona ,,

Anzitutto una questione di competenza. Chi ha il diritto di dare la definizione di persona? Rispondiamo senza esitazione: il buon senso umano. Lo può e ne ha gli elementi. Il concetto di persona infatti è astratto allorché lo si presenta in quella forma teorica che, sola, plasmandosi in modo intellettuale, può entrar nei libri. Ma la « persona » in concreto c’è; è vivente, è esaminabile; essa è semplicemente l’uomo individuo. Sicché, purché non abbia pregiudizi artificiali sia deformatori (il « sistema » accanito), o inibitori (l’agnosticismo kantiano), il buon senso può guardare, indagare e trarre serenamente la sua conclusione, che è un concetto nitido e completo. Era necessario dir questo per giudicare delle diverse definizioni di « persona », più che discutibili, proferite da esponenti della filosofia moderna (Spinoza, Wolf, Hume, Kant) ai quali fece velo il sistema o il dubbio. La filosofia, spesso poggiata sulle nuvole, poté oscillare e dir cose strane e contradditorie; il diritto invece, più severamente ancorato ai fatti ed alla realtà dalla sua stessa funzione e dalla acuta opera distintiva della competizione forense, fu più serio e stabile e diede in genere in una forma concreta il concetto che della persona diede sempre il buon senso umano. Il quale, non c’è dubbio, ha più diritto di esser ascoltato che non i dubbiosi per paura, gli strani per costituzione e frenetici del sistema.

… il concetto filosofico

Ora il buon senso, espresso dalla tradizione scolastica, ha definito e sente la persona essere così: l’individuo razionale (uomo, angelo, ecc.) che sussiste nella sua naturale costituzione in modo autonomo (distintamente). Razionalità ed autonomia sono dunque le caratteristiche costitutive della «persona». Razionalità implica un principio spirituale ed intelligente e trae nel concetto di persona tutto il mondo psicologico. Autonomia è la distinzione, l’essere in sé ed a sé (salva la dipendenza da Dio), qualcosa di completo e di sufficiente, non parte d’altra cosa, non mezzo o strumento per natura di nessuno, salvo Dio; con natura, legge fondamentale, diritti e doveri basilari, finalità, definiti indipendentemente dall’essere o dall’agire di qualsivoglia altra creatura. – Autonomia nella razionalità significa intelletto e volontà autodeterminantisi, ossia significa la libertà, che è senza dubbio il fastigio della persona. La somma di queste note sono come un tratteggio che tutto all’intorno mette in rilievo emergente una stupenda e rispettabile grandezza. Nell’orbita della persona si agita un mondo, che sovrasta potentemente il mondo materiale inquadrato nella rigida disciplina delle leggi fisiche. – Fin qui l’idea filosofica o, se piace la parola, ontologica della persona. Qualcuno troverà tutto questo discorso abbastanza teorico: non ha poi torto, ma dovrà convenire che era pur necessario alla chiarezza dei fondamenti. Desidera con maggior diritto un tratteggio più umano della « persona », che sarà bene egli contempli in un uomo ben definito e concreto. Quest’uomo può esistere — coll’aiuto di Dio — anche se nessuna altra cosa esistesse: perché egli sia, sia uomo e non un’altra cosa, sia questo uomo, presupposta la causa originativa e il concorso divino, nessun’altra cosa occorre. Se, sostenuto da quel concorso, egli rimanesse mentre il rimanente svanisse, sussisterebbe pienamente la sua natura, la sua legge, la sua finalità. Se tutto il mondo fosse connesso contro di lui per strappargli un « sì » o un « no », egli rimane perfettamente libero di concedere o negare dispoticamente l’uno e l’altro. Forse è per questo che i Martiri sono la più pura e coraggiosa espressione della personalità. Ecco che cosa è l’autonomia. Queste considerazioni erano necessarie per vedere quale mondo, quale roccaforte, quale riserva, quale riflesso divino, quale principato tra le cose terrene, quale cosa rispettabile sia questa persona-uomo, base e metro, principio e fine d’ogni costituzione sociale e politica, la quale dinnanzi ad una simile dignità sente d’esser fatta essenzialmente per servire.

L’importanza

1) Anzitutto i diversi valori si dispongono in un ordine piramidale di cui la « persona » sta evidentemente al vertice. Il suo concetto stesso lo prova.

2) Tutto attinge valore e significato dalla persona e nella persona. Il diritto non è altro che la sua autonomia che si traduce in capacità di avocare a sé e respingere da sé. La legge è espressione di persone, perché la sua formulazione intellettuale e la sua imposizione volitiva non le viene da qualche ente astratto od anche giuridico,, ma dall’esercizio di facoltà in persone singole. – Le idee, le ideologie ed anche le false mistiche non discendono dalle nubi come cavalli platonici bianchi o rossi o verdi, ma si formulano nel cervello di singole persone. Perché diritti, leggi ed idee valgano e si attuino hanno bisogno del loro terreno; e questo è ancora la persona. Lo Stato può essere concepito come si vuole con idee giuste e false, ma fruisce sempre col coincidere con una o più persone, coi loro difetti assai spesso, raramente colle loro personali virtù. – Il soggetto della legge, del contratto, delle istituzioni, quindi della costruzione sociale e politica è sempre l’uomo-persona. Gli umori soddisfatti e quelli insoddisfatti sono nelle « persone »; proprio quelle benevolenze e malevolenze, decidono d’un fatto concreto che si chiama « opinione pubblica » e, a lungo andare, pace  o rivolta. È impossibile che questo mare non si muova, non mugghi, non roda la terraferma o non vi getti la ghiaia e i relitti; possiamo ignorarlo, ma è esso che col suo moto perenne decide dei limiti dei continenti. Che ci costringe moralmente a rispettare la persona è la sua autonomia, dono di Dio; che la vendica costantemente contro il sopruso è la sua razionalità feconda ed immortale, che pensa, ricerca, soffre, vuole e decide. La conclusione è limpida: tutto si misura e si colora nell’uomo-persona.

Questo non è l’individualismo

Rispetto alla persona ed individualismo, non solo non sono la stessa cosa, ma sono antagonisti. Individualismo è pensare egoisticamente a sé senza il limite di una legge che impone doveri sociali. Rispettare la persona è rispettare la sua natura, che ha una legge prescrivente finalità e doveri sociali. – L’individualismo ignora e contraffà quel complesso di diritti, di riflessi, di fecondità che invece irradia dalla persona. L’individualismo sostituisce il fatto al diritto; il culto della persona, sorgente del diritto, restituisce il diritto prevalente nella forza. La persona è una ricchezza — dobbiamo forse ancora dirlo? —, l’individualismo è una dichiarata miseria accentratrice. Rispettare la persona significa amare qualcosa da parte di tutti; aver dell’individualismo significa rispettar nessuno. La persona — e lo vedremo — si sviluppa in società, l’individualismo si contrae in solitudine inumana e violenta. Non confondiamo dunque dei termini per farne mascelle di asino. Si vedrà subito come il concetto di persona sviluppa una morale di rapporti; si è sempre visto come l’individualismo si è beffato nonché della morale, persino dei rapporti coi propri simili.

3. – Caratteristiche della personalità

D’accorato appello del Pontefice è per una valutazione giusta o rivalutazione adeguata della persona umana. Sia l’uno che l’altro intento è raggiunto puntando sulle doti concrete elargite da Dio alla persona, nonché sulle conseguenze di questa. Tutto ciò in due sensi: occorre rispettare negli altri ed occorre rispettare in sé. Perché rispettare anzitutto in sé? Ecco: c’è un divario tra persona nel senso fisico (quello descritto sopra) e persona nel senso morale. Da prima è una realtà in parte potenziale, che solo la volontà, l’educazione e la virtù sviluppano; la seconda è lo sviluppo e la perfezione raggiunta attraverso un cosciente lavoro su se stessi. Difatti tutti gli uomini sono « persone », non tutti hanno una « personalità », sono se stessi; ciò è perché quello sviluppo non ha trasformato la capacità in realtà, qualcosa è rimasto invece latente, trascurato, sprecato. Sarebbe un controsenso invitare tutti, uomini e istituzioni, Stato compreso, a rispettare la personalità, mentre nessuno la rispetta e la completa in se stesso. Sarebbe una commedia. Abbiamo già visto che le doti fondamentali della persona sono: razionalità ed autonomia.

L’uso della propria testa

Poiché la prima dote della persona è la razionalità, è necessario usarla e lasciarla usare. Senza di che non c’è rispetto alla persona. Questo uso è una dote, un impegno, un prestigio. Bisogna dunque usare della propria testa. Non è lecito affittare puramente e semplicemente quella degli altri, del giornale, dell’ambiente, del club, dell’opinione in corso, della moda. Chi affitta, non è « persona ». Usare della testa, non affittare, è ponderare, esaminare, indagare ed esercitare, soprattutto, nel vaglio delle cose che si ammettono, il senso critico. Chi beve tutto, chi accetta tutto dietro raccomandazione del sentimento suo eccitato, dell’entusiasmo brillo, dell’impressione, senza cercare una ragione sufficiente, senza la pazienza obbiettiva di convincersi sul sodo, non è persona. L’uso della propria testa non è universale. Vi sono dei limiti ragionevoli. Eccoli: non so tutto ed in quello che so devo dipendere da chi sa; non so bene e devo rifarmi in chi sa meglio; ho difetti di logica, di scienza, di visione e devo completarmi coll’umiltà che s’appoggia all’esperienza, al consiglio, alla luce, alla giusta autorità degli altri. Così sarò prudente, discreto e saggio. Ma tutto questo mi lascia un margine in cui io agisco, mi lascia un ufficio in cui io ragiono, sia pur conscio del mio poco valore, su quello che mi vien da altri: rispettando questo, salvo la prudenza e la saggezza, ma esercitando il mio lume intellettuale salvo la mia persona. L’umiltà e la coscienza di sé ugualmente la salvano. Bisogna lasciare che gli altri usino della propria testa. Il pensiero, la scienza, l’esercizio della sana critica onesta, non si standardizzano. Gli uomini non si possono trattare come bambini ai quali si suggerisce cento volte al giorno « dì buon giorno, dì grazie ». Una delle cose più tristi della nostra età — almeno in taluni casi — sono i ministeri della propaganda, che dovrebbero informare il pubblico sulla verità, ed invece insufflano, orchestrano la menzogna sistematicamente, come se si fosse un branco di scemi. Quando al sistema limpido spontaneo della natura, figlia a Dio, e del suo diritto si sostituiscono i sistemi architettati in sostituzione, rossi o verdi che siano, è purtroppo necessario fare così. Tanto è vero che sono innaturali. Ma il lodevole proposito di lasciar agli altri usare della propria testa deve essere illuminato da alcune inflessioni, le quali impediscono visioni strabiche e conclusioni ingenue, 1) La verità è una, l’errore è il primo danno della società: la difesa di quella, la remora a questo sono un supremo interesse comune. Ciò non è un limite alla « testa », ma una doverosa ed insieme caritatevole correzione di certi usi ed abusi. 2) L’ignoranza è grande, le idee storte innumerevoli: ciò invoca ad un certo punto l’aiuto, il coraggioso aiuto, l’opera educativa, l’orientamento saggio, l’organizzazione del servizio alla verità. Non oppressione, ma aiuto e qualche volta difesa cogli onesti mezzi legali. Rispetto dunque, non oblio della verità sulle tare del peccato di origine tra gli uomini.

L’uso della propria coscienza

L’intelligenza in quanto giudica della moralità delle proprie azioni in concreto diviene « coscienza ». In quanto è giudizio, direttiva, orientamento nell’iniziativa, la coscienza è insieme espressione tanto della razionalità che della autonomia. Sicché non si rispetta la persona che a prezzo di rispettare la coscienza, il suo esercizio, il suo dettame. Un uomo è persona tanto quanto agisce nella pienezza della coscienza propria senza affittare la coscienza del primo arrivato, dell’ambiente. Poiché coscienza è intelligenza, occorre aver presenti a suo proposito tutte le considerazioni prudenziali fatte or ora sull’uso della « testa ». – Testa e coscienza sono penetrali nei quali nessuno, neppure lo Stato, può direttamente entrare. Anche i più grandi persecutori della personalità umana dovranno pur sempre fare i conti con questo insuperabile limite della loro invadenza.

L’iniziativa

La autonomia della persona è una dote che eleva la natura in cui quella vive, è anzi immanente nella natura, si identifica con essa; sicché è vero che l’autonomia, tanto si estende e tanto vale quanto si estende e vale la natura. La quale è essenzialmente operativa e dinamica. Operazione ed autonomia danno: iniziativa. Ecco una dote della personalità. Rispettarla significa dunque riconoscerle un margine congruo di libera iniziativa in tutti i settori. Questo principio di diritto naturale deve esser tenuto in conto da tutti i politici ed economisti, i quali faranno bene a non lasciarsi cogliere da nevralgie troppo ossesse o da visioni collettive ed astratte. Poiché in fin dei conti non è l’uomo per l’economia, ma l’economia per l’uomo. – C’è di più. L’iniziativa, che, come s’è visto deriva dalla natura umana attiva e dalla sua autonomia, appunto perché segue la natura che è anche sociale, entra in questo campo. L’iniziativa sociale è l’associazione: ecco il diritto naturale di associazione, che sarà contenuto, controllato e limitato dall’autorità, ma che non può venire indebitamente ristretto e tanto meno soppresso. Tutto ciò significa ricordarsi — proprio contro l’individualismo — che la persona-uomo si deve vedere nell’ambito e nel complesso sociale. – L’iniziativava tenuta nel debito conto dall’uomo in se stesso. Quando ascolta i consigli della sua natura debole, gli è facile spogliarsi dell’iniziativa per stendersi sempre sul canovaccio combinato da altri, dire e fare quello che fanno gli altri, accodarsi, supinamente imitare, mettersi nella corrente, farsi portare e non reagire mai. Con ciò egli diventa una stampigliatura banale, con ciò si spiegano le fisionomie impresse dall’ambiente, i caratteri vuoti, piatti, nulli. L’iniziativa è legata alla forza di volontà. È facile accorgersi che cosa questa conferisca alla personalità morale. Gli uomini « stampigliati » non rappresentano una negazione della libertà umana, che forza di volontà e libertà sono elementi ben diversi e può mancare perfettamente il primo, mentre il secondo l’esercita solo a liberamente scegliere sempre il più comodo, il più facile, il meno dispendioso.

La fisionomia personale

È segnata non tanto dai lineamenti esterni, quanto dal temperamento e dalle doti specifiche intellettuali, volitive, di sentimento, di gusto, di moralità, di religione. Quando ha una impalcatura volitiva di costanza e di coerenza nella luce di convinzioni profonde diviene carattere inconfondibile. Il complesso fisionomico reca una inesauribile varietà fra gli uomini. La varietà reclama il libero sviluppo, la libera scelta delle carriere, mette in guardia contro il pericolo della troppa standardizzazione, dell’eccessiva organizzazione, dell’esoso assorbimento da parte della comunità. – Le doti postulano la loro cultura, il perfezionamento e lo sfruttamento. Ciò non è impegno solamente del singolo. Il rispetto concreto della persona esige che per parte della società, le condizioni di vita si facciano sempre più tali da permettere studio, sviluppo, cultura, ascesa a chi ne ha il taglio, anche indipendentemente dalla sua posizione economica e sociale. Le scuole dovrebbero essere così umane e generose nell’accogliere tutti, anche i non abbienti, così inflessibilmente severe nel vaglio, da concorrere e discriminare finalmente nella società una vera gerarchia di valori. Questa solo è capace di correggere il difetto dell’altra gerarchia, quella della eredità di fortuna. Osserviamo finalmente che ogni dote costituisce una legge divina particolare, in quanto, conferita dal Creatore, crea il dovere di raggiungere il più perfetto sviluppo. Non è mai un talento a discrezione, è un talento da restituirsi a Dio col massimo di interesse. È per questo che il senso naturale e cristiano vorrà il medico, il giurista, ecc., all’apice della perfezione non solo morale ma scientifica, tecnica, artistica. L’uomo deve correre tante vie quante sono le sue possibilità. Solo così è completo.

Il diritto di proprietà

Il diritto di proprietà è una immediata conseguenza della « persona ». È  importantissimo vedere questa connessione inevitabile e necessaria perché essa indica donde si possa dire in piena coscienza essere il diritto di proprietà un diritto di natura, indiscutibile, inalienabile quanto la natura. – Infatti. Poiché, come si è detto autonomia e natura nella persona sono la stessa cosa, tanto si estende il raggio della prima quanto si estende il raggio della seconda. Ora la natura dell’uomo stabilisce rapporti necessari con le cose di cui l’uomo ha bisogno, non solo per la sua vita fisica, ma per l’indefinita capacità di operazione delle sue facoltà spirituali, le quali non si attuano senza elementi sensibili. A causa di tali rapporti alcune cose sempre, molte altre indefinitamente a seconda che le circostanze determinano, vengono ad essere legate e vincolate alla persona. L’autonomia, che segue la natura, si estende allora anche a queste « cose », che, per i rapporti, rientrano in qualche modo nella personalità. Rientrare tali « cose » nell’autonomia della persona significa che rimangono « avocate » ad essa con esclusione (distinzione) degli altri. Il che, non escludendo il fine sociale delle « cose avocate » come non cessa d’essere sociale la persona, è precisamente il diritto di proprietà. – Esso è tanto vero e naturale quanto sono veri e naturali i rapporti necessari tra cose e persona, quanto è vero che tali rapporti fluiscono dalla natura, quanto è vero che l’autonomia si estende là ove s’estende la natura.

Gli elementi nei quali si vede il diritto di proprietà fluire dall’autonomia della persona, quindi dalla natura e da Dio autore della natura, sono troppo evidenti. L’uomo senza « cose » e tante « cose » quante ne può investire la sua capacità operativa (che è indefinita — di qui la indefinita, per sé, aumentabilità del patrimonio) non avrebbe affatto la dignità già descritta della persona, ma sarebbe un prigioniero. – Rimarrebbe un sovrano spodestato. Homo sine pecunia imago mortis. Ed è inutile stare a blaterare ilcontrario con filosofemi, che si accettano solo quandonon si capiscono.Qui non facciamo questioni di parole o di definizioni e neppure di interpretazione sul pensiero dell’uno o dell’altro grande scrittore. Ci interessano le questioni,non il loro lusso; e le questioni si risolvono con gli elementi obbiettivi. I quali affermano essere il diritto di proprietà un diritto di natura. Il modo col quale sempre la teologia cattolica l’ha definito, rivendicato, tutelato in morale, come quello che non ammette eccezioni se non per opera di un altro diritto parimenti divino; il modo con cui fu affermato nelle Encicliche papali; il modo con cui — anche a prescindere dalla qualifica terminologica— fu sempre trattato e preso a criterio della tradizione filosofica e giuridica cattolica, non può lasciare dubbio alcuno ragionevole su tale ben ferma conclusione. La quale, logicamente parlando, crediamo appartenere alla dottrina cattolica.Ciò posto vediamo le conseguenze straordinariamente gravi dell’esser la proprietà un diritto di natura,talmente connesso col concetto e la realtà stessa di persona.

Conseguenze del diritto di proprietà

1) Non si salva la personalità se non si salva la proprietà. Questo, non solo perché la seconda è corollario della prima, come s’è visto; ma ancora perché l’uomo spirito è talmente legato e dipendente dall’uomo-materia, che la sua stessa autonomia spirituale non sussiste integra se non s’estende a cose sensibili. – La difesa della proprietà ha una posta ben più alta che non alcune piccole o grandi cose materiali.

2) Il diritto di proprietà è intangibile: può nei casi particolari e contingenti venire limitato solamente dalla forza di un altro diritto di natura (p. e. la necessità sociale).

3) Qualunque sogno di ricostruzione sociale che si fondi su uno strazio della proprietà privata, contiene un elemento innaturale che è destinato a creare un ineluttabile disagio, grave di tragiche conseguenze, anche se può a prima vista presentare qualche successo brillante.

4) Le eventuali limitazioni della proprietà mediante l’assorbimento di essa e dell’iniziativa privata da parte della collettività, quando instasse per questo un pari diritto naturale, va considerata come eccezione e non come sistema ordinario. Quand’anche talune eccezioni dovessero durare per un periodo storico, non acquisterebbero mai il carattere di cose ordinarie. La ragione sta in questo. Che la limitazione della proprietà può avvenire — come vedremo — solo in nome del bene comune, il quale non la reclama per sé, ma per ragioni accidentali; mentre la proprietà è in se stessa postulata dalla natura. Non si confondano limitazioni della proprietà e limitazioni opposte alle sorgenti della ricchezza. Queste seconde per sé non limitano la proprietà, ma piuttosto il diritto di iniziativa: Il bene comune potrà in via contingente postularle, ma, dato il loro carattere di « limitazione di un diritto naturale » non dovranno mai essere né arbitrarle, né ingiustificate, né intese come sistemazione ordinaria.

5) Non è opportuno stabilire delle quote di proprietà, sicché nessuno per esempio possa possedere capitale superiore alla rendita di 50.000 lire. A parte le considerazioni umoristiche di carattere tecnico che si potrebbero fare, basta aver presente che l’autonomia della persona può stabilire rapporti indefiniti (vedi sopra) con le cose, sicché non mette per sé limiti al patrimonio. I limiti — ripetiamo — verranno contingentemente, tanto quanto lo postulerà in modo assoluto il bene comune.

6) Se il diritto di proprietà è postulato dalla natura è logico si tenda a procurare al massimo una proprietà anche modesta a tutti gli uomini. I quali tutti intendono in sé la voce della natura. Ed è bene ricordare che questa è la migliore difesa contro i forsennati rivolgimenti sociali. Un uomo ragionevole non odierà mai l’ordine che a lui pure ha assicurato un posto al sole.

7) L’eredità non è che la necessaria conseguenza dell’esercizio di proprietà. Quanto dote di questa è la donazione tra i vivi, altrettanto lo è la disposizione in caso di morte. Ossia: il diritto di testare colla conseguenza logica di ereditare, coincide talmente col diritto di proprietà che quanto è naturale questa, lo è quello. Non può essere quindi toccato più di quanto è intoccabile il diritto di proprietà. Tutto è troppo collegato. Ciò vale dell’eredità per testamento: parrebbe non valere per l’eredità ab intestato (senza testamento). Ma questa beneficia per lo meno della analogia con quella, inoltre è legata al concetto naturale di unità e continuità fisica, morale, ideale e personale delle famiglie. È verissimo che il diritto d’eredità mette al mondo una quantità di molto privilegiati, di orgogliosi inutili, di insulsi fannulloni, di viziosi parassiti, ma non per suo difetto bensì per il cumulo di difetti con cui gli uomini guastano e non moderano le buone istituzioni. – Tutto ciò potrà suggerire molti ed opportuni provvedimenti, legittimati da vere esigenze assolute del  bene comune, ma non potrà giustificare la negazione draconiana di un istituto di natura, proprio quello che più di tutti garantisce alla società uomini che non debbano sempre cominciare daccapo. Le esplosioni, generose e precipitose possono far dir cose che la serena razionalità non approva.

8) Finalmente la proprietà è la sola che può garantire alla persona (di cui è conseguenza) la indipendenza effettiva ossia l’autonomia pratica. Non è dignitoso per l’uomo che debba tutto ricevere da altri, sia pure dallo Stato e sia pure per legge motivata dalla volontà del legislatore, ma non dal diritto della persona. Egli deve poter bastare a se stesso, disponendo di se stesso. Senza una proprietà è chimerica l’autonomia; è, almeno parzialmente, uccisa la personalità. Ogni uomo deve tendere e vi tende di fatto quando ha coscienza di sé, a non aver bisogno dell’orfanotrofio, dell’ospedale, della colletta caritativa, del qualunque ente assistenziale sia pure la maternità e infanzia. Tenderà a percepire i frutti delle istituzioni assicurative, ma di quelle sa trattarsi di roba sua che gli viene restituita. L’uomo d’onore — e non è superbia — nulla teme quanto il dover stendere la mano e chiedere l’elemosina. Abolite il diritto di proprietà e, se non proprio tutto, molto diventa elemosina. – È indegno pensare ad un mondo di mendicanti. Insisto su questo, poiché se fosse abolita la proprietà privata, anche avendosi il dovere da parte di enti di dare determinate contribuzioni, queste non essendo debite in nome di un diritto assoluto, rimarrebbero sempre, anche ad onta del titolo di lavoro, delle palliate elemosine. – Tutte queste conseguenze del diritto di proprietà, non fanno che ricordare un principio: l’uomo persona è talmente subordinato al suo corpo, quindi ai beni sensibili, che senza di essi rimane frustrata di fatto l’autonomia della sua stessa persona. Ora al mondo non ci sono, interessanti per noi, che degli uomini, delle persone. Il rimanente non è che riflesso, derivazione, ombra di quelle. Che è mai che dobbiamo preferire, l’uomo o la sua ombra? Le grandi parole non danno corpo alle ombre. – Ecco il pensiero del Santo Padre: « La dignità della persona umana esige dunque normalmente come fondamento naturale per vivere il diritto all’uso dei beni della terra a cui risponde l’obbligo fondamentale di accordare una proprietà privata possibilmente a tutti ».

4. – I nemici della personalità

Elenchiamo qui i principali.

1) Il peccato. La legge di Dio rappresenta la più sapiente conservazione dell’armonia interna ed esterna dell’uomo. L’ha fatta Colui che ha creato l’uomo e sa bene commensurare tra loro le cose. La legge è la disposizione migliore alla conservazione ed al raggiungimento perfetto del fine. La legge divina è lo scettro trasferito dal dispotismo dei sensi e dei miraggi irrazionali alla persona. Nessuno serve come quando pecca: nessuno si deforma come allora. La legge di Dio è dunque la grande tutela della personalità; il peccato che la viola è il primo nemico della persona del suo ordine, del suo perfezionamento, del suo valore sociale.

2) L’eccessiva imitazione. L’autonomia personale porta — chi non lo vede? — ad essere « se stessi ». Non dunque una stampigliatura, una brutta copia, una pura imitazione. Persona ed eccessiva imitazione idiota, si oppongono tra loro come il giorno e la notte. Parliamo di eccessiva imitazione: accogliere il buon esempio, saper cumulare, servirsi dell’utile confronto cogli altri, tener l’occhio ai modelli, ai pionieri, ai coraggiosi, ai Santi è altra cosa: quella è necessaria imitazione. La mancanza di coscienza della libertà degli altri — e molte convenienze sociali presso di noi ne peccano — finisce col moltiplicare la forza del rispetto umano spingendo ad imitare in tutto supinamente e spesso bestialmente. Il mondo della moda e delle mode, gli ambienti fatti di sciocchi garruli, di facili irrisori, di annoiati esibizionisti, sono eccellenti per trasformare gli uomini e le donne in macchine di imitazione. Il cosiddetto mondo brillante ne è un’officina e ben pochi se ne salvano. – Dal punto di vista strettamente sociale si osservi che tutte le forme troppo spettacolari e la tirannia di certa propaganda orchestrano proprio la supina imitazione.

3) L’eccessivo ordine. L’ordine è buono e necessario, ma per gli uomini che sono essenzialmente liberi e dotati di una inestinguibile iniziativa intellettuale, non può andare al di là d’un certo limite. Che là diventa geometria, formula, meccanica, automatismo insensato, bagno di incoscienza, ossia morte della personalità. Quando s’ammira una parata in cui tutti sono vestiti allo stesso modo, camminano allo stesso modo, si scaldano allo stesso modo in movimenti complessi ma armonizzati, tutto è a base di segnalazioni elettriche, di scatti automatici, con maestri d’orchestra e folla di cerimonieri, si può anche rimanere entusiasti e per qualche istante sognare un mondo in cui tutto cammini come in quella parata. Ma la vita è un’altra cosa ed ognuno esperimenta che se la parata serve agli occhi, il qualunque umile momento della vita stessa postula di poter fare quanto pare e piace sia pure in un onesto margine. La scelta non è dubbia: al refettorio ognuno preferisce la propria sala da pranzo, al dormitorio la propria camera da letto, al campanello il canto del gallo o altro di libera elezione, all’uniforme il proprio vestito. Abitualmente, s’intende! Nessuno ama salutare sempre al segnale d’attacco, marciare in formazione e chiedere come in collegio a qualcuno il permesso di far quello che occorre. Troppe gerarchie, troppi uffici, troppe burocrazie, troppi permessi, troppi ordini fanno un mondo da operetta, in cui si sta bene per qualche ora, dopo di che tutti sbuffano e non ne possono più. L’errore sta nel volere utopisticamente universalizzare quello che è eccellente per un varietà, per l’ora della siesta, per il giorno di vacanza, per la cerimonia delle particolari occasioni, per la fiera dei baracconi. Gli ingenui che commettono quell’errore e sognano ordine su ordine, organizzazione su organizzazione, cataplasmo su cataplasmo, cerotto su cerotto applicato al povero mondo certamente matto ed artritico, sono in numero non disprezzabile. Ma il troppo ordine uccide l’uomo che è libero. Poco dopo muoiono anche i sistemi immortali.

