IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (26)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (26)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 413a.

Concilio di Trento, sess. XIV, Sul Sacramento della Penitenza, cap. 1:

« Se c’era in tutti i rigenerati tal gratitudine a Dio, da custodire costantemente la giustificazione ricevuta nel Battesimo per suo benefizio e favore, non c’era bisogno d’istituire proprio dopo il Battesimo un altro Sacramento per la remissione de’ peccati. Ma, poiché Dio, ricco di compassione (Agli Efes., II, 4), conobbe la nostra fragilità (Salm. CII, 14), ecco ha disposto un rimedio vitale anche per coloro, che poi sarebbero caduti nella schiavitù del peccato e in poter del demonio, vale a dire, il Sacramento della Penitenza, col quale ai peccatori, dopo il Battesimo, è applicato il beneficio della morte di Cristo. A dir vero, la penitenza fu in ogni tempo necessaria per ottener grazia e giustificazione a tutti quanti gli uomini, che si fossero macchiati di qualche colpa mortale, anche a coloro, che avesser chiesto d’essere purificati col sacramento del Battesimo; sicché, rinnegata e corretta la loro cattiveria, detestassero coll’odio del peccato e con pio dolore dell’anima la grave offesa di Dio. Perciò il Profeta disse: Convertitevi e fate penitenza di tutte le vostre iniquità e non vi sarà di rovina la vostra iniquità (Ezech., XVIII, 30). Anche disse il Signore: Se non farete penitenza, tutti del pari perirete (Luc., XIII, 3). E Pietro, il capo degli Apostoli, raccomandando ai peccatori ammessi al Battesimo la penitenza, diceva: Fate penitenza, poi ciascuno di voi sia battezzato (Atti, II, 38). Orbene la penitenza nè era un Sacramento prima della venuta di Cristo, nè è, dopo la sua venuta, per nessuno prima del Battesimo. Ma il Signore istituì il Sacramento della Penitenza, specialmente nell’occasione che, risuscitato da morte, alitò su’ suoi discepoli, dichiarando: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saran rimessi; a chi li riterrete, saran ritenuti (Gio., XX, 22). E con quest’atto così augusto e con tali parole così chiare l’unanime consenso de’ Padri sempre intese che fu comunicata agli Apostoli e ai lor successori legittimi la facoltà di rimettere e ritenere i peccati per riconciliare i fedeli caduti dopo il Battesimo. Con buona ragione la Chiesa cattolica colpì e condannò d’eresia i Novaziani, che negavan ostinatamente una volta la facoltà di rimettere. Perciò questo sacro Sinodo, approvando e accogliendo tal verissimo significato di quelle parole del Signore, condanna le false interpretazioni di coloro che stortamente piegan quelle parole a indicare la facoltà di predicar la parola di Dio e di bandire il Vangelo di Cristo, contro l’istituzione di questo Sacramento.

« Chi afferma che, nella Chiesa Cattolica, la Penitenza non è vero e proprio Sacramento, istituito da Cristo nostro Signore per riconciliare con Dio i fedeli, ogni volta che, dopo il Battesimo, cadono in peccato, sia scomunicato ».

DOMANDA 414a.

Concilio di Trento : Vedi D . 413.

Pio X, Decr. Lamentabili, 3 luglio 1907, prop. 47 tra le condannate :

« Le parole del Signore: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi li riterrete saranno ritenuti (Gio., XX, 22 s.) non si riferiscono affatto al Sacramento della Penitenza, checché sia piaciuto d’affermare ai Padri del Concilio di Trento ».

(Acta Apostolicæ Sedis XL, 473).

S. Giovanni Crisostomo, De Sacerdotio, III, 5:

« Difatti essi, che abitano la terra e v i dimorano, sono incaricati di dispensar le cose del cielo e hanno ricevuto un potere che Dio non diede nè agli angeli nè agii arcangeli. Difatti a questi non fu detto: Qualunque cosa legherete sulla terra sarà legata anche in cielo e qualunque cosa scioglierete in terra sarà sciolta anche in cielo. A dir vero, i principi della terra hanno pure il potere di legare, ma soltanto i corpi; mentre quest’altro vincolo tocca l’anima e trascende i cieli; e tutto quel che i sacerdoti fanno quaggiù, Iddio ratifica lassù e il Signore stesso conferma la sentenza de’ servi suoi. Poiché, che altro diede loro se non giurisdizione delle cose celesti? Difatti disse: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti. Qual potere più grande di questo? Il Padre al Figlio diede ogni potere giudiziario e io osservo che tutto fu trasmesso ad essi dal Figlio ».

(P. G., 48, 643).

DOMANDA 417a.

Concilio di Trento, Sess. XIV, Sul Sacramento della Penitenza, cap. 3:

« Inoltre il santo Sinodo insegna che la forma del Sacramento della Penitenza, nella quale principalmente ne consiste la validità, è compresa in quelle parole del ministro: Io ti assolvo ecc. A esse, in verità, s’aggiungono, secondo consuetudine della santa Chiesa, alcune preghiere e lodevolmente; però non fanno parte affatto dell’essenza della forma nè son necessarie per l’amministrazione del Sacramento stesso.. Poi sono quasi materia del Sacramento stesso gli atti del penitente, cioè Contrizione, Confessione e Sodisfazione. Essi son detti parti della Penitenza, in quanto, secondo l’istituzione di Dio, si richiedono nel penitente per l’integrità del Sacramento e per la piena e perfetta remissione dei peccati. Orbene è sostanza ed effetto di questo Sacramento, per quel che concerne la sua virtù ed efficacia, la riconciliazione con Dio, che talvolta, negli uomini pii e che ricevono con divozione questo Sacramento, s’accompagna colla pace e serenità di coscienza e forte commozione del cuore. Il Santo Sinodo, insegnando così circa le parti e l’effetto del Sacramento, condanna insieme la sentenza di quelli, che sostengono, come parti della Penitenza il terrore della coscienza e la fede.

« Can. 4. Sia scomunicato chi nega che per la remissione integra e perfetta dei peccati si richiedono tre atti nel penitente, quasi materia del sacramento della Penitenza, cioè Contrizione, Confessione e Sodisfazione, che son dette le tre parti della Penitenza; oppure afferma che le parti della Penitenza sono solamente due, vale a dire i terrori eccitati nella coscienza, in seguito al riconoscimento della colpa, e la fede concepita dal Vangelo, oppure l’assoluzione, in forza della quale uno creda che per merito di Cristo gli sieno stati rimessi i peccati ».

DOMANDA 422a.

Concilio di Trento, Sess. XIV, cap. 3: Vedi D. 417.

« Can. 7. Sia scomunicato chi afferma che nel Sacramento della Penitenza non è necessario di diritto divino per la remissione de’ peccati il confessare tutti e singoli i peccati mortali, di cui si abbia memoria dopo la dovuta e diligente ricerca; anche quelli occulti e che si oppongono ai due ultimi precetti del decalogo, e le circostanze che mutano la specie del peccato; ma che tal confessione è semplicemente utile per istruzione e consolazione del penitente e che anticamente si osservava soltanto per imporre una penitenza canonica: oppure afferma che chi si dà pena di confessare tutti i peccati non vuol lasciar nulla alla divina misericordia da perdonare; o, finalmente, che non è lecito confessare peccati veniali ».

DOMANDA 428a

Concilio di Trento, Sess. XIV, Del Sacramento della Penitenza, cap. 4:

« La contrizione, cui spetta il primo posto tra gli atti ricordati del penitente, è un dolore dell’anima e la detestazione del peccato commesso col proposito di non peccare più. Ora questo atto di contrizione fu sempre necessario per impetrare il perdono de’ peccati e, nell’uomo caduto in colpa dopo il Battesimo, prepara finalmente alla remissione dei peccati purché sia congiunto colla fiducia nella divina misericordia e col desiderio di eseguire tutto quello che esige per ricevere degnamente questo Sacramento. Dunque il santo Sinodo dichiara che questa contrizione comprende non soltanto il proposito di non peccare più e d’incominciare una vita nuova, ma include pure l’odio di quella trascorsa, secondo il detto: Respingete da voi tutte le vostre iniquità, colle quali avete prevaricato, e fatevi un cuor nuovo e un’anima nuova (Ez., XVIII, 31). E davvero chi medita quelle grida de’ santi: Contro te solo ho peccato e fatto male nel tuo cospetto (Salm., L, 6); Fui pieno d’affanno nel mio gemere, ogni notte inonderò di lacrime il mio giaciglio (Salm. VI, 7); Ricorderò dinanzi a te la mia vita, in amarezza di spirito (Isa., XXXVIII, 15) e altre siffatte, capisce subito che sono sgorgate da un odio potente contro la vita trascorsa e da una profonda detestazione de’ peccati. Inoltre insegna che, sebbene questa Contrizione talvolta sia carità perfetta e riconcilii l’uomo con Dio prima di ricever questo Sacramento, la riconciliazione stessa però non deve attribuirsi alla Contrizione senza il desiderio del Sacramento, che è in essa implicito. Ancora dichiara che la Contrizione imperfetta, chiamata Attrizione, poiché comunemente si concepisce o per la riflessione sulla bruttezza del peccato, o pel timore dell’inferno e de’ castighi, qualora escluda la volontà di peccare e vi sia la speranza del perdono, non soltanto non fa ipocrita e più colpevole l’uomo, ma è invece un dono di Dio e un impulso dello Spirito Santo, che in verità non ancora abita nell’anima, ma soltanto la eccita e col quale, il penitente si prepara l’adito alla giustificazione. Essa non può per se stessa, senza il sacramento della Penitenza, condurre a giustificazione il peccatore; però lo dispone a ottener la grazia divina nel sacramento della Penitenza. Difatti, salutarmente scossi da questo timore, i Niniviti, grazie alla predicazione di Giona piena di spaventi, fecero una penitenza e ottennero da Dio misericordia. (Cfr. Giona, III). Perciò son calunniati a torto gli scrittori cattolici, da certuni, come se avessero insegnato che il sacramento della Penitenza conferisca la grazia senza la buona disposizione di chi lo riceve — ciò che non fu mai insegnato nè pensato dalla Chiesa cattolica — ed insegnano falsamente che la Contrizione è estorta e imposta, non libera e volontaria ».