4) L’eccessivo limite. Il « limite » cui alludiamo è quello della legge, e del precetto. Troppo dell’una e dell’altro sono invasione indebita nel campo lasciato alla libera elezione umana, riducono l’autonomia, la persona. Il voler regolare proprio tutto e in tutti i particolari è mania pericolosa, è ossessione frenetica, è solletico di reazioni violente. – La sapienza del legislatore è quella di legiferare il meno possibile, ossia non oltre quello che è veramente richiesto dal bene comune; l’arte di comandare è anche quella di servirsi il meno possibile dell’autorità. Questo non è liberalismo, è solo misura; neppure è debolezza, è solo discrezione. La discrezione nel regime degli uomini è la prima forza, dato che la legge non entra in loro a spintoni e bastonate ma solo per un fatto intellettivo e volitivo, per un fatto di convinzione morale.

5) La superficialità. Con essa non si raggiunge mai il secondo piano delle cose, quello più vero. La caratteristica della persona — l’abbiamo pur visto — è la razionalità. Ufficio dell’intelligenza è entrare nella realtà: « intus legere ». Non rimane dunque quello che deve essere, se non scende in profondità. La superficialità, col decoro dell’intelligenza, toglie il decoro alla persona. La superficialità dei singoli diventa superficialità degli ambienti, dell’opinione pubblica: è una piaga sociale, è l’abdicazione collettiva dei diritti della persona. Allora hanno buon gioco gli avventurieri, i mestatori che fanno poi in sé collezione dei diritti altrui.

6) La banalità. È la consuetudine colle cose volgari, colla maleducazione. Permea lo spirito, il criterio, il modo di parlare. Vi si giunge comodamente per la via della trasandata povertà, per il costume della miseria, per il connaturato senso del bisogno e dell’inferiorità. Insomma avvicina al materiale in tutti i sensi: è parziale morte dello spirito, della sua elevatezza, finezza e dignità. Collo spirito muore la persona. Questa turba che cammina tra un lazzo e l’altro, tra una ostentazione impudica ed un appetito carnale, tra il consueto gesto appropriatore d’egoismo felino ed il viso stemperato e sciolto, forma una visione funebre. Tutta questa gente che, così, chiusa e ristretta nella vita dozzinale più dozzinale ancora pei rivoltanti confronti, non ha più bisogno di bastare a se stessa, ma ha imparato ad essere popolo d’un immenso orfanotrofio (è la gloria dei regimi materialistici qualunque nome portino) e attende sempre da qualcuno la sua misera pappa, e il suo divertimento, il mezzo per dimenticare e non pensare, che mette al mondo figli per avere un sussidio, fa una profonda pietà. È la pietà che si prova ai funerali allorché è morto un padre e rimangono dei figli di nessuno. Ai tempi antichi la politica del « panem et circenses » fece questa folla banale, ai nostri… molti hanno la tentazione di ricominciare.

5 . La drammatica scelta: o persona o cose

Le considerazioni condotte fin qui fanno intendere quanta ragione vi sia nella affermazione del Papa, per cui la persona ed il suo rispetto si trovano al centro delle questioni umane.

I termini della scelta

Tutto ha concorso a delimitare nei contorni l’assoluto e sovrano risalto della persona. In opposizione si fa rimarcare quello che è non persona, le cose, concrete ed astratte, individue e collettive, sostanze ed accidenti, azioni e passioni. Tra queste cose stanno il progresso, l’organizzazione, la macchina, la tecnica, la produzione, il consumo, il commercio, l’industria, e, meglio, l’industrializzazione di un paese. « Cose » tutte che costituiscono un miraggio particolare, elettrizzano, fanatizzano. Ora la persona da una parte, queste « cose » dall’altra, sono i grandi termini della scelta. Il mondo avvenire è chiamato ad eleggere: qui sta la sua più grande crisi, la sua più veemente tentazione, il più fatale pericolo.

Quale dei due termini?

Ma è così grave la scelta? Perché è grave? Forse che la scelta dell’un termine rappresenta la morte dell’altro? Persona e cose sono certamente entrambe necessarie alla vita del mondo. È vero: un termine non esclude l’altro di per sé, anzi il secondo è per il primo. È l’esagerazione mostruosa dell’uno che può uccidere l’altro; è in ragione di questa elefantiasi che la scelta si fa greve ed il pericolo fatale nel suo errore. – Supponiamo tra le « cose » si adori il progresso, l’ideale di una organizzazione industriale super-potente in ordine alle trasformazioni stesse dell’economia e in ordine ad una supremazia, o almeno ad una contesa politica. Supponiamo che a questo ideale cui taluno potrebbe ritenere legato l’età dell’oro, la gloria della patria, la conquista di una egemonia mondiale, si intenda — e a tal punto è logico — sacrificare tutto. Ecco allora i sistemi bestiali per il rendimento dell’uomo, ecco il calcolo delle masse come numeri, ecco l’automatismo, ecco l’oblio della ragion morale, dei diritti della cultura e della umanità, ecco ove occorra il mondo fatto caserma, ecco la ragion suprema d’un progresso senza volto e senza nome travolgere tutto. Che rimane dell’uomo-persona? Nulla. È un mostruoso pleroma in cui tutto si inabissa. A questo punto è chiaro che il secondo termine uccide il primo.

Che significhi uccidere il primo termine

Sacrificare la persona umana è capovolgere il mondo. No, non è l’uomo fatto per le cose, ma le cose sono fatte per l’uomo. Non è l’uomo per l’industria, per la grande industria, per l’esaltazione fanatica del potere politico che uno Stato acquista col dominio della grande industria, ma sono, al contrario, l’industria e lo stato stesso per l’uomo. Non è l’uomo pei fatti superficialmente splendidi come sono i primati, ma sono i primati per l’uomo. Dio ha fatto le cose del mondo per l’uomo, la saggezza umana non può spingere le cose in senso inverso, che a prezzo di diventare pazzia rovinosa. Che sarebbe un mondo pieno di officine superbe ove le macchine imperassero col volto di ferro e l’espressione senza pensiero e senza amore, ma gli uomini fossero ridotti all’alveare, al formicaio, all’arena del mare senza libertà, senza valore, senza cielo e senza terra? Che sarebbe se le grandi ragioni di questo progresso divorassero i figli alle madri e la maternità fosse la fabbrica a sua volta dei figli per le macchine, e queste ancora chiedessero il sangue, la guerra per esplodere verso la produzione o per spazzare a questa qualche barriera? È forse giunto il momento in cui l’uomo deve capitolare innanzi alle « cose » di suo dominio? Non sarebbe forse questa l’ultima nemesi al suo orgoglio? Ma dunque che si deve scegliere? »

La tentazione

La scelta è angustiosa. La guerra iniziatasi il 2 settembre 1939 ha inasprito l’imbarazzo. Gli stati che hanno sacrificato tutto — così ragionano taluni — alla loro industrializzazione, hanno rivelato una potenza meravigliosa e suggestionante, alla quale gli eventi devono fare largo. Chi ha detto così ha concluso troppo presto. Dopo che la Russia fu in grado di inferire dei colpi ben duri al suo grande avversario alcuni ingenuamente pensarono che a questo mondo per esser qualcosa bisogna assolutamente imitare la Russia. Chi ha detto così si è dimenticato per lo meno metà dei dati di fatto. Dopo che la resistenza industriale nella guerra parve indicare una intelaiatura economica superba in Russia, molti si chiesero se per caso nel mondo civile non si fosse sempre sbagliato e solo, invece, tra le steppe si fosse visto giusto. Costoro devono aver dimenticato che cosa sia solo una parte del benessere umano. Costoro se avessero visto un orso ammaestrato ballar per bene avrebbero colla stessa logica potuto concludere esser meglio far l’orso che non l’uomo. Il sogno, il grande sogno di metter a posto questo gregge umano inquadrandolo nel ferro, per correggerne il poco valore col ferro e sentir risuonare ovunque e solo l’immensa opera, dalle immense cifre, questo sogno ha la sua suggestione. Allora si dice: è necessario per ciò collettivizzare? Si collettivizzi. È necessario sottrarre dei diritti, della proprietà, accentrare per raggiungere nella condensata manovra lo sforzo propulsore immenso? Ebbene si sottragga, si elenchi, si accentri. È necessario che l’uomo non pensi, non adori Dio, non abbia un ambiente morale, non sia più puramente padre, puramente figlio…? Ebbene sia automa, sia empio, sia sacrilego, sia adultero, sia bastardo!

La scelta

Dunque che si fa? La verità obbiettiva, la logica indice della gerarchia dei valori, la parola sicura del Papa rispondono: anzitutto salvare la persona; le cose per l’uomo non l’uomo per le cose; le cose assunte e misurate dai bisogni dell’uomo, non l’uomo misurato dalle esigenze delle cose. Insomma, se la troppa industria, il troppo trionfo del progresso materiale chiedessero la testa dell’uomo, tra la persona e l’uomo, non c’è da esitare, si sceglie l’uomo. – Questa è la vera grande scelta del domani. Noi sappiamo che cosa optare. Questa indicata opzione, netta, precisa, evidente nella sua intrinseca ragionevolezza, costituisce un principio fondamentale, assoluto ed inderogabile, una posizione irremovibile dalla quale si ha il coraggio di animosamente difendere fino all’ultimo l’umano equilibrio del domani. La voce del Papa è l’unica che abbia veramente posto il problema e l’abbia risolto. Il criterio formidabile che si leva dalla scelta impedisce di cedere a sogni chimerici, a patteggiamenti con forme politiche il cui dolce belato si sa fare tanto innocente e che invece logicamente sfociano nel mostruoso capovolgimento anti-umano. Lo stesso criterio rende attento a porre nei programmi le — in fondo — ridicole offe che appartengono in sostanza proprio a quanto la coscienza umana e cristiana respinge. È essenziale ridurre i grandi dilemmi alle poche inequivocabili parole, nette, ischeletrite, per evitare i contorni vaghi nei quali finisce tanto l’inutile buona fede degli ingenui, quanto la criminale mala fede dei truffatori.

Anzitutto: salviamo l’uomo.

Ricordiamo che la persona col suo essere creato tale da Dio, colla sua fisionomia e i suoi diritti, coi suoi rapporti e le sue finalità ugualmente segnati da Dio, rappresenta una legge, su cui tutto deve essere misurato, criteriato, magari espunto, coraggiosamente contro ogni immediato interesse e contro ogni rispetto umano; esattamente come ci si deve comportare colle grandi leggi del Decalogo Divino.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (3)

MESSA DELLA PURIFICAZIONE DELLA VERGINE (2021)

MESSA della PURIFICAZIONE DELLA VERGINE (2021)

Doppio di 2″ classe. – Paramenti bianchi.

La festa delia Purificazione chiude il Ciclo santoriale del Tempo dopo l’Epifania. È una delle più antiche solennità della Vergine, ed occupava a Roma, nel VII secolo, il secondo posto dopo l’Assunta. Questa festa si celebra il 2 febbraio, poiché, volendo sottomettersi alla legge mosaica, Maria doveva andare a Gerusalemme, 40 giorni dopo la nascita di Gesù (25 dicembre – 2 febbraio) per offrirvi il sacrificio prescritto. Le madri dovevano offrire un agnello, o, se i loro mezzi non lo permettevano, « due tortorelle o due piccioni ». La Santa Vergine portò con sé a Gerusalemme il Bambino Gesù; e la processione della Candelora, ricorda il viaggio di Maria e di Giuseppe da Betlemme al Tempio, alfine di presentarvi « l’Angelo dell’alleanza » (Ep., Intr.), come aveva predetto Malachia. Le Messe dell’Annunciazione, dell’Assunta, della Natività di Maria, dell’Esaltazione della Santa Croce e della Candelora erano accompagnate una volta dalla processione. Questa ultima sola resta. La Purificazione, alla quale la Madre del Salvatore non era obbligata, perché ella partorì in modo straordinario, passa in secondo piano nella liturgia ed è la Presentazione di Gesù che forma l’oggetto principale di questa festa. Rileggiamo la 1° orazione della benedizione delle candele, per comprendere il simbolo della lampada del santuario e dei ceri benedetti in questo giorno, e per ben. conoscere l’uso che bisogna farne al letto del morenti, nelle tempeste e nei pericoli che può incorrere il «nostro corpo e la nostra anima sulla terra e sulle acque ». Se la Purificazione cade in una domenica privilegiata, la festa si celebra il giorno dopo; tuttavia la benedizione delle candele si fa prima della Messa della Domenica.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

BENEDIZIONE DELLE CANDELE

Il celebrante, terminata l’ora di Terza, rivestito di stola e piviale violaceo, con i Ministri, procede alla benedizione delle Candele, poste dal lato dell’Epistola, e stando in piedi dice:

V.: Dóminus vobiscum

R.. Et cum spiritu tuo.

Oratio. –

Domine sancte, Pater omnipotens, ætérne Deus, qui omnia ex nihilo creasti, et jussu tuo per opera apum, hunc liquórem ad perfectiónem cèrei venire fecisti: et qui hodierna die petitiónem justi Simeónis implésti: te humiliter deprecàmur: ut has candélas ad usus hóminum et sanitàtem córporarm, et animàrum, sive in terra, sive in aquis, per inocatiónem tui sanctissimi nóminis, et per intercessiónem beàtæ Mariæ semper Virginis, cujus hodie festa devòte celebrantur, et per preces omnium sanctórum tuórum, benedicere, et sanctificàre dignéris: et hujus plebis tuæ, quæ illas honorifice in manibus desiderat portare, teque cantando laudare, exaudias voces de cœlo sancto tuo, et de sede majestatis tuæ: et propitius sis òmnibus clamàntibus ad te, quos redemisti pretioso sanguine Filli tui, Qui tecum vivit ….

[Orazione. – O  Signor santo, Padre onnipotente, eterno Dio, te che tutto creasti dal nulla e mediante l’opera delle api, per comando tuo, facesti si che d’una molle sostanza si potessero formare dei ceri; te che oggi compisti i voti del giusto Simeone, noi ti supplichiamo di benedire e santificare queste candele, destinate ad uso degli uomini, a salute dei corpi e delle anime, sia in terra che sulle acque, mediante l’invocazione del tuo santissimo nome, l’intercessione della beata Maria sempre Vergine, di cui oggi si celebra devotamente la festa, e le preghiere di tutti i tuoi Santi. Di questo popolo tuo, che brama portare queste candele in mano in tuo onore e lodarti coi suoi canti, esaudisci le preghiere dai cielo e sii propizio a tutti quelli che t’invocano e che hai redento col sangue prezioso del Figlio tuo: Il quale teco vive e regna… – Cosi sia.]

Oratio –

Omnipotens sempitèrne Deus, qui hodiérna die Unigénitum ulnis sancti Simeónis in tempio sancto tuo suscipiéndum presentasti: tuam sùpplices deprecàmur cleméntiam; ut has candélas, quas nos fàmuli tui, in tui nóminis magnificéntiam suscipiéntes, gestàre cùpimus luce accénsas, benedicere, et sanctificàre, atque lùmine supérnæ benedictiónis accèndere dignéris: quàtenus  eas tibi Domino Deo nostro offerendo, digni et sancto igne dulcissimse caritàtis tuæ succénsi, in tempio sancto gióriæ tuæ repræsentàri mereàmur.

Per eùmdem Dóminum nostrum. – Amen.

[Orazione. – Onnipotente ed eterno Dio, che oggi presentasti il tuo Unigenito nel tempio santo tuo per essere ricevuto tra le braccia del santo Simeone, noi preghiamo supplichevoli la tua clemenza affinché queste candele, che noi tuoi servii ricevendole al gloria del tuo santo nome bramiamo portare accese, benedica e santifichi. Degnati di accenderle con il fuoco della benedizione celeste, di modo che, con l’offrirle a te, Signore e Dio nostro, degni e accesi dal santo fuoco  della dolcissima carità, meritiamo di essere presentati nel tempio della tua gloria! – Per il medesimo Signor nostro. – Cosi sia.]

Oratio. –

Dòmine, Jesu Christe, lux vera, quæ illùminas omnem hominem veniéntem in hunc mundum: effùnde benedictiónem tuam super céreos, et sanctifica eos lùmine gràtiæ tuæ, et concede propitius; ut, sicut hæc luminària igne visibili accénsa noctùrnas depéllunt ténebras; ita corda nostra invisibili igne, id est, Sancti Spiritus splendóre illustrata, omnium vitiórum cæcitàte càreant: ut, purgato mentis óculo, ea cernere possimus, quæ tibi sunt plàcita, et nostræ saluti utilia; quàtenus post discrimina, ad lucem indeficéntem pervenire mereàur. Per te, Christe Jesu, Salvator mundi, qui in Trinitate perfécta vivis et regnas Deus, per omnia sæcula sæculórum. Amen.

[O Signore Gesù Cristo, luce vera, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, benedici questi ceri e santificali con il lume della tua grazia. Concedi propizio che, come questi lumi accesi da un fuoco visibile fugano le tenebre, cosi i nostri cuori, rischiarati da un fuoco invisibile, cioè dalla luce dello Spirito Santo, siano liberi della cecità di ogni vizio, onde, purificato l’occhio della nostra mente, possiamo discernere quelle cose che sono gradite ed utili alla nostra salvezza, di modo che dopo le caliginose vicende di questo secolo, meritiamo di pervenire alla luce indefettibile. – Per te, Gesù Cristo, Salvatore del mondo, che nella Trinità perfetta vivi e regni Dio nei secoli dei secoli. – Cosi sia.]

Oratio. –

Omnipotens sempiterne  Deus, qui per Moysen fàmulum tuum purissimum ólei liquórem ad luminaria ante conspectum tuum jùgiter concinnànda præparàri jussisti: benedictiónis tuæ gratiam super hos céreos benignus infùnde: quàtenus sic administrent lumen exterius, ut, te donante, lumen Spiritus tui nostris non desit méntibus intérius.

Per Dóminum… in unitàte ejùsdem Spiritus Sancti.  Amen.

[Orazione. – Onnipotente eterno Dio, che per mezzo di Mosè tuo servo, comandasti di preparare un purissimo olio per alimentare continuamente lumi davanti alla tua maestà, infondi benigno la grazia della tua benedizione sopra questi ceri, affinché, mentre procurano la luce esterna, per tuo dono non manchi alle nostre menti la luce interiore del tuo Spirito. Per il Signor nostro… in unione dello stesso Spirito Santo. – Cosi sia.]

Oratio. –

Dòmine Jesu Christe, qui hodiérna die in nostræ carnis substàntia inter hómines appàrens, a paréntibus in templo es præsentàtus: quem Simeon veneràbilis senex, lumine Spiritus tui irradiàtus, agnóvit, suscépit, et benedixit: præsta propitius; ut ejùsdem Spiritus Sancti gràtia illuminati atque edócti, te veràcitar agnoscàmus, et fidéliter diligàmus: Qui cum Deo Patre in unitàte ejùsdem Spititus Sancti vivis et regnas Deus, per omnia sæcula sæculórum. Amen

[Orazione. – O Signore Gesù Cristo, che oggi, mostrandoti fra gli uomini nella sostanza della nostra carne, fosti presentato al tempio dai parenti e dal vecchio venerabile Simeone, illuminato dalla luce del tuo Spirito, fosti riconosciuto, preso (fra le sue braccia) e benedetto, concedi propizio che, illuminati ed ammaestrati dalla grazia dello Spirito Santo conosciamo veramente e amiamo fedelmente Te, che con Dio Padre in unità dello stesso Spirito Santo vivi e regni Dio, per tutti i secoli. – Così sia.]

Il Celebrante pone l’incenso nel turibolo, asperge d’acqua benedetta le candele, dicendo l’Antifona: Asperges me senza il Salmo e dopo le incensa. Allora si avvicina all’Altare il più degno del Clero e porge la candela al Celebrante, il quale la riceve stando in piedi e senza baciargli la mano. Poscia il Celebrante distribuisce le candele cominciando dal più degno del Clero, poi ai Ministri sacri, agli altri del Clero e da ultimo ai laici. Tutti ricevono la candela genuflessi e baciano la candela e la mano del Celebrante, eccetto i Prelati.

Antifona: Lumen ad revelatiónem géntium: et glóriam plebis tuæ Israel.

Cant. – ibid., 29, 31.

Nunc dimittis servum tuum, Domine, secùndum verbum tuum in pace.

Ant. – Lumen…

Quia vidérunt óculi mei salutare tuum.

Ant. – Lumen…

Quod parasti ante fàciem omnium populórum.

Ant. – Lumen…

Glòria Patri et Filio et Spiritui Sancto.

Ant. – Lumen…

Sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum. Amen.

Ant. – Lumen…

Ant. – Ps. XLIII, 26. Exsurge, Dòmine, àdjuva nos: et libera nos propter nomen tuum

Ps. – Ibid., 2. Deus, àuribus nostris audivimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. f. Glòria Patri.

– Exsùrge …

[Sorgi, o Signore, aiutaci e liberaci per il tuo nome. Aiutaci e liberaci per il tuo nome. Sai. – O Dio, abbiamo sentito con le nostre orecchie i nostri padri ci raccontarono i prodigi da te operati a nostro favore. – f. Gloria al Padre. Sorgi…]

Oratio. –

Exàudi, quæsumus, Dòmine, plebem tuam: et, quæ extrinsecus annua tribuis devotióne venerari, intérius àssequi gràtiæ tuæ; luce concède. Per Christum Dóminum nostrum. R. Amen.

[Orazione. – Esaudisci, ti preghiamo, o Signore, il tuo popolo: e ciò che gli concedi di venerare esteriormente con annua devozione, concedi pure di conseguire interiormente con la luce della tua grazia. Per Cristo nostro Signore. Cosi sia.

Quindi si fa la Processione: prima, però, il Celebrante pone l’incenso nel turibolo, poi il diacono rivolto al popolo dice:

V. Procedamus in pace.

R. In nomine Christi. Amen.

Precede il turiferario, segue il Suddiacono, che porta la croce fra ceroferari, poi il Clero ed ultimo il Celebrante col Diacono alla sinistra; tutti portano le candele accese e si cantano le seguenti Antifone:

Ant. – Adórna thàlamum tuum, Sion, et sùscipe Regem Christum: amplectere Mariam, quæ est cœlestis porta: ipsa enim portat  Regem gloriæ novi luminis: subsistit Virgo, adducens manibus Filium ante luciferum génitum: quem accipiens Simeon in ulnas suas, prædicàvit pópulis, Dóminum eum esse vitæ et mortis, et Salvatórem mundi.

[Ant. – Adorna il tuo talamo o Sion, e ricevi il Cristo Re: accogli con amore Maria, porta del cielo: Ella infatti reca il Re della gloria, la luce nuova. La Vergine si arresta,

presentando sulle braccia il Figlio, generato prima dell’aurora. Simeone ricevendolo fra le sue braccia, annunzia ai popoli esser Egli il Signore della vita e della morte, il Salvatore del mondo.]

Alia Ant. – Luc. II, 26-29

Respónsum accépit Simeon a Spiritu Sancto, non visùrum se mortem, nisividéret Christum Domini: et cum indùcerent puerum in templum, accepit eum in ulnas suas, et benedixit Deuin, et dixit: Nunc dimittis servum tuum, Dòmine, in pace.

t . Cum indùcerent pùerum Jesum paréntes ejus, ut

fàcerent secùndum consuetùdinem legis prò eo, ipse accépit eum in ulnas suas.

[Altra ant. Altra Ant. – Lo Spirito Santo aveva rivelato a Simeone che non sarebbe morto, prima di vedere l’Unto del Signore: e quando il bambino fu portato al tempio

lo prese fra le sue braccia, benedisse Dio e disse: Ora lascia, o Signore, che se ne vada in pace il tuo servo.

V. Quando i parenti recarono il bambino Gesù, per compiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, Simeone lo accolse fra le sue braccia.]

Nel rientrare in chiesa si canta.

Obtulerunt pro eo Dòmino par tùrturum, aut duos pullos columbàrum: * Sicut scriptum est in lege Dòmini.

f. Postquam impléti sunt dies purgatiónis Mariæ, secùndum legem Móysi, tulérunt Jesum in Jerùsalem, ut sisterent eum Domino. * Sicut scriptum est in lege Dòmini, f. Glòria Patri… * Sicut scriptum est in lege Dòmini.

[Offrirono per lui al Signor un paio di tortore o duepiccoli colombi: come è scritto nella legge del Signore.

f. Compiuti i giorni della purificazione di Maria, Gesù secondo la legge di Mosè, fu portato a Gerusalemme, per esser presentato al Signore: come è scritto nella legge Signore. – f. Gloria al Padre …

Come è scritto nella legge del Signore]

Terminata la Processione, Celebrante e Ministri depongono i paramenti violacei ed assumono i paramenti bianchi per la Messa.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo conseguito, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o Dio, la tua lode andrà fino ai confini della terra: le tue opere sono piene di giustizia.]

Ps XLVII:2.

Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus.

Grande è il Signore e sommamente lodevole: nella sua città e nel suo santo monte.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

 [Abbiamo conseguito, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o Dio, la tua lode andrà fino ai confini della terra: le tue opere sono piene di giustizia.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, majestátem tuam súpplices exorámus: ut, sicut unigénitus Fílius tuus hodiérna die cum nostræ carnis substántia in templo est præsentátus; ita nos fácias purificátis tibi méntibus præsentári.

[Onnipotente e sempiterno Iddio, supplichiamo la tua maestà onde, a quel modo che il tuo Figlio Unigenito fu oggi presentato al tempio nella sostanza della nostra carne, cosí possiamo noi esserti presentati con ànimo puro.]

Lectio

Léctio Malachíæ Prophétæ.

Malach III: 1-4.

Hæc dicit Dóminus Deus: Ecce, ego mitto Angelum meum, et præparábit viam ante fáciem meam. Et statim véniet ad templum suum Dominátor, quem vos quæritis, et Angelus testaménti, quem vos vultis. Ecce, venit, dicit Dóminus exercítuum: et quis póterit cogitáre diem advéntus ejus, et quis stabit ad vidéndum eum? Ipse enim quasi ignis conflans et quasi herba fullónum: et sedébit conflans et emúndans argéntum, et purgábit fílios Levi et colábit eos quasi aurum et quasi argéntum: et erunt Dómino offeréntes sacrifícia in justítia. Et placébit Dómino sacrifícium Juda et Jerúsalem, sicut dies sǽculi et sicut anni antíqui: dicit Dóminus omnípotens.

[Questo dice il Signore Iddio: Ecco, io mando il mio Angelo, ed egli preparerà la strada davanti a me. E subito verrà al suo tempio il Dominatore che voi cercate, e l’Angelo del testamento che voi desiderate. Ecco, viene: dice il Signore degli eserciti: e chi potrà pensare al giorno della sua venuta, e chi potrà sostenerne la vista? Perché egli sarà come il fuoco del fonditore, come la lisciva del gualchieraio: si porrà a fondere e purgare l’argento, purificherà i figli di Levi e li affinerà come l’oro e l’argento, ed essi offriranno al Signore sacrifici di giustizia. E piacerà al Signore il sacrificio di Giuda e di Gerusalemme, come nei secoli passati e gli anni antichi: così dice Iddio onnipotente.]

Graduale

Ps XLVII:10-11;9.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ.

 [Abbiamo conseguito, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o Dio, la tua lode andrà fino ai confini della terra.

V. Sicut audívimus, ita et vídimus in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus.

V. Ciò che sentimmo, ora lo abbiamo visto: nella città del nostro Dio, nel suo monte santo. Alleluia, alleluia.

Allelúja, allelúja.

V. Senex Púerum portábat: Puer autem senem regébat. Allelúja.

V. Il vecchio portava il Bambino: ma il Bambino reggeva il vecchio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc II: 22-32.

In illo témpore: Postquam impleti sunt dies purgatiónis Maríæ, secúndum legem Moysi, tulérunt Jesum in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino, sicut scriptum est in lege Dómini: Quia omne masculínum adapériens vulvam sanctum Dómino vocábitur. Et ut darent hóstiam, secúndum quod dictum est in lege Dómini, par túrturum aut duos pullos columbárum. Et ecce, homo erat in Jerúsalem, cui nomen Símeon, et homo iste justus et timorátus, exspéctans consolatiónem Israël, et Spíritus Sanctus erat in eo. Et respónsum accéperat a Spíritu Sancto, non visúrum se mortem, nisi prius vidéret Christum Dómini. Et venit in spíritu in templum. Et cum indúcerent púerum Jesum parentes ejus, ut fácerent secúndum consuetúdinem legis pro eo: et ipse accépit eum in ulnas suas, et benedíxit Deum, et dixit: Nunc dimíttis servum tuum, Dómine, secúndum verbum tuum in pace: Quia vidérunt óculi mei salutáre tuum: Quod parásti ante fáciem ómnium populórum: Lumen ad revelatiónem géntium et glóriam plebis tuæ Israël.

[In quel tempo: Compiutisi i giorni della purificazione di Maria, secondo la legge di Mosè, portarono Gesù a Gerusalemme per presentarlo al Signore, come è scritto nella legge di Dio: Ogni maschio primogenito sarà consacrato al Signore; e per fare l’offerta, come è scritto nella legge di Dio: un paio di tortore o due piccoli colombi. Vi era allora in Gerusalemme un uomo chiamato Simone, e quest’uomo giusto e timorato aspettava la consolazione di Israele, e lo Spirito Santo era in lui. E lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non sarebbe morto prima di vedere l’Unto del Signore. Condotto dallo Spirito andò al tempio. E quando i parenti vi recarono il bambino Gesù per adempiere per lui alla consuetudine della legge: questi lo prese in braccio e benedisse Dio, dicendo: Adesso lascia, o Signore, che il tuo servo se ne vada in pace, secondo la tua parola: Perché gli occhi miei hanno veduta la salvezza che hai preparato per tutti i popoli: Luce per illuminare le nazioni e gloria del popolo tuo Israele.]

OMELIA I

PURIFICAZIONE DELLA VERGINE

(B. Bossuet: LA MADONNA DISCORSI – V. Gatti ed. , Brescia, 1934

N. H: P. Guerrini cens. Eccl. Brescia 19 Maggio 1934

Imprimatur Brixiæ, die 19 Marialis 1934

ÆM. Bongiorni, Vic. Gen.)

Postquam impleti sunt dies purgationis eius secundum legem Moysi, tulerunt illum in Jerusalem ut sisterent eum Domino: sicut scriptum est in lege Domini.

(Luca, II, 22-23).

Teodosio imperatore diceva, che nulla vi è di più maestosamente regale di un principe che si riconosce obbligato alla legge. Il genere umano non potrà mai ammirare spettacolo più grande di quanto contempla la giustizia in trono: né potrà immaginare nulla di più maestoso ed augusto che l’accordo tra potenza e ragione, che felicemente fa concorrere all’osservanza della legge, il comando e l’esempio. Spettacolo meraviglioso un principe ossequiente alla legge come fosse l’ultimo dei sudditi: ma certo più ammirabile il contemplare un Dio sottomettersi alle leggi ch’Egli stesso dettò alle sue creature! Ci sarebbe possibile comprendere di più l’obbligo che ci lega alla legge, che considerando il mistero d’oggi, in cui un Dio si sottomette alla legge per dare all’umanità un luminoso esempio di obbedienza? Oh Dio quanto sei ammirabile nei tuoi disegni! Cristo Gesù viene a perfezionare la legge mosaica, che sostituirà con una economia di perfezione divina, ma fino a che la legislazione ebraica rimarrà in vigore Egli rispetterà il nome e la persona rivestita dell’autorità legale: la osserverà Egli stesso la legge e vorrà la osservi fedele la sua Madre divina. Ed allora, ditemi, non dovremo noi osservare, con religiosa esattezza, i precetti che il Cristo, apportatore di lieta novella, scrisse più col Sangue suo che colla parola e l’insegnamento? – Nella festa d’oggi non saprei quale omaggio migliore possa render un sacerdote alla sua missione, che mostrare a tutto il suo popolo come tutti ed ognuno abbiamo dovere di dipendenza da Dio e dalla sua legge universale e suprema! Sento di doverlo fare e certo riuscirò a rendervene convinti se la Vergine che oggi a noi mostrasi esempio di obbedienza alle prescrizioni legali, mi verrà in aiuto: invochiamola insieme con una Ave Maria! – Fra le diverse leggi che governano la natura, se vogliamo porre un rapporto troviamo subito che vi è una legge che guida ed una che costringe: una che ci tenta e seduce. Nelle Sacre Scritture, nei comandi del Signore, si vede la legge di giustizia che ci dirige: negli affari che ci premono, nelle vicende che attraversiamo necessariamente ogni giorno, nelle tristi condizioni della nostra povera umanità quotidianamente esperimentiamo la cruda necessità di una legge, vorrei dire fatale, che ci violenta. Anzi in noi stessi, nelle nostre membra e nel nostro spirito, è un imperioso allettamento che ci seduce, più ancora ci trascina o spinge al male: la confessava l’Apostolo questa legge, che egli chiama legge del peccato, che è continua tentazione alla nostra fragile natura d’uomini. Leggi diverse che ci impongono tre diversi modi d’azione: se vogliamo corrispondere fedelmente alla grazia della vocazione alla fede del Cristo, dobbiamo lasciarci guidare docili dai precetti che ci guidano, elevarci al di sopra delle tristi necessità che ci premono, resistere fortemente agli assalti del senso che ci inganna. – Gesù, la Vergine santa, il vecchio Simeone, Anna la profetessa vedova, ci insegnano tutto ciò nella festa di questo giorno: il vangelo della Messa ci riporta le loro parole ed i loro atti per inspirare il nostro modo d’agire verso le leggi che abbiamo constatate. Il Verbo incarnato e la sua santa Madre si sottomettono ai precetti che Dio aveva dato al suo popolo. Simeone, vecchio d’animo forte, che ormai nulla più tien legato alla vita, accettando tranquillo la legge della morte, si strappa alle necessità della vita, imparandoci a considerarle come legge inevitabile a cui dobbiamo adattarci con coraggio. Ed Anna, penitente e mortificata, ci mostra nei suoi sensi domati la vittoria sulla legge del peccato. Esempi memorabili d’una potente efficacia, che mi offrono l’occasione di mostrarvi oggi come dobbiamo noi tutti sottometterci alla legge della verità che ci guida: come dobbiamo sfruttare la legge della necessità che ci incatena, resistere infine alla voce del male che ci tenta ed alla legge del peccato che ci tiranneggia.

1° punto.

La libertà è nome caro, dolce ma insieme nome il più lusinghiero ed ingannatore tra tutti quelli che si usano tra gli uomini. Le rivolte, i tumulti, le sedizioni, il disprezzo e la violazione delle leggi nacquero sempre e crebbero nel nome dell’amore o del diritto alla libertà. Hanno gran quantità di beni gli uomini.. ma di nessuno abusano tanto quanto di questo gran dono: la libertà: e proprio tra tutte le cose che conoscono, la libertà è quella che conoscono meno e svisano di più. Vi faccio subito vedere un’aberrazione, che pare un paradosso: noi non perdiamo mai tanto la nostra libertà, come quando la vogliamo esageratamente estendere: e noi non sappiamo meglio conservarla che imponendole termini fissi entro cui si agiti: come conseguenza vi dirò che la vera libertà sta nella sottomissione alle leggi giuste. Se parlo del dono, e lo dico grande, della libertà, voi capite subito, o Cristiani, che accanto alla vera libertà, ve n’è una falsa: lo possiamo ben capire dalle stesse parole del Salvatore che ci avvisa: « si vos Filius liberaverit, tunc vere liberi eritis ». Sarete veramente liberi se avrete la libertà data dal Figliol dell’Uomo. (Giov., VIII). Nel dire: veramente liberi, parla di vera libertà; dice quindi, che ve n’è una falsa… una maschera di libertà! Egli vuole pertanto che le nostre aspirazioni non siano volte ad ogni forma di emancipazione ed indipendenza, ma alla vera libertà: libertà degna di questo nome sacro: quella cioè che a noi fu data dalla sua grazia e dalla sua dottrina: « tunc vere liberi eritis ». Non ci inganni dunque né il nome né l’aspetto della libertà: bisogna imparar subito a sceverare il vero dal falso. Perché lo possiamo nettamente, o Cristiani, vi descrivo tre sorta di libertà, che possiamo ben trovare nelle creature: la prima è la libertà degli animali; la seconda quella dei ribelli; la terza è la libertà dei sudditi e dei figlioli. – Sembra che gli animali siano completamente liberi perché nessuno detta loro alcuna legge: i ribelli credono di esserlo perché scuotono ogni giogo: i figlioli ed i sottomessi, i figli di Dio sono i veramente liberi, perché umilmente si sottomettono all’autorità della sua legge. Questa è la vera e la sola libertà: non ci sarà difficile il provarlo, quando proveremo che le altre due non sono affatto libertà.

La libertà dei bruti — veramente, fratelli, io mi sento arrossire in viso, chiamandola così — sento che avvilisco questo nome sacro! È vero: gli animali non hanno legge alcuna che reprima e limiti i loro appetiti, o li diriga: ma il perché è questo: Essi essendo privi di intelligenza non sono nemmeno capaci della direzione della legge. Sono guidati da un istinto cieco, e vanno dove questo li spinge, senza direzione né  criterio… Vorreste voi dirlo libertà un istinto cieco e brutalmente irruente che non è neppur suscettibile di norma e di guida, di freno? Oh figli d’Adamo che un Dio fece a sua immagine e somiglianza… non permetta questo Dio, che vi attragga questa libertà e vi adattiate ad amarla una libertà così vergognosa ed umiliante! Eppure… cosa sentiamo noi ogni giorno dalla bocca della gente del mondo? non sono quelli che trovano inutili le leggi, che tutte le vorrebbero abolite, tranne quelle dettate dal loro io a se stessi e dai loro desideri senza freno? Sarebbe molto piccolo il passaggio per costoro ad invidiare la libertà del bruto e dell’animale selvaggio, ormai essi non accettano altra legge che quella dei loro desideri!… Oh povera natura umana quanto vieni prostituita! Sentiamo però, o Cristiani, la parola del dotto Tertulliano: egli: che ben aveva compresa la dignità umana, scriveva nel secondo libro contro Marcione, un vero capolavoro di dottrina e di alto parlare, questa sentenza : « Era necessario che Dio desse all’uomo delle leggi, non per togliergli la libertà data, ma per dargli prova di stima. « Legem… bonitas erogavit, quo Deo adhæreret, ne non tam liber quam abiectus viveretur ». Davvero sarebbe stata atroce offesa alla nostra natura la libertà di vivere senza legge: Dio avrebbe mostrato tutto il suo disprezzo per l’uomo se non si fosse degnato di regolarlo dettandogli norme di vivere. L’avrebbe posto al livello dei bruti, ai quali non dà leggi e li lascia vivere senza freni, non per altro che per il disprezzo che ne ha, dice lo stesso Tertulliano. Ed allora quando gli uomini si lamentan della legge loro data, e braman una vita senza freno né guida, spinta solo dai loro ciechi desideri, bisogna proprio dire col Salmista che hanno perduto l’idea ed il concetto d’onore e della dignità della natura umana, se bramano essere uguagliati ai bruti! « Homo curri in honore esset, non intellexit, comparatus est jumentis insipientibus et similis factus est illis » (Ps., XLVIII). Cieca insipienza, descritta da un amico del paziente Giobbe : — Vir vanus in superbiam erigitur, et tamquam pullum onagri se liberum putat natum.— L’umano sciocco è irragionevole, portato da stolta superbia, crede, come il puledro dell’asino selvatico, d’esser nato in libertà! Osserviamo, fratelli, i sentimenti dei peccatori, (furono tante volte anche i nostri), quando ciechi si tengono a guida il loro capriccio, la loro passione, la collera, il piacere, la sbrigliata fantasia: e mordono il freno e ricalcitrano contro ogni legge e non vogliono sopportar dettami che li guidino o regolino! Si stimano d’esser nati in piena libertà, non come gli uomini però, ma come gli animali…i più indomiti… i figli dell’asino selvatico, che non vogliono né redini né sella né una mano che li guidi!Oh uomini, no, no, non dobbiamo considerarci cosi vergognosamente bassi! È vero: siamo nati liberi: ma la libertà non deve essere abbandonata a se stessa, sotto pena di vederla degenerare nel libertinaggio che è il carnefice della vera libertà. Abbiamo bisogno di legge, perché noi abbiamola ragione e siamo suscettibili di indirizzo, di guida di norme che ci regolino: ed il Salmista Io domanda al Signore quando prega per il popolo eletto: « Manda, o Signore, un legislatore al tuo popolo, perché le genti conoscan ch’essi sono uomini» (Ps., XX) … date loro prima Mosè che guiderà la loro fanciullezza…; darete poi il santo Legislatore, Gesù Cristo che, fatto adulto il popolo, lo ammaestrerà nella vostra legge, lo condurrà per la via della perfezione!… Mostrerete così che voi sapete che il vostro popolo è fatto d’uomini… creature vostre da Voi fatte a vostra immagine e somiglianza e le cui opere e costumi volete modellati su di una legge che è vostra parola, eterna verità. Ma se è necessario assolutamente che Dio, Creatore dell’uomo, gli dia una legge, è necessario insieme però che la volontà umana vi si sottometta pienamente.Ecco allora la Vergine che nel mistero di questo giorno ci dà luminoso esempio di obbedienza perfetta. Pura come il raggio del sole, Ella si sottomette umile alla legge della purificazione. Anzi Ella porta al tempio lo stesso Salvatore, perché la legge lo comanda, ed Egli non disdegna, Egli autore della legge, innocente sottoporsi alle prescrizioni dettate per i sudditi nati nella colpa. Ci insegnino questi esempi che la dobbiamo veramente amare la nostra libertà… ma amarla sottomettendola a Dio, persuasi che le sue leggi non la inceppano ma la fanno più perfetta più sicura. Quando da l’una e dall’altra parte d’un fiume si costruiscono gli argini né si vuol fermare il fiume, né ostacolarlo nel suo corso, anzi, impedendogli di spargersi nelle campagne e sparire, lo si fa scorrere nel suo letto e correre tranquillo al mare!Alla stessa guisa quando le leggi a destra ed a sinistra stringono la nostra libertà, non la distruggono ma la incanalano, e mentre le impediscono di deragliare, le fanno seguir la via giusta che deve battere per riuscire dono benefico alla nostra natura: non la si fa schiava, la si guida…: non la si costringe, la si dirige. La distruggono coloro soltanto che stornandola dal suo corso naturale, il fine cioè per cui Dio ce la donò, l’allontanano dal bene sommo a cui tende.Ecco allora, o fratelli, che la vera libertà ci viene data e conservata da Dio e dalla nostra dipendenza da Lui. Il rifiutare obbedienza, o miei cari, alla legge ed autorità di Dio, non è libertà ma ribellione, non è emancipazione ma insolenza! Apriamo gli occhi, apriamoli con coraggio, o fratelli, e vediamo quale sia la vera libertà nostra: siamo fatti liberi non per scuotere il giogo, ma per portarlo con onore, portandolo volontariamente. Abbiamo la libertà ma essa non deve essere la licenza di fare il male, ma di fare il bene pur potendo abusarne e fare il male, perché facendo noi liberamente il bene, questo ridondi a nostro onore e gloria: liberi non per rifiutare a Dio il nostro servizio, ma per servirlo volontariamente e farcelo, per così esprimerci, riconoscente, debitore come il padrone verso il servo fedele! Senza confronto noi siamo più sottoposti a Dio di quanto un fanciullo può essere sottoposto all’autorità di suo padre. Che se, osserva Tertulliano, Dio donandoci la libertà in un certo modo ci emancipò, non volle certo renderci indipendenti: lo fece perché, volontaria la nostra dipendenza, per libera nostra elezione gli rendessimo quanto per dovere gli dobbiamo e così i nostri servigi fossero meritevoli di ricompensa. Ecco perché siamo liberi, o fratelli. Ma, oh Dio. quale abuso tra gli uomini di questo dono del cielo! Come ha ragione il grande Papa Innocenzo IV, quando lamenta « che l’uomo è stranamente ingannato dalla sua stessa libertà — sua in æternum libertate deceptus! » Altro non vuol dire il Santo Pontefice che l’uomo non volle, non seppe distinguere tra libertà ed indipendenza, e non ricordò che esser libero non voleva dire essere senza padrone: mentre l’uomo è libero come il suddito sotto il legittimo principe, il figlio sotto l’autorità paterna.Egli invece volle esser libero fino a disconoscere la sua condizione e perdere completamente il rispetto: la sua fu la libertà del ribelle mentre doveva essere quella d’un buon figliolo e d’un suddito fedele.

La potenza di Colui contro del quale si alza sfacciato non permette che il ribelle gusti a lungo la sua licenza… È S. Agostino che parla. Sentite: « Altre volte, io volli essere libero a questo modo…e accontentai i miei desideri, seguii le mie folli passioni! Ma ahi triste libertà… facendo quello che volevo ruinavo là dove non avrei voluto » (Conf., VIII, V). Eccovi fedelmente ritratto il domani di tutti i peccatori! Consideriamo questo uomo troppo libero, di cui vi ho parlato fino ad ora, che nulla mai nega né al capriccio né alla passione: sprezza e spezza ogni vincolo di legge: ama ed odia, si vendica a seconda che ve lo spinge il suo umore tetro o lieto lasciando correre il suo cuore dove il piacere l’attira: credere spirare un’aria di piena libertà perché corre a destra ed a sinistra coi suoi desideri incerti e vaghi…e chiama libertà quello che è traviamento, proprio come i fanciulli che fuggiti da casa credono esser liberi e non sanno dove fuggano e vadano. Si stima libero il peccatore, stima questo far quel che vuole, libertà; ma quanto lo tradisce questa maschera di libertà: nel fare a suo modo, fatto cieco, precipita là dove non avrebbe voluto scendere affatto. Perché, o signori miei, in un governo perfetto la legge non può essere senza la forza della sanzione: le sue leggi sono forze armate, e chi le disprezza ne prova subito i colpi. Il folle che contro Dio, nel disprezzo della sua legge, vuole usare la sua libertà, per fare quel che gli garba, s’accumula sul capo le condanne che più dovrebbe temere: la terribile e giusta vendetta dell’Onnipotente disprezzato…la morte eterna. Basta… cessa o temerario ribelle dalla tua insolente libertà che non può salvarti dall’ira del sovrano che offendi, comprendi che con questa libertà tu fai a te stesso pesanti catene, e poni sul. tuo collo un giogo di ferro che non potrai più scuotere: ti condannerai tu stesso ad una umiliante schiavitù mentre credi estender folle la tua indipendenza fino fuori del diritto di Dio.Che ci resta a fare allora, o fratelli? se non vivere sempre ed ogni giorno nella dipendenza del nostro Dio, certi che disprezzando i suoi comandamenti non potremmo mai sfuggire ai suoi castighi? L’Apostolo ci avverte di temere il Principe, perché non per nulla porta la spada: dovremo più ancora temere Iddio che non per nulla è giusto e onnipotente ed inutilmente non fa risuonare le sue minacce. Sto parlando, ed è onore, davanti a Sovrani: impariamo come render il nostro omaggio a Dio, da quanto facciamo verso l’autorità terrena che nell’immagine. Non fa ognuno di noi, nella obbedienza alla legge, sua la volontà del Principe? Non è vero che ci teniamo onorati di potergli prestare i nostri servigi e vorremmo quasi prevenirne i desideri? Più ancora, il suddito fedele non ritiene onore grandissimo dar la sua vita per il suo re?Stimiamo bella ogni occasione per dimostrare questa nostra disposizione d’animo: e questi sentimenti sono giusti e legittimi. Al di sopra del Re, non c’è che Dio; dopo di Dio il principe è la suprema autorità nella società civile, e tiene nelle sue mani la forza per l’esercizio della sua autorità. Non viene da tutto questo, come legittima conseguenza, che sarebbe assurdo vergognoso il ritener il Principe di più di Dio, e si negasse a Dio l’onore e l’obbedienza data al Principe? Il rappresentante sarebbe più onorato del Sovrano assoluto. Impunemente non si offende il principe, poiché tiene la spada in mano e si fa temere… e non gli si resiste. Parlando del Re, Salomone dice che egli scopre ogni segreto complotto… « gli uccelli del cielo tutto gli riferiscono » tanto che si vorrebbe quasi dire che prevede e preannuncia fatti e cose, le indovina, tanto difficilmente gli si può nascondere qualcosa: « Divinatio in labiis regis ». Allunga ed allarga le sue braccia, continua Salomone, e va a scovare i suoi nemici nelle profonde caverne in cui avevan pensato sfuggire alla sua potenza: la sua apparizione li mette in scompiglio e la sua autorità li schiaccia. (Eccles. Prov.). E se tanta forza ammiriamo nella debolezza della persona umana, quanto non dovremo tremare davanti alla Maestà suprema di un Dio vivente ed eterno! La più grande potenza del mondo non può andar più in là, in fin dei conti, di togliere la vita al suddito… Non occorre poi un grande sforzo per far morire un uomo mortale… togliere qualche momento ad una vita che li ha contati, e da sé corre verso l’ultimo suo istante. Che se temiamo tanto chi può toglierci la vita del corpo, e tolta questa non può più nuocerci, quanto più, insiste il Salvatore, quanto più dovrete temere Colui che può, anima e corpo, precipitarvi nella geenna eterna!…Osservate però, fratelli… quale cecità impressionante!…non solo vogliamo resistere a Dio, ma ci troviamo gusto a resistere ed opporci alla sua volontà! Aberrazione e rivolta più laida contro Dio non la si può pensare: la legge ch’Egli pose perché fosse argine e ritegno ai nostri pazzi desideri, li stuzzica e li provoca li fa più forti. Più una cosa è vietata e più ci sentiamo tirati a farla: mentre il dovere, ci si presenta come una tortura: ciò che la ragione dice buono, non ci piace quasi mai, e par quasi che quello che facciamo contro la legge sia più saporito e divertente: i cibi proibiti nel giorno dell’astinenza ci appaiono più appetitosi e saporiti « è il peccato che, ingannandoci con una falsa dolcezza, ci fa riuscire tanto più gradita una cosa quanto più ci è proibita ». Pare quasi che il nostro io, si stizzisca contro la legge perché è contraria ai nostri desideri, e ci troviamo un certo gusto a vendicarci facendole dispetti, anzi il tentare di imporci un freno od un argine, è proprio un provocarci a romperlo con più audacia ed astio! Era questo strano contrasto della nostra anima che faceva dire all’Apostolo che il peccato si serviva proprio della proibizione per sedurlo: « Peccatimi, occasione accepta per mandatimi, seduxit me » (Romani, VIII). Quanto siamo mai ciechi, o Signore, e quanto sista lontana dalle tue leggi sapienti, l’arroganza umana… se lo stesso tuo comandarci ci stimola a disobbedirti!Oh venite Voi, o Maria Vergine cara, venite col vostro Gesù, Gesù e Maria venite e col vostro esempio piegate gli indocili nostri cuori! Chi vorrà pensarsi dispensato dall’obbedienza quando un Dio si fa obbediente alla legge? Quale pretesto cercheremo per sottrarci alla legge, davanti alla Vergine che si presenta per essere purificata, e che sapendosi pura d’una purezza angelica non si crede dispensata da una legge che per lei era proprio inutile? Se la legge dettata da Mosè, ch’era servo come noi, esige obbedienza così esatta ed universale, quale obbedienza piena e perfetta non dovremo noi alla legge dettata e comandata dallo stesso Figlio di Dio? Davanti a queste riflessioni ed a questi esempi, l’infingardaggine nostra non può più aver né scuse né pretesti… giù la testa! Anzi non contenti di fare quanto Dio comanda, mostriamogli la disposizione della nostra volontà in far quanto è suo piacere, sempre. Ciò vi propongo nell’altra parte del mio discorso, in cui per non essere lungo, unirò il secondo ed il terzo punto della mia divisione adducendo per essi lo stesso ragionamento e le medesime prove.

II° e III°  punto.