S. Gregorio Magno, In Evangelia, II, 34, 15:

« Noi non possiamo far degna penitenza, se non ne conosciamo anche il modo. In realtà, far penitenza è un piangere le colpe commesse e un non commetter ciò ch’è da piangere. Infatti chi le deplora con l’intenzione di commetterne delle altre ancora, o finge o ignora di far penitenza ».

(P. L., 76, 1256).

S. Agostino, Sermo, 351, 12:

« Non basta cambiar in meglio i costumi e romperla colle cattive azioni, se non si sodisfa a Dio per quelle già commesse col dolore del pentimento, col gemito dell’umiltà, col sacrificio d’un cuore contrito, col sussidio di elemosine ».

(P. L . , 29, 1549).

DOMANDA 436a.

Concilio di Trento : Vedi D. 428.

DOMANDA 438a.

Concilio di Trento: Vedi D. 428.

S. Pier Crisologo, Sermo 94:

« Bada, uomo, di non disperare; ti è rimasto di che sodisfare a un creditore pietosissimo. Vuoi il perdono? Ama. La carità coprirà un cumulo di colpe (I di Piet., IV, 8). Qual peggior colpa del rinnegamento? Eppure Pietro soltanto coll’amore fu in grado di distruggerla, coll’approvazione del Signore, là dove dice: Pietro, mi ami? (Gio., XXI, 15). Tra tutti i precetti di Dio ha il primo posto l’amore ».

(P. L., 52, 466).

DOMANDA 439a.

Concilio di Trento: Vedi D. 428.

Leone X, Bolla Exurge Domine, 15 giug. 1520, contro gli errori di Lutero, prop. 6 tra le condannate:

« La contrizione, che si acquista coll’esame, col confronto e colla detestazione de’ peccati, mediante la quale uno ricorda la sua vita in amarezza di spirito, misurando la gravità, il numero, la bruttezza de’ peccati, la perdita dell’eterna felicità e l’eterna dannazione meritata, questa contrizione fa diventar ipocrita anzi più colpevole ».

Pio VI, Costit. Auctorem fìdei, 28 ag. 1794, prop. 23, 25, 36 tra le condannate, contro gli errori del Sinodo di Pistoia:

« 23. La dottrina del Sinodo, concernente il duplice amore della passione dominante e della carità dominante, quando dichiara che l’uomo, senza la grazia, è in dominio del peccato e che il medesimo, in quello stato, contamina e guasta tutti i suoi atti per il generale influsso della passione dominante; in  quanto vuol insinuare che nell’uomo, finché si trova, nella schiavitù o stato di colpa, privo della grazia per esser liberato da tal servitù e rifatto figlio di Dio, la passione ha tale dominio da contaminare e guastare in sè stessi, per questo suo generale influsso, tutti gli atti di lui, ovvero da esser peccati tutte le opere, per qualunque motivo sien fatte, compiute prima della giustificazione, quasicchè in tutti i suoi atti il peccatore sia schiavo della passione dominante, è dottrina falsa, dannosa, che conduce all’errore già condannato dal Concilio di Trento come eretico e di nuovo condannato in Baio, all’art. 40.

« 25. La dottrina, la quale sostiene genericamente che il timore delle pene unicamente non può esser detto un male, se almeno riesce a frenar la mano; come se il timor dell’inferno, che è, secondo fede, castigo del peccato, non sia per se stesso buono e utile, qual dono soprannaturale e impulso proveniente da Dio, che prepara all’amore della giustificazione: è falsa, temeraria, dannosa, ingiuriosa alla munificenza divina, altre volte condannata, contraria alla dottrina del Concilio di Trento e insieme al pensiero comune de’ Padri: che occorre, conforme all’ordine solito di prepararsi alla giustificazione, che prima entri il timore per aprir la strada all’amore: un timor medicina, un amore salute….

«36. La dottrina del Sinodo, premesso che : «l’uomo potrà esser giudicato degno d’esser ammesso a partecipare il sangue di Cristo, ne’ Sacramenti, quando s’avranno segni non dubbii che l’amor di Dio domina nel suo cuore » soggiunge che « le conversioni fittizie, per via di attrizione, non soglion esser né efficaci, nè durevoli » sicché « deve il pastor d’anime esigere segni non dubbii della carità dominante, prima di ammettere ai Sacramenti i suoi penitenti »; e questi segni, come segue a insegnare « potrà il pastore desumerli da una stabile astensione dal peccato e dal fervore nelle buone opere »; e di più considera questo « fervore di carità » come una disposizione che « deve andar innanzi all’assoluzione »; tal dottrina, intesa nel senso che, per ammettere l’uomo ai Sacramenti e in particolare i penitenti al beneficio dell’assoluzione « si richiede assolutamente » e generalmente non soltanto la contrizione imperfetta, talora indicata col nome di attrizione, anche se congiunta coll’amore per il quale l’uomo comincia ad amar Dio come sorgente d’ogni giustificazione, nè soltanto la contrizione informata dalla carità, ma pure « il fervore della carità dominante » e per di più messo a prova di lunga esperienza col fervore nelle buone opere — è falsa, temeraria, atta a turbare la tranquillità delle anime, contraria alla prassi sicura e approvata nella Chiesa, dannosa all’efficacia del Sacramento e ingiuriosa ».

(Bullarii Romani continuatìo, 1. e, 2711, 2714).