Fratelli, tra le cose che Dio esige da noi, osserviamo questa differenza: alcune che dobbiamo fare dipendono dalla nostra scelta: altre invece non hanno nessun rapporto colla nostra volontà, è Dio che arbitrariamente agisce per la sua potenza assoluta. Spieghiamoci: Dio vuole, ad es. che noi siamo giusti, retti, moderati nei nostri desideri, sinceri nel nostro parlare, costanti nelle azioni nostre; ci vuole pronti a perdonare le offese e non vuole assolutamente ne facciamo agli altri. In queste ed altre simili cose che vuole da noi, e che non sono che la pratica della sua legge e dei suoi precetti, la nostra volontà è per nulla affatto forzata. Se disobbediamo, Egli ci punisce, è vero, e non possiamo sfuggire al castigo, ma però possiamo disobbedire: ci pone davanti la vita e la morte lasciandoci liberissimi nella scelta. – In questo modo domanda l’obbedienza dell’uomo ai suoi comandamenti; come se essa fosse effetto della sua scelta e della sua propria determinazione. -Vi sono invece, altri eventi, che decidono della nostra fortuna e della nostra vita, e che sono disposti e guidati dalla mano segreta della sua provvidenza. Essi sono fuori dell’ambito del nostro potere e spesso perfino della nostra previsione, cosicché nessuna mano, per quanto potente, può arrestarne o mutarne il corso, secondo la frase di Isaia (LV): « I miei non sono i vostri pensieri: come è distaccato il cielo dalla terra, tanto e di più sono lontani i miei pensieri dai vostri » ed altrove: « Sarà fatto ogni mio volere e raggiungerà il suo sviluppo ogni mio discorso ». « Consìlium meum stahìt et omnis voluntas mea fiet ». Davanti alla causa di questa differenza, io sento che non sarebbe giusto die Dio lasciasse tutto alla mercé della nostra volontà, lasciandoci arbitri di noi e di quanto ci riguarda; mentre è giustissimo che l’uomo senta che vi è una forza superiore alla quale deve sottostare e cedere. È questo il perché di un duplice ordine di cose: quelle che vuole che facciamo noi, scegliendocele; altre che facciamo accettandole dalla necessità che ce le impone. È così che sono disposte le vicende umane: nessuna di esse però, per quanto ben preparata da prudenza, protetta da forza, sarà così sicura da non poter essere turbata da accidenti imprevisti che ne interrompono o deviano l’andamento. La Suprema Potenza dell’universo non vuol permettere vi sia un uomo, per quanto grande e potente, che possa disporre a suo piacimento della sua sorte e delle sue fortune, molto meno della sua salute e della sua vita. Piacque al Signore disporre tutto così, perché  l’uomo esperimenti quotidianamente questa forza superiore di cui vi parlo: forza divina ed inevitabile che talvolta, non lo nascondo, si rallenta e quasi si adatta alla volontà nostra, ma sa anche, quando lo voglia, opporre tale resistenza che contro di essa tutto s’infrange, e, nostro malgrado, ci fa servire ai piani della divina Provvidenza, in ogni pensiero e atto nostro. Arbitro Supremo, Iddio ha diviso le cose nostre così che alcune restano in nostro potere ed altre in cui, senza punto guardare a noi, solo consulta il suo piacere: perché se da un lato possiamo usare della nostra libertà, sentiamo dall’altro che abbiamo un forte dovere di dipendenza. Non ci vuole padroni assoluti: anzi vuole sentiamo che la sua padronanza c’è e s’esercita, tanto e quanto e dove Egli vuole perché ci guardiamo bene dall’abusare di questo dono della libertà. Se dolcemente ci invita, comprendiamolo bene, non è che ove voglia non sappia e non possa costringerci colla forza, no, ma vuole che temiamo sempre questa sua forza anche quando ci fa provare la sua dolcezza. È Lui, proprio Lui, che semina la nostra vita di avvenimenti ed eventi che ci infastidiscono, che contrariano la nostra volontà, che troppo attaccata a se stessa giunge alla licenza. E lo fa, perché  completamente domati, docili, sottomessi a Lui, ci possa innalzare alla vera sapienza. Non v’è prova più evidente di una ragione esercitata e sicura che il saper resistere alle proprie brame. Vedete: l’età in cui meno si ragiona si è anche meno capaci di moderar le proprie brame di vincerci… è l’età del capriccio. Se nei fanciulli la volontà fosse così fissa e costante quanto è ardente non potremmo più arrestarli né calmarli nelle loro voglie. Vogliono quel che vogliono: non stanno a veder se sarà utile o di danno, basta che piaccia ai loro occhi! se siano essi od altri i padroni, non importa nulla, basta che piaccia a loro che lo desiderano, lo vogliono: essi si credono padroni di tutto. Provate ad opporvi… il loro viso si accende ed infiamma, un tremito convulso li agita, pestano i piedi, piangono, anzi non è neppure pianto il loro, è un gemito, un riso, è un grido in cui c’è preghiera stizza, brama e dispetto: esponenti di un ardore di desiderio frutto della loro debolezza ed incapacità di ragionare. Fanno così i fanciulli!… ma se ci guardiamo intorno, dovremo confessare: quanti fanciulli nel mondo… fanciulli bianchi per antico pelo, fanciulli di cent’anni!… sono uomini in cui è violenza nel desiderio debolezza nel ragionare. Perché l’avaro vuole quanto brama senz’altro diritto che il suo interesse? L’adultero, che Dio tante volte maledice, che diritto ha alla moglie del prossimo se non la sua concupiscenza che è cieca? Non sono fanciulli che credono che per avere basti la loro voglia e il loro capriccio? Ma c’è una differenza tra il fanciullo e questi fanciulli: in quello là, natura, lasciando rallentate le redini alla violenta inclinazione, pone un altro freno: essi sono deboli ed incapaci di ottenere quel che vogliono: in questi altri — vecchi fanciulli — i desideri impetuosi non ostacolati dalla debolezza, divampano terribili se la ragione non li imbriglia e guida. – Conchiudiamo, fratelli, che vera scienza e vera sapienza è il saper moderarsi: man mano che si sa domare la violenza del proprio desiderio, si dà prova che si allontana dalla puerizia e fanciullezza e si diventa ragionevoli. « Diremo uomo maturo, vero saggio quello che, dice il dotto Sinasio, non si tiene in dovere di accontentare ogni brama od ogni desiderio… ma tutti guida e domina i suoi desideri secondo i suoi doveri ed i suoi obblighi, e ben conoscendo la fecondità della natura nelle voglie cattive, taglia e di qua e di là, come buon giardiniere, quanto trova, non solo guasto o secco, ma quanto vede superfluo, non lasciando crescere rigoglioso che quanto può dare frutti di vera sapienza ». Dite bene, vorreste oppormi che gli alberi non si lagnano né soffrono di questi tagli dei loro rami inutili o superflui, mentre la nostra volontà strilla e reclama quando si rintuzzano i suoi desideri: quindi, è difficile trovar il coraggio di tagliar sul proprio io. È vero: non tutti hanno il coraggio del Santo Vecchio, o della vedova Anna, di cui ci parla il Vangelo d’oggi, che agivan contro se stessi nella mortificazione e lottavan contro la legge di peccato che è nei nostri sensi: ecco però che il Signore viene in nostro aiuto. Sorgente prima ed universale del disordine in noi è l’attaccamento nostro alla nostra volontà: non possiamo contraddirci, anzi troviamo più facile opporci a Dio che al nostro io. Bisogna allora togliere questa radice guasta, sradicarla questa pianta infetta che dà frutti guasti, e con uno sforzo violento: pensiamo che essa è la causa della nostra sventura ed è tutta colpa nostra… Va bene! ma ed il coraggio? dove andremo a prenderlo questo coraggio di applicare ferro e fuoco ad una parte così delicata e sensibile del nostro cuore? Il malato vede che il suo braccio incancrenito lo porta alla morte, vede che bisogna tagliarlo ma da solo non lo sa fare: alla sua incapacità viene in aiuto il chirurgo, che fa un triste servizio ma pur necessario e salutare. Anch’io vedo che l’attacco al mio volere mi porta a dannarmi, perché fa vivere tutti i miei desideri malvagi: lo so, lo confesso. Ma confesso anche che non ho né coraggio né forza di armar la mia mano del coltello e tagliare… Ecco il Signore: viene e fa Egli il chirurgo che taglia e salva: viene accanto a noi in certi incontri ed avvenimenti dolorosi, inattesi ed inopportuni eventi, contrarietà insopportabili ed ingiuste, diciamo noi… sono i ferri chirurgici disposti dalla sua Provvidenza, e con essi attacca, abbatte e doma la nostra volontà che dalla libertà va alla licenza, risparmiandoci così di esser noi violenti contro noi stessi. Quasi la immobilizza la nostra volontà perché non sfugga al colpo doloroso ma salutare… e taglia, e profondamente penetra dentro alle nostre carni vive finché noi, costretti dalla sua mano, dalle disposizioni della sua volontà, ci stacchiamo dal nostro io… ed allora siamo guariti… dalla morte torniamo alla vita. – Se noi comprendessimo come siamo composti, e quanto ci lasciamo trascinare dai tristi nostri umori, comprenderemmo bene quanto ci è necessaria questa mano chirurgica. Voglio descrivervi con poche parole lo stato deplorevole della natura nostra. V’è una duplice sorta di mali… alcuni ci affliggono, altri, pare impossibile, ci piacciono: è strana ma purtroppo vera, reale distinzione. Dice S. Agostino che alcuni mali li sopportiamo con la nostra pazienza… e sono quelli che ci affliggono: altri invece li frena e domina la nostra temperanza: questi, continua lo stesso Santo, sono mali che ci piacciono: « Alia quæ per patientiam ferimus, alia quæ per temperantiam refrenamus ». A quanti mah sei esposta, sventurata umanità! Siamo preda a mille infermità: ogni nonnulla basta a darci noia, a farci ammalare… un nonnulla basta a farci morire! Diremmo quasi che una potenza avversa sia schierata contro la povera natura nostra, tanto pare ci trovi gusto a martoriare ogni nostra parte! eppure non è questo il nostro male maggiore: l’avarizia nostra, la nostra ambizione le altre passioni cieche insaziate ed insaziabili sono mali e quanto terribili! sono mali che ci seducono ed attraggono. Ma dove ci avete posto, o Dio? che vita è mai la nostra se ci perseguitano e i mali che ci fan soffrire e i mali che ci allettano e ci piacciono!? Ah me infelice chi mai mi strapperà a questo corpo di morte?… Chi? Ascoltami povero mortale… v’è chi ti libererà: sarà la grazia di Dio, per Cristo Gesù nostro Signore: ce lo dice il suo grande Apostolo, che scrutò le profonde ricchezze dell’amore di Dio. È vero: due sorta di mali ti travagliano; ma ecco che nella sua provvidenza Dio dispone che gli uni siano rimedio agli altri: cioè quelli che ci addolorano servano a moderare quelli che ci piacciono. Quelli a cui siamo costretti per frenare quelli in cui siamo troppo liberi: ogni male che ci viene di fuori, viene per abbattere un male che dentro di noi si solleva contro di noi… i cocenti dolori correggono gli eccessi a cui trasporta la passione sbrigliata… le disillusioni, le pene della vita ci fan sentir nausea dei falsi piaceri e attutiscono il senso troppo vivo del piacere. Non lo nego: la nostra natura, trattata così rudemente, soffre e noi ce ne lamentiamo… ma questa stessa pena nostra è medicina e rimedio, la rigidezza, in cui ci si tiene, diventa un regime curativo benefico. – Abbiamo bisogno, noi figli di Dio, che ci si tratti così fino a che non siam giunti a guarigione perfetta, cioè sia completamente abolita la legge del peccato che regna nelle membra nostre. Dobbiamo sopportare tutti questi mali fino a che non ne siamo corretti… ci occorrono questi mali per tener ritto il nostro giudizio fino a che viviamo in mezzo a tanti beni falsi dei quali, troppo facilmente, siamo portati a godere. Ogni contrarietà è un argine provvidenziale alla nostra libertà che disalvea… un freno alle passioni che tentano sopraffarci. Dio, che conosce quel che davvero ci fa bene, viene e contraria i nostri desideri: così dispose, la natura ed il mondo, e che da essi, proprio da essi, nascano ostacoli insuperabili che s’oppongono ai nostri progetti e sogni. nostra natura: di tutte le spine dei nostri affari: delle ingiustizie di tanti uomini, delle ineguaglianze importune, degli imbrogli del mondo e della vanità dei suoi favori. Per questo sono amati i suoi rifiuti e le sue lusinghe più dolci sono stimate pesanti catene di schiavi! Contraddetti a destra ed a sinistra la nostra volontà, sempre troppo libera, deve finalmente imparare a regolarsi: e l’uomo oppresso e travagliato da ogni parte, finalmente si sente spinto a volgersi al Signore, gridandogli sincero dal profondo del cuore: veramente tu sei, o Dio, il mio Signore: è giusto che la tua creatura serva a Te e ti obbedisca! Sottomettendoci invece alla volontà santa del Signore, una grande pace scende nell’anima nostra… accada che vuole nulla può smuoverci né commuoverci. Ecco: Simeone predice a Maria, appena madre, oscuri mali, immensi dolori; « l’anima tua sarà trafitta da acuta spada, e questo tuo Figliolo, ora tuo gaudio tuo amore, sarà bersaglio di contraddizione ». Cioè il Mondo e l’Inferno, raccolte tutte le loro tristi potenze si scaglieranno contro la sua persona e la sua opera, tentandone la rovina!… Predizione crudele, e tanto più crudele perché vaga… Simeone non predice alcun male in particolare, li lascia pensare e pesare tutti sul cuore. Per me non saprei trovare nulla di più angosciosamente crudo che lo stato di un cuore che si sta sotto l’incubo di una minaccia di mali, e non sa quale… impotente quindi a tentar una fuga un rimedio una difesa… quale?… dove?… – Atterrita, inebetita, quest’anima scruta e cerca e teme tutti ed ogni male: li va quasi scovando fino al fondo… il suo pensiero diventa il suo carnefice… poiché terribilmente atterrita non mette limiti né all’intensità né al numero degli strazi che le si minacciano. – S. Agostino dice che sotto la minaccia del male è già grande conforto il poter sapere da quale male saremo colpiti: saper perfino di qual morte moriamo è meno crudo che agonizzare temendole tutte: « Satius est unam perpeti morìendo, quam omnes timere vivendo ». Eppure Maria ascolta tacendo le terribili predizioni… non una parola di lamento, non una domanda al Vegliardo, che le lacera l’anima con le sue profezie, perché le dica quando, quanto, fino a quando questa spada le trafiggerà l’anima: Ella sa che tutto è disposto e guidato dalla mano di Dio… questo le basta e la sua volontà è subito sottomessa: per ciò non la turba il presente non la atterrisce il futuro. Oh se ancor noi sapessimo abbandonare noi e le cose nostre nelle braccia di quella Sapienza eterna che tutto regge e governa, quale costante tranquillità inonderebbe il nostro spirito: nessuna incalzante necessità, nessuna contraddizione lo saprebbe smuovere e turbare. Se fossimo anche noi come il vecchio Simeone, staccati da noi non avrebbe attrattive la vita, né spauracchi la morte, pur tanto odiosa!… viaggiatori, attenderemmo tranquillamente che lo Spirito del Signore ci inviti a fermarci dal nostro viaggio nel tempo, per entrare alla eternità. Fatto ogni giorno della vita il nostro dovere, come Simeone potremmo dire al Signore ad ogni istante: «Lascia, o Dio, che il tuo servo se ne vada ora in pace ». – Non fermiamoci qui però, o fratelli, nell’imitare il vecchio Simeone: non dobbiamo andarcene da questo mondo prima di aver visto, di esserci incontrati con Gesù: bisogna che possiamo aggiungere a quelle parole le altre: « perché i miei occhi contemplarono il Salvatore, che tu preparasti al mondo prima che fosse alcun popolo ». Il Salvatore promesso, atteso per tanti secoli venne finalmente: brillò la sua luce, ne furono illuminate e genti e nazioni: caddero gli idoli, furon liberati gli schiavi, i figli disobbedienti furono riconciliati col padre, i popoli si convertirono al loro Dio. Non basta fratelli! È venuto per noi questo Salvatore? È il nostro capitano, la nostra guida, la luce che illumina ognuno di noi?… no forse… perché noi non camminiamo per la via segnata dalla sua parola nei suoi precetti… non li osserviamo noi i suoi comandamenti. L’apostolo S. Giovanni potrebbe ancora dire davanti a tanti la parola severa del suo Vangelo (V, 37-38): « Neque vocem eius unquam audistis, neque speciem eius vidistis, et verbum eius non habetis in vobis manens » perché, continua: chi dice di conoscerlo e non ne osserva i comandamenti, è bugiardo « mendax est » ed in lui non è la verità « veritas in eo non est » (II, 4). Chi, tra noi, può dire, con verità, io lo conosco il Cristo, il Maestro? Quale contributo di vita abbiamo dato al suo vangelo? quali sono i vizi corretti, le passioni domate in noi? come usammo fino ad oggi dei beni e dei mali della vita?… quando la mano di Dio diminuiva le nostre ricchezze, abbiamo saputo anche noi diminuire le nostre spese, il nostro lusso?… ingannati dalla fortuna incostante, seppimo con coraggio staccar il cuore da’ suoi beni per attaccarlo a quelli che non sono né in sua mano né in suo potere? Ma ahi, che anche di noi si poté scrivere: « dissipati sunt, non compuncti… — fummo addolorati ma non mutati a bene! » Servi ostinati e caparbi, sotto la stessa sferza che ci voleva correggere e far camminare diritto, noi ci siamo impuntati… ci siamo ammutinati… rimproverati, non ci siamo corretti; abbattuti, non fummo umiliati; castigati, non convertiti! E davanti a questo nostro ritratto, diciamo ancora, se ne abbiamo il coraggio, di aver visto il Salvatore promesso, di aver conosciuto Gesù Cristo… lo Spirito Santo, colla mano di Giovanni, ci chiuderà la bocca: « in te non è la verità, tu sei bugiardo ». Temiamo, o Cristiani, temiamo e tremiamo di morire… poiché non abbiamo ancor visto Gesù, ed ancor non abbiamo tenuto sulle nostre braccia il Salvatore… cioè non ne abbiamo abbracciata la parola, la sua verità i suoi comandi! Infelici coloro che muoiono prima di averlo visto il Cristo Salvatore… quanto spaventosa la loro morte… come terribile il suo avvicinarsi… orribili le conseguenze del suo passaggio e del suo trionfo! In quell’ora svanirà la gloria, ruineranno i sogni ed i progetti… « in illa die peribunt omnes cogitationes eorum » mentre comincerà il loro supplizio…un fuoco eterno s’accenderà per essi: il furore e la disperazione più cruda ne lacereranno l’anima… il verme roditore, che non muore, affonderà più vorace il suo dente velenoso e non si staccherà più!Su fratelli, accorriamo al tempio con Simeone,ci porti lo Spirito del Signore, prendiamoci tra le braccia Gesù… baciamolo con amore… stringiamocelo al cuore perché sia tutto suo questo nostro miserocuore.L’uomo dabbene non tremerà al venire della morte, poiché l’anima ormai più non appartiene a questo corpo mortale: ne è già staccata: poiché gli dominò le passioni, soggiogò i sensi e la carne.La penitenza e la mortificazione gli diedero questo dominio, l’emanciparono e dal corpo e dai suoi sensi… libero tenderà le braccia alla morte che viene quasi le additerà dove gli debba menare l’ultimo colpo!Alle minacce egli risponderà: Morte tu non mi spaventi… per me non sei né crudele, né inesorabile… tu non mi puoi spogliare dei beni che io amo… tu solo mi strapperai questo corpo… questo che è corpo di morte… me ne libererai finalmente, coronando gli sforzi costanti della mia vita con cui mirai giorno per giorno a strapparmi alla sua tirannia!… Nunc dimittis… lascia, o morte, che libero me ne vada al mio Signore! Qual cosa ci sembrerà impossibile, fratelli, per aver una simile morte… gioiosa come un trionfo? Potessimo morire della morte del giusto per aver eterno riposo, il vero riposo che non ci seppero né ci potevano dare i beni della vita… su chiudiamo l’occhio nostro ed il cuore nostro ad ogni bene che ci invita e fugge, per aprirlo solo e sempre nella vita a quei beni che durano e saranno nostri eternamente in seno al Padre, al Figlio e dallo Spirito Santo. Amen.

OMELIA II.

[G. PERARDI: LA VERGINE MADRE DI DIO – Libr. del Sacro Cuore, Torino, 1908]

XIII.

Presentazione di Gesù al Tempio e Purificazione di Maria

ESORDIO: Il fatto evangelico. Semplicità e misteri. — I . PURIFICAZIONE: Maria non v’è tenuta. Mistero di umiltà. Siamo umili. — II. OFFERTA DI GESÙ: 1. La legge dell’offerta. — 2. Come Maria l’adempì. Significato. Il sacrifizio di fsacco. — 3. Ragione della legge. Raggiunge lo scopo coll’offerta di Gesù. — 4. Gesù si offre volontariamente.— 5. Maria è l’altare e il sacerdote. — III. SIMEONE: 1. Chi era. —2. Il cantico — 3. Gloria a Gesù e Maria. — IV. CONCLUSIONE: Imitiamo Maria nell’umiltà.

Dopo Betlemme dobbiamo recarci in spirito a Gerusalemme, ove, quaranta giorni dopo la sua nascita, troviamo il Bambino Gesù e la Madre sua. Per l’intelligenza del fatto bisogna ricordare due leggi mosaiche: la prima riguardante la madre, la seconda riguardante il neonato, se primogenito. La madre doveva presentarsi per la cerimonia della purificazione legale; il neonato, se primogenito, doveva venire offerto al tempio, poi riscattato mediante un’offerta. Altrimenti quel fanciullo avrebbe dovuto prestarsi al servizio divino per tutta la vita. – Maria e Giuseppe si portano al tempio per presentare Gesù al Signore e per fare l’offerta. Allora « era in Gerusalemme un uomo, di nome Simeone, persona giusta e pia, che aspettava la consolazione d’Israele; e lo Spirito Santo era in lui: e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non vedrebbe la morte, prima di vedere il Cristo del Signore. Così per lo spirito andò al tempio. E quando i genitori v’introdussero il bambino Gesù per far di lui secondo il rito della legge, egli pure se lo prese tra le braccia e benedisse Dio, esclamando: Adesso, Signore, rimanda in pace il tuo servo, secondo la tua parola; che gli occhi miei han visto la tua salute, la quale hai disposta al cospetto di tutti i popoli: luce a rivelazione per le nazioni e gloria d’Israele, tuo popolo. E il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che sì dicevano di lui. E Simeone li benedisse, dicendo però a Maria, sua Madre: Ecco, Egli è posto per rovina e per risurrezione di molti in Israele e per segno di contraddizione; e anche a te una spada trapasserà l’anima affinché restino svelati i pensieri di molti cuori. C’era inoltre una profetessa, Anna, figliuola di Fanuel, della tribù d’Aser; molto avanzata in età, vissuta col suo marito sette anni dalla sua verginità. Rimasta vedova fino agli ottantaquattro anni, non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni. Questa dunque sopraggiunse in quell’ora stessa, e dava gloria al Signore, parlando di Lui a quanti aspettavano la redenzione d’Israele » (S. Luca, II, 25-28). Quale semplicità di narrazione è mai questa! Ma quali sublimi misteri offre alla nostra mente. « Misteri venerabili, dice il Bourdaloue, nei quali scopriamo ciò che la nostra Religione ha non solo di più sublime e divino, ma di più edificante e commovente: un Uomo-Dio offerto a Dio, il Santo dei santi consacrato al Signore, il sommo Sacerdote della nuova alleanza in istato di vittima, il Redentore del mondo riscattato; una vergine purificata; e una madre che sacrifica il proprio figliuolo; quali prodigi nell’ordine della grazia » (Sermone II della Purificazione.). No, non vi ha cosa in apparenza più semplice e più sublime in realtà del racconto che il Vangelo ci fa di questi misteri. Consideriamoli brevemente. Ci assista Maria perché possiamo ricavarne frutto di grazia per l’anima nostra.

I. — Il primo fatto su cui dobbiamo raccogliere la nostra considerazione è la Purificazione di Maria. Pronunziando la parola purificazione e applicandola a Maria il nostro cuore prova un senso di ripugnanza, perché sente che la legge della purificazione non era fatta per Maria, la creatura tutta bella, santa, pura, perché sente che le due parole purificazione e Maria contrastano, essendo Maria la Vergine per eccellenza, la Vergine Madre. Ed a Maria perciò si applica con più ragione la parola già indirizzata ad Ester: La legge non è fatta per te. No, la legge della purificazione fatta per le donne ebree, non era per Maria. E perché Maria vi si assoggetta ? Ha Ella forse dimenticato il saluto celeste: Benedetta tu fra le donne? Ha dimenticato d’aver Ella stessa proclamato che tutte le generazioni la chiameranno beata perché in Lei grandi cose aveva operato colui che è potente, Iddio? Non poteva Ella ripetere in questo momento che era beata, che era benedetta, e che era benedetto il frutto del suo seno; che veniva non a cercare la purificazione, ma a recarla al mondo, che veniva non a domandare il riscatto, ma a recarlo? Gl’interessi del suo Figliuolo non parevano forse prescriverle questo, mentre il suo silenzio e la sua condotta parevano derogare alla divinità di Lui e, facendolo passare per figliuolo ordinario, smentivano i tanti prodigi e i tanti oracoli che lo avevano già proclamato Figliuolo di Dio? Così certamente avrebbe pensato ed operato qualunque altra donna: non così pensa Maria. Maria è una creatura al tutto singolare. La sua grandezza è incomprensibile, ha dell’infinito; ma non meno grande è la sua umiltà. Questa virtù che spicca in tutti gli atti della vita di Maria, che abbiamo particolarmente ammirato nel mistero dell’Annunciazione, qui ci si rivela in un nuovo abisso incomprensibile, solo paragonabile alla incomprensibile grandezza di Lei. Ella accordandosi mirabilmente coi disegni di umiliazione e di sacrifizio di suo Figlio, si spoglia di tutte le grandezze, vela le sue glorie per soggettare Sé e Lui alle prescrizioni più umilianti. Scrutate quest’umiltà: Non sono trascorsi ancora undici mesi che Maria riceveva la visita dell’Angelo venuto dal cielo a richiederla del suo consenso alla divina Maternità: Maria tiene in sì alto pregio l’illibatezza verginale che è disposta a sacrificarle pur l’incomparabile grandezza della Maternità divina; e allora soltanto presta il suo consenso. Quando è assicurata che la sua verginità non patirà alcun detrimento, che quello che avverrà sarà dello Spirito Santo, che la potenza dell’Altissimo l’avrebbe adombrata. Ora nella purificazione Maria dimostra un amore, direi, ancor più grande dell’umiltà. Se per amore della verginità era disposta a rinunziare all’onore di Madre di Dio; ora per amore dell’umiltà si spoglia di tutte le grandezze, vela tutte le glorie, sacrifica lo stesso onore esterno della sua verginità. È la Vergine Madre di Dio: si umilia a segno da non comparire né Madre di Dio, né vergine, si umilia a comparire bisognosa di purificazione come un’altra donna qualsiasi. Quant’è ammirabile l’umiltà di Maria! Impariamo da questo fatto il dovere nostro di mortificare la superbia e praticare fedelmente l’umiltà se vogliamo essere veri devoti di Maria, imitandone quelle virtù ch’Essa ha particolarmente amato e praticato. Maria si assoggetta alla cerimonia della purificazione, offre le due piccole colombe pel sacrifizio, le due vittime che, se avessero potuto comprenderlo, si sarebbero stimate felici di essere offerte. Andate, piccoli animali, innocenti vittime, andate a morire per Gesù sinché Egli possa morire per noi.

II . — Il secondo fatto che dobbiamo considerare è la presentazione di Gesù al Tempio, cioè l’offerta di Gesù all’Eterno Padre.

1° Maria, purificata, si avanza nel tempio. « Quale indescrivibile commozione dovette provare Maria, rivedendo quel luogo confidente dei pensieri e dei fervori della sua fanciullezza? Lì Ella aveva passati lunghi giorni nella preghiera, aveva votato la sua verginità al Signore, e aveva accettato la mano di Giuseppe, ornata di gigli, per proteggere i suoi. Quante cose celesti erano passate da un anno appena; e adesso vi ritorna a presentare il Figliuol suo, l’Emanuele » (Lemann, La Vergine Maria, etc.). L’offerta del primogenito che gli Ebrei dovevano fare a Dio, si collegava con la loro liberazione dalla schiavitù d’Egitto e coll’uccisione di tutti i primogeniti degli Egiziani. L’indomani di questo prodigio Dio, per mezzo di Mose promulgava la legge : Consacratemi tutti i primogeniti tra i figli d’Israele, poiché ogni cosa mi appartiene (Es. XIII, 2). Or Gesù, Figlio di Dio, appartiene veramente a Dio, anche come uomo. Sia dunque offerto a Lui. – Quando Iddio dispose che alla tribù di Levi fossero affidate le cure del culto riformò la legge dell’offerta dei primogeniti disponendo che, dopo d’averli offerti, i genitori li potessero riscattare mediante cinque sicli d’argento (circa 15 lire). Giuseppe e Maria offrono Gesù al Padre e lo riscattano coi cinque sicli d’argento. Oh Maria, riscattatelo pure il vostro Gesù! non lo avrete per lungo tempo; lo vedrete rivenduto per trenta denari.

2° Maria, coll’offrire Gesù non ha compiuto soltanto una cerimonia. Essa conosceva la grandezza dell’offerta: era l’offerta vera e reale di Gesù all’eterno Padre pel sacrifizio che il divin Figliuolo avrebbe offerto un giorno, della sua vita, sul Calvario. Quale sacrifizio pel cuor di Maria, pel cuor della Madre! – Un giorno Abramo ed Isacco ascendevano il monte Moria per offrire a Dio un sacrifizio. Isacco, che portava la legna per l’altare, domanda al padre: Dov’è la vittima dell’olocausto? E Abramo, col cuore lacerato da immenso dolore, non ebbe animo di rivelare ad Isacco ch’egli stesso era la vittima designata e si contentò di rispondere: Iddio stesso ci provvedere la vittima per l’olocausto (Gen. XXII). Noi ammiriamo l’eroica ubbidienza di Abramo, la sua perfetta sottomissione al cenno divino. Ma osserviamo pure che Dio domandò il sacrificio di Isacco non alla madre Sara, ma al padre. Una madre meditando questo fatto ebbe a dire che Dio non avrebbe chiesto un simile sacrificio ad una madre. Quello di cui Sara non sarebbe stata capace, compì Maria coll’offerta di Gesù al Tempio. Il sacrificio di Gesù non doveva consumarsi che più tardi sul Calvario: Nel tempio però Maria dà il suo consenso e offrendolo, in certo modo, dispone la vittima sull’altare. Maria aveva certamente coscienza di questo grande mistero nel momento in cui Ella lo compiva: «Se di fatto gli Ebrei illuminati intendevano in un senso spirituale quello che celebravano corporalmente, con ben maggior ragione Maria, la quale aveva il Salvatore tra le braccia e lo offriva con le sue mani all’eterno Padre, doveva eseguire quella cerimonia in ispirito ed unire la sua intenzione a ciò che era rappresentato dalla figura, vale a dire all’oblazione santa del Salvatore per tutto il genere umano. Pertanto nella guisa medesima che nel giorno dell’Annunciazione aveva prestato il suo consenso all’Incarnazione del Messia, che era argomento dell’annunzio angelico: così ratificò, per così esprimerci, in questo giorno il trattato della sua passione, poiché questo giorno n’era figura e come primo apparecchio » (Bossuet, Sermone III sulla festa della Purificazione). Perciò in questo giorno riscatta il Redentore; ma lo riscatta in figura per darlo poi in realtà; lo riscatta temporaneamente e quasi sotto condizione per allevarlo in vista del sacrificio, per essergli in esso compagna e dividerlo con Lui.

3° L’offerta di Gesù va considerata ancora sotto un altro aspetto per intendere tutto il disegno divino. E l’ha fatto con un’insuperabile maestà di vedute un grande oratore francese (Bourdaloue, Serm. II sulla Purificazione di Maria) che scrisse: « Dio voleva che in ogni famiglia il primogenito gli fosse offerto perché gli rispondesse di tutti gli altri e fosse come un ostaggio della dipendenza di quelli de’ quali era il capo. Ma ciascuno di questi primogeniti non era capo che della sua casa e la legge di cui si parla non obbligando che i figliuoli d’Israele, a Dio non ne poteva venire che un onore limitato, circoscritto. Che fa Iddio? Nella pienezza dei tempi elegge un uomo capo di tutti gli uomini, la cui oblazione gli è come un tributo universale per tutte le nazioni e per tutti i popoli: un uomo che ci rappresenta tutti e che sostenendo a nostro riguardo l’ufficio di primogenito risponde a Dio di lui e di noi, a meno che abbiamo l’audacia di sconfessarlo o che siamo così ciechi da separarcene: un uomo, infine, in cui tutti gli esseri riuniti rendano a Dio l’omaggio della loro sottomissione e che, mediante la sua obbedienza, rimetta sotto l’impero di Dio tutto ciò che il peccato ne aveva sottratto: ed anche su questo è fondato il diritto di primogenitura che Gesù Cristo deve avere al di sopra di tutte le creature: Primogenitus omnis creaturæ (Col. I, 15). « Dico di più: Tutte le creature, prese anche insieme, non avendo alcuna proporzione coll’Essere divino, e, come parla Isaia, non essendo tutte le nazioni, che una goccia d’acqua innanzi a Dio, un atomo, un nulla, perciò qualunque sforzo facessero per attestare a Dio la loro dipendenza, Dio non poteva essere pienamente onorato, e nel culto che riceveva restava sempre un vuoto infinito che tutti i sacrifici del mondo non avrebbero potuto riempire. Occorreva un soggetto grande come Dio, e che col più stupendo prodigio possedendo da una parte l’infinità dell’essere, e dall’altra parte mettendosi in istato di venire immolato potesse dire a tutto rigore di parola, che Egli offriva a Dio un sacrificio eccellente quanto Dio stesso, e che nella sua persona sottometteva a Dio non vili creature, non poveri schiavi, ma il Creatore e il Signore istesso ». E questo appunto fa oggi il Figliuolo di Dio coll’offerta sua all’eterno Padre, nel tempio di Gerusalemme.

4° Poiché occorre ricordare che Gesù al Tempio non solo viene offerto, ma Egli stesso volontariamente si offre. Gesù si era fatto bambino, del bambino aveva rivestito la debolezza ma non l’inconsapevolezza. Gesù era bambino e Dio: le umiliazioni a cui si sottometteva, gli atti che compiva non erano umiliazioni od atti di cui fosse inconscio; erano umiliazioni ed atti volontari. Gesù volontariamente si era sottomesso, otto giorni dopo la nascita, alla circoncisione; volontariamente aveva sofferto i primi dolori, sparse le prime lagrime, versate le prime stille di sangue; volontariamente si offrì nel Tempio, costituendosi fin da quell’istante vero e proprio mediatore nostro presso l’eterno Padre. Gesù aprendo gli occhi alla vita, già sapeva la sua missione, sapeva a qual sacrificio si sottoponeva. A nostro modo di esprimerci questo sacrificio ha nuovamente accettato col lasciarsi offrire, anzi col voler essere offerto da Maria all’Eterno Padre. E quindi in quell’ora ha, a dir così, accettato ufficialmente di essere, innanzi al Padre, nostro Redentore; ha accettato di essere a noi Maestro con la parola e con l’esempio, ha accettato la morte, la croce, i flagelli. Perciò dobbiamo oggi un pensiero ed un affetto specialissimo a Gesù. Figuratevi il figlio d’un Re che redime uno schiavo a prezzo di un grande sacrificio. Lo schiavo redento ricorderà un giorno tutti gli atti della sua liberazione; la determinazione, i preparativi, l’opera del suo liberatore. Ricorderà quell’istante in cui il Principe Reale, fatti gli apparecchi, rinnova l’accettazione della sua missione ricordando e quasi passando in rassegna le disposizioni prese e date, e confermando il suo proposito. E appunto nella sua presentazione al tempio, nel porsi tra Dio Padre e noi, Gesù ha confermato la determinazione presa da tutta l’eternità, i preparativi già fatti pel nostro riscatto, l’accettazione di quel genere di morte, ch’era secondo il beneplacito di Dio, accompagnata da tutti quei dolori che erano o necessari o convenienti al nostro maggior bene. Quindi riguardo a Gesù noi ricordiamo oggi l’atto suo di porsi tra Dio Padre e noi, quasi dicesse: Questi infelici prendo io sotto la mia tutela; sono peccatori: soddisferò io quello che non possono essi. In quest’offerta di sé, Gesù fu mosso da un doppio sentimento: amor del Padre per soddisfare all’eterna di Lui giustizia; amore di noi per salvarci. Vedete quindi come un affetto specialissimo meriti da noi oggi Gesù: sia un affetto di fervido amore e di sincera riconoscenza.

5° Un pensiero ancora all’offerta di Gesù la quale viene fatta per mano di Maria. Gloria incomparabile per Maria, e fondamento certo della nostra fiducia nella mediazione di Lei. Riflettete: Nell’Incarnazione il Figliuolo di Dio, mercé la cooperazione e la sostanza di Lei ha avuto un corpo come il nostro. Nella redenzione sarà immolato in unione a Maria che starà presso la croce. Nella presentazione vuole essere portato da Lei al Tempio, e da Lei medesima offerto. Le braccia ed il cuore di Maria sono come l’altare del sacrificio; Maria il Sacerdote; Gesù il Sacerdote e la vittima. « In quest’attitudine sublime le braccia della Madre di Dio offrivano; il suo cuore ardeva, e Gesù era nelle sue braccia e in mezzo al suo fuoco: non è questo l’altare del sacrificio? Come l’altare è inseparabile dalla vittima, la porta, la sostiene e sembra dirle: Sono una cosa sola con te, così la carità di Maria era pronta ad accompagnare ovunque la carità del Figliuolo di Dio pel mondo » (LÉMANN, op. cit.). Quanto ci si rivela grande la cooperazione di Maria alla nostra redenzione, e come basterebbe questo fatto a meritarle il titolo di corredentrice. – « Così questo mistero ci unisce alla santa Vergine in modo particolare. Essa vi rappresenta la Chiesa, offrendo Gesù Cristo a Dio in nome di tutta la società cristiana; ma tutta la società cristiana deve altresì congiungersi a Lei ed unirsi al suo sacrificio, come a quello del principale dei suoi membri operante in nome di tutto il corpo, e ciascuno deve procurare di entrare nelle sue disposizioni e pregarla di ottenerne qualche partecipazione » ( NICOLE, Saggi di morale, tomo XIII, pag. 318).

III. — Il terzo fatto dell’odierno mistero è costituito dalla parte che vi prende il vecchio Simeone.

1° Il Vangelo ci dice che questo vecchio era giusto e timorato di Dio e aspettava la consolazione d’Israele. Era giusto: la quale parola non esprime solo una virtù; ma le virtù nel loro complesso. Era timorato di Dio, di quel santo e figliale timore che è il principio dell’amore. Era giusto e timorato ed aspettava la consolazione d’Israele. Certamente non era solo ad aspettare; tutta la nazione, anzi tutto il mondo aspettava il Salvatore. I patriarchi, i profeti, i giusti l’avevano aspettato. L’avevano aspettato la terra, il cielo, il limbo. Di questa universale aspettazione il vecchio Simeone era come la personificazione veneranda; lo spirito dei giusti dell’antica legge era passato nel santo vecchio. Da questo giudicate le elette disposizioni dell’anima di lui. E ne riceve il premio: lo Spirito Santo dimorava in lui con singolare compiacenza, e gli aveva apertamente rivelato « che non vedrebbe la morte prima di vedere il Cristo del Signore ».

2° Il santo vecchio vive in quest’ansiosa aspettazione. Un giorno, mosso da presentimento divino, si reca al tempio quando appunto vi entrava la Sacra famiglia. Riconosce nel fanciullo il Salvatore del mondo, lo riconosce a nome di Gerusalemme che, atterrita da Erode non aveva ardito aggiungere alcun rappresentante al corteo dei Magi, lo riconosce, e con un movimento ardente e rapido come l’amore lo prende tra le sue braccia e stringendolo al cuore, erompe nel cantico: Adesso, o Signore, rimanda in pace il tuo servo… che gli occhi miei hanno visto la tua salute. E allora una chiara visione dell’avvenire si manifesta a Simeone: l’universalità del regno di quel bambino: Al cospetto di tutti i popoli, porterà la luce della fede non ai soli Giudei, ma altresì alle nazioni pagane: Luce e rivelazione per le nazioni; ma questa luce viene dal popolo d’Israele eletto, come a prepararla, e perciò il bambino è gloria d’Israele.

3° Questa profetica manifestazione della grandezza di Gesù ci rivela la costante economia di Dio a riguardo di Gesù e di Maria, la quale usa pure riguardo a tutti i Cristiani. Maria e Gesù nel mistero della Purificazione e della Presentazione cercano l’oscurità e l’umiliazione, e trovano lo splendore e la gloria. Come Vergine, Maria sacrifica la sua riputazione di verginità; come Madre, sacrifica il suo Figliuolo. E tosto per disposizione provvidenziale questo figlio, raccolto nelle braccia del vecchio Simeone, è proclamato Salvatore del mondo e Maria ristabilita nella gloria della sua maternità divina che aveva voluto nascondere sotto il velo della più umiliante condizione. – Ammiriamo le vie della Provvidenza; affidiamoci ad essa, sicuri che le vie da Essa disposte a nostro riguardo saranno le più salutari per noi.

IV. — Riserbandoci di considerar altra volta il seguito della profezia di Simeone raccogliamo il frutto dell’odierna considerazione, e raccogliamolo in una ferma risoluzione di praticar con singolare predilezione l’umiltà, col sacrificio volenteroso del nostro amor proprio. Se vi ha virtù di cui nel mondo si parla con disprezzo, perché ignorata, è appunto la umiltà! Oh, che non si dice contro tale virtù? Comprendete bene, o devoti Cristiani, che la vera umiltà è fondata sulla verità. Per l’umiltà dobbiamo sottometterci a Dio riconoscendo il suo pieno e perfetto dominio su noi. Non siamo nostri, siamo di Dio, a Dio apparteniamo noi e le cose nostre. Per l’umiltà dobbiamo riconoscere che se abbiamo qualche cosa di bene, essa non è nostra, ma di Dio da cui l’abbiamo avuta. Tutto quello che’ abbiamo, l’abbiamo avuto da Dio, e perciò dobbiamo usarne secondo la volontà di Dio, ricordando che perciò appunto a Dio un giorno dovremo renderne rigorosissimo conto. Per l’umiltà dobbiamo riconoscere il bisogno costante che abbiamo della divina grazia, perché se per un istante solo ci abbandona, che sarà di noi? Questo il pensiero che ci obbliga a non anteporci ad alcuno, neppure al più grande peccatore, perché tra breve possono essere cambiate completamente le cose: noi possiamo cadere e pervertirci, mentre il peccatore può rialzarsi e convertirsi. Per l’umiltà dobbiamo seriamente riflettere: Se Iddio avesse ad altri concesse le grazie che accordò a noi, qual maggior frutto avrebbero saputo ritrarne! E poi: quanti si trovano all’inferno, ed hanno peccato meno di noi! E perciò se avviene che il prossimo ci manchi di riguardo o di attenzione, se anche ci avviene di essere offesi, ricordiamo che innanzi a Dio abbiamo meritato ben peggio. Sappiamo elevarci a Dio, e rimirare in quello che quaggiù avviene, una permissione di Dio: e nelle persone, lo strumento di cui Iddio si serve. – Cerchiamo pertanto di conoscere seriamente il nostro nulla, la debolezza che portiamo con noi onde diffidare di noi e delle nostre forze. Imitiamo Maria: cerchiamo di essere buoni, virtuosi, pii innanzi a Dio, e non curiamoci del giudizio del mondo, non cerchiamone la stima, od il plauso. Nascondiamo volentieri agli occhi del mondo quel poco di bene, che con la grazia di Dio abbiamo potuto fare; da Dio solo attendiamone la ricompensa e sia nostra regola la sentenza di Gesù che vedemmo avverata nell’odierno mistero: Chi si innalza, sarà umiliato ; e chi si umilia, sarà esaltato (S. Luca, XIV, 11). Evitiamo ogni innalzamento di superbia per non essere eternamente umiliati; umiliamoci quaggiù per essere eternamente esaltati nella gloria del cielo.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XLIV:3.

Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum, et in sǽculum sǽculi.

[La grazia è diffusa sulle tue labbra: perciò Iddio ti benedisse in eterno e nei secoli dei secoli]

Secreta

Exáudi, Dómine, preces nostras: et, ut digna sint múnera, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, subsídium nobis tuæ pietátis impénde.

[Esaudisci, o Signore, le nostre preghiere: e, affinché siano degni i doni che offriamo alla tua maestà, accordaci l’aiuto della tua misericordia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Luc II:26.

Respónsum accépit Símeon a Spíritu Sancto, non visúrum se mortem, nisi vidéret Christum Dómini.

[Lo Spirito Santo aveva rivelato a Simone che non sarebbe morto prima di vedere l’Unto del Signore]

Postcommunio

Orémus.

Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti, intercedénte beáta María semper Vírgine, et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum.

[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché questi sacrosanti misteri, che ci procurasti a presidio della nostra redenzione, intercedente la beata sempre Vergine Maria, ci siano rimedio per la vita presente e futura].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

2 FEBBRAIO – FESTA DELLA PURIFICAZIONE DELLA VERGINE

FESTA DELLA PURIFICAZIONE DELLA VERGINE

(B. Bossuet: LA MADONNA DISCORSI – V. Gatti ed. , Brescia, 1934

N. H: P. Guerrini cens. Eccl. Brescia 19 Maggio 1934

Imprimatur Brixiæ, die 19 Marialis 1934

ÆM. Bongiorni, Vic. Gen.)

Postquam impleti sunt dies purgationis eius secundum legem Moysi, tulerunt illum in Jerusalem ut sisterent eum Domino: sicut scriptum est in lege Domini.

(Luca, II, 22-23).

Teodosio imperatore diceva, che nulla vi è di più maestosamente regale di un principe che si riconosce obbligato alla legge. Il genere umano non potrà mai ammirare spettacolo più grande di quanto contempla la giustizia in trono: né potrà immaginare nulla di più maestoso ed augusto che l’accordo tra potenza e ragione, che felicemente fa concorrere all’osservanza della legge, il comando e l’esempio. Spettacolo meraviglioso un principe ossequiente alla legge come fosse l’ultimo dei sudditi: ma certo più ammirabile il contemplare un Dio sottomettersi alle leggi ch’Egli stesso dettò alle sue creature! Ci sarebbe possibile comprendere di più l’obbligo che ci lega alla legge, che considerando il mistero d’oggi, in cui un Dio si sottomette alla legge per dare all’umanità un luminoso esempio di obbedienza? Oh Dio quanto sei ammirabile nei tuoi disegni! Cristo Gesù viene a perfezionare la legge mosaica, che sostituirà con una economia di perfezione divina, ma fino a che la legislazione ebraica rimarrà in vigore Egli rispetterà il nome e la persona rivestita dell’autorità legale: la osserverà Egli stesso la legge e vorrà la osservi fedele la sua Madre divina. Ed allora, ditemi, non dovremo noi osservare, con religiosa esattezza, i precetti che il Cristo, apportatore di lieta novella, scrisse più col Sangue suo che colla parola e l’insegnamento? – Nella festa d’oggi non saprei quale omaggio migliore possa render un sacerdote alla sua missione, che mostrare a tutto il suo popolo come tutti ed ognuno abbiamo dovere di dipendenza da Dio e dalla sua legge universale e suprema! Sento di doverlo fare e certo riuscirò a rendervene convinti se la Vergine che oggi a noi mostrasi esempio di obbedienza alle prescrizioni legali, mi verrà in aiuto: invochiamola insieme con una Ave Maria! – Fra le diverse leggi che governano la natura, se vogliamo porre un rapporto troviamo subito che vi è una legge che guida ed una che costringe: una che ci tenta e seduce. Nelle Sacre Scritture, nei comandi del Signore, si vede la legge di giustizia che ci dirige: negli affari che ci premono, nelle vicende che attraversiamo necessariamente ogni giorno, nelle tristi condizioni della nostra povera umanità quotidianamente esperimentiamo la cruda necessità di una legge, vorrei dire fatale, che ci violenta. Anzi in noi stessi, nelle nostre membra e nel nostro spirito, è un imperioso allettamento che ci seduce, più ancora ci trascina o spinge al male: la confessava l’Apostolo questa legge, che egli chiama legge del peccato, che è continua tentazione alla nostra fragile natura d’uomini. Leggi diverse che ci impongono tre diversi modi d’azione: se vogliamo corrispondere fedelmente alla grazia della vocazione alla fede del Cristo, dobbiamo lasciarci guidare docili dai precetti che ci guidano, elevarci al di sopra delle tristi necessità che ci premono, resistere fortemente agli assalti del senso che ci inganna. – Gesù, la Vergine santa, il vecchio Simeone, Anna la profetessa vedova, ci insegnano tutto ciò nella festa di questo giorno: il vangelo della Messa ci riporta le loro parole ed i loro atti per inspirare il nostro modo d’agire verso le leggi che abbiamo constatate. Il Verbo incarnato e la sua santa Madre si sottomettono ai precetti che Dio aveva dato al suo popolo. Simeone, vecchio d’animo forte, che ormai nulla più tien legato alla vita, accettando tranquillo la legge della morte, si strappa alle necessità della vita, imparandoci a considerarle come legge inevitabile a cui dobbiamo adattarci con coraggio. Ed Anna, penitente e mortificata, ci mostra nei suoi sensi domati la vittoria sulla legge del peccato. Esempi memorabili d’una potente efficacia, che mi offrono l’occasione di mostrarvi oggi come dobbiamo noi tutti sottometterci alla legge della verità che ci guida: come dobbiamo sfruttare la legge della necessità che ci incatena, resistere infine alla voce del male che ci tenta ed alla legge del peccato che ci tiranneggia.

1° punto.

La libertà è nome caro, dolce ma insieme nome il più lusinghiero ed ingannatore tra tutti quelli che si usano tra gli uomini. Le rivolte, i tumulti, le sedizioni, il disprezzo e la violazione delle leggi nacquero sempre e crebbero nel nome dell’amore o del diritto alla libertà. Hanno gran quantità di beni gli uomini.. ma di nessuno abusano tanto quanto di questo gran dono: la libertà: e proprio tra tutte le cose che conoscono, la libertà è quella che conoscono meno e svisano di più. Vi faccio subito vedere un’aberrazione, che pare un paradosso: noi non perdiamo mai tanto la nostra libertà, come quando la vogliamo esageratamente estendere: e noi non sappiamo meglio conservarla che imponendole termini fissi entro cui si agiti: come conseguenza vi dirò che la vera libertà sta nella sottomissione alle leggi giuste. Se parlo del dono, e lo dico grande, della libertà, voi capite subito, o Cristiani, che accanto alla vera libertà, ve n’è una falsa: lo possiamo ben capire dalle stesse parole del Salvatore che ci avvisa: « si vos Filius liberaverit, tunc vere liberi eritis ». Sarete veramente liberi se avrete la libertà data dal Figliol dell’Uomo. (Giov., VIII). Nel dire: veramente liberi, parla di vera libertà; dice quindi, che ve n’è una falsa… una maschera di libertà! Egli vuole pertanto che le nostre aspirazioni non siano volte ad ogni forma di emancipazione ed indipendenza, ma alla vera libertà: libertà degna di questo nome sacro: quella cioè che a noi fu data dalla sua grazia e dalla sua dottrina: « tunc vere liberi eritis ». Non ci inganni dunque né il nome né l’aspetto della libertà: bisogna imparar subito a sceverare il vero dal falso. Perché lo possiamo nettamente, o Cristiani, vi descrivo tre sorta di libertà, che possiamo ben trovare nelle creature: la prima è la libertà degli animali; la seconda quella dei ribelli; la terza è la libertà dei sudditi e dei figlioli. – Sembra che gli animali siano completamente liberi perché nessuno detta loro alcuna legge: i ribelli credono di esserlo perché scuotono ogni giogo: i figlioli ed i sottomessi, i figli di Dio sono i veramente liberi, perché umilmente si sottomettono all’autorità della sua legge. Questa è la vera e la sola libertà: non ci sarà difficile il provarlo, quando proveremo che le altre due non sono affatto libertà.

La libertà dei bruti — veramente, fratelli, io mi sento arrossire in viso, chiamandola così — sento che avvilisco questo nome sacro! È vero: gli animali non hanno legge alcuna che reprima e limiti i loro appetiti, o li diriga: ma il perché è questo: Essi essendo privi di intelligenza non sono nemmeno capaci della direzione della legge. Sono guidati da un istinto cieco, e vanno dove questo li spinge, senza direzione né  criterio… Vorreste voi dirlo libertà un istinto cieco e brutalmente irruente che non è neppur suscettibile di norma e di guida, di freno? Oh figli d’Adamo che un Dio fece a sua immagine e somiglianza… non permetta questo Dio, che vi attragga questa libertà e vi adattiate ad amarla una libertà così vergognosa ed umiliante! Eppure… cosa sentiamo noi ogni giorno dalla bocca della gente del mondo? non sono quelli che trovano inutili le leggi, che tutte le vorrebbero abolite, tranne quelle dettate dal loro io a se stessi e dai loro desideri senza freno? Sarebbe molto piccolo il passaggio per costoro ad invidiare la libertà del bruto e dell’animale selvaggio, ormai essi non accettano altra legge che quella dei loro desideri!… Oh povera natura umana quanto vieni prostituita! Sentiamo però, o Cristiani, la parola del dotto Tertulliano: egli: che ben aveva compresa la dignità umana, scriveva nel secondo libro contro Marcione, un vero capolavoro di dottrina e di alto parlare, questa sentenza : « Era necessario che Dio desse all’uomo delle leggi, non per togliergli la libertà data, ma per dargli prova di stima. « Legem… bonitas erogavit, quo Deo adhæreret, ne non tam liber quam abiectus viveretur ». Davvero sarebbe stata atroce offesa alla nostra natura la libertà di vivere senza legge: Dio avrebbe mostrato tutto il suo disprezzo per l’uomo se non si fosse degnato di regolarlo dettandogli norme di vivere. L’avrebbe posto al livello dei bruti, ai quali non dà leggi e li lascia vivere senza freni, non per altro che per il disprezzo che ne ha, dice lo stesso Tertulliano. Ed allora quando gli uomini si lamentan della legge loro data, e braman una vita senza freno né guida, spinta solo dai loro ciechi desideri, bisogna proprio dire col Salmista che hanno perduto l’idea ed il concetto d’onore e della dignità della natura umana, se bramano essere uguagliati ai bruti! « Homo curri in honore esset, non intellexit, comparatus est jumentis insipientibus et similis factus est illis » (Ps., XLVIII).Cieca insipienza, descritta da un amico del pazienteGiobbe : — Vir vanus in superbiam erigitur, et tamquam pullum onagri se liberum putat natum.— L’umano sciocco è irragionevole, portatoda stolta superbia, crede, come il puledro dell’asinoselvatico, d’esser nato in libertà!Osserviamo, fratelli, i sentimenti dei peccatori, (furono tante volte anche i nostri), quando ciechisi tengono a guida il loro capriccio, la loro passione, la collera, il piacere, la sbrigliata fantasia: emordono il freno e ricalcitrano contro ogni leggee non vogliono sopportar dettami che li guidinoo regolino! Si stimano d’esser nati in piena libertà,non come gli uomini però, ma come gli animali…i più indomiti… i figli dell’asino selvatico, chenon vogliono né redini né sella né una mano cheli guidi!Oh uomini, no, no, non dobbiamo considerarcicosi vergognosamente bassi!È vero: siamo nati liberi: ma la libertà nondeve essere abbandonata a se stessa, sotto pena divederla degenerare nel libertinaggio che è il carneficedella vera libertà.Abbiamo bisogno di legge, perché noi abbiamola ragione e siamo suscettibili di indirizzo, diguida di norme che ci regolino: ed il Salmista Iodomanda al Signore quando prega per il popoloeletto: « Manda, o Signore, un legislatore al tuopopolo, perché le genti conoscan ch’essi sono uomini» (Ps., XX) …date loro prima Mosè che guideràla loro fanciullezza…; darete poi il santo Legislatore, Gesù Cristo che, fatto adulto il popolo, lo ammaestrerà nella vostra legge, lo condurrà per la via della perfezione!… Mostrerete così che voi sapete che il vostro popolo è fatto d’uomini… creature vostre da Voi fatte a vostra immagine e somiglianza e le cui opere e costumi volete modellati su di una legge che è vostra parola, eterna verità. Ma se è necessario assolutamente che Dio, Creatore dell’uomo, gli dia una legge, è necessario insieme però che la volontà umana vi si sottometta pienamente.Ecco allora la Vergine che nel mistero di questo giorno ci dà luminoso esempio di obbedienza perfetta. Pura come il raggio del sole, Ella si sottomette umile alla legge della purificazione. Anzi Ella porta al tempio lo stesso Salvatore, perché la legge lo comanda, ed Egli non disdegna, Egli autoredella legge, innocente sottoporsi alle prescrizioni dettate per i sudditi nati nella colpa. Ci insegnino questi esempi che la dobbiamo veramente amare la nostra libertà… ma amarla sottomettendola a Dio, persuasi che le sue leggi non la inceppano ma la fanno più perfetta, più sicura. Quando da l’una e dall’altra parte d’un fiume si costruiscono gli argini né si vuol fermare il fiume, né ostacolarlo nel suo corso, anzi, impedendogli di spargersi nelle campagne e sparire, lo si fa scorrere nel suo letto e correre tranquillo al mare!Alla stessa guisa quando le leggi a destra ed a sinistra stringono la nostra libertà, non la distruggono ma la incanalano, e mentre le impediscono di deragliare, le fanno seguir la via giusta che deve battere per riuscire dono benefico alla nostra natura: non la si fa schiava, la si guida…: non la sicostringe, la si dirige.La distruggono coloro soltanto che stornandola dal suo corso naturale, il fine cioè per cui Dio ce la donò, l’allontanano dal bene sommo a cui tende.Ecco allora, o fratelli, che la vera libertà ci viene data e conservata da Dio e dalla nostra dipendenza da Lui. Il rifiutare obbedienza, o miei cari, alla legge ed autorità di Dio, non è libertà ma ribellione, non è emancipazione ma insolenza! Apriamo gli occhi, apriamoli con coraggio, o fratelli, e vediamo quale sia la vera libertà nostra: siamo fatti liberi non per scuotere il giogo, ma per portarlo con onore, portandolo volontariamente. Abbiamo la libertà ma essa non deve essere la licenza di fare il male, ma di fare il bene pur potendo abusarne e fare il male, perché facendo noi liberamente il bene, questo ridondi a nostro onore e gloria: liberi non per rifiutare a Dio il nostro servizio, ma per servirlo volontariamente e farcelo, per così esprimerci, riconoscente, debitore come il padrone verso il servo fedele! Senza confronto noi siamo più sottoposti a Dio di quanto un fanciullo può essere sottoposto all’autorità di suo padre. Che se, osserva Tertulliano, Dio donandoci la libertà in un certo modo ci emancipò, non volle certo renderci indipendenti: lo fece perché, volontaria la nostra dipendenza, per libera nostra elezione gli rendessimo quanto per dovere gli dobbiamo e così i nostri servigi fossero meritevoli di ricompensa. Ecco perché siamo liberi, o fratelli. Ma, oh Dio. quale abuso tra gli uomini di questo dono del cielo! Come ha ragione il grande Papa Innocenzo IV, quando lamenta « che l’uomo è stranamente ingannato dalla sua stessa libertà — sua in æternum libertate deceptus! » Altro non vuol dire il Santo Pontefice che l’uomo non volle, non seppe distinguere tra libertà ed indipendenza, e non ricordò che esser libero non voleva dire essere senza padrone: mentre l’uomo è libero come il suddito sotto il legittimo principe, il figlio sotto l’autorità paterna.Egli invece volle esser libero fino a disconoscere la sua condizione e perdere completamente il rispetto: la sua fu la libertà del ribelle mentre doveva essere quella d’un buon figliolo e d’un suddito fedele.

La potenza di Colui contro del quale si alza sfacciato non permette che il ribelle gusti a lungo la sua licenza… È S. Agostino che parla. Sentite:« Altre volte, io volli essere libero a questo modo…e accontenta i i miei desideri, seguii le mie folli passioni! Ma ahi triste libertà… facendo quello che volevo ruinavo là dove non avrei voluto » (Conf.,VIII, V).Eccovi fedelmente ritratto il domani di tutti ipeccatori! Consideriamo questo uomo troppo libero, di cuivi ho parlato fino ad ora, che nulla mai nega né al capriccio né alla passione: sprezza e spezza ogni vincolo di legge: ama ed odia, si vendica a seconda che ve lo spinge il suo umore tetro o lieto lasciando correre il suo cuore dove il piacere l’attira: credere spirare un’aria di piena libertà perché correa destra ed a sinistra coi suoi desideri incerti e vaghi… e chiama libertà quello che è traviamento, proprio come i fanciulli che fuggiti da casa credono esser liberi e non sanno dove fuggano e vadano. Si stima libero il peccatore, stima questo far quel che vuole, libertà; ma quanto lo tradisce questa maschera di libertà: nel fare a suo modo, fatto cieco, precipita là dove non avrebbe voluto scendere affatto. Perché, o signori miei, in un governo perfetto la legge non può essere senza la forza della sanzione: le sue leggi sono forze armate, e chi le disprezza ne prova subito i colpi. Il folle che contro Dio, nel disprezzo della sua legge, vuole usare la sua libertà, per fare quel che gli garba, s’accumula sul capo le condanne che più dovrebbe temere: la terribile e giusta vendetta dell’Onnipotente disprezzato…la morte eterna. Basta… cessa o temerario ribelle dalla tua insolente libertà che non può salvarti dall’ira del sovrano che offendi, comprendi che con questa libertà tu fai a te stesso pesanti catene, e poni sul tuo collo un giogo di ferro che non potrai più scuotere: ti condannerai tu stesso ad una umiliante schiavitù mentre credi estender folle la tua indipendenza fino fuori del diritto di Dio.Che ci resta a fare allora, o fratelli? se non vivere sempre ed ogni giorno nella dipendenza del nostro Dio, certi che disprezzando i suoi comandamenti non potremmo mai sfuggire ai suoi castighi? L’Apostolo ci avverte di temere il Principe, perché non per nulla porta la spada: dovremo più ancora temere Iddio che non per nulla è giusto e onnipotente ed inutilmente non fa risuonare le sue minacce. Sto parlando, ed è onore, davanti a Sovrani: impariamo come render il nostro omaggio a Dio, da quanto facciamo verso l’autorità terrena che nell’immagine. Non fa ognuno di noi, nella obbedienza alla legge, sua la volontà del Principe? Non è vero che ci teniamo onorati di potergli prestare i nostri servigi e vorremmo quasi prevenirne i desideri? Più ancora, il suddito fedele non ritiene onore grandissimo dar la sua vita per il suo re? Stimiamo bella ogni occasione per dimostrare questa nostra disposizione d’animo: e questi sentimenti sono giusti e legittimi. Al di sopra del Re, non c’è che Dio; dopo di Dio il principe è la suprema autorità nella società civile, e tiene nelle sue mani la forza per l’esercizio della sua autorità. Non viene da tutto questo, come legittima conseguenza, che sarebbe assurdo vergognoso il ritener il Principe di più di Dio, e si negasse a Dio l’onore e l’obbedienza data al Principe? Il rappresentante sarebbe più onorato del Sovrano assoluto. Impunemente non si offende il principe, poiché tiene la spada in mano e si fa temere… e non gli si resiste. Parlando del Re, Salomone dice che egli scopre ogni segreto complotto… « gli uccelli del cielo tutto gli riferiscono » tanto che si vorrebbe quasi dire che prevede e preannuncia fatti e cose, le indovina, tanto difficilmente gli si può nascondere qualcosa: « Divinatio in labiis regis ». Allunga ed allarga le sue braccia, continua Salomone, e va a scovare i suoi nemici nelle profonde caverne in cui avevan pensato sfuggire alla sua potenza: la sua apparizione li mette in scompiglio e la sua autorità li schiaccia. (Eccles. Prov.). E se tanta forza ammiriamo nella debolezza della persona umana, quanto non dovremo tremare davanti alla Maestà suprema di un Dio vivente ed eterno! La più grande potenza del mondo non può andar più in là, in fin dei conti, di togliere la vita al suddito… Non occorre poi un grande sforzo per far morire un uomo mortale… togliere qualche momento ad una vita che li ha contati, e da sé corre verso l’ultimo suo istante. Che se temiamo tanto chi può toglierci la vita del corpo, e tolta questa non può più nuocerci, quanto più, insiste il Salvatore, quanto più dovrete temere Colui che può, anima e corpo, precipitarvi nella geenna eterna!…Osservate però, fratelli… quale cecità impressionante!… non solo vogliamo resistere a Dio, maci troviamo gusto a resistere ed opporci alla sua volontà! Aberrazione e rivolta più laida contro Dio non la si può pensare: la legge ch’Egli pose perché fosse argine e ritegno ai nostri pazzi desideri, li stuzzica e li provoca li fa più forti. Più una cosa è vietata e più ci sentiamo tirati a farla: mentre il dovere, ci si presenta come una tortura: ciò che la ragione dice buono, non ci piace quasi mai, e par quasi che quello che facciamo contro la legge sia più saporito e divertente: i cibi proibiti nel giorno dell’astinenza ci appaiono più appetitosi e saporiti « è il peccato che, ingannandoci con una falsa dolcezza, ci fa riuscire tanto più gradita una cosa quanto più ci è proibita ». Pare quasi che il nostro io, si stizzisca contro la legge perché è contraria ai nostri desideri, e ci troviamo un certo gusto a vendicarci facendole dispetti, anzi il tentare di imporci un freno od un argine, è proprio un provocarci a romperlo con più audacia ed astio! Era questo strano contrasto della nostra anima che faceva dire all’Apostolo che il peccato si serviva proprio della proibizione per sedurlo: « Peccatimi, occasione accepta per mandatimi, seduxit me » (Romani, VIII).Quanto siamo mai ciechi, o Signore, e quanto si sta lontana dalle tue leggi sapienti, l’arroganza umana… se lo stesso tuo comandarci ci stimola a disobbedirti!Oh venite Voi, o Maria Vergine cara, venite col vostro Gesù, Gesù e Maria venite e col vostro esempio piegate gli indocili nostri cuori! Chi vorrà pensarsi dispensato dall’obbedienza quando un Dio si fa obbediente alla legge? Quale pretesto cercheremo per sottrarci alla legge, davanti alla Vergine che si presenta per essere purificata, e che sapendo si pura d’una purezza angelica non si crede dispensata da una legge che per lei era proprio inutile? Se la legge dettata da Mosè, ch’era servo come noi, esige obbedienza così esatta ed universale,quale obbedienza piena e perfetta non dovremo noi alla legge dettata e comandata dallo stesso Figlio di Dio?Davanti a queste riflessioni ed a questi esempi, l’infingardaggine nostra non può più aver né scuse né pretesti… giù la testa! Anzi non contenti di fare quanto Dio comanda, mostriamogli la disposizione della nostra volontà in far quanto è suo piacere, sempre. Ciò vi propongo nell’altra parte del mio discorso, in cui per non essere lungo, unirò il secondo ed il terzo punto della mia divisione adducendo per essi lo stesso ragionamento e le medesime prove.