S. Gregorio da Nissa, In Cantica Canticorum, homilia I:

« Difatti chi vuol che tutti sien salvi e vengano alla conoscenza della verità (la Tim., II, 4) indica qui un mezzo perfettissimo e felice di salvezza, dico quello della carità. Perché a taluni salvezza è fatta anche per via di timore, quando ci stacchiamo dal male, considerando le pene dell’inferno. Ci sono anche di quelli che, per la speranza del premio riservato a chi avrà piamente vissuto, si diportano con rettitudine e conforme a virtù, praticando il bene non per amore, ma per l’aspettativa della ricompensa ».

(P. G., 44, 766).

DOMANDA 442a.

S. Giovanni Crisostomo, De Lazaro, IV, 4:

« Se siamo stati fin qui negligenti, uccidiamo subito la malizia che è trascesa ad azione, colla confessione, col pianto, coll’accusa de’ proprii peccati. Niente infatti è così nemico del peccato quanto l’accusa e la condanna del peccato, congiunta col pentimento e col pianto. Hai condannato il tuo peccato? Ti sei liberato da un fardello. Chi dice così? Lo stesso giudice, Dio: Di’ tu per primo i tuoi peccati, se vuoi esser giustificato (Isa., XLIII, 26). Perché dunque — rispondi — hai vergogna e arrossisci di confessare i tuoi peccati? Forse dunque li dici a un uomo perché ti svergogni? Forse li confessi a un compagno perché li sciorini al pubblico? No, ma scopri le piaghe a chi è Signore e ha cura di te ed è pietoso ed è medico…. Se non dichiarerai l’enormità del debito, non sperimenterai la sublimità della grazia. Dice: non ti costringo a presentarti in mezzo a un teatro nè a raccogliere molti testimonii; di’ a me soltanto e a tu per tu la tua colpa, affinché guarisca la piaga e ti liberi dal dolore ».

Il medesimo, Homilia: Quod frequenter sit conveniendum, 2:

« Dunque, perchè hai peccato, non ti vergognare di accostarti: anzi accostati appunto perciò. Nessuno infatti dice: Poiché ho una piaga, non chiamo il medico, nè voglio medicine; anzi appunto per questo si devono chiamare i medici e bisogna ricorrere all’efficacia delle medicine. Sappiamo perdonare anche noi, perchè proprio noi siam soggetti ad altre mancanze ».

(P. G., 63, 463).

DOMANDA 445a.

Concilio di Trento, Sess. XIV, Sul Sacramento della Penitenza, cap. 5:

« Secondo l’istituzione, già spiegata, del Sacramento, la Chiesa sempre ha pensato che dal Signore fu anche istituita integra la confessione de’ peccati e ch’essa è necessaria di diritto divino per tutti i peccatori dopo il Battesimo; perchè il Signor nostro Gesù Cristo (Gio., XX; Matt. XVIII) prima di salire al cielo, lasciò per suoi vicarii i sacerdoti, come direttori e giudici ai quali accusare ogni colpa mortale, in cui cascano i fedeli di Cristo; affinché essi, usando della potestà delle chiavi, pronuncino sentenza di ritenere o perdonare le colpe. È chiaro infatti che i sacerdoti non avrebbero mai potuto esercitare questa funzione di giudici, senza cognizione di causa, nè potuto nemmeno osservare l’equità nell’imporre la penitenza, se i penitenti avessero essi stessi messo in chiaro i loro peccati soltanto genericamente e non piuttosto nella specie e a uno a uno. Di qui si desume che i penitenti debbono manifestare nella confessione tutti i peccati mortali, di cui, dopo una diligente indagine, hanno ricordo, per quanto siano occulti e commessi, per es., unicamente contro gli ultimi due precetti del decalogo: questi anzi, talora, fanno più grave piaga nell’anima e son più pericolosi di quelli che si commettono in pubblico. Quanto a’ veniali, che non ci privano della grazia di Dio e in cui si cade più frequentemente, possono senza colpa esser taciuti ed espiati con molti altri mezzi, benché se ne può far la confessione saggiamente e salutarmente e senza alcuna sorta di presunzione, come dimostra la pratica di uomini pii. Ma poiché tutti i peccati mortali, anche di semplice pensiero, rendono gli uomini figli dell’ira a Dio nemici, sì deve pure chieder perdono di essi a Dio, con aperta e compunta confessione. E così, se i fedeli di Cristo stanno attenti a confessare tutte le colpe, che ricorrono alla memoria, evidentemente le manifestano per essere perdonati in tutto dalla divina misericordia. Chi fa al contrario e, consapevole, ne tace alcuni, non presenta nulla a Dio, per mezzo del sacerdote, da esser perdonato, Difatti se l’ammalato arrossisce di scoprire al medico la sua piaga, non può la medicina guarire quel che ignora. Inoltre si conclude che si devono confessare anche le circostanze, che mutano la specie del peccato; senza di esse nè il penitente fa integra la confessione de’ peccati, né questi vengono a cognizione del giudice, il quale non potrà nè giudicar rettamente la gravità delle colpe, nè imporre congrua penitenza al penitente. È dunque irragionevole insegnare che tali circostanze furono escogitate da persone oziose; o che un’unica circostanza si sia in obbligo di confessare, poniamo, d’aver peccato contro il fratello. Di più è un’empietà sostenere che una confessione, qual è comandata con questo metodo, sia impossibile oppure una carneficina delle coscienze. Si sa bene che la Chiesa dal penitente nient’altro esige tranne che dopo essersi ben esaminato e aver esplorato ogni piega e nascondiglio della sua coscienza, confessi que’ peccati, co’ quali ricorda d’aver offeso mortalmente il suo Signore e Dio: quanto poi agli altri peccati, che dopo esame diligente non tornano alla mente, s’intendono compresi, in generale, nella medesima confessione; per essi noi diciamo, con sentimento di fede, insieme al Profeta: Signore, liberami dalle colpe nascoste (Salm. XVIII). A dir vero, la stessa riluttanza di confessarsi così e la vergogna di rivelar le colpe potrebbe sembrar molesta, se non fosse alleggerita da tanti vantaggi e consolazioni, che con ogni certezza consegue, per mezzo dell’assoluzione, chi s’accosta degnamente a questo Sacramento.

« E ora del costume di confessarsi, in segreto, ad un solo sacerdote. Cristo non proibì che, per castigar sè stesso e umiliarsi, uno possa confessare in pubblico le sue colpe, o a esempio altrui, o ad edificazione della Chiesa contristata: ma esso non è stato comandato per precetto divino; nè verrebbe saggiamente comandato da una qualsiasi legge umana che si dovessero manifestare in pubblica confessione le colpe, specialmente quelle segrete. Ora, siccome dai più santi e antichi Padri, con cordiale e unanime consenso, fu sempre raccomandata la confessione sacramentale segreta, venuta in uso fin da principio e tuttora usata nella santa Chiesa, risulta chiaramente vana la calunnia di coloro, i quali non si vergognano d’insegnare ch’essa è contraria al comando di Dio e ch’è un’invenzione umana e che precisamente fu introdotta dai Padri riuniti nel Concilio di Laterano. Difatti col Concilio di Laterano la Chiesa non determinò che i fedeli di Cristo si confessassero: essa sapeva bene che quest’è obbligo e istituzione di diritto divino; determinò invece che il precetto di confessarsi fosse adempiuto almeno una volta l’anno da tutti e da ciascuno, dopo raggiunti gli anni della discrezione; di qui, con immenso frutto per le anime de’ fedeli, quell’usanza salutare universalmente osservata nella Chiesa, di confessarsi nel sacro e più accettevole tempo della quaresima. Quest’usanza il sacro Sinodo l’approva di tutto cuore e l’accoglie perchè conforme a pietà e degna d’essere conservata ».

Il medesimo, ib., can. 7:

« Sia scomunicato chi afferma che nel Sacramento della Penitenza non è necessario di diritto divino, per la remissione dei peccati, confessar tutte e singole le colpe mortali, di cui s’ha ricordo in seguito a doverosa e accurata riflessione, anche quelle occulte e che offendono gli ultimi due precetti del Decalogo e le circostanze, che mutano la specie del peccato: che invece tal confessione è puramente utile per istruzione e consolazione del penitente e che fu anticamente osservata soltanto per imporre una sodisfazione canonica: oppure afferma che chi si studia di confessare i peccati non vuol lasciar nulla da perdonare alla divina misericordia, o finalmente che non è lecito confessare i peccati veniali ».

S. Gregorio Magno, In Evangelia, II, 26, 4-6:

« (I discepoli) hanno il primato del giudizio dall’alto, sicché a taluni ritengono, ad altri perdonano i peccati, facendo le veci di Dio. Era conveniente che fossero da Dio tanto inalzati coloro, che per amor di Dio avevan consentito di esser tanto abbassati. Ecco, quelli che temono il rigoroso giudizio di Dio diventano i giudici delle anime e quelli, che

temevano d’andar dannati, o condannano o liberano gli altri. Proprio di essi ora tengono il posto nella Chiesa i vescovi, i quali, giunti a questo gradino di giurisdizione, rivestono l’autorità di legare e di sciogliere. Grande onore! ma grande anche il peso di quest’onore…. Bisogna conoscere assai bene le cause e allora solo ha da esercitarsi la potestà di sciogliere e di legare. Convien considerare quale colpa abbia preceduto, o qual pentimento è seguito alla colpa, affinché sieno assolti dalla sentenza del pastore quelli, che Dio onnipotente visita colla grazia della compunzione ».

(P. L., 76, 199 s.).

S. Cipriano, De lapsis, 28-29:

« Finalmente, quanto son più fermi per la fede e migliori pel timore coloro, che, pur non contaminati di sacrilegio, se però n’ebbero anche solo il pensiero, lo confessino con dolore e semplicità al sacerdote di Dio, aprano la loro coscienza, depongano il peso dell’anima loro, chiedano salutare rimedio anche per le piccole piaghe, pensando che sta scritto: con Dio non si scherza! (Ai Gal., VI, 7). Non si può schernire e raggirar Dio nè ingannarlo con qualsiasi astuzia…. Ognuno, dunque, vi prego, o fratelli, confessi le sue mancanze, mentre si è ancor vivi, mentre è ancor concesso di confessarsi, mentre la sodisfazione e il perdono impartiti dal sacerdote sono ancor accetti dinanzi a Dio ».

(P. L., 4, 503).