II° e III°  punto.

Fratelli, tra le cose che Dio esige da noi, osserviamo questa differenza: alcune che dobbiamo fare dipendono dalla nostra scelta: altre invece non hanno nessun rapporto colla nostra volontà, è Dio che arbitrariamente agisce per la sua potenza assoluta. Spieghiamoci: Dio vuole, ad es. che noi siamo giusti, retti, moderati nei nostri desideri, sinceri nel nostro parlare, costanti nelle azioni nostre; ci vuole pronti a perdonare le offese e non vuole assolutamente ne facciamo agli altri. In queste ed altre simili cose che vuole da noi, e che non sono che la pratica della sua legge e dei suoi precetti, la nostra volontà è per nulla affatto forzata. Se disobbediamo, Egli ci punisce, è vero, e non possiamo sfuggire al castigo, ma però possiamo disobbedire: ci pone davanti la vita e la morte lasciandoci liberissimi nella scelta. – In questo modo domanda l’obbedienza dell’uomo ai suoi comandamenti; come se essa fosse effetto della sua scelta e della sua propria determinazione. -Vi sono invece, altri eventi, che decidono della nostra fortuna e della nostra vita, e che sono disposti e guidati dalla mano segreta della sua provvidenza. Essi sono fuori dell’ambito del nostro potere e spesso perfino della nostra previsione, cosicché nessuna mano, per quanto potente, può arrestarne o mutarne il corso, secondo la frase di Isaia (LV): « I miei non sono i vostri pensieri: come è distaccato il cielo dalla terra, tanto e di più sono lontani i miei pensieri dai vostri » ed altrove: « Sarà fatto ogni mio volere e raggiungerà il suo sviluppo ogni mio discorso ». « Consìlium meum stahìt et omnis voluntas mea fiet ». Davanti alla causa di questa differenza, io sento che non sarebbe giusto die Dio lasciasse tutto alla mercé della nostra volontà, lasciandoci arbitri di noi e di quanto ci riguarda; mentre è giustissimo che l’uomo senta che vi è una forza superiore alla quale deve sottostare e cedere. È questo il perché di un duplice ordine di cose: quelle che vuole che facciamo noi, scegliendocele; altre che facciamo accettandole dalla necessità che ce le impone. È così che sono disposte le vicende umane: nessuna di esse però, per quanto ben preparata da prudenza, protetta da forza, sarà così sicura da non poter essere turbata da accidenti imprevisti che ne interrompono o deviano l’andamento. La Suprema Potenza dell’universo non vuol permettere vi sia un uomo, per quanto grande e potente, che possa disporre a suo piacimento della sua sorte e delle sue fortune, molto meno della sua salute e della sua vita. Piacque al Signore disporre tutto così, perché  l’uomo esperimenti quotidianamente questa forza superiore di cui vi parlo: forza divina ed inevitabile che talvolta, non lo nascondo, si rallenta e quasi si adatta alla volontà nostra, ma sa anche, quando lo voglia, opporre tale resistenza che contro di essa tutto s’infrange, e, nostro malgrado, ci fa servire ai piani della divina Provvidenza, in ogni pensiero e atto nostro. Arbitro Supremo, Iddio ha diviso le cose nostre così che alcune restano in nostro potere ed altre in cui, senza punto guardare a noi, solo consulta il suo piacere: perché se da un lato possiamo usare della nostra libertà, sentiamo dall’altro che abbiamo un forte dovere di dipendenza. Non ci vuole padroni assoluti: anzi vuole sentiamo che la sua padronanza c’è e s’esercita, tanto e quanto e dove Egli vuole perché ci guardiamo bene dall’abusare di questo dono della libertà. Se dolcemente ci invita, comprendiamolo bene, non è che ove voglia non sappia e non possa costringerci colla forza, no, ma vuole che temiamo sempre questa sua forza anche quando ci fa provare la sua dolcezza. È Lui, proprio Lui, che semina la nostra vita di avvenimenti ed eventi che ci infastidiscono, che contrariano la nostra volontà, che troppo attaccata a se stessa giunge alla licenza. E lo fa, perché  completamente domati, docili, sottomessi a Lui, ci possa innalzare alla vera sapienza. Non v’è prova più evidente di una ragione esercitata e sicura che il saper resistere alle proprie brame. Vedete: l’età in cui meno si ragiona si è anche meno capaci di moderar le proprie brame di vincerci… è l’età del capriccio. Se nei fanciulli la volontà fosse così fissa e costante quanto è ardente non potremmo più arrestarli né calmarli nelle loro voglie. Vogliono quel che vogliono: non stanno a veder se sarà utile o di danno, basta che piaccia ai loro occhi! se siano essi od altri i padroni, non importa nulla, basta che piaccia a loro che lo desiderano, lo vogliono: essi si credono padroni di tutto. Provate ad opporvi… il loro viso si accende ed infiamma, un tremito convulso li agita, pestano i piedi, piangono, anzi non è neppure pianto il loro, è un gemito, un riso, è un grido in cui c’è preghiera stizza, brama e dispetto: esponenti di un ardore di desiderio frutto della loro debolezza ed incapacità di ragionare. Fanno così i fanciulli!… ma se ci guardiamo intorno, dovremo confessare: quanti fanciulli nel mondo… fanciulli bianchi per antico pelo, fanciulli di cent’anni!… sono uomini in cui è violenza nel desiderio debolezza nel ragionare. Perché l’avaro vuole quanto brama senz’altro diritto che il suo interesse? L’adultero, che Dio tante volte maledice, che diritto ha alla moglie del prossimo se non la sua concupiscenza che è cieca? Non sono fanciulli che credono che per avere basti la loro voglia e il loro capriccio? Ma c’è una differenza tra il fanciullo e questi fanciulli: in quello là, natura, lasciando rallentate le redini alla violenta inclinazione, pone un altro freno: essi sono deboli ed incapaci di ottenere quel che vogliono: in questi altri — vecchi fanciulli — i desideri impetuosi non ostacolati dalla debolezza, divampano terribili se la ragione non li imbriglia e guida. – Conchiudiamo, fratelli, che vera scienza e vera sapienza è il saper moderarsi: man mano che si sa domare la violenza del proprio desiderio, si dà prova che si allontana dalla puerizia e fanciullezza e si diventa ragionevoli. « Diremo uomo maturo, vero saggio quello che, dice il dotto Sinasio, non si tiene in dovere di accontentare ogni brama od ogni desiderio… ma tutti guida e domina i suoi desideri secondo i suoi doveri ed i suoi obblighi, e ben conoscendo la fecondità della natura nelle voglie cattive, taglia e di qua e di là, come buon giardiniere, quanto trova, non solo guasto o secco, ma quanto vede superfluo, non lasciando crescere rigoglioso che quanto può dare frutti di vera sapienza ». Dite bene, vorreste oppormi che gli alberi non si lagnano né soffrono di questi tagli dei loro rami inutili o superflui, mentre la nostra volontà strilla e reclama quando si rintuzzano i suoi desideri: quindi, è difficile trovar il coraggio di tagliar sul proprio io. È vero: non tutti hanno il coraggio del Santo Vecchio, o della vedova Anna, di cui ci parla il Vangelo d’oggi, che agivan contro se stessi nella mortificazione e lottavan contro la legge di peccato che è nei nostri sensi: ecco però che il Signore viene in nostro aiuto. Sorgente prima ed universale del disordine in noi è l’attaccamento nostro alla nostra volontà: non possiamo contraddirci, anzi troviamo più facile opporci a Dio che al nostro io. Bisogna allora togliere questa radice guasta, sradicarla questa pianta infetta che dà frutti guasti, e con uno sforzo violento: pensiamo che essa è la causa della nostra sventura ed è tutta colpa nostra… Va bene! ma ed il coraggio? dove andremo a prenderlo questo coraggio di applicare ferro e fuoco ad una parte così delicata e sensibile del nostro cuore? Il malato vede che il suo braccio incancrenito lo porta alla morte, vede che bisogna tagliarlo ma da solo non lo sa fare: alla sua incapacità viene in aiuto il chirurgo, che fa un triste servizio ma pur necessario e salutare. Anch’io vedo che l’attacco al mio volere mi porta a dannarmi, perché fa vivere tutti i miei desideri malvagi: lo so, lo confesso. Ma confesso anche che non ho né coraggio né forza di armar la mia mano del coltello e tagliare… Ecco il Signore: viene e fa Egli il chirurgo che taglia e salva: viene accanto a noi in certi incontri ed avvenimenti dolorosi, inattesi ed inopportuni eventi, contrarietà insopportabili ed ingiuste, diciamo noi… sono i ferri chirurgici disposti dalla sua Provvidenza, e con essi attacca, abbatte e doma la nostra volontà che dalla libertà va alla licenza, risparmiandoci così di esser noi violenti contro noi stessi. Quasi la immobilizza la nostra volontà perché non sfugga al colpo doloroso ma salutare… e taglia, e profondamente penetra dentro alle nostre carni vive finché noi, costretti dalla sua mano, dalle disposizioni della sua volontà, ci stacchiamo dal nostro io… ed allora siamo guariti… dalla morte torniamo alla vita. – Se noi comprendessimo come siamo composti, e quanto ci lasciamo trascinare dai tristi nostri umori, comprenderemmo bene quanto ci è necessaria questa mano chirurgica. Voglio descrivervi con poche parole lo stato deplorevole della natura nostra. V’è una duplice sorta di mali… alcuni ci affliggono, altri, pare impossibile, ci piacciono: è strana ma purtroppo vera, reale distinzione. Dice S. Agostino che alcuni mali li sopportiamo con la nostra pazienza… e sono quelli che ci affliggono: altri invece li frena e domina la nostra temperanza: questi, continua lo stesso Santo, sono mali che ci piacciono: « Alia quæ per patientiam ferimus, alia quæ per temperantiam refrenamus ». A quanti mah sei esposta, sventurata umanità! Siamo preda a mille infermità: ogni nonnulla basta a darci noia, a farci ammalare… un nonnulla basta a farci morire! Diremmo quasi che una potenza avversa sia schierata contro la povera natura nostra, tanto pare ci trovi gusto a martoriare ogni nostra parte! eppure non è questo il nostro male maggiore: l’avarizia nostra, la nostra ambizione le altre passioni cieche insaziate ed insaziabili sono mali e quanto terribili! sono mali che ci seducono ed attraggono. Ma dove ci avete posto, o Dio? che vita è mai la nostra se ci perseguitano e i mali che ci fan soffrire e i mali che ci allettano e ci piacciono!? Ah me infelice chi mai mi strapperà a questo corpo di morte?… Chi? Ascoltami povero mortale… v’è chi ti libererà: sarà la grazia di Dio, per Cristo Gesù nostro Signore: ce lo dice il suo grande Apostolo, che scrutò le profonde ricchezze dell’amore di Dio. È vero: due sorta di mali ti travagliano; ma ecco che nella sua provvidenza Dio dispone che gli uni siano rimedio agli altri: cioè quelli che ci addolorano servano a moderare quelli che ci piacciono. Quelli a cui siamo costretti per frenare quelli in cui siamo troppo liberi: ogni male che ci viene di fuori, viene per abbattere un male che dentro di noi si solleva contro di noi… i cocenti dolori correggono gli eccessi a cui trasporta la passione sbrigliata… le disillusioni, le pene della vita ci fan sentir nausea dei falsi piaceri e attutiscono il senso troppo vivo del piacere. Non lo nego: la nostra natura, trattata così rudemente, soffre e noi ce ne lamentiamo… ma questa stessa pena nostra è medicina e rimedio, la rigidezza, in cui ci si tiene, diventa un regime curativo benefico. – Abbiamo bisogno, noi figli di Dio, che ci si tratti così fino a che non siam giunti a guarigione perfetta, cioè sia completamente abolita la legge del peccato che regna nelle membra nostre. Dobbiamo sopportare tutti questi mali fino a che non ne siamo corretti… ci occorrono questi mali per tener ritto il nostro giudizio fino a che viviamo in mezzo a tanti beni falsi dei quali, troppo facilmente, siamo portati a godere. Ogni contrarietà è un argine provvidenziale alla nostra libertà che disalvea… un freno alle passioni che tentano sopraffarci. Dio, che conosce quel che davvero ci fa bene, viene e contraria i nostri desideri: così dispose, la natura ed il mondo, e che da essi, proprio da essi, nascano ostacoli insuperabili che s’oppongono ai nostri progetti e sogni. nostra natura: di tutte le spine dei nostri affari: delle ingiustizie di tanti uomini, delle ineguaglianze importune, degli imbrogli del mondo e della vanità dei suoi favori. Per questo sono amati i suoi rifiuti e le sue lusinghe più dolci sono stimate pesanti catene di schiavi! Contraddetti a destra ed a sinistra la nostra volontà, sempre troppo libera, deve finalmente imparare a regolarsi: e l’uomo oppresso e travagliato da ogni parte, finalmente si sente spinto a volgersi al Signore, gridandogli sincero dal profondo del cuore: veramente tu sei, o Dio, il mio Signore: è giusto che la tua creatura serva a Te e ti obbedisca! Sottomettendoci invece alla volontà santa del Signore, una grande pace scende nell’anima nostra… accada che vuole nulla può smuoverci né commuoverci. Ecco: Simeone predice a Maria, appena madre, oscuri mali, immensi dolori; « l’anima tua sarà trafitta da acuta spada, e questo tuo Figliolo, ora tuo gaudio tuo amore, sarà bersaglio di contraddizione ». Cioè il Mondo e l’Inferno, raccolte tutte le loro tristi potenze si scaglieranno contro la sua persona e la sua opera, tentandone la rovina!… Predizione crudele, e tanto più crudele perché vaga… Simeone non predice alcun male in particolare, li lascia pensare e pesare tutti sul cuore. Per me non saprei trovare nulla di più angosciosamente crudo che lo stato di un cuore che si sta sotto l’incubo di una minaccia di mali, e non sa quale… impotente quindi a tentar una fuga un rimedio una difesa… quale?… dove?… – Atterrita, inebetita, quest’anima scruta e cerca e teme tutti ed ogni male: li va quasi scovando fino al fondo… il suo pensiero diventa il suo carnefice… poiché terribilmente atterrita non mette limiti né all’intensità né al numero degli strazi che le si minacciano. – S. Agostino dice che sotto la minaccia del male è già grande conforto il poter sapere da quale male saremo colpiti: saper perfino di qual morte moriamo è meno crudo che agonizzare temendole tutte: « Satius est unam perpeti morìendo, quam omnes timere vivendo ». Eppure Maria ascolta tacendo le terribili predizioni… non una parola di lamento, non una domanda al Vegliardo, che le lacera l’anima con le sue profezie, perché le dica quando, quanto, fino a quando questa spada le trafiggerà l’anima: Ella sa che tutto è disposto e guidato dalla mano di Dio… questo le basta e la sua volontà è subito sottomessa: per ciò non la turba il presente non la atterrisce il futuro. Oh se ancor noi sapessimo abbandonare noi e le cose nostre nelle braccia di quella Sapienza eterna che tutto regge e governa, quale costante tranquillità inonderebbe il nostro spirito: nessuna incalzante necessità, nessuna contraddizione lo saprebbe smuovere e turbare. Se fossimo anche noi come il vecchio Simeone, staccati da noi non avrebbe attrattive la vita, né spauracchi la morte, pur tanto odiosa!… viaggiatori, attenderemmo tranquillamente che lo Spirito del Signore ci inviti a fermarci dal nostro viaggio nel tempo, per entrare alla eternità. Fatto ogni giorno della vita il nostro dovere, come Simeone potremmo dire al Signore ad ogni istante: «Lascia, o Dio, che il tuo servo se ne vada ora in pace ». – Non fermiamoci qui però, o fratelli, nell’imitare il vecchio Simeone: non dobbiamo andarcene da questo mondo prima di aver visto, di esserci incontrati con Gesù: bisogna che possiamo aggiungere a quelle parole le altre: « perché i miei occhi contemplarono il Salvatore, che tu preparasti al mondo prima che fosse alcun popolo ». Il Salvatore promesso, atteso per tanti secoli venne finalmente: brillò la sua luce, ne furono illuminate e genti e nazioni: caddero gli idoli, furon liberati gli schiavi, i figli disobbedienti furono riconciliati col padre, i popoli si convertirono al loro Dio. Non basta fratelli! È venuto per noi questo Salvatore? È il nostro capitano, la nostra guida, la luce che illumina ognuno di noi?… no forse… perché noi non camminiamo per la via segnata dalla sua parola nei suoi precetti… non li osserviamo noi i suoi comandamenti. L’apostolo S. Giovanni potrebbe ancora dire davanti a tanti la parola severa del suo Vangelo (V, 37-38): « Neque vocem eius unquam audistis, neque speciem eius vidistis, et verbum eius non habetis in vobis manens » perché, continua: chi dice di conoscerlo e non ne osserva i comandamenti, è bugiardo « mendax est » ed in lui non è la verità « veritas in eo non est » (II, 4). Chi, tra noi, può dire, con verità, io lo conosco il Cristo, il Maestro? Quale contributo di vita abbiamo dato al suo vangelo? quali sono i vizi corretti, le passioni domate in noi? come usammo fino ad oggi dei beni e dei mali della vita?… quando la mano di Dio diminuiva le nostre ricchezze, abbiamo saputo anche noi diminuire le nostre spese, il nostro lusso?… ingannati dalla fortuna incostante, seppimo con coraggio staccar il cuore da’ suoi beni per attaccarlo a quelli che non sono né in sua mano né in suo potere? Ma ahi, che anche di noi si poté scrivere: « dissipati sunt, non compuncti… — fummo addolorati ma non mutati a bene! » Servi ostinati e caparbi, sotto la stessa sferza che ci voleva correggere e far camminare diritto, noi ci siamo impuntati… ci siamo ammutinati… rimproverati, non ci siamo corretti; abbattuti, non fummo umiliati; castigati, non convertiti! E davanti a questo nostro ritratto, diciamo ancora, se ne abbiamo il coraggio, di aver visto il Salvatore promesso, di aver conosciuto Gesù Cristo… lo Spirito Santo, colla mano di Giovanni, ci chiuderà la bocca: « in te non è la verità, tu sei bugiardo ». Temiamo, o Cristiani, temiamo e tremiamo di morire… poiché non abbiamo ancor visto Gesù, ed ancor non abbiamo tenuto sulle nostre braccia il Salvatore… cioè non ne abbiamo abbracciata la parola, la sua verità i suoi comandi! Infelici coloro che muoiono prima di averlo visto il Cristo Salvatore… quanto spaventosa la loro morte… come terribile il suo avvicinarsi… orribili le conseguenze del suo passaggio e del suo trionfo! In quell’ora svanirà la gloria, ruineranno i sogni ed i progetti… « in illa die peribunt omnes cogitationes eorum » mentre comincerà il loro supplizio…un fuoco eterno s’accenderà per essi: il furore e la disperazione più cruda ne lacereranno l’anima… il verme roditore, che non muore, affonderà più vorace il suo dente velenoso e non si staccherà più!Su fratelli, accorriamo al tempio con Simeone, ci porti lo Spirito del Signore, prendiamoci tra le braccia Gesù… baciamolo con amore… stringiamocelo al cuore perché sia tutto suo questo nostro misero. cuore. L’uomo dabbene non tremerà al venire della morte, poiché l’anima ormai più non appartiene aquesto corpo mortale: ne è già staccata: poiché. egli dominò le passioni, soggiogò i sensi e la carne.La penitenza e la mortificazione gli diedero questo dominio, l’emanciparono e dal corpo e dai suoi sensi… libero tenderà le braccia alla morte che viene quasi le additerà dove gli debba menare l’ultimo colpo!Alle minacce egli risponderà: Morte tu non mi spaventi… per me non sei né crudele, né inesorabile…tu non mi puoi spogliare dei beni che io amo… tu solo mi strapperai questo corpo… questo che è corpo di morte… me ne libererai finalmente, coronando gli sforzi costanti della mia vita con cui mirai giorno per giorno a strapparmi alla sua tirannia!… Nunc dimittis… lascia, o morte, che libero me ne vada al mio Signore!Qual cosa ci sembrerà impossibile, fratelli, per aver una simile morte… gioiosa come un trionfo?Potessimo morire della morte del giusto per aver eterno riposo, il vero riposo che non ci seppero né ci potevano dare i beni della vita… suchiudiamo l’occhio nostro ed il cuore nostro ad ogni bene che ci invita e fugge, per aprirlo solo e sempre nella vita a quei beni che durano e saranno nostri eternamente in seno al Padre, al Figlio e dallo Spirito Santo. Amen.

FESTA DELLA CANDELORA (2020)

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (1)

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (1)

2. Edizione

EDITRICE A. V. E. ROMA

Nulla osta alla stampa

Genova 31 dicembre 1943

N. H. Sac. F . COSTA, revisore delegato

Imprimatur

Genaæ. 4 Ianuarii 1944

F. CANESSA, Vic. Gen.

Società Ligure « IMPRESE TIPOGRAFICHE » – Costigliole d’Asti

Alla grande e santa memoria del Card. Carlo Dalmazio Minorelli

Arcivescovo di Genova

INTRODUZIONE

Il Messaggio natalizio 1942 di Pio XII ha il suo posto in uno sviluppo logico che parte dagli analoghi Messaggi e dall’Enciclica “Summi Pontificatus”. A sua volta ha il suo vero complemento nell’Enciclica ” Corporis Christi Mystici” del 29 giugno 1943. Questa può considerarsi come il grande suggerimento costruttivo opposto alla inanità di sforzi umani. – Alle vicende di questo mondo — questioni, tentativi, soluzioni, mete — manca un anima. E l’anima si trova sempre andando in alto. La soluzione ultima sta nella pienezza di Cristo, anche per le cose terrene; questo è il significato dell’ Enciclica ” Corporis Christi Mystici “, che pertanto non può venir dimenticata in uno studio coscienzioso del Messaggio. Alcuni hanno voluto dare al discorso papale del Natale 1942 un significato polemico; l’intenzione prima e movente sarebbe stata: colpire qualcuno. Ciò è falso. Anzitutto perché il messaggio si svolge in una pacata precisa e concreta enunciazione di principi che valgono per tutti i tempi. Naturalmente affermare un principio è emettere in modo implicito una condanna su chi lo lede, ciò però accade per la forza stessa della verità, che dispiegandosi stabilisce un confronto incisivo e severo. E ciò basta a togliere il carattere polemico. Neppur si può negare che circostanze presenti abbiano spinto il Papa ad annunciare proprio ora quegli immutabili principi; ma è proprio l’esser rimasto in quella serena eppur concreta altezza, che l’ha tolto ai riferìmenti, ai ripicchi, alla terminologia di cui si sostanzia la polemica. Il tono del messaggio suggerisce come costruire, come sanare, come riformare e come possibilmente convertire. – Queste considerazioni fanno intendere che, se risponde ad esigenze contingenti, il messaggio non ha un valore contingente. Cioè del massimo rilievo, poiché anche le mutazioni indotte nella situazione italiana ed europea non ne sminuiscono la tempestività. I princìpi affermati, per la forza del contrasto, mettono a nudo errori e colpe; non si creda che questi errori e queste colpe scompaiano con l’ecclissarsi di uomini o col cadere di certe impalcature esterne di regime, essi costituiscono il « male del nostro tempo », essi hanno troppo profondamente inciso il modo di pensare ed il costume pubblico, perché quasi nella subcoscienza non se ne abbia a risentire il dettame, la suggestione, il fascino. L’oblio del diritto di natura, dello spirito, dei valori giuridici che gli sono legati, l’esaltazione materialistica, il predominio della forza e della boria sono — ognuno lo vede — un “male del tempo “, il quale tenterà ogni via per sorgere sotto mentite spoglie. Non ci si illuda: si può far relativamente presto a sanare il mondo da uomini e istituzioni superate, ma non altrettanto si fa presto a sanarlo dalle idee. L’intontimento per cui certi effati sono divenuti parte dell’abito mentale attraverso una metodica insufflazione lascia tracce durature. Ciò che vedremo meglio in seguito.

I. – I PRINCIPI GENERALI DEL MESSAGGIO PAPALE

La ricchezza della parola del Papa non la si cava solo da una minuta esegesi del messaggio che lo divida, anzi lo frantumi. Certe affermazioni emergono da tutto lo stile, dal tono, dalla forza di ritorni su alcuni punti, dalle sfumature, dal loro obbedire ad una architettura sovrastante la parola stessa, dall’imponderabile che si intuisce accostando i testi e indagandone il pensiero universale profondo. La disposizione stessa, la misura, il volume obbedisce ad una logica, che non sempre è detta, ma che fa ugualmente parte del pensiero contenuto. Se pertanto alle esplicite affermazioni si affianca quello che con tale criterio si rileva si giunge agevolmente a vedere come nel messaggio del Santo Padre dominino alcune idee profonde, cui è in un modo o nell’altro rapportato il resto. È necessario studiarle a parte per non sminuirle nella loro forza di « verità subordinanti tutto il resto e per non privarci di una visione architettonica.

1. – Il supremo principio

« Dalla vita individuale e sociale conviene ascendere a Dio, Prima causa e ultimo fondamento, come Creatore della prima società coniugale, fonte della società famigliare, della società dei popoli e delle nazioni. Rispecchiando pur imperfettamente il suo Esemplare, Dio Uno e Trino, che col mistero della Incarnazione redense ed innalzò la natura umana, la vita consociata, nel suo ideale e nel suo fine, possiede al lume della ragione e della rivelazione, un’autorità morale ed una assolutezza travalicante ogni mutar di tempi…». Dunque: Dio è Prima Causa, fondamento di tutte le istituzioni umane e della società che da Lui mutuano ed in Lui hanno una autorità, una assolutezza, ossia una consistenza reale; sicché senza di Lui rimangono spoglie di valore giuridico, di rapporti subordinanti, di ordine interiore; sicché nessuna questione umana può sciogliersi obbiettivamente prescindendo da Dio.