S. Girolamo, In Matthæum, III, al XVI, 19:

« Leggiamo nel Levitico (XIII, 2 ss.) de’ lebbrosi, che si comanda loro di presentarsi a’ sacerdoti e, se hanno avuto la lebbra, devono dal sacerdote esser fatti immondi: non perché i sacerdoti sian destinati a fare lebbrosi e immondi, ma perchè abbian conoscenza di lebbroso e non lebbroso e possano distinguere il mondo dall’immondo. Dunque, come lì un sacerdote fa mondo o immondo un lebbroso, così anche qui un sacerdote o un vescovo lega o scioglie non quelli, che sono innocenti o peccatori; ma, conforme all’ufficio suo, dopo aver udito le varie colpe, sa chi legare e chi sciogliere ».

(P. L., 26, 122).

DOMANDA 447a.

Alessandro VII, Decret. del 24 sett. 1665, prop. 11 tra le condannate:

« Non siamo in obbligo di manifestare nella seguente confessione i peccati tralasciati o dimenticati in una confessione per imminente pericolo di vita o per altra causa ».

(Du Plessis, III, 11, 321).

DOMANDA 452a.

Concilio di Trento, sess. XIV, Sul sacramento della Penitenza, cap. 8-9:

« Eccoci alla Sodisfazione. Di tutte le parti della Penitenza essa, che fu sempre raccomandata da’ nostri Padri al popolo cristiano, massimamente poi al nostro tempo, è combattuta, sotto colore di gran pietà, da gente che sembra aver la pietà, ma ne ha rinnegato il valore. Orbene il santo Sinodo dichiara che è del tutto falso e contrario alla parola di Dio che dal Signore non siano mai rimessi peccati, senza che ne sia pure condonata tutta la pena: nelle sacre Scritture si incontrano evidenti e notissimi esempii, da’ quali, oltre che dalla tradizione divina, è chiarissimamente refutato questo errore. In verità anche il criterio della giustizia divina sembra esigere che diversamente siano accolti da lui in grazia quelli, che peccarono prima del Battesimo per ignoranza, da quelli che, una volta liberati dalla schiavitù del peccato e del demonio, e ricevuto il dono dello Spirito Santo, non temettero di violare il tempio di Dio (I ai Cor. III, 17) e di contristare lo Spirito Santo (Agli Efes., IV, 30) consapevolmente. E s’addice proprio alla divina clemenza che noi non siamo così assolti da’ peccati senza una sodisfazione, affinchè, abusando dell’occasione e pigliando alla leggiera i peccati, non cadiamo da ingiusti oltraggiatori dello Spirito Santo (Agli Ebr., X, 29), in peccati più gravi, accumulandoci ira pel giorno dell’ira (Ai Rom., II, 5). Senza dubbio queste opere di sodisfazione penale distolgono energicamente dal peccato e servono come di freno; esse rendono i penitenti più cauti e vigilanti per l’avvenire; portano un rimedio pure ai rimasugli del peccato e cogli atti delle virtù opposte distruggono gli abiti cattivi contratti col viver male. E davvero nessuna via più sicura fu giudicata nella Chiesa di Dio, per allontanare il castigo imminente di Dio quanto la pratica frequente tra gli uomini di queste opere di penitenza unite a vero dolore dell’anima. Inoltre, mentre si soffre col render sodisfazione, ci conformiamo a Cristo Gesù, il quale sodisfece per i nostri peccati e dal quale proviene tutto il nostro bene (II ai Cor., III, 5): e ci conquistiamo anche la più sicura caparra, perché se soffriamo insieme a Lui, insieme a Lui saremo anche glorificati (Ai Rom., VIII, 17). D’altra parte questa nostra sodisfazione, data per i nostri peccati, non è nostra in guisa che non sia per mezzo di Cristo Gesù: difatti se niente possiamo noi, per quel che riguarda le nostre forze, possiamo tutto con la cooperazione di Lui, che ci conforta (Ai Philipp., IV, 13); così l’uomo non ha di che vantarsi, bensì ogni nostra gloria è in Cristo, nel quale viviamo e meritiamo e diamo sodisfazione; quelli che, operano degni frutti di penitenza, ne derivano da lui la forza, e da lui sono offerti que’ frutti al Padre e, per suo riguardo, dal Padre accettati. I sacerdoti dunque del Signore devono, a seconda che lo spirito e la prudenza suggerisce, ingiungere salutari e opportune riparazioni, a norma delle colpe e della possibilità de’ penitenti, per non rendersi partecipi dell’altrui peccato, col chiudere un occhio sulla colpa e trattare con troppa indulgenza i penitenti, imponendo per gravissimi peccati certe pene leggerissime. Tengano presente che la sodisfazione da imporre non serva soltanto di presidio alla nuova vita e di sostegno alla fragilità, ma pure di punizione e di mortificazione de’ peccati commessi; perché le chiavi furono concedute ai sacerdoti non soltanto per liberare, ma anche per vincolare, come credono e insegnano gli antichi Padri; non per questo però considerarono il sacramento della Penitenza come un tribunale d’ira e di vendetta; e, non fu mai pensiero di nessun cattolico, che per tali nostre riparazioni si offuschi e si diminuisca la virtù meritoria e sodisfattoria del Signor Nostro Gesù Cristo; e i Riformatori novelli, perché così non vogliono capirla, insegnano che la miglior penitenza è la vita nuova per eliminare così ogni valore e pratica della sodisfazione.

« Inoltre insegna che la divina misericordia è larghissima; tanto da metterci in grado di sodisfare al Padre, per merito di Gesù Cristo, non soltanto colle penitenze, spontaneamente praticate da noi per castigarci, oppure imposte a giudizio del sacerdote in proporzione della colpa, ma pure (oh, prova suprema d’amore!) colle sventure temporali da Dio inflitte e da noi pazientemente sopportate ».

DOMANDA 457a.

Concilio IV di Laterano (1215), cap. 21, Sull’obbligo di confessarsi e sul segreto confessionale, e sull’obbligo di comunicarsi almeno alla Pasqua:

« Si guardi bene dal tradire il penitente con parole, con segni o con altro mezzo qualsiasi e per qualsiasi riguardo; ma, se avesse bisogno di un consiglio migliore, lo domandi con cautela, escluso ogni accenno a persona; perchè chi presumerà di manifestare un peccato rivelatogli nel tribunale di confessione, non soltanto sia sospeso dal ministero sacerdotale, ma di più rinchiuso in un monastero di clausura a far perpetua penitenza ».

(Mansi, XXII, 1007).

DOMANDA 461a.

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justifìcatione, cap. 14:

« Chi, per il peccato, è decaduto dalla grazia della giùstificazione, si può ancora riabilitare se, coll’aiuto di Dio, procurerà, di riacquistare la grazia perduta, mediante il Sacramento della Penitenza. Questo mezzo di giustificazione difatti è una riabilitazione dei caduti, che i santi Padri chiamarono giustamente la seconda tavola dopo il naufragio della grazia perduta. Difatti per quelli, che cadono in peccato dopo il Battesimo, Gesù Cristo istituì il sacramento della Penitenza allorché disse: Ricevete lo Spirito Santo : a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi li riterrete saranno ritenuti (Gio., XX, 23 – 23). Perciò bisogna insegnare che, dopo la caduta, la riparazione dell’uomo cristiano è ben differente da quella battesimale; e che vi si comprende non soltanto la cessazione dei peccati e la loro detestazione, cioè la contrizione e l’umiliazione del cuore, ma in più la sacramentale confessione di essi, almeno col desiderio di farla a suo tempo, e l’assoluzione del sacerdote; inoltre la sodisfazione con digiuni, elemosine, preghiere ed altre pie pratiche di pietà, non proprio in compenso della pena eterna, rimessa insieme colla colpa dal Sacramento o dal desiderio del Sacramento, ma della pena temporale. Questa infatti, secondo l’insegnamento della sacra Scrittura, non sempre, come nel Battesimo, è condonata totalmente a coloro che, ingrati alla grazia da Dio ricevuta, hanno contristato lo Spirito Santo e non si sono peritati di violare il tempio di Dio. Sta scritto di questa Penitenza: Ricordati donde sei caduto e fa penitenza e ritorna alle opere di prima (Apoc. II, 5). E altrove: Difatti la tristezza che è secondo Dio produce una penitenza stabile per la salvezza (II ai Cor., VII, 10). E ancora: Fate penitenza e producete degni frutti di penitenza (Matt. III, 2, 8).

« Can. 30. Sia scomunicato chi afferma che, dopo ricevuta la grazia della giustificazione, viene rimessa la colpa a qualunque peccatore pentito e cancellato il reato di pena eterna in tal misura che non rimanga nessuna responsabilità di scontar pena temporale, o a questo mondo o in avvenire nel Purgatorio, prima di poter entrare nel regno de’ Cieli ».

Il medesimo, sess. XIV, Dottrina del sacramento della Penitenza: Vedi D . 452 e:

« Can. 12. Sia scomunicato chi afferma che tutta quanta la pena vien rimessa insieme colla colpa e che la sodisfazione del penitente non è diversa dalla fede, colla quale apprende che Cristo ha sodisfatto per lui ».

DOMANDA 462a.

Concilio di Trento, sess. XXV, Decreto sulle Indulgenze:

« Poiché la facoltà di elargire indulgenze fu conferita da Cristo alla Chiesa ed essa fin dai primi tempi ne ha usato come potere divinamente conferitogli, il santo Sinodo insegna e prescrive che dev’essere conservato e approvato dall’autorità de’ sacri Concilii, l’uso delle indulgenze; e scomunica chi sostiene che esse siano inutili, o nega alla Chiesa la facoltà di concederle. Però desidera che nel concederle sia usata, conforme all’antica e saggia pratica della Chiesa, moderazione, affinchè non si snervi per troppa facilità, la disciplina ecclesiastica. E, volendo emendare e correggere gli abusi in proposito, col pretesto de’ quali gli eretici strapazzano questo nome d’indulgenze, col decreto presente stabilisce in linea generale che devon esser tolte tutte le questue di cattivo genere per conseguirle, perché di lì ebbero origine gli abusi tra il popolo cristiano. Non è agevole poi vietar in particolare gli altri abusi che son derivati da superstizione, da ignoranza, da irriverenza o da altra qualsiasi causa, che tante sono le degenerazioni da paese a paese, da provincia a provincia: per ciò incarica i vescovi di raccogliere insieme, ciascuno con ogni cura, siffatti abusi della propria Chiesa e di riferirne al prossimo Sinodo provinciale, affinché, udito il parere anche degli altri vescovi, siano denunciati al Romano Pontefice: così coll’autorità e prudenza, che a lui compete, sia ordinato ciò che giova alla Chiesa universale affinché sia dispensato a tutti i fedeli piamente, santamente e incorrottamente il tesoro delle sacre Indulgenze ».