Dio è il principio

Lo sguardo si raccoglie su Dio, distinto dal mondo, Creatore, ordinatore Sapiente e Provvidente. La forza poi dell’affermazione sta in questo: senza Dio non esiste né logicamente, né ontologicamente, ossia né quanto a ragionevolezza evidente ed intrinseca, né quanto a struttura, un vero ordine umano e sociale. Senza Dio gli elementi ordinatori sono delle chimere o, tutt’al più, degli artifici. Osserviamo come e quanto sia vero tutto questo.

 Solo con Dio è l’ordine

Solo con Dio, trascendente e Creatore esiste la distinzione e la subordinazione tra gli uomini. Infatti poiché tutti creati, tutti sono dipendenti totalmente, e dipendenti nel modo che il Creatore ha concepito in sé ed espresso cogli elementi strutturali della natura. I quali pongono rapporti diversi, uffici diversi, quindi subordinazioni diverse, non solo rispetto a Dio ma rispetto agli uomini tra loro. L’intelletto divino, capace di obbligare, stabilire così connessioni e dipendenze di valore obbiettivo; per esse gli uomini non sono una massa disorganizzata, non un cumulo di pietre, ma un corpo vivente in struttura gerarchica. Sì, gli istinti porterebbero ugualmente ad una compagine organica, ma senza Dio ne mancherebbe il principio logico ed obbligante. Tutti sanno che tra uomini liberi, la cui organizzazione si basa anzitutto su intelletto e volontà, ossia su fattori morali, l’elemento « obbligante » è base assoluta. Dunque è per Dio che esiste la gerarchia e la reale organizzazione tra gli uomini. Solo se esiste Dio Sapiente e Provvidente esiste l’« ordine ». Esso è l’armonica disposizione dei più, pari e dispari. Esso non risulta solo dalla gerarchia sociale tra gli uomini, ma dal rispetto di tutti i rapporti che natura pone tra uomo e uomo, tra uomini e cose, tra individuo e collettività, tra libertà e fissità di leggi. Orbene è ancor ben vero che questi rapporti sono in modo sufficiente rivelati dalla natura istintiva, ma non è meno giusto che essi hanno una logica interna, una verità, un valore, un senso ed una capacità di imporsi moralmente come legge, solo se c’è una Suprema Sapienza ordinatrice. Questo « ordine » crea e definisce la persona, la famiglia, le società e la società, ossia tutto quanto ognuno di tali elementi vale, esige, impone, trae dall’« ordine » e per esso da Dio.

Solo con Dio è l’obbligazione morale

Solo con Dio « Signore » si ha l’obbligazione morale di coscienza: quella per cui gli uomini debbono agire rettamente anche senza il controllo e la sanzione umana. Tale obbligazione è senz’altro l’anima dell’ordine umano. Poiché tra gli uomini liberi e capaci di sottrarre il più di se stessi ad ogni effettivo controllo dei propri simili, l’armonia è affidata in ultima analisi alla buona volontà, questa alla persuasione e questa, a sua volta, ad un principio intimo che è l’obbligazione di coscienza. Essa, come meglio vedremo in seguito, o è posta e valorizzata da Dio, o è una suggestione della quale gli uomini dovrebbero liberarsi, quanto tentato immunizzarsi dalle malattie.

Solo con Dio è la perfezione dell’ordine

Solo con Dio Creatore, Legislatore e fine ultimo, esiste la sanzione, la piena e perfetta retribuzione tanto al bene che al male. L’ufficio della sanzione è insostituibile: per essa solo si raggiunge il pareggio e la giustizia obbiettiva. A qualcuno potrebbe venire in mente che la sanzione non è poi necessaria. S’inganna, poiché se nulla rimane spareggiato nell’ordine materiale (ad azione corrisponde sempre reazione uguale e contraria), non così accade nell’ordine morale, ove gioca intelletto e volontà libera. Qui, proprio in ragione della libertà, molto rimane privo dell’immediato saldo. Verso il quale tende la coscienza, la ragione e l’istinto, ossia tutta la psicologia umana al punto di crearsi l’anarchia tra gli uomini là ove difetta la sanzione. – Ora tutti sanno che la sola sanzione veramente efficace è quella completa: come questa poi non stia negli uomini e solo, a complemento dell’ordine, possa ammettersi se c’è Dio, tutti facilmente vedono. Solo con Dio si ha un fondamento assoluto Solo nell’idea di Dio immutabile si ha un punto di riferimento assoluto e irremovibile. Ciò significa che i valori fondamentali, le obbligazioni-base, le leggi morali allora non cambiano. Chi potrebbe pensare ad una stabilità sociale senza fissità delle leggi e dei valori? Come sussisterebbe un ordine sociale Se oggi potesse venir giudicato bene quello che ieri era male? Tutto si ritroverebbe sconnesso. Un tale relativismo fa paura. Da quasi mezzo secolo l’istinto fu spesso elevato a regola suprema dell’arte, oggi è, nei più dei nostri simili, criterio ultimo dell’ordinamento sociale e della politica, la quale vi si contamina di amoralità, impulsività, sentimentalismo e pazzia. Ma il male di questo relativismo in cui ogni cosa oscilla, in cui tutto è come piace e come comoda, in cui le affermazioni possono valere le negazioni, non lo si cura che con Dio.

Con Dio è la vera realtà umana

Con Dio solo resiste lo spirituale. Ogni realtà umana, appunto perché tale, ha caratteristiche inconfondibili dall’elemento spirituale. Ogni atto dell’uomo, ogni sua tendenza, ogni sua esigenza ha il più della propria fisionomia dallo spirito. Per quanto le attività psichiche possano essere intessute di fatti istintivi, di pesantezze materiali, di vibrazioni della fantasia e del sentimento, il tono è sempre dato dall’anima. Analizziamo pure l’uomo quando ama e quando odia, quando è puro e quando è animale, quando gusta il suo cibo e quando contempla, quando fa l’affarista e quando l’amico, noi non sfuggiremo a tale ferrea conclusione. Allora dimenticare il fattore spirituale e, peggio, agire come se non esistesse è travisare tutta la realtà, compresa quella sociale, è contaminare, sfasare, adulterare, nonché isterilirsi in impossibili mete, soggette alle indeclinabili nemesi della natura. Ma quando si tiene il broncio a Dio è necessario odiare il mondo dello spirito.

Con Dio il monito

Dio è l’Esemplare. In Lui solo sta l’autorevole modello della Provvidenza e del governo. Paternità, sollecitudine e dono sono caratteristiche di quella Provvidenza che regge. E in Lui il reggere è attuazione dell’ordine, è criterio pratico con cui tutte le cose vengono ordinate e proporzionate al proprio fine sapientemente e puntualmente. Il governo in Dio ha volto benefico. Perché al mondo ci si stia bene occorrono governanti che si ispirino all’altissimo esemplare divino. Ne risulta il governo più buono, ma anche il più furbo.

Con Dio il limite all’arbitrio

Con Dio solo s’erge una maestà eterna, dinanzi alla quale è facile e dolce ritrovare il senso dei propri limiti, la umiltà per comandare e obbedire, la docilità per assecondare e durare, la coscienza per resistere e iniziare, il cuore per servire e beneficare. Che di tutte queste cose si fa lo spirito e il senso sociale al quale sono tenuti governanti e sudditi, anzi più i governanti che i sudditi. Ecco allineati gli elementi su cui poggia l’ordine sociale. Al di là si trovano le istituzioni contingenti, che tanto valgono quanto fedelmente ed opportunamente traducono quei princìpi; al di là stanno gli accorgimenti tecnici del diritto, dell’economia. Da soli non hanno un’anima; è inutile illudersi. Il nerbo della società è legato a Dio: gerarchia, ordine, legame di coscienza, sanzione, stabilità delle leggi, ecco il nerbo. – La coscienza dell’ordine nel popolo la si corrobora mediante l’insegnamento e la convinzione di queste verità. Qui convinzione è possibile, perché è evidente la struttura logica, fermamente conclusiva. Non dimentichiamo che nella libertà si tengono a posto solo i popoli convinti; quando una convinzione manca è giocoforza cambiare il mondo in una caserma se non lo si vuol lasciar precipitare nell’anarchia. C’è un dilemma terribile. I sobillatori occulti dei nostri giorni, se hanno ancora un po’ di coscienza, dovrebbero tenerlo presente. E il popolo avido di libertà, facile credulone, dovrebbe meditare che il pericolo di quando abbonisce, gli è assai più vicino di quanto non creda.

2. – Il senso del concreto

Si tratta di un particolar modo di considerare le questioni e i loro oggetti. A questo proposito il Messaggio non formula una teoria, ma piuttosto, coi richiami fatti, colle precisazioni, colle conclusioni, colla preoccupazione di certi dettagli, svolge in pratica uno stile, è materiato da una abitudine mentale che diviene insieme monito, esempio, condanna. Infatti.

Il richiamo del Papa al « concreto »

Leggendo ci si accorge che mentre passano i diversi argomenti (rapporti internazionali, ordine interno, convivenza, collaborazione: persona, ordine giuridico, lavoro, Stato) il Papa riconduce il pensiero e la preoccupazione costruttiva ad elementi precisi, definitivi, palpabili, che è quanto dire concreti. Il confine tra il concreto e l’astratto è visibile e sta tutto qui; sfumare o non sfumare particolari reali, averli presenti tutti o sospingerne qualcuno nell’ombra, veder le cose in funzione di un’idea, ossia sotto un aspetto ed una finalità o piuttosto considerarle individue tali e quali sono, sentire una nota sola e semplificare uccidendo qualcosa, oppure cogliere la sinfonia e salvare tutto. Scendiamo dalla teoria al linguaggio più accessibile. – Il Papa parla di collaborazione, ma questo non è una cosa aerea e neppure una giustapposizione di uomini per parate; è far confluire tutte le positive doti della persona (mente, cuore, cultura, ecc.) all’ordinato benesseresociale. Egli ci riconduce alla « persona » che non è una goccia perduta nel gran mare, un numero buono solo a formare la « massa »; è bensì l’uomo con diritti e doveri col bisogno di mangiare, vincolato, se operaio, al suo salario, con esigenze al rispetto su tutti i piani, intellettuale, morale, religioso, economico, culturale e sociale. Per il Papa l’ordine sociale non è una rigidità chimerica, è fatto invece di armonica distribuzione delle parti, di rispetto dei reciproci diritti. Si passa dall’espressione idealizzata a quella reale. La legge, l’ordine giuridico non è l’espressione di chi sa quale astruseria, senza basi logiche umane e convincenti; è invece una norma concreta obbligante tutti, sia pure in modo diverso, con costanza e senza arbitrio. Il consorzio civile organizzato ha linee fisionomiche che non si perdono nell’aereo tutto panteistico senza volto, senza responsabilità, senza coscienza e senza legge; sono invece definite dalla sua finalità, dai suoi doveri, dalla sua funzione di completamento benefico rispetto agli individui ed alle istituzioni minori.

Che è il « concreto »

Se io tratto gli uomini in astratto, mi dimentico che hanno fame, che sono una collezione di dolori e di tentativi, che sono la loro famiglia, le loro umili ma inseparabili preoccupazioni, che sono il loro giorno lavorativo e il loro giorno di festa, che sono le piccole e quasi puerili varietà della loro esperienza. Se li guardo in astratto, io, di un plotone che va all’assalto non vedo se non la carne da cannone, ma se li guardo in concreto io sento la loro vita, il loro valore, le loro famiglie, la loro fecondità, il loro diritto a vivere. – Il « concreto » indica la realtà come è in sé e per sé fuori di quelle riduzioni, semplificazioni, aggiustature e gonfiature che ne può fare la mente. Le cose in esso non sono l’oggetto d’una tesi, d’un interesse o d’un particolare punto di vista. Esso non ama le nubi e le idee vaghe, inafferrabili, oscure, simili alle nubi; ama la terra solida senza forme evanescenti e cangianti. L’uomo in concreto è di carne e d’ossa. L’economia in concreto è quale la determinano la natura dell’uomo sociale, gli elementi, la capacità e la fungibilità della ricchezza, l’equilibrio tra gli uomini e i reciproci rapporti, nonché dati costanti della psicologia e della tradizione storica. Le teorie astratte potranno disputare sul modo col quale convengono fra loro e si addomesticano questi elementi, ma non ne possono prescindere, né li possono sostituire. Il « concreto » sono le linee fisse della natura materiale e delle sue leggi; sono gli orientamenti di fatto dello spirito, il quale, pur essendo perfettamente libero, rimane spesso docile ad un suo istinto interiore, sì da ricalcare in alcuni suoi moti grandi e inderogabili leggi morali della storia. – Tutto ciò può sembrare spoetizzante, può essere accolto come molesto stroncatore d’un estro poetico. Non credo. Il « Concreto » ha il suo volto che piace all’uomo forte onesto e veritiero. – Il gesto del Papa che àncora le questioni al « concreto » è ispirato da una necessità assoluta ed è il contravveleno ad una malattia profonda, forse la più profonda del mondo moderno che pensa e costruisce. Vediamolo. Ecco la necessità assoluta. Il corso delle cose, lo sviluppo dell’economia e degli avvenimenti, segue impassibile il « concreto »; questo decide della vita e della morte delle iniziative. Se vi aderisco, vivo; se me ne distacco per inforcare il cavallo di Astolfo, finisco nelle nubi. Il povero uomo della strada chiama il « concreto » con nomi che gli sono ora cari ora fastidiosi, ne ragiona con aforismi apposti dal buon senso e vagliati da un’esperienza di amore e di pena; quando non si gonfia di ignoranza e di pretese ne ha l’intuito preciso e potente. Questo intuito, se il viver fosse genuino, dovrebbe costituire il fondo più solido e sicuro della cosiddetta « opinione pubblica ». – L’importanza del metodo cui il Papa riconduce col suo esempio non è valutabile se non ci si rende conto della dilagante malattia contraria: l’astrattismo.

Gli astrattismi

In antagonismo al « concreto » si leva l’« astratto ». Il messaggio pontificio è un grave monito contro le seduzioni dell’« astratto ». Esso consiste nel considerare qualcosa separatamente dal quadro obbiettivo in cui di fatto si trova, oppure nel rappresentare una realtà secondo una forma soggettiva della mente. Nella prima maniera l’« astratto » vien bene al procedimento d’indagine scientifica, in quanto « dividendo » facilita il graduale possesso della materia. Ma quando s’esce di lì c’è il pericolo formidabile dell’unilateralità. Guai a vedere p. es. il mondo sotto il puro aspetto matematico! Nella seconda forma l’astrazione vien bene all’arte. Organizzare il mondo non è pura indagine scientifica e non è pura opera d’arte. L’arte ha altre mansioni. L’astrazione nell’ordinamento degli uomini taglia, deforma, sostituisce e, soprattutto, lascia da parte proprio quello che vuole ordinare; finisce col farsi un mondo che non esiste, parla una lingua che gli uomini non intendono. Le cose intanto proseguono la loro via. Trovar che una caserma, un collegio sono esemplari d’ordine e pensare di ridurre il mondo ad un collegio, ove tutto sia allineato, manovrato, automatico e simmetrico è cadere in una astrazione, poiché gli uomini sono irrimediabilmente diversi dal come li postulerebbe un simile specioso ideale: hanno libertà e non solo ordinabilità, di quella libertà vogliono assolutamente usare, subiscono per lo più il collegio quando sono fanciulli e lo odiano quando sono adulti. Non c’è rimedio. Come non c’è rimedio che certe forme magari seducenti, finiscano col far del mondo, colla scusa di accentrare o di livellare, un abominevole collegio, anzi una laida caserma. Esse sono tutte astrazioni dalla realtà degli uomini. –

Le origini dell’ « astrattismo » moderno

Il mondo moderno ha ereditato dai suoi immediati predecessori il brutto vezzo di far delle astrazioni, ossia di considerar le cose per l’aria. È umiliante, ma è così. Vediamo anzitutto la genesi di una simile brutta abitudine mentale, che ammazza il buon senso. I filosofi non parlano invano, anche quando non meriterebbero d’esser presi in alcuna considerazione. I loro elucubrati finiscono col filtrare anche senza esser capiti e diventano a poco a poco angolo di visuale, modo di pensare congenito della cultura. Tre correnti portano la colpa dell’astrattismo moderno: il naturalismo, il soggettivismo, l’evoluzionismo.

… Il naturalismo

Il naturalismo si fece valido dalla rinascenza in poi. Prima, cristianamente, si guardava come a fonte della verità e del benessere alla natura e al soprannaturale insieme. La reazione paganeggiante cercò di dimenticare prima e poi osteggiò il secondo elemento: disse a se stesso: la natura mi dà tutto. La natura ci guadagnò un prestigio esagerato che le miserie umane potevano facilmente dimostrare falso. Il prestigio crebbe, i confini si dilatarono, tanto da non vedersi più; coi confini sparvero i lineamenti e la natura cominciò ad esser scritta con la N maiuscola, diventò una cosa senza linee precise, enorme, solenne come un incubo, impersonale, anonima — qualcuno dice — panteistica. Telesio, Campanella, Giordano Bruno ne sanno qualcosa. Sicché la natura non fu più propriamente la terra, gli alberi, i fiori e gli uomini in carne ed ossa tra essi. La fecero anche dio, viceversa era solo una astrazione ed educò alle astrazioni, cioè a considerar le cose diverse dalla realtà, per l’aria. A quel modo dopo la natura si videro così, per l’abitudine, molte altre cose: il proletariato, il popolo, le masse… Il risultato? Il risultato fu, anzi è questo, tutti lo possono vedere. Il proletariato non combaciò più con quelle membra vive, forse doloranti, talvolta martoriate, poveri individui dell’oggi, simbolo d’un chimerico e mai afferrato domani. Fu una cosa astrusa, indigesta; fu una etichetta di appetiti, voglie e pretese; fu una espressione numerica di forza per attuare sogni misticoidi; fu in tutti i casi ben distinto dagli uomini detti proletari. Infatti — prova della astrazione — il proletariato diventò sovrano e i proletari si ridussero ad essere dei pezzi di macchina, senza respiro, senza anima e senza avvenire. – Il popolo non fu più una somma di uomini di cui bisognava curare gli interessi comuni e particolari, amministrare il patrimonio pubblico, regolando nell’insieme quanto occorreva perché i singoli stessero bene; di esso fu visto un aspetto solo: la massa di manovra, il campo sperimentale di personalissime idee, l’elemento da parata e da clamori, lo sgabello delle ascese, l’ispiratore di una gran retorica magniloquente, buona ad intontirlo. Per gli intellettualoidi il popolo fu una base di statistiche e di ricerche inerenti a quelle, al fine di cavar con dei soli numeri conclusioni congelate al par dei numeri. Astrazioni! – La « massa » fu una espressione industriale o militare, la cui definizione degna di riguardo fu nella voce « profitti » dei bilanci segreti, oppure nel computo matematico di piani strategici. Ancora: astrazioni. La patria stessa, mirabil cosa, il cui volto dolcissimo si compone col volto dei genitori, degli amici, degli altri che parlano la stessa lingua e vivono la stessa comunità civile sullo sfondo di una terra amata e di ricordi storici inobliabili, non fu per molti che un nome pauroso senza volto, un moloch terribile capace solo di chiedere si tacesse, ci si inabissasse, si sparisse, si sopportasse, ci si uccidesse. Un’astrazione colpevole di spingere ad odiare anche quanto era sacrosanto. – L a vacillante teoria continua: scuola, gioventù, diritto… tutto universalizzato, ridotto ad una teoria, ad una formula, ad una aridità facilona di cui si parla e che si tratta come sotto non vi si nascondesse una umanità ben definita, ben concreta, dalle inderogabili leggi, dagli inevitabili dolori, dalle improrogabili necessità. Le cose ridotte tanto facili, formule e nomi, sono gioco della lingua senza bisogno c’entri la testa e il cuore: sono il campo dell’insipienza bovina, dell’improvvisazione ignorante, dell’arrivismo criminale, degli esperimenti pazzoidi. A tutto questo con usurpazione indegna fu dato il nome di mistica. Ma era astrattismo, tara della nostra età. Nient’altro.

… Il soggettivismo

Il soggettivismo educò all’astrazione in modo diverso, ma con ugual risultato di filtrare e corrompere tutta la mentalità moderna. Non vale che taluno discorrendone prenda l’atteggiamento serio. Esso è una cosa buffa. Qui si dovrebbe chiamare in causa Hegel coi suoi precursori e coi suoi epigoni. Il soggettivismo idealistico consiste nel far il mondo con l’idea, ossia — per parlare comprensibilmente — nella moda di dire esser vero quello che piace, e di credere sul serio esser reale quello che si pensa, nel modo con cui si pensa. L’idealismo s’accodò al naturalismo, fece con quello alleanze oscure e, dopo aver detto parole difficili e pertanto venerate, finì coll’insegnare agli uomini una cosa molto comica: che cioè essi col pensiero potevano fare e rifare il mondo a piacimento e le cose su misura della propria testa o giù di lì. Veramente noi avevamo imparato che solo Dio crea e che solo Dio ha la prerogativa di far sì che le cose siano tali e quali Egli le pensa, di piegare la realtà all’idea. Da allora il mondo s’è riempito di una cavalcata di astrazioni. La filosofia rimase nelle scuole, il costume morale, suo figlio senza stato civile, gironzolò per le strade, cantò canzoni ermetiche ed abbaiò alla luna. Veramente così. Alcuni vollero fare il mondo rosso, altri verde, altri in camicia e puerilmente credettero e credono che il mondo possa, docile al loro pensiero, assumere un colore diverso da quello che ha dato Dio. Tutto ciò perché hanno in corpo il veleno soggettivista. Sono sempre astrazioni. La differenza tra costoro e Cristo, che pure intende dare un colore al mondo, sta in questo elemento semplice e radicale: quelli sono uomini, non hanno creato e non creeranno mai, saranno buffi a tentarlo. Questi ha creato e può creare ancora perché è Dio! – La politica è rimasta profondamente viziata da questa infamia; invece di pensare ad amministrare ragionevolmente la « polis » come sarebbe stato suo mestiere, s’è cambiata in un torneo permanente di gente che pretende far il mondo sulla propria misura e, talvolta, proprio ci crede; fa programmi su programmi, riforme a getto continuo, bandi e sogni a tutte le stagioni. L’umanità stanca ricorda a tutti questi signori che pei bambini c’è l’asilo materno, pei pazzi il manicomio e pei delinquenti la galera; ma, tant’è essa stessa non riesce a capir bene, perché il male ce l’ha nel sangue.

… L’evoluzionismo

Un terzo incantesimo spinse gli uomini e le questioni più in su sulle nubi: l’evoluzionismo. Del quale mi interessa qui solo questo: l’ingenuità dell’ottimismo esagerato. Vide tutto in cammino verso una ineluttabile perfezione e così creò il « mito del domani », altra astrazione. Il « mito del domani » consiste nel dire ai presenti che la felicità verrà (su questa terra beninteso, che certa gente non prende in alcuna considerazione il Cielo), ma sarà futura. È quanto dire che loro, i presenti, non l’avranno mai. I futuri a lor turno diventeranno presenti e ricomincerà da capo. Si tratta di un inganno crudele che chiede agli “uomini sacrifici supremi per un perpetuo domani, del quale non beneficeranno mai. Così al popolo si dice: domani! Il povero popolo pensa che il domani è un alibi spaventoso per i tentativi pazzi e non sempre in buona fede.

L’estensione del male

Abbiamo dette le cause dell’astrattismo moderno, ma tra le righe il lettore avrà letto chiaro e si sarà dolorosamente accorto fino a che punto la peste sia dilagata, quante cose ne siano tocche, come il più delle concezioni ne siano infette, al punto da doversi augurare un rifacimento ab imis della mentalità moderna. Che tutti vogliano creare, o almeno colorare, anche senza aver studiato e sperimentato, che la verità si plasmi anziché moralmente cercarla, che tutti intendano cambiare, forgiar mondi e ordini nuovi, che la faciloneria imperi e l’improvvisazione pontifichi sono sintomi impressionanti di un male del mondo. Vorrei pregare il lettore — non per malignità — di divertirsi, su quanto è stato detto, a portare dovunque la sua analisi: nelle istituzioni, nelle scuole, sulle cattedre universitarie, nella stampa, nei discorsi che intende al caffè. Avrà di che pensare. E ciò non sarà inutile a lui e agli altri. – A tutto questo occorre pensare per intendere il valore dell’esempio di Pio XII quando col suo modo di presentare le questioni ci obbliga a scender dall’astratto al concreto e dalle nubi alla terra, su cui dolorano uomini in carne ed ossa, in lotta con una questione i cui termini sono: insoddisfazione, fame, dolore, morte.

3. – Dipendenza dell’ordine esterno da quello interno

L’impostazione fondamentale e generale del messaggio 1943 nel quadro dei messaggi precedenti e nella sua finalità è espressa da Pio XII colle seguenti parole: « L’ultimo Nostro messaggio natalizio esponeva i princìpi suggeriti dal pensiero cristiano, per stabilire un ordine di convivenza e collaborazione internazionale, conforme alle norme divine. Oggi vogliamo soffermarci, sicuri del consenso e dell’interessamento di tutti gli onesti, con cura particolare ed uguale imparzialità, sulle norme fondamentali dell’ordine interno degli Stati e dei popoli. Rapporti internazionali e ordine interno sono intimamente connessi, essendo l’equilibrio e l’armonia tra le Nazioni dipendenti dall’interno equilibrio e dalla interna maturità dei singoli Stati, nel campo materiale, sociale ed intellettuale. Ne un solido ed imperturbato fronte di pace verso l’esterno risulta possibile di fatto ad attuarsi senza un fronte di pace nell’interno che ispiri fiducia ».

Ecco l’impostazione generale: l’ordine internazionale dipende dall’ordine interno dei singoli Stati.

Perché?

La connessione affermata dal Papa tra i due piani — internazionale e nazionale — è evidente. Il pensiero con le passioni, gli ideali, i miraggi che convoglia o solletica non è più contenuto da confini politici. La tecnica moderna gli ha donata una dilatabilità immediata ed indefinita con innumeri mezzi di suggestione. Così il male ideologico, le credute chimere di un popolo o di una fazione possono in breve diventare, se non sempre il male, per lo meno il pericolo, la tentazione, l’inquietudine, la febbre d’un altro popolo, di tutto il mondo. La tecnica ha creato un sistema di trasmissioni che centuplica le vibrazioni e le comunica a tutte le zone prima insensibili ed inerti. – Tutti gli elementi dei quali si costituisce la civiltà e che sono il piano in cui si concretano vita, discussioni, tentativi e ideali, tendono a diventare comuni, attraverso la forza di imitazione, l’emulazione, la concorrenza. Essi polarizzano enormi interessi, sulle cui travature corrono molti fatti della storia, ma nascono e prendono fisionomia all’interno dei singoli Stati. Le economie — nessuno ne può dubitare, quando si voglia assicurare agli uomini un genere di vita moderno e non barbarico — sono complementari. Ossia: nessun stato può fare da sé e deve, almeno indirettamente, dipendere; perché, se anche è fornito di tutto (p. es. l’America), se vuol valorizzare i suoi prodotti, li deve portare al mercato: ciò significa che ha bisogno del secondo in causa, l’acquirente. Sicché il disordine o l’anemia delle economie singole diventa fatale all’economia generale. Del resto l’ordine internazionale o è fatto d’un gioco di equilibri, o da un pacifico impero del diritto (il che sarebbe l’ideale), o dal fattore militare, almeno in potenza. Ma l’equilibrio dipende dal dinamismo, dalle maggiori o minori irrequietezze e pretese, dai sogni dei singoli stati; ciò che a più ragione si deve dire d’un auspicato impero del diritto, il quale esiste quanta ne è viva la coscienza nelle diverse pubbliche opinioni. Il fattore militare è legato alla prestanza industriale anzitutto e poi demografica dei singoli. Tutti questi motivi sono acuiti dal fatto che, per ogni singolo stato, tutti gli altri sono, più o meno ed almeno in potenza, dei fornitori, dei clienti, dei concorrenti, dei piloni d’appoggio, delle pedine necessarie nel proprio gioco. Ciò diminuirebbe molto, ma rimarrebbe ancora vero per le immanenti e naturali connessioni tra i membri della comunità umana, anche se i singoli stati diventassero una buona volta onesti, capissero di starsene in casa propria a lavorare per il bene dei propri sudditi nelle vie proporzionate ai mezzi disponibili, senza riguardar chicchessia a questo mondo come sgabello dei propri piedi o strumento del proprio comodo. Il che è evidentemente immorale.

… l’ordine internazionale dipende dall’equilibrio interno

Il Santo Padre ha nettamente indicato i due punti in cui si ha la connessione o la saldatura tra l’ordine internazionale e quello nazionale. Il primo dipende dall’equilibrio e dalla maturità interni; entrambi si attuano nel piano materiale, sociale, intellettuale.» Che è « equilibrio interno »? – L’equilibrio si ha quando tra più elementi, o parti, o aspetti, o individui, vige una proporzione razionale e cioè adeguata alle esigenze della finalità cui cospirano le cose coadunate in equilibrio; il tutto non solo nell’essere, ma nell’agire. La proporzione (appunto poiché è « razionale ») non è livellamento. Le membra del corpo sono in equilibrio non quando sono tutte della stessa grossezza — il che farebbe un mostro — ma quando le singole sono tali quali le postula la finalità, la fisiologia e l’architettura estetica del corpo stesso. – Dunque l’idea d’equilibrio comincia dal tener in conto gli elementi da equilibrare; li tratta alla luce d’una proporzione; razionalizza questa mirando alla obbiettiva finalità della nazione e della società umana. Tanto abbiam detto per la precisione teorica: ora veniamo al concreto.

… equilibrio nel campo materiale

L’equilibrio deve portarsi negli elementi materiali di una nazione. Elementi materiali sono i costitutivi della ricchezza colle loro sorgenti, organi di rotazione e di distribuzione. Sicché in pratica l’equilibrio deve farsi tra il lavoro e il capitale, tra le diverse classi, le quali beneficiano della ricchezza, tra le possibilità e il tenore di vita delle classi più abbienti e meno abbienti. Ma soprattutto — ci fermiamo qui all’aspetto materiale — l’equilibrio deve essere tra le entrate e le uscite, la industrializzazione e l’effettiva possibilità di vendita, tra l’attrezzatura economica e la fisionomia parimenti economica di uno stato. Un governo il quale spende più di quanto non introiti, salvo il caso eccezionale con fondata speranza di risarcimenti futuri, è semplicemente pazzo e condanna il suo povero gregge a scossoni ed emorragie senza fine. Un paese che vuol far l’industria per l’industria e non ha ove esitarla, fa un mestiere che non è il suo. Un paese che ha determinate sorgenti di ricchezza e — per spirito di imitazione — vuol farsi una economia la quale ne suppone altre inesistenti, diviene spostato, è fuori dell’equilibrio. La Spagna deve fare la Spagna e non la Svezia; la Finlandia deve far fa Finlandia e non l’Egitto. Che cosa significhi fare la Spagna, fare la Finlandia, lo indicano le effettive possibilità e il temperamento, le une e l’altro interpretate alla luce sovrana della storia. Col che non si nega dover tutti tendere ad un miglioramento in ogni settore dell’economia.

… equilibrio sul piano sociale

Sul piano sociale l’equilibrio risulta da una giusta, legale ed efficace ripartizione della ricchezza, del benessere, dei diritti, dei doveri e dell’autorità. Ma a tutto questo occorrono delle premesse. Eccole. Necessita un equilibrio, ossia una proporzione tra possibilità ed ideali; è sempre atto sovversivo dell’ordine e insipiente lo sbandierare e l’accreditare ideali smisurati e troppo eccedenti le vere possibilità di una nazione: è spingerla a fare delle pazzie rovinose. Eppure l’insipienza giunge a tal segno: da far credere in buona fede che per essere patrioti occorra cullare proprio simili irraggiungibili ideali. Altra necessaria premessa è l’equilibrio o la proporzione tra i vari settori della vita nazionale: tra il progresso materiale e quello culturale, tra lo sviluppo della tecnica e dell’arte; qui infatti si vien componendo quell’equilibrio spirituale che condiziona il rimanente benessere. L’equilibrio va mantenuto soprattutto, se si vuol lavorare ad un vero assetto sociale, tra l’economia e la politica. Esistono tra esse delle connessioni e delle interdipendenze, ma guai a voler subordinare dispoticamente la prima alla seconda. L’economia ha sue norme ed esigenze fondamentali, che il calcolo politico non può i n alcun modo sopraffare o ciecamente asservire. Ancora: l’equilibrio va mantenuto nella stessa politica. Qui ci si sente impegnati in considerazioni ben gravi. Che è dunque la politica? Essa dovrebbe essere semplicemente il complesso di azioni e provvidenze per amministrare bene il patrimonio comune, ordinare e reggere gli elementi della comunità in modo da procurare a tutti il massimo di benessere terreno. Siccome i patrimoni e le loro esigenze, le leggi fondamentali della psicologia, i bisogni e il benessere dell’uomo non sono opinioni, ma realtà ben individuate dall’immutabile senso comune e non plasmabili da diverse ideologie, la vera politica appare così ancorata ai fatti certi, che non la si può concepire come discussione, lotta e antagonismo. La sana politica è — colle debite proporzioni — fare il buon padre di famiglia. La politica invece è divenuta assalto al potere, gioco per far prevalere persone e loro idee più o meno peregrine nel suo godimento, armeggio, camarille e fazioni per sostenere il tutto slealmente ai danni della comunità. È doveroso confessare che della politica si è perduta anche la definizione. I giovani vi guardano come ad un campo fascinoso di competizione e di affermazione, dimenticando che le gloriose corse dei cavalli non si fanno sulla schiena degli uomini. I partiti hanno un senso quando, accettando il mondo come è e non secondo peregrine concezioni, convenendo sulle fondamentali necessità e norme obbiettive, si differenziano nella scelta dei mezzi e nelle particolarità di amministrazione. In questo ambito possono fare della sana politica, concorrendo colla onesta discussione a individuare il meglio: rimangono in fondo dei partiti amministrativi. Ma quando cominciano a concepire mondo, uomo e domani diverso da quello che realmente sono e vogliono fare un mondo che non esiste, vagolano sulla fantasia diventando, più che partiti, delle sette filosofiche di azione, la politica ne è rovinata in quanto si fa torneo su innaturali ed irraggiungibili mete, non cura ragionevole e paterna del bene comune. La politica risente troppo il male filosofico del tempo che sta nel credere di poter forgiare il mondo rosso, verde, nero, quando invece il mondo è già fatto e gli uomini sono quelli che sono e le norme base non tocca darle agli uomini, ma le dona universali e chiare la stessa natura, che, non seguita, inderogabilmente si vendica. È, se si vuole, il male del relativismo e contingentismo della verità portato in politica. Urge rieducare il senso e la coscienza politica: se non si giunge ad un equilibrio di concezione e di pratica in questa, ogni assetto sociale ne sarà sempre convulsionato, dato che ogni mala politica, di tutti i decantati assetti sociali, farà sempre una pedina del proprio gioco. Non abbiamo forse noi assistito a costituzioni politiche, che si son vantate d’essere custodi della sovranità — nientemeno — dei nullatenenti (proletari) e che son diventate delle grandi autocrazie personali, odiose e tiranniche nei momenti in cui il dispotismo serviva ai loro fini? La storia è maestra ed insegna qualcosa di più: fintantoché perdura un adulterato concetto della politica, i movimenti sociali sono strumenti prestigiosi per dar la scalata a quella da parte dei più ‘furbi e degli avventurieri. I poveri crederanno che tutto sia per amor del popolo. È chiaro: equilibrio sociale presuppone equilibrio in campo politico e qui l’equilibrio vero non è propriamente una risultante sufficientemente statica nel gioco dei partiti. Lavoro di Sisifo. Noi siamo malati di anemia nelle chiare idee fondamentali, colla stessa facilità con cui un beone non capisce più che il vino gli fa male. Supponiamo che un sindaco dica di voler fare il socialista o piuttosto il liberale. Tutto ciò non ha senso. Faccia così: amministri bene, rimpingui le casse, diminuisca le tasse, curi i servizi, le comodità, l’estetica, l’ordine: cioè sia onesto e devoto del suo dovere; in questo il mondo rosso o verde non c’entra. Queste — dicevamo — sono delle premesse all’equilibrio in campo sociale. Qui l’equilibrio impone proporzioni ragionevoli tra i profitti del capitale e dell’operaio, delle alte classi e delle classi medie. Vedremo a suo tempo che pensare dei « mezzi » per raggiungere quelle proporzioni. Tuttavia qui si pronuncia una parola importante, capitale, che ne richiama un’altra compromettente: capitalismo.  Su queste due parole polarizzano le sudate fatiche quanti cercano, in buona o mala fede, di assestare il mondo. Osserviamole semplicemente. Capitale, dice solo « riserva ». Tutti sanno che le riserve sono necessarie come nelle case occorrono i recipienti d’acqua, tanto più per la gigantesca macchina degli scambi e dell’industria creata dal mondo moderno. Il capitale non lo si può ragionevolmente abolire. Quello che può urtare è che il capitale sia in poche mani. Nessuno vorrà negare che accentramenti esagerati siano guai. Occorre limitare, arginare, decongestionare, regolarizzare il flusso. I modi possono essere diversi, né per il momento li discutiamo. Ma modo certamente errato sarebbe quello di radunare tutto nelle mani di uno (proletariato, soviet, stato). Infatti ciò libererebbe gli occhi invidiosi dalla visione di altri uomini ricchi (ma sarebbe poi vero? che dice l’esperienza?…) nulla più. L’unico capitalista, poiché lo stato ecc. sì concreta in uomini, diventerebbe uno o pochi uomini beneficiari della grande ricchezza perderebbe per l’enorme accentramento di elasticità e per l’impersonalità il senso della responsabilità. Viceversa, poiché il danaro è forza, ingigantirebbe il potere, l’autorità e le persone investite di essa; sicché gli uomini si troverebbero ad esser governati da gente che può ciò che vuole, anche ai loro danni, ben più che in regime capitalistico. Questo l’Europa l’ha sperimentato. Parrebbe che chi mira alla abolizione del capitale privato, miri alla libertà più completa: in realtà i difensori di questo punto di vista s’empiono la bocca di libertà. Stanno freschi! È il totalitarismo puro, con l’aggravante che, allorché marxisticamente si crede solo all’uomo-materia, la libertà neppure esiste a qualsiasi effetto, poiché è per definizione, dote dell’anima spirituale. Si comprende perfettamente perché chi agogna molto a comandare, a sadicamente comandare, prediliga un regime comunista o socialista. Ha ragione: in quel regime chi comanda ha in mano molto di più, dispone della somma di beni e di diritti,, che in regimi umani sono invece divisi fra i molti. È l’obesità della dominazione; e per chi ha appetito val la pena di aspirarvi. Il povero popolo crederà… – C’è di peggio. Quando l’unico capitalista (stato o l’equivalente) ha In mano l’enorme somma di disponibilità, che ne fa? Comincerà a sentire — poiché si concreta in uomini — le passioni degli uomini. Ai quali, allorché hanno il ventre pieno, rimane d’ascendere pei campi della gloria (imperialismi, internazionali, messianismi). Ecco allora che cosa farà l’unico capitalista: preparerà la guerra. Questa sarà l’ultimo amaro ed ineluttabile frutto di teorie che pur sono sbandierate sotto l’insegna della pace. L’analisi di alcuni regimi europei dell’ultimo ventennio Conferma quella che non è davvero una insinuazione maligna. – Ma continuiamo ad osservare quello che nel frattempo fa, mentre la guerra non è ancor giunta, l’unico capitalista. Può tutto e del suo potere si serve, legifera, applica, condanna. Può troppo e se ne serve troppo: è ineluttabile non sia diverso; se gli verrà qualche scrupolo per rimanenze ancestrali di coscienza, dirà a se stesso: ma lo faccio per il « Domani », per il sol dell’avvenire; questi sacrifici si « debbono » chiedere per il desiderato sogno. Ma ecco: servirsi troppo del potere è restringere troppo la libertà dei singoli, i quali cominciano nel dormiveglia a star male e a darne qualche segno. Sotto sotto cova l’insoddisfazione. Questa non va, deve essere inibita e prevenuta: ecco la polizia, ecco lo Stato fortezza, trabocchetto, ghigliottina. È un ciclo storico necessario, quando se ne son poste le premesse.

Che pensare del capitalismo? – Male, senza dubbio. Esso è una malattia che va curata con rimedi che non siano peggiori del male. Qui interessa vedere il perché profondo del male. – Il capitalismo — esagerazione del capitale e del suo impero — non sta tanto nel fatto che alcuni pochi uomini o gruppi abbiano, pel moltiplicato denaro, una esagerata, capacità d’acquisto, quanto in due indebite conseguenze della stessa capacità. Eccole. Anzitutto si cumula colla capacità di acquisto, una capacità assolutamente e giuridicamente eterogenea ad essa: la capacità di dominio politico, sociale, culturale, ideologico, che non è affatto contenuta nel danaro e per la quale l’impero del danaro diviene impero d’ogni cosa, persino della verità. L’azione sana legislativa dell’avvenire dovrà tendere a separare, quanto è onesto, queste due capacità. – Secondariamente, posto che oggi il danaro è di per sé fruttifero e lo si considera in funzione della sua moltiplicabilità, la sua abbondanza in poche mani, tende irresistibilmente a procurare onde diventar fruttifero. Di qui l’indefinito stimolo alla crescita commerciale ed industriale, che non vien più regolata e contenuta dalla naturale esigenza dei prodotti e dal progressivo miglioramento. S’arriva così alla formula il commercio per il commercio, l’industria per l’industria. La formula è una voragine, poiché si traduce così: l’uomo per l’industria, non l’industria per l’uomo, il consumo, anzi lo spreco per la produzione, e non la produzione per il consumo. S’arriva ad una corsa pazza di crear stimoli e bisogni per soddisfarli, di distruggere per creare: è l’artificio è il ciclo dell’anti-natura, è l’ingorgo, è il gran male del dell’economia con tutti i suoi drastici riflessi sociali. È il capovolgimento delle cose, puro e semplice.

… equilibrio sul piano intellettuale

Questo, per quanto non sembri, è in realtà il più difficile a raggiungere. Una nazione ha il suo intelletto — praticamente — nella mentalità pubblica, nell’opinione, nella tradizione. L’equilibrio poi sta nel fatto per cui non trovano campo di cultura le idee strane, eccessive, sovversive, strampalate, epilettiche, ossessive, false. L’equilibrio intellettuale domanda una composta serenità, una consapevolezza morale, una coscienza in tutti i mezzi di cui si forgia l’opinione pubblica: letteratura corrente, stampa, radio, spettacolo. Lo si misura dal quanto c’è di adesione alla verità obbiettiva, che è una. È per questo che il relativismo sulla verità ne è il peggiore nemico. Se per equilibrio intellettuale noi intendiamo poi quello che investe tutta la vita spirituale di una nazione, l’orizzonte si allarga, investe la civiltà, il progresso. Domanderà allora che lo sviluppo della religione, della morale, della cultura, del gusto vero, dell’arte, sia proporzionato e non inferiore a quello della tecnica e del benessere materiale; che la cura dell’educazione spirituale sia non inferiore, anzi sia maggior dell’educazione fisica; che le preoccupazioni si raccolgano non meno dei plausi sulla onestà, sul valore, sulla virtù. La rottura di questo equilibrio favorisce l’uomo-bestia con tutti i suoi istinti, che sono egoistici, sensuali e finalmente sanguinosi.

L’ordine internazionale dipende dalla maturità interna

Il secondo elemento riassuntivo d’un ordine interno negli stati è per il Papa la « maturità ». Maturità e sviluppo completo, equilibrio raggiunto, capacità ed efficienza

relativamente perfetta; proporzione stabile. Nell’uomo e, per riflesso, nella comunità umana, il concetto di maturità aggiunge : sodezza di giudizio, ponderazione di movimenti, riflessivo sfruttamento di esperienza, continuità di stile, coerenza; non compatisce i soprusi della sensibilità improvvisa, dell’estro puerile, dell’imprudenza, dell’irrazionalità; non ama le avventure. Teniamoci lontani dalle utopie. Nessun stato raggiungerà mai la maturità perfetta: il dramma della libertà comprometterà sempre l’ultimo fastigio di questo beato equilibrio. Però esistono delle realizzazioni umane possibili, alle quali si deve pur aspirare.

Maturità materiale

È lo sviluppo economico raggiunto attraverso tutti i suoi elementi, sì da garantire benessere a tutte le classi e possibilità di ulteriore sviluppo; sì da permettere nell’economia e nella pace l’ascesa dei beni spirituali. Segni di questa maturità materiale sono: l’elevato tenore di vita delle classi umili, in rapporto, s’intende, alle possibilità della nazione; la sostenuta capacità di acquisto, la relativa facilità per tutti del risparmio e della piccola proprietà, la stabilità degli elementi dell’economia, la pacifica coesistenza delle classi. Una maturità materiale non può per sé conoscere il pauperismo, come non dovrebbe conoscere le esagerazioni del capitalismo: essa infatti suppone ordinato ed assestato — quanto è possibile alle cose umane — il circolo della ricchezza. – L’idea di maturità materiale è relativa alla fisionomia, alla capacità ed alle risorse di una nazione; sicché sarebbe chimerico concepirla identica per tutti. Le diversità sono inevitabili: non tutti hanno le stesse risorse del suolo, lo stesso ingegno e la stessa tradizione culturale per sfruttarle, lo stesso temperamento e la stessa posizione geografica. Quanto più crescerà la comprensione tra i popoli — quale solo lo spirito della carità cristiana è in grado di promuovere — si imporrà un retto ordinamento giuridico, cadranno barriere economiche, i popoli meno abbienti potranno trarre dal flusso e riflusso nelle correnti della vita quanto non ottengono dalla loro povera terra. Giacché è proprio e solo su quelle basi che potrà risollevarsi la tremenda questione delle materie prime. È però utopia pensare ad una maturità materiale senza maturità là dove essa si genera e si assicura.

Maturità sociale

Sta nelle istituzioni e nella coscienza pubblica. Il termine istituzioni, non indica solamente gli organi (p. es. tribunali, parlamento, corporazione, sindacato, costituzione, federazione), ma altresì le leggi, la tradizione, il costume pubblico. La loro maturità sta nella raggiunta adeguazione ai bisogni a riprova compiuta, nella forza intrinseca di mantenersi pure da inquinamenti personalistici troppo spinti, e nella ragionevole stabilità. Istituzioni aperte in permanenza agli esperimenti e all’avventura, continuamente create dalle riforme, tarlate dal broglio, dal peculato, dal protezionismo e dai personalismi non sono indice di maturità d’uno stato. Nei fanciulli si possono scusare mutazioni continue e imprese contro il buon senso, nelle persone mature no. La logica sospinge a vedere che la maturità alle istituzioni sale da una maturità di coscienza pubblica. Che porta dunque con sé questa magica parola? La coscienza pubblica si attua attraverso il sentimento, il giudizio e l’atteggiamento comune. È matura socialmente parlando, quando ha buona formazione politica, cioè quando né concepisce, né sostiene la politica, né se ne fa zimbello, quasi fosse un gioco; la sente bensì come cosa seria, obbiettiva, lontana dalle filosofiche chimere di rifare il mondo è ancorata alle pratiche esigenze del bene comune. È coscienza matura quando ha la capacità di reagire ai sogni, agli ideali fallaci, alle esperienze rischiose, alle avventure romantiche, ai chiacchieroni, agli ipnotizzatori, quando è capace di opporre il suo infrangibile disprezzo ai conati dissolvitori della letteratura e di qualunque propaganda; quando ha il robusto senso critico delle opinioni e delle novità. La coscienza pubblica è allora il più grande stabilizzatore della politica, ne è la valvola, la remora, il controllo impersonale e terribile; là sono pure le avventure del pensiero. – I filosofi tentano spesso— ne hanno le più gravi tentazioni — di imporre la loro dittatura. Un popolo maturo non patisce neppur allora di suggestioni collettive. In fondo la maturità lo fa aderire all’umanità, al buon senso umano, obbiettivo, universale e costante. Ha la risorsa in sé per salvarsi dalle parziali deviazioni che possono incoglierlo e rasserenarsi in un composto equilibrio. Se la raggiunge, possono presentarsi in coreografie fascinose le idee esagerate, malsane, ammalate, frenetiche, pazze: sa reagire. – La maturità di coscienza pubblica è il più gran dono che possa avere un popolo. La storia ci dice che essa è stata talvolta relativamente raggiunta. Non è dunque follia sperar! Ma donde questa maturità? Qui c’è un problema rovente, che porta a scavare nelle anime. Finiamola coll’ipocrisia di scindere, per rispetto umano, l’ordine sociale dalla pienezza e — perché no? — dalla ascesi cristiana. Ma questo si vedrà meglio.

4. – Il diritto di natura

Il Papa afferma. Ma non afferma soltanto e gratuitamente: ha un continuo richiamo ad elementi giustificativi e probatori antecedenti, evidenti e valevoli per tutti. Egli appella a « norme fondamentali dell’ordine » a « fondamenti genuini di ogni vita sociale ». Dove sono tali fondamenti? È facile accorgersene: nella fisionomia naturale degli elementi che esamina, negli elementi « realizzanti fondati e sanzionati dalla volontà del Creatore » della natura quindi « non meramente forzati e fittizi » ma spontanei e congeniti alle cose. Ciò equivale a dire che il Papa appella per giustificare i suoi asserti, alle linee che sono espresse dalla natura stessa dell’uomo, delle cose e dei loro rapporti. Sa però il Papa che questa natura esprime pensiero e volontà di un altro, Dio; sicché le istituzioni e le norme promananti dalla natura, hanno origine divina, tanto che può parlare de « la convinzione dell’origine vera, divina e spirituale della vita sociale ». Per questa via logica ed obbiettiva, giungendo al vertice, Egli contempla: « Dio prima causa ed ultimo fondamento come Creatore della prima società coniugale, della società famigliare, della società dei popoli e delle nazioni ».

Il Papa si appella

Fonte delle affermazioni è dunque la natura plasmata da Dio, e le norme che all’analisi essa rivela; è, cioè, il diritto di natura. Qui cadono due osservazioni. L’una è sul punto di vista logico: il Papa sa che gli uomini vogliono essere convinti, che per essere convinti vogliono vedere le affermazioni provate dai fatti o dai princìpi più semplici, più visibili, più indiscutibili. Egli non dice: è così perché ve lo dico io »; accoglie invece il postulato della logica e dona la dimostrazione in princìpi semplici, anzi nel più semplice, più sincero e più visibile di tutti, la natura. Non ipostatizza come fanno i più, né  abbaglia con la magniloquenza fulminante e categorica, ragiona e per questo fa ragionare. – L’altra osservazione verte sulla sostanza: il Papa, appellandosi Lui stesso, richiama gli uomini alla esistenza di un diritto naturale, come a fondamento necessario e inderogabile di ogni convivenza umana. Abbiamo quindi un poderoso richiamo alla logica ed alla natura. Poiché questo richiamo è in tutto il messaggio, sia per l’esempio di coerenza razionale tanto raro, sia per l’affermazione sull’esistenza del diritto di natura, noi ci troviamo certamente dinanzi ad un elemento fondamentale che va accuratamente studiato.

Solo al diritto naturale?

Il richiamo non è fatto solamente al diritto naturale. Qua e là si hanno accenni al soprannaturale ed alla dottrina rivelata, specialmente ove si parla del lavoro e dello stato cristianamente ordinato. Tuttavia si può vedere come la trattazione sia prevalentemente ancorata al diritto di natura. Non senza ragione. Il Papa infatti si è rivolto non solo ai Cristiani, ma al mondo intero: era logico si ponesse su una base che è comune a Cristiani e ai non Cristiani, perché possibile sempre ed ovunque alla onesta metodica e volenterosa indagine di qualsiasi uomo che sappia rettamente ragionare.

Che è il diritto di natura?

È ovvio ci interessi ora sapere che cosa sia questo diritto di natura, anche per renderci conto del come esso sia sostegno legittimo di molte affermazioni del Messaggio papale. È il complesso delle norme o leggi che vengono manifestate agli uomini dalla stessa natura, la quale, creatura di Dio, non altro manifesta se non la volontà di Dio, capace di porre l’obbligazione morale di coscienza. Gli occhi s’appuntano sulla natura e tutti trovano facile comprendere che la voce della natura è ben grave, è anteriore alla nostra scarsa conoscenza, al nostro relativo accorgimento, fa parte di quell’ordine mirabile nel cui concetto sta pure la inviolabile vendetta per i violatori dei suoi assoluti dettami. Colla natura non si scherza, come non si scherza col mare, col fulmine e colle potenti arcane serve della sua fecondità. Ma è poi vero che esiste il diritto di natura? Non è esso una chimera? Per rispondere è necessaria un’indagine preliminare.

Come sorge il diritto di natura

Ciò equivale a chiedere come faccia poi la natura (uomo ed ogni suo elemento, cose e loro rapporti) a manifestare certe norme. Ecco. Ogni elemento naturale (p. es. la mia mano), ha delle linee strutturali. Più si studia e più queste diventano chiare. – Queste linee indicano un orientamento, anzi una finalità. Guardando le linee della mia mano io capisco che essa debba servire ragionevolmente. Orientamento e finalità tracciano una linea direttiva e questa è la natura. Chiunque per timore, per neghittosità o per pregiudizio volesse fermarsi a questo punto, dovrebbe pur riconoscere che andare contro questa norma sarebbe irragionevole, disordinato e, soprattutto, dannoso. – Ma è falso fermarsi qui. Come la natura indicativa espressa dagli elementi naturali individui e comparati diventa legge? Chi ha steso quelle linee strutturali, quegli orientamenti, quelle chiare finalità? L’autore della natura, Dio. Esse dunque rivelano veramente non una qualunque norma, ma la norma proposta dall’Intelligenza e imposta dalla Volontà del Creatore. Sicché avendosene generata l’obbligazione morale di coscienza, si ha la legge nel pieno senso della parola.

Il diritto di natura esiste

Ora è possibile rispondere alla domanda già prima formulata. Il diritto di natura esiste tanto quanto esiste la natura, le sue linee indicatrici, tanto quanto esiste Dio autore della natura. Queste linee le ritrovo non solo nella mano o negli occhi, ma nei sentimenti, negli istinti, nelle comparazioni fra essi, nelle facoltà spirituali e fisiche, nei rapporti naturali tra ogni individuo umano e tutti gli altri esseri, ossia in tutta la creazione, accessibile alla mia percezione ed alla mia intelligenza. Che, in un certo senso, « natura » è precisamente « l’opera del creato ». Così la natura ci parla di Dio, che è la prima legge limitativa dell’arbitrio umano; ci parla della dipendenza di ogni cosa da Lui; mostra in Lui il tutore ed il vindice degli impegni liberamente assunti, dei contratti, donando in tal modo le sole basi ad ogni altro diritto conseguente. Che varrebbe infatti il contratto se non esistesse l’anteriore legge di fedeltà? Che varrebbe la legge umana se l’autorità, sua sorgente, non fosse avallata da princìpi antecedenti e cioè dal diritto di natura?

Conseguenze

Le conseguenze dell’affermazione sull’esistenza del diritto naturale sono talmente gravi e severe da farci comprendere perché abbiano acquistato un carattere ben ostico presso i difensori della sfrenata indipendenza da Dio. Eccone alcune:

1) Il diritto di natura è immutabile quanto la natura.

Acquista pertanto un carattere assoluto. È la condanna del relativismo nei supremi princìpi della convivenza umana. È un richiamo alla fissità delle leggi-base sotto ogni civiltà ed ogni clima. Ecco perché le grandi leggi dell’economia non si creano e non si deformano d’arbitrio; ecco perché il trattamento dell’ « uomo » ha canoni ai quali è necessario sottostare.

2) Il diritto di natura è anteriore all’individuo, alla famiglia ed alla società; ecco perché è ugualmente ed inderogabilmente obbligatorio per tutte queste istituzioni, che da esso traggono fisionomia e potere.

3) Il diritto naturale è legge divina: per questo è la base di qualsivoglia programma sociale e politico, il quale si fa immorale per il solo fatto di calpestarlo. I programmi non possono essere compilati sotto la pura pressione di ragioni contingenti, né col criterio di far concorrenza alle mode più fortunate e più demagogiche, né coll’intento di presentare offe all’appetito della folla male informata e minacciosa, ma anzitutto chiamando ad ispiratrice la legge e la giustizia di Dio! Salvi i princìpi, salva con tale coraggio la legge e mai contro di essi, si potrà fare della « tattica » ispirata alle contingenze.

4) Il diritto naturale costituisce un « precedente » per cui è definito l’uomo, nonché l’interpretazione fondamentale delle questioni che lo riguardano. Spieghiamoci: l’uomo è, per esso, quello che è; io non lo posso più creare rosso o verde, più risibile di quel che non sia, o più scemo e maneggevole di quel che l’abbian pensato certi statisti, figurina da salotto, soldatino di piombo, arena di spiaggia. Il grande « precedente » che ci attende come una nemesi, qualora lo dimenticassimo, ci impedisce di creare nel regime dei popoli, ci obbliga invece a umilmente cercare, a diligentemente e magari originalmente interpretare quanto sta nella obbiettiva realtà delle cose. È il limite alla fantasia estrosa, sola risorsa degli intelligenti ignoranti e dei dotti imbroglioni. I fatti della storia danzeranno a loro piacimento, magari nello stile della danza macabra dei nostri giorni, ma finiranno coll’essere sempre implacabilmente discriminati da questo « diritto » che è nella fisionomia della natura e che costituisce il « peso » orientatore delle stesse grandi leggi morali dell’umanità. Appellare ad esso è ancorarsi a qualcosa di obbiettivo, di granitico, di provato, di estremamente concreto. – Le questioni umane bisogna staccarle dagli orientamenti impressi dalle mire egoistiche, dalle concezioni astratte, dalle stranezze degli uomini anormali. – Il diritto di natura è parte del buon senso umano, sicché un uomo è di buon senso quando ne segue le norme. Ora il buon senso è il taciuto articolo di tutte le leggi, il fondamentale comma di tutte le costituzioni. Tutti, quando non son presi da eclissi di intelligenza, se lo augurano, e soprattutto, lo augurano agli altri. Ritornare a questa cognizione, tradurla nella semplicità più accogliente, dedurla alle conseguenze, rifarci pazientemente una coscienza, è apostolato dei nostri giorni.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (2)