Clemente VI, Costit. Unigenitus Dei Filius, 25 genn, 1343:

« L’Unigenito Figlio di Dio…. fatto da Dio sapienza, giustizia, santificazione, redenzione per noi (I ai Cor., I, 30); operata l’eterna redenzione, entrò una volta per sempre nel Santuario non per merito del sangue di capro o di vitello, ma in virtù del proprio sangue. (Agli Ebr., IX, 12). Difatti ci ha redento col suo stesso prezioso sangue di agnello intatto e immacolato, non a prezzo d’oro o d’argento corruttibile (I di Piet., I, 18 ss.); e sappiam bene che, sull’altar della croce, vittima innocente, versò egli non una stilla di sangue (che, grazie all’unione col Verbo, bastava per redimere tutto il genere umano) ma senza risparmio tutto un fiume, per così dire, sicché dalla pianta de’ piedi fino al vertice de’ capelli parte sana (Isa., I, 6) in lui non si poteva trovare. Il Padre pietoso volle tesoreggiare pe’ suoi figli tutto quanto il tesoro immenso che conquistò così per la Chiesa Cattolica, affinchè la misericordia di tanto sacrificio non si rendesse inutile, vana o superflua: perciò rimase per gli uomini un tesoro infinito, giovandosi del quale si è fatti partecipi dell’amicizia di Dio ». « E questo tesoro…. l’affidò da dispensare per salvezza de’ fedeli al beato Pietro, custòde del paradiso, e a’ suoi successori e vicarii sulla terra, per motivi degni e ragionevoli, ora in remissione parziale della pena temporale dovuta per i peccati, ora totale; coll’applicazione sia generale sia speciale; conforme credessero conveniente dinanzi a Dio, ai veramente petiti e confessati. « Inoltre si ammette che accrescono il cumulo di questo tesoro, come un’aggiunta, i meriti della beata Madre di Dio e di tutti gli eletti dal primo all’ultimo santo: nè c’è da temere che si esauriscano nè, in qualsiasi misura, scemino, sia per gli infiniti meriti di Cristo, come s’è già detto, sia perchè col crescere della santità, per l’applicazione di essi a un maggior numero di fedeli, cresce pure il cumulo de’ meriti stessi ».

(Extr. comm., V, 9, 2).

Leone X, Bolla Exsurge Domine, 15 giug. 1520, propp.

17-22 tra le condannate, contro gli errori di Martin Lutero:

« 17. I tesori della Chiesa, donde il Papa elargisce le Indulgenze, non sono i meriti di Cristo e de’ Santi.

« 18. Le indulgenze son pie frodi ai fedeli e rilassamento delle buone opere; e si annoverano tra le cose lecite, non tra le giovevoli.

« 19. Le indulgenze non giovano, a chi davvero le ottiene, per rimettere la pena de’ peccati attuali dovuta alla giustizia divina.

« 20. Chi crede che le Indulgenze siano salutari e utili al profitto dello spirito, è un illuso.

« 21. Le indulgenze son necessarie soltanto per le colpe pubbliche e si concedono propriamente soltanto agl’induriti e intolleranti.

« 22. Le Indulgenze non sono necessarie nè utili a sei sorta di persone: cioè ai morti o moribondi, agl’infermi, a chi è legittimamente impedito, a chi non ha commesso colpa, a chi ha commesso colpe, ma non pubbliche, a chi opera il meglio ».

(Bullarium Romanum, 1. c., 751).

Pio VI, Costit. Auctorem fidei, 28 ag. 1794, prop. 40 tra le condannate, contro gli errori del Sinodo di Pistoia:

« La tesi, che l’Indulgenza, secondo la sua precisa definizione, sia nient’altro che remissione d’una parte della penitenza, qual’era stabilita da’ canoni per il peccatore, nel senso che l’Indulgenza, oltre alla semplice remissione della penitenza canonica, non giovi anche a rimetter la pena temporale dovuta per i peccati attuali alla giustizia divina, è falsa, temeraria, ingiuriosa ai meriti di Cristo, testé condannata nell’art. 19 di Lutero ».

(Bullarii Romani continuatio, 1. c. 2715).

Pio XI, Bolla Infinita Dei misericordia, 29 mag. 1924,

Proclamazione del Giubileo universale dell’Anno Santo 1925:

« …. Difatti chiunque per sentimento di penitenza adempie, durante questo gran Giubileo, le prescrizioni della Sede Apostolica, come rimedia e ricupera interamente il tesoro di meriti e doni, che col peccato avea perduto, così si sottrae alla schiavitù durissima di Satana per riprender la libertà di cui Cristo ci fece liberi; finalmente si proscioglie affatto da ogni pena, che per le colpe e i vizi suoi avrebbe dovuto scontare, grazie ai meriti abbondantissimi di Gesù Cristo, della B. Vergine Maria e de’ Santi ».

(Acta Apostolicæ Sedis, XVI, 210).

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